The sapphire phoenix.

di CrystalStewart
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Profumi impressi nella mente. ***
Capitolo 2: *** Droghe positive. ***
Capitolo 3: *** Normalità. ***
Capitolo 4: *** Imprinting. ***



Capitolo 1
*** Profumi impressi nella mente. ***


When I saw you I fell in love,
and you smiled because you knew.
- William Shakespeare.

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Jacob’s pov.
Erano già passati nove mesi da quando me ne andai dalla Push, da casa mia.
Non potevo sopportare il dolore di non essere stato la sua scelta, di vedere al suo fianco qualcuno che non ero io, ma ancora di più non potevo rimanere sapendo ciò che portava.
Aspettava un figlio.
Sì, aspettava un figlio, se così si può definire, da quel lurido verme succhia sangue.
Mi faceva vomitare la sola idea che dentro di lei albergasse un qualcosa che in poco meno di un mese, l’avrebbe divorata come un felino fa con la sua preda. Non riuscivo neanche a pensarlo, eppure era così. Sapevo che voleva sposarlo, ma mai mi sarei aspettato una cosa tanto veloce quanto vicina. Ricordo ancora quando mi arrivò tra le mani quella busta; aprendola trovai quel foglio plastificato con su scritto le parole fatidiche.

 

Isabella Marie Swan
And
Edward Anthony Masen in Cullen
Together with their families
Request the honor of your presence
At the celebration of their marriage
 
Saturday. The thirteen of August
Two thousand and eleven
Five o’clock in the evening
 
420 Woodcroft Ave
Forks, WA

 
Non potevo crederci, non volevo crederci.
Uscii di casa, lasciando cadere a terra l’invito con rabbia. Non pensavo alla pioggia che mi cadeva addosso lenta e leggera come una piuma toccante terra; non pensavo a quanto sarebbe stato preoccupato mio padre non vedendomi tornare; non pensavo a quanto avrei ferito le persone che tenevano a me, ma me ne andai. Me ne volli andare, dovevo andare.
Il mio corpo galoppava, il mio animo urlava, il mio cuore crollava.
Tutto ciò che ero, tutto ciò che faceva parte di me stava gridando ciò che non riusciva a dire la voce. Mi trasformai velocemente, mentre correvo verso la foresta. Decisi di non avvertire nessuno, nemmeno Sam. Ero sicuro che avrebbe capito, che avrebbe compreso le ragioni di una fuga così spontanea, così necessaria.
Appena imboccato il sentiero meno visibile dall’esterno della foresta, non esitai ad aumentare ancora la velocità. In pochi secondi, fui al confine tra lo stato di Washington e quello nazionale, con il Canada. Andavo più veloce della luce, non c’era niente che potesse fermarmi o almeno questo era ciò che pensavo, ma naturalmente dopo un giorno intero passato a correre senza sosta, la stanchezza si fece sentire. Vidi pochi metri più avanti, sul lato della strada, un cartello con su scritto “Michipicoten River”.
Mai sentito, ma in fondo chissà dove diavolo ero arrivato.
Continuai a percorrere il bosco, fino a quando le case affacciate su di esso non cominciarono a essere più numerose. Ero riuscito a calmarmi almeno un po’, perciò decisi che era meglio continuare sotto forma umana.
Tornai quello che tutti conoscono, il buon vecchio Jake giusto per non dettare sospetti e mi addentrai verso la strada. Passai di fianco a due case, le quali avevano il bucato steso fuori; giustamente, mi coprii rubando un paio di box grigi, dei jeans, una maglietta nera a maniche corte e una giacchetta anche questa grigia e un paio di sneakers. Tirai su cerniera e cappuccio, cercando di trovare un bar o perlomeno qualcosa che ci assomigliasse.
Finito di percorrere appena due viali, vidi un enorme insegna con su scritto “Bar Jackson”. Il nome non era dei migliori, ma in fondo non importava. Ciò che contava era avvertire mio padre, almeno che sapesse come stavo. Soltanto questo.
Proseguii ancora e vidi che davanti l’entrata c’era una larga scelta di ragazze e donne a malapena vestite che cercavano quattrini. Optai per il retro, sperando che ce ne fosse uno. Svoltai l’angolo di fronte all’entrata principale e vidi che, appena finito l’edificio, vi era un vicolo stretto di fianco.
Guardai da entrambi i lati la strada, cercando almeno di non causare incidenti che avrebbero potuto mettere in discussione il fatto che fossi umano, visto l’ammaccatura che avrei potuto procurare alle macchine. Salii sul marciapiede e entrai nel vicolo.
Vi erano cassonetti dell’immondizia con ai loro piedi uno spropositato numero di cassette e sacchi che probabilmente erano stati lasciati lì visto il gran numero già presente all’interno dei contenitori. Poco più in là, vi erano dei ragazzini che imbrattavano il muro con delle puzzolenti e colorate bombolette. L’odore, o meglio la puzza, era a dir poco insopportabile. Per uno come me, dotato di un fiuto così delicato, è decisamente impossibile non sentire una cosa simile.
Vidi uno dei due imbrattatori far cenno con il capo all’amico che li stavo fissando; per non aver problemi voltai lo sguardo, abbassando il capo e coprendomi ancora di più con il cappuccio.
Arrivato davanti alla porta, tirai la manopola ed entrai.
Era un bar abbastanza monotono, se non per la tavolata di giovani che, totalmente ubriachi, si stavano divertendo con un paio di partite a carte scommettendo soldi. Mi diressi verso il barista che, vedendomi, smise di flirtare con una vecchia fumatrice e si avvicinò.
«Posso aiutarti ragazzo?»
«Si.» risposi secco io, togliendomi il cappuccio.
«Dimmi.»
«Avrei bisogno di fare una telefonata, ma ti dico già che non ho soldi con me.»
«E come pensi di pagarmi?» disse il vecchio, trattenendo una risata.
«Non lo so. Hai qualcosa di rotto che va riparato a mano?»
«No.» si voltò, prendendo i bicchieri e cominciando ad asciugarli uno per uno«Almeno non qui.»
«Cosa vorresti dire?»
«La mia moto. Non va più come una volta, ma non voglio venderla. Saresti capace di accomodarla?»
Almeno un colpo di fortuna era arrivato.
«Non c’è problema; dov’è il gioiellino?»
«A casa, in garage con tutti gli attrezzi che servono.»
«Ma io ho bisogno di chiamare ora. Se ti fidi, domani mattina ci vediamo qui davanti.»
«E chi mi assicura che non mi freghi?» disse acido il vecchio.
«So che non mi conosci, che non sono di queste parti ma devo chiamare mio padre. Sono scappato e voglio che sappia che almeno sto bene.»
Percepii una sensazione di dubbi attraverso i suoi occhi: sapevo benissimo che non si fidava, ma in fondo tentare era l’unica speranza che mi era rimasta.
«D’accordo. Alle sei, sul retro. Se non ci sei, puoi credermi che ti troverò ovunque tu sia e te la farò pagare.» I suoi occhi si erano addolciti, quasi come quelli di un nonno.
«Grazie.» dissi io, prendendo la cornetta del telefono, mentre digitavo il numero di casa.
Uno squillo. Due. Tre. Quattro.
«Casa Black.»
«Papà, sono io.»
Sentii un sospiro provenire dall’altra parte. Era preoccupato.
«Jacob, dove diavolo ti trovi.»
«Non lo so nemmeno io. In una certa Michipicoten River, ma non preoccuparti. Sto bene e ho dove dormire.» Mentii, dovetti.
«Va bene, ma stai attento. Nessuno deve sapere.»
«Lo so papà, lo so. Ciao.»
«Ti voglio bene.» ammise il mio vecchio.
«Anche io. Ciao.» Chiusi la chiamata.
Rimisi il telefono al suo posto nell’angolo e, ringraziando il barista e ricordando la mia parola, me ne andai uscendo sempre dal retro. Sentii un tonfo da dietro di me e, girandomi un po’, intravidi uno dei ragazzi cadere a terra per il troppo alcool ingerito. Povero scemo. Scossi la testa e me ne andai da là. Appena fuori mi voltai dopo aver chiuso la porta e, tirato su il cappuccio, mi incamminai verso la strada.
E ora dove sarei andato, dovevo trovare un posto dove poter dormire. Un ponte sarebbe stata la cosa migliore, almeno non mi sarei bagnato. Immerso in questi futili ma essenziali questioni, sentii dei passi avvicinarsi a me.
Non badai troppo a questo dettaglio, o almeno fino a quando, passandomi accanto, questa persona non lasciò dietro di se un dolce odore di salsedine che mi fece rabbrividire. Alzai lo sguardo di un paio di centimetri e vidi dei capelli biondi spuntare fuori dal cappuccio di una ragazza che si dirigeva verso la porta del retro. Una paio di sneakers, dei jeans scuri stretti e un felpone sicuramente rubato al fratello. 
Non capii perché, ma dovetti fermarmi e studiare ogni suo singolo movimento: l’anca che velocemente si muoveva da destra a sinistra, e viceversa, le mani che uscirono dalle grandi tasche della felpa e aprirono l’enorme portone di ferro, spalancandolo. Vidi la ragazza entrarvi dentro e sparire nel silenzio che seguì lo sbattere forte e rimbombante dell’entrata sul retro.
Cercai di tornare alla realtà, saltando giù da quella nuvoletta ma non ci volle molto prima di tornare a girarmi, per osservare ancora quell’ingresso sperando di rivedere quella ragazza uscire.
Non sapevo chi fosse, non l’avevo nemmeno vista in volto ma quel profumo di salsedine era rimasto impresso nella mia memoria. Era quasi come se fosse qualcosa di cui non volevo assolutamente sbarazzarmi.

