L'Allegra Brigata

di Gloom
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** capitolo 17 ***
Capitolo 18: *** capitolo 18 ***
Capitolo 19: *** capitolo 19 ***
Capitolo 20: *** capitolo 20 ***
Capitolo 21: *** capitolo 21 ***
Capitolo 22: *** capitolo 22 ***
Capitolo 23: *** capitolo 23 ***
Capitolo 24: *** Capitolo 24 ***
Capitolo 25: *** capitolo 25 ***
Capitolo 26: *** capitolo 26 ***
Capitolo 27: *** Capitolo 27 - EPILOGO ***



Capitolo 1
*** capitolo 1 ***


Il destino altro non è che gli effetti di decisioni prese in precedenza.
Sedici anni di vita per arrivare a questa pillola di saggezza. . .  niente male davvero. Giak ripensò a tutto quello che era successo in quei mesi, a quello che era cambiato e quello che era rimasto uguale, e anche alle cose rimaste uguali ma viste come cambiate. Sospirò: quel giorno aveva abbastanza tempo libero da fumarsi il cervello con le solite pippe mentali. E allora il pensiero tornò al primo giorno del quinto ginnasio: l’inizio ufficiale di un ennesimo, nuovo capitolo della vita sua e dei suoi amici.
 
Quando la sveglia suonò, spargendo per la stanza la canzone preferita di Giak, lui la mise subito a tacere. Era sveglio già da alcuni minuti, consapevole del fatto che sarebbero passate settimane prima che una scena del genere si ripetesse. Non aveva mai avuto bisogno di una sveglia, ma quell’anno le cose erano un po’ cambiate ed era dovuto scendere a compromessi con quell’apparecchio: l’uno si impegnava a svegliarlo con i Sum41, l’altro a svegliarsi per davvero.
 Ma lo scemo, che la sera prima era andato a letto presto per paura di far tardi, si era svegliato molto prima del suono della sua nuova complice; era rimasto a letto, abbastanza a lungo per lasciarsi intorpidire, ed ora non aveva la minima intenzione di sgusciare fuori dalle lenzuola. Molto meglio rimanere semi rincoglionito sotto le lenzuola, ad ascoltare i respiri dei due pidocchi che aveva per fratelli. Quelli la sveglia non l’avevano neanche sentita: a scuola potevano andarci con calma, sarebbero bastati dieci minuti e qualche metro a piedi.
 Ok, ora si stava alzando. Dopotutto non poteva davvero far tardi: fino all’anno prima a scuola ce lo aveva sempre accompagnato il padre, di strada per l’ufficio. Ma adesso suo padre era stato trasferito, quindi si era dovuto rassegnare all’autobus. Anche con quello era sceso a compromessi, ma erano molto più pesanti di quelli con la sveglia: si impegnava ad accompagnarlo a scuola, ma, se Giak non si fosse sbrigato, non avrebbe esitato a lasciarlo sul marciapiede.
 La pensava ancora così -non aveva ancora imparato a correre davanti all’autobus pur di non farlo ripartire senza di lui- ma era pur sempre il primo giorno di scuola: il primo risveglio con i Sum41, la prima volta che avrebbe preso l’autobus di mattina.
 Quando uscì di casa, suo padre si era appena svegliato e sua madre era ancora immersa nella luce dorata del suo bagno. Li salutò, poi prese lo zaino e raccolse una manciata di monetine dal piattino nell’ingresso. Male non facevano, e si sarebbero trovate molto più a loro agio nel suo portamonete.
 Non era particolarmente tranquillo. Si imponeva di stare calmo, ma in realtà si sentiva inquieto e scocciato.
 Scocciato perché quel cretino del suo epico vicino di banco si era fatto allegramente steccare e, senza un minimo di rimpianto, si era trasferito in periferia per continuare i suoi studi alla scuola privata.
Inquieto perché da allora era sparito: aveva bidonato Giak e gli altri amici e si erano perse le sue tracce. Per questo ora Giak si trovava nella spiacevole situazione di chi entra in una classe di gente che conosceva solo superficialmente.
 Magari se mi sforzo riesco a farvelo vedere: la scuola è il vecchio liceo classico di Polverano. La solita struttura dalle veneziane rotte e il muro coperto di graffiti. Gli studenti sono i soliti studenti di un liceo classico: campanelli di tipi con libri dai titoli assurdi come Oi Ellenes, fumatori, pallavoliste e reduci del Certamen Sallustianum elettrizzati per il primo giorno di scuola.
 Giak non era né fumatore, né pallavolista, né tantomeno reduce del Certamen. Non era niente: esisteva, aveva quei quattro amici con cui cazzeggiare, combatteva per la sufficienza, e andava bene così.
 -Eccolo!- ululò un ragazzo appena entrò in classe. Giak sorrise e gli diede il cinque, salutò le poche persone che erano entrate (erano quelle che tenevano a scegliersi il posto personalmente) e il suo sguardo spaziò per la classe.
 Lui ovviamente non lo sapeva, ma da lì è partita tutta la storia che avrebbe passato quell’anno. La prima delle decisioni che più in là avrebbe identificato con la parola “destino“: non fece altro che scrutare la classe, soppesare le ipotesi e poi scegliere un banco sull’ala sinistra, penultima fila. Eppure, se solo avesse scelto un altro posto, se avesse deciso di voler sedere vicino alla finestra piuttosto che al muro, se si fosse soffermato a riflettere su tutti quei dettagli che la fretta di accaparrarsi il posto migliore offuscava, magari avrebbe cambiato idea. E noi non possiamo permettercelo.
 Rapido, con i muscoli abituati a quel movimento riservato agli studenti, si fece scivolare lo zaino dalle spalle e lo scaraventò sul banco.
 -Bella presa- esclamò un tipo all’ultima fila.
 -Direi che quest’anno posso concedermi il lusso di un posto nascosto- ghignò Giak. Il tipo sorrise, poi chiese notizie del vecchio compagno bocciato. Cominciarono a chiacchierare, mentre la classe si riempiva. 
 -Giak, è occupato il posto vicino al tuo?- chiese un ragazzo appena entrato.
 -No, anzi, mettiti tu così sto tranquillo- rispose Giak.
 -Bella!- ringraziò lui.
 La prima minima ondata di sollievo invase Giak: almeno adesso era sicuro che non avrebbe passato l’anno di fianco alla secchia, onta che non avrebbe sopportato. E poi Riccardo era ok: tranquillo, simpatico, single (il che non guastava mai), e disposto a suggerire: uno che pur avendo la media dell’otto suggerisce deve essere per forza una brava persona.
 -Aspetta, devo fare una cosa- gli disse Riccardo.
C’era un banchetto singolo attaccato alla cattedra: quello in genere riservato all‘ultimo sfigato. Riccardo lo prese e lo attaccò all’estremità del suo posto.
Molto probabilmente anche il gesto di Riccardo fu decisivo. Aveva garantito l’unica fila di banchi a tre posti, in una classe composta da banchi a due, prima che lo facesse qualcun altro. E fu una gran bella cosa.
 -Devo occupare il posto per Cicca- spiegò Riccardo, -e volevo l’esclusiva del banchetto. È ok per te?- chiese a Giak.
 -Ovvio! Però, se lo metti al banchetto, durante i compiti in classe lo spostano- fece notare. Riccardo soppesò per un secondo la cosa, poi sogghignò:
 -Figurati, guarda quanto può essere grande questa classe: se anche lo sposteranno, sarà di tre centimetri-.
 Ma Cicca si fece attendere: entrò quando la campanella stava per suonare e le masse studentesche si riversavano per i corridoi.
 -Bellaaa!- salutò Riccardo, poi Giak, poi tutti gli altri della classe con un unico grido.
 Adesso i nostri tre sono sistemati. Ma non ancora completi.


Anche Lauretta aveva una sveglia, ma ogni volta si riprometteva di gettarla. Non serviva a niente, ormai! Erano mesi che non riusciva a dormire come si deve; aveva rivoltato il materasso, aveva cambiato tipo di pigiama, aveva provato tutte le posizioni, rigirandosi nel letto fino a far delle lenzuola un cumulo informe. Aveva pensato se cambiare il cuscino, ma tanto pure quello era abbastanza inutile: ogni mattina lo ritrovava sul pavimento, scagliato lì durante la notte.
Perciò, dopo tutto questo calvario, era frequente che si svegliasse prima dell’ora stabilita.
Ormai non le pesava più, anzi, le piaceva: di mattina presto tutto era più tranquillo. Sua madre dormiva, e almeno in quei momenti non sentiva il bisogno di parlare. La televisione taceva, le luci erano spente. Tutto era meravigliosamente fermo. E pazienza se, per godersi quei momenti, doveva combattere per tutto il resto della giornata col sonno.
 Lauretta prese la caffettiera e la riempì d’acqua. Poi riempì il filtro di caffè, avvitò i componenti stretti e mise la caffettiera sul fornello. Aspettò che cominciasse a borbottare, ma quando lo fece fu tentata di non spegnere il gas: era così tranquillo quel suono. . . 
Lo pulisci tu il caffè che schizza, si disse scuotendo la testa. Si alzò controvoglia: quella notte aveva dormito meno del solito. Un po’ per l’agitazione del primo giorno di scuola, un po’ perché l’orecchio non aveva smesso un attimo di fischiarle. Aveva odiato quell’orecchio, era stata lì lì per gridare tanto l’aveva innervosita. E poi, complice il cambio di stagione, aveva il naso chiuso. Ma, siccome non aveva fazzoletti a portata di mano, aveva preferito far passare l’aria dalla bocca più che dal naso. Risultato: gola gonfia e naso ancora più ostinatamente chiuso. Sempre più cretina, si disse Lauretta.
Sorseggiò il caffè davanti alla finestra, mentre osservava il sole di metà settembre sorgere da dietro le montagne di Polverano (ve l’avevo detto che si era svegliata presto). Si impose di far finta di stare alla grande: niente mal di gola o naso chiuso, niente sonno, niente muscoli incordati. Alla gente, ma soprattutto a lei, non piacevano quelli che si lamentavano. Le facevano una rabbia, quelli che si lamentavano. Pretendevano che tutto andasse meglio di come effettivamente andava. Come se fosse scontato. Puah.
 Quando sua madre si alzò dal letto, fu stupita di trovarla già pronta. Le chiese il perché di quella levataccia. Lei le rispose che non aveva dormito molto bene, e la madre le diede una carezza, mentre beveva il caffè che la figlia aveva preparato. Poi Lauretta uscì, con lo zaino spolverato in spalla e una sciarpa chilometrica attorno alla gola.
 Incontrò Margherita davanti alla scuola: lei aveva una giacca nuova, lo zaino pieno dei libri che Lauretta aveva dimenticato e i capelli raccolti con un bastoncino.
 - Lauretta!- le diede un sonoro bacio sulla guancia.
 -Ciao bella- disse fiacca lei.
 -Cos’hai?- chiese Margherita sentendo la sua voce uscire a fatica dalla gola.
 -Bah… le mie nottate rilassanti-.
 -È successo qualcosa?-
 -Stai tranquilla- Lauretta sorrise.
 -Direi di avviarci verso la classe. Voglio un bel posto quest’anno- disse poi.
 E siamo al punto in cui le due entrarono nella classe di Giak, Cicca e Riccardo. Insomma, il punto in cui operano l’ennesima decisione: quella di sedersi proprio dietro di loro.
 Perché, fidatevi, se solo avessero deciso di prendere posto al banco della fila vicina alle finestre -l’unico rimasto libero, oltre quello che scelsero-, non avrei potuto scrivere di ciò che successe tra loro.
Non sarebbe mai nato quel sentimento oltremodo potente e sincero che li avrebbe legati.




Gente, Oddish è tornata con una nuova storia, completamente made in Polverano!
Spero che piaccia, spero che lasci qualcosa, spero che valga e spero che anche voi pensiate che valga. Spero, insomma, di non aver fatto un bel flop.
 Spero anche di ricevere tante belle recensioni, positive e negative (dateti dentro gente!), perché questa storia è un po' alla stregua di Polvere dei Sognatori: ci ho messo tutto il pathos di cui sono capace.
 Grazie per aver letto, e sogni d'oro <3
 

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Capitolo 2
*** capitolo 2 ***


Riccardo, Giak e Cicca ridevano a scherzavano quando Lauretta e Margherita entrarono in classe. Non appena Cicca le vide, lanciò di nuovo il suo urlo belluino, alzando la mano in segno di saluto: -Bellaaa!-
Le due sorrisero, poi notarono un banco libero e furono svelte ad occuparlo. Cicca ululò: -La Giobatta dietro di noi, oh, nove garantito!- Poi si rivolse a Margherita: -Io ti procuro turzi e sigarette e tu mi suggerisci per tutto l’anno, ok?-
 -Non fumo- Rispose Margherita. Lauretta ghignò.
 -E tu non ridere! Pensavo che l’avessi tirata su bene durante quest’estate- continuò Cicca ammiccando a Margherita.
 -Che? Neanche io fumo! L’unico accannato qui in mezzo sei tu, rassegnati-.
 -Ragazza spiritosa, se ti metti qui dietro sarà un inferno per te-. Cicca diede una gomitata a Riccardo. Questo sorrise.
 Lauretta e Margherita si rivolsero a Giak, che stava seduto vicino a loro.
 -Notizie di Fressino?- chiesero. Loro erano del genere che chiamava per cognome il vecchio compagno bocciato.
Giak alzò le spalle: -boh. Non lo sento da settimane. . .  si è trasferito alla privata-.
 -E ha tagliato con noi del classico- continuò Riccardo.
 -Grandioso! Bah, se è contento così. . . - Margherita liquidò la questione.  
 I ragazzi si alzarono rapidi dietro i banchi, dando una parvenza di ordine alla classe, quando entrò la prof.
Era una donnetta talmente vecchia e trascurata da sembrare quasi rivoltante, come se le lingue morte che insegnava le avessero risucchiato la linfa vitale. Vedendo una tipa del genere, a tutte le matricole era venuta la preoccupazione per la propria salute. Però poi avevano riflettuto che il classico non faceva quell’effetto su tutti; c’erano veterani del terzo liceo che sembravano ancora sani. Da fuori.
 La prof cominciò a fare l’appello. Giak rimase attento fino a quando non fu il suo turno di alzare la mano e biascicare “presente”, poi tornò a distrarsi. Si riebbe solo quando, verso metà dell’elenco, Lauretta alzò la mano due volte perché la prof non aveva sentito la sua risposta. Insieme a Riccardo si voltò per ghignarle, e lei rispose con una linguaccia annoiata.
 Giak non aveva mai parlato molto con le sue compagne di classe. In genere le conversazioni che aveva con loro comprendevano solo battute durante le assemblee di classe e suggerimenti alle interrogazioni, niente di abbastanza profondo per poter dire di conoscerle.
Ma, ora che ci rifletteva, con Lauretta non aveva parlato mai. Accenni di saluti, auguri per Natale e Pasqua, e stop. Un quarto ginnasio parco di conversazioni, insomma. Margherita era la sua migliore amica, e di lei sapeva già qualcosa in più, dato che a volte prendevano l’autobus insieme. Sapeva che aveva un ragazzo da una vita e che nel tempo libero le piaceva fare jogging (buffo però come lei avesse rotoli sempre pronti a farla dannare, mentre Lauretta era esile come un fuscello).
 -Alza un po’ la voce. . . mi pare che oggi tu ne abbia abbastanza- sussurrò a Lauretta sorridendo. Lei fece una smorfia e provò a rispondere, ma aveva talmente poca voce che non le uscì neanche un sussurro.
 Al suonare della campanella, i ragazzi cominciarono a chiacchierare. Parlavano dell’estate passata, delle avventure e delle serate memorabili di ciascuno di loro. Si sfotterono, andandoci cauti. . . Per poi sentirsi tranquilli e sollevati, come quando ti accorgi che ha piovuto tutta la notte ma poi è sbucato il sole.
 Anche Margherita e Lauretta stavano parlando, ma non con lo stesso calore: Lauretta stava quasi per scocciarsi.
 Era successo che un paio di estati prima Margherita aveva conosciuto un ragazzo, un certo Marco che l‘aveva incantata. Margherita aveva cominciato le superiori con le guance colorate dalla sua nuova storia, e per tutto l’anno era rimasta con lui, stupendo tutte le amiche che pensavano fosse solo una storiella.
Non desistevano e, se Lauretta all’inizio era felice per l’amica, col passare dei mesi aveva cominciato a risentirsi; Marco era talmente geloso da sembrare patetico. Pian piano le aveva portato via Margherita, riempiendole tutti i sabati e facendole passare ore che li rendeva zuccherosi come una coppia di Moccia. Lauretta non se la sentiva di mettere il broncio per la felicità dell’amica, per questo aveva preferito tenersi l’amarezza dentro di sé. E continuava, mentre Margherita le raccontava tutto ciò che aveva tralasciato durante i periodi che avevano trascorso separate in vacanza. 
 -Laurettaaa! Laurettaaa!- Cicca si girò e cominciò a chiamare, salvando Lauretta dal monologo di Margherita.
 -Dimmi-.
 -Raccontami della tua estate focosa.-
 -Focosa? Non ho fatto niente di che. .  . -
 Margherita non sembrò particolarmente irritata per l’interruzione, tanto che rispose per conto di Lauretta.
 -Non puoi capire quanti ne ha stesi. . . una femme fatale- ghignò.
 -E piantala. . . - Le diede una gomitata, sorridendo.
 -Mi vuoi dire che non sei impegnata?-
 -Eh già. . . - Lauretta si strinse nelle spalle. Era davvero l’ultima cosa a cui aveva pensato, durante i mesi precedenti. E comunque i ragazzi dicevano che era troppo magra.
 -Giak, allora hai campo libero. Lauretta, sapevi che Giak ti viene dietro?-
 -Idiota-.
 -Sul serio.-
 Giak si girò annoiato e prese Cicca per la collottola:
 -Non ascoltarlo- disse a Lauretta. Poi fece per spingere Cicca giù dalla sedia.
 - Giak, e tu che ci racconti della tua estate?- chiese Margherita. Giak si passò una mano tra i capelli, sorridendo.
 -È stato figo, come gli anni precedenti.-
 -Anche tu hai fatto cilecca, insomma- disse Riccardo. Cicca ululò divertito e Margherita e Lauretta sogghignarono mentre Giak arrossiva.
 La realtà era che non puntava una che gli piacesse da mesi. Erano tutte uguali le ragazze. C’erano le truzzette che entravano e uscivano dai locali: donne in miniatura che a scuola calzavano Air Max e Hogan e il sabato sera salivano su tacchi che agognavano da quando avevano dodici anni.
 C’erano le romantiche, tipe che intasavano la home dei contatti Facebook con bellissime parole d’amore. Spesso carine, ma. . .
 C’erano un mucchio di ragazze che giravano per Polverano, innamorate, depresse, allegre, simpatiche, antipatiche, belle e brutte. Eppure lui continuava a guardarsi intorno annoiato, e nel frattempo perdeva le speranze.
 Ma ho già detto che da quel giorno avrebbe preso l’autobus ogni santa mattina?
 
La prima volta era stata abbastanza drammatica: lui stava quasi dormendo quando era salito sull’autobus, e invece lì dentro c’erano una sacco di tipi che facevano casino. Aveva intravisto anche un paio di conoscenti, ma non aveva avuto voglia di fermarsi a chiacchierare.
 Invece il secondo giorno era preparato: l’autista lo vide salire, insieme a una vecchietta e a un altro paio di ragazzi, con le fidate cuffiette alle orecchie. Se avesse potuto, si sarebbe appeso un cartello sulla fronte con su scritto “do not distrurb”.
 Ma non pisolò affatto: vide un posto vuoto ed ebbe la bella pensata di fiondarsi su quello. E se pensate che su un sedile sia più facile sonnecchiare, è perché non avete ancora visto chi è seduto al posto vicino.
 -Posso?- chiese il nostro alla ragazza che guardava distrattamente fuori dal finestrino. Quella si girò, e fu allora che Giak seppe che non avrebbe affatto dormito.
 -Certo.- Gli fece pure un po’ di spazio, sebbene non ce ne fosse bisogno.
 Giak si sedette di fianco a quella creatura, incuriosito. Non l’aveva vista bene, ma qualcosa l’aveva attirato. Gli occhi? Il sorriso? I capelli? Tanto non avrebbe potuto vederla in faccia, perché si era girata di nuovo verso il finestrino.
Abbassò lo sguardo e il volume della musica. Fissava nervoso lo zaino che aveva poggiato sulle ginocchia, senza osare muoversi.
 E l’autobus prese una curva, i palazzi di aprirono e per un tratto il sole entrò dai finestrini. Il sole delle otto di mattina, luminoso e ancora pulito. La luce si posò su Giak e sulla ragazza, che ritrasse gli occhi feriti dalla luce. Si passò le mani sulle palpebre, poi le lasciò cadere in grembo.
Giak riuscì a guardare quelle, così capì ciò che l’aveva attirato: la pelle di quella ragazza brillava. Davvero! Il sole si era posato sul dorso delle sue mani e quelle brillavano, lanciavano microscopiche scintille di luce ad ogni minimo movimento. Assurdo.
 Rimase a fissare quello spettacolo fino a quando la ragazza non se ne accorse. Giak arrossì e tornò a concentrarsi sullo zaino.
 Era la pelle più bella che avesse mai visto: chiara, morbida, brillante. Rendeva la ragazza così carina e dolce che era impossibile non pensarla durante le lezioni. Quando infatti erano scesi dall’autobus, aveva potuto osservarla per un paio di secondi: naso dritto, guance paffute, occhi scuri come i capelli che portava sciolti sulle spalle. Ma tutto, tutto era circondato da quella pelle chiara e uniforme. Non un’imperfezione, non un neo fuori posto.
 Come poteva uno essere attratto dalla pelle? Non gli occhi, non il sorriso, non i capelli, niente di lontanamente romantico. Ma. . .  quella brillava.

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Capitolo 3
*** capitolo 3 ***


-Una gnocca insomma- disse Riccardo.
 -Di più. . . era spettacolare.-
 -Ma hai visto a che fermata è scesa?- chiese Cicca.
 -Alla mia, la solita. O fa il classico o il linguistico, è l’unica scuola in centro che sia vicina a noi.-
 -Potrebbe anche fare lo scientifico. C’è il 34 che dalla fermata del classico porta lì-.
 -E prende due autobus? Nah. . . -
 -Che ne sappiamo. . . be’, non sai nient’altro su questa?-
 Giak scosse le spalle. Aveva parlato ai due della tipa sull’autobus (tacendo loro però il particolare della pelle brillante), e ora stavano decidendo come ritrovarla.
 -Comunque sicuramente la rivedi sull’autobus domani, no?-
 -Boh. . . ieri non c’era. Magari l’ha preso solo oggi.-
 -Vabbè, ieri era il primo giorno di scuola, non era un giorno normale. Aspettiamo di sapere se domani la rivedi allora?-
 -È la cosa migliore, Giak. Senza che ti ci arrovelli ancora- Cicca spense la sigaretta gettandola sui sampietrini e pestandola col piede. Poi sbadigliò:
 -Non voglio entrare!- esclamò.
 -È solo il secondo giorno.-
 -È brutto se faccio festa già da ora?-
 -Un po’. Aspetta almeno la settimana prossima. . .-
 -Giobattaaa!- Cicca troncò il discorso per salutare Margherita, che stava avvicinandosi con Lauretta.
 -Ciao Cicca. Ciao, Giak e Riccardo.-
 -Ciao- salutò anche Lauretta, mentre arrancava dietro l’amica.
  Quella mattina Margherita l’aveva trovata con un po’ più di voce, ma non bene come avrebbe dovuto stare. Le aveva chiesto come sempre se fosse successo qualcosa, ma come sempre Lauretta non aveva risposto.
 Margherita si trovava sempre in imbarazzo quando Lauretta decideva di tenersi tutto dentro. Sapeva che c’erano stati problemi a casa sua e che quell’estate i suoi genitori si erano separati. Aveva provato a starle vicino, ma Lauretta. . . era Lauretta. Quella che le taceva da sempre la stizza quando Marco la trascinava via. Però ogni tanto riusciva a farla parlare, e in genere era quando i suoi si sentivano e litigavano talmente incazzati da dimenticarsi che c’era la figlia nell’altra stanza. Solo che, con il passare del tempo, Lauretta aveva imparato benissimo a dissimulare ogni forma di turbamento. Se non la conoscevi bene, non capivi quando era triste e quando tranquilla. E se lo capivi riusciva a sviare il discorso, trascinandolo verso argomenti più leggeri. Margherita era ancora l’unica che la conosceva meglio di tutti, ma ancora non riusciva a evitare il tranello. Così, quando Lauretta le chiese di Marco e dell’avvicinarsi del loro primo anniversario, Margherita divenne tutta un frizzare.
 -Cioè ti rendi conto, un anno. . . è tanto! Sembra che siamo sposati. . . ma ormai non riesco neanche più a immaginare una vita senza lui. . . devo ancora decidere cosa regalargli. . . idee?-
 -Boooh. . .-
 -Pensavo a qualcosa che rimane, capisci? Non so, un mezzo cuore, ma lui mica può attaccarselo al collo, è patetico. . . potrei attaccaglielo io a un braccialetto, che dici? Ne ho visti alcuni al negozio che fa angolo con via Aquila, sono belli, devo  solo vedere quanto costano. . .-
 -Può andare. E tu cosa pensi che ti regalerà lui?-
 -Oh, ehm, boh. . . insomma, sarò comunque emozionatissima qualunque cosa lui mi regali, e non riesco a immaginare. . .-
 -Se lo ricorda, sì?- ghignò Lauretta.
 -Lo spero per lui! Vabbè, dopo un anno. . .-
 Grazie al cielo suonò la campanella, a salvare Lauretta dallo sforzo di trovare altri modi per allungare il discorso.
 Presero posto svogliatamente, salutando le altre compagne: adesso Lauretta era sicura che Margherita non avrebbe ripreso il discorso, impegnata com’era a ciarlare con le altre.
 Quel giorno la prof annunciò alla classe attonita che per quell’anno aveva intenzione di formare dei gruppi di lavoro. Dopo che, l’anno passato, si era ritrovata senza voti alla fine di maggio, magari aveva deciso di prevenire una situazione simile. Ma gruppi di lavoro?
 -È più semplice di quello che pensate, senza che vi scandalizziate così: siete venticinque, basta dividersi in cinque gruppi da cinque e scegliere un argomento. Ve li ho già presentati, no?-
 Con la rassegnazione, arrivò la lotta per formare i gruppi. Gente che si girava e chiamava gli amici dall’altro lato della classe, una caciara da far impallidire la prof. Mentre questa belava “silenzio, silenzio!”, Cicca aveva consultato i suoi compagni di banco e poi si era girato verso Margherita e Lauretta:
 -Gruppo?-
 -Ok- risposero loro.
 Fu così che i nostri cinque amici si garantirono un quadrimestre per avvicinarsi. Avevano avuto un anno, un cruento quarto ginnasio, ma non avevano mai pensato che tra loro sarebbe potuto succedere qualcosa. Ora invece le cose si stavano facendo più divertenti. 
 
Non appena si sentì meglio, Lauretta corse dal parrucchiere a tagliarsi i capelli. Lo faceva spesso, aveva intenzione di provare tutti i tagli corti del giornalino. Praticamente lasciava che i capelli le crescessero solo per il gusto di tagliarli di nuovo.
 Margherita disapprovava: lei, che aveva una massa informe di onde crespe sulla testa, pensava che avere dei capelli lisci e sottili e decimarli fosse una specie di affronto. Magari era anche invidiosa.
 Ma quell’anno fu Cicca il primo a vederla sotto un nuovo, arruffato caschetto; Lauretta aveva citofonato timidamente al suo campanello, e mancò poco che dalla telecamera lui non la riconoscesse.
 -Che ti sei combinata in testa?- le chiese accogliendola in casa. Lauretta sentì per la prima volta la mancanza del nascondiglio che era sempre stato sulla sua testa.
 -Sto tanto male?-
 -No, non eccessivamente.-
 Lauretta ghignò e gli tirò una gomitata, poi si guardò intorno.
 -Non c’è nessuno in casa, tu sei la prima- disse Cicca.
 -E i tuoi?-
 -Fuori. Mamma è al lavoro, papà in palestra. Abbiamo campo libero fino alle otto, più o meno. . .- la condusse in camera sua, lasciò che si accomodasse e cacciò dallo zaino un pacchetto di sigarette.
 -Non se ne accorgono se fumi?- chiese lei.
 - Nah. . . papà fuma come un turco, né lui né mamma sentono più l’odore.-
 Lauretta si rilassò e osservò la stanza del suo amico. C’era qualcosa che la caratterizzava, ma non riusciva a capire cosa.
 -Cosa c’è che non va?- chiese lui.
 -Niente. . . guardavo la tua camera.-
 -Sì, scusa il disordine. Mamma continua a dirmelo di rimettere in ordine, almeno quando ci sono ospiti, ma. . . tu mi ci immagini in una tana ordinata?- sogghignò. Lauretta sorrise.
 Sicuramente le piaceva perché era una stanza grande, almeno il doppio della sua. Lì c’era spazio a volontà da mettere a soqquadro, anche se Cicca aveva fatto in modo che sembrasse molto meno: aveva tempestato un paio di pareti con poster e bandiere, facevano addirittura angolo.
Una grande scrivania (le brillarono gli occhi a vedere quanto fosse spaziosa), un letto rifatto alla meglio, scaffali pieni di cianfrusaglie. Vestiti ovunque: sulle sedie, sul letto e sul pavimento.
 -Hard rock cafè di. . .?- chiese Lauretta avvicinandosi a una parete e osservando un poster.
 - Londra. Ma ne ho un sacco. . . me li riporta mia cugina, che lei sta sempre in giro. Giusto per farmi rosicare. . .-
 -Fico . . . - sussurrò Lauretta.
 Il citofono suonò di nuovo e arrivarono insieme Riccardo e Giak; Giak aveva offerto un passaggio a Riccardo col suo motorino, godendoselo prima che scattasse di nuovo l’ora legale.
 -Bella bestia!- commentò Cicca vedendolo.
 -Beve come un cammello- rispose Giak. Riccardo intanto si era levato il cappotto e si era stravaccato sul letto, dopo aver salutato Lauretta.
 -Manca solo Margherita?- chiese Giak.
 -Sì- rispose Lauretta.
 -E che aspetti a mandarle un messaggio?- ghignò Riccardo.
 -Non serve, eccola là- disse Cicca affacciandosi alla finestra. -Giobattaaa!- Urlò dopo averla spalancata. Margherita alzò lo sguardo, cercando il volto di Cicca senza sapere dove guardare.
-Apri!- disse quando lo trovò.
 -Giobatta Ciabatta- canticchiò allegramente Cicca. Gli amici ghignarono.
 -Eddai scemo, apri. . . - Margherita stava ridendo, lì sotto.
 -Ciabatta ciabatta- continuò lui.
 Sentirono il suono del citofono vibrare attraverso le porte spalancate quando Margherita si stancò di rimanere sotto. Se avesse saputo che i genitori di Cicca non erano in casa avrebbe lasciato il pollice su quel bottone per un bel po’, ma preferì non rischiare. Se solo avesse notato la sigaretta ci sarebbe arrivata. . .
 Un minuto dopo era salita, e stava per uccidere Cicca. Lui rideva, le tratteneva i pugni e avanzando così arrivarono in camera sua.
 -Siamo tutti ora- disse Riccardo.
 -Già. . .  ora però spiegatemi: cosa si aspetta che facciamo la prof?-
 - Roma imperiale-
 I cinque individui si guardarono negli occhi. Passò mezzo secondo, poi scoppiarono a ridere. Insomma, la consegna del lavoro di gruppo era per maggio. Che cosa ridicola era stata incontrarsi all’inizio di ottobre. 
 -Cicca, come ci sono finiti in camera tua poster dei Rolling Stones e questa spazzatura?- chiese Giak sollevando un cd di Nesly.
 -Non insultare il mio dio-.
 -I poster glie li riporta la cugina, neanche loro vorrebbero stare dove sono- ghignò Lauretta.
 -Spiritosa!-
 -Posso?- chiese Riccardo prendendo il pacchetto di sigarette.
 -A pagamento.-
 -Grazie!- anche Riccardo si accese una cicca.
 -Tiro?- Ammiccò Margherita.
 -Ciabattina, allora mentivi quando mi hai detto che tu non fumavi!-
 -Non vedo perché dovrei dirti la verità- ghignò lei. Allungò la mano verso la sigaretta.
 -Certo che le tue sigarette sono proprio bagasce- rise Giak mentre Margherita sbuffava fumo dalla bocca, -vanno con tutti.-
 -Tu niente?-
 -No no. Sono cresciuto con i miei che fumano come ciminiere, non mi piace per niente. . .-
 -Non hai mai provato?-
 -No-.
 -Bella per te. . .- borbottò Cicca.
 Giak si spostò dall’architrave della porta a cui era appoggiato e raggiunse Lauretta, rannicchiata sulla sedia dietro la scrivania.
 -Ma tu sei muta?- chiese. Lei alzò lo sguardo e guardò prima lui, poi gli altri.
 -Vi stavo ascoltando- rispose.
 -Volevi anche tu una sigaretta? Potevi dirlo prima- esclamò Cicca.
 -No no, io non fumo sul serio, mica come Margherita- sorrise. Margherita le fece una linguaccia.
 Passarono il pomeriggio stravaccati in camera di Cicca, a fumare, a chiacchierare e a scherzare. Riuscirono a prendere in giro Margherita per via di Marco (i ragazzi non volevano credere che i due stavano insieme da quasi un anno e lui si accontentava ancora di fare solo petting), e Giak infilò un po’ della sua musica nel computer di Cicca.
 -Lo so che ascolti solo spazzatura, ma almeno mi sento a posto con la coscienza- disse staccando il cavetto del suo mp3.
 Prima che i genitori di Cicca tornassero, i ragazzi cominciarono ad avviarsi verso casa. Margherita poté raggiungere casa sua a piedi, Riccardo andò via con la madre. Quando rimasero solo in tre, Lauretta sospirò:
 -Cicca, sai a che ora passa un autobus che mi riporti dove abito io?- chiese.
 -così a sangue freddo no. . . dobbiamo controllare su internet.-
 -Lascia stare. Lauretta, ti do un passaggio io- disse Giak.
 -Sul serio?-
 -Ma sì, dai.-
 Salutarono Cicca e si ritrovarono davanti allo Scarabeo di Giak.
 -Hai capito dove abito?-
 -Più o meno sì. . . rimaniamo che mi fai un segno quando devo girare?-
 -Un pizzico andrà benissimo.-
 -Bada a quello che fai, se ti allarghi troppo ti butto giù dal mio bolide- ghignò Giak. Lauretta sorrise e saltò su.
 Non si sentiva affatto a suo agio nello stare così appiccicata a Giak; era sicura che non fosse niente a che fare con lui però. Insomma, non si sarebbe sentita a proprio agio stando così appiccicata a chiunque. Lauretta aveva uno strano rapporto col contatto fisico tra lei e gli altri: fino a quando ad avvicinarsi era una persona che conosceva, come Margherita quando la salutava con un bacio sulla guancia, era tutto ok. Ma guai ad abbracciare un’altra compagna di classe. Guai ad avvicinarsi pericolosamente a un amico. Dare pizzichi e pugni andava bene purché dopo si allontanassero.
 In genere Lauretta respingeva sempre questo tipo di pensieri: pensava fossero degni di una malata di mente, e allora li teneva a debita distanza. Era già abbastanza imbarazzante arrossire dopo aver sfiorato la pelle di chi le stava intorno.
 Fu per questo che durante il viaggio verso casa si aggrappò con tutte le sue forze al sellino dello Scarabeo; Giak non dava segni di fastidio, ma lei era sicura che imprecasse contro tutto il calendario ad ogni curva.
 -Fermo, fermo!- disse quando furono nei pressi di casa sua. Giak accostò il motorino e si levò il casco.
 -Abiti qui?-
 -Sì, il mio è quel palazzo lì- indicò un palazzo di mattoncini illuminati dalla luce arancione e deprimente dei lampioni lì attorno.
 -Grazie del passaggio- disse scendendo con un po‘ di difficoltà. 
 -Figurati. Se solo ti fossi retta un po’ meglio, mi avresti evitato un sacco di biastime-.
 -Zut! Ammettilo che sono una passeggera perfetta.-
 -A piedi.-
 Lauretta cercò di dargli un pugno, ma lui lo evitò facilmente.
  -Ci vediamo a scuola domani.-
 -Ebbene sì. . .-
 -Ciao Laure’.-
 -Ciao Gia’.-
 Lauretta si voltò mentre lui si rimetteva il casco. Cacciò le chiavi dalla tasca, districando il portachiavi dalle cuffiette dell’mp3, e finalmente riuscì a rientrare in casa sua. 
 Siccome sua madre non sarebbe tornata per cena, era ancora tutto buio lì dentro. Lauretta si affrettò ad accendere la luce: non era paura quella che sentiva, ma inquietudine. Il buio non la spaventava, ma farsi luce solo con la fievole luce del cellulare le metteva addosso un’ansia per niente piacevole.
Quando entrò nella cucina debitamente illuminata fu più tranquilla. Sprofondò nella vecchia sedia a dondolo e si concesse il piacere di un Tex, mentre si cullava dolcemente vicina a un termosifone. La sedia a dondolo era appartenuta a sua nonna, sedere su quella mentre si scaldava al termosifone faceva tanto vecchietta reumatica, ma era quanto di più vicino al paradiso potesse anelare in quel momento. Lei e Tex.
 Non le passò neanche per la testa di mangiare qualcosa, sebbene prima di uscire sua madre le avesse lasciato carne a scongelare e pasta da cuocere. Non aveva affatto fame. . . nei mesi scorsi, oltre ad aver perso il sonno, non mangiava neanche più di tanto. Se a propinarle pranzo e cena erano i genitori allora mangiava, gustava anche il cibo, ma, se loro non c’erano, la sola idea di cucinare le faceva passare la voglia di mangiare.
 Se sua madre l’avesse saputo, probabilmente si sarebbe preoccupata. Ma perché dirglielo? D’alta parte, mica faceva qualcosa di sbagliato. Risparmiava solo cibo e soldi, con questi chiari di luna. . .
 Sua madre tornò dopo un paio d’ore; Lauretta la sentì salire le scale e si affrettò ad andarle ad aprire.
 -Hai mangiato?- chiese lei, dopo averla salutata.
 -Sì, ma non avevo voglia di cucinare, quindi prima di ritornare mi sono fermata  a prendere una pizzetta al taglio. . .-
 -Ti basta?-
 -Sì. Uno non ci crede, sembrano pezzi piccoli ma riempiono.-
 -Bene allora. . . come è andata dal tuo amico?-
 -Abbastanza bene… non abbiamo concluso niente- Lauretta si strinse nelle spalle e sorrise.
 -Mi raccomando, badate a quello che fate. Com’è che si chiama questo tipo?- chiese la madre prendendo il posto sulla sedia a dondolo che la figlia aveva liberato. 
 -Non lo conosci. Si chiama Michele.-
 -Ah. No, non lo conosco.-
 -Già. . . Ma’, io vado a nanna.-
 -Ok. Hai sonno. . . non dovevi aspettarmi per forza.-
 -Lo terrò a mente, la prossima volta- Lauretta sorrise ancora, poi augurò la buonanotte e, tempo cinque minuti, si era già avvolta nelle coperte.