 
Sophie’s pov.
Di nuovo.
Misi giù il telefono, mi diressi in camera e indossai le scarpe, infilando la prima felpa di Silver che trovai davanti ai miei occhi. Corsi velocemente fuori di casa, prendendo al volo dal tavolino dell’ingresso le chiavi e sbattendo rumorosamente la porta dell’appartamento. Non chiamai l’ascensore, ci avrebbe messo un’eternità; optai per le scale. Le scesi il più velocemente possibile, senza cercare di cadere come un sacco di patate giù per gli ultimi scalini. Salutai Paul, il portiere, e uscii a passo spedito sperando di arrivare prima io al bar che gli sbirri o ancora peggio un’ambulanza. Imboccai la strada per il parco, scavalcai il muretto non troppo alto e sbucai dalla parte opposta della via che si affacciava davanti il bar.
 Lasciai passare quelle due o tre macchine e, accertatami che la strada fosse libera, attraversai veloce. La pioggia si era fatta ancora più fitta, ancora più insistente.
Era già la quinta volta in due settimane che Silver non riusciva a reggersi in piedi, per colpa di questi suoi nuovi “amici”. Non ne potevo più.
In fondo, io ero quella piccola, io ero quella che doveva essere difesa, io ero la sorellina che doveva rientrare presto e non combinare casini in giro. Ma non era così. No.
Silver era un ragazzo di quasi 26 anni, sfortunatamente nato e registrato come mio fratello, che non riusciva nemmeno a controllare la quantità di alcool ingerita.  Mi sembra logico pensare che ormai non era più un semplice vizio, ma una vera e propria dipendenza. Era una droga per lui, era un alcolizzato.
Lo avevo portato al centro, alla comunità in fondo alla strada per vedere se almeno loro riuscivano a far qualcosa, ma è stato proprio lì che lui ha conosciuto questi “amici”. Maledetta me.
Maledetta quella volta che gli ho consigliato di andarci, maledetta quella volta in cui ho voluto trasferirmi con lui, maledetta quella volta che la mia coscienza mi impose di seguirlo. Cavolo.
Imboccai il vicolo che avevo davanti a me, sapendo che ormai potevo aspettarmi di tutto là dentro.
Silver steso a terra senza sensi, Silver ubriaco duro che non riusciva più a ragionare e che si stava facendo chissà quale delle tante sgualdrine che c’erano davanti il locale. Non lo sapevo e non volevo nemmeno pensarci.
Sentii dei passi provenire davanti a me e alzando lo sguardo vidi un ragazzo uscire dalla porta sul retro, e andarsene. La sua corporatura piuttosto massiccia era coperta con una maglietta nera e sopra una giacca a cerniera, grigia. L’enorme felpa che aveva addosso gli era larga, come le tasche dove infilò le mani e il cappuccio che gli copriva praticamente tutta la testa.
Non diedi peso a lui, e tornai al mio unico pensiero: Silver.
Passai di fianco al ragazzo misterioso; sapeva di pino, di muschio bagnato. Era forte come odore, ma era piacevole come profumo. Cercai di non distrarmi e aumentai il passo, arrivando davanti la porta ed entrando dentro il locale.
Lo sapevo: vidi Silver a terra, appoggiato al bancone mentre Jack cercava di tirarlo su, perlomeno per farlo sedere su uno sgabello.
Non appena il portone si chiuse con un rumoroso schianto, Jack alzò lo sguardo e sorrise.
«Sophie, grazie a Dio! Portalo a casa; non si regge nemmeno in piedi.»
«Silver ma che diavolo combini?» chiesi, spontaneamente sapendo che non mi avrebbe risposto e se mai lo avrebbe fatto, lo avrebbe fato inconsciamente.
«Stavo solo bevendo un paio di birre con i miei amici.»
«Dai, andiamo a casa.»
«Volete che vi porto io con la macchina? Almeno non prendete l’acqua.» chiese Jack, tornando dietro il banco.
«Non ti preoccupare, rimani qui e chiudi che è meglio. A Silver ci penso io.» dissi sorridendo, mentre mi caricavo quell’ammasso di muscoli addosso, appoggiandolo a me con un braccio.
«Si, ci pensa lei a me Jack. E poi, appena siamo a casa, me la faccio per bene.»
Vidi il vecchio del bar scoppiare a ridere, cosa che io ricambiai con una semplice risatina soffusa e sospirata, mentre mi dirigevo fuori dal locale.
Facemmo la solita strada, mentre Silver non la finiva di farmi complimenti e dirmi che ci aspettava un intensa notte di divertimento. Appena arrivati in casa, gli tolsi il giubbotto e gli aprii la camicia.
«Ehi, piccola. Non corri un po’ troppo?» disse lui ammiccante, mentre mi prendeva e mi attirava a se. Il suo alito sapeva di alcool; era quasi impossibile stargli vicino, era nauseante se non a dir poco fetente.
«Certo Silver. Vado a spogliarmi in bagno e poi torno. Aspettami.»
Mi voltai mentre vedevo sul suo volto comparire un sorriso malizioso e contemporaneamente i suoi occhi chiudersi. Tornai indietro e lo coprii con la coperta, mentre gli spostavo i capelli dal viso.
Era bello, si; era bello il fratellone ma si rovinava con poco. Non aveva volontà di migliorarsi.
Sospirai e mi diressi verso la cucina; lasciai cadere su una sedia la felpa bagnata, mi feci una tazza di tè e mi misi sopra il soppalco della finestra che dava sulla foresta.
Mi piaceva ammirare quel panorama: quegli alberi perennemente verdi e quei fiori selvatici che si arrampicavano su per le rocce. Erano magnifici.
Sorseggiai un altro sorso del mio dolce e caldo infuso preferito, mentre ascoltavo il dolce ma deciso suono della pioggia che batteva contro il vetro della finestra.
Chissà chi era quel tipo, non lo avevo mai visto prima. Che frequentasse quel bar? Mah.
Perché mai poi, mi dovevo interessare così tanto di uno sconosciuto. Solo perché mi piaceva il suo forte odore di muschio bagnato o perché aveva un corpo massiccio e muscoloso che si sarebbe potuto anche definire sexy sotto la pioggia? Non lo sapevo.
Non ne ero certa, ma quel pensiero era insistente. Appoggiai la tazza nel lavandino, presi la coperta e mi rannicchiai sul divano, in attesa che il sonno prendesse il sopravvento.
Guardai l’orologio del registratore. Le quattro meno venti.
Domani dovevo andare a scuola, passare dal carrozziere per vedere se quella cavolo di macchina era pronta. Erano ormai dieci giorni che l’avevo lasciata a quel cretino del meccanico. Se l’indomani pomeriggio non fosse stata pronta, l’avrei portata dall’officina di mio zio, anche se si trovava dall’altra parte del quartiere. Mi ero stancata di aspettare.
Mi incantai a guardare le vette degli alberi che si intravedevano oltre l’orizzonte disegnato dal soppalco della finestra e improvvisamente mi tornò in mente quel ragazzo, quello del bar.
Aveva un sapore così buono; quel muschio bagnato che mi inebriò le narici rimase impresso nella mia mente tanto che anche lì, persa nei miei pensieri sotto una calda coperta di pile, potevo sentirlo.
Era inutile cercare di capire chi fosse, non lo avevo visto eppure sembrava che non volessi arrendermi. Non sapevo chi era, non sapevo se era di quelle parti, ma una cosa era certa: mi avrebbe fatto piacere rivederlo, meglio ancora se fosse stato il prima possibile.

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Salve lettori; so che forse qualcuno di voi ha letto alcune delle mie storie, quelle precedenti ma ho deciso che questa volta sarà quella decisiva. Anche perchè questa volta il protagonista è Jacob Black, il mio personaggio preferito in assoluto.
  

Crystal.

P.s.: ringrazio Stephenie Meyer, senza la quale non sarei mai riuscita a capire questa mia passione per il mondo fantasy e quello della scrittura.
E ringrazio mia sorella, per il continuo sostegno e aiuto che mi concede. Ti voglio bene.

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Capitolo 2
*** Droghe positive. ***


Jacob’s pov.
Non riuscivo a dimenticarla.
Quella ragazza, quel suo dolce profumo di salsedine che emanava era una cosa a dir poco sovraumana; era così attraente, quasi eccitante. Sentivo i brividi corrermi giù per la schiena, tanto da farmi rizzare il pelo.
Mi staccai dal ruscello da cui stavo bevendo un po’ d’acqua fresca e diedi una veloce scrollata al mio corpo, tipico comportamento canino. Mi voltai e mi incamminai verso l’albero sotto cui avevo lasciato lo zaino con le mie cose.
Sentivo ancora in bocca il sapore, se ne aveva davvero uno, di quel fetido succhia sangue.
Mi stava dando il voltastomaco, speravo sarebbe passato da lì a poco.
Tornai umano in pochi secondi, dopo essermi calmato. Ormai il controllo era una cosa più o meno equilibrata, abbastanza semplice da sperimentare ma ancora complessa da gestire in tutti i suoi punti deboli, per esempio come il controllare la rabbia durante una tranquilla discussione. Ci voleva solo un po’ di tempo, mi sarei abituato.
Mi vestii in modo leggero e normale, presi dalla tasca dello zaino l’accendino di metallo e lo gettai sul corpo maciullato. La vampata che fece fu notevole, ma nessuno l’avrebbe notata. Era abbastanza centrata come piccola radura e, inoltre, non c’è nessun umano tanto svitato da avventurarsi qua dentro.
Appunto. Nessun umano.
Presi lo zaino e, caricandomelo in spalla, mi diressi verso il sentiero che mi avrebbe riportato sulla strada principale, dove avevo lasciato la mia moto, ovviamente nascondendola.
Cercai di calmare ancora l’ira che mi aveva travolto vedendo quell’essere rivoltante; la sola idea che non fosse un essere vivente e fosse al mondo, mi faceva vomitare.
In quel momento, mi passò per la mente il giorno in cui dissi qualcosa del genere a Bella. Stavamo parlando tranquillamente, senza disagi  ma poi è arrivata quella pugnalata, quel colpo secco che mi ha colpito al cuore.
«Ma fino al diploma.» aveva detto.
Mancava neanche un mese e lei se n’era saltata fuori con questa faccenda che, si conoscevo, ma non pensavo volesse testare così presto. Cavoli, pensavo di non riuscire nemmeno a giocare le mie carte in tavola invece… nonostante ci sia riuscito non è cambiato niente, non è successo nulla.
Quel bacio che ci siamo scambiati sulla montagna non è significato niente, almeno per lei. E’ stato come una scossa elettrica, una scarica di adrenalina che mi ha attraversato il corpo da capo a piedi.
Diavolo, la desideravo. La desideravo tanto, la amavo tanto. E credevo di amarla ancora.
Non so per quanto sono rimasto fermo su questo pensiero, sul fatto di non volermene andare e di non accettare che avevo perso, ma sarebbe stato da stupidi voler rovinare la sua esistenza. Sì, ormai la sua non era più nemmeno degna di essere chiamata “vita”. Quella stava finendo, anzi forse lo era già.
 