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Capitolo 4
*** capitolo 4 ***


C’era anche da dire che, per andare da Cicca, Lauretta non aveva studiato poi così tanto le altre materie -oltre a quella che avrebbero dovuto fare. Risultato: nella cacca più totale, tentava un disperato quanto inefficace ripasso seduta su un blocco di cemento che faceva da lunga panca attaccata al muro della scuola. Era appena passata a latino, dopo aver messo da parte geografia. Se non altro si era svegliata presto, abbastanza da prendere l’autobus prima del solito, ed ora aveva ancora quaranta minuti prima della campanella. Con un labbro tra i denti, cercava di memorizzare i verbi deponenti, senza successo.
 -Aloa! Stai messa così male?-
 Lauretta alzò lo sguardo, e si ritrovò davanti Giak. Annuì:
 -nella cacca più totale.-
 -Ma stai tranquilla. . . inizia proprio oggi ad interrogare, non è detto che becchi proprio te-.
 -Le ultime parole famose. . .- Lauretta non lo ascoltò e tornò ai verbi. Giak balzò sul muretto.
 - Com’è che sei a scuola a quest‘ora? Non c’è nessuno.-
 -Mi sono svegliata troppo presto. Vengo spesso a quest’ora- disse lei distrattamente.
 -Ti svegli spesso così presto? Ma sei fuori?-
 -Che ci posso fare se non ho sonno.-
 Giak la fissò per un attimo preoccupato, poi decise di lasciarla in pace. Frugò dentro il suo zaino e cacciò il diario.
 -Posso?- le chiese alzandolo.
 -Fai fai.-
 Giak aprì il diario e scorse le pagine, ma non c’era niente di interessante. Le pagine erano tristemente vuote, Lauretta aveva appuntato solo i primi compiti. Decise di rimediare.
Mentre la proprietaria ripassava, lui cacciò i suoi fidati pennarelli dallo zaino e cominciò a disegnare sul diario dell’amica.
 -Wow- disse lei quando capì che anche per il latino avrebbe potuto fare ben poco.
 -Ti piacciono?- chiese Giak.
 -Sono spettacolari. Cos'è questo?- chiese indicando un disegno.
 -È il simbolo dei Rolling Stones! Possibile che tu non lo conosca?-
 -Non ho la cultura della musica, io-.
 -Che delusione. . .-
 Lauretta gli fece una linguaccia, poi rimise tutto nello zaino.
 -Non sapevo che fossi così bravo a disegnare- gli disse.
 -Non ti allargare. . . scarabocchio solo un po’. Tu invece, fai qualcosa?-
 Lauretta lo guardò di sbieco, e lui si affrettò ad aggiungere:
 -Non so, disegni, suoni, scrivi. . .-
 - Oh. . . oh! No, in realtà niente di niente. Sono abbastanza noiosa.-
 -Ma dai, non è detto.-
 -Hai qualche altro disegno?- chiese lei. Giak si morse il labbro:
 -Ehm, non qui.-
 -Quanti ne hai?- adesso Lauretta sorrideva.
 -Boh, non so. . . alcuni album, due o tre.-
 -Accidenti! Un giorno me li fai vedere? Ti prego!-
 -Se proprio ci tieni. . .-
 -Sono fighissimi. Sei bravo! Non sapevo disegnassi.-
-E io non sapevo che tu fossi così mattiniera- ghignò lui. Lauretta gli diede un pugno, e si rilassò contro i mattoni dietro di lei.
 -Diciamo che, in un anno nella stessa classe, ci siamo rivolti dieci parole, così facciamo prima- sorrise.
 -Sì, ma tu volevi startene sempre per i fatti tuoi. . .-
 -Non è detto che abbia smesso.-
 Giak rimase un attimo spiazzato, poi sorrise.
Ok, stiamo per arrivare alla fine di quella catena di scelte che hanno determinato il loro destino, ma un paio ne mancano. Perché in quel momento Giak decise di fare di testa sua e di non farsi da parte, come avrebbe fatto in circostanze normali. Invece di scusarsi e levare il disturbo, incrociò le braccia con fare da gran dritto:
 -Andiamo, ammettilo che ti diverti a stare con me- disse.
 Lauretta lo fissò da sotto il suo nuovo caschetto arruffato, poi si ricordò che, se avesse continuato a mantenere quella smorfia, Giak avrebbe potuto pensare di sbagliarsi.    
 -Sei mostruoso- ghignò.
 -Ah, lo vedi?- lui le tirò una gomitata. Lauretta rise, poi controllò l’ora. Già alcuni autobus avevano scaricato le prime moli di studenti che ora si avviavano verso il bar, o si radunavano in campanelli vicino ai motorini di chi ancora non si faceva vincere dal bastardo freddo mattutino.
 -Ecco Cicca e Riccardo - disse Lauretta guardando due soggetti che attraversavano la strada, trascinandosi dietro zaini più vuoti che pieni.
 -Cicca!!- Urlò Giak. I due si voltaron e Riccardo li indicò. Si avvicinarono.
 -Salve gente! Pronti per l’inizio delle interrogazioni?- chiese Cicca.
 -Come no. Ma tanto abbiamo Riccardo che va volontario, vero?- Giak ammiccò al vicino di banco.
 -Ti dirò, se li accettasse andrei, almeno mi levo le prime interrogazioni. Ma quella carogna vuole fare sempre di testa sua. . .-
 -Chi ha il pane non ha i denti. . . Insomma, siamo nella cacca.-
 - Lauretta? Tu come stai messa?- Cicca si voltò verso di lei, ma Lauretta si limitò a scuotere la testa. Adesso stava cominciando a preoccuparsi. Sentiva un groppo alla gola al quale ancora non aveva imparato ad abituarsi. Questione di tempo, povera ragazza: è noto che, quando il cuore comincia ad avere un po’ di complicazioni, il libretto dei voti è il primo ad accorgersene. Ma, insomma, cominciare da subito mi sembra un po’ esagerato.
 -Planning dei prossimi cinque minuti: accompagnare Cicca a comprare un cornetto e poi presenziare alle lezioni. Se volete però possiamo rivedere il secondo punto.- Cicca ammiccò allusivo.
 -Eddai, non si può da subito. . .- disse Giak.
 -È già passata una settimana! Vabbè, andiamo verso il cornetto intanto.-
 Lauretta e Giak scesero dal muretto, lei scivolando, lui con un balzo, e insieme agli altri due amici entrarono al bar, già gremito di gente.
 -Voglio quel cornetto con la nutella- disse Cicca alla barista, indicando il vetro dietro al quale soffici paste, ripiene e non, giacevano una sull’altra.
 -Lo mangi qui?- chiese la donna.
 -No, lo metta in una busta, lo mangio a scuola. . . ’sti qua vogliono farmi entrare per forza- Cicca si strinse nelle spalle.
 -Ragazzi, già volete fare festa? Andate a studiare, va’- la barista sorrise bonaria a Cicca e gli porse una busta di carta da sopra la vetrina degli zuccheri.
 -Grazie! Ciao!- lui condusse gli altri fuori da quell’amalgama di zaini.
 -Mancano meno di dieci minuti. Siete sicuri che vogliamo entrare?-
 - Giak, hai più visto la tipa?- Riccardo decise di ignorare l’amico.
 -Sì, sempre sull’autobus, ma c’era talmente tanta gente che l’ho vista solo quando siamo scesi.-
 -Oh Giak, chi è?- chiese Lauretta.
 -Una- fu la risposta secca di lui. Lauretta sporse il labbro inferiore, piccata.
 -Chi?-
 -Tranquilla Lauretta, è solo una tua rivale nel cuore di Giak -. Lauretta tirò una gomitata non proprio delicata a Riccardo.
 -A questo ci ero arrivata, ma volevo sapere chi è. Magari la conosco!-
 -Anche se fosse, non la conosce lui, quindi non saprebbe neanche dirti il nome-.
 -Un colpo di fulmine??- Lauretta scoppiò a ridere.
 -Oh andiamo, è solo una tipa che. . .-
 -Bona- disse Lauretta.
 -Ecco. Ma niente di che. . .-
 Lauretta lo guardò con fare allusivo, annuendo come se fosse un passo avanti.
 -Senza che mi presenti quella faccia, è come ho detto io-.
Lauretta continuava a sorridere. Giak le diede una spinta amichevole che la sbilanciò, facendola quasi finire contro il cancello della scuola, e così conclusero il discorso.
 
 Margherita non era venuta a scuola quel giorno. Lauretta avrebbe potuto mandarle un messaggio durante la lezione, ma non ne aveva voglia; magari aveva deciso di rimanere a casa per evitare le interrogazioni. La conosceva abbastanza e non era la prima volta che lo faceva: con la media che aveva avuto l’anno precedente, i genitori le concedevano qualche piccola coccola.
 -Giobatta carogna!- bisbigliò Cicca.
 Ma i quattro poterono tirare un sospiro di sollievo un quarto d‘ora dopo, perché nessuno tra loro fu tra i prescelti che, con una faccia degna di condannati a un soggiorno gratuito ad Alcatraz, si avviarono verso la cattedra. La professoressa giaceva dietro di essa, soddisfatta di poter finalmente tornare a torturare quegli studenti che aveva lasciato l’estate precedente in balia del cazzeggio. Come se volesse farli tornare in carreggiata, non aveva esitato a cominciare subito con quegli interrogatori su argomenti che aveva appena spiegato. Punto in favore degli imputati: gli argomenti non erano molti. Meno tendenza ad inventare.
Era la mattina di un sabato quella a cui stavano cercando di sopravvivere i nostri protagonisti. Sopravvivere è la parola giusta: perché dopo l’interrogazione -scampata per una botta di fortuna non indifferente-, li aspettavano due cruente ore di ginnastica. Non si rendevano ancora conto della loro fortuna (erano ginnasiali, diamine! È noto come al ginnasio si esca praticamente tutta la settimana a mezzogiorno: quale estremo privilegio era quello di trascorrere metà mattinata in palestra!) quindi continuavano a lamentarsi per quella materia di cui alla fine non interessava niente a nessuno, e del fatto che le autorità superiori l’avevano ficcata proprio di sabato. Avrebbero capito solo l‘anno seguente, quando ormai sarebbe stato troppo tardi. Ma, diciamocelo, ogni motivo è buono per lamentarsi. E ho già detto come Lauretta detestasse le lamentele: in quel momento, circondata da compagni di classe che palesavano il loro disappunto, facendo a gara a chi riusciva a trovare più lati negativi, sentiva di stare per esplodere. Non c’era neanche Margherita con cui parlare d’altro.
Approfittò del fatto che il prof di ginnastica non era ancora arrivato per sgattaiolare in bagno, lontano da tutti. Non appena si chiuse la porta di un gabinetto alle spalle, si sentì più tranquilla. Aspettò che gli echi del ciarlare a cui aveva appena assistito si spegnessero, poi tornò in classe.
 - Maria Laura, aspettavamo te- disse il prof con un certo disappunto.
 -Scusi. Ero in bagno- rispose lei.
 -Avresti dovuto chiedere il permesso.-
 Se avessi avuto davvero necessità di andare in bagno, prima di trovarla per chiedere il permesso me la sarei già fatta sotto.
 -Ok, scusi.- Tornò al suo banco e si mise lo zaino in spalla.
 -Eh, avresti dovuto chiedere il permesso- ghignò Riccardo mentre si avviavano disordinatamente verso la palestra.
 -Gné gné.-
 -Ma stai bene? Te ne sei scappata così di botto. . .-
 -Alla grande. Ehi, dovevo andare in bagno e rientrare prima che arrivasse il prof, mica potevo fare con calma. . .- Lauretta sorrise.
 -Tanto ha comunque fatto prima lui.-
 -Un margine di errore concedimelo. . .-
 Lauretta si allontanò per raggiungere le ragazze della classe e accaparrarsi una fettina di panca nello spogliatoio. Prima che entrasse e le altre ragazze chiudessero la porta, Giak la vide con un paio di compagne e scosse la testa:
 -Non avrebbe dovuto tagliarsi i capelli- disse ai due amici.
 - Nah, è carina anche così- disse Riccardo.
 -’nsomma. Comunque è troppo magra. Direi che per le prossime due ore abbiamo ben altro su cui concentrarci. . . avete visto che pantaloni attillati porta la Clementi?!- Cicca sorrise soddisfatto.
 Perché come al solito i ragazzi non capiscono quanto possa essere imbarazzante per le ragazze cedere alla tuta: c’erano quelle che si trovavano a loro agio, ma in genere erano poche, e poi il gruppo più nutrito che ha della tuta la stessa considerazione del pigiama. Ma in genere sia le componenti del primo sia del secondo gruppo non si sentivano particolarmente tranquille ad esibirsi in improbabili piegamenti davanti ai compagni di classe. E i ragazzi ancora non capivano che con la tuta non si provoca: quelle che -volontariamente- lo facevano, godevano di scarsa considerazione da parte delle altre.
 Nel liceo classico di Polverano girava la leggenda di un prof di ginnastica estremamente volubile: bastava che la classe non lo considerasse e rinunciava a fare lezione. A volte aveva i suoi sbalzi di responsabilità e faceva tirar fuori gli step (una volta una ragazza era quasi stramazzata al suolo dopo una sfacchinata con quegli attrezzi), ma capitare nella classe dove il suddetto insegnava era ritenuta una fortuna.
 Diverso era il caso nella classe dei nostri: qui il prof si faceva rispettare a forza di esercizi sfiancanti. La sfida era superare le due ore di lezione e sembrare ancora eleganti.
 -Lavori a stazioni- annunciò quell’omone i cui muscoli avevano cominciato a contendersi il primato con una sempre più evidente pancetta da birra. Ammiccò a vari attrezzi che aveva sparso per terra, cerchi, bacchette e birilli. La classe li osservò atterrita.
 -È anche più facile del solito: nei cerchi dovete saltare. Ai birilli dovete correre a zig-zag. Alle bacchette voglio uno skip a ginocchia alte. E “ginocchia alte” vuol dire che le ginocchia devono essere alte. Cominciate a riscaldarvi un po’, poi cominciate.-
 Siccome lo spazio era ridotto, il prof aveva avuto la bella pensata di disporre le file di esercizi lungo i lati della palestra. In quel modo, la fila dei martiri che aspettava di zigzagare tra i birilli cominciava proprio nella zona d’atterraggio di chi balzava nei cerchi, e quelli che aspettavano di farlo all’altro capo si mischiavano con i compagni reduci dall’esilarante zig-zag tra i birilli. Correre e allo stesso tempo evitare gli attrezzi era un’utopia. Quando, infine, una ragazza scivolò su una bacchetta, il prof decise che era il caso di porre fine a quella corsa rattoppata. Fischiò e divise la classe in gruppi, assegnandone ognuno a un esercizio.
 Lauretta capitò con altre compagne ai cerchi: per cominciare bene, insomma.
 -Non ne ho voglia!- disse una di loro.
 -Già. . .- rispose lei. Non aveva voglia di essere scortese, quindi le sorrise. La ragazza restituì il sorriso, poi alzò gli occhi al cielo e cominciò a saltellare comicamente. -Sono troppo distanti!- Urlò ammiccando ai cerchi.
 -Allunga i salti!- ruggì il prof.
 -Ma ho detto che sono troppo distanti, non ci arrivo!- rispose la ragazza quando arrivò alla fine. Si affrettò a tornare dalle altre.
 Ripeterono gli esercizi per un paio di minuti. Poi seguì un nuovo fischio, e se li scambiarono: Riccardo andò allo zig-zag, Cicca e Giak passarono ai cerchi, Lauretta di malavoglia allo skip.
 -Oh, ora si che ci divertiamo!- esclamò.
 -Spero che il reggiseno regga- ghignò una compagna.
 -Sssh, ti dovessero sentire quei maniaci!-
 -Tzé, farebbero bene a tenere i pensieri al posto loro.-
 -Non solo quelli. . .-
 -VIA!- il prof fischiò di nuovo. Lauretta prese mentalmente nota di fargli  ingoiare il fischietto, un giorno o l’altro.
 Lo skip passò relativamente tranquillo, merito anche della sua modesta seconda, forse. Di sicuro glie ne fu grata. Arrivò all’ultima bacchetta, fece dietro-front e tornò dalle altre. Aspettò che tornasse il suo turno, troppo sfinita per chiacchierare. Solo che non aveva fatto i conti con le bestie maniache della sua classe, che stavano balzando dentro i cerchi alla sua sinistra talmente tanto pesantemente da far tremare il pavimento. Se le ragazze, almeno le più carine, erano sembrate gazzelle, quelli erano quanto di più vicino a dei bufali.
I bufali avanzavano nella direzione delle ragazze, poi si bloccavano giusto in tempo e tornavano indietro. Spettacolo abbastanza brutto alla vista, ma all’apparenza sicuro.
 Se non fosse che uno dei bufali era quasi scivolato su un cerchio, spostandolo di una ventina di centimetri. Quello era riuscito a cavarsela, ma non ad avvertire in tempo Giak, appena dietro di lui. Giak si ritrovò spiazzato, allungò il salto, entrò nel cerchio e fece appena in tempo a slanciarsi in avanti per non sbilanciarsi. Fomentato, quasi volò oltre l’ultimo cerchio, ma tanto era concentrato su quello che non si rese conto di cosa o chi fosse davanti a lui. Tipo Lauretta.
 La nostra martire, sudata e sfinita, era interessatissima ai lacci delle sue scarpe (si divertiva a cercare nuovi modi di intrecciarli e sfilare le scarpe senza strecciarli, ma c’era bisogno di tecnica per tale arte. . .)
 Sentì un bufalo spiacevolmente appiccicoso piombarle addosso ma, prima che potesse accorgersi di quello che era successo, finì per terra col bufalo addosso.
 -WOOOW!!!- sentì esclamare, poi un vago dolore dalle parti della schiena. Giak pesava.
Prima di districarsi, dovettero capire cosa fosse successo; Lauretta si trovò il volto di Giak a meno centimetri di quanto fosse lecito. Era rosso e luccicante, coi lunghi capelli che lasciavano intravedere solo alcuni dettagli. Il naso. La bocca. Gli occhi. Sembrava non avesse guance, però Lauretta riuscì a cogliere anche una leggera barba che cresceva dispettosa sotto il mento.
 -Scusa!- esclamò lui. Rotolò sul pavimento, liberandola da quel peso. Nel frattempo i loro compagni di classe si erano fermati ad osservare la scena.
 -Ti sei fatta male?- chiese avvicinandosi.
 -Hai cercato di uccidermi!- Lauretta si abbandonò contro la parete della palestra e, senza curarsi del dolore alla schiena, scoppiò a ridere.
 -Scusa, non l’ho fatto apposta. . .-
 -Killer! Assassino! Sicario!- Lauretta continuò a ridere, poi si fermò: -tranquillo, sto bene. Però sei sudato da far schifo.-
 -Giacomo, ma tanto ci vuole a saltare dentro dei cerchi senza far male a nessuno?- il professore si era avvicinato.
 -Ma guardi il cerchio, s’è spostato ed era troppo lontano. . .-
 - Maria Laura, riesci ad alzarti?- chiese poi senza curarsi della risposta di Giak. Lei si alzò in piedi, tenendosi una mano sulla schiena. Neanche la sua maglietta era proprio elegante, ma non raggiungeva i livelli di Giak.
 -Tutto ok-.
 Tornarono a saltellare sugli attrezzi, scambiandoseli di nuovo in modo che ogni gruppo eseguisse tutti gli esercizi. Lauretta andò più d’accordo con la sua schiena dopo un quarto d’ora. Nel frattempo, si ritrovò a fissare Giak con una curiosità che non provava da tempo. Lo vedeva saltare, zigzagare e far finta di alzare le ginocchia sulle bacchette, osservandolo con un pizzico di preoccupazione; come era stato strano stare appiccicata a lui. Disgustoso, sì, ma anche strano. Nuovo. D’altra parte, era la prima volta da tempo che qualcuno l’abbracciava. Perché, in un certo senso, quello era stato un abbraccio.
 - Lauretta e Giak! Lasciate che vi dia la mia benedizione, figlioli- ghignò mezz’ora dopo Cicca a Lauretta, mentre uscivano dai rispettivi spogliatoi.
 -Ti spezzo le gambe e ci gioco a shangai- rispose annoiata lei.
 -Poi io le uso come stuzzicadenti e alla fine te le infilo su per il. . .-
 -Naso!- Lauretta fece appena in tempo a correggere Giak.
 -Oh ragazzi, non siate così suscettibili. . . è una bella cosa!-
 Giak arricciò l’angolo della bocca in su: -oh, ma tu non lo sai che in realtà io e Lauretta abbiamo una tresca da tempo.-
 -Infatti, arrivi tardi. Io sto solo con Giak - Lauretta riuscì a stare al gioco.
 -Cosa?- Riccardo era arrivato, sentendo solo l’ultima parte della conversazione. I tre si guardarono divertiti, poi Lauretta prese sotto braccio Giak:
 -Ebbene sì-. Scoppiarono a ridere.
 -Mi state prendendo in giro. Brutte caccole che altro non siete!- Riccardo si finse offeso.
 -Non stiamo scherzando!- Giak abbracciò Lauretta e la strinse a sé. Lei rise.
 Riccardo e Cicca cominciarono a sfottere: se solo qualche mattina prima non avessero sentito Giak parlare della ragazza sull’autobus, si sarebbero preoccupati di quella vicinanza con Lauretta. Però l’avevano sentito, e avevano anche notato una cosa che, per non ledere il suo orgoglio, non gli avevano detto: mentre parlava di quella tipa, gli occhi gli brillavano in maniera talmente zuccherosa che ci era voluta tutta la loro buona volontà per non sfotterlo. 

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Durane quel paio di settimane le cose erano andare avanti di un micron tra Giak e la ragazza dell’autobus: erano già due volte che il posto di fianco a lei era libero, e entrambe le volte Giak l’aveva occupato. Il micron era il fatto che la ragazza non era sembrata infastidita, anzi, una volta aveva pure abbozzato una specie di sorriso. Tanto era bastato per gasare Giak.
 Ma ora era sabato: il sabato non è un giorno qualunque, non per chi ha il resto dei pomeriggi soffocati da improbabili compiti per casa. E, finalmente, Giak e un altro paio di amici erano riusciti a rintracciare il vecchio vicino di banco steccato, Fressino. Si apprestava a uscire con lui, mentre Cicca e Riccardo si davano a una delle loro serate etiliche, Lauretta sconsolata si imbucava con la cugina e le amiche di quest’ultima e Margherita, saltate allegramente le lezioni, come al solito raggiungeva l’ormai famoso Marco.
 
 Adesso erano le sei della sera di un sabato di inizio ottobre: le foglie si staccavano pigre dai rami, e scricchiolavano piacevolmente quando le calpestavi. Non era scattata l’ora legale, quindi Polverano era ancora illuminato da un sole che non vedeva l’ora di raggiungere il turno accorciato. La luce bianca filtrava da dietro le nuvole, passava attraverso i rami sempre più spogli degli alberi e giungeva su una panchina di pietra. Sulla panchina c’erano due ragazzi: lei era piacevolmente pienotta (se ne rendeva perfettamente conto, quindi non faceva finta di ignorarlo costringendosi in vestiti che la facevano somigliare all’omino Michelin), aveva i capelli mossi domati da una pinzetta e gli occhi perfettamente truccati. Lui era alto abbastanza da permettere alla ragazza, talvolta, di portare i tacchi. Mascella squadrata e labbra sottili.
Margherita passò un dito tra i ricci di Marco, poi sorrise:
 -Allora, li raggiungiamo stasera Cicca e gli altri?- chiese.
 - Mmm. . . dove?-
 - All’Aquilotto, il pub dietro la piazza.-
 -A far che? Lì è pieno di gentaglia. . .-
 Margherita sbuffò, ritirò il dito e alzò gli occhi al cielo:
 -È per stare un po’ insieme! Che ti importa del posto.-
 -Infatti non me ne importa niente- Marco sorrise enigmatico. -Ma io voglio stare con te. . . senza altri. . .- le fece l’occhiolino. Margherita era ancora stizzita, ma non se le sentì di perseverare.
 -Oh, quanto sei snob. . .- si appoggiò sul suo petto. Lui le carezzò i capelli:
 -È per questo che ti piaccio- ghignò.
Margherita non rispose; in realtà era proprio il suo snobismo a non piacerle, ma lasciava correre. Dopotutto, recuperava con mille altri pregi… ce ne aveva messo prima di trovare un ragazzo che le carezzasse i capelli. Nessuno badava più a dolcezze simili, voleva tenersi stretto un ragazzo così speciale. Però quella sera non aveva proprio voglia di una pizza romantica. Voleva andare con i suoi amici e ridere a squarciagola con loro, non ridacchiare lusingata con Marco.
 -Piccola. . .- Marco le carezzò la guancia e la baciò. Fu a quel punto che Margherita si sciolse: restituì il bacio appassionata, avvinghiandosi sempre di più al suo lui. Voleva stare il più stretta possibile a Marco, e al diavolo quelle vecchiette che li guardavano con sguardo di rimprovero.
 -Che vuoi fare stasera? Pizza? Ristorante?- chiese lui.
 -Oh ti prego, ristorante no. Al massimo cinese-. In realtà Margherita non si era mai sentita a suo agio nei ristoranti, se era sola con Marco. Sembrava una cosa così sofisticata, romantica nella maniera dei adulti. E Margherita non voleva sembrare adulta. Le andava benissimo avere sedici anni e le andavano benissimo le serate in pizzeria. Però non l’aveva mai detto a Marco; a lui piaceva vederla arrossire. E chi era lei per negargli quel piccolo divertimento?
 Ok, Lauretta la odiava per quello. Le diceva che se non voleva fare qualcosa semplicemente poteva non farla, invece di allietare sempre Marco. Aveva come l’impressione che a Lauretta Marco non stesse molto simpatico. Si conoscevano ovviamente: entrambi sapevano molto l’uno dell’altra tramite Margherita, per il semplice fatto che erano due delle persone più importanti nella sua vita. Ma ogni volta si scrutavano con sospetto, senza parlare molto. 
 -Andata per il cinese-.
 -Andata- Margherita sorrise: trovavano sempre un compromesso ragionevole. E lei era talmente felice con lui da sentirsi in grado di fronteggiare tutte le perplessità che sorgevano sulla loro storia.
 
 Tipo quelle che sollevarono Cicca e Riccardo all’Aquilotto: non credo sia il caso di ripeterle, basti sapere che li stavano facendo spisciare dalle risate.
Fu così che li trovò Giak: seduti con un’altra manciata di amici a un tavolino, un bicchiere di superalcolico misto a succo di frutta davanti a ciascuno e le risate che sgorgavano a fiumi.
 -Bestie, di che ridete?- fu il suo modo di salutare. Loro spiegarono. Giak arricciò il labbro verso l’alto:
 -Iniziamo le scommesse: cinque euro che si lasciano prima di Natale-.
 -Bella!- Riccardo strinse la mano di Giak, e Cicca spezzò il giramento.
 -Allora, novità? Che dice il vecchio Fressini?- chiesero quando Giak rubò una sedia dal tavolo vicino e si sedette.  
 -Niente di speciale. Cazzeggia tutto il tempo, non apre libro. . . bello eh?-
 Cicca strusciò le punte delle dita tra loro: -io almeno se mi prendo un sei so che è mio, non dei ding ding dei miei-.
-Da quando prendi sei?- ghignò Riccardo.
 -Ovviamente intendo per il secondo quadrimestre! Nah, durante il primo non ci sono problemi- sogghignò.
 -Lauretta viene?- chiese poi.
 -Non so- rispose Giak, -aveva detto che ci avrebbe fatto sapere, ma non si è fatta viva. . .-
 -Bah, peggio per lei. Ma se Margherita sta con quel pettinato, Lauretta che fa il sabato sera?- questo era Riccardo.
 -Mi pare di aver capito che sarebbe uscita con la cugina-.
 -Oh-.
 Seguirono istanti di silenzio, poi Cicca sogghignò:
 -Comunque, Giak, bella mossa stamattina in palestra. Hai rischiato di ucciderla, ma sei stato un grande- alzò le sopracciglia con fare allusivo.
 -Oh, piantala. È stato un incidente-.
 -Seee. . . allora, hai palpato?-
 -Cicca!-
 -Eddai! Vuoi dirmi che non ci hai fatto un pensierino? Ragazzo, guarda che si vede lontano un miglio che vi state studiando. Lei sembra interessata. . .-
 -Lauretta? Ma stai scherzando?-
 -Giuro!-
 Giak si voltò verso Riccardo, sperando in qualche aiuto, ma lui si limitò a stringersi nelle spalle:
 -Non gli sei indifferente, poco ma sicuro-.
 -Andiamo, ma avete presente di chi stiamo parlando? Lauretta!-
 -Io ho sempre detto che non è male- borbottò Cicca, -poi fa’ come ti pare-.
 -Ma dai Cicca, lui ha la mente rivolta all’altra-.
 -È vero. A proposito, l’avessi tante le volte incontrata oggi pomeriggio?-
 -Forse. Ho visto una che le somigliava, ma non sono sicuro che fosse lei. Comunque ho deciso, lunedì mattina se la becco le parlo. Qualcosa inventerò, insomma, o la va o la spacca-.
 -Bravo Giak! Così si che ci piaci. Adesso però bevi qualcosa, sì?-
 -Tra un po’, ma solo una birra. Oggi pomeriggio ho litigato di nuovo coi miei, se sentono anche solo uno spiffero d’odore d’alcol potrebbero mangiarmi-.
 -E perché hai litigato?-
 Giak si mise più comodo sulla sedia:
 -Niente di speciale. Le solite storie. . . niente di non soffocabile con un po’ di musica-.
 
 In realtà ce n’era voluta molta, di musica. Durante il pomeriggio aveva discusso per l’ennesima volta con i suoi, e solo perché non volevano lasciarlo andare con il motorino quella sera. Una faccenda oltremodo stupida: se solo fossero stati più fiduciosi, più elastici e ragionevoli, si sarebbe potuta risolvere in un’armonia da far invidia ai tipi del Mulino Bianco.
Ma, ovviamente, sua madre era stata irremovibile: non è più estate. Fa freddo. È sabato sera, ci sono un mucchio di ubriachi.
 Era bastato che lui si opponesse per far scattare il finimondo; come se i genitori non ritenessero accettabile che lui avesse da ridire, erano saltati su a rinfacciargli l’estate durante la quale era tornato a casa solo per dormire e mangiare, lo studio che erano sicuri avrebbe preso sottogamba. . . ma l’apice fu quando suo padre tirò fuori la puzza di fumo che era sicuro di sentire sui suoi vestiti. A quel punto Giak era sbottato, con somma delizia del fratellino più piccolo (aveva sette anni e gli brillarono gli occhi quando vide Giak urlare contro i genitori).
 -Smettetela di arrampicarvi sugli specchi, se non vi fidate di me allora sono problemi vostri!-
 -Sono problemi tuoi invece, giovane. Sei tu che devi fare in modo di farci fidare!- ribatté il padre.
 -E come, quando tu ti immagini di sentire puzza di fumo e mi accusi senza sapere niente? Fammi il piacere!-
 Giak si era ritirato nella camera che condivideva con i fratelli -e a quel punto il più piccolo non aveva più gli occhi che brillavano: adesso era sicuro che non ci sarebbe potuto rientrare fino a quando Giak non fosse uscito- e aveva trovato l’altro fratello, quello dall’età indefinibile (più o meno tredici anni) sdraiato sul letto. 
 -Sparisci- gli aveva detto. Quello alzò lo sguardo dal suo fumetto, poi fece finta di ignorarlo. Disse solamente: -io sto qui quanto mi pare-.
Giak si limitò a recuperare la felpa che aveva indossato quel pomeriggio a casa di Cicca e ad annusarla: ok, erano passati un po’ di giorni, ma non puzzava assolutamente di fumo. Non lo accusassero più di cose che non faceva.
Si buttò sul suo letto e mise un cd nello stereo. La musica partì, facendo sbuffare il fratello. Giak alzò ancora, e ancora. Il pidocchio chiuse il fumetto e scivolò giù dal letto:
 -Tanto ti fanno abbassare- disse prima di uscire, come una vendetta dispettosa per averlo infine cacciato. Giak non lo ascoltò, ma arricciò gli angoli della bocca: finalmente solo.
 Odiava stare in quella casa, se tutti i componenti della sua famiglia erano presenti. C’erano poche stanze e tutte neanche troppo grandi, per cinque persone (delle quali un adolescente e uno che stava per diventarlo). Si soffocava, e non potevi neanche sentire un po’ di musica in pace. Infatti:
 -Giacomo, abbassa!-
 Le urla non tardarono molto. Giak le ignorò deliberatamente, concentrandosi sugli strumenti.
 -Giacomo!-
 Oh, andate al diavolo. Non fa mai male un po’ di musica.
 -Giacomo! Mi hai sentito? Ho detto di abbassare il volume!-
 -Lasciami in pace, voglio sentire la musica!- urlò a suo padre.
 Quello gli concesse la seconda traccia fino alla fine, poi cedette alla pazienza e irruppe nella cameretta:
 -Per quanto hai intenzione di fare quello che ti pare?- chiese abbassando il volume della musica.
 Giak era ancora sdraiato sul letto, senza neanche essersi levato le scarpe, e non si mosse quando suo padre entrò. Però inspirò, prese coraggio e buttò fuori quel gorgo di irritazione che gli si era incastrato in gola:
 -Non ho neanche cominciato- disse.
 -Abbassa i fari. Ti stai giocando il sabato sera-.
 -Oh, davvero?- Giak si alzò di scatto. -Sentite, io non chiedo niente di speciale, solo di potermi levare dalle scatole per più tempo possibile-.
 Suo padre sospirò: forse stava rimpiangendo il bambino pronto a tremare se avvertiva uno schiaffone vibrare nell’aria, ma che ormai era diventato un ragazzo alto parecchi centimetri più di lui. Giak ne era sicuro, e gli piaceva: lo faceva sentire estremamente potente.
 -Tanto non potrai fare sempre come ti pare. Arriverà il giorno in cui qualcuno ti rifarà faccia- minacciò suo padre.
 -Oooh, che paura- sibilò Giak facendo una smorfia. Vide suo padre sbattersi la porta alle spalle e, dopo essere ricaduto sul letto, alzò di nuovo il volume della musica. Che scarica di adrenalina.

Grazie a Dio quel sabato era quasi finito: Lauretta non si stava divertendo proprio per niente.
 Margherita era stata sequestrata da Marco, come a solito, e lei era rimasta con una serata da buttare. Non che non avesse altre amicizie, ma non aveva voglia di imbucarsi in altri gruppi. Stava quasi per rimanere in casa, quando l’aveva chiamata sua cugina.
Sara era un anno più giovane di lei, come tutte le sue amiche oramai andava per i quindici: era di una bellezza inquietante, diafana e quasi elegante. Lauretta la conosceva da quando era nata, ma ancora si stupiva di quanto spettacolari fossero i suoi occhi: erano blu, un blu talmente assurdo da sembrare cielo, acqua, zaffiro. Chiaro e compatto, circondato da un bordo scuro che lo impreziosiva ancora di più. Tuttavia, sebbene fossero gli occhi più belli in circolazione, a Lauretta non piacevano poi così tanto. Li trovava quasi terrificanti, le dava fastidio guardarci dentro. Era come se la scandagliassero, ogni volta si sentiva perquisita. Da aggiungersi il fatto poi che Sara guardava tutti come se volesse effettivamente perquisirli. Era una di quelle ragazzette -come tutte le sue amiche. . . brrr- con immensi fiocchi di plastica tra i capelli e borsette impreziosite da strass. Guardandola, a volte Lauretta avvertiva pesanti complessi di inferiorità: lei mica sapeva truccarsi così perfettamente come Sara. Né riconosceva i ragazzi visti una sola volta, come Sara. E, soprattutto, i ragazzi non la guardavano come guardavano Sara (ovviamente, l’ultimo punto lo liquidava facilmente: il genere di ragazzi che andava dietro a Sara non le interessava minimamente).
 In ogni caso Sara l’aveva chiamata, come faceva spesso, per invitarla ad uscire con le sue amiche. Lauretta ci aveva pensato un po’, poi aveva deciso di raggiungerle.
 Era un ripiego che usava spesso, dato che Sara la considerava un interessante oggetto si studio: la cugina più grande, uno spettacolare esempio di come non diventare. Lauretta non ne era minimamente scocciata: prima di tutto stiamo parlando di sua cugina. Non avendo fratelli o sorelle, teneva molto a quel legame di sangue con una sua quasi-coetanea. In secondo luogo, stiamo parlando di Sara: capelli piastrati e occhi pesantemente truccati, Hogan ai piedi e pantaloni attillati. Per come era fatta Lauretta, non trovava molto da invidiare. Per finire, con Sara poteva parlare e, soprattutto, stare in silenzio, senza aver paura di sembrare una cretina, forte del suo status di maggiore-del-gruppo.
  Lauretta si infilò un paio di jeans e una felpa: adatta al sabato, insomma. Lo trovava quasi divertente: in mezzo a ragazzine che anelavano a un paio di tacchi per andare a ballare la sera (peccato, ancora troppo giovani!) lei distruggeva le loro illusioni e si ostinava a girare casual. In ogni caso, lei di certo non sarebbe andata a ballare: al limite, avrebbe raggiunto Giak e gli altri all’Aquilotto, ma non ne era neanche tanto sicura. Quel fine settimana avrebbe dovuto dedicarlo ad altro.
 -Lauretta!- la salutò Sara, mimando bacetti sulle sue guance. Lauretta sentì un piacevole profumo e la morbidezza del fondotinta.
 -Ciao- salutò la cugina e un paio di altre amiche. Tutte e tre avevano i capelli perfettamente lisci, il medesimo ciuffo altrettanto liscio, giacche e pantaloni simili. Lauretta rifletté che, se prese singolarmente, sarebbero sembrate carine. Ma forse era il caso di piantarla con quella misantropia: meglio fare buon viso a cattivo gioco.
 -Margherita?- chiese Sara mentre si incamminavano per il Corso.
 -Con Marco, come al solito. La settimana che viene fanno un anno-.
 -Un anno! Wooow!-
 -Accidenti, deve essere una cosa seria- disse una delle due amiche.
 -Bah, forse anche troppo-.
 -Tanto tra un po’ si scocciano. Io non ci starei con un ragazzo per così tanto tempo. L‘amore non esiste- questa era la terza amica.
  Uccidetemi! A Lauretta bastò quello per farle passare la voglia di trascorrere un pomeriggio da bimbamichia con quelle tre. Delle quali una era talmente vissuta da non credere nell’amore.
 -Andiamo al Bahamas!- propose Sara. Le amiche furono d’accordo, e si trascinarono dietro Lauretta. Lei stava già rimpiangendo di aver accettato l’uscita, e cercava tra la folla qualche eventuale conoscente a cui potersi accollare.
 Il Bahamas era un bar, incastrato in un angolo tra due vicoletti, stracolmo di gente. Erano le sei di un sabato pomeriggio, quindi gran parte della gente erano ragazzini della stessa età di Sara, se non più piccoli. Lauretta ebbe voglia di piangere, e cominciò ad escogitare una via di fuga.
 -Prendi qualcosa?- chiese Sara mentre si appollaiavano su un tavolo lasciato libero da una coppietta. Lauretta scosse la testa.
 Le sei diventarono le sette, e loro erano ancora al bar, scambiandosi pettegolezzi e chiacchierando del più e del meno. Lauretta non partecipava alla conversazione, si limitava ad ascoltare e a cercare con lo sguardo qualsiasi cosa che le desse la possibilità di defilarsi: un’amica, un amico, un appuntamento inventato di sana pianta. . .
 Alle sette e mezza, come da copione, le ragazze uscirono. Lauretta ebbe paura che potessero chiederle di rimanere a cena fuori, quindi fu rapida a perdere la faccia, pur di non dover cedere:
 -Sara, io devo tornare a casa: oggi devo stare con papà. . .- disse.
 -Oh, non rimani a prendere una pizza con noi? Tra un po’ arrivano pure i ragazzi- rispose lei.
 -Davvero, mi spiace, ma devo proprio andare. . .- Lauretta fece di tutto per sembrare desolata sul serio. E che Sara non pensasse di spingerla a rimanere con il fatto che presto sarebbero arrivati i ragazzi, perché li conosceva: truzzetti con i pantaloni calati e le facce ancora rotonde, i capelli pieni di cera e i sorrisi smaglianti.
 -Oh, ok allora. . . vuoi che ti accompagniamo alla fermata dell’autobus?-
 -Tranquille, non fa niente, non voglio farvi perdere tempo. Ci sentiamo, ok?-
 -Ok. . . ciao Lauretta!- le tre amiche la baciarono sulle guance. Lauretta sorrise, salutò e si girò. Tirò un sospiro di sollievo e, prima che le tre potessero recuperarla, si lanciò a passo di marcia verso la fermata del suo autobus.
 Ora che si stava facendo buio, la gente era aumentata. Lauretta salutò un po’ di persone, molto più tranquilla a parlare con quei conoscenti che con sua cugina. A chi le chiedeva cosa ci facesse sola, diceva che tornava a casa perché la mattina dopo si sarebbe dovuta alzare presto, quindi non era il caso di far tardi la sera, eh già, un vero peccato. . .
 Saltò sull’autobus dopo aver liquidato un paio di amici con cui si era intrattenuta alla fermata. Si arrotolò a uno dei pali di sostegno e riuscì finalmente a rilassarsi. Pensò che era una cosa buona, dato che in realtà l’autobus su cui era salita stava filando nella direzione opposta a quella di casa sua.
 Quando bussò alla porta del padre, questo l’accolse con un sorriso accogliente:
 -Lauretta, vieni. Sabato sera a casa?- chiese. Lei fece finta di ignorare quel fondo di malinconia.
 -Non c’è niente di interessante da fare in giro. . .-
 -Che hai fatto nel pomeriggio?-
 -Sono uscita con Sara-.
 -Ti sei divertita?-
 -Bah, abbastanza. . .-
Lauretta si abbandonò su un divano.
Questi erano i patti: dal lunedì al venerdì con la madre, sabato e domenica col padre. Solo che, se con sua madre abitava ancora nella casa in cui era cresciuta, suo padre era tornato a vivere nell’appartamento che aveva affittato a una coppia di studenti universitari. Gli studenti avevano fatto le valigie e lui era tornato dove aveva abitato prima di sposarsi.
La casa era graziosa, ma era passato meno di un anno da quando suo padre era tornato ad abitarci: ancora non era personalizzata con l’odore di fumo e le ditate sul muro che invece avevano subito abbandonato la casa di sua madre. E quando si trovava lì, Lauretta veniva presa da una sorta di malinconia che, abbinata a un sabato sera deludente, minacciava di farla deprimere più di quanto già non fosse.



Io volevo solo ringraziare chi è arrivato fin qui. Dopotutto un po' ci tengo a questa storia, ma ancora di più tengo a sapere cosa ne pensa il mondo... su, non siate timidi, fate felice questa povera illusa :)

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Capitolo 6
*** capitolo 6 ***


Quando Giak uscì di casa, il lunedì mattina, era quasi elettrizzato. Non aveva un’idea precisa in mente, ma sentiva che avrebbe potuto far succedere qualcosa. C’è chi aspetta il caso per far accadere qualcosa nella propria vita, e chi no: Giak apparteneva alla seconda categoria.
 L’autobus si fermò al suo cenno. Giak salì, trascinandosi lo zaino dietro e, mentre le porte si richiudevano e l’autobus partiva, si diresse verso il fondo.
La ragazza luccicante era lì: seduta sempre allo stesso posto, e il sedile a fianco era vuoto come al solito, sebbene ci fosse gente in piedi. Giak fece un bel respiro:
 -Posso?- chiese. La ragazza alzò lo sguardo dal libro che stava leggendo e sorrise:
 -Certo-.
 Giak si sedette e allungò uno sguardo verso il libro.
 -Ultimo ripasso?- chiese. Questa volta la ragazza, prima di rispondere, lo guardò incuriosita.
 -Oh, sì. Geografia-.
Giak era abbastanza cauto da soppesare bene se fosse il caso di aggiungere altro, poi però riuscì a riflettere rapidamente: se la ragazza non avesse voluto essere scocciata, si sarebbe fermata a “oh, sì”. Indi per cui:
 -Bella rogna. A che punto siete arrivati?-
 La ragazza gli mostrò il libro:
 -Stati Uniti. Sono più o meno venti pagine, e io ne so la metà-.
 Giak prese il libro e lo sfogliò.
 -Bè, ti è andata bene: puoi sempre rifilare alla prof tutte le notizie che suonano bene, ma che non c’entrano niente-.
 -Boh, la mia prof è furba come un gatto-.
 -Oh. . .-
 Giak rimase in silenzio.
 -Come ti chiami?- chiese a un tratto lei.
 -Giacomo. Però puoi chiamarmi Giak. E tu?-
 -Alessandra. Però puoi chiamarmi Alex- sorrise e gli porse la mano.
 Finalmente il nostro uomo riuscì a toccare quella pelle spettacolare: era squisitamente liscia e morbida, tanto che si vergognò della sua mano sudaticcia.
 Alex gettò un’ultima occhiata al libro di geografia, poi lo infilò nello zaino.
 -Credo che ormai non serva più a niente ripassare, mi si fonde solo il cervello. E poi, l’anno prossimo si finisce-.
 -Fai il classico?-
 -Già. Tu?-
 -Idem-.
 E poi potete facilmente immaginare il seguito del viaggio: due tipi che chiacchierano cautamente, uno che cercava di nascondere il nervosismo alla meglio, l’altra che invece lasciava trasparire la curiosità palesemente. Com’era giusto che fosse. Voi ancora non potete saperlo, ma parlare con Giak faceva uno strano effetto: sembrava uno di quei ragazzi burberi dai capelli troppo lunghi (buffo, in un’epoca in cui i ragazzi preferiscono girare con bocce da biliardo al posto della testa), che rivolge la parola solo alla sua stretta cerchia di amici.
Invece Giak parlava volentieri, al di là del fatto che con quella ragazza fantasticava un dialogo da un paio di settimane. E, soprattutto, la sua cerchia di amici non era poi così stretta.
 
 La prima cosa che fece fu raccontare il suo successo a Cicca e Riccardo. I due lo ascoltarono sogghignando, senza badare a quello che succedeva intorno a loro.
Era ora di religione, dopotutto: insegnare religione al classico di Polverano è controproducente, si sa.
 Dietro di loro, Margherita e Lauretta chiacchieravano tranquillamente. In realtà Margherita avrebbe voluto anticiparsi gli esercizi di matematica (altra materia altamente facoltativa), ma c’era Lauretta vicino a lei che non ne aveva la minima intenzione. E poi si erano aggiunte anche altre compagne, per cui concentrarsi era più o meno impossibile: molto meglio rimanere a chiacchierare.
 -Lauretta, che bel taglio che hai! Ti stanno bene i capelli così- disse Monica.
 -Grazie-. Lauretta ci andava cauta a parlare con Monica: aveva un tono di voce così sofisticato da metterla in soggezione.
 -Mi sa che pure io me li vado a tagliare, ma non così corti- aggiunse un’altra.
 -Sono così belli i tuoi capelli. . .- Anna accarezzò la cascata bionda della tipa che aveva parlato.
 -Sono pieni di doppie punte! E con l’estate si sono rovinati-.
 Lauretta sbadigliò e tirò un pizzicotto a Margherita. Lei però lo incassò con un certo stoicismo e non smise di chiacchierare con le altre. Adesso stavano parlando della tirocinante che la prof di matematica si trascinava dietro da un po’ di lezioni.
 Lauretta si alzò, pensando di andare a cercare argomenti più interessanti da Giak e gli altri. Con un po’ di rossore a imporporarle le guance.
 Ok: io, che so perfettamente cosa passava per la testa di Lauretta, posso garantire che non si stava affatto innamorando. I sintomi erano molto simili; i tipi come lei si innamoravano in silenzio, senza che nessuno se ne accorgesse, e di persone che non rientravano nei canoni comuni. Ma lei era convinta di non correre rischi con Giak. L’amore era l’ultima cosa a cui avrebbe ceduto.
 Giak stava chiacchierando con Cicca e Riccardo. Lei si puntellò sul banco, sorridendo:
 -Che si dice da queste parti?- chiese.
 -Niente- si affrettò a rispondere Cicca. Lauretta si inginocchiò sul pavimento:
 -Dai, di là non si fa che parlare di doppie punte e della tirocinante-.
 -Quella? Spero che non voglia imparare davvero a insegnare matematica dalla vecchia strega- ghignò Riccardo.
 -Oh, tanto stiamo parlando di matematica. Diventerà comunque una cariatide-.
 -Perché non sei con la Ciabattina?- chiese Cicca.
 -Mi annoio-.
 -Ti annoierai pure qui-.
 -Perché, di che si parla?-
 I tre si guardarono brevemente.
 -Andiamo. . .-
 -Che c’è?- Lauretta ora era palesemente incuriosita.
 -È che Giak non ti vuole qui perché stiamo parlando della sua nuova donna- ghignò Cicca. Giak arrossì e, con fare incazzato, allontanò la sedia dal banco. Gli atri due risero e lo spintonarono, ma Lauretta aveva già interrotto alcune sinapsi.
 -Buona fortuna- disse alzando il naso e cercando di darsi contegno. Raggiunse Margherita e si incastrò di nuovo nella conversazione. Con un nuovo fondo di inquietudine, questa volta. Oddio. Non mi piace quest’inquietudine.
 -Oggi Marco mi ha chiesto di uscire- le disse Margherita.
 -Ah sì? E per far che?-
 -Così. . .-
 -La fortuna di abitare in centro- borbottò Lauretta.
 -Eddai. . . comunque, non mi va tanto-.
 -Eeeeh?!- ci volle un po’ perché Lauretta credesse a quello che aveva sentito.
 -Mi devono tornare, sono nervosa. . . E poi abbiamo tanti compiti-.
 -Bè, diglielo-.
 -Eh. . . ho paura che ci rimanga male-.
 -Margherita!- esclamò Lauretta. Margherita la guardò un po’ vergognosa.
 -Sì, sì, lo so, è una cosa stupida. Ma ora ho voglia di vederlo, ora invece no. . .-
 -No, te lo spiego io: tu non hai la minima intenzione di uscire con lui, ma lo faresti solo per non scontentarlo-.
 Margherita corrugò le labbra: a volte odiava Lauretta, quando faceva la saccente in quel modo, però era la verità. Poco da obiettare, insomma.
 -Ehm. . . quindi, che faccio?-
 Lauretta alzò gli occhi al cielo, poi le diede una sonora pacca sulla coscia, cacciandole un’esclamazione di dolore.
 -Che fai? Lo molliii!!!-
 
 Giak non si aspettava di rivedere Alex sull’autobus del ritorno, e infatti non c’era. Ma si promise di cercarla su facebook: fonte insaziabile di informazioni, il social network più famoso del mondo poteva essere una potenziale arma di sterminio. Provate a inventare la prima scemata che vi viene in mente e pubblicatela su Face, poi divertitevi a vedere che succede.
 Comunque, Giak rientrò in casa e salutò svogliatamente sua madre. Lei rispose dalla cucina, presa dai fornelli, e Giak ebbe tutto il tempo di appollaiarsi davanti al computer e collegarsi a internet. Uscire da scuola due ore prima dei pidocchi garantiva vantaggi per nulla trascurabili.
 Scrisse “Alessandra” e poi “Polverano”. Ovviamente al primo colpo ne apparvero centinaia. Aggiunse il nome del liceo che frequentavano. La lista si accorciò. Poi cercò le ragazze della sua età o di un anno più giovani: le ginnasiali, insomma.
Eccola.
Alessandra Gametti, quattordici luglio. Non aveva capito da subito che era lei perché la sua foto era una squadra di pallavolo al completo, ma adesso che era entrato nel profilo la certezza aumentava sempre di più; andò dritto alle immagini del profilo, e. . . wow. Questa sì che era lei.
Ok, si faceva le foto da sola, ma almeno non in bagno. L’unico brutto effetto era quella prospettiva che ingigantiva il braccio teso davanti a lei, ma che importava di un braccio, quando la proprietaria era splendente anche in fotografia? Giak sorrise e le inviò una richiesta d’amicizia. Poi scorse attentamente le foto e ne salvò un paio sul pc. Quelle più belle e, soprattutto, meno modificate.
Le stampò, usando due fogli di stampante (e perdendo tutti i colori, dato che la loro vecchia stampante non prevedeva l’uso di cartucce colorate. . . ma non era un problema) e le cancellò dal computer. Poi si mise al lavoro.
 Quando prese l’album di fogli da disegno, si ricordò che Lauretta aveva chiesto di vedere alcuni dei suoi schizzi, ma si promise di pensarci in un secondo momento. Adesso aveva già preso il suo astuccio dallo zaino, e cominciò a seppellire le foto stampate sotto una griglia di quadratini.
Quei ritratti avrebbero richiesto tutto il suo impegno: Giak non sapeva come sarebbe continuata con Alex, ma non voleva lasciare nulla di intentato con quella ragazza. 
 -Che disegni?- Il pidocchio di circa tredici anni era rientrato.
Giak stava lavorando così appassionatamente da non essersi neanche accorto che sua madre era uscita per andare a riprendere l’ultimo fratello a scuola. Però fu rapido a far sparire le foto e il disegno sotto i gomiti.
 -Fatti i fatti tuoi- rispose. Ovviamente quello non si diede per vinto:
 -Eddai voglio vederlo! Che problema hai?-
 -Che sono cose mie e che tu non te ne devi interessare-.
 -Dai dai dai!- Il pidocchio cercò di spostare i gomiti del fratello dal foglio, ma Giak vantava tre anni e chili di muscoli in più. Ciò non gli impedì di infuriarsi:
 -Deficiente, me lo fai macchiare! Spostati!-
Ma ora il bambino troppo cresciuto si stava divertendo, e non smetteva di spingere. Giak alzò gli occhi al cielo e quel briciolo di pazienza che gli era rimasto (che in realtà era solo preoccupazione che il disegno si rovinasse e che il moccioso notasse il soggetto appena abbozzato) fece fluf!; Giak si alzò, sovrastò il fratellino e lo prese per i polsi.
 -La smetti o no di rompere?- ruggì spingendolo all’indietro. Il pidocchio cominciò a saltellare per cercare di recuperare terreno, ma Giak non era certo un fuscello. Tre anni di nuoto lo avevano dotato del giusto quantitativo di muscoli da sfruttare quando ce n’era il bisogno.
Torse le braccia del fratellino e fece per scaraventarlo sul divano.
 -Ahia, AHIA!- Cominciò a urlare quello. Giak lo buttò tra i cuscini, facendogli scombinare tutta la fodera.
 -Idiota, fai male!- Il moccioso rifletté se continuare la lotta, ma decise che era meglio di no: la madre sarebbe tornata a momenti.
 -E ringrazia che non ti ho riempito di botte-. Giak radunò le foto, il disegno e l’astuccio, poi si rinchiuse in bagno. Magari lì avrebbe potuto disegnare senza che nessuno lo disturbasse.
 -Si può? Me la sto facendo sotto!- ecco, anche l’ultimo fratellino era appena tornato, e già rompeva. Giak alzò gli occhi al cielo, poi spalancò la porta. Il bambino sussultò.
Giak non lo insultò come avrebbe fatto con il pidocchio grande: il piccolo gli riusciva quasi simpatico. A volte era una vera scocciatura, soprattutto quando doveva andarlo a riprendere a scuola, ma era davvero figo: aveva sette anni e un caschetto di capelli che ondeggiava ad ogni movimento della testa. E, cosa più importante, lo idolatrava come solo i fratellini di molto più piccoli possono fare. Tanto bastava a fargli evitare le botte che Giak scaricava sul pidocchio grande.
 Continuò a disegnare tutto il pomeriggio, ma la soddisfazione andava via via appassendo. Sì, la figura che stava uscendo era vagamente familiare, ma non somigliava affatto a Alex; forse era perché con la matita non era possibile replicare lo splendore della sua pelle. Giak alzò il naso dal foglio e contemplò il disegno: era una ragazza qualunque, ma non Alex. Però…
 Giak cancellò i capelli che aveva disegnato -e che comunque non lo soddisfacevano abbastanza- e li sostituì con un taglio corto e arruffato. Così somigliava molto di più a Lauretta.
Mise il disegno nell’album e lo infilò nello zaino: sarebbe stato carino portarlo a lei. Non era il suo intento originario, ma avrebbe fatto contenta un’altra persona, almeno.
 Magari va meglio con la seconda foto, pensò Giak. La seconda se l’era fatta Alex da sola: se nella prima appariva a mezzo busto, in questa si vedeva solo un viso perfettamente truccato e quell’odioso braccio. Ma non aveva voglia di disegnare ancora: per quel giorno aveva dato abbastanza. Avrebbe continuato un’altra volta.

Praticamente Giak non era mai solo: ok, suo padre tornava dal lavoro la sera tardi, ma nel frattempo a riempire quella casa troppo piccola ci pensavano i fratellini. Facevano talmente tanto casino che sua madre non si notava neanche; più che altro lei si ritirava nella cucina abitabile, suo regno incontrastato, per supervisionare il pidocchio piccolo mentre faceva i compiti e contemporaneamente seguire i programmi della Rai. Il pidocchio medio trascorreva il tempo nel salotto, davanti al computer o, meno spesso, sui libri della scuola media che l’anno prossimo avrebbe rimpianto.
Giak, potente della sua condizione di primogenito, aveva colonizzato la camera da letto che condivideva con i fratelli: era lui ad avere l’esclusiva del letto singolo, scampando al letto a castello, e sempre lui aveva una scrivania tutta per sé. Tappezzava le pareti con i poster dei suoi cantanti preferiti (quello dei Sum 41, trovato a Porta Portese durante un’uggiosa domenica mattina, aveva il posto d’onore) e i fratelli se possibile evitavano di entrare quando lui metteva su uno dei cd. Spadroneggiava, ma era una sorta di ricompensa per un onere gravoso, ovvero il dover badare ai due pidocchi. Capitava che la madre si assentasse spesso, per star vicina alla nonna in paese ottuagenaria, e allora entrava in gioco lui.
 
 La situazione di Lauretta era quasi l’opposto: nella casa dove abitava lei (principalmente quella della madre, ma spesso anche quella del padre) c’era un silenzio quasi pesante. Non c’erano fratelli a fare casino, e Lauretta trascorreva molto del suo tempo da sola (anche sua madre lavorava fino al pomeriggio, ma si liberava sempre il prima possibile). Era abituata a spazi tali che, vedendo il buchino in cui era costretto Giak, rabbrividirà. Ma non so a chi dei due sia andata meglio: Lauretta aveva conosciuto talmente tanto bene il silenzio da aver paura di tutto. O almeno, era arrivata a quella conclusione; si rendeva conto di essere estremamente paurosa, e le piaceva pensare che quel suo tratto potesse essere collegato alla quiete in cui stava crescendo.
 Le sue non erano fobie: poteva rimanere ore ad osservare un insetto senza rabbrividire, riusciva a camminare nel buio senza provare altro che una leggera inquietudine, non soffriva nello stare rinchiusa in spazi angusti. Ma aveva paura di tutto il resto. Le fobie esistono perché nella mente del fobico sono un pericolo per la sopravvivenza (pericoli inspiegabili e spesso ridicoli, ma da quando tutto quello che succede nella mente ha un senso?), e invece Lauretta aveva paura di quello che avrebbe potuto compromettere il suo futuro. La atterrivano i rapporti con la gente. Le decisioni. Il non sapere la direzione della sua vita. E, essendo atterrita, preferiva non muoversi.
 A parte questi pensieri inquietanti, si considerava abbastanza normale, solo con i capelli corti (era ancora stupidamente orgogliosa del suo taglio).
 Quel pomeriggio per la testa le passarono diversi pensieri, girando come se fossero in un a rotonda: precedenza a chi sta dentro, entrare solo quando non sta passando nessuno. Doppia rotonda, quindi percorribile in entrambi i sensi. E per un pensiero che usciva, ne entravano il doppio.
 Pensava a Margherita e Marco: era arrivata al punto di sperare che si lasciassero. Margherita le aveva confidato che il sabato prima Marco l’aveva portata a cena fuori, mentre lei avrebbe preferito andare all’Aquilotto dagli altri; era bastata quella piccolezza a porre un altro tassello al mosaico che le rendeva Marco antipatico. E poi, era convinta che a lui di Margherita interessasse una cosa sola, per la quale l’amica non era affatto pronta.
 Pensava a Sara, a quel tipo con cui si stava sentendo e che le aveva indicato sabato: entrambi erano abbastanza svelti da far pensare a Lauretta che non avrebbero avuto gli stessi problemi di Marco e Margherita.
 Pensava a Giak e ai suoi disegni: le piacevano molto. In realtà le piaceva molto anche Giak. Non nel senso traslato, ma nel vero significato dell’espressione; Giak era diverso dagli altri ragazzi, in un certo senso più originale. Lauretta si chiese chi potesse essere la sua ragazza, dato che Cicca aveva menzionato una certa donna.
 Pensò anche al tipo che quell’estate ci stava provando con lei, al mare. Quel ciociaro evidentemente non pensava che lei fosse troppo magra, come tutti. In realtà non lo pensava neanche Lauretta: nell’intimo, era convita di essere spiacevolmente pesante. Si sedeva e sentiva come chili e chili di corpo che si abbandonavano sulla sedia, e ogni volta si convinceva che non sarebbe riuscita ad alzarsi di nuovo.
 
 Cicca invece mangiava come un maiale. Si stravaccava sul divano, lui, Futurama e un pacco di biscotti, e raggiungeva il nirvana.
 Lui non si faceva troppi problemi: se aveva voglia di cazzeggiare, cazzeggiava. Se voleva mangiare, mangiava (complice il suo sistema di metabolismo funzionante alla perfezione, che non lo faceva ingrassare di un grammo). Se voleva uscire, usciva: lui che abitava in centro non aveva problemi. Magari raggiungeva Riccardo, ma più spesso succedeva il contrario.
Questo perché Cicca aveva una fortuna quasi assurda: la vecchia casa in cui abitavano era vecchia e spesso fredda (d’estate rigenerava, d’inverno assiderava) e, cosa alquanto scomoda, le stanze erano tutte collegate tra loro: Cicca non si fidava a trattare i suoi loschi affari in camera sua, dato che si affacciava su quella dei genitori. Però quella casa era particolarmente comoda per un altro aspetto; era costituita da due ali, una vecchia e una nuova, ma in pratica veniva abitata solo nella parte nuova. E quella vecchia… bè, regno incontrastato di Cicca. Quale luogo migliore per invitare gli amici? Un ampio locale adibito a salotto e una scaletta in ferro battuto verso una mansarda che avrebbe conquistato Margherita e Lauretta.
 Era un ottimo posto per andare a fumare; aveva tutto il tempo per far sparire le sigarette prima che i genitori arrivassero per chiamarlo a tavola. Ciò vuol dire che il tempo in cui non vegetava sul divano, si sparava musica e nicotina lì sopra.      
 
 Per Riccardo quella era un’ottima cosa: poteva rifugiarsi nella mansarda di quel borghesone di Cicca ogni volta che dalle sue parti le cose rischiavano di esplodere.
 Non che alla fine ci andasse sempre: durante le vacanze era quasi ospite fisso, ma ora era cominciata la scuola, avrebbe dovuto studiare. In qualche modo avrebbe dovuto imparare le cose da suggerire agli amici.
 Eppure a volte sentiva un bisogno di staccare la spina a cui la sua camera singola non riusciva a rimediare. Tutta colpa di suo fratello.
Mauro Moraschini era una leggenda per tutti: per i suoi compagni di classe (soprattutto per le ragazze), per i ragazzi di Polverano, per i parenti, per i genitori. Era all’ultimo anno di scuola e, prendendola saggiamente alla leggera, dedicava gran parte della giornata alla sua chitarra e al suo gruppo.
 Non era particolarmente simpatico a Riccardo. Se erano da soli a volte riuscivano a parlare come due normali fratelli, ma bastava che intervenisse uno qualunque dei genitori per far saltare i nervi al secondogenito. Loro stravedevano per Mauro. Pensavano fosse talmente perfetto da esserne orgogliosi all’ennesima potenza, e poco importava di quell’altro tipo che si aggirava per casa senza una funzione precisa. Magari nella vita avrebbe sfondato, magari no. Tanto c’era Mauro a compensare il suo anonimato.
 Per un po’ Riccardo aveva tentato di mettersi in una luce altrettanto buona, e guardate che risultati: media dell’otto punto quattro agli scorsi quadri. Ma non era servito poi così tanto. Il ginnasio è facilissimo. Bugia. Ma che ne sapevano loro? Non immaginavano neanche che Riccardo si stava letteralmente corrodendo di gelosia.
 
 Gelosia, gelosia. Era la gelosia che rendeva Marco quello che era? Margherita era confusa. Stava bene con lui, eppure…
Quel pomeriggio aveva trascorso giusto un paio d’ore con lui. Passeggiando vedeva gli amici che scherzavano, mentre lei si era inzuccherata come si deve per vederlo sorridere e abbracciarla. E lui aveva effettivamente sorriso, l’aveva abbracciata e l’aveva anche baciata. A quel punto aveva dimenticato tutto, ma solo per quei brevi minuti.
 E poi era tornata a casa. Si era messa a studiare e dopo aveva chiamato Lauretta.

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Capitolo 7
*** capitolo 7 ***


Here I am! Scusate per il ritardo... in genere pubblico ogni giovedì (sto cercando di darmi una regolata) ma l'ultimo giovedì è stato fin troppo movimentato e da allora in poi la mia prerogativa più impellente è stata quella di diventare maggiorenne. Ora che ce l'ho fatta (coraggio, ora recensite, almeno per farmi gli auguri! Ahahahah *_*) sono tornara dai miei cinque allegri brigadieri. Buona lettura gente! :)