Sophie’s pov.
Finalmente un altro giorno di scuola è giunto al termine. Me ne mancavano ancora pochi e volevo cercare di migliorare il buono che c’era già ma, guardando la mia pagella, non riuscivo a immaginare risultati migliori di quelli scritti lì sopra.
Studiare mi piaceva, adoravo parlare e imparare lingue straniere o scrivere poesie e racconti. Non facevo altro che questo dopo aver studiato ovviamente; per la mia famiglia questo era ciò che contava.
«Sapphire. Questa è la scuola dove io e tuo padre ci siamo conosciuti, dove tuo fratello è andato e dove, ora, andrai tu. Non vogliamo che tu faccia qualcosa che non ti piaccia, perciò scegli ciò che ti vuoi ma sappi che questo accadrà dentro questa struttura.»
Queste erano state le parole di mia madre il giorno prima dell’inizio della scuola.
Ricordo che il primo giorno mi tremavano le gambe come delle foglie, e poi invece ogni anno le cose sembravano diventare più facili.
I piaceri, le letture, gli studi diventarono qualcosa di amabile, bello e  gradevole.
Sentii la voce della mia amica Sunny tirarmi fuori a pedate da questi miei pensieri.
«Ehi, ma mi stai ascoltando?» chiese lei, passandomi una mano davanti il viso.
«Si Sun. Ho sentito che finalmente ti sei messa con Mr. Popolarità e che finalmente uscirete insieme come coppia e che poi ti ha comprato un orso di pezza enorme, dei cioccolatini, dei fiori e… ah si, una collana d’argento.» dissi io, elencandole i doni ricevuti.
«Brava, ma ti sei dimenticata un particolare.»
«Che cosa?»
Immaginavo dove volesse arrivare; la solita, classica e morbosa domanda che mi faceva ogni santa settimana.
«E tu invece come sei messa? Sai che non vedo l’ora di fare un’uscita a quattro!»
Le sue smorfie e i suoi piccoli urli mi davano ai nervi: odiavo quando faceva così la bambina, non riuscivo a sopportare quando si comportava in quel modo. Ma in fondo in fondo, sapevo benissimo che non era così.
Era una ragazza dal cuore d’oro, sempre allegra, gentile e solare. Rideva sempre ed è per questo che l’hanno chiamata così. Lei è il sole, il mio sole.
«Non ho niente da dirti, se non che ho visto un ragazzo fuori da un bar l’altra notte quando sono andata a prendere Silver per l’ennesima volta.» affermai io, mentre vedevo sul suo volto apparire un sorriso malizioso «Ma non metterti strane idee in testa. L’ho solo visto di sfuggita. Non è successo niente, sia chiaro.»
Vidi il suo entusiasmo spegnersi di colpo, per poi riaccendersi non appena i suoi occhi si spostarono davanti a noi.
«Oh cavolo! Sophie, guardati il meccanico e se provi a dirmi che è brutto giuro che ti stacco la testa!»
Alzai lo sguardo e vidi un ragazzo giovane che avrà avuto si e no la mia età; era di spalle e piegato verso il cofano di una macchina rossa che precedeva la nostra BMW nera.
Guardavo sempre più curiosa quel ragazzo, assomigliava tremendamente a quello del bar della sera prima. Ma forse e anche, molto probabilmente, era un’impressione.
Continuai per la mia strada, osservando il tipo all’opera mentre cercava di ravvivare il motore della decapottabile, ma sembrava non ci fosse nulla da fare.
I pantaloni larghi cadevano pesantemente sugli scarponi che indossava; erano marroni e parecchio rovinati, soprattutto dai piccoli tratti di vernice e olio che ancora li macchiavano le calzature.
“Non può essere.”  
Avevo appena sorpassato il  meccanico e il profumo era quello che aveva il ragazzo del bar; che fosse davvero lui… mi voltai lenta, quasi avessi paura di scoprire che fosse così.
«Sophie, ti dai una mossa?»
Sentii la voce squillante di Sun chiamarmi e velocemente mi diressi verso la macchina che, dopo avermi accolta su un bel sedile di pelle bianca, partì a tutta velocità mentre io non ebbi nemmeno il tempo di vedere il mio selvaggio in viso.
Incredibile: ogni volta quel forte profumo di muschio bagnato mi dava alla testa, quasi come se assumessi una dose di eroina, ma molto più potente.