Avevano completamente dimenticato il progetto di storia e Lauretta era arrivata al punto da disperare un’altra riunione come la prima a casa di Cicca. Un po’ le dispiaceva: era stata bene con loro. La sua vita era sempre stata in casa, poi con Margherita, poi ancora i sabati pomeriggio con Sara, e non ne era per niente soddisfatta. Invece con Giak e gli altri si era divertita, anche se aveva parlato poco.
 Quella mattina era arrivata presto come al solito, ma non aveva nessuno a farle compagnia stavolta. Vedeva i ragazzi che si riunivano davanti alla scuola da un lato della strada e al bar dall’altro lato. Sulle strisce pedonali, si alternavano le macchine e i ragazzi che attraversavano.
 Incontrò Margherita, dopo altri dieci minuti che era rimasta seduta sul muretto a gambe incrociate. Non si stava affatto annoiando, anzi, stava osservando i monumentali graffiti con cui qualche mano ribelle e talentuosa aveva ornato il muro di cemento dietro la scuola, ma fu contenta lo stesso di avvicinarsi a lei. È sempre curioso vedere una tipa sola soletta in mezzo a tanti suoi simili.
 -Ciao-
 -Lauretta!- Margherita le diede un bacio sulla guancia.
 -Ciao Lauretta- disse Marco, sbucando da dietro di lei. Lauretta non si era accorta di lui.
 -Lo sai greco? Io non ci ho capito praticamente niente…- Margherita li condusse verso un tavolo del bar miracolosamente vuoto.
 -Allora figurati io…-
 -Cosa state facendo di greco?- chiese Marco.
 -Abbiamo cominciato il sistema verbale…-
 -Oh, ahahah! Divertitevi, il peggio deve ancora venire-.
Margherita gli diede una finta gomitata, e lui l’abbracciò. Lauretta non avrebbe voluto essere lì. Sapeva che era il suo posto, con la sua migliore amica, ma stare vicina a quei due non la faceva sentire a suo agio. Roteò gli occhi all’indietro.
 -Come sei simpatico- disse a Marco.
 -Ascolta un veterano, piuttosto. Non perdere neanche una lezione; se inizi a perdere il filo ora, non capirai mai niente dei verbi in greco-.
 -Uh…- Lauretta si voltò e esaminò i gruppi di ragazzi con lo sguardo. Il cuore le fece una capriola di sollievo quando vide Giak con alcuni compagni di classe.
 -Vado a salutare Giak. Venite?- chiese. Senza neanche aspettare una risposta (scontata, dal momento che Marco avrebbe tenuto Margherita con sé per farle ancora un po’ di coccole) si alzò e si avvicinò agli altri amici.
 -Ciao Giak-.
 -Proprio te cercavo! Ho una cosa da darti-. Giak fece scivolare lo zaino a terra e fece saltare le chiusure; cacciò un album da disegno e glie lo porse.
 -Disegni!- esclamò Lauretta.
 -Solo uno… gli altri devo ricacciarli, e non ne avevo voglia ieri- Sogghignò. -Però puoi tenerlo questo. È uscito così e ti somiglia, quindi…-
 Lauretta prese il disegno e lo guardò stupefatta. Era un suo ritratto. Tratti di matita si incrociavano tra loro e il risultato era proprio lei, senza ombra di dubbio. Arrossì e si sentì imbarazzata.
 -Oh, grazie…-
 -Prego, figurati. È stato divertente-.
 -Oooh Giak, che dolce. E poi dici che non ci provi con Lauretta!- questo era Riccardo, appena arrivato con Cicca.
 -Andiamo, quanto siete noiosi! Non ci sto provando con lei-.
 -Dai povera. Magari ci spera e ci è rimasta malissimo ora che hai detto così- Cicca passò un braccio attorno alle spalle di Lauretta e l’abbracciò bonariamente.
 -Ovvio, non mi vedi? Giak mi ha appena spezzato il cuore- ghignò lei. Un paio di compagni di classe sorrisero.
 -Ma poi scusa, tu non sei occupato? L’altro giorno parlavate di una certa tipa…-
 Cicca e Riccardo scoppiarono a ridere, mentre Giak arrossì.
 -Ehm, non proprio- rispose. Poi si illuminò:
 -Ehi!- esclamò rivolto a Cicca e Riccardo -l’ho trovata su facebook! E ieri sera mi ha accettato!-
 I due amici smisero di ridere: -serio? Avete anche parlato?- chiese Riccardo.
 -Un po’, però si è messa subito offline. E solo del più e del meno…-
 -Ma chi è questa?- si intromise Lauretta. Moriva di curiosità.
 -Nessuno- rispose Giak. Lauretta sbuffò: non capiva perché Giak fosse così riservato. Cosa cambiava per lui metterla al corrente di quello che voleva sapere?
 -Ma la conosco?- avrebbe continuato a tentare, poco ma sicuro.
 -Uuuh-.
 -Andiamo, così potrei anche pensare di sì!-
 Giak continuò a non rispondere e gli altri due seguirono il suo esempio.
 Cominciarono a dirigersi verso l’entrata della scuola e i ragazzi lasciarono cadere l’argomento. Lauretta non si sentiva tranquilla ad entrare nella conversazione, anche perché ora avevano cominciato a parlare dei vari bar e locali di Polverano, materia in cui lei non era ferrata. Ringraziasse Sara e i suoi stupidi pomeriggi al Bahamas. Rimase ad ascoltare, mentre entravano in classe e si disponevano tra i banchi. Margherita ancora non era arrivata, ovviamente.
 -Per domani abbiamo già un sacco di compiti!- Stava dicendo Cicca. -Sentite un po’, ma se oggi pomeriggio ci vediamo a Pizzetta e portiamo un po’ di esercizi ciascuno? Non vorrete davvero farli tutti…-
 -Per me è ok…- Riccardo alzò le spalle. Per lui andava tutto bene, purché non rimanesse in casa. Pizzetta poi era un posto tranquillo, una piazzetta incastrata tra i vicoli di Polverano che doveva il suo soprannome al forno di pizze al taglio di fronte, l’unico luogo pubblico attiguo.
 -Non contate su di me. Io devo rimanere a casa…-
 -Perché Giak?-
 -Non c’è mia madre. Devo tenermi i pidocchi. Papà rientra stasera tardi-.
 -Scusa ma quanti anni hanno?-
 -Uno sette, l’altro più o meno tredici-.
 -E non si possono arrangiare da soli?-
 Giak cacciò i libri e li poggiò sul banco.
 -No- disse. Ci fu qualcosa nel modo in cui disse quel no che spinse gli altri amici a non replicare. Lauretta invece aveva ascoltato interessata.
 -Perché no?- chiese a bassa voce, mentre Margherita entrava e gli altri compagni di classe aspettavano l’arrivo della prof.
 -Perché no… farebbero a botte, e mamma non vuole-. Lauretta lo fissò perplessa.
 -Non è triste, che rimaniate tutto il giorno a casa sa soli?- chiese. 
 -Ma magari a essere soli sul serio! Quei due sono delle piaghe-.
 -Come si chiamano?-
 -Il piccolo Daniele, il grande Lucio-.
 -Che dolci…-
 -Se vuoi te li regalo-.
 -Dai, almeno mi fanno compagnia-.
 -Perché, hai carenze d’affetto?-
 -No, però a volte mamma rientra tardi dal lavoro e mi ritrovo in giro per casa senza fare niente… dopo un po’ viene la depressione, fidati-.
 La prof entrò proprio in quel momento. Giak e Lauretta furono rapidi a scivolare dietro i loro banchi, e Margherita salutò Lauretta con un “potevi rimanere con me, Marco se ne è andato dopo poco”. Lauretta sospirò:
 -Mi sento in imbarazzo quando siete insieme. Non voglio fare il reggi-moccolo-.
 La lezione scivolò, annoiando chi aveva rinunciato a prendere appunti. Cicca era tra questi: lasciava che Riccardo scrivesse la lezione, sicuro che tanto poi glie l’avrebbe fatta fotocopiare (neanche prendeva in cosiderazione l'idea di copiarli, gli appunti: troppa fatica). Margherita appuntava date e nomi sul libro di storia distrattamente, con la mente rivolta a Marco. Lauretta scarabocchiava sul banco, scriveva un pezzo degli Articolo 31. Giak disegnava: fingeva di prendere appunti sul quaderno, ma in realtà era una matita e non una penna che aveva in mano.
Quando si trattò di uscire da scuola, Giak avvicinò Lauretta:
 -Se oggi sei sola, puoi venire da me. Almeno ci smezziamo anche gli esercizi, e non mi devo sorbire i due pidocchi da solo- disse.
 Lauretta soppesò l’ipotesi:
 -Oh, perché no? Se non ti crea problemi, ovviamente-.
 -Figurati. Te l’ho detto, mia madre non c’è e papà torna stasera tardi-.
 Uscirono con gli altri e rimasero ad aspettare fuori scuola con Margherita, Riccardo, Cicca e un’altra buona metà dei compagni di classe.
 -Non fate gli zozzi- ghignò Cicca. Lauretta gli diede un pugno.
 -Dobbiamo prima passare a riprendere Daniele- disse Giak quando furono sull’autobus -Lucio fa le medie, ma a prendere l’autobus è capace, il piccolo invece ancora lo viziano. E sono costretto a farlo pure io, ovviamente-.
 -Be', ha sette anni. Aspetta almeno che finisca le elementari per fargli fare esperienze di vita come prendere l’autobus- ghignò Lauretta.
 -Tanto gli manca poco. Appena entra in prima media, non se ne parla più di andarlo a riprendere-.
 -Dai, coccolalo un po’-
 -Ma anche no!-
 -Carogna-.
 -Ovvio. Voglio tirarlo su bene, da duro- sogghignò.
 -Mi immagino! Spero che tu non abbia figli, per il loro bene- Lauretta gli diede una gomitata.
 -Tu non ti rendi conto della fortuna che hai ad essere figlia unica- disse Giak. Subito dopo aver parlato, se ne pentì.
 -Non mi piace rimanere sola- rispose lei piano. E il modo in cui abbassò la testa e strinse più forte il palo dell’autobus gli fece mordere il labbro.
 -Be'... ora che vieni ti rincoglionirai abbastanza da poter tirare avanti per un bel po’- sorrise. Lauretta fece lo stesso.
 Giak prenotò la fermata e i due scesero al volo.
 L’entrata della scuola era soffocata da mamme, nonne e genitori che aspettavano l’uscita dei pargoli. A quanto pareva, loro due erano gli unici adolescenti.
 -La prima volta che sono venuto, è dovuta venire mamma con me per assicurare alle maestre che fossi il fratello di Daniele. Sono talmente rigide che non lasciano i marmocchi in mano a nessuno che non conoscano-.
 -Figo. Almeno ci tengono!-
 -Una rottura. Mi guardano sempre storto. Pensano che quelli dell’età nostra siano solo dei teppisti-.
 -Ci scommetto, con ‘sta faccia che ti ritrovi!-
 -E questa confidenza chi te l’ha data?- Giak rise e cominciò a farle il solletico. Gli squittii isterici di Lauretta attirarono sguardi a metà tra l’incuriosito e il biasimevole da parte delle mamme. Lauretta si contenne.
 -Eccoli. Stai attenta, non ti mettere in mezzo…- Giak parlò nello stesso momento in cui suonò la campanella.
 Il portone di legno massiccio sputò fuori un’ondata di bambini infilati in grembiuli blu e indaco, urlanti e festosi.
 -Sono minuscoli!- Esclamò Lauretta. Un bambino che le arrivava a stento alla vita la guardò incuriosito, poi schizzò dal padre.
 -Come farai a ritrovare tuo fratello?- Chiese allora a Giak.
 -Verrà lui. Sa dove trovarmi- rispose.
 Effettivamente, dopo pochi secondi un bambino dai capelli scuri e il grembiule slacciato si avvicinò più sicuro degli altri che, con sguardo vacuo, cercavano i genitori.
 -Daniele, questa è Lauretta. Salutala- disse Giak.
 -Ciao Lauretta- disse lui intimidito.
 -Ciao-.
 Lauretta era forse più spaventata di lui: poche volte nella sua vita era entrata in contatto con dei bambini, e quelle poche aveva sempre cercato di defilarsi quanto prima. I bambini erano un’altra cosa da aggiungere alla lista di quelle che la facevano sentire a disagio. 
 Si incamminarono allontanandosi dalla scuola.
 -Abitiamo qui vicino, possiamo andare a piedi- le spiegò Giak.
 -Giak, guarda qui!- esclamò Daniele. Gli mostrò una carta, forse un pokémon. E pensare che Lauretta era convinta che fossero passati di moda. 
 -Fa’ vedere…- Giak gli strappò la carta dalle mani. Daniele non smise di tenerla d’occhio, come se temesse che Giak potesse lasciarla cadere o danneggiarla in qualsiasi altro modo.
 -È una schiappa, come al solito. Non li sai fare gli scambi…- sogghignò. Daniele la riprese indispettito:
 -Non è vero- esclamò con la sua voce squillante. La ripose nella tasca della giacca con cura, ma ora aveva un’espressione più corrucciata.
 -Quanto sei cattivo- disse Lauretta. Voleva tirare su di morale Daniele senza rivolgersi a lui direttamente, e offendere Giak le parve un buono stratagemma.
 -Molto. Comunque, cosa preferisci per pranzo? Se vuoi possiamo fermarci all’alimentari qui sotto…-
 -Tranquillo, quello che offre la casa-.
 -Viene pure lei?- chiese Daniele.
 -E certo, mica l’ho portata fin qui per bellezza!- abbaiò Giak.
 -E io che ne sapevo…-
 -Dai non ti preoccupare- Lauretta cercò di essere gentile. -Giak, se io fossi in lui ti avrei già ucciso nel sonno!-
 -Tanto lui non lo farebbe mai. È vero? Diglielo, dai-.
 Daniele la guardò titubante. 
 -È vero…-
 -Bravo schiappa!- Giak gli frizionò i capelli con un pugno. Daniele cercò di divincolarsi, ma Giak era ben più forte. Il bambino morse il braccio di Giak, e solo a quel punto lui lo lasciò andare. Lauretta sorrise.
 Fino all’inizio di quell’anno non sapeva che Giak avesse fratelli, l’aveva sempre immaginato bene come un figlio unico, ma ora che lo vedeva con Daniele si rendeva conto che il ruolo di fratello maggiore gli calzava a pennello.
Daniele era abbastanza piccolo per essere intimorito dall’Amica del Fratello Grande, e non ancora malizioso come lo sarebbe stato Lucio. Però quando Giak gli scompigliò i capelli ne fu fiero, e cercò di metterci più tempo possibile per risistemarsi il caschetto. Se Giak lo degnava di considerazione davanti all’Amica, era figo quanto lui.
 Arrivarono a casa in dieci minuti. Daniele si arrampicò per le quattro rampe di scale prima degli altri due, e Giak fece strada a Lauretta.
 -Non ti aspettare niente di che, è tutto in disordine- disse aprendo la porta.
 Lauretta entrò in una casa che era effettivamente in disordine, ma la cosa non le creò alcun fastidio; sarebbe stata più indispettita se, dopo le scuse anticipate di Giak, avesse trovato un salotto lindo e profumato.
Questo era un disordine che le piaceva: la stanza in cui entrò era piccola e riempita con un televisore non proprio ultimo modello, un paio di divani dalle federe scombinate e un enorme tavolo pieno di quaderni, fogli, un vaso di fiori secchi e un pc portatile spento e lasciato aperto. Daniele schizzò davanti a quest’ultimo prima che il fratello potesse dire una parola.
-Vieni, ti faccio poggiare lo zaino in camera- disse Giak.
 Lauretta non sapeva ancora un bel po’ di cose sul suo nuovo amico (ma si, chiamiamolo finalmente così), ma molto scoprì non appena entrò nella sua camera da letto.
 Per lei, figlia unica di genitori separati, avere una spaziosa camera tutta per sé era sempre sembrato ovvio. Così, quando mise piede in quella di Giak, per poco non le mancò il respiro: era stretta.
 -Scusa, lo so che fa un po’ schifo- Giak attraversò con un balzo la stanza e spalancò la finestra. Lauretta si fece scivolare lo zaino dalla spalla e lo poggiò ai piedi di quello che presumeva fosse il letto di Giak. Lo presumeva perché, dei tre letti che la stanza conteneva, quello era l’unico sotto un enorme poster dei Sum 41. Alla sua destra invece c’era un letto a castello.
 -Lì ci dormono i pidocchi- disse Giak seguendo il suo sguardo.
 Oltre ai letti, a un armadio a quattro ante e a una scrivania, non c’era niente. O meglio, non c’era più spazio per niente.
 Neanche in questo caso però l’effetto era spiacevole: la cameretta era piccola, ma accogliente. Giak ne aveva colonizzato la buona metà delle pareti con i suoi poster. C’erano poi i cimeli degli altri due fratelli, foto di classe e i primi accenni a una cultura musicale di Lucio (ma niente di cui Giak sarebbe potuto andare fiero).
 -Mi fai vedere i tuoi disegni?- chiese Lauretta. Giak sospirò, poi si tuffò sotto al letto e cacciò un album.
 -Divertiti- disse porgendoglielo.
 Trascorsero un po’ di tempo a sfogliare i disegni (e Lauretta aveva gli occhi tondi e luccicanti come quelli di un bambino), fino a quando Lucio non piombò in camera, spalancando la porta con tanta forza che la corrente d’aria fece sbattere la finestra. Giak e Lauretta sobbalzarono, e Giak si alzò infuriato:
 -Deficiente, fai piano!- esclamò. Lucio si era fermato sulla soglia alla vista di Lauretta.
 -Ooops, scusate- disse con un luccichio malizioso nello sguardo. Lauretta era abbastanza sicura che sarebbe arrossita, ma riuscì a dominare il colore della sua faccia. In seguito comunque si imporporò di compiacimento, e l’effetto fu lo stesso.
 -Sei proprio un cretino. Esci e vai a buttare la pasta-.
 -Oh sì, sì. Non volevo disturbare, non pensavo che…-
 -Ti meno!- disse Giak. E siccome Lucio sapeva fin troppo bene che Giak sarebbe stato in grado di farlo, fece in fretta a dileguarsi.
 -Penserà di tutto e di più- disse Lauretta.
 -Che palle. Vieni, andiamo a vedere un po’ di tv, così non si monta la testa-.
 Si stravaccarono sul divano in salotto, dove Daniele smanettava sul computer e Lucio seguiva la televisione seduto al rovescio su una sedia. Chiacchieravano del più e del meno, con Lucio che spiava attentamente ogni loro mossa.
 Quando la pasta fu nei piatti e i piatti davanti la tv, prese parte anche lui alla conversazione. Proruppe con:
 -Giak, è lei quella del disegno?-
 -Ma i fatti tuoi mai eh? I miei disegni non li devi toccare-.
 -Non rompere. Comunque, era lei?-
 Lauretta aveva lo sguardo basso. Giak invece alzò il suo:
 -Era un regalo-.
 -Ma state insieme?-
 -NO!- Risposero insieme, poi Lauretta scoppiò a ridere. 
 -Sì va bè, me lo potete dire, non vado a fare la spia-.
 Giak posò il piatto sul tavolino davanti alla tv e portò la mano al collo di Lucio. Lo spinse contro lo schienale del divano e Lucio, con le mani occupate a reggersi il piatto, non poté fare altro che assecondare il movimento con un verso strozzato.
 -Daniele, prendigli il piatto- disse Giak. Daniele balzò giù dalla sedia su cui era seduto e, con un sorriso elettrizzato sul volto, mise al sicuro il pranzo del fratello.
 -Dai Giak mi fai male, dai, non dico più niente!- esclamò Lucio agitando braccia e gambe.
 -Quando imparerai a non rompere la palle davanti agli amici miei?- sibilò Giak.
 Lauretta stava già per dissuadere Giak dal suo proposito di picchiare il fratello, ma scoprì che non ce n’era bisogno: Lucio si contorse così tanto da riuscire a scivolare sul divano e dare una ginocchiata a Giak, che mollò la presa. Stava quasi preoccupandosi, quando di accorse che entrambi i fratelli ghignavano; Giak tirò una cuscinata al fratello, lui la schivò e tornò a mangiare, ridendo soddisfatto.
 Lauretta rimase stupita da tutta quella confusione. Le sembrò talmente tanto da sorprendersi che i vicini non bussassero per intimare la calma. Ma le piaceva anche quella, e si chiese se Giak sarebbe stato disposto ad affittarle uno dei fratelli.

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Capitolo 8
*** capitolo 8 ***


Novembre era alle porte: avrebbe portato con sé compleanni, gelate e tanta pioggia, oltre ovviamente a vagonate di compiti in classe visti e corretti. Molte erano le carenze del classico di Polverano, ma che non ci si lamentasse dei professori negligenti. Fino all’anno prima l’unica eccezione era stata un prof di ginnastica, ma ora il tipo era andato in pensione e se ne erano perse le tracce. Fu un gran trauma per i suoi vecchi studenti, che avevano dovuto imparare davvero a saltare la corda.
 Margherita e Marco avevano felicemente festeggiato il loro primo anniversario, anche se non nel modo in cui avevano supposto Cicca e gli altri (e su questo punto Margherita era stata molto lapidaria, affinché smettessero di fare imbarazzanti allusioni).
 Superata l’enfasi del primo mese di scuola, gli studenti cominciarono a svegliarsi sempre più di malavoglia e ad arrivare sempre più tardi, come di consueto. Cicca decise di rinunciare al cornetto del bar in favore di quei dieci minuti in più sotto le coperte, e anche Riccardo si rassegnò a sottostare alla pigrizia del fratello.
 Vergarono i primi compiti in classe con l’incertezza di chi per un’estate al greco e al latino non ci ha pensato minimamente, e altrettanto incerti aspettarono la consegna.
 -Giuro che se oggi non ha riportato i compiti di latino, sparo prima alla prof e poi a me- sibilò Lauretta durante un cambio dell’ora.
 -È passata una settimana, dovrebbe avercela fatta- disse Margherita.
 -Lo spero! Ho fatto un disastro, e la versione era pure facile…-
 -Dai non ti preoccupare, è il primo compito-
 -Con questa scusa… intanto il compito di greco è stato un sacco difficile-.
 -Quello sì. Cioè, abbiamo appena cominciato il quinto ginnasio, che si aspettano da noi?-
 -Taci Giobatta, tanto lo sappiamo che tu sei una secchia-. Questo era Cicca, che si era appena voltato.
 -A te come è andata?-
 -La versione di latino non me lo ricordo, l’abbiamo fatto troppo tempo fa, il compito di greco di ieri, quello sui verbi, un disastro totale-.
 -Cavolo…-
 -Hei, è il primo quadrimestre, prendiamola scialla-.
 -Ahahah, bella Cicca-.
 La prof entrò e pochi se ne accorsero, ma bastò che sussurrasse un gelido “buongiorno” perché tutti si azzittissero. Quelli che sbucavano dalla borsa erano i compiti di latino.
 La prof non parlò: firmò il registro in silenzio, conscia di essersi garantita la quiete in classe con quei fogli ripiegati su se stessi. Poi si alzò, facendo prendere aria a una terribile gonna che sembrava fatta di lana cotta (-ma ce l’ha uno specchio alla casa quella?!- Sussurrò Margherita a Lauretta) e, scandendo i nomi dei proprietari, cominciò a consegnare i compititi.
 -Moraschini- disse porgendo il compito a Riccardo. Lui si morse il labbro soddisfatto, mentre l’otto che si ritrovò davanti andò a riempirgli il cuore. Ai suoi lati, Cicca e Giak abbassarono la testa, ammirati.
 -Paolmbari-. La prof fece scivolare il compito sul banco di Lauretta. Lei lo prese con aria tremante, e le bastò controllare quel misero cinque per farglielo odiare. Ma va bè, si aspettava di peggio. In fondo, c’erano cose più gravi nella vita…
 -Giobatta-. Prima che potesse pensare a una di quelle cose, la prof era tornata, con un sorriso splendente questa volta. Bastò che mostrasse il compito a Margherita per passarglielo.
 -Otto e mezzooo!- Se non avesse fatto finta di sforzarsi per tenere la voce bassa, sarebbe stato uno strillo a tutti gli effetti. Lauretta sorrise e stava già per complimentarsi con lei, ma Margherita fu più rapida e l’abbracciò, sventolandole il compito davanti:
 -Che bello, otto e mezzo! E io che pensavo fosse andata male!- sussurrò.
 Tanto bastò per far passare a Lauretta la voglia di essere felice per l’amica. Era abbastanza sicura che quel rombo dentro il suo petto era invidia, e ciò non contribuì a farla stare meglio. Non voleva essere invidiosa della sua migliore amica, eppure mentre la vedeva saltellare per un otto e mezzo che alla fine si aspettava non riuscì ad impedirselo. Tornò a coccolarsi il suo cinque, cercando di non badare a quel teatrino.
 Nel frattempo la prof aveva finito di consegnare i compiti, e ora gli studenti chiacchieravano tra loro, confrontandosi i voti, ridendone o disperandosene.
 -Come è andata?- chiese Lauretta ai ragazzi davanti a loro. Giak si fece precedere dal suo compito, mostrando un quattro smagliante.
 -Figo eh? Immagina che bello quando lo saprà mio padre-.
 -Eh eh, io ti batto! Quattro meno meno!- quello era Cicca.
 Lauretta sorrise e decise di prenderla come lui. Cinque non era irrecuperabile. L’unica cosa che la infastidiva era la reazione di Margherita, che sembrava aver ignorato qualsivoglia forma di tatto, ma era sicura che presto l’effetto sarebbe passato. Succedeva sempre così.

 La madre di Lauretta prese abbastanza tranquillamente il cinque: era sicura che la figlia avrebbe recuperato facilmente, ricordando la media più che discreta dell’anno precedente.
 Quella di Giak reagì con un’unghiata di preoccupazione, ma era ancora nella fase in cui le garanzie del nostro eroe avevano ancora valore; riuscì a scamparla con poco.
 Ma fu Cicca quello che ci rimase più male per la prima insufficienza dell’anno, sebbene se ne sarebbe accorto più tardi.
 Tornò a casa tranquillo, e con altrettanta tranquillità informò i genitori sul quattro, mentre erano seduti a tavola.
 -Quattro?- ripeté sua madre scandalizzata. E dire che Cicca aveva taciuto loro i due meno.
 -Be', si-.
 -Michele, l’anno scorso ti sei salvato per un pelo. Hai intenzione di fare il replay anche quest’anno?- suo padre.
 -Me la caverò alla grande, è solo il primo quadrimestre-.
 -Fa media! Tutto fa media e tutto si somma!-
 -Ma sì, non ti preoccupare. Basta un sette e tutto si sistema…-
 -Il quinto è uno degli anni più difficili del classico, te l’ho già detto quest’estate, quando non sei voluto andare a ripetizioni. Credi che sia così facile prendere un sette?-.
 -D’accordo, mi impegnerò. Ok?-
 -No! Io voglio vederti studiare. Ma ogni pomeriggio te ne stai cinque o dieci minuti sui libri e poi ti piazzi davanti alla tele o su in soffitta-
 -Oppure esci a bazzicare con i tuoi amici e torni solo a ora di cena, quando è pronto in tavola-. Sua madre rincarò la dose, e Cicca roteò gli occhi fino ad alzarli al cielo.
 -Io studio il giusto, le cose le so- borbottò, neanche tanto convinto.
 -Se davvero le sapessi, non avresti quattro-.
 -Sì, d’accordo, e allora? Vi ho detto che recupererò, che mi impegnerò, che altro devo fare ora?-
 I genitori si scambiarono un’occhiata, poi suo padre pronunciò la sentenza che avrebbe creato problemi a Cicca:
 -Domani mattina vado a parlare con la tua professoressa. Tanto i colloqui dovrebbero esserci fra poco, giusto? E allora domani mattina sarò il primo. Così evito pure la fila. Ricordati di darmi l’orario di ricevimento-.
 Cicca non diede tanto peso alla notizia, anzi, se ne rallegrò: pensò che, se suo padre fosse andato a parlare con la prof il mattino dopo, fino ai colloqui del secondo quadrimestre lui sarebbe stato libero di comportarsi come voleva. Non si era ancora reso conto delle reali intenzioni del padre.

 Passarono i giorni, fino a diventare una settimana. Passò un altro sabato, tedioso per Margherita, noioso per Lauretta che rimase a casa di suo padre, uguale agli altri per Giak, Riccardo e Cicca.
Arrivò un lunedì piovigginoso e grigiastro. E finalmente il martedì della rivelazione per Cicca.
 Era cominciato tutto nel più normale dei modi, sembrava quasi un replay della settimana prima: la prof che entra e questa volta a viaggiare incastrati tra i manici della borsa erano i test di greco; avrebbero distrutto la classe che li aveva compilati con tanto amore.
 La prof cominciò a riconsegnarli e fu subito chiara l’entità del disastro: chi era normalmente abituato alla sufficienza si vide schiaffare davanti baratri per niente delicati.
 Il primo a ricevere il suo compito dei nostri eroi fu Giak: incassò il tre e mezzo a bocca aperta, senza riuscire a proferir parola. I verbi che aveva scribacchiato su quella tabella erano soffocati da segni rossi.
 Riccardo stava già per consolarlo, ma la prof fu più svelta: cinque meno per Moraschini.
 -Cristo- mormorò Cicca, che ora era impallidito sul serio. Riccardo si guardò intorno scioccato, ma intorno a loro la classe stava rimanendo attonita man mano che la prof riconsegnava i compiti.
 Lauretta prese quattro e mezzo. Si morse il labbro e lottò per rimanere impassibile. Quando la prof di avvicinò a Margherita, tesa al limite della sofferenza, nessuno di loro osò parlare fino a quando lei non si sciolse in un sospiro di sollievo: sei e mezzo. Non era molto per lei, presto se ne sarebbe dispiaciuta, ma in mezzo a quella strage non riuscì a non sentirsi meglio.
 Infine, dopo aver fatto diversi giri, la prof arrivò a Cicca. Gli tese il compito e lui, che già aveva perso tutte le sue speranze con il cinque meno di Riccardo, quasi non aveva il coraggio di prenderlo. Le emozioni si volatilizzarono in quella frazione di secondo in cui cercò il voto, ma quando lo vide lasciò cadere il foglio sul banco, con la testa che girava.
 -Quanto…?- sussurrò Riccardo. Cicca gli tese il foglio e i due vicini di banco lo videro: un sette brillava nell’angolo in alto a destra; esisteva miracolosamente tra un deserto di sufficienze.
 Riccardo e Giak rimasero per un momento attoniti, poi però riuscirono a sorridere per l’amico: almeno a qualcuno era andata bene.
 -No, non ci credo- borbottò Cicca. Prese il foglio con mani tremanti e cominciò a confrontarlo con gli altri; ora che la classe cominciava a riprendersi dallo shock di quella carneficina, tutti avevano cominciato a parlare e a confrontarsi per scovare gli errori.
Poco ci volle perché Cicca si accorgesse dei primi scricchiolii del suo voto: aveva sbagliato quasi tutti gli spiriti dei verbi, eppure…
 -Giobatta, posso vedere il tuo compito?- chiese, voltandosi verso l'unica sufficienza nel raggio di tre banchi. Margherita glie lo cedette e Cicca li confrontò.
 Dopo aver sottoposto il cervello a uno stress a cui non era abituato, insieme a Giak e Riccardo scoprì incongruenze sempre più sconcertanti: la prof aveva fatto finta di ignorare gli spiriti, e non li aveva considerati come errori.
 Aveva dato per buoni verbi i cui paradigmi non erano completi.
 Riguardo agli accenti, manco a parlarne.
 In altre parole aveva palesemente alzato il voto, abbastanza per far rendere conto a Cicca che quel sette tutto era tranne che meritato.
 Guardò con aria desolata gli amici, e loro gli restituirono un’occhiata vacua.
 -Perché?- chiese.
 -Boh, non saprei…- borbottò Giak.
 -Magari voleva aiutarti, per la media…-
 -Perché? Il primo quadrimestre è appena cominciato, non avrebbe neanche motivo di aiutarmi già da ora-.
 Riccardo e Giak si strinsero nelle spalle. Cercavano di non badare a quella ingiustizia, e Cicca lo sapeva. Si sentì un verme.
 -Io vado a dirglielo- decise.
 -Ma sei scemo?-
 -Fermo, dai. Hai un sette, cavolo!- disse Giak.
 -Ma è regalato-
 -Che succede?- Lauretta si era interessata alla conversazione.
 I tre spiegarono la situazione a lei e a Margherita, con Cicca che si vergognava sempre di più. Margherita  non contribuì ad alleviare il suo disagio, è onesto dirlo. Di fronte ad un’ingiustizia del genere, con lei che non aveva avuto il suo otto e Cicca a cui invece avevano regalato sette, in un primo momento sperò solo che la prof facesse il suo dovere. Ma davanti agli amici non osò palesare la sua invidia, anche perché loro fecero di tutto per dissuadere Cicca dal suo proposito tanto nobile quanto stupido.
 -Sarà pure corretto, ma non è per niente furbo- disse Lauretta.
 Cicca sospirò: sette. Da quando non prendeva un sette? Avrebbe potuto sistemargli un sacco di cose…
 -Ma non è giusto. Mi sento una cacca, anche verso di voi…-
 -Ma non ti preoccupare… non siamo così sadici, tienitelo!- disse Riccardo.
 -Per te è facile parlare, non ci metti niente a recuperare un cinque-.
 -Se è questo il problema, smettila con le pippe mentali- disse Giak -non ce l’avrò mai con te perché tu hai una sufficienza e io no, anche se tutti e due rischiamo un sacco di pagellini. Anzi, sono felice per te, sul serio! Lascia stare la prof-.
 Cicca giocherellò col suo compito.
 -Cicca, tranquillo. Una persona felice in più sulla faccia della terra è sempre meglio- ghignò Lauretta.
 Cicca sorrise:
 -Bella ragà. Sicuri?-
 -Vai tranquillo- disse Giak.
 La prof trascorse il resto dell’ora a correggere i compiti in classe, come se ce ne fosse bisogno. Tutti erano rimasti talmente scioccati dalle insufficienze da non prestarle la minima attenzione.
 Prima che suonasse la campanella, la prof fece sfilare gli studenti davanti alla cattedra per farsi riconsegnare i compiti e firmare il voto sul libretto.
 Cicca esitò nel riconsegnarlo e fu sicuro che la prof evitò con cura di incrociare il suo sguardo. Lì per lì non ci fece caso, ma il gelo glie lo confermò un compagno di classe che, mentre tornavano a posto, gli chiese come fosse andato il test.
 -Sette- bisbigliò Cicca. Non aveva il coraggio di dirlo ad alta voce.
 -Complimenti!- il tipo gli diede una pacca sulla spalla per congratularsi, poi ebbe la bella pensata di cacciare una battuta:
 -Hai capito il raccomandato!- Rise e, con un’ultima pacca amichevole, si infilò dietro il suo banco.
 Cicca prese posto lentamente, col cervello bloccato su quella parola.
 -Cos'è quella faccia?- chiese Giak.
 Cicca lo fissò con sguardo vacuo, poi balbettò:
 -Giak… l’altro giorno mio padre è andato a parlare con la prof, dopo il quattro di latino…-
 -E quindi?-
 -E ora la prof mi ha regalato un sette-.
 Giak e Riccardo rimasero un po’ interdetti.
 -Pensi che tuo padre c’entri qualcosa?-
 -Be', perché no? Giuro che se è così io… io…- la voce di Cicca si spezzò dall’ira.
 -Ma non è detto… insomma…- i due si impappinarono.
 -No, non è detto. Ma io oggi faccio un bel discorsetto con mio padre, voglio vederci chiaro!-
 Quel giorno tornò a casa infuriato come una biscia. Raggiungendo casa col minor tempo possibile, ruminava nella mente la gravità di quello che dava sempre di più come un dato certo.
Raccomandato. Raccomandato già in quinto ginnasio! Come se fosse talmente fallito da non poter guadagnarsi qualcosa da solo. Come se non riuscisse a lottare.
 Entrò in casa, spalancò la porta della cucina e sua madre era lì, intenta a cucinare.
 Suo padre stava guardando il telegiornale. Non appena vide Cicca lo salutò come al solito, senza neanche accorgersi che suo figlio rasentava la furia.
 -Oggi mi hanno riportato il compito di greco- annunciò con voce fin troppo alta.
 -E come ti è andata?- chiese sua madre scettica, voltandosi.
 -Ho preso sette- disse Cicca con lo stesso tono. I suoi genitori lo fissarono stupiti, e Cicca cominciò ad averne abbastanza di essere guardato in quel modo.
 -Complimenti! Lo vedi che quanto ti impegni…-
 -Me lo sono inventato, quel test-.
 Un attimo di silenzio, poi sua madre parlò.
 -Che vuol dire, me lo sono inventato?-
 -Era tutto sbagliato. Gli spiriti li ho messi a caso, e pure gli accenti, e certi paradigmi non li ho proprio scritti-.
 I suoi genitori rimasero interdetti per un po’, poi suo padre tornò al telegiornale.
 -La professoressa avrà avuto i suoi buoni motivi per metterti sette. Cos’è, non credi in te stesso?- rise.
 -Sai com’è, il compito era palesemente sbagliato-
 Sua madre portò in tavola il primo, suo padre prese posto. Cicca non si mosse.
 -Andiamo, che problema hai?- chiese sua madre.
 -Era un compito impossibile, le sufficienze si contavano sulla punta delle dita. Riccardo Moraschini ha preso cinque!-
 -E allora?-
 -A me sembra strano! Mi sembra strano che io, che a greco sono sempre stato una sega, improvvisamente mi prendo sette in un compito che è andato male e tutti, casualmente dopo che tu- ammiccò a suo padre -sei andato a parlare con la prof! Voglio sapere cosa le hai detto, parola per parola-.
 Suo padre scoppiò a ridere: -non ti ho mica raccomandato!- esclamò.
 -Ah no? Allora dimmi che le hai detto-.
 -Ma niente, cosa pensi… le ho chiesto un po’ la situazione, le ho chiesto di poter vedere il compito dove avevi preso quattro…-
 -E poi?-
 -E basta!-
 -Suonano come cazzate, sai?-
 -Non ti permettere di usare questo tono con me!- suo padre alzò la voce, ma l’unico effetto che ottenne fu quello di fomentare ancora di più suo figlio:
 -E perché? Tu ti sei permesso di interferire nella mia vita! Mi hai rovinato il resto degli anni che mi rimangono in quella scuola!-
 -Ma dai, tanto l’anno prossimo cambi professori…- nessuno prestò ascolto all’inutile inciso della madre.
 -Meglio invece rimanerci più del dovuto lì dentro, secondo te? Ti ho salvato, e ti lamenti pure!-
 -Sì! Sì, mi lamento! Non te l’avevo chiesto! Ora ogni voto che prenderò non sarà mai quello che mi meriterei!-
 -Ti meriteresti una pagella di tre, e lo sai!-
 Cicca ruggì, spazientito: -so come vanno le cose lì dentro! So come vogliono che studi! Quel quattro non voleva dire niente, avrei saputo come recuperare!-
 -L’anno scorso per poco non ti steccavano, però. Non mi è parso che sapessi come recuperare, in quel caso!-
 -Ma poi ce l’ho fatta! Sei tu che non hai nessuna fiducia in me! Allora lasciami in pace da oggi in poi, perché me la caverò da solo!- Cicca fece per uscire dalla cucina.
 -Se non ti sta bene come vanno le cose in questa casa mi spiace per te, dovrai viverci ancora per qualche anno- disse suo padre.
 -Non dubitare, appena faccio diciotto anni me ne vado subito via dalle palle!- Cicca si sbatté la porta alle spalle, soffocando il belato di sua madre (“Ma… il pranzo!”).
 Attraversò a grandi falcate la casa, salì le scale in ferro battuto facendole tremare ad ogni gradino e si chiuse in soffitta. Spalancò la finestra, senza badare al freddo che gli sferzò il viso, e cacciò dallo zaino un pacchetto di sigarette.
 Che nessuno lo disturbasse mentre sedava la sua amarezza.

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Capitolo 9
*** capitolo 9 ***


Giak aveva lavorato al disegno per Alex praticamente tutto il pomeriggio.
Dopo il nobilissimo tre e mezzo, a casa era successo il finimondo… e dire che ancora sarebbe dovuta arrivare la scarica di suo padre. Sospirò al solo pensiero.
 Dopo aver studicchiato per un po’, aveva cacciato il disegno che aveva lasciato incompleto e si era messo al lavoro.
 Il pidocchio piccolo entrò in camera. Aveva ormai imparato a riconoscere quella luce particolare in camera sua, quando l’unica fonte di illuminazione era l’abat-jour sulla scrivania di Giak. Sapeva ormai che era ricollegabile al messaggio “non rompete le palle”, e ne rimase scocciato. Non gli piaceva tutta quella tensione, lo faceva sentire sempre sulle spine.
 Si arrampicò sul letto a castello e, con suo sommo sollievo, Giak sembrò non fare caso a lui. Daniele si ritenne così al sicuro da potersi leggere un Topolino.
 La realtà era che Giak aveva intenzione di consegnare il disegno ad Alex la mattina dopo, per questo era troppo concentrato per disturbarsi a scacciare il fratellino.
Alex… non era mai successo che, al solo pensiero di una ragazza, il petto gli bruciasse così forte. E non era neanche mai stato così ossessivo da scorrere indietro sul profilo facebook della suddetta fino a risalire all’estate precedente.
Si era preoccupato, ovviamente, ma aveva taciuto a tutto quelle sue cadute di stile. Meglio non farsi vedere così fottutamente innamorato.
 Nelle settimane precedenti l’aveva vista praticamente ogni mattina, e ogni mattina lo spettacolo si ripeteva: lui saliva, trovava il posto a fianco a lei sempre vuoto, chiedeva se fosse libero e lei, con un sorriso divertito, rispondeva di si e gli faceva spazio. Giak si sedeva e si fingeva interessato alla sua musica, Alex si voltava e si perdeva nel panorama fuori dal finestrino. Senza parlare, come se fosse un gioco a chi riprendeva la conversazione della prima volta. Forse una spiegazione a tale pecunia di parole era il solito rincoglionimento mattutino (neanche Alex sembrava andare d’accordo con la sveglia), ma Giak era comunque preoccupato. A scuola non la vedeva quasi mai.
 Non aveva ancora finito quando sua madre lo chiamò per cena. Daniele balzò giù dal letto con un soffice rumore di calzini sul parquet, mentre lui si voltò pigramente con tutta la sedia. Non aveva voglia di sorbirsi anche la ramanzina di suo padre. Per quel tre e mezzo c’era già rimasto male per conto suo, senza che ci si mettessero anche i genitori.
Ma ovviamente suo padre, reduce da otto ore di lavoro e una di viaggio (maledetti lavori fuori sede, grugniva quando si trattava di fare benzina), aveva bisogno di scaricare lo stress da qualche parte… o in qualche persona. Giak avrebbe davvero voluto che sua madre tacesse, ma lei pensò che scatenargli contro una potenziale belva sarebbe stata una punizione sufficiente. E suo padre partì in quarta: vedi di impegnarti! Non studi, evidentemente! Ma si, fatti bocciare, non pensare che ti facciamo recuperare con la scuola privata, che qui già facciamo fatica a mandarvi in giro vestiti come si deve!
 Giak era troppo spossato per ribattere; decise di estranearsi, pensando a qualcosa di bello… cominciò a figurarsi il suo incontro con Alex, l’indomani mattina. Cavoli, come gli sarebbe piaciuto uscire con lei: avvicinarsi e sentire ancora quella pelle…
 -Mi stai ascoltando?- esclamò suo padre.
 -No- rispose Giak. Viva la sincerità.
 -Vedi, non ti importa! Non ti importa dei sacrifici che facciamo per farti studiare! Ti farei vedere quanto ci costi, e poi mi dici se non facciamo bene ad arrabbiarci, io e tua madre!-
 Giak dovette trattenersi per non alzare gli occhi al cielo; ecco che si ritornava al discorso dei soldi. Era un ottimo ricatto e funzionava per tutto: i soldi per la benzina del motorino, i soldi per la pizza il sabato sera, i soldi per i vestiti, tutto gli veniva rinfacciato.
 Giak non era mai stato interessato al management familiare, ma non ci voleva certo un genio per capire che non potevano permettersi tutto. Suo padre lavorava in una fabbrica fuori città, sua madre part time in una libreria: con un mutuo e tre figli, non potevano chiedere la luna. Eppure, sebbene non li biasimasse di certo per questo (quello di cui aveva bisogno ce l’aveva), odiava quando gli rinfacciavano quanto costasse. Non lo faceva apposta ad esistere.
 