 
Jacob’s pov.
Non ci potevo credere. Non volevo crederci.
Uno stupido figlio di papà aveva chiamato in azienda perché l’auto non partiva e la colpa era solo e soltanto della batteria, ormai scarica del tutto.
Cercai di controllare meglio ancora, ma il risultato era sempre quello. Problema uguale batteria.
«E dai, non mi verrai a dire che anche questa sera starai in casa! Sei una carcerata!»
«Non sono una carcerata. Semplicemente preferisco una serata in spiaggia che una notte di ubriacatura e chiasso tra quattro muri.»
Sentii le voci di due studentesse avvicinarsi.  Una era davvero stridula, quasi insopportabile; l’altra invece era dolce, intonata, quasi definibile melodiosa.
«Mi spiace signore, ma qui non c’è niente da fare. Devo portarla in officina per cambiare la batteria altrimenti non va da nessuna parte. » dissi, cercando di distrarmi da quel tono.
Vidi sul suo viso comparire un piccolo segno di dubbio, per poi osservare meglio la ruga calmarsi sotto un sospiro di sollievo pesantemente udibile.
«Come sarebbe a dire che la batteria è scarica?»
«Sarebbe a dire che lei, senza batteria, non si può muovere da qui. Non che io glielo voglia impedire, ma non combinerà nulla. Non parte.» dissi io, sospirando mentre la mia mano batteva un pugno delicato sulla carrozzeria dell’auto decappottabile. Mica male, ma le moto erano migliori. Sicuramente.
I tacchi della ragazza, figlia di papà e con voce stridula, segnavano il loro avvicinamento, le sentivo. Sghignazzi, sospiri; rifiuti, inviti; si e no. Ma poi rieccolo.
Ecco di nuovo quel profumo di salsedine che mi inebriò le narici, era come un qualcosa di eccitante, una droga di cui non sarei riuscito a fare a meno. Quella notte fu il mio incubo, in quel momento rappresentava il mio desiderio proibito. Era come se volessi scoprire chi portava quella fragranza addosso ma solo per poter catturare la persona giusta e farla mia.
Nemmeno la conoscevo, nemmeno sapevo com’era. Eppure quei desideri, quelle voglie c’erano.
Mi morsi il labbro superiore cercando di resistere, mentre le mie mani stringevano delicate i paraurti anteriori dell’auto. Non ce la feci.
«Sophie ti dai una mossa?»
Ancora quella voce stridula, ma non era quella la sua. Ne ero sicuro.
La voce della mia musa era quella dolce, armonica e melodiosa come le onde del mare quando lente sovrastano la sabbia e, lentamente, ne perdono il possesso. Era come un qualcosa di mio, ma che in fondo non mi apparteneva. Era come se sapessi da sempre chi era, ma effettivamente non ne avevo la più pallida idea.
Mi voltai lento, pauroso di scoprire di chi fosse ma eccitato all’idea di vedere la proprietaria di quei doni che solo agli dei erano concessi, i famosi doni proibiti. La perfezione, la voce melodiosa, il profumo dolcemente accattivante, per non parlare dei nomi divini.
Sorrisi al pensiero, al paragone appena inventatomi nonostante fosse indubbiamente vero, almeno per me.
Vidi un paio di ciocche bionde sparire dietro la portiera di una BMW nera, lucida come uno specchio. Erano quelli della ragazza del bar, quelli della ragazza dal profumo di salsedine, quelli appartenenti ad una certaSophie; a quella Sophie.
«Cioè lei mi sta dicendo che io non solo l’ho aspettata per ben venti minuti sperando che mi aiutasse,ma che non può far nulla perché la batteria della macchina è scarica?»
Ero visibilmente nervoso. Scocciato. Ma dovevo stare calmo.
«Esatto.»
«E con cosa pretende che io vada a casa?»
«Se non mi sbaglio a questo mondo esistono i servizi pubblici.» risposi cordialmente, mentre salivo nell’auto dell’officina «E comunque, non è affar mio. So solo che questa va in officina.»
 “Piccolo umano viziato, senza palle ne cervello.” 
Partii con il carretto da riparare appresso, mentre dallo specchietto retrovisore vedevo il nobile ragazzino strapparsi i capelli e calciare un albero dalla rabbia. Tornai con lo sguardo alla strada, mentre i pensieri rimasero sempre nello stesso identico punto.
Sophie.”  ripetei tra me e me quel nome ancora una volta. “Sophie”
Ogni volta che quel nome prendeva forma sulla mie labbra e suono nella mia bocca, andavo in estasi, come se fossi drogato ma con una sola ed unica enorme differenza.
Io ero un drogato positivo.


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Di nuovo salve a coloro che hanno trovato un po' di tempo e lo hanno speso a leggere queste mie numerose righe.
Volevo ringraziarvi per il vostro "sostegno"; venendo qui, nel mio profilo e leggendo la mia creazione voi mi donate orgoglio e voglia di continuare, di migliorarsi sempre di più perchè so di poter donare sogni e speranze agli altri, semplicemente attraverso la mia fantasia.

Crystal

Ringrazio ancora Stephenie Meyer; without you, now my dreams would be only gray clouds, devoid of any sunshine. Thank you a lot. ♥

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Capitolo 3
*** Normalità. ***


Jake’s pov.
Il rumore del mare era come un tranquillante, un dosaggio medico di cui mi facevo ogni volta che la rabbia stava per prendere il sopravvento. Non c’era stata volta in cui quella cura avesse fallito, eppure quel giorno sembrava quasi non fare effetto.
Ero frustato, irritato,vicino allo scoppio che avrebbe potuto mandare all’aria tutto: io e il mio segreto, il mio nuovo compagno erano qualcosa di personale, di privato, di mio. Avevo accettato di diventare l’alpha, di creare una nuova tribù, una nuova famiglia.
Ho abbandonato la mia gente, la mia terra, mio padre pur di riuscire a tornare a vivere e c’ero anche riuscito. Ce l’avevo fatta, mi ero liberato, almeno in parte, del ricordo di Bella e della delusione che il cuore non era riuscito quasi a sopportare. Aveva la sua nuova vita, o meglio la sua nuova esistenza, e di certo non avrebbe trovato un momento in cui pensarmi. Ma per favore.
«Certe volte sei davvero insopportabile Jacob. Piantala di incolparti; ora è una fetida succhia sangue.»
«Matt, non farmi arrabbiare.» digrignai i denti.
«O forse no, hai ragione. A quest’ora si è scordata completamente di te, anche come amico: non è venuta qui, a trovarti o cercarti, o almeno provare a sapere come stai.»
Sorrideva malizioso.
«So dove vuoi arrivare fratello, ma non riuscirai a toccarmi.»
«Nemmeno se ho scoperto qualcosa sulla biondina?»
In quel momento tutta la mia mente si spense: i suoni, le immagini, il mondo sfuocava sotto i miei occhi e mi apparve davanti la figura della ragazza del bar; quei dorati e sinuosi capelli che le fuoriuscivano da quella felpa enorme, probabilmente rubata ad un fratello più grande, e quel profumo; quel dannato e irresistibile aroma di salsedine si aggiunse alla marina fragranza già presente nell’aria.
«Non mi importa.» mentii.
«Vorrà dire che allora le andrò io a fare una visita.»
Sentii il corpo di Matt alzarsi velocemente dalla sabbia e scattare in direzione degli alberi, verso la foresta.
Un sorriso mi avvolse il viso, trasformando la mia espressione in un qualcosa di divertito, quasi comico.
«Maledetto Matt, riesce sempre a farcela.» sussurrai a bassa voce, mentre il mio cominciò l’inseguimento di risposta.
«Pensi davvero di riuscire a raggiungermi?»
Sentivo il pensiero di Matthew chiaro e forte nella mente, mi stava guidando lui stesso verso dove si trovava.
«Non lo penso, ne sono certo.»
Digrignai i denti fino a quando il mio ululato riempì il totale silenzio che regnava pacificamente nel bosco. Le zampe si muovevano veloci sul terreno, quasi non si sentiva il rumore delle foglie o dei bastoni che rompevano sotto il mio tocco. Matt era appena ad un paio di metri da me, sarei riuscito a prenderlo senz’altro senza nessuna difficoltà ma senza aspettarmelo, una nauseante puzza mi prese in contropiede.
Sapevo fin troppo bene a chi, o meglio a cosa, apparteneva quel fetore: vampiri.
Vidi Matthew che si era bloccato tre o quattro metri più avanti di me e, voltandosi verso di me, capì subito la situazione.
Dovevamo andare a caccia.
Scattai in avanti con un ruggito profondo, seguito fedelmente dal mio nuovo compagno e cominciammo le indagini: c’era un intruso nel nostro territorio, un assassino che andava eliminato direttamente, senza indugi prima che qualcuno potesse finire male sul serio.

Sophie’s pov.
«Non puoi obbligarmi Silver, non sono più una bambina!»
«Sei sempre più piccola di me e mi devi obbedienza!»
«Ti dovrei rispetto non obbedienza, ma in ogni caso ormai puoi scordarti anche quello!»  gli urlai in faccia.
«Non mi interessa quello che pensi tu, tu mi devi obbedire e basta.»
«Silver:  ho diciassette anni, non sono più la piccola principessina di casa. Sono cresciuta e so badare a me stessa!»
«Sì, come no. E i tuoi voti a scuola ne sono la prova.» disse lui, con voce cupa e profonda prima di finire un’altra bottiglia di vodka.
«Se qualcuno si comportasse da adulto forse riuscirei a studiare di più.»
Si udì nient’altro che il rumore di quell’impatto; un colpo forte e violento mi scoppiò sul viso, facendomi cadere a terra.
«Tu non puoi parlarmi in questo modo: io sono il più grande e io decido!»
«Tu non decidi niente, la vita è la mia e la gestisco come più mi piace.» dissi, pulendomi con la mano il sangue che mi colava dal labro rotto, ma subito le mie dita raggiunsero le sue che mi avevano afferrato i capelli e li tiravano con forza verso di lui.
«Sai che potrei farti molto male Sophie; non costringermi a farlo.»
Mi liberai dalla presa del fratellone e, guardandolo schifata, mi alzai in piedi. Passai ancora la mia mano sul labbro dolente, mentre mi dirigevo verso la porta di casa; afferrai la felpa grigia, me la infilai addosso e, chiudendo la cerniera, mi midi le chiavi in tasca.
«Tanto tornerai Sophie, devi tornare.»
Mi fermai sulla soglia di casa girandomi verso di lui.
«Sì, tornerò ma solo per pietà nei tuoi confronti.»
Chiusi rumorosamente la porta prima di raggiungere il marciapiede e tirarmi su l’enorme cappuccio, in modo da nascondere i segni di una lotta, ormai diventata quasi quotidiana.
L’I-pod che trovai nelle tasche di Silver mi fu di conforto: le canzoni riuscirono a rilassarmi e a calmare la rabbia che mi stava divorando dentro.
Riuscivo a sentire il rumore delle onde in lontananza durante le paura tra una melodia e l’altra che si infrangevano fragorosamente contro le bianche rocce spigolose, come un antico canto che armonioso e delicato penetrava le mie mura difensive, come un proiettile che colpisce senza esitazione il proprio bersaglio.
Scesi il sentiero che conduceva alla sabbia e, una volta arriva taci, mi fermai per togliermi le scarpe giusto per evitare infiltrazioni di sabbia non desiderate. I piedi scalzi lasciavano delle profonde impronte nel terreno sabbioso, fino a quando mi lasciai cadere a sedere sulla sabbia, appoggiando sotto di me la felpa del fratellone.
Il mare era estremamente calmo e, nonostante l’autunno fosse cominciato,  ‘era ancora qualcosa di caldo nell’aria che riscaldava l’atmosfera circostante. D’improvviso mi alzai in piedi e mi svestii, dirigendomi poi verso l’acqua per un bagno in mare; entrai dentro e quel gelido tocco mi fece rabbrividire fino a quando tutto il corpo sotto il seno fu immerso. Mi tuffai di testa sott’acqua, per poi riaffiorare fuori a testa in giù e buttare delicatamente i miei capelli all’indietro, facendo scorrere fra di loro le mie mani.
Ammirai per un paio di minuti il tramonto in assoluto silenzio fino a quando dalla foresta rimanente in cima agli scogli si udì un ululato forte e chiaro. Mi voltai verso quel ammasso di fogliame ma non c’era niente che non fosse nella norma: le foglie, trasportate dalla forza del vento, ondeggiavano nell’aria nonostante fossero ancora incollate ognuna al proprio albero e i cespugli facevano altrettanto.
Non ci diedi peso visto che quel grido era sparito in un silenzio abissale, perciò mi diressi verso la riva. Il freddo cominciava ad aumentare velocemente e con lui anche il tremore del mio corpo.
Cercai di farmi calore strofinandomi le mani addosso alle braccia, ma ovviamente tutto era inutile; poteva essere solamente un bella idea se presa come aiuto psicologico.
Mi strinsi forte mentre le mie braccia si incrociavano e non furono le sole a farlo.
Alzai lo sguardo e mi accorsi che non ero più sola; ma la cosa ancora peggiore era vedere quel ra
gazzo fermo con lo sguardo su di me.


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Salve lettori,
volevo chiedervi scusa per la lunga attesa ma milioni di problemi sembravano esserci apposta pur di non farmi scrivere, per di più l'ispirazione sembrava morta e sepolta. Il quarto capitolo è in elaborazione, ma credo che nel prossimo week-end sarà pronto.
Aspetto commenti caldi caldi.
Un abbraccio, 

Crystal.

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Capitolo 4
*** Imprinting. ***