 La mattina dopo i Sum 41 dovettero darsi da fare per svegliarlo e, mettendo a tacere la sveglia, Giak si maledì per aver fatto così tardi la sera prima. Certo, ora il frutto del suo lavoro giaceva dentro lo zaino, infilato con cura perché non si stropicciasse, ma decise che quella sera sarebbe andato a letto alle nove (e noi glie lo lasciamo credere).
 La mattina era così fredda e affilata da far spaccare le labbra. Nonostante ci fosse il sole, la luce era talmente ghiacciata da sembrare finta. Giak si infilò nel cappotto e, maledicendo anche lo stupido clima di Polverano, si appoggiò alla pensilina, aspettando l’autobus.
 Quando salì come al solito Alex era lì, e come al solito il posto a fianco al suo era vuoto. Giak si diresse verso di lei, chiese se fosse occupato e lei gli sorrise e rispose di no. Giak si sedette, ma, contrariamente alla loro abitudine, si levò le cuffie. Alex lo fissò incuriosita.
 -Ho una cosa per te- disse Giak. Aprì lo zaino e sfilò il disegno.
 Alex lo vide e rimase a bocca aperta. Quando lo prese, le sue mani tremolavano.
 -Oh mio Dio, è… è bellissimo! Sono… io! Come…- alzò gli occhi e Giak le sorrise:
 -Hai caricato delle belle foto su facebook, e allora ho pensato di farti questa sorpresa-.
 -Non pensavo fossi così bravo a disegnare! Insomma, è… è spettacolare! Grazie Giak!- Alex si sporse e gli baciò la guancia.
 -Perché l’hai fatto?- chiese poi, rimirando il disegno.
 Giak si torse le mani: -bè, ho visto le tue foto e sei una bella ragazza… mi sono divertito molto a farti un ritratto- disse. Alex sorrise, mordicchiandosi un labbro.
 -Oh… grazie- rispose confusa. Giak si stava divertendo anche a parlare con lei: gli piaceva essere schietto e vedere l’effetto che faceva sulla gente.
 -Toglimi una curiosità: ma il posto a fianco al tuo rimane libero ogni mattina fino a quando non arrivo io?- chiese. Alex alzò gli occhi al cielo e dondolò con aria birichina:
 -che caso, eh? E la gente manco si siede. Si vede che puzzo- rise, e Giak la seguì.
 -Non è vero, non puzzi. Anzi, sei abbastanza piacevole-.
 -Hei, la pianti con tutti questi complimenti? Mi fai sentire in imbarazzo…-
 -Ok, puzzi. Contenta?- Giak le fece una fianchetta.
 -Molto di più-.
 Giak sorrise e le si avvicinò per guardare il disegno.
 -Guarda, qui ho sbagliato l’ombra- disse.
 -Oh sì, e c’è anche un puntino fuori posto nell’angolo qui, vedi? Ma dai, è bellissimo-.
 -Immagino di non poter dire che è tutto merito del soggetto, vero?-
 Alex mise su un cipiglio a metà tra lo scocciato e il curioso e incrociò le braccia:
 -È un tentativo di abbordaggio o cosa?- ghignò. Giak continuò a sorridere: aveva capito come prenderlo.
 -Dipende da come la vedi. Io sono assolutamente oggettivo, fidati-.
 -E quindi?-
 -Bè quindi immagino di sì… è un tentativo di pseudo-abbordaggio-.
 Alex rimase interdetta. L’autobus era quasi arrivato.
 -Perché “pseudo-abbordaggio”?-
 -Perché vale solo se tu mi assecondi…-
 Alex si abbandonò sul sedile.
 -Sei buffo. Chi ti ha detto che io sia disponibile?- disse.
Quello era il momento che temeva Giak:
 -Sono buffo, ma non scemo. Se hai da fare mi faccio da parte- rispose, un po’ impacciato forse. Alex lo guardò divertita:
 -Accidenti, che tipo- disse infine. -Pensa a prenotare la fermata, va!- sorrise.
Giak si alzò e premette il pulsante della loro fermata. Alex scivolò giù dal sedile, seguendolo.
 -Be', ci sentiamo allora- le disse appena scesi dall’autobus. Immaginava che lei sarebbe andata con le sue amiche.
 -Sì. E… grazie per il disegno, davvero- Alex gli fece un ennesimo sorriso. Giak glie lo restituì e lei lo salutò con un bacio sulla guancia.
 Il nostro eroe si incamminò verso la scuola, rimuginando dentro di sé. Non sapeva se essere soddisfatto della conversazione con Alex: lei era sembrata divertita, ma troppo sulle sue. E a spiegazione di quel comportamento poteva essere o un’eccessiva timidezza, oppure un ragazzo.
Giak si preoccupò: se davvero Alex era già occupata, era meglio che il ragazzo non vedesse quel disegno. Non gli sarebbe piaciuto avere a che fare con un fidanzato geloso.
 -Ciao Giak- si sentì dire appena fu nelle vicinanze della scuola. Giak si voltò e vide Lauretta davanti a sé, che gli veniva incontro.
 -Ciao Lauretta. Bel cappello- la salutò. Lauretta si portò le mani alla testa, su cui aveva infilato una specie di basco che le copriva i capelli.
 -Dici sul serio? Ho cominciato a ricacciare i cappelli, ora che mi sono tagliata i capelli sento più freddo- ghignò.
 -Sei un genio insomma- borbottò lui.
 Lauretta si accorse di qualcosa evidentemente; stiamo parlando della stessa persona che ascoltava gli sfoghi di Margherita in diretta, non le sfuggiva niente.
 -Ehi, tutto ok?- chiese. Giak fece le spallucce:
 -Potrebbe andare meglio…-
 -Fammi indovinare… i compiti di ieri, vero? Mamma pensava stessi scherzando quando le ho detto il mio voto- ghignò.
 -No, non è il compito… cioè, anche quello, ma non è per quello che sto scazzato oggi…- Giak si appoggiò al muro della scuola.
 -Oh… e perché allora? Solo se vuoi dirmelo…-
 Forse fu quell’ultima frase a spingere Giak a confidarsi. Lo fece perché era sicuro che, se le avesse detto “scusa, sono fatti miei”, Lauretta avrebbe accettato. Ora che cominciava a conoscerla, si sentiva sempre più tranquillo.
 -È una ragazza. Insomma, una tipa che ho incontrato sull’autobus qualche tempo fa…-
 Lauretta si fece interessata: passò velocemente oltre alla considerazione che allora Giak non era fidanzato, ed ascoltò l’amico.  
 -È carina! Niente di speciale, ma davvero carina… oggi le ho regalato un disegno- ammise.
 -Allora è un’abitudine! Con me però non ci provi, eh!- sogghignò Lauretta. Giak la fissò truce, senza rispondere.
 -Ok ok, tranquillo. È un gesto dolce. Lei che ha detto?-
 -Ha detto che era bello…-
 -E poi?-
 -E poi ci ho provato. Sai, quei tentativi di abbordaggio assurdo… giusto per fare il cretino-.
 -Mmmm… sii più preciso-.
 -Le ho detto che era carina. Più lo dicevo e più si infastidiva-.
 -Oh-.
 -Che vuol dire quando le ragazze fanno così?- chiese Giak.
 Lauretta sospirò: -non so come sia questa tipa, se sia davvero bella oppure se sei talmente cotto da vederla bella e invece è uno scorfano, però se davvero è carina come dici, forse vuole solo fare la preziosa…-
 -Uh. Ed è grave?-
 -Boh. Insomma, che altro vi siete detti?-
 -Lei mi ha detto che nessuno mi dice che lei non sia già impegnata. E poi le ho chiesto perché il posto di fianco a lei è sempre occupato-.
 -Davvero, ti tiene sempre occupato il posto?-
 -Già. A che gioco sta giocando?-
 -Be', allora è facile! Anche lei è interessata!- Esclamò Lauretta.
 -Sicura?-
 Lauretta sorrise e gli diede un pugnetto:
 -Ovvio. Sei un figo, l’ho sempre detto-.



Grazie a chi passa, a chi legge, a chi infila tra le seguite, ma soprattutto a chi recensisce. Siete i migliori :D

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Capitolo 10
*** capitolo 10 ***


Qualche giorno dopo Lauretta chiese a Sara quello che le interessava... e ovviamente Sara sapeva perfettamente chi fosse Alex.
 Alex, quella della D! Certo che la conosco! Bah insomma, non è che sia tutta questa bellezza… ha un bel viso, paffuto, ed è proporzionata, ma è una di quelle persone che non potrebbero mai mettersi i leggins, non so se capisci…
Le aveva detto un sacco di cose, ma Lauretta ancora non si era fatta un’idea precisa. Avrebbe dovuto parlarci per capire che tipo fosse, ed era sicura che le sarebbero bastate anche poche parole: non che volesse fermarsi alle prime impressioni, quello sarebbe stato un problema di Giak, ma a volte basta sentire il tono delle parole e i gesti che fa per capire il carattere di una persona. Così Sara aveva detto che glie l’avrebbe mostrata a scuola, il giorno dopo.
 Lauretta era rimasta in camera per tutto il pomeriggio. Per lo più aveva studiato, ma quando stava per uscire improvvisamente le era passata la voglia: semplicemente, stava per aprire la porta di camera sua quando aveva sentito sua madre parlare a voce troppo alta per i suoi gusti. Aveva capito subito che doveva stare al telefono con qualcuno e, prestando attenzione alla conversazione, aveva capito anche con chi stesse parlando.
C’era suo padre dall’altro capo del filo. Lauretta l’aveva capito dal tono di sua madre, più che dalle parole smozzicate che riusciva a sentire attraverso la porta.
Litigavano, di nuovo. E il bello era che lei neanche aveva la decenza di staccarsi dalla porta: era rimasta pietrificata a sentire il veleno che quei due si versavano addosso, come se fosse la prima volta. Non aveva capito di cosa stessero parlando, e non le importava: per essere infelice le bastava ascoltare la voce esasperata e furibonda di sua madre.
Non aveva mai sopportato sentirli litigare: quando ancora stavano insieme, i suoi genitori riuscivano a litigare per tutto, e anche per le stupidaggini più assurde riuscivano a soffiare fuori dalla bocca, oltre le parole, anche un’atmosfera fredda e pesante. Talmente tanto che facevano sentire in colpa anche lei, che non c’entrava niente.
Aveva provato a capirli: aveva fatto caso al fatto che, se non altro, si sforzavano di discutere lontano da lei. Ma se anche si scannavano quando lei non c’era, l’atmosfera persisteva fino a quando non diventò stabile.
E poi si erano finalmente separati. Lauretta si era eclissata da tutto quello che succedeva attorno a lei mentre i suoi genitori si occupavano delle questioni burocratiche, non aveva voluto avere a che fare con niente e con nessuno. Aveva anche smesso di farsi sentire con gli amici, così quei pochi che aveva si ritrovarono a salutarla da lontano e continuare per la loro strada. Era rimasta Margherita, ma solo perché era in parte occupata con Marco.
Lauretta neanche se ne era accorta: l’importante era rimanere fuori da tutto e concentrarsi a sopravvivere, mentre fuori l’estate imperversava. Si era mossa solo per dare una mano al trasloco di suo padre e si era abituata a nuovi mobili, nuove pareti, nuove abitudini.
Per l’inizio della scuola, la situazione che si era stabilizzata. Tutto era relativamente a posto… ora bastava semplicemente provare quella nuova vita, ed imparare ad assistere -indirettamente- alle litigate dei suoi, che fortunatamente andavano scemando. Sarebbe bastato limitare i rapporti tra i due e, siccome l’unica cosa a tenerli ancora legati era proprio lei, sarebbe stato compito suo far sì che non si vedessero più dello stretto indispensabile. Poteva farcela.
 Si rese conto di essere rimasta accucciata sul pavimento, contro la porta della sua camera. Tese le orecchie per controllare se i suoi stessero ancora litigando, ma non sentì niente e riuscì a tirare un sospiro di sollievo. Si alzò, ma solo per buttarsi sul letto e sentire un po’ di musica. Andò sul sicuro e mise su i vecchi cari Articolo 31 - J-Ax da solo non lo reggeva proprio.
 Quella notte dormì male. Non lo fece apposta, voleva davvero dormire, ma era in ansia per la lezione di greco che non riusciva a ricordare, e invece dei verbi dell’antico idioma in mente le rimbalzavano le parole che aveva sentito pronunciare da sua madre. Aprì più volte gli occhi nel cuore della notte, ma ogni volta si ricordava che se non avesse dormito si sarebbe sentita peggio al momento di svegliarsi e allora cercava di riprendere sonno. Il risultato fu peggio di quello ottenuto il primo giorno di scuola.
 -Lauretta, sei uno straccio!- esclamò l’indomani mattina Riccardo non appena la vide entrare in classe.
 Lauretta si abbassò ancora di più il cappello sulla faccia e raggiunse il suo posto, alzando il medio a Riccardo.
 -Di’ la verità, hai fatto notte brava ieri sera?- ghignò Cicca raggiungendola.
 -Esatto, e sono veramente distrutta, quindi abbassa la voce perché voglio dormire- Lauretta tentò di reggere il gioco.
 -Oh oh oh! Scommetto che hai frequentato i peggio posti dei dintorni di Polverano-.
 -Raga per favore, oggi non è il caso, sto a pezzi- rispose fiacca Lauretta.
 -Che hai fatto?- l’unico che chiese sul serio qualcosa fu Giak.
A lui Lauretta non riuscì a rispondere male. Si accasciò sulla sedia e alzò lo sguardo verso gli amici:
 -Ho solo dormito male. Davvero, non mi guardate così…-
 -Ma infatti, a parte gli scherzi, stai messa davvero maluccio. Sicura che è solo perché hai dormito male? Ti si è anche abbassata la voce- disse Cicca.
 -Sì, ho dimenticato la finestra accostata stanotte- mentì Lauretta. Ma, siccome stava diventando sempre più brava a farlo, i tre ci credettero.
 Quel giorno Margherita non venne a scuola. Lauretta le mandò un messaggio durante la lezione, così scoprì che la sua migliore amica era stata la prima vittima dell’influenza stagionale che avrebbe tenuto a casa centinaia di abitanti di Polverano.
 -Non viene?- chiese Giak durante la prima ora.
 -No, ha l’influenza- rispose lei.
 -Allora mi metto vicino a te, così non rimani sola- disse lui.
 E così fece: al cambio dell’ora spostò i libri al banco di Margherita e prese il suo posto.
 -Stai un po’ meglio?- chiese quando cominciò la lezione.
 -Tutto ok. Tranquillo- rispose lei.
 -Non ci credo. Ti sei vista allo specchio?-
 Lauretta storse la bocca e fissò il quaderno, senza che neanche gli passasse per la testa la preoccupazione di prendere appunti. 
In realtà Giak si era ripromesso di prenderli, ma a vedere Lauretta così pensò che la sua amica era più importante.
 -Dai, non ti sto obbligando a dirmi che hai fatto, però magari ti fa bene-.
 Lauretta continuò col suo mutismo. Non voleva parlare. Cosa avrebbe dovuto dire? “Ho sentito i miei genitori scannarsi e non mi è piaciuto”. Come se non potessero litigare. No, suonava troppo come lamentela, e a lei non piacevano le lamentele.
 -Lauretta? Ci sei?- sussurrò Giak.
 Lauretta sospirò: -no Giak, non ci sono. Non voglio parlare… e non lo dico tanto per dire, te lo giuro. Non saprei proprio che dirti…-
 -Se vuoi puoi partire dall’inizio. Da dove è partito tutto?-
 A quel punto Lauretta decise di andare contro i suoi principi. Non sapeva neanche il perché… forse perché di Giak si fidava. Aveva intravisto qualcosa dentro di lui che l’attirava, un cameratismo particolare. E allora decise di non rispondere con l’ennesima, collaudata bugia.
 -È partito tutto dai miei genitori- sussurrò.
 Giak si morse il labbro. Quello che sapeva della famiglia di Lauretta erano informazioni vaghe e confuse: sapeva che i suoi si erano separati da poco, e che durante i fine settimana Lauretta andava a dormire dal padre. Stop.
 -Ci sono ancora… problemi?- chiese cauto.
 -Boh, che ne so… non mi importa dei loro problemi. Il problema è quando litigano. Non… non mi piace-.
 Effettivamente Giak si aspettava una cosa del genere, e aveva cercato di scandagliare l’animo di Lauretta perfettamente consapevole delle difficoltà che avrebbe incontrato. Ma aveva deciso che non si sarebbe tirato indietro, nonostante la paura di dire qualcosa di sbagliato.
 -Posso solo immaginare… mi dispiace un sacco. Sai, anche i miei spesso litigano, e sempre per gli stessi motivi… i soldi, queste cose qui… li odio quando fanno così- disse. E neanche la sua era stata una confidenza da poco.
 -Io pure. E non ho neanche la… voglia… di smettere di ascoltarli, capisci? È come se volessi sentire per forza fino in fondo le loro litigate…-
 -Io invece no. Mi chiudo in camera e metto la musica a palla. Così la sentono e devono smettere per forza di discutere, per sgridare me-.
 Lauretta sogghignò.
 -Io non ci riesco. A parte che uno stereo non ce l’ho, ma poi non riesco proprio a fare casino…-
 -Tu sei molto silenziosa, ci ho fatto caso. Forse dovresti parlare un po’ di più, farti sentire-.
 -Io? No no, preferisco di no… faccio molti meno danni-.
 Fu la volta di Giak a sogghignare.
 -Senti, fammi un favore. Ora che arriva l’ora di religione, fatti un sonno. Hai due occhiaie più profonde della fossa delle Marianne-.
 Lauretta sorrise: -non ho sonno, davvero. Posso dormire poco, io… stamattina mi sono svegliata che mancava mezz'ora alle sei-.
 -Perché?- chiese scandalizzato lui.
 -Mi piace aggirarmi in casa quando tutto è tranquillo…-
 -Oh. Wow. Un giorno ci devo provare, sai che figata. In casa mia non c’è mai silenzio, è una palla-.
 -La tua è la casa più bella che io abbia mai visto. E anche la tua famiglia. Mi dispiace che litighino i tuoi, ma siete una famiglia numerosa e deve essere fantastico…-
 Giak non rispose, anche perché la prof lanciava occhiate di rimprovero nella loro direzione già da parecchi minuti. Però le parole di Lauretta gli rimasero dentro; gli avevano trasmesso una malinconia che, pur non appartenendo a lui, non riusciva a sopportare.
 -Oh, quasi dimenticavo. Ieri ho parlato con Sara, mia cugina… le ho parlato di Alex, e vuole farmela vedere oggi a ricreazione per farmi capire chi è. Se tu venissi con me, avresti la scusa per attaccare bottone e magari scopri dove sta la sua classe-.
 -Grande! Così la vedi e mi dici un po’ che ne pensi-
 -È così importante che anche io la conosca?- chiese Lauretta.
 -Sì. Tu hai l’aria di una che le persone le capisce… voglio che tu conosca Alex, e poi puoi dirmi come mi dovrò comportare-.
 Così, non appena suonò la terza campanella, i due si mischiarono tra gli altri studenti lungo il corridoio per raggiungere la classe di Sara.
 -Ciao Lauretta!- la salutò lei quando la vide.
 -Ciao. Lui è Giak-.
 -Ciao. Vieni, dobbiamo andare al piano terra- disse Sara.
 I tre si diressero a passo veloce giù per le scale, onde evitare di perdere troppi di quei dieci minuti di ricreazione, anche se tanto alla fine diventavano sempre il doppio.
 -Il quarto D è da questa parte… ecco Alex!- disse Sara. Si avvicinò a un gruppo di ragazze che stava chiacchierando vicino ad un termosifone.
 -Ciao Alex!-
 -Ciao Sara- le due si salutarono con un paio di baci.
 -Ehi- disse Giak sorridendo. Alex lo guardò con la testa leggermente reclinata.
 -Chi si rivede!- salutò anche lui con due baci. Poi, visto che era rimasta solo Lauretta, le lanciò un sorriso al quale la nostra eroina rispose sbrigativa.
 -Vi conoscete?- chiese Sara ammiccando a Giak e Alex.
 -Prendiamo lo stesso autobus, la mattina- disse Giak.
 -Sai che ho appeso il disegno in camera? Mamma e papà mi hanno chiesto chi l’avesse fatto e io ho dovuto rispondere che l’ha fatto una mia amica- sogghignò Alex.
 -Che onore!-
 -Esatto, devi esserne orgoglioso…-
 -E il tuo ipotetico ragazzo cosa direbbe se lo vedesse?- Giak arricciò l’angolo della bocca all’insù.
 -Bah, potrebbe dire che… forse si chiederebbe perché una mia amica di punto in bianco decide di farmi un disegno del genere-
 -Alex, non sapevo fossi occupata!- esclamò Sara. Alex rise:
 -Abbiamo detto “ipotetico” infatti- sogghignò.
 Sara sembrò cogliere una punta di malizia nella sua voce e decise improvvisamente di dover dire una cosa importantissima a Lauretta, eclissandosi così dal discorso degli altri due.
 -Potresti rispondere che questa tua amica è rimasta molto colpita da te- continuò Giak.
 -Potrei, tutto sommato. Lui però mi chiederebbe se questa amica è per caso lesbica, dato che sembra così interessata. Cosa dovrei rispondere?-
 Giak fece finta di pensarci su, poi rispose: -immagino che dovresti rispondergli che tu l’hai colpita così tanto che le piacerebbe molto uscire con te un giorno… se l’ipotetico fidanzato è d’accordo, ovviamente-.
 Alex ammutolì e, accorgendosi che i due avevano smesso di parlare, Sara e Lauretta si voltarono verso di loro.
 -Tutto ok?- chiese Sara.
 -Ehm, tra un po’ suona la campanella, mi sa che è meglio tornare in classe- biascicò Giak. Lauretta lo guardò con sguardo grave e fece per salutare.
 -Rimango un secondo qui, tanto alla prossima ora ho assemblea di classe- disse Sara. Lauretta e Giak salutarono e si diressero verso la loro classe.
 -Che le hai detto?- chiese Lauretta.
 -Oddio mi sa che ho fatto un casino… le ho chiesto di uscire- disse Giak.
 -È stato a quel punto che lei non ha più risposto?-
 -Sì. Grandioso, me la sono bruciata in due giorni...-
 -Non essere così catastrofico! Ci stai andando fin troppo forte, fattelo dire. Insomma, frena-.
 -Sarà troppo tardi ormai...-
 -Non è detto. E' comunque sempre piacevole trovare qualcuno che ti corteggi, anche così sfacciatamente-.
 -Dici?-
 -Be', magari ti spiazza un po'...-
 -Lauretta, ma sei amica a me o al leone?-
 -Oh andiamo, io sono l'ultima persona al mondo che può dare consigli per agganciare ragazze! Perché non hai chiesto a Cicca o a Riccardo?-
 Giak sogghignò: -perché loro sono maschi, la pensano come me, e non sarebbero di tanto aiuto. Anche se a incoraggiamenti non li batte nessuno...
 -Capisco. Comunque è carina, anche se niente di speciale. Da come ne parlavi tu sembrava un dea, ma insomma… comunque è carina-.
 -No, è proprio bella. Hai visto che fisico?-
 -Mi sono concentrata sul viso-.
 -Ah. E poi, che altro ne pensi?-
 -Non ho seguito molto la vostra conversazione, Sara mi ha tirata via, però… credo che possa funzionare-.
 -Dici?-
 -Spero. Per te. Insomma, lei ha l’aria di una che se punta qualcuno ottiene quello che vuole. Tu devi solo farti puntare… e forse ci sei riuscito-.
 -Lo spero anch’io…-
 -Ti piace così tanto?- sogghignò Lauretta, dandogli una gomitata. Giak arrossì.
 -È una cosa a cui tengo. Intendo dire, se dovesse succedere qualcosa…- lasciò la frase a metà.
 -Che dolce- Lauretta sorrise.
 -Smettila di ripetermi che sono dolce, poi mi fai sentire davvero troppo melenso!-
 -Dai, non ti buttare giù. Adesso devi solo aspettare che risponda- sorrise lei.
 Giak sospirò.
 Entrando in classe, lasciò che Lauretta di accasciasse sul banco e raccontò la sua avventura a Cicca e a Riccardo.
 -Ti stimo, amico! Con grande sprezzo del pericolo hai osato dove tutti si sarebbero fermati…- commentò Riccardo.
 -Speriamo bene…- disse Cicca.
 -Lauretta dice che ora dovrei solo aspettare che lei si faccia sentire…-
 -Già, è lei che deve rispondere-
 -E allora niente, aspetto-.
 I tre rimasero un attimo in religioso silenzio, poi Cicca proruppe:
 -Lauretta si è addormentata-.
Gli altri si voltarono nella direzione in cui era rivolto Cicca e videro che effettivamente Lauretta si era abbandonata sul banco con la testa tra le braccia, dimentica di tutto e di tutti. Soprattutto della prof di religione.
 -Meno male. È davvero a pezzi- disse Giak.
 -Ma che ha fatto?- chiese Riccardo.
 Giak rimase in silenzio.
 -Tu lo sai, hai chiacchierato con lei per tutta la seconda ora- disse Cicca.
 Giak si morse il labbro:
 -Macché- rispose -non mi ha voluto dire niente-. Deglutì un nodo alla gola. Chissà perché aveva mentito.
 Cicca e Riccardo lo fissarono per un secondo con sguardo truce, poi decisero di prendere la sua risposta per buona:
 -Peccato che non voglia parlare. Magari potremmo fare qualcosa- disse Cicca.
 -Eh già… magari- Giak cercò disperatamente un altro argomento a cui aggrapparsi. Non aveva voglia di parlare dei problemi di Lauretta.

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Capitolo 11
*** capitolo 11 ***


 Era come se avesse il naso grande il doppio, pesava troppo e non funzionava. Per respirare faceva passare l’aria dalla bocca, ma ogni volta il respiro le lacerava la gola.
Il cellulare squillò, lacerandole la testa. Margherita maledì chiunque la stesse chiamando e, quando vide il nome di Marco lampeggiare sullo schermo, emise un gemito che somigliava più a un gorgoglio.
 -Ehi- esalò. La gola grattò come se fosse seviziata da una grattugia.
 -Amore, come stai?- chiese Marco.
 -Male, come dovrei stare… non mi sento il naso, e mi fa male la testa-.
 -Ti ha preso una brutta botta… vorrei essere lì-.
 -Non mi pare davvero il caso, moriresti solo a respirare l’aria che c’è in questa stanza-.
 -Lo so… peccato-.
 -Già-.
 Marco sospirò, stravaccato davanti alla televisione come era messo. Era una sua impressione, o Margherita sembrava più distante? Ci pensava da un po‘ e avrebbe anche voluto parlargliene. Ma ora stava male, non avrebbe potuto vederla.
 -Senti, mi richiami quando stai meglio? Non ti voglio disturbare-.
 -Perfetto-.
 -Ciao amore mio. Guarisci presto, ok?-
 -Ok… ciao amore-. Ci volle uno sforzo a Margherita per cacciare quell’ultima parola e, quando riattaccò, fu più sollevata.
 Rimase tutto il pomeriggio a letto, senza osare neanche alzarsi per andare in bagno. Verso sera si sentì un po’ meglio perché, quando sua madre entrò con il mano il cordless, era sicura di poter sostenere una conversazione.
 -È Lauretta- disse sua madre passandole il telefono. Margherita lo prese e fece cenno a sua madre di uscire, ma lei volle prima sistemare le coperte del letto, portare via i bicchieri consumati dalle medicine e assicurarsi che la figlia non volesse qualcosa di nutriente da bere.
 -No, non voglio niente- rispose Margherita, forse troppo brusca. Ma sua madre, sospettando che la scortesia fosse dovuta all’influenza, decise di ignorarla e finalmente uscì.
 -May, non essere così cattiva- la rimproverò bonariamente Lauretta, che aveva sentito l’ultima frase dal telefono.
 -È tutto il giorno che mi gironzola intorno, non ce la faccio più!- esclamò lei.
 -Come stai?-
 -Male. Cioè, ora va un po’ meglio, ma stamattina deliravo. E come se non bastasse a ora di pranzo ha chiamato Marco, proprio quando il mal di testa mi stava facendo diventare scema-.
 Sentendo il tono dell’amica, Lauretta dovette trattenersi dall’esultare.
 -Voleva solo essere gentile- disse.
 -Eh ma che palle… sto male, lasciami stare male! Non è che se uno mi chiama, sto meglio…-
 -Se vuoi riattacco- sogghignò Lauretta.
 -Non mi riferisco a te, con te ci voglio parlare. È lui… mi ha riempito di messaggi- borbottò contrita.
 -Per carità, non andare avanti… sono sicura che sono talmente zuccherosi da farmi vomitare- Lauretta rise.
 -Ti prego, è una cosa seria… stiamo insieme da così tanto tempo che mi pare di essermelo sposato-.
 -Dai, non ti preoccupare. Dopotutto, quando sei con lui sei felice-.
 -Bè, sì… il problema è quando con lui non ci sto, perché mi sento sempre più soffocata-.
 -Marghe, stai male sul serio allora, non ti ho mai sentita parlare così…-
 -Mi devono tornare la settimana prossima- disse Margherita, come se potesse essere una giustificazione.
 -Ah, ora capisco. Comunque, sai che abbiamo fatto oggi a scuola?- disse Lauretta.
 -No… aspetta che prendo il diario, così mi appunto i compiti-.
 -Veramente non parlavo dei compiti. Cioè, se vuoi quelli te li posso dare dopo, prima devo raccontarti cosa abbiamo fatto-.
 -D’accordo-.
 -Ho conosciuto Alex, la tipa che piace a Giak!-
 -Sul serio? Com’è?-
 -Bah… una truzzetta come le altre-.
 -È bella?-
 -È molto carina, in effetti. Ha un bel viso, anche se un po’ troppo anonimo… e immagino che si imbottisca di fondotinta, perché la sua pelle sembra perfetta-.
 -Oddio, immagino… di quelle persone che, a salutarle con due baci, ti lasciano le guance di un altro colore- sghignazzò Margherita.
 -Peggio, è fondotinta con i brillantini!-
 A quel punto Margherita stava ridendo di gusto.
 -Non lo so il perché, ma i brillantini mi sembrano tanto una cosa da tredicenni-.
 -Già… però Giak è cotto, quasi bruciato… le ha chiesto di uscire, davanti a me e a Sara- ghignò Lauretta.
 -Davvero? Non pensavo fosse così audace…-
 -Macché audace, è solo innamorato perso… è dolcissimo, mi sono dovuta trattenere per non scoppiargli a ridere in faccia- sorrise Lauretta.
 -Sul serio, non pensavo che Giak fosse così. Peccato però…-
 -Peccato per cosa?-
 -Peccato perché, se davvero esce con Alex, ho perso la scommessa che avevo fatto con Cicca e Riccardo-.
 -Ovvero?- Lauretta già aveva un presentimento abbastanza preciso.
 -Avevamo scommesso su te e Giak, insieme. Vi vedevamo bene come coppia dell’anno…- Margherita scoppiò a ridere.
 -Siete delle carogne! No, davvero! Ma come vi viene in mente?- esclamò Lauretta scandalizzata.
 -Come sarebbe? Ma vi siete visti? Sembrate fatti l’uno per l’altra!-
 -May, per favore. Con Giak ci sto bene, ma non mi piace-.
 -Infatti, manco è bello-.
 -Ehi non è neanche brutto, insomma… in realtà è figo. Cioè, figo nel senso in cui lo intendo io-.
 -Ovvero? Di poche parole e buona musica?-
 -Anche, ma poi è semplicemente… figo. È diverso da tutti gli altri. Siamo amici-.
 -Amici… tu tralasci quello che è successo quel giorno a casa sua e che non volete raccontarci- sogghignò Margherita.
 -Non è successo niente, sul serio. A parte che ci stavano anche i suoi fratelli, ma davvero… non ho la minima intenzione di innamorarmi, né di Giak né di nessun altro-.
 -Perché? Voglio dire, se ti innamorassi di Giak non te lo perdonerei, ma è quel “di nessun altro” che non mi suona…-
 -Perché… dai, è l’ultimo dei miei pensieri. Quest’anno la vedo tragica, a scuola sto andando da cane, e poi tutti gli altri casini… non ci penso proprio. Tra l’altro non mi si fila nessuno- ghignò.
 -E certo, è perché non ti valorizzi. Saresti una bellissima ragazza se…-
 -Se mi conciassi in modo da non essere più io. Quando riuscirai a trascinarmi ad una festa magari potrei anche sottopormi alle tue sessioni di trucco e tutto il resto, ma per il resto sto bene così-.
 -Ci riuscirò, tranquilla- disse Margherita. E in effetti ci sarebbe riuscita, anche se le due avrebbero dovuto aspettare ancora un po’.



Capitoletto breve e fulmineo per rassicurare i miei affezionati lettori che non sono morta, no. Sono vicina all'esserlo, ma penso di non poter dipartire prima che finisca questa storia, quindi per un po' sarò ancora in circolazione :)
Vorrei ringraziare per le recensioni (siete sempre i migliori!), per chi ha inserito tra le seguite e tra le ricordate. Volevo anche scusarmi per essere sparita in questo modo (è da un po' che non rendo la stessa cortesia), ma prometto che recupererò tutti i capitoli non commentati immantinente!
 Ho intenzione di pubblicare subito il capitolo 12 -perché questo è indecentemente corto e privo di significato-; voi nel frattempo pazientate, leggete, al limite recensite, e abbottatevi di panettone (ma senza uvetta o canditi, perché sono altamente nocivi per la salute mentale. Giuro!)
Buon Natale, gente! :)

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Capitolo 12
*** capitolo 12 ***


Avviso! Se siete arrivati fin qui cliccando su "vai all'ultimo capitolo", be', tornate indietro: ci siamo lasciati che i capitoli erano 10, ma questo è il 12 :)
Buona lettura!




Alex non rispose.
Giak non la vide più sull’autobus per la scuola, per i corridoi o in qualsiasi altra parte. Com’era possibile che fosse sparita? Non la beccava più su facebook e non conosceva nessuno che potesse dirgli che fine avesse fatto. In extremis aveva chiesto a Lauretta di carpire notizie da Sara, ma il conoscersi di Sara e Alex era il conoscersi di chi incontrandosi per strada si limita a un saluto senza nemmeno fermarsi a chiacchierare: abbastanza inutile ai fini di Giak.
Il nostro eroe visse novembre e dicembre come un orso in gabbia: girava inquieto, si arrovellava, cercava un modo per uscire da quella situazione in cui si era cacciato. E, mentre faceva tutto ciò, si mangiava le unghie arrivando a far sanguinare le dita.
 Cicca e Riccardo gli dicevano di calmarsi, di avere pazienza. Andarono avanti così per tutto novembre; verso dicembre invece cominciarono a disperare di una risposta, e allora cominciarono a cercare di placare l’illusione dell’amico.    
Margherita aveva saputo della storia giusto perché era vicina ai ragazzi, e continuava a ripetere che secondo lei Alex non si sarebbe rifatta viva, quindi meglio levarsela dalla testa piuttosto che continuare a sperare.
 Lauretta invece non diceva un bel niente: si limitava ad ascoltare le congetture degli altri, senza osare spingersi troppo oltre. Però stette vicina a Giak e continuò a consolarlo quando lo vedeva troppo a pezzi.
 
 Passarono i giorni, si allungarono in settimane e portarono con sé interrogazioni, compiti in classe, sabati e tetre domeniche; l’inverno di Polverano aveva preso piede e un giorno cercò anche di nevicare, dando la scusa a una buona metà della classe per non andare a scuola. Margherita guarì dall’influenza in tempo per litigare furiosamente con Marco, e fu uno dei periodi più lunghi in cui riuscì a rimanere incazzata con lui: non si parlarono per tre giorni, fino a quando lei non si sentì troppo in colpa e lo cercò con gli occhi dolci e imploranti di far pace. 
 I ragazzi erano vicini al crollo nervoso, abbastanza per aspettare con ansia le vacanze di natale. Arrancavano in quel quinto ginnasio, così diverso dall’anno precedente, con sempre meno voglia di alzarsi dal letto la mattina. Più volte Giak perse l’autobus.
 -Animo, manca poco alle vacanze- disse Riccardo una mattina, prima di entrare a scuola. Si erano sistemati sul muretto sotto la scuola, ormai loro territorio da tempo, ed aspettavano l’ultimo minuto prima che suonasse la campana dell’inizio delle lezioni.
 -Solo una settimana- aggiunse Margherita.
 -Una settimana, un compito di inglese e parecchie interrogazioni-.
 -Giak, non demoralizzarmi così…-
 -Non voglio demoralizzarti, ma… i prof vogliono vederci sputare sangue- borbottò.
 -Ormai nel sangue che abbiamo sputato ci nuotiamo-.
 -Io affogo- sogghignò Lauretta.
 -Dai dai… comunque, voi che fate per Natale, restate a Polverano?- chiese Riccardo. Tutti risposero più o meno che sì, avrebbero trascorso le vacanze a casa, magari si sarebbero spostati solo per il giorno di Natale e poi sarebbero tornati.
 -Sentite, l’altra sera pensavo -smettetela di sghignazzare, ogni tanto succede anche a me- che magari per capodanno possiamo organizzarci. . .-  disse Cicca.
 -Possiamo vedere che si fa ai vari locali e poi decidere- propose Margherita.
 -Eh no, è per questo che pensavo. . . se io butto fuori i miei e organizziamo una festa da me? La mansarda è territorio mio, loro mi lasceranno fare quello che voglio. . .-
 -Che fortuna!- esclamò Lauretta.
 -Già! Dai, prendiamo un po’ di gente e facciamo una mega festa. . . e poi si passa la notte da me!-
 -Fico. . . penso che si possa fare- disse Riccardo.
 -Dovrò contrattare a lungo. . . ma la tua idea mi piace- aggiunse Giak.
 -Per voi?- chiese Cicca rivolgendosi alle ragazze.
 -Quanto al restare la notte da te lo escludo, i miei non me lo lascerebbero fare, ma per il resto è ok- sorrise Margherita.
 -Lauretta?-
 Lauretta era rimasta a fantasticare da quando Cicca aveva fatto la sua proposta. Aveva pensato che, severi com’erano, sua madre e suo padre non l’avrebbero mandata, ma poi ci aveva riflettuto meglio. . .
 -Sì. Io vengo al cento per cento-.
 
 Nei giorni che precedettero le agognate vacanze, i cinque iniziarono ad organizzare il progetto.
 Cicca non ci mise molto per ottenere il nullaosta: “mamma, papà, il trentuno che fate? Ah sì? Sembra divertente, salutatemi tutti. . . io stavo pensando di far venire un po’ di amici qui, non tanti ovviamente. Ci vorremmo mettere su in mansarda. . . è ok, sì? Penseremo a tutto noi, prepareremo, puliremo, voi non dovrete preoccuparvi di nulla. Siamo grandi! Ehm, non so che ora faremo. . . male che va, se proprio rimane qualcuno che non ha un passaggio per tornare a casa, dico di portare un sacco a pelo e dormiamo lì, che problemi ci sono. . .”. Aveva sfoderato il suo ghignò più convincente, da persona responsabile; così, dopo un paio di giorni e dopo aver vinto l’iniziale perplessità dei due matusa, aveva potuto annunciare agli amici di iniziare ad avvertire i genitori che per la notte di san Silvestro non ci sarebbero stati.
 A Riccardo andò subito liscia: era amico di Cicca da troppo tempo perché sorgessero complicazioni.
 I genitori di Giak furono presi un po’ in contropiede dai programmi del loro primogenito, e ci vollero alcuni giorni perché riuscissero a giungere a un compromesso. In fine, dopo aver battagliato, gli concessero di rimanere da Cicca (il fatto che la festa fosse in una casa li aveva tranquillizzati), ma di non tornare tardi. Lasciarono in sospeso la decisione del coprifuoco, ma Giak pensò che sarebbe stato meglio lasciarlo decidere il più tardi possibile, così da rimanere dall‘amico per la notte prendendoli in contropiede.
 A Margherita, come lei si aspettava, negarono il permesso di rimanere fuori tutta la notte, per il semplice fatto che la casa di chi le aveva proposto ciò era di un ragazzo. Poi le chiesero se ci sarebbe stato anche Marco.
I genitori di Margherita si fidavano ciecamente di Marco: era come se lui fosse un lasciapassare per la libertà di Margherita.
Lei ci pensò su, poi disse di sì.
In realtà a Marco non glie lo avrebbe mai detto.
Lauretta invece aveva un piano che si andava delineando nella sua mente: più si delineava, più le sembrava perfetto e sicuro.
“Come fai ad essere sicura che ti lasceranno andare da Cicca, e che ti faranno passare tutta la notte a casa sua?” le aveva chiesto Margherita quando, appena fatta la proposta, lei aveva dato per sicura la sua presenza.
 “Magia” aveva risposto lei.
 Una volta avuto il via libera da Cicca, Lauretta tornò a casa animata da un coraggio che non aveva mai provato.
Rientrò che sua madre ancora non era tornata dal lavoro. Mise a bollire l’acqua per la pasta, apparecchiò ed aspettò che tornasse.
Quando sua madre le chiese cosa avesse fatto a scuola lei le raccontò poco e niente, per poi partire con il discorso che rimbalzava nella sua testa da quando Cicca aveva fatto la sua proposta.
 -Mamma, ma che programmi ci sono per capodanno?- chiese.
 -Ancora non lo so. . . forse andiamo da tuo zio in città. Che ne dici?-
 -In realtà te l’ho chiesto perché papà mi ha detto che lui va da nonno e nonna sulla costa, e mi aveva chiesto di andare con lui. . .-
 -Ah- sua madre rispose con un suono secco e distaccato. Poi si impose di essere più dolce:
 -Tu che preferisci fare?- chiese.
 -Ehm, ecco, dai nonni ci saranno pure gli zii e i cugini, scendono apposta da Milano e non li vedo da tempo. . . ti spiace se vado con lui?- Lauretta la guardò speranzosa.
 -Non ti preoccupare, vai pure. Passerai il capodanno da tuo padre- sua madre sorrise, un po’ risentita forse. . . ma, se sua figlia voleva rivedere dei parenti che non sentiva da tempo, non le sembrò giusto negarglielo.
 Lauretta sorrise e, in un impeto di euforia, sparecchiò e lavò i piatti al posto di sua madre.
La donna la guardò affaccendarsi per casa, sospirando. Lauretta le sembrava sempre più misteriosa da quando lei e suo padre si erano separati, ed era leggermente preoccupata. Non riusciva a capire quando mentiva e quando diceva la verità. Tuttavia, decise di fidarsi: l’aveva cresciuta lei e sperava bastasse quello.
 
 La prima fase era filata liscia come l’olio. Adesso, prima di garantire di già la sua presenza a casa di Cicca, aveva bisogno di parlare con suo padre, per questo aspettò il sabato prima delle vacanze.
 Uscita da scuola prese l’autobus opposto al capolinea e arrivò a casa del padre dopo meno di venti minuti.
 Prima di far girare la chiave nella toppa di quell’appartamento, fece un bel respiro: non le piaceva quella casa, niente da fare. La sensazione di abbandono era troppo pesante per poter essere ignorata.
Suo padre ancora non era rientrato dal lavoro quando lei arrivò. Lauretta poggiò lo zaino sul pavimento del salotto e si guardò disperatamente attorno: non le veniva in mente nessun modo per rendere più piacevole quell’appartamento. E poi era talmente disordinato da far venire l’angoscia: c’erano fascicoli di fogli ovunque, c’erano articoli di cancelleria sparsi su tutto il piano della scrivania. . . e piatti e pentole nel lavello della cucina, e il bagno in condizioni indicibili.
Rassegnata, Lauretta cominciò a lavare i piatti, goffa e inesperta.
 -Lauretta buongiorno!- salutò allegramente suo padre quando rientrò.
 -Questa casa è un letamaio- disse Lauretta in tutta risposta.
 -Sapevo che ti piace tanto riordinare e stavo aspettando te- sogghignò suo padre. Lauretta lo fissò torva.
 -Dai- continuò allora lui -aiutami a mettere a posto la spesa, che ti preparo qualcosa da mangiare-. Posò sul tavolo della cucina un paio di buste del supermercato e Lauretta le guardò sconsolata. Si sentiva improvvisamente stanca.
 Buttò la spesa alla bell’è meglio dentro i ripiani, poi si sedette davanti alla televisione ed aspettò che suo padre servisse il pranzo.
 -Su col morale. Come è andata la scuola?- chiese lui riempiendole il piatto di pasta.
 -Abbiamo fatto il compito di inglese. . .- borbottò lei.
 -Come pensi che sia andato?-
 -Spero bene-.
 -Inglese è facile. Magari ti mando in vacanza studio quest’estate-.
 -È lontana l‘estate-.
 -Inizia a pensarci. E invece oggi che fai?-
 -Boh. . .- Lauretta si lasciò dondolare sui piedi della sedia -forse vado all’Aquilotto con alcuni amici-.
 -L’Aquilotto è quel posto che sta al Viale?-
 -Sì. . . -
 -Non mi piace- disse suo padre.
 -A me sì. C’è sempre un sacco di gente da incontrare-.
 -Perché lì la gente va a farsi le tazze. Lauretta, sii responsabile, mi raccomando-.
 -Papà, ho quasi sedici anni- sibilò lei, ponendo così fine a quella che sarebbe potuta diventare una discussione con esiti per nulla piacevoli (era abituata a passare il sabato sera a casa, ma non in quella casa).
 Continuarono a mangiare in silenzio, mentre sua padre sembrava assorbito dal telegiornale. Quando ebbero entrambi finito di mangiare, Lauretta pensò che fosse il momento giusto:
 -Papà, ma a capodanno che progetti ci sono in cantiere?- chiese.
 -Penso che faremo come al solito, andiamo sulla costa dalla nonna-.
 -Ah figo. . . te lo chiedo perché mamma mi ha detto che quest’anno arriva la prozia Luana, e siccome si ferma dagli zii lei ha detto che le farebbe piacere se ci fossi anch’io. . .- Lauretta fissò il padre con aria quasi mortificata.
 -Oh. Ah. Be‘, se le cose stanno così. . .-
 -Ma si dai, non preoccuparti. Tanto avevate già deciso per le feste, no? A Natale il ventiquattro sto da te, il venticinque con mamma, poi a capodanno da mamma e la befana da te. . .- Lauretta cercò di tranquillizzarlo.
 -Mi sembra perfetto, sì. . . immagino che vada bene. Certo, tua madre avrebbe anche potuto avvertire prima. . .- sibilò lui con astio. Un campanello minacciò di squillare nella testa di Lauretta.
 -Papà, per piacere- disse -evita di parlare così-. Avrebbe voluto dirgli che le dava oltremodo fastidio, che non sopportava essere la faccia comune di ripicche e lamentele, ma non lo fece -era sicura che non ci sarebbe riuscita.
Suo padre però capì l’antifona.
 -Ok. Bene, allora siamo d’accordo. . . passerai il capodanno da tua madre-. 
 Lauretta sorrise felice, e per suo padre fu un toccasana vederla così. Non avrebbe mai pensato che sarebbe stata così contenta di rivedere una prozia di cui non sapeva molto altro a parte il nome.
 
 -Ce l’ho fatta!- annunciò Lauretta quella sera agli amici.
 -Ti lasciano venire?- chiese Cicca.
 -Sì!-
 -E ti fanno rimanere anche per tutta la notte?-
 -Sì!- Lauretta sorrise, al settimo cielo.
 -Che figo! I tuoi si che ci sanno fare- disse Riccardo.
 -Macché, sono stati veramente stupidi!- adesso Lauretta stava ghignando.
 -Perché?-
 -Non ho detto che verrò da te, però mi sono fatta due conti. . . insomma, mamma è convinta che io sarò da papà e papà che io sarò da mamma-.
 Era all’Aquilotto insieme a Giak, Cicca e Riccardo, e stavano chiacchierando da un po’. Inizialmente Lauretta era stata un po’ titubante, ma poi si era risolta per lasciare Sara e le sue amiche in mezzo al corso, a cercare una pizzeria e qualche amico per una pizza, ed ad andare all’Aquilotto dai ragazzi.
 Il pub era pieno di gente, tipi con giubbotti scuri e ragazze con occhi truccati di nero e sorrisi collaudati, ma a Lauretta quel posto piaceva: appena era arrivata aveva notato Giak seduto al tavolo con Cicca, Riccardo e alcuni altri amici che lei neanche conosceva, ma loro erano stati felici di vederla. Le avevano offerto una birra e l’avevano presentata agli amici, che poi altro non erano se non conoscenti che si erano fermati a scambiare quattro chiacchiere.
 -Quindi tu sei confermata. Riccardo pure. Giak?-
 -Conta pure me-.
 -Lauretta, non hai paura a passare la notte con questi loschi tipi?- chiese uno degli amici.
 -Non penso che dormiremo. A meno di non collassare sul divano ubriachi fradici-.
 -Contaci! Qualcuno sicuro fa quella fine- rise Cicca. -Voi ci sarete?- chiese poi a quei tre tipi seduti al tavolo con loro.
 -Ti facciamo sapere, ok?- rispose uno di loro.
 -Ok. Non vedo l’ora… Lauretta, Margherita si porta anche Marco?-
 -Oh bella, mi sa proprio di no!- sorrise lei, e scatenò un’ondata di ilarità nel gruppo di amici.
 -Come mai?- chiese Riccardo dopo essersi ripreso.
 -Non ne sono sicura, può anche darsi che all’ultimo momento ci ripensi, ma mi ha detto che non aveva voglia di passare un’ennesima serata con lui...-
 -Yuppi, ho quasi vinto la scommessa!!- esclamò Cicca.
 Gli amici risero di gusto e a Riccardo andò quasi di traverso la sua birra, ormai quasi agli sgoccioli.
 -Della classe chi inviterai?-
 -Quasi tutti, tranne Cellini e gli amici suoi che sicuro vanno all’Omega, sono PR. . .-
 -Ci saranno anche Belluni e compagnia, oppure faranno le snob come al solito?- chiese Riccardo.
 -Spero che vengano, Belluni e l’amica sua sono certi pezzi di gnocche…-
 -Tzè- sogghignò Lauretta.
 -Invidiosetta?- Giak le diede una gomitata.
 -Macché. . . mi faranno solo venire i complessi di inferiorità: se vengono si presenteranno infilate in quei vestitini che piacciono tanto a voi maschietti...-
 -Cicca, falle venire e diventi il mio dio- esclamò Riccardo.
 -Giak, perché non chiami Alex e la inviti?- disse Lauretta -Cicca, diglielo pure tu, che almeno ne hai la facoltà-.
 -Potrebbe essere un’idea. Insomma, è sparita, ma magari se ti fai sentire tu. . .-
 Giak corrugò le labbra, sovrappensiero.
 -Allora, glie lo chiederai?- chiese Lauretta incoraggiante.
 -Non lo so. . . non è che io non abbia provato a sentirla, cosa pensate. È che. . . è sparita. . .- il nostro eroe si strinse nelle spalle, rassegnato.
 -Provaci! Dai, voglio che tu glie lo chieda-
 -Non hai niente da perdere!- aggiunse Riccardo. Giak sorrise mesto, poi alzò il bicchiere di birra:
 -Al nostro capodanno!- disse. Gli amici lo seguirono e brindarono con lui.
Era una sera di dicembre fredda, l’aria e il vento che tirava erano talmente gelidi da spaccare le labbra e il cielo era così bianco da promettere neve. Ma quell’inverno rigido e duro non sembrò ancora troppo pesante per quel nuovo gruppo di amici.




 Ps: ad avercela quest'anno, una mansarda disponibile! D:



 

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Capitolo 13
*** capitolo 13 ***


Il pomeriggio del trentuno Lauretta uscì di casa col cuore in fibrillazione.
Per essere la fine dell’anno il clima era caldo in maniera indecente: era uscita con un paio di jeans e una felpa sotto il cappotto e, insieme al suo cappello di lana grigio e alla sciarpa dello stesso colore, le bastava quello per non sentire freddo.
Dentro lo zaino aveva stipato cosmetici che erano quasi intonsi e un vestito, uno dei pochi decenti che avesse; l’aveva comprato insieme a sua madre e a Sara quando si trattò di andare al matrimonio della zia e aveva pensato che, con un coprispalle chiaro, sarebbe andato bene per la loro serata. Quanto alle scarpe,Margherita le aveva assicurato che glie ne avrebbe prestato un paio lei.
 Era uscita di casa e sua madre era convinta che stesse andando a casa di suo padre. Lui però non l’aspettava, secondo i piani, e allora Lauretta aveva chiesto a Margherita asilo per non dover vagabondare prima della festa.
 Arrivò a casa della sua amica dopo un viaggio in autobus e un tratto a piedi piuttosto insidioso. Il portone era aperto, così Lauretta entrò circospetta e, esaltata, salì a piedi fino al terzo piano.
 -È oggi!- la salutò Margherita accogliendola in casa. Lauretta salutò lei e poi si sporse nel salotto per salutare anche i genitori.
 -Ciao Lauretta- le disse gentilmente la madre della sua amica -tutto bene?-
 -Diciamo di sì. . . con queste vacanze mi sto raffiatando- sorrise lei.
 -Badate a non divertirvi troppo- scherzò la signora.
 -Non c’è pericolo- intervenne Margherita.
 -Come no! Stasera vi darete alla pazza gioia, immagino-.
 -Sì sì- Margherita troncò la conversazione e trascinò Lauretta in camera sua. Una volta lì, chiuse la porta e ci si appoggiò contro. Poi sorrise emozionata:
 -Oooh sei ufficialmente scappata di casa!- sussurrò. Lauretta ghignò:
 -Sssh. Piuttosto, guarda qui-. Aprì lo zaino e fece prendere aria al vestito: un abito verde scuro sbocciò davanti alle due e Margherita rimase a bocca aperta.
 -Wow- sussurrò. Prese il vestito dalle mani di Lauretta e lo accostò al corpo dell’amica. Senza parole.
 -Lauretta, ti prego, tutto quello che devi fare è chiudere gli occhi e lasciarti alle mie cure. Diventerai talmente bona che Belluni e compagnia ci rimarranno di cacca-.   
 -Ah ah. Tu che ti metti?- chiese Lauretta. Margherita posò con cura il vestito di Lauretta sul letto, lisciandolo per far sparire le pieghe dovute allo scomodo viaggio nello zaino, poi si arrampicò sull’armadio e cacciò un completo: pantaloni neri abbinati a una giacca dello stesso colore e tessuto, dal taglio formale, e sotto una t-shirt grigia lunga e lenta sulle sue curve.
 -Fantastico!- mormorò Lauretta. Margherita aveva avuto fin troppo buon senso a non optare per abitini attillati o pantaloni a vita bassa, e con i vestiti che aveva scelto il risultato sarebbe stato tutto sommato piacevole alla vista.
 -Fammi vedere le scarpe che hai, così vedo se mettermi delle calze o leggins- disse Lauretta.
 Margherita la condusse nell’anticamera e aprì una scarpiera, al ripiano più basso.
 -Io metto queste- disse prendendo un paio di decolleté grigie. -Riprendono il colore della maglia, no?-
 -Sono bellissime!- esclamò Lauretta.
 -Be‘, scegli un paio. Il tuo vestito è sul verde, ma il copri spalle è azzurro. . . Mmm. . .- storse la bocca, contrariata.
 -il verde è un bel colore!-
 -Chi di verde si veste troppo di beltà sua si fida- recitò Margherita.
 -Grazie nonna. . . secondo te queste come sono?- disse Lauretta prendendone un paio chiare.
 -Nah. . . ti piacciono queste?- Margherita cacciò un paio di scarpe nere.
 -Ehm. . . sono alte- mormorò Lauretta.
 -Allora. . . ho avuto un’idea. Hai detto che porti pure dei leggins, giusto? Di che colore?-
 -Neri, ovvio-.
 -Verde, nero. . . allora prendi questi!- Margherita tirò fuori da una scatola degli stivali neri, con poco più di cinque centimetri di tacco, morbidi e lenti sui polpacci.
 -Belli. . . May, ti adoro!- esclamò Lauretta abbracciandola.
 -Tranquilla cara. Però il celeste non c’entra niente. . .-
 -Non ho altro. . .-
 -Io sì- sorrise Margherita. Arraffò le scarpe e trascinò di nuovo Lauretta in camera. Aprì un’anta dell’armadio, rovistò per un po’ e poi tirò fuori un copri spalle, molto più essenziale di quello di Lauretta, di cotone nero.
 -Questo te lo annodi sul davanti. . . così ti mette anche in risalto le tette, che non fa mai male- disse maliziosa. -l’unico problema è che questo me lo metto tutti i giorni, anche per andare a scuola. . . La gente lo noterà. . . Ti dà fastidio?-
 -E perché dovrebbe? L’importante è andare con qualcosa addosso-.
 -Allora è andata!-.
 -Grazie May. . . come posso fare per sdebitarmi?-
 -Puoi sottoporti alla mia sessione di trucco-.
 -Oh. . . Be‘, penso che si possa fare-.
 In altri contesti Lauretta non avrebbe mai permesso alla sua amica di torturarla in quel modo, ma quella sera era diverso: si sentivano entrambe euforiche ed elettrizzate, talmente tanto da sentirsi al sicuro da ogni eccesso. 
  Margherita si divertì a truccare come si deve la sua amica: poté finalmente levarsi la soddisfazione di cospargerla di fondotinta e phard, di incorniciare i suoi occhi con matita e mascara e, dulcis in fundo, di passare sulle sue labbra un leggero velo di rossetto e sulle palpebre una spolverata di ombretto verde.
A opera finita, Lauretta ci mise un po’ per riconoscersi: sotto quel caschetto corto, il viso che era abituata a vedere non aveva più occhiaie, bollicine o altre porcherie del genere. Gli occhi sembravano più profondi, la bocca più piena. Lauretta rimase senza parole. Margherita ci aveva visto bene: verde e nero addosso a lei facevano il panico.
 -Mi passo la piastra e siamo pronte- disse Margherita. Lauretta annuì, ancora estasiata.
 -Scommetto che da oggi ti truccherai sempre, vero?- ghignò la sua amica.
 -Macché, mica so farlo bene come te. . . però complimenti, davvero-.
 -Li stenderai tutti- disse Margherita mentre la piastra sibilava sui suoi capelli.
 -Lasciati una ciocca riccia- suggerì Lauretta.
 -Fa cagare- obiettò lei.
 -Invece no! Scegli una delle ciocche più definite e lasciala com’è, poi ci metti un po’ di lacca-.
 Margherita abbassò la piastra e la fissò con un mezzo sorriso:
 -Insomma stasera sballo totale- sogghignò. Però si curò di mettere una ciocca al sicuro.
 
 Per la seconda volta Cicca non riconobbe Lauretta alla telecamera del citofono. Aprì lo stesso, perché aveva riconosciuto Margherita; ma, quando si ritrovò davanti Lauretta, rimase a bocca aperta.
 -Oh-mio-Dio- biascicò. Lauretta gli fece una linguaccia.
 -Margherita, l’hai fatta tu così?- chiese Cicca strabiliato.
 -No, l’ha fatta sua mamma così. Io ho solo dato una sistemata- disse lei.
 -Non ci credo. . . gira!- ordinò Cicca. Lauretta fece una giravolta, un po’ impacciata sui tacchi, e la gonna del vestito si gonfiò leggermente, lasciando Cicca ancora più senza fiato.
 -Ottimo lavoro, davvero!- disse infine. Poi le condusse nella parte vecchia.
C’era già un po’ di gente: una manciata di compagni di classe e un paio di amici di Cicca, che stavano sistemando cibo e bibite su un tavolo coperto da una tristissima tovaglia di carta.
 -Ciao Margherita. Ciao Laure… Lauretta, sei davvero tu?- questo era Riccardo. Lauretta sorrise, alzando gli occhi al cielo.
 -I miei se ne sono andati poco fa. Stanno con degli amici e si fanno aperitivo e gran cenone, come al solito. Ho chiesto quando hanno intenzione di tornare, ma sono stati evasivi. . . sperano di beccarci in fallo, quindi occhio-.
 -Grandioso!- sorrise Margherita.
 -Ah ah ah. Comunque, io pure stimo te: hai mollato Marco!-
 -Non l’ho mollato. . . è che. . .-
 -Non voleva averlo fra i piedi anche stasera- concluse per lei Lauretta. E Margherita, invece di controbattere, sorrise enigmatica.
 Pian piano la festa decollò: i brindisi cominciarono non appena arrivarono tutti gli invitati.
C’era buona parte della loro classe, i vecchi amici di Giak e quelli di Cicca e Riccardo. Per tutti quei ragazzi, le ragazze erano abbastanza acchittate: Belluni e compagnia mozzavano il respiro, ma anche loro erano rimaste basite nel vedere Lauretta. Ovviamente avevano avuto da ridire riguardo le gambe troppo magre e il fondoschiena, ma non si erano spinte oltre.
 Margherita e Lauretta giravano in coppia: conobbero diversi ragazzi e bevvero più di quanto avessero mai fatto in sedici anni di vita.
Giak non fu da meno: aveva strappato ai genitori il permesso di rimanere a dormire da Cicca e, non appena aveva allontanato la rogna di dover contrattare, i suoi pensieri si erano concentrati in una sola direzione: Alex.
Le aveva mandato un messaggio. Le aveva scritto una mail su Facebook. Una volta l’aveva anche chiamata, ma aveva cambiato idea dopo il primo squillo e allora aveva riattaccato.
Era stato fra i primi ad arrivare, in tempo per salutare i genitori di Cicca e far vedere loro quanto gli amici del figlio fossero dei cari e bravi ragazzi, con la testa sulle spalle e oltremodo coscienziosi.
Non appena si furono allontanati, avevano cacciato gli alcolici nascosti tra coca cola, fanta, succhi di frutta, timballi e cotechino con lenticchie.
Ognuno aveva portato qualcosa: le ragazze principalmente roba da mangiare (avanzi di pranzi e cene luculliane, avevano garantito, nessun disturbo), alcune anche birra e bottiglie di spumante, i ragazzi si erano per lo più concentrati sull’alcol. Erano quelli che volevano avere a tutti i costi qualcosa da scrivere su Facebook il giorno dopo.
 Giak si aggirava tra gli amici, vecchi e nuovi, sconsolato: avrebbe voluto avere Alex con lui. In realtà la odiava: chi era lei per sparire in quel modo, senza una parola? Riccardo e Cicca forse avevano ragione, era una bimbetta con la puzza sotto al naso e. . . e una pelle bellissima. Chissà come si sarebbe vestita se fosse venuta. Chissà dov’era in quel momento. . .
 -Tieni- qualcuno gli porse un bicchiere di plastica, poi si sedette di fianco a lui sul divano. Giak non si era neanche reso conto di essersi eclissato, fino a quando non era arrivata Lauretta.
 -Grazie. Cos’è?- chiese.
 -Succo di mela verde corretto con della vodka. È buono- disse lei.
 -Pensavo che l’alcol non ti andasse a genio-.
 -In genere no, ma questa è l’ultima sera dell’anno. Voglio concedermi qualche strappo- ghignò lei.
 -Direi che già hai osato abbastanza. Sono rimasto l’unico a non averti detto quando sei mozzafiato con questo vestito, vero?-
 -Ehm. . .- Lauretta spinse la gonna del vestito a coprire di più le gambe.
 -Tranquilla, non te lo dirò. Se devo essere sincero, ti preferisco al naturale-. Giak rise, dandole di gomito.
 -Anche io!- Lauretta sorrise e alzò il bicchiere.
 -Brindiamo. Ti vedo troppo scoglionato stasera- disse.
Giak fissò sovrappensiero il bicchiere che gli aveva dato, poi arricciò l’angolo della bocca e lo alzò. Solo che Lauretta ritrasse il suo.
 -È per Alex, vero? Non è voluta venire?- chiese, più seria questa volta. Giak sospirò:
 -Non si è proprio fatta sentire. Non so più dove sbattere la testa, è come se volesse evitami-.
 Lauretta lo guardò con sguardo compassionevole, poi cercò di sorridere:
 -Mi spiace. . . si vede lontano un miglio che a lei ci tieni tanto, e mi sentirei male io se ti dicessi che faresti meglio a togliertela dalla testa. . .-
 -È che non capisco dove ho sbagliato. . . ok, sono stato impulsivo, ma la parlantina per pisciarmi non le manca di certo! Se voleva mettermi al mio posto, le sarebbe bastato semplicemente dirmi “ma fammi il piacere” e sarei stato più soddisfatto, a momenti!- 
 -Infatti sembra strano anche a me… però magari puoi passare al contrattacco- propose Lauretta.
 -È inutile… Cicca, Riccardo e Margherita continuano a dirmi che dovrei lasciar pedere…-
 -Ma sarebbe un peccato, se prima non provi tutto il possibile! Secondo me dovresti provare a stuzzicarla. Insomma, siete amici su Facebook, giusto?-
 -Solo lì ormai- borbottò Giak.
 -E allora prova a lanciare qualche sasso… che ne so, butta qualche osservazione…-
 -È la cosa più patetica che esista!- esclamò Giak.
 -Be', non ti offendere, ma a quanto pare anche Alex è patetica, se non ha neanche le palle per parlare chiaro a un amico!-
Giak si gonfiò, poi però cacciò l’ennesimo sospiro:
 -Non lo so… ci devo pensare-.
 -Mettilo tra i propositi per il nuovo anno- ghignò Lauretta. Giak arricciò gli angoli della bocca, poi alzò il bicchiere:
 -Brindiamo- disse.
 -A cosa?-
 -Agli esiti delle nostre azioni, buoni o brutti che siano-.
 
 Quel brindisi Lauretta lo prese in parola, soprattutto la seconda parte: sicura di non dover ritornare a casa, quella sera assaggiò ogni drink che le veniva proposto, sotto lo sguardo prima divertito ed elettrizzato, poi stizzito, di Margherita. Lei non poteva bere tanto, i suoi genitori se ne sarebbero accorti, ma cercava lo stesso di tenere testa a quella che aveva preso come una sfida.
In realtà non lo era affatto; se a Lauretta stava piacendo bere, era solo perché non aveva mai sentito la testa girarle così forte. Fino al brindisi di mezzanotte si era contenuta, voleva godersi la festa e poi poterla ricordare. Ma alcuni problemi logistici segnarono la sua serata: non c’era stato un accordo su chi dovesse portate lo spumante, così ognuno aveva pensato che, tra tutti quelli regalati durante le feste, sarebbe stato meglio portarne una bottiglia: a casa di Cicca quella sera ne girava un numero indefinito. Dovendole consumare tutte prima che tornassero i genitori del padrone di casa, al primo brindisi ne seguì un altro, e poi un altro, e ancora un altro…
 A quel punto gli invitati dovevano decidere se devastarsi oppure mantenersi sani.
 La testa di Lauretta girava, girava. Si imponeva di restare lucida, ma si ritrovava sempre a ridere sguaiatamente con gli amici di Cicca e a farsi offrire altri drink. Presto si abbandonò a se stessa e non si accorse neanche della gente che cominciava ad andarsene. Non ricordò di Margherita che la salutava.
Si ritrovò affondata nel divano sul quale aveva brindato con Giak, ma questa volta ad occuparlo c’erano una manciata di amici di Cicca e Riccardo, poco meno ubriachi di lei e con le idee molto più chiare. Il più vicino a lei aveva già fatto scivolare il braccio sullo schienale del divano, dietro la nuca di Lauretta.
Chissà di cosa stavano parlando. Questo sarebbe stato un mistero a cui nessuno avrebbe saputo dare una spiegazione. Il tipo si avvicinava sempre di più, adesso stava abbracciando Lauretta e le aveva fatto abbandonare la testa sulla sua spalla. Continuava a ridere e scherzare con gli amici, mentre Lauretta si sforzò per un attimo di riemergere da quell’oblio che le stava piacendo così tanto.
 -Sembro un panda, non ci far caso, ho il trucco sbavato…- gorgheggiò al tipo. Quello rise:
 -Non ti preoccupare, stai bene- disse. Poi le carezze sul braccio si fecero più insistenti, scavalcarono la spalla e si avvicinarono a luoghi meno innocenti, quali la sua scollatura. Lauretta si forzò di ricordarsi come allontanare quella mano, e la prima cosa che le venne in mente fu di scostarsi.
 -No dai, rimani così…- le disse il tipo.
 -Oh andiamo, levati- borbottò lei contrariata. Adesso voleva riemergere davvero.
 Il tipo le passò l’altra mano tra i capelli, carezzandoli con le dita, poi cercò di tornare all’attacco.
 Giak stava quasi bene. Reggeva l’alcol più di quanto ci si aspettasse.
Si aggirava con Cicca tra gli invitati, prendendo in giro quelli già partiti e divertendosi a vedere una delle ultime ragazze rimaste camminare a piedi nudi, dopo aver abbandonato quei tacchi vertiginosi con i quali si era presentata. Poi però aveva spaziato con lo sguardo lungo quella mansarda, sorseggiando una birra, e aveva visto Lauretta stravaccata su un divanetto, ormai andata. L’altra metà del divano era occupata da tre amici di Cicca e Riccardo che conosceva di vista, e non gli era sfuggito il fare allusivo di quello che aveva accolto la sua amica tra le braccia. Si avvicinò.
 -Lauretta, sei a pezzi- esclamò a voce volutamente troppo alta. Gli amici alzarono lo sguardo.
 -Giak, dammi un sorso- disse quello che stava abbracciando Lauretta, ammiccando alla birra.
 -Te la lascio, ma levati di qui. Lauretta è andata, non fare casini, che poi si incazza-.
 Il tipo alzò gli occhi al cielo e poi districò la mano audace da Lauretta per prendere la birra che Giak gli offriva.
 -Oddio, è tardi… mia madre sta qui per le tre, e mancano dieci minuti- disse.
 -Occhio, parla il meno possibile. Se si accorge che sei ubriaco, ti uccide…- disse Giak.
 -Non sono ubriaco. Bella Giak, ci vediamo domani a scuola!- disse. Sì, certo, a scuola: non era ubriaco, no. Comunque se ne andò portandosi dietro i due amici, e Giak fu più sollevato.
 Tornò al divanetto e scoprì che Lauretta ridacchiava.
 -Che succede?- chiese.
 -Il tipo… quello che mi si era incollato… era bello-.
Giak sospirò, poi raddrizzò Lauretta sul divano.
 -Sembri davvero un panda- disse. Lauretta mugugnò:
 -Sono una cacca-.
 -Non essere così drastica, è solo mascara…-
 -Sono ubriaca, vero?-
 -Sì, decisamente-.
 -Oh, cavolo!- 
 -Dai, non è così grave…-
 -Giak-.
 -Eh-.
  Lauretta fece una smorfia a metà tra il sereno e il preoccupato:
 -È la prima volta che mi sento felice e senza pensieri-.
 -Ma se sei partita…-
 -Appunto-.
 E grazie al cielo riuscì a non piangere.
 
 Per le quattro passate se ne erano andati tutti. Ormai Lauretta e Cicca erano completamente partiti, non avevano le forze per far altro se non stare buttati sul divano a costruire discorsi senza né capo né coda.
Riccardo stava leggermente -ma leggermente- meglio. Insieme a Giak fece sparire le bottiglie vuote incriminabili e, già che c’erano, anche tutte le altre porcherie lasciate in giro. Nel frattempo, sghignazzavano senza pietà sui discorsi degli altri due amici.
 Verso le cinque crollarono addormentati.
 Si svegliarono quattro ore dopo, rincoglioniti e senza forze. Il vestito di Lauretta ormai aveva bisogno davvero di una stirata, e quanto al trucco preferì direttamente andarsi a lavare la faccia. Sarebbero passate settimane prima di rivederla truccata in quel modo. 
 La prima mattina di quel nuovo anno che avevano promesso di vivere al meglio fu estremamente parca di parole.
 Fu uno dei risvegli più devastanti per Lauretta; Cicca era ormai abituato agli effetti delle sbronze, ma lei li conosceva solo per sentito dire e… non pensava fossero davvero così ingrati.
 I quattro amici si sistemarono e diedero un’altra superficiale pulita alla mansarda (almeno per non far rendere conto i genitori di Cicca della portata della festa). Poi scesero, Cicca tranquillo, gli altri un po’ timorosi di poter incontrare degli adulti.
 -Buongiorno ragazzi- salutò la madre di Cicca quando entrarono in cucina. Esaminò uno per uno quei volti assonnati, e ripensò a quando lei aveva circa sedici anni. Però non si ricordò di molte cose.
Vide Riccardo che la salutò cordialmente, l’altro ragazzo che conosceva di vista e, infine, una ragazzetta con i capelli corti e un abito un po’ gualcito. Si rese conto che davvero quella aveva passato la notte a casa di suo figlio, e da allora non la perse di vista un istante.
 -Buongiorno- dissero i ragazzi.
 -Volete qualcosa per colazione? Succo di frutta, latte e cereali…?-
 -Acqua- rispose immediatamente Lauretta. Poi si morse il labbro: -ehm, grazie, ma basta solo un bicchiere d’acqua-. Abbassò lo sguardo imbarazzata.
 Non mangiarono molto, furono impegnati per lo più a bere acqua e caffè.
Poi pian piano se ne andarono anche loro: Giak prese l’autobus per primo, poi Lauretta che aveva trovato una linea in grado di farla tornare a casa e per ultimo Riccardo, il più tranquillo e il più vicino.
 Cicca si rilassò sulla sedia della cucina.
 -Come è andata la festa?- chiese con fare inquisitorio sua madre.
 -Bene. Abbiamo mangiato e abbiamo ballato. E abbiamo anche rimesso un po’ in ordine poi. Vedi che siamo bravi ragazzi?- di più non osò dire, dato che la testa minacciava di cedere a quel dolore martellante.
 -Mi sarebbe piaciuto conoscere i tuoi amici, comunque. Riccardo lo conosco, e anche l’altro ragazzo, mi sembra a posto. Ma quell’altra amica tua…-
 -Lauretta?-
 -Sì, quella che se ne è appena andata. È davvero rimasta tutta la notte qui?-
 -Ehm, sì…- Cicca cominciò ad escogitare una maniera per defilarsi.
 Sua madre storse la bocca, ma Cicca fu rapido ad accusare davanti alla madre un bisogno impellente di riposare; si alzò, salì un’ultima volta in mansarda per controllare che non ci fossero indizi della serata e, finalmente, scese in camera sua e si buttò a peso morto sul letto, da dove non sarebbe riemerso che nel primo pomeriggio. 



 Un po' di ritardo, è vero, ma che volete farci... non erano solo i cinque dell'Allegra Brigata ad essere in vacanza.
Un saluto a chiunque sia arrivato fin qui, e un grazie a chi ha recensito e a chi recensirà!

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Capitolo 14
*** capitolo 14 ***


E così i nostri eroi passarono il capodanno; tutto sommato ne furono più che soddisfatti, ed ebbero un bel po’ di cose da raccontare. Margherita si sganasciò in terra dalle risate a sentire di come Lauretta, una volta tornata a casa, aveva dovuto cambiarsi nella cantina, onde evitare che sua madre la sorprendesse con quel vestito che di sicuro l’avrebbe tradita. E Cicca, insieme a Riccardo, prese in giro Lauretta per settimane facendole il verso di quando era ubriaca. “Raimondi ci provava con te e tu manco te ne accorgevi!” esclamava con le lacrime agli occhi. 
 Anche Giak si era divertito, ma dal suo punto di vista la nota storta c’era e si faceva anche sentire, senza essere affatto delicata: era ancora in fissa con l’ormai vecchia storia di Alex.
 
 La scuola ricominciò sotto una coltre di neve che illuse i ragazzi fino all’ultimo, ma le scuole non chiusero.
 -Che fregatura, abitare in un paese sputato sulle montagne e poi tenere le scuole aperte anche con due metri di neve…- disse sconsolato Cicca la mattina del rientro.
 -Macché due metri, ha fatto a malapena cinque centimetri…-
 -Margheri’, non mi smontare! E comunque fa sempre un freddo cane…-
 -Buh- Lauretta era appena arrivata.
 -Ecco appunto. La Donna delle Nevi…- Cicca calciò sconsolato una zolla di neve, e quella si sbriciolò schizzando sulla strada.
Lauretta in effetti si era incappucciata per bene, e aveva anche goduto nel farlo: le era piaciuto coprirsi con un berretto di lana, una sciarpa lunga più o meno due metri, due guanti coordinati al cappello e un lungo cappotto di stoffa nera.
 -Guarda il lato positivo: la neve è farinosa. Se ricomincia a nevicare, si attacca e può darsi che domani ci pariamo il culo- disse Giak con lo sguardo fisso alla zolla che l‘amico aveva appena calciato.
 -Puah, speriamo-.
I quattro si avviarono verso l’entrata, ritenendo che fosse troppo freddo per aspettare Riccardo.
 -Che palle, oggi sono di nuovo solo a casa- disse Giak.
 -Figo, hai casa libera!- esclamò Cicca.
 -Magari, ci sono i due pidocchi…-
 -Oh, che dolci- sogghignò Lauretta.
 -Non li ho mai visti. Sono davvero così bestiali?-
 -Se oggi vieni te ne renderai conto. Almeno sto in compagnia. Volete venire anche voi?- chiese Giak ammiccando alla ragazze.
 -Ok. Lascerò mamma da sola, ma sai che mi importa, con tutte le volte che è stato il contrario…- disse Lauretta.
 -Andata allora- sorrise Margherita.
 -Allora a questo punto vediamo se viene anche Riccardo- disse Giak.
 Riccardo disse che sarebbe venuto. Così, dopo quattro ore di lezione e un’interrogazione di Margherita -venne beccata a storia, ma andò talmente bene che ai ragazzi venne voglia di lapidarla, dal momento che non aveva fatto altro che asserire di non ricordarsi niente- i cinque amici si incamminarono verso la fermata dell’autobus. Scesero in periferia, raccattarono Daniele ed irruppero in casa di Giak.
 -Fate come se foste a casa vostra- disse lui. Sembrò volesse dimenticarsi del fratellino, ma Margherita lo salvò dall’oblio:
 -Daniele, quanti anni hai?- chiese con un largo sorriso.
 -Sette… quasi otto- rispose timido lui.
 -Giak, tuo fratello è bellissimo! Posso rubarlo?- cinguettò.
 -No, lui mi serve. Se vuoi tu posso dare l’altro- ghignò Giak.
 Margherita scosse la testa e raggiunse gli amici, lasciando perdere il piccolo Daniele. Lui si sentì improvvisamente a disagio: con la casa invasa da tutti quei terrificanti Amici Del Fratello Grande, non sapeva dove rifugiarsi, a meno di non voler trascorrere il resto della giornata chiuso in camera.
 I ragazzi si misero a guardate la televisione. Stavano stravaccati sui divani, con Lauretta che si era accomodata su quello più stretto e disordinato.
 -Metti su Italia uno, tra un po’ comincia Futurama- disse Cicca a Giak.
 -Ok. Daniele, metti su Italia uno- ordinò pigramente Giak.
Daniele premette un paio di volte il tasto sotto lo schermo, fino ad arrivare al sesto canale. Stavano dando i cartoni animati.
 -Siediti qui, dai- gli disse Riccardo ammiccando ai divani. Il bambino esaminò attentamente i posti, e poi si accoccolò vicino a Lauretta.
 -Tuo fratello ha capito tutto della vita, guarda quanto mi vuole bene- sorrise lei facendogli posto.
 Aspettarono che tornasse anche Lucio per metterlo ai fornelli (lui godeva di un pizzico di autorità in più dell’ultimogenito, ma questa gli consentiva solo di dire qualche parolaccia prima di sottostare al volere di Giak) e passarono il pomeriggio insieme, a ridere e a guardare i libri di scuola da lontano. In realtà avrebbero davvero voluto studiare, ma in cinque era difficile. Riuscirono a levarsi dai piedi una fastidiosa versione di greco -avere Margherita e Riccardo aiutava- ma quanto agli altri compiti ritennero di poter studiare anche una volta tornati a casa.
 Quando Giak congedò gli amici si erano fatte le sei da un po’. Sua madre era tornata da un’oretta e i suoi fratelli si erano ormai rassegnati a non rompere le scatole.
Giak ebbe voglia di qualcosa da mangiare. Entrò in cucina e aprì il frigo.
 -Che cerchi?- chiese sua madre.
 -Qualcosa di commestibile- rispose lui.
 -Se eviti è meglio. Poi non mangi a cena-.
 -Dipende da quello che cucini. Se mi piace lo mangio-.
 -Non importa, intanto allontanati dal frigo. E vai a studiare, che oggi mi sa proprio che non avete combinato niente-.
 -Ma che ne sai? Abbiamo studiato invece-.
 -Che cosa?-
 -Abbiamo fatto la versione di greco, e mi manca solo di studiare matematica, ma non ci vuole niente…-
 -E allora fallo, invece di rovinarti l’appetito-.
 -Posso farlo dopo-.
 -Dopo quando, di notte?- sua madre emise un grugnito sarcastico.
 -Oh ma che palle, lasciami organizzare, lo so io quello che devo fare!-
 -Lo sapevi anche prima del test di greco? O dell’interrogazione di storia?-
 Giak alzò gli occhi al cielo: da quando aveva riportato quel tre e mezzo le cose avevano cominciato a prendere una brutta piega in casa. E ora andava aggiunta anche quell’interrogazione di storia… non era andata male, cinque e mezzo non era un voto così drastico, ma ai suoi era bastato sentire il “cinque” per cominciare a stargli dietro. Stupidi voti: come se non la sapesse davvero, la storia.
 -Sto in camera- borbottò dopo aver trovato in dispensa un pacco quasi finito di biscotti.
 Irruppe in camera dove Lucio stava facendo finta di scrivere un tema.
 -Sparisci- gli intimò Giak.
 -Non rompere, sto studiando-.
 -Stai “studiando” sul mio territorio. Vattene in sala-.
Lucio imprecò e, con uno sguardo rancoroso, abbandonò la sua postazione. Giak pensò che era stato fin troppo docile, ma non si era accorto che gli aveva rubato tutte le sue penne migliori. Quando se ne rese conto, il reo era già lontano.
 Giak mugugnò, si sedette dietro la scrivania, sistemò il pacco di biscotti davanti a sé e cominciò a leggere gli appunti disordinati che aveva preso durante la lezione di matematica. Non capiva molto, ma pensò che pian piano tutto sarebbe stato più chiaro…
Però, prima che il pian piano prendesse quota, si era fatta ora di cena.
 Giak si sedette a tavola, con Lucio a fianco e suo padre di fronte. Daniele prese posto di fianco a lui e la loro madre arrivò per ultima, con un’enorme pentola piena di pasta.
 -Che avete fatto oggi?- chiese il padre. Era tornato da poco più di un’ora, talmente distrutto che solo con un piatto davanti aveva trovato l’energia per sostenere una conversazione con i figli.
 -Sono venuti un po’ di amici, abbiamo studiato insieme- disse Giak.
 -Siamo sicuri che avete studiato?- chiese sospettoso suo padre.
No! Ci siamo strafatti di canne!
 -Sì, abbiamo fatto una versione di greco- sibilò Giak, indispettito.
 -Magari ti facesse bene- grugnì suo padre.
 -Lo dici come se fossi stupido-.
 Suo padre rizzò le orecchie e lo fulminò con lo sguardo:
 -Se non lo sei, porta risultati decenti. Non mi pare che tu stia brillando quest’anno-.
 -È il primo quadrimestre!-
 -Ma i voti rimangono! Non puoi restare un fancazzista a vita-.
 -Chi ha detto che io voglia essere un fancazzista-.
 -Non hai neanche un’idea di cosa fare dopo la scuola-.
 -Ammesso che ci arrivi- sogghignò Lucio. Giak gli tirò un calcio sotto il tavolo e la loro madre li rimproverò.
 -Io dopo la scuola voglio disegnare- borbottò Giak.
 Non che avesse effettivamente le idee chiare, ma l’unica cosa sicura era che voleva continuare a disegnare. Era l’unica cosa che gli piaceva fare, l’unica cosa che sapeva fare, e non voleva rinunciarvi.
 -Che ci fai con i disegni. . . pensa invece a qualche facoltà! Dove vuoi andare all’università?- esclamò suo padre. Giak alzò gli occhi al cielo, per la seconda volta in quella serata.
 -Ma che ne so. . . non ho neanche finito il ginnasio, cavolo, c’è tempo per pensarci!-
 -Non è mai troppo presto, se inizi ad avere le idee chiare da ora è meglio-.
 -Ce le ho già, le idee chiare- mentì Giak -voglio disegnare-.
 -Più chiare. Puoi disegnare quando ti pare, ma devi prima studiare-.
 -Allora non hai capito: io non diventerò un avvocato o un medico o un ingegnere! Il modo in cui io vorrò guadagnarmi da vivere sarà con i disegni!-
 -Puoi fare i ritratti sui marciapiedi, così ti danno l’elemosina- sogghignò di nuovo Lucio.
 -Sta’ zitto tu!- ruggì Giak. Sentiva una sensazione particolare nel petto, come una creatura che ringhiava contro il mondo. Discutendo con suo padre, accarezzava e tranquillizzava il suo cucciolo.
 -Tu ci scherzi, ma con i disegni ci fai poco. Se non hai una laurea non sei nessuno-.
 -E chissenefrega!- esclamò Giak.
 -Io! Noi! Non pensare di rimanere dai tuoi genitori per sempre!- ruggì suo padre.
 -Oh non vi preoccupate, dovessi essere un peso! Tranquilli, che non appena faccio diciotto anni sarò il primo a levarmi dalle palle!- Giak si alzò, premurandosi di far strusciare la sedia sul pavimento, e si diresse a grandi falcate in camera. Si barricò dentro e mise su il primo cd che gli capitò sotto mano, poi si buttò sul letto.
La musica partì con i suoi ritmi veloci e sedò, seppure in maniera blanda, la furia di Giak. Il nostro eroe fece un paio di respiri profondi, poi scese dal letto e alzò il materasso; teneva i suoi album da disegno nascosti lì sotto, ed era sempre stato un ottimo metodo per scoraggiare i fratellini dallo sfogliare i suoi schizzi. 
Cacciò tutti gli album, e già ad averli in mano si tranquillizzò un po’ di più. Poi cominciò a scorrere i disegni.
 Era davvero l’unica cosa che gli piaceva fare. Non sempre era soddisfatto dei suoi lavori, ma, con tutta l’obiettività possibile, pensava di essere anche abbastanza bravo. Ed era vero, io lo so: i suoi disegni erano semplici, le linee curve e morbide, essenziali, ma sembravano muoversi in una maniera così naturale da lasciare basiti tutti coloro che si ritrovavano davanti uno di quegli schizzi. Non aveva mai seguito particolari corsi, però ogni volta che gli capitava sotto mano un libro di tecnica lo sfogliava volentieri; diciamo più semplicemente che erano gli unici libri degni di considerazione da parte sua. 
Avrebbe potuto prendere un'altra scuola dopo le medie, avrebbe potuto frequentare un liceo artistico ed ottenere molte più soddisfazioni, invece i suoi genitori l'avevano spronato a seguire le loro orme ed ora se a scuola disegnava era solo sui margini del libro di greco.
Era confuso riguardo al suo futuro, ma lo stesso non se ne preoccupava ancora: già il presente gli dava abbastanza problemi.
Giak ancora non lo sapeva, ma con il disegno aveva affascinato Lauretta. Aveva conquistato la stima dei suoi amici e dei suoi compagni di classe. E aveva conquistato Alex, anche se ancora non lo sapeva. . . e lei non voleva certo farglielo sapere.



 capitoletto abbastanza inutile, anche se quanto mai attuale... lo giuro: questa storia l'ho scritta l'anno scorso, ma comincio a pensare di aver avuto una sorta di preveggenza. Ah, quanta saggezza!
Bando alle ciance: grazie a Leitmotiv che continua imperterrita a recensire (balsamo per il mio cuoricino! E guarisci presto -ecco cosa dovevo aggiungere xD), grazie a chi infila la storia tra seguite/da ricordare, grazie anche a chi passa semplicemente a leggiucchiare. Ho fatto un calcolo (ahahahah) e -contando le visite per capitolo- sono arrivata alla conclusione che ho molti molti molti lettori più timidi di me, e quindi incredibilmente silenziosi; gente, non c'è niente da temere, recensite pure... mi piacerebbe sapere se la storia ha un futuro, se vale qualcosa, o anche se fa totalmente schifo :) 

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Capitolo 15
*** capitolo 15 ***


 Lauretta invece non aveva mai pensato a cosa diventare da grande; avere il terrore del futuro in effetti non la aiutava. Ogni volta che si immaginava da grande (diciamo sui trent’anni, ma magari anche più vecchia) le piaceva vedere una donna felice, magari al fianco di un compagno per la vita, magari in un bell’appartamento (il più possibile lontano da Polverano e da quell’aria provinciale che l’aveva cresciuta) e, osando fino ai limiti della cautela, con due o più mocciosi che scorrazzavano per casa, ai quali lei avrebbe voluto un bene dell’anima.
Pensarsi così le piaceva; tuttavia, una volta rifiniti i dettagli più piacevoli dei suoi sogni, si domandava in che modo li avrebbe raggiunti. A quel punto in genere preferiva tornare a fare quello che stava facendo -studiare o guardare la tv o leggere o ascoltare musica.
 A Lauretta non piaceva il futuro. Le piaceva il passato, quello sì: le piaceva ricordare quando da piccola andava al mare con i suoi genitori, oppure si trastullava ripensando anche ai momenti più insignificanti, che non sarebbero più tornati: la sera, quando sua madre tornava dal lavoro e suo padre la aspettava. Le mattine delle domeniche, quando la casa era inondata dal sole e Lauretta usciva nel fazzoletto di terra che era il loro giardino, con sua madre che stendeva i panni e suo padre che girava per casa ancora in ciabatte. Forse era solo una sua impressione, ma, da quando i due si erano separati, Lauretta non aveva più visto la casa brillare di sole in quel modo. E non usciva in giardino neanche spesso come allora. Ma forse era solo colpa della scuola che le stava risucchiando tutte le energie.
 Nel frattempo però il futuro accadeva e, pian piano, diventava passato. Il presente scorreva e Lauretta neanche se ne rendeva conto, immersa com’era nella vita quotidiana. Le ore, le mattinate e i pomeriggi, le giornate sembravano sempre più lunghe, ma poi si rendeva improvvisamente conto che le settimane erano passate alla velocità di un battito di ciglia, alternando le sere da papà e quelle da mamma. Ogni tanto poi si confondeva e prendeva l’autobus per andare dal padre, salvo poi aspettarlo due ore e rendersi conto che quel fine settimana si erano messi d’accordo perché lei stesse con la madre. Ma, tutto sommato, si stava abituando.
Erano i due genitori che non si erano ancora resi conto di doversi abituare alla figlia. Fino a quando non sbucò fuori quello che Lauretta aveva classificato come uno scampato-pericolo.
 Per il santo patrono di Polverano, che cadeva verso la metà di gennaio, suo padre avrebbe voluto portare la sua unica figlia al mare dalla nonna e dai cuginetti.
Lo stesso giorno, sua madre avrebbe voluto portarla con sé in un ponte che avrebbe compreso il fine settimana seguente, cogliendo l’occasione per far visita a una conoscente che abitava in città.
Lauretta in realtà sarebbe stata felicissima di restare a Polverano, ma pensò che sarebbe stato più saggio lasciar fare ai suoi; e poi non era neanche sicura che restassero anche Margherita e gli altri.
Quando successe l’irreparabile, lei ancora non era stata messa al corrente di questi progetti, dal momento che proprio essi determinarono la sua rovina.
Né suo padre né sua madre erano così privi di tatto da metterla di fronte alla scelta (“con chi vuoi passare il ponte?”), per questo ritennero opportuno entrare in contatto con un telefono a separarli e cercare un giusto compromesso. Lei chiamò lui dall’ufficio, mentre Lauretta era a scuola, e lui rispose da casa.
 -Come vanno le cose?- chiese la madre in tono collaudato.
 -Tutto bene. Tu?-
 -Non c‘è male. Senti, che programmi hai per il ponte di san Bufalino?-
 -Non so, pensavo di andare da mamma al mare. Tu?-
 -Io volevo andare a trovare Monica in città…-
 -Ah, bene-.
 -Lauretta viene con me, ok?-
 -Ti ha detto così?-
 -Ehm, non glie l’ho ancora detto, ma dovrebbe andare così-. Il tono della donna si andava facendo categorico.
 -Be', dipende: Lauretta non viene dalla nonna da mesi-.
Silenzio. Lei stava cercando di ricordare se effettivamente le parole dell’ex marito erano vere. Poi le si accese la lampadina sulla testa: 
 -A me risulta che l’abbia vista l’ultima volta a capodanno. Perciò penso di avere il diritto di passare con mia figlia…-
 -Frena! A capodanno Lauretta è stata da te!- esclamò il padre. Ci fu un attimo di silenzio…
 La lite venne evitata solo perché era venuta fuori una questione più spinosa.
 
 Lauretta non si aspettava di essere stata smascherata, per cui rientrò a casa tranquilla. Sua madre era lì che l’aspettava e, quando si misero a tavola, la nostra eroina non sospettò del silenzio tra loro; ci era fin troppo abituata.
Poi però sua madre, con voce emozionata e grave, disse:
 -Dove sei stata a capodanno?- così, andando dritta al punto. Lauretta smise di cincischiare col cibo, mentre la mente le lavorava frenetica: mi hanno scoperta! pensò terrorizzata. Poi però decise di andarci cauta; dopo tutto, poteva darsi che quelli di sua madre fossero poco più che sospetti.
 -Dove ti ho detto che ero- rispose.
 -Da tuo padre?-
 -Sì-.
 -E la nonna che dice?-
 -Te l’ho detto quando sono tornata, le solite cose…-
 -Sicura?-
 Lauretta alzò lo sguardo e lo piantò sul viso della mamma. 
 -Sì-.
 -E allora perché lui oggi mi ha detto che tu sei stata con me e la zia Luana a capodanno?-
 A quel punto Lauretta si morse il labbro e abbassò lo sguardo.
 -Lauretta, dove sei stata?- chiese sua madre, con l’ira e il nervosismo che le avevano reso la voce più acuta. Lauretta non parlò.
 -Sto aspettando una risposta!-
La risposta non venne.
 -Ti rendi conto di come sono preoccupata? Cosa hai fatto quella notte? Dove sei stata? Ti ho detto mille volte che non mi piace non sapere dove sei!-
 -Mamma non è successo niente, sono stata a casa di un mio amico…-
 -E non potevi dirmelo? Ti avrei dato il permesso!-
 -Sì, come no…- borbottò Lauretta.
 -Non puoi fare quello che ti pare! Hai a malapena sedici anni!-
 -Cosa cambia? Pensi che, una volta scattata la maggiore età, uno diventi improvvisamente responsabile e al sicuro?-
-Di sicuro è più indipendente! Sei ancora una ragazzina e devi rendere conto ai tuoi genitori!-
 -Sì, va bè…-
 -Non parlare con quel tono!-
 -E come dovrei parlare? Dovrei dirti “sì mamma, hai ragione, sono stata una bambina cattiva”? Non ci penso proprio! Sono abbastanza grande per capire quello che si può fare e quello che non si può fare!-
 -Non lo decidi tu! Finché abiti sotto questo tetto, devi chiedere il permesso a me per quello che vuoi fare!-
 -Ti ho chiesto se andava bene passare capodanno altrove, e tu hai detto di sì-.
 -Mi hai presa in giro! Non ti vergogni?!-
 -NO! Non ho un minimo di rimpianto, se vuoi saperlo!-
 -Dovresti averne! Stasera passa tuo padre. Parleremo insieme di questa storia, e decideremo come punirti. Avrai una punizione, non dubitare-.
 -Oh, fantastico! Insomma, per vedervi insieme basta farvi incazzare. . . buono a sapersi!- Lauretta abbandonò il pranzo e fuggì via dalla cucina, col cuore che galoppava e la sensazione di essersi lasciata sfuggire qualcosa che avrebbe dovuto e voluto tenere per sé.
 
La mattina dopo Lauretta non voleva alzarsi: le ossa le dolevano, non capiva più che forma avessero preso le coperte e si sentiva così esausta… Lasciò che i minuti passassero e la luce scivolasse dentro la stanza. In genere non aveva bisogno di essere chiamata per alzarsi, ma quella volta sua madre si rese conto che non era in piedi e irruppe in camera.
 -Svegliati, è tardi- disse, poi fu rapida ad uscire. Non aveva ancora smaltito la rabbia del giorno prima.
 Lauretta provò ad aprire gli occhi, resistette circa tre secondi e poi ricadde sul cuscino. Il giorno prima, la sera prima… che cosa tediosa.
Ricordava gli sguardi gelidi che i suoi genitori si scambiavano e i loro rimproveri, calcolati in modo che colpissero solo lei e che non cadessero su di loro, cosa che invece avrebbe fatto più piacere ad entrambi. Il risultato era stata una scena talmente patetica che Lauretta aveva trovato facile estraniarsi e pensare a qualcosa di bello, mentre loro inveivano e chiedevano spiegazioni alle quali lei rispondeva con mugugni sfacciati. Che belle riunioni familiari.
 Si alzò una volta per tutte, con uno sforzo sovrumano, e si trascinò in bagno. Lasciò che l’acqua scorresse fino a diventare calda come la voleva lei.
 L’avevano messa in punizione, per la prima volta in vita sua: le avevano proibito di uscire per due settimane, niente internet e cellulare confiscato non appena rientrava da scuola. Lauretta aveva pensato che erano punizioni abbastanza banali, ma benedì la mancanza di originalità dei genitori. Comunque non ne era rimasta tanto male: internet non lo usava, non era neanche iscritta a Facebook. In genere mandava pochi messaggi con il cellulare, e la maggior parte a Margherita o a Giak: li avrebbe sempre potuti chiamare a casa, con la scusa dei compiti. E quanto all’uscire… bè, avevano scelto proprio la persona giusta a cui negarlo: sappiamo già che se Lauretta usciva il sabato sera era per grazia ricevuta.
 Arrivò in classe e si sedette vicina a Margherita, come al solito, sebbene con un po’ di ritardo.
 -Sono in punizione!- annunciò a lei e a Cicca, che sedeva davanti a lei.
 -Perché?!- chiese Margherita. Lauretta ghignò:
 -Mi hanno beccata, per la storia di capodanno…-
 -Oh, cavolo!- disse Cicca -ci sono stati tanti problemi?-
 -Tranquillo, non ho fatto il tuo nome. E comunque, neanche tanti problemi… mi hanno levato cellulare e internet, e non posso uscire per due settimane, ma sai quanto me ne frega…-
 -Come, non puoi uscire? Che palle, non è giusto!- esclamò Margherita.
 -Due settimane non sono tante. E poi non mi importa: se potessi tornare indietro, lo rifarei… Quella di capodanno è stata la festa più bella del mondo- sorrise Lauretta.
 -Eh eh, ragazze, basta una parola e casa mia è casa vostra!- ghignò Cicca.
 In quel momento entrarono Riccardo e Giak, insieme a un gruppo di compagni di classe.
 -Ciao. Hanno messo Lauretta in punizione- li informò Cicca.
 Alle loro domande lei rispose raccontando tutta la storia, e i due si mostrarono solidali.
 -Troveremo il modo di farti fare un giro, tranquilla- garantì Riccardo.
 -Grazie ragà. Giak, tutto ok? Non hai parlato quasi per niente-.
 Giak fissò Lauretta e si strinse nelle spalle:
 -Niente di che, ho sonno. E non ho studiato quasi niente per oggi… pregate che non mi chiami a matematica-.
 -Se ti chiama tu guarda da questo lato, che ti suggeriamo- disse Margherita.
 Le prime tre ore passarono lasciando tutti illesi. Quando suonò la campanella della ricreazione, Lauretta avvicinò Giak.
 -Ehi, sei sicuro di star bene? Sembri sciupato-.
 -Da che pulpito!- rise lui.
 -Io sono giustificata, ieri ho passato le due ore più lunghe della mia vita. Mamma e papà insieme ora come ora sono spettacolari-.
 -Come hanno fatto a beccarti?-
 -Ognuno di loro voleva portarmi con sé per il ponte di San Bufalino, e da lì è partito tutto… comunque, non cambiare discorso. Tutto ok?-
 Giak alzò gli occhi al cielo e si infilò le mani in tasca:
 -Va tutto bene, solo che l’altro giorno ho sbroccato con papà-.
 -Per cosa?- Lauretta e Giak si avviarono per il corridoio, mentre Giak scartava la sua merenda.
 -Per quello da fare dopo la scuola. Lui si immagina chissà quale futuro meraviglioso, una cosa che fa fare tanti soldini, io invece non voglio fare niente di quello che lui mi ha proposto…-
 -Che vuoi fare?-
 -Non ci ho mai pensato bene… però mi piacerebbe disegnare, forse. Non so che posso fare, boh, però basta che abbia una matita in mano, capisci?-
 Lauretta sorrise: -mi pare il minimo che tu debba fare: i tuoi disegni sono uno spettacolo-.
 -Sì? Boh, che ne so io… voglio dire, e se invece fanno schifo? Fin’ora a dirmi che i miei disegni sono belli ci siete solo tu e gli altri ragazzi. Potreste anche dirlo solo per farmi piacere, per quello che ne so-.
 -Non temere, se disegni una cagata ti prometto che sarò la prima a dirtelo. Comunque, che problema c’è? Disegna qualche vignetta e vedi se la mettono nel giornalino della scuola-.
 Giak masticò sovrappensiero un boccone del suo panino e poi lo lasciò a Lauretta.
 -Non lo so. Devo vedere se ne ho voglia. Prendilo tu il mio panino, non lo voglio più-.
 -Io neanche. Comunque, se ti immoli per il giornalino, io ti sostengo. Magari vedo se Sara conosce qualcuno che se ne occupa…-
 -Lascia fuori quella truzzetta di tua cugina, per carità! Di sicuro mi metterebbe in contatto con gli unici tipi del terzo con la puzza sotto al naso-.
 -Ahahah ok, ok- rise Lauretta. Quando si riavvicinarono in classe Lauretta prese Cicca e gli ficcò il panino di Giak in mano.
 -Un omaggio da un ammiratore- gli disse frettolosamente.


 Lo sapevo, io, che non sbagliavo sulle mie lettrici silenziose: siete il top!
Spero che i capitolo sia di vostro gradimento. In ogni caso, vi ringrazio e... buona neve, se dalle vostre parti ne siete state deliziate anche voi! (Sì, buona neve a tutti ;) )

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Capitolo 16
*** capitolo 16 ***


Questo è il capitolo di Giak: lui non lo sapeva, ma a dirla tutta non lo sapevano neanche gli altri della nostra allegra brigata.
Il fatto è che ci sono periodi, quando l’inverno è più bastardo e la vita ti sta affogando, in cui se solo ti fermi a riflettere a tutto quello che va male non riparti più. 
 Si avvicinava lo scadere del primo quadrimestre e Giak non la smetteva di sputare sangue per evitare diversi pagellini. Non che gli altri stessero messi meglio: Cicca se pure controvoglia si era salvato a greco e latino, ma nelle altre materie era un disastro. E Lauretta si stava rassegnando ad essere rimandata a greco per la prima volta in due anni. 
Giak però rischiava in parecchie materie, più di quanto non si fosse mai aspettato: oltre alle lingue morte, in cui ormai era spacciato, si aggiungeva miserevolmente il voto di matematica e quello di inglese. Puah, essere rimandati a inglese era un’onta che non riusciva a sopportare. Ma mancavano ancora diversi compiti e interrogazioni, così sperava di salvarsi in almeno qualche versante.
 Di Alex nessun segno; non aveva seguito il consiglio di Lauretta, non l’aveva cercata su Facebook. Lui non era tipo da fare cose del genere. Tuttavia si ritrovava sempre più spesso a immaginarla, a desiderarla, e un paio di volte la sognò. Entrambe le volte si era svegliato colmo di infelicità, e sperava solo che i fratelli, con cui condivideva la stanza, non si accorgessero di nulla.
 Ma il peggio lo passava proprio in casa: i suoi genitori, braccati dagli scarsi risultati del figlio a scuola, non sapevano dove sbattere la testa. E aggiungendo altri stupidi problemi da adulti, come il lavoro i soldi il mutuo e quelle piaghe dei fratelli, non trovavano altro divertimento che scannarsi a vicenda, quando pensavano che i figli non stessero ascoltando.
Le litigate in casa di Giak ormai erano quotidiane; l’unica cosa che cambiava era la loro portata. In genere dipendeva dagli argomenti, ma influiva anche l’andamento delle rispettive giornate lavorative. Giak era abbastanza abituato a sentire i suoi litigare da prendere mentalmente nota di quei dettagli, per poi rielaborarli con sarcasmo giusto per tirarsi su di morale, ma durante quel periodo i due si incazzavano così ferocemente da fargli passare la voglia. Non osava neanche più mettere la musica, perché per la prima volta temeva nel farli innervosire ancora di più.
 Grazie al cielo durante il giorno stavano separati: entrambi al lavoro, la mamma rientrava per ora di pranzo (ma neanche sempre) e il papà solo la sera. In questo modo potevano azzannarsi durante o dopo la cena, e in genere a quel punto i tre fratelli riuscivano a defilarsi quasi senza essere notati: Daniele si rifugiava in camera e si infilava a dormire nel letto senza neanche più leggere Topolino, tanta era la sua smania di dormire per non sentire i vituperi che i genitori si lanciavano.
Lucio si sistemava davanti al computer con le cuffione alle orecchie ed era capace di restare lì davanti anche per ore. Una volta Giak lo sentì mettersi al letto all’una passata.
E Giak, a cui non rimaneva neanche una fetta di quella piccola casa per starsene in santa pace, cercava di distrarsi disegnando. Da quando Lauretta gli aveva proposto di abbozzare qualche vignetta per il giornale della scuola, l’idea gli rimbalzava interessata nella mente. A volte pensava anche di studicchiare dopo cena, ma tutto quel casino gli faceva passare la voglia. Poi però si sentiva in colpa, allora puntava la sveglia mezz’ora prima convinto di poter studiare la mattina presto. Ci riuscì una volta sola, ma lo stesso non servì a niente perché si sentì troppo rincoglionito per il resto della giornata. Le volte successive invece rimase beatamente a dormire.
  Riusciva a respirare bene solo quando era fuori di casa: anche la scuola andava bene, almeno stava in compagnia degli amici e non doveva respirare quell’atmosfera pesante, ma si sentiva sereno soprattutto quando usciva per Polverano.
 Ormai frequentava Cicca, Riccardo e i loro amici, dato che il vecchio amico steccato era rimasto tale solo su Facebook, e con loro andava avanti a serate ad alto contenuto alcolico. Lui, che all’inizio dell’anno beveva solo birra, con gli altri due nostri eroi prese un paio di pezze da far girare la testa per domeniche intere.
 
Il mercoledì è il giorno che sta nel bel mezzo della settimana, e già per questo sta sui cosiddetti a buona parte della popolazione mondiale.
In più, il mercoledì gli studenti del liceo classico di Polverano dovevano sopravvivere a due ore di latino, due di italiano e una di geografia: altro motivo per stare sui cosiddetti.
Oltre a ciò, il mercoledì era giornata di rientro alla libreria dove lavorava la madre di Giak: il mercoledì stava sempre più sui cosiddetti.
 Così quel martedì sera la tensione era abbastanza alta in casa, dato che tutti si prefiguravano la disastrosa giornata che sarebbe venuta. Bastò poco a far scattare la scintilla: Daniele aveva chiesto dove sarebbero andati in vacanza quell’anno, memore delle estati precedenti, e il loro padre era stato lapidario:
 -Non ci sperate, probabilmente quest’estate la si passa qui-.
Lucio aveva tirato una gomitata a Daniele e lui lo aveva guardato perplesso, poi Giak aveva fulminato con lo sguardo il pidocchio grande.
 La cena era continuata in silenzio, si sentivano solo le posate sui piatti e il rumore delle bocche che ruminavano.
Quando i fratelli furono lontani dalla cucina, riuscirono a percepire un sibilo proveniente dalla bocca della loro madre. E una risposta sgarbata, poi una replica stizzita, poi un’altra risposta sgarbata, poi la voce della madre che diventava più acuta… la litigata prese dimensioni epiche.
 Daniele fuggì subito sotto le coperte e per una volta Giak lo seguì con pochi minuti di scarto. Non aveva voglia di sentire.
 Dormì con le cuffie dell’mp3 infilate nelle orecchie, senza neanche rendersene conto: prima stava ascoltando tutta la discografia dei Sum 41, saltando le poche canzoni lente, poi la musica divenne rumore e, prima che si rendesse conto di dover spegnere, era già addormentato.
 Forse avrebbe dormito tutta la notte con quella ninna nanna punk-rock, se a un tratto non si fosse sentito scuotere.
Si strappò le cuffie dalle orecchie e spense l’mp3, maledicendosi per averlo quasi completamente scaricato. Ancora assonnato si voltò e vide che a scrollarlo per la spalla era Lucio, in pigiama.
 -Che c’è?- cercò di dire con la voce impastata di sonno. Era buio e, probabilmente, anche tardi: non si sentivano più voci irate provenire dalla cucina.
 -Sssh- sussurrò lui. Poi indicò la cima del letto a castello, dove Giak sapeva esserci Daniele, anche se non lo vedeva.
 -Che ore sono?- biascicò Giak. Prese la radiosveglia e spronò gli occhi assonnati affinché funzionassero:
 -Lucio, sono le tre e mezza-.
 -Ti ho detto di fare piano! Senti-.
 -Cosa?-
 -Aspetta, devi aspettare un po’. Fai silenzio-.
 Giak si ributtò sul cuscino; soppesò l’ipotesi di riaddormentarsi, senza cagare di pezza il fratello, ma decise di non farlo. Qualcosa nel tono di Lucio gli aveva fatto capire che la cosa sembrava seria.
 Aspettarono alcuni minuti, anche se non avrebbero saputo dire quanti, e poi Giak sentì un mugugnìo. Drizzò le orecchie.
 -Senti?- sussurrò Lucio. -È Daniele-.
Giak si mise a sedere sul letto e prestò più attenzione. Sentì qualcosa muoversi nel letto del fratellino, mentre biascicava un’altra parola.
Forse era il buio, la voce grave di Lucio o il sonno inquieto, ma il nostro eroe avvertì un brivido gelido dietro la schiena. 
 Al terzo mugugnìo Giak si alzò da letto e, cercando di fare il meno rumore possibile, si arrampicò sulla dolorosissima scaletta del letto a castello. Rimase appeso lì sopra, con i piedi che protestavano, per vedere meglio Daniele.
Il bambino si rigirò nelle coperte e fece schioccare un paio di volte la lingua. Poi fece uno scatto, scompigliando le lenzuola. Giak salì un altro gradino.
 -Oh… nuuu…- Daniele biascicò un paio di sillabe, poi trattenne il respiro come quando si starnutisce. Ora Giak aveva la pelle d’oca: non aveva mai sentito nessuno parlare nel sonno, e scoprì che non gli piaceva.
 -Ahi… pa… mamma, mamma- le ultime parole le scandì chiaramente. Giak lanciò un’un occhiata a Lucio.
 -Dovremmo svegliarlo?- sussurrò lui. Giak tornò a fissare Daniele, sospirando. Poi, con un po’ di difficoltà, gli rimboccò le coperte e gli sistemò il guanciale sotto la testa.
 -Dormiamo- disse a Lucio quando scese dalla scaletta.
 I due fratelli si misero a letto, ma Giak dormì solo per modo di dire.
C’era angoscia in casa, ormai ne era certo: aveva cercato di ignorarla, ma c’era e si faceva pure sentire. Notti inquiete, aria pesante, tensione che si tagliava con un grissino. Giak ne era preoccupato, più che per la scuola, più che per quella cianfrina di Alex.
Continuava a venirgli in mente Lauretta come l’aveva vista all’inizio della scuola, sempre malaticcia e senza voce… gli avevano detto che quell’estate i suoi genitori si erano separati, e da allora aveva fatto più caso ai cambiamenti dell’amica.
E se fosse successo anche a lui? A loro? Giak non si fidava di quei litigi, non riusciva a pensare che fossero normali.
A quel pensiero, sentì gli occhi bruciare e si morse il labbro per non cedere. Non voleva diventare come Lauretta. Non voleva che lui e i suoi fratelli passassero quello che aveva passato -e stava passando- lei. Non era giusto.
 Pagassero gli adulti per i loro errori: i due pidocchi, Giak e anche Lauretta non c’entravano niente.

Ovviamente il giorno dopo era a pezzi, ma riuscì a non darlo a vedere; ora capiva un bel po’ di cose in più su Lauretta.
 Arrivò a scuola presto, ma non riuscì ad incrociare nessuno dei nostri amici; restò per un po’ con alcuni conoscenti di un’altra sezione, poi, allo squillare della campanella, si diresse con una manciata di compagni verso la classe.
 -Giak, le hai fatte le frasi di latino? Posso controllarle?- gli chiese subito Margherita.
 -Tu che controlli le frasi da me? Se ti fa piacere prendile, ma non aspettarti molto…- Giak cacciò un quadernino dallo zaino e glie lo porse. Margherita ringraziò frettolosamente e poi si immerse tra i suoi incerti ghirigori.
 Entrò Cicca e si salutarono. Anche lui gli chiese le frasi di latino, e Giak rispose sogghignando che le stava copiando Margherita.
 -Giobatta, e questa novità?- chiese perplesso Cicca.
 -Lasciamo stare, preferisco non parlare. Giak, che c’è scritto qui? Castoro? Che c‘entra?!-
 -Costoro!-.
Margherita cancellò con un tratto di penna la parola sbagliata e la riscrisse, poco più ordinata.
 -Cosa è successo?- insistette Cicca.
 -Fammi finire, è l’ultima frase…-
 -Dai racconta!-
 Margherita lasciò cadere la penna e gettò uno sguardo sconsolato a quel guazzabuglio che avrebbe dovuto rappresentare i suoi compiti.
 -Ho litigato con Marco. Alla fine stavo così incazzata che non sono riuscita a tradurre una frase che fosse una- spiegò con semplicità.
 -Wow! Perché avete litigato?-
 -Ma una callarella di cavoli tuoi no?-
 Cicca sorrise: -mai. Dai, sono curioso. È un secolo che stai con quel pettinato, una bella litigata ci vuole ogni tanto-.
 -Abbiamo litigato, fattelo bastare. Oh, ecco Lauretta. Lauretta! Ho le frasi!-
 Lauretta li raggiunse, trafelata, e cominciò a spogliarsi del cappotto e di tutta l’altra lana che aveva addosso.
 -Fantastico. A  chi dobbiamo la vita?-
 Giak alzò la mano, senza staccare lo sguardo dal libro su cui stava ripassando.
 -Grazie Giak. È inglese quello che stai ripassando?- chiese Lauretta.
 -Yes-.
 -Oh andiamo, inglese è una cazzata. Sarei più preoccupata per greco-.
 -A greco mi ha interrogato, inglese invece se non lo studio me lo ridà-.
 -Pensavo che fosse una bazzeccola, per uno che vive con la musica che senti tu-.
 -E invece non lo so! Lasciami ripassare-.
 Lauretta storse il naso, offesa, e si dedicò a Margherita.
 -Raccontami che è successo con Marco-.
 -Sì infatti, racconta- si aggiunse Cicca.
 -Riccardo non c’è? Almeno così potresti andartene con lui senza asfissiarmi-.
 -Oggi non viene, sta raffreddato. Dai, racconta-.
 Margherita sospirò, poi raccontò ai due amici la feroce discussione che aveva avuto con il suo ragazzo. Ora come ora non ricordo di preciso cosa riguardasse, ma probabilmente il fatto che Marco chiamasse Margherita ogni santo giorno per ricordarle che il sabato lo si passava insieme, e Margherita era finalmente sbottata.
 La lezione passò abbastanza tranquilla, tranne quando toccò a Lauretta correggere le frasi di latino e inciampò su un bel po’ degli errori di Giak.
Passarono cinquanta minuti, poi altri cinquanta. Una volta scadute le due ore di latino, Lauretta lanciò una gomma da cancellare sulla schiena del suo amico.
 -Giak, sei una sola!- sogghignò.
 Giak si voltò scocciato: -se volevi le frasi giuste te le facevi da sola, senza che ti lamenti- sbottò furente. Lauretta rimase interdetta:
 -Ehi, scusa tanto, volevo solo scherzare. . . -
Giak si rigirò senza una parola, dandole la schiena.
 -Aspetta!- Lauretta scivolò fuori dal banco e si inginocchiò di fianco a quello del suo amico:
 -Tutto ok? Sembri nervoso. . . -
 -Non sono nervoso- sibilò lui.
 -Ah no? Ti si legge in faccia-.
 -Allora non leggere-.
 -Come no. Dai, dimmi cosa c’è che non va. È per Alex?-
 -No-.
 -Ah. Ehm. . . è per la scuola?-
 -No-.
 -Ehm. . . è per. . .-
 -Lauretta piantala. Lasciami in pace-.
 -Con ‘sta ceppa! Non mi piace vederti così-.
 -Ah davvero? Sai quante volte non è piaciuto a me vedere te a pezzi, ma mi sono sempre fatto i fatti miei, perché a te piaceva così. Ora mi rendi la stessa cortesia?-
 Lauretta sentì caldo dietro la schiena, e si sedette a terra. A momenti sarebbe arrivato il professore di italiano ma, nascosta com’era, non si preoccupava di farsi trovare lì.
 -Mi sono confidata più con te che con chiunque altro. A momenti più che con Margherita- sibilò lei.
 -Mi avrai detto quattro parole, figurati. E ora mi lasci in pace?-
 Lauretta sentì il cuore sprofondare, poi si alzò e tornò al suo posto.
 Si sentiva ferita: ok, non è che si fosse confidata tutte quelle volte con Giak. . . era successo un paio di volte al massimo. Ma c’era anche da dire che quello che aveva detto a lui in quelle poche occasioni non l’aveva detto mai a nessuno: il che equivaleva a dire che lui era stato il suo più grande confidente. E ora si sentiva in pericolo: gli aveva concesso le sue confidenze, ma ora cominciava a dubitare che fossero al sicuro. Si chiedeva come mai fosse diventato improvvisamente così misterioso. . . e non si rendeva ancora conto che era stata proprio lei la sua maestra.
 
 Cicca aveva ascoltato con un orecchio, mentre con l’altro fingeva di prestare attenzione alle vicende che si stavano svolgendo nella classe. Così, quando Lauretta tornò vicina a Margherita, si rivolse all’amico.
 -Ehi- lo chiamò. Giak si voltò, per l’ennesima volta, con un’espressione scazzata sul viso:
 -Devo ripassare-.
 -Ti ha già interrogato a italiano-.
 -A geografia no-.
 -A geografia oggi non interroga, deve finire di spiegare-.
 -Che vuoi? No, non te lo dico neanche a te quello che vuoi sapere, come non l’ho detto a Lauretta-.
 -Non me ne frega di quello che hai fatto, se non sei tu a parlarmene non sarò io a forzarti. Però pensaci due volte prima di trattare male gli altri-.
 Giak fissò l’amico stupito: era raro sentire Cicca parlare senza ghigni sulla faccia, e quella novità amplificava l’effetto serioso.
 -Che ho fatto?- chiese, per la prima volta in quella giornata mettendo da parte il nervosismo.
 -Guarda Lauretta: sta sempre più a pezzi. Non ti rendi conto di quello che passa? Vive le sue giornate da sola, e ora non può neanche uscire. Se ti ci metti pure tu, che ne rimane?-
 Giak si concentrò su Lauretta: stava parlando con Margherita, discutevano ancora di Marco, e sembrava normale. Ok, le occhiaie la facevano sembrare un panda, ma a parte quello non sembrava stare malissimo.
Anche la Belluni aveva occhiaie da spavento, tutto sommato, e chi era lui per dire che fossero dovute alle sue notti brave piuttosto che a qualche altro eventuale stress?
 -Tu che ne sai di quello che passa?- borbottò. E meno male che lui era l’unico confidente di Lauretta.
 -Me lo dice Margherita-.
 -Da quando tu e Margherita siete così intimi?-
 -Da quando lo siete tu e Lauretta? E noi?-
Giak corrugò le labbra, senza sapere come rispondere.
 -Andiamo, cerca di non essere così sgarbato, ok? Ha bisogno di qualche amico. Fino a quando Margherita rimane con quel tipo, nessuno a parte noi può tirarla su-.
 Giak sospirò: -ti fa onore essere così dedito a Lauretta, ma stai attento a non pensare che sia solo lei a. . .- si bloccò. Non voleva spingersi oltre, Cicca ci avrebbe messo poco a fare domande. E, dopotutto, Giak aveva avuto una buona maestra: ora sì che sapeva come svincolare.
 -A. . .?-
 -Niente-.
 -Andiamo!-
 -. . .ad essere stanca!- Giak riuscì a salvarsi in extremis: -lo siamo un po’ tutti, qui-.
 Cicca si voltò a sbirciare Lauretta e Margherita, poi sospirò.
 -Hai ragione. Ok, hai ragione. È che. . . i miei rompono e tutto, mio padre probabilmente mi ha rovinato il resto dell’anno, ma non riesco neanche ad immaginare cosa deve essere non averli insieme. È per questo che tengo a lei. Non farti strane idee, eh, è che. . .-
 -No, credo di aver capito- mugugnò Giak. Al colmo dell’infelicità, è giusto dirlo. Qualcuno che tenesse a lui invece non c’era? Qualcuno che gli volesse bene quanto e come volesse lui?


 Chi si rivede, è tornata la Oddish :)
Gente, mi spiace avervi fatto attendere così tanto, ma i miei impegni da buisnesswoman (ah ah ah, ridete) mi hanno portata in cima al mondo (più precisamente all'estremo sud della Sicilia... che spettacolo!); oltre a ciò c'è tutto il contorno di compiti in classe/interrogazioni/scleri quotidiani, e infine il fatto che questa storia mi sta piacendo molto molto molto poco. Forse è qualcosa di più grande di me. Già. 
 Ringrazio la solita e dedita Leitmotiv -ragazza, giuro che non lo faccio apposta a concludere ogni capitolo lasciandoti in sospeso!- e tutti gli altri lettori che continuano a seguirmi <3

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Capitolo 17
*** capitolo 17 ***


Quel mercoledì stava quasi per finire, ma ci manca ancora un evento prima di spedire i nostri eroi a nanna.
 Era sera, quell’ora imprecisata prima di cena e dopo i compiti, quando fuori è buio ma non è ancora notte. Il padre di Giak era appena tornato e il nostro ragazzo aveva avuto la premura di notare che non aveva rivolta una parola alla moglie: giusto un saluto distratto ai figli, poi l’aveva perso di vista.
 Giak era di fronte al computer, aperto sulla pagina di Facebook; non ne era troppo drogato, non come certi tipi di sua conoscenza (e di cui ora, grazie al suddetto social network, sapeva gli orari del pranzo, della cena e di quando andavano al bagno), ma voleva togliersi un cruccio dalla testa.
 Digitò il nome di Alex in cima alla breve lista dei suoi contatti ed aspettò che il computer la trovasse... sperando appunto che effettivamente la trovasse: gli era infatti venuto il dubbio di essere stato cancellato, così si ritrovò seduto lì davanti col cuore in gola ad aspettare che. . .
 Trovata. C’era, e aveva anche cambiato la foto del profilo. Aveva messo una nuova foto, graziosa, ma non quanto quella che aveva ridisegnato lui.
Decise di farsi un giro su quel profilo, cosa che aveva accuratamente evitato fino ad allora: scorse stupidi link che aveva condiviso, lesse stupide scritte con cui le amiche le avevano intasato la bacheca, poi capitò sulle foto. Gli album erano sempre gli stessi, ma qualcosa attirò la sua attenzione. . . Aprì una foto e rimase a bocca aperta: Alex doveva aver scannerizzato il ritratto che le aveva regalato, oppure vi aveva fatto una foto molto ma molto definita, e l’aveva pubblicato sul suo profilo. Giak fece scorrere la rotellina del mouse per controllare se ci fossero commenti: ce ne erano, e pure parecchi.
Il disegno piaceva a sette persone, sette sconosciuti. Gli stessi sotto avevano scritto commenti sul genere “Alex SEI TU!! Bellissimo!! Chi l’ha fatto??”; “Bella leiii!!! Ma l’hai fatto tu?? Wowowowow!!”; “COMPLIMENTONI DAVVERO!!”. A Giak venne la nausea, anche se non capì bene il perché.
 Prima di uscire da quel profilo, lasciò anche lui un commento, breve e lapidario:
 “Ma infatti, complimenti davvero”. Completo di punto fermo a chiudere la frase, come prevedeva il Decalogo dell’Acidità per Eccellenza.
 
 In realtà Giak non aveva badato neanche tanto a quel commento: il cuore aveva galoppato per un po’ di minuti, poi si era distratto con qualche altro passatempo e l’aveva quasi dimenticato.
Se non fosse stato per quel messaggio che gli arrivò nel bel mezzo della cena.
Ecco che Alex, piccata, si era fatta sentire. Infine.
 -Leva quel cellulare, non mi piace che lo usi a tavola- disse suo padre.
 -È una cosa importante, un secondo. . .-
 -Per cortesia-.
 Giak lo ignorò e lesse il messaggio: “. . .e quel commento?” aveva scritto Alex.
 Giak non rispose: c’era già abbastanza tensione in casa, senza che ci si mettesse anche lui.
 Però fu rapido a divorare la morigerata cena e a defilarsi. Si rinchiuse in camera e rispose ad Alex: “e quei puntini all’inizio della frase?”
“Non c'entra niente. Spiegami piuttosto il perché di quel commento così carino”.
“Invece c’entrano, quei puntini. Come se avessimo lasciato un discorso in sospeso, mentre in realtà sei solo sparita”.
 “Saranno stati pure fatti miei”.
“Una parolina di congedo era chiedere troppo?”
“Ma quale congedo. . . ho solo avuto da fare, fatti miei”.
“Ma non eri così impegnata, il tempo per pubblicare i miei disegni su Facebook l’hai trovato”.
“Non ho mai detto che l’avevo fatto io, non te la prendere. Mi piaceva e l’ho pubblicato”.
“Ma te ne sei sbattuta di chi te l’ha regalato. Che gesto gentile”.
“Ma che problema hai? Non ti ho mai promesso niente!”
“Infatti, che problema ho io. Sei tu che non hai il coraggio di affrontare qualcuno se non dietro uno schermo”.
“Sei tu che hai cominciato, con quel commento”.
“Mio fratello ha sette anni e sa rispondere meglio. Andiamo! Come se non ti avessi cercata! Invece sei sparita, senza neanche una parola”.
“Ti ho detto che ho avuto da fare!”
“Non sei stata l’unica, vola bassa. Almeno abbi la decenza di scusarti, di fare qualcosa!”
 
La mattina dopo Giak si era imposto di mettere da parte il nervosismo, per cui fu molto attento quando si avvicinò agli amici. Salutò tutti e rivolse un sorriso a Lauretta, che non aveva sentito per tutto il pomeriggio precedente. Lei sembrò sollevata, e tanto bastò per tranquillizzare entrambi. 
 Se non fosse che tanto tranquilli non erano comunque; quella mattina si prevedeva di fuoco: era previsto un compito in classe di matematica e tre interrogazioni. E, secondo il vostro modesto parere, quanto avevano potuto studiare chi sappiamo noi?
 -Io propongo un programma alternativo- decretò Cicca.
 -Del tipo?- chiese Margherita.
 -Del tipo “non presenziare alle lezioni”-.
 -Grazie Jack Frusciante, ma non penso si possa fare. . . ho sprecato tutto ieri pomeriggio a studiare per oggi, non voglio buttare tutto-.
 -Dai, vieni con me! Davvero, io non entro, quindi fammi compagnia. . .-
 -Non se ne parla-.
 -Parla per te- disse Giak; -Cicca, io ti seguo a ruota. A storia me la caverei, ma a matematica non so dove mettere le mani e inglese lasciamo perde. . . almeno inglese voglio salvarlo-.
 -Andata!-
 -Ragà. . .- sussurrò Lauretta. I ragazzi la guardarono.
 -Che c’è?-
 -Ehm. . . forse vengo pure io-
 Giak e Cicca esultarono, mentre Margherita rimase agghiacciata:
 -Lauretta, ma mi lasci da sola? Non c’è neanche Riccardo, che sta ancora male! Ti prego!-
 -Scusa davvero May, ma ieri non ce l’ho fatta a studiare tutto, e greco. . . lo sai che se mi becca impreparata me lo devo rifare al secondo quadrimestre. . .-
 -Brava Lauretta, questo sì che si chiama essere saggi. E non ti sentire in colpa, per carità: oggi pomeriggio studi meglio e saremo tutti più felici, prof compresa- proruppe Cicca.
 Lauretta sorrise e Margherita alzò le spalle, come a voler dire di essersi rassegnata. In realtà considerava il gesto dell’amica come un tradimento, ma non lasciò prendere aria ai propri pensieri.
Indispettita, salutò i tre ed entrò nella scuola.
 -Ragà defiliamoci. . . mancano cinque minuti alla campanella, i prof non devono vederci- disse Giak.  
 I tre amici sgusciarono tra la folla di studenti e si infilarono in un vicoletto adiacente alla scuola. Lo percorsero tutto, ne presero un altro paio e sbucarono a Pizzetta.
 -Facciamo una merendina?- Cicca sogghignò ed entrò nell bar della piazzetta.
 -Cornetto e red bull? Ma come fa lo stomaci a non esploderti dentro?- commentò Giak mentre Cicca pagava.
 -’On capisci ‘a shottile arte 'ella colazione da 'izzetta-  cercò di dire lui, con la bocca piena. Si sedettero su una panchina, mentre Cicca finiva di mangiare.
 Lauretta sentiva qualcosa galoppare dentro il suo petto: era la prima volta che faceva sega e si sentiva elettrizzata e divertita, anche stando semplicemente seduta su una panchina.
 Rimasero un po’ seduti, poi cominciarono ad avere freddo e decisero di bighellonare un po'; finirono infilati dentro un piccolo locale nascosto tra i vicoli del centro di Polverano, dove era meno probabile incontrare adulti di loro conoscenza o, peggio, professori in borghese. Cicca aveva bigiato abbastanza per sentirsi così furbo.
 Giak raccontò loro di Alex. Descrisse come aveva trovato il proprio disegno sbattuto su Facebook, e di come poi si era sentito con la colpevole. Cicca e Lauretta rimasero perplessi, ma non giunsero a nessuna conclusione a cui non fosse già arrivato Giak.
 Non sapevano come ingannare il tempo; uscirono dal bar dopo che Giak si era imbottito con un cornetto innaffiato da un cappuccino ("questa è una colazione!") poi si diressero verso la chiesa di San Bufalino. Non che avessero sentito una sorta di richiamo spirituale o che volessero fare ammenda del loro peccato, ma sdraiato lì dietro c’era un bel prato bagnato dal sole dove non faceva troppo freddo, dove i tre poterono stendersi senza dare fastidio a nessuno.
 Passarono le ore e il sole si alzò fino a cadere perpendicolare sulla cittadina. I tre avevano chiacchierato di un sacco di cose, del più e del meno come di argomenti poco più profondi e, ora che le lezioni erano terminate, potevano arrischiarsi anche a farsi beccare in giro.
 Mentre si avvicinavano di nuovo alla scuola cominciarono a vedere gli altri studenti camminare per il centro.
 -Non credo che beccheremo Margherita, di sicuro è già tornata a casa sua- disse Lauretta -fa sempre così-.
 Continuarono a camminare per un po’, mentre Giak e Lauretta riprendevano in considerazione l’idea di prendere i rispettivi autobus per tornare a casa.
 -Giak, guarda là! È lei?- chiese a un tratto Lauretta. Era raro che riconoscesse qualcuno alla prima botta, ma questa volta era quasi sicura di aver intravisto Alex.
 -Dove? Do. . . Oddio sì, è lei- Giak smise di saltellare sulla punta dei piedi e incrociò le braccia davanti al petto, con espressine rancorosa. Non smise di fissarla fino a quando una delle sue amiche se ne accorse e glie lo fece notare.
 -Guardate, ora abbassa lo sguardo e se ne va. Quanto ci scommettiamo?- sibilò Giak.
 -Ehm, non ti conviene, credo- disse Cicca. Infatti, stupendo tutti e Giak per primo, Alex abbandonò le amiche e si avvicinò al nostro uomo.
 -Ciao- salutò imbarazzata. Lauretta e Cicca rimasero in silenzio, mentre aspettavano la contromossa di Giak.
 -Com’è?- rispose lui, più ostile che curioso.
 -Senti, ehm. . .- evidentemente la presenza di Lauretta e Cicca la metteva a disagio: Giak se ne accorse, ma non fece nulla per aiutarla.
 -Dimmi-.
 -È che mi spiace per ieri sera. Ero un po’ nervosa, sai com’è. . .- in realtà nessuno tra i presenti riuscì a capire a cosa alludeva la scusa, tranne -in quanto donna anche lei- Lauretta. La cara vecchia scusa per il nervosismo: come se un'isterica non potesse controllarsi neanche da dietro lo schermo di un cellulare.
 -Quindi?-
 -Quindi scusami. . .- Alex sorrise speranzosa. Giak fu preso in contropiede, come d’altra parte anche i suoi amici. Non sapeva cosa rispondere, e allora decise di assecondare quello che sentiva dentro.
 -Ehm. . . Be‘, ok, ti scuso. Ma ti vuoi far scusare solo per ieri o per. . . - sperò che lei lo aiutasse, ma niente: dovette continuare da solo. -Per quest’ultimo periodo?-
 Alex arricciò l’angolo della bocca: -dovrei scusarmi anche per questo in effetti. Accetti?-
 Giak sospirò; poi, al culmine del sollievo e della felicità, rispose -ok. Perdonata-.
 -Vuol dire che da ora avrete un rapporto maturo e normale?- si intromise Lauretta. Alex la fulminò con lo sguardo:
 -Direi proprio di sì. Giak, mi sei mancato- aggiunse poi.
 -Sì, be‘, ora…-
 -Che ne dite di una partita a biliardino a Pizzetta? Ci sta tutta, e siamo in quattro precisi- propose Cicca.  
 Giak fissò l’amico raggiante: -direi di sì! Ragazze, avete fretta?-
 Le ragazze dissentirono; il tempo di risalire i due vicoli ed eccoli al biliardino di quel locale anonimo e poco curato che era il loro luogo di ritrovo ormai.
 Lauretta e Cicca seguivano Giak e Alex, camminando poco dietro di loro. Cicca si stava ancora vantando della propria mossa: era convito di aver garantito la continuità del rapporto dei due, fornendo loro qualcosa da raccontare.
 -Hai ragione, tutto sommato- disse Lauretta. Ma non aggiunse che Alex non le piaceva poi così tanto.
 Se la ritrovò di fronte, all’altra sponda del biliardino: lei e Cicca contro Giak e Alex. Le ragazze in difesa, i ragazzi in attacco.
Lauretta si morse il labbro: se l’era sempre cavata a biliardino, complici i pomeriggi al mare con i ragazzi ciociari che l’avevano iniziata a tale sport. Cicca e Giak ovviamente erano dei mostri, data la loro condizione di maschi adolescenti. Ebbene sì: trovatemi un ragazzo che non sappia giocare a biliardino e poi ne riparliamo.
L’unica incognita rimaneva Alex. . . ma da una truzzetta che sfavillava persino per andare a scuola Lauretta non si aspettava molto.
 Cicca lanciò la prima pallina tra le mediane, ma non durò neanche un minuto: Giak la tirò precisa nella porta di Lauretta.
 -Yeah!- Alex saltellò e diede il cinque al compagno di squadra.
 La seconda pallina durò un po’ di più, ma fece la stessa fine; questa volta a segnare era stata Alex. Altro strillo felice e altro cinque.
 Al terzo goal Cicca insistette per fare cambio di posto con Lauretta, e Alex saltò tra le braccia di Giak.
Lauretta si morse il labbro, senza proferire verbo. Non si esulta troppo quando le cose vanno bene.
 E non si esulta troppo neanche per la vittoria; Alex però si era talmente gasata che nessuno riuscì a trattenerla. Saltellava e squittiva deliziata, e Giak dietro di lei.
 -La prossima volta esigiamo la rivincita!- esclamò Cicca ghignando. Anche Lauretta sorrideva, ma non riusciva a smettere di osservare Alex. La infastidiva più di quanto un essere umano potesse infastidirne un altro.
 -Vado a prendere l’autobus. Ci vediamo domani, ok?- disse mettendosi lo zaino in spalla.
 -Ciao Lauretta, a domani!- la salutarono e finalmente la nostra eroina riuscì a starsene un po’ da sola. 
 Lontana da quella ragazza che le ispirava davvero poca fiducia.

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Capitolo 18
*** capitolo 18 ***


Ovviamente Giak e Alex iniziarono a sentirsi: semplici messaggi che si trasformarono in chiacchierate, altre chiacchierate, al telefono e a voce; fino a quando, un paio di settimane dopo la riconciliazione, Giak non osò chiederle di uscire. Ci aveva pensato a lungo ed era arrivato ad una conclusione: le cose sono due: o sparisce di nuovo, e in quel caso me lo aspetto, oppure. . .
 Alex aveva scelto l’oppure.
Un sabato di inizio febbraio vide Giak alle prese con un’ansia alla quale non era mai abituato: non era mai successo che una ragazza gli interessasse così tanto. Durante la mattina Cicca, Riccardo, Margherita e Lauretta (sì, anche Lauretta) gli avevano consigliato tutto il consigliabile (i posti dove portarla, le frasi da dire e quelle da non dire, i punti in cui guardare), ma soprattutto si erano raccomandati con lui di tenere acceso il cellulare per tenerli aggiornati. Era per questo che lui l‘aveva appena spento, ed ora si accingeva a presentarsi sul luogo dell’appuntamento.
 
Aspettava paziente all’inizio di quei venti metri di portici che Polverano offriva. Ogni tanto salutava dei conoscenti, decifrando i saluti da dietro le cuffiette, poi tornava ad aspettare. L’appuntamento era per le sei e lui era lì con qualche minuto di anticipo; non che fosse così impaziente, la colpa era di quello stupido autobus e dell’autista convinto di poter prendere le curve come alla Formula 1.
 Le sei arrivarono, passarono, ma di Alex neanche l’ombra. I Sum 41 cantavano già da un po’ mentre Giak si cominciava a preoccupare. Affondò le mani nelle tasche della giacca e a vederlo così, solo, con le cuffie alle orecchie e nient’altro che un cappotto e una sciarpa a proteggerlo da freddo, mi fa davvero tanta tenerezza.
 Era proprio così che Lauretta se lo stava immaginando, seduta in camera sua. A momenti sarebbe uscita con Sara e poi avrebbe raggiunto Riccardo e Cicca all’Aquilotto, ma nel frattempo fremeva di curiosità.
Giak non le toccava minimamente le corde del cuore, ne era sicura; solo che nutriva nei suoi confronti una specie curiosa di affetto, come se dovesse proteggerlo da qualcosa che gli avrebbe fatto molto molto male.
 Giak aspettava. Ormai la musica era rumore nelle sue orecchie e, per essere arrivato a quel punto, voleva dire che i pensieri avevano ormai preso il sopravvento. Stava rasentando la disperazione, quando la vide.
 Quant’era carina: portava un cappotto di stoffa lungo fino alle ginocchia, grigio chiaro. Su bavero c’era attaccata una spilla con un grosso fiore della stessa lana del cappotto. Portava anche una sciarpa scura, blu o forse nero, e sulla spalla una borsetta a tracolla. Jeans, e sopra ai jeans stivaletti scuri.
Dimostrava almeno due anni in più di quelli che aveva. Forse era il trucco, perfettamente posato su quegli occhi così intensi. Forse erano i capelli curati come quelli delle tipe in tv.
Forse era quella pelle maledettamente brillante e soffice, che faceva mozzare il respiro a Giak.
 -Ciao!- disse venendogli incontro, trafelata. Giak si staccò le cuffie dalle orecchie, col cuore che batteva. Cavolo, come batteva. L’ultima volta che si era trattato di una ragazza non l’aveva quasi sentito. Ma ora…
 -Ciao-.
 -È molto che aspetti?- chiese lei.
 -No, figurati. . . avevo la musica- disse come ad annullare quei maledetti quindici minuti di ritardo.
 -Scusa davvero, ma non mi ero resa conto. . . che facciamo, camminiamo un po’?- propose Alex. Giak annuì e passeggiarono per il corso.
 Era sempre stato facile parlare con lei, ma in quel momento Giak avvertiva una pressione sul torace tale da fargli dimenticare come funzionassero le sinapsi (e come questo fosse possibile, anatomicamente parlando, non sarebbe mai riuscito a spiegarselo). Tuttavia Alex era una buona conversatrice, quindi si salvò.
Passarono un altro paio di quarti d’ora, poi qualcosa cadde dal cielo.
 -Ferma, hai una cosa tra i capelli. . .- disse lui. Si bloccò.
 -Che c’è?-
 -Ehm, è sparito-.
 -Come sarebbe?-
Giak alzò lo sguardo, e contemporaneamente girò il palmo della mano verso l’alto:
 -Era un fiocco di neve. Nevica- disse con tono sognante.
 -Oh, wow-.
 I due rimasero per un po’ l’uno di fronte all’altra, mentre attorno a loro minuscoli granuli bianchi cominciavano a volteggiare.
 -Mi sa che è il caso di ripararsi, che ne dici?- sorrise lei.
 -Mi sa di sì. . .-
 -Vieni, ti porto in un posto. È tranquillo e caldo-.
Alex lo condusse attraverso un vicoletto talmente stretto che non vi erano ancora penetrati i fiocchi di neve, poi sbucarono in una piazzetta.
Entrarono in un bar piccolo e accogliente. C’erano diverse coppiette, ma anche gruppi di amiche attorno a diversi tè e cioccolate.
 -Sedici anni di vita e non sapevo dell’esistenza di questo poso. Spettacolare- disse Giak. Avrebbe voluto aggiungere che non ne era neanche poi così rammaricato, ma pensò fosse più saggio tacere.
 -Queste sono le basi, caro mio! Credo che scriverò un libro: come evitare che ti si gonfino i capelli quando sei fuori e comincia a nevicare-. Alex ridacchiò e Giak sorrise nel vederla ridere.
 -Ah, ecco qual era il problema!-
 -A parte quello, stavo morendo di freddo-.
 -Ti offro qualcosa-.
 -Lascia stare, faccio io. . .-
Una cameriera si avvicinò e, prima che Alex potesse dire qualunque cosa, Giak si affrettò:
 -Due cioccolate calde, una alla vaniglia e una bianca-.
 La cameriera annuì e tornò al bancone.
I due parlottarono fino a quando non arrivarono le cioccolate. Quando la cameriera l’ebbe posate e si fu allontanata di nuovo, Giak le mise davanti al naso di Alex:
 -Scegline una- disse. Alex abbassò lo sguardo, imbarazzata e sorridente.
-Sei un mostro- disse.
 -Dai!-
 Alex prese la cioccolata bianca. Avvicinò la tazza alle labbra e cominciò a sorseggiarla. Giak la fissò rapito e lei se ne accorse:
 -Non guardarmi così, mi imbarazzo!- sorrise. Le si erano colorate le guance di rosso.
 -Ottima scelta, signorina. Spero che la degustazione sia di suo gradimento-. Poi Giak le fece una linguaccia e ingollò un sorso dall’altra cioccolata come se fosse mezza pinta di birra.
L’esofago protestò per il calore, ma Giak lo mise a tacere. Non era quello il momento.
 
Alex disse a Giak che le sue amiche l’avrebbero aspettata per cena a una pizzeria vicino. Giak pagò le due cioccolate (“dai, faccio io!” aveva detto Alex, ma lui le aveva intrappolato i polsi e la cameriera alla cassa aveva alzato gli occhi al cielo mentre lui cercava gli spiccioli con una mano sola), poi uscirono dalla cioccolateria. La neve aveva già quasi attecchito per le vie più larghe e nel mezzo dei vicoli c’erano solo quei pochi fiocchi che erano riusciti a posarsi sui sampietrini, passando attraverso i tetti degli antichi palazzi.
 Giak e Alex non passarono per il corso questa volta: preferirono i vicoli semi bui e pressoché deserti.
 -Non hai freddo?- disse Alex a un tratto.
 -Dovrei?-
 -Be’ sì. Io sto camminando sotto questo tetto, vedi, ma tu per starmi affianco ti stai coprendo di neve-.
 Giak si fermò di scatto e alzò lo sguardo.
 -Hai ragione-. Poi si alzò il cappuccio della giacca sulla testa.
 -Così va meglio?-
 -Per te sì, ma per me no. . .-
 -Ragazza, o l’una o l’altra. Perché non ti va bene?-
 Alex sorrise, un po’ imbarazzata: -perché non posso vederti in faccia, con tutto questo cappuccio addosso-.
 Giak alzò gli occhi al cielo: stava per stringersi stupidamente nelle spalle, quando Alex gli si fece più vicina.
 -Be‘, almeno sei al caldo. . .- si avvicinò di più e lo baciò.
 Ora sì che Giak stava al caldo. Alex strinse le dita ai bordi del suo cappuccio, nascondendocisi sotto, e lui la cinse per le vita. Quando si staccarono ci fu il tempo di un rapido sorriso e poi seguì un altro bacio, e un altro, e un altro. . .  
 
-QUESTO È PER GIAK E PER LA SUA SERATA!!- esclamò Cicca alzando un bicchiere di super alcolico. Riccardo lo seguì a ruota e Lauretta idem, alzando anche il braccio di Margherita che, miracolosamente, aveva concesso agli amici quel sabato sera.
 Giak sorrise, mordendosi il labbro soddisfatto, poi alzò anche il suo bicchiere.
I cinque brindarono, poi avvicinarono i drink alle bocche e bevvero una lunga sorsata.
 Erano all’Aquilotto, come al solito, solo che adesso fuori c’era una bufera di neve che stava aumentando sempre più di intensità.
Dopo aver salutato Alex (e ce ne era voluto per salutarla), Giak aveva raggiunto gli amici per prendersi una pizza al taglio e loro avevano proceduto con l’interrogatorio, sperando che lui avesse qualcosa da raccontare. Be‘, ce l’aveva: aveva raccontato tutto con un sorriso sulla faccia che scaldò il cuore a Lauretta, Riccardo e Cicca, anche se loro non l’avrebbero mai ammesso davanti a lui.
 -Oddio, guardate come sta contento!- esclamò Margherita sorridendo.
 -Che bella cosa. Giak, sono davvero felice per te- aggiunse Lauretta.
In realtà lei ci aveva riflettuto: Alex non le stava particolarmente simpatica, ma vedere il suo amico così felice a causa sua le faceva conquistare diversi punti. Chissà, magari era davvero una brava ragazza.    
 -Grazie. . . sì, anche io. . . voglio dire. . .-
 -Ce l’hai fatta amico, ce l’hai fatta! Siamo tutti orgogliosi di te. . - questo era Cicca.
 -Già! Sei stato un grande. Non è da tutti adocchiare una ragazza sull’autobus, diventarci amico e poi. . . Giak, sei il mio mito!- esclamò Riccardo.     
 -Quando vi rivedrete?- chiese Margherita.
 -Boh. . . mi ha detto che ci saremmo sentiti stasera. . . però ehi, andateci piano: abbiamo pomiciato, ok, ma. . .-
 -Lascia stare le pippe mentali. Le ragazze non sono così bastarde: se le cose si mettono male, ma tanto non accadrà, stai sicuro che lei si farà sentire prima di fare qualunque bastardata. Tranquillo- disse Riccardo.
 -Ha ragione, fidati- sorrise Margherita.
 -Be‘, lo spero. . .- Giak non continuò la frase, ma sorrise e bevve l’ultimo sorso del drink.
 
Il giorno dopo tutti si svegliarono sotto una coltre bianca che fece squittire di gioia Daniele, costringendo Giak a prenderlo a palle di neve per soddisfarlo. Il nostro uomo si sottopose di buon grado al gioco, ma tutto era dovuto a quei messaggi sdolcinati che si era scambiato con Alex la sera prima, perché riuscirono a garantirgli un buon umore stupefacente.
 Giak e Daniele uscirono sotto casa a distruggersi di neve e poco ci volle perché si unisse, seppur restando un po’ sulle sue, Lucio. Così i tre fratelli trascorsero una piacevole e cruenta mattinata sulla neve, lasciando dentro casa quei genitori che volevano rendere tetra anche la domenica mattina.
 
 Lauretta e Margherita invece passarono il tempo al telefono, discutendo della nuova coppia. Erano entrambe felici, anche se Margherita era convinta che, sotto sotto, Lauretta fosse gelosa; tuttavia, per quanto potesse negare, Margherita restava convinta, così dopo un po’ l’amica lasciò perdere.
 
Cicca ronfava beatamente. Lui non aveva fratelli con cui giocare o amiche pettegole con cui chiacchierare. Ronfava e stava pure bene così. Forse verso mezzogiorno si sarebbe alzato, ma chissà. Ancora non si era accorto che fuori tutto era bianco, e ancora non sapeva quanto sarebbe diventato euforico alla vista di tutta quella neve e alla notizia che il tg regionale avrebbe diramato verso le sette di sera.
 
Riccardo invece si era dovuto svegliare troppo presto, in un orario considerato ingrato per una domenica mattina.
La colpa era di suo fratello: aveva approfittato del fatto che i genitori erano usciti e si era messo a provare nuove canzoni per il suo gruppo.
Riccardo si girò dall’altro lato, grugnendo, ma non riuscì a riprendere sonno. Accidenti a Mauro.
 Dopo un quarto d’ora si srotolò dal piumone e si alzò, massaggiandosi le tempie. Non che avesse bevuto molto la sera prima, ma svegliarsi con quegli accordi appena accennati non era proprio un toccasana.
Mauro non se la cavava male, per carità: quando poi venivano anche alcuni degli altri membri del gruppo era piacevole a sentirsi. Spesso veniva il bassista, a volte anche la cantante (e quando arrivava lei Riccardo si rifaceva gli occhi, eccome). Erano al completo con il batterista, anche se quando veniva anche lui difficilmente combinavano qualcosa, dato che ovviamente non si portava dietro il suo strumento.
Ma sentirlo strimpellare da solo, quando cercava di imparare canzoni nuove, non era altrettanto piacevole.
 Riccardo scese nella taverna e fece cenno a Mauro di piantarla.
Lui smise di suonare solo per intimargli di non rompere.
 -Ma devi provare proprio di mattina?- esclamò Riccardo.
 -Evidentemente sì!-
 -Voglio dormire! Ricomincia oggi pomeriggio, sennò te la rompo quella chitarra-.
 -Oggi pomeriggio ho da fare, quindi posso provare solo ora-.
 -E che dovrai fare di così importante?!-
 Mauro non rispose, ma arricciò le labbra in un ghigno e pizzicò le corde della chitarra.
 -Allora?- lo incalzò Riccardo, che già di prima mattina doveva smaltire l’incazzatura.
 -Devo uscire con una-.
Riccardo alzò un sopracciglio, perplesso.
 -Con chi?- chiese.
 -Perché dovrei dirtelo?-
 -Perché mi voglio fare i fatti tuoi-.
 Mauro soppesò l’ipotesi di riferire al fratello quello che voleva sapere.
 -Non la conosci-.
 -E tu che ne sai?-
 -Sei una rottura. Si chiama Bianca, ok?-
 -Bianca e poi?-
 -Bianca Glossa. Non la conosci, è più grande di te-.
 Riccardo scartabellò nel suo archivio mentale.
 -La sorella di Fabrizio?-
 -Eh, quella-.
 -So chi è, ha solo un anno più di me. È carina. . . ma tanto non te la da. Non quando c’è il fratello che le fa da guardia del corpo-.
 -Tu lascia fare, lascia fare. Anzi, già che ci siamo prendo la tua cinta, quella di pelle con la fibbia grande-.
 -No! La mia cinta non si tocca!-
Riccardo si lanciò all’inseguimento del fratello, che aveva poggiato con amore la chitarra e ora correva a perdifiato verso la cinta che bramava per sé. 
 Mauro riuscì ad entrare nella camera del piccolo, ma Riccardo gli si gettò addosso, bloccandolo sul letto ancora sfatto.
 -Andiamo, solo per oggi!-
 -Anche la maglietta con la fiamma era “solo per oggi“, invece sono settimane che la metti!-
 -Si ma una cinta non è una maglia. . . lasciami!- Mauro si divincolò.
 -Sempre a litigare!- proruppe una voce.
 Riccardo alzò lo sguardo e Mauro approfittò di quell’attimo di distrazione per sgusciare via dalla presa. Ma quando li aveva messi su tutti quei muscoli, il piccoletto?
 Sulla soglia della stanza c’era la madre, ancora vestita e con il cappotto in mano. I genitori dovevano essere appena tornati.
 -Gli ho chiesto se mi presta la sua cinta, ma non vuole!- si lamentò Mauro. Era lo stesso che pochi mesi prima era diventato maggiorenne, ma a piagnucolare era sempre un asso.
 -Riccardo, prestagliela: che ti costa?-
Riccardo alzò gli occhi al cielo: ormai aveva capito che ribattere era inutile. Quando il cocco della mamma andava a frignare, l’ultimogenito non aveva più speranze di uscire soddisfatto dalla controversia.
 -Quanto scommettiamo che se la tiene lui?- disse, lanciandogli la cinta con rabbia. Mauro la fece cadere prima di raccoglierla, e fu a quel punto che Riccardo gli disse addio.
 -Possibile che non riusciate ad andare d’accordo su niente? Riccardo, ma perché sei sempre così duro? Ti ha chiesto un favore!-
 -L’ho appena soddisfatto, non te ne sei accorta?-
 -Abbassa la voce-
 -Ci perdo sempre! Ma chi se ne frega tanto. Non mi importa, tanto appena faccio diciotto anni me ne vado. Mica come questo qui, che ancora frigna come un bambino!- esclamò Riccardo. 
 -Oh ma non rompere!- si intromise Mauro, che nel frattempo se la stava svignando.
 -Tranquillo, non romperò più, ormai non mi importa di scassare la balle a voialtri!-
 -Riccardo!-
 -Di che ti lamenti? Non venirmi a dire che mi comporto male io, perché il mio dovere lo faccio-.
 -Non è che, siccome hai tutti voti alti, allora sei a posto-.
 -Che altro pretendi, che strisci dietro a ogni ordine di Mauro?-
 -Sii più accomodante!-
 Con ‘sta ceppa!!
 Riccardo non rispose, ma si voltò e finse di mettere in ordine alcuni libri mentre aspettava che la madre lo lasciasse solo.
 Era sempre così: lui e Mauro che erano quasi tranquilli, a parte i soliti screzi tra fratelli; dopo una breve lotta glie l’avrebbe data la cinta, lo sapevano tutti e due. Poi però arrivavano i genitori, e lì Riccardo sbottava. Non li sopportava, non sopportava come stessero sempre dalla parte di Mauro. Ogni volta che si parlava di lui i loro occhi brillavano di orgoglio, come non succedeva mai quando si trattava di Riccardo.
Lui era riuscito a pensare di tutto: che era il figlio riuscito peggio; che non avrebbe mai eguagliato Mauro; che sarebbe sempre rimasto un fallimento.
E li detestava, li detestava.



Giusto perché sapevo che tifavate per Alex e Giak <3

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Capitolo 19
*** capitolo 19 ***


Nel telegiornale regionale delle sette diedero la notizia che avrebbe fatto saltare Cicca di gioia: era ormai sera e, durante il pomeriggio, la neve era aumentata -era stato a quel punto che gli studenti di Polverano, forse guidati da un sesto senso affinato da anni di esperienza, avevano definitivamente messo da parte i libri e incrociato le dita. Così, davanti a migliaia di abitanti, un giornalista laconico annunciò che l’indomani le scuole sarebbero rimaste chiuse, a causa dei disagi provocati dalla neve lungo le strade della cittadina.
I nostri cinque amici si inviarono lo stesso messaggio, contemporaneamente: “la danza della neve ha funzionato!!”
 
La mattina del lunedì di festa Lauretta poté concedersi il lusso di un risveglio alle dieci passate. Le era venuto in mente che avrebbe potuto vedersi con gli amici, ma effettivamente muoversi con tutta quella neve non era comodo. E poi si stava molto meglio in casa, al caldo.
Certo, non c’era nessuno: sua madre lavorava ogni mattina e spesso si fermava a lavoro il pomeriggio, così con tutta probabilità Lauretta avrebbe passato diverse ore da sola. . . ma provò a non farci caso. Dopo tutto, non era fortunata ad avere quell’indipendenza che tanti adolescenti bramavano?
 Si alzò, stiracchiandosi e con gli occhi pesanti. Aveva bisogno di una doccia.
 Sua