Jake’s pov.
Odiavo avere quel sapore sulla lingua, era la cosa più odiosa della mia natura.
Voltai la mia attenzione verso Matt che stava finendo di ammucchiare i pezzi rimanenti di quella cosa: era una donna, probabilmente intorno ai venti o ventidue anni, aveva dei lunghi capelli neri e due occhi rossi ormai spenti, fortunatamente per sempre. Dai vestiti si capiva benissimo che non era delle nostre parti, forse di qualche tribù che stava sul confine fra Canada e Stati Uniti.
«Vai, ci penso io a finire qua. Finisci il giro di controllo.»
La voce di Matthew mi fece scostare dal mio ragionamento investigativo, riportandomi al mondo reale. Annuii con un piccolo verso e mi diressi verso i confini del territorio; sapevo benissimo che potevo fidarmi di lui e che avrebbe fatto un ottimo lavoro nel far sparire ogni traccia.
Ripensai ancora a quella ragazza, o meglio al mostro che era diventata, e alla sua espressione mentre la uccidevamo: in fondo, quelle grida avevano ancora qualcosa di umano, qualcosa che il veleno o l’immortalità non erano riusciti a mutare. Pensavo a quel bastardo che l’aveva trasformata, molto probabilmente il suo compagno convinto di poterle dare una vita migliore, di poterle dare di più.
Decisi di deviare, di passare prima per la parte nord verso gli scogli per controllare che fosse tutto a posto; saltai fuori dalla boscaglia e mi sporsi su una roccia un po’ più in basso, così da poter avere una visuale più ampia ma l’unico movimento che mi insospettì e cha catturò la mia attenzione fu quello di un corpo sott’acqua.
Non era un pesce, troppo grande per esserlo. Continuai a seguirlo attentamente con lo sguardo fin oa quando quella creatura non fuoriuscì dall’acqua.
Un reggiseno a fascia le copriva le accentate curve superiori mentre i capelli bagnati volteggiavano all’indietro nell’aria, fino ad atterrare nuovamente sul corpo della ragazza.
Il mio sguardo non riusciva a togliersi di dosso a quella meraviglia e un’improvvisa sensazione di familiarità mi prese dentro: sapevo chi era quella ragazza, sapevo di averla già incontrata e sapevo di volerla finalmente conoscere.
Ululai di cuore verso il sole che ci stava abbandonando, per poi dirigermi velocemente verso casa a cambiarmi.
Non contai, ne tanto meno badai, quanti secondi sfruttai per arrivare, vestirmi e scappare via nuovamente verso la spiaggia per raggiungerla, per essere ad un paio di metri da lei. In ogni caso, impiegai poco meno di tre minuti, non di più e infatti lei era ancora lì, intenta ad ammirare il tramonto all’orizzonte. Il suo corpo, snello ma al contempo abbastanza formoso, era bianco e delicato come quello di una dea; una divinità che ha come dono la troppa bellezza racchiusa dentro un insulso corpo da umano invece che essere uno spirito libero, ma in fondo era meglio così altrimenti non avrei potuto nemmeno vederla.
I suoi movimenti, così sinuosi e dolci, la conducevano da me, stava avvicinandosi sempre di più a me e i miei occhi non riuscivano a staccarsi da quel corpo perfetto.
La vidi alzare il volto e, in quell’attimo eterno, i suoi occhi si incrociarono con i miei.
Vidi passare da un futuro vicino, un nuovo domani con lei, mano nella mano con quella dea ai miei piedi; stavamo correndo e giocando nel bosco, lei mi saliva in groppa e, aderendo con il suo corpo al mio, attraversavamo radure e intere pianure. In altri attimi invece, il suo viso da serio che era si illuminava di un caldo sorriso, tanto potente da rendere quella bianca pelle più abbronzata e olivastra alla luce rispetto a come era realmente. La vedevo correre per casa mentre io la rincorrevo poi, non appena l’ebbi davanti a me, la catturai facendola prigioniera tra le mie braccia; l’alzavo in aria e la facevo volteggiare nell’aria con quel sorriso inciso sul suo viso meraviglioso.
Quegl’occhi color ghiaccio, immobili su di me, cominciarono a scrutarmi mentre le braccia avvolgevano il corpo nudo e bagnato, quasi volessero riscaldare e coprire quella candida pelle.
Mi alzai esterrefatto da tanta bellezza mentre sentivo e vedevo il suo sguardo addosso a me; mi avvicinai dopo essermi tolto la maglia ed essendole davanti le misi la maglia, infilandogliela dal collo e poi delicatamente la aiutai a mettere anche le braccia. Tornai indietro alla mia postazione e, dopo aver preso la sua enorme felpa, mi diressi nuovamente verso di lei, facendole indossare anche quella stavolta con un aiuto anche da parte sua.
Non avevo mai incontrato niente o nessuno di così perfetto; non ero io a muovermi, era il mio spirito. Il corpo era solo il mezzo attraverso il quale lei avrebbe potuto vedere il mio gesto.
Appena messa la felpa per bene, prese i lati di questa e se li strinse addosso; indietreggiai un paio di metri e lasciai che andasse dai pantaloni e dalle scarpe.
Continuavo a guardarla, ininterrottamente mentre trovava l’equilibrio su una gamba mentre l’altra si muoveva per riempire quei pantaloni stretti; una volta infilati, se li sistemò sulla vita per poi piegarsi e raccogliere le scarpe.
Mi scappò un leggero sorriso nel vederla così in imbarazzo, quasi impacciata, davanti ai miei sguardi ma la cosa non mi toccava. Volevo continuare a guardarla, dovevo  continuare.
«Ehi.» buttai lì una parola.
La vidi alzare lo sguardo ed esplodere in un enorme sorriso.
«Ciao.» rispose, avvicinandosi.
Il silenzio che ricopriva quei momenti era quasi insopportabile, era un qualcosa che non riuscivo minimamente a sopportare, non c’era motivo per cui dovesse esserci a meno che non ci fosse stato un bacio e, purtroppo, non ci stava. Per niente.
Cercai qualcosa da dire, ma in quel momento non mi veniva in mente niente di carino, dolce o gentile.
«Ti va di fare un giro?»
Vidi il suo capo piegarsi leggermente verso la mia sinistra, per poi riaccendere quel sorriso meraviglioso sul suo viso mentre una risposta prendeva forma sulle sue labbra.
«Andiamo.»
Mi passò quasi di fianco, fino a quando non mi girai e le fui di fianco; le mie mani tremavano, palpitavano sull’orlo delle tasche dei miei jeans. Erano avide di muoversi, di poter fare qualcosa per lei che tanto tremava dal freddo, di poterla avvolgere nel loro dolce calore.
«Dimenticavo: io sono Jacob.» dissi, porgendole una mano.
In quel momento si bloccò, quasi non sapesse cosa fare.
Si muoveva lenta ed indecisa, quasi impaurita dai suoi stessi gesti, come se avesse potuto fare qualcosa che avrebbe rovinato tutto.
«Io sono Sophie.» ribatté seria in volto, mentre la sua mano fredda e bagnata stringeva teneramente la mia.
I miei occhi si posarono prima sulla stretta e poi di nuovo sul suo viso: vedi il suo sguardo fermo ed immobile sulle nostre mani, per poi riempirsi di gioia come anche il suo viso fece con un altro di quei favolosi sorrisi che solo lei era capace di fare.
Non c’era niente che non andasse bene in lei.
«Allora…» dissi io, avvolgendole le spalle con un braccio «ti va di raccontarmi qualcosa di te?»
Vidi i suoi occhi posarsi diffidenti verso la mia mano che dolcemente le stringeva la spalla opposta, ma poi di nuovo quel sorriso prese il sopravvento su quel viso angelico che tanto avevo aspettato, su quei lineamenti che nemmeno Dio si immaginava di scolpire tanto bene.
La sentii sospirare.
«Da dove comincio?» sorrise.
«Che ne dici se parti dall’inizio?»
Le sue tenere labbra si incurvarono ancora di più, impegnandosi a mostrare un sorriso ancora più bello.
Ormai la gravità mi aveva abbandonato a quel capo magnetico che lentamente mi stava risucchiando verso l’epicentro, verso quella divina creatura che stentavo credere vera.

Sophie’s pov.
Non mi ero mai sentita così ma al contempo piena: non sentivo niente che mi appartenesse, ormai non più.
Lo sentivo dentro di me; tutta la mia intimità era stata violata, catturata e strappata dal profondo. I suoi occhi marroni mi stavano mangiando come le sabbie mobili quando inghiottono la propria vittima, soffocandola, ma lui no.
Lui non uccideva ne mi stringeva; ero io a volerlo con me, ma non comprendevo il perché.
«Cos’è questa sensazione? E’ come se non fossi più attaccata al pianeta, come se la gravità avesse cambiato epicentro: il punto non è più il centro della Terra, è lui.» pensai, quasi spaventata da me stessa.
Mi aiutò a vestirmi, a coprirmi e qualcosa scattò ancora: non sapevo cosa fosse, non sapevo nemmeno cosa fare, dire o persino pensare. Ero totalmente confusa, smarrita e per questo mi limitai solamente a seguirlo; lo seguii e basta. Balbettai qualcosa per rispondere a qualcosa che nemmeno ero riuscita a sentire, quasi fossi racchiusa dentro un’enorme bolla.
Avrei fatto di tutto per lui, avrei fatto tutto ciò che lui diceva e sarei stata persino disposta ad essere o diventare tutto ciò che lui voleva.
«Jacob: che cosa sta succedendo?»
Lo vidi sorridere, di cuore a capo basso.
«Si fa sentire eh?»
«Che cos’è?» cominciavo a spaventarmi davvero.
«Non ti preoccupare, non è pericoloso o almeno… non pericoloso nel modo in cui fa intendere il termine stesso.»
«Mi stai solo confondendo di più.»
Non riuscivo a capire o forse non volevo, ma il suo calore mi scaldò tanto da sciogliere le mie barriere difensive: sentivo le sue mani calde attraverso la grossa felpa di Silver, ma non mi opposi.
Le sue dita aderivano sempre di più alle mie braccia mentre mi aveva rinchiuso tra lui e la scogliera. Il freddo muro roccioso mi gelava la spina dorsale ma, in confronto al calore che il suo respiro gettava sul mio collo, non era niente.
Non capivo cosa stava succedendo e, forse, nemmeno mi importava. Ciò che contava era averlo lì accanto e sentirlo parte di quel mondo dove mi ero da troppo tempo rinchiusa.
«Sophie, non so su cosa tu stia riflettendo ma credimi, posso capirti. Non ci conosciamo, non sapevamo nemmeno esistessimo prima d’ora e ti confesso che non so neanche io cosa fare. Ma… voglio proteggerti, voglio esserci nella tua vita e non mi importa cosa pensi chiunque altro: io voglio te.»
Conoscendomi, avrei dovuto sparare un rifiuto netto; non ho mai sopportato i cascamorti, ma con lui era diverso. Era un qualcosa di magnetico, potente, ossessivo, quasi innato e naturale.
Non riuscivo ad oppormi, a resistergli ma come poteva un semplice istinto vincere su di me.
«Senti: non so di cosa tu stia parlando, ma non aspettarti che una semplice attrazione fisica abbia la meglio su di me.»
Ero sempre stata razionale, abituata a pensare prima di fare; andando contro me stessa e quell’istinto mi sentivo triste e tremendamente vuota.
«Tu non hai la minima idea di che cosa sia e di cosa possa fare.»
«Cosa? Cosa potrebbe essere tanto forte da farmi cambiare me stessa e i miei principi?» chiesi curiosa, mentre un briciolo di rabbia cominciava a manifestarsi.
«L’imprinting è qualcosa che decide la natura, non tu. Non vi è alcuna creatura al mondo che possa resistergli e di certo tu, piccola umana, non sarai la prima.» sorrise.
La sua mano scottava ardente contro il mio bianco collo, tanto da sentirlo quasi bruciare sotto la sua pelle.
Mi ripetevo che non dovevo, che non poteva vincere quella semplice sensazione su me e il mio autocontrollo, ma con quel tocco lui aveva distrutto ogni mio possibile tentativo di difesa.
«Lo senti? Il cuore sta accelerando.» sorrise malizioso.
Appoggiai la mia mano sul suo petto.
«Non è l’unico a correre.»
«Non ho detto che fosse l’unico.» disse, prima che quei denti bianchi furono scoperti del tutto.
Ogni mio tentativo di ribellione o resistenza era messo a tacere da un suo gesto: i miei sensi erano stati uccisi dall’istinto si averlo, di sapere e voler essere sua.
Scossi la testa, cercando di scacciare via da me quei pensieri carnali, quasi li vedessi come un demone in cerca di un’anima da divorare.
Nell’aria si diffuse un riso; era il ghigno di quel angelo che avevo davanti e i suoi denti bianchi sostituivano la luce del sole ormai nascosta dall’orizzonte, brillavano come le stelle del cielo.
«Non puoi scappare.» disse alzandomi il viso mentre mi accarezzava dolcemente la guancia «Non cercare di resistere a qualcosa che il tuo stesso corpo vuole.»
«E sarebbe?»
«Me.»
Quelle due lettere sembrarono una sentenza dettata dal giudice dell’anima, quello che cercavo di ignorare, di non ascoltare, di coprire con lo stupido pensiero che fosse una semplice attrazione fisica; ma quel bacio fu la prova contraria.
Le sue labbra, morbide e carnose, si gettarono sulle mie, come un lupo che balza addosso alla sua preda, ma non era la foga a regnare nell’atmosfera. La sua bocca era dolce, delicata, quasi attenta a non farmi del male e questo lo sentivo ovunque: la sicurezza, la fiducia di quel gesto d’affetto mi stava sconvolgendo. I fianchi bruciavano sotto quel tocco, il collo ardeva coccolato da quella carezza e la spina dorsale fremeva con tutto il resto del corpo vicino a lui.
Le mie braccia, indecise e paurose, risalirono il suo petto fino ad arrivare ai suoi capelli, appoggiandosi comodamente alle sue enormi spalle, quasi fossero addormentate in un sogno irreale, in un meraviglioso scherzo immaginario della mia mente. Come il sole stava calando, anche le mie paure mi abbandonarono, lasciando spazio ad un sentimento che ormai mi era sconosciuto e che, in così pochi secondi, era riaffiorato in tutto il mio essere.


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Ancora -ciao miei cari lettori;
ultimamente non sono più sicura di niente, non riesco ad esserlo nemmeno se lo voglio e ciò vale anche per i capitoli.
Spero vi piacciano, come sempre d'altronde, ma in ogni caso mi farebbe piacere chiedervi - nonostante so sia una scocciatura, almeno per gli altri - lasciare un segno del vostro passaggio, un commentino, una faccina, una critica: insomma, un vostro pensiero così da potermi regolare anche un po' con me stessa e migliorare sempre di più queste storie che ormai stanno diventando tanto per me, davvero tanto e avere qualcuno che spreca anche solo cinque minuti per leggere i capitoli mi riempie di orgoglio e gioia.
Sì, di orgoglio perchè finalmente sento che ho trovato una strada che mi appartiene.
- con affetto,

Crystal.

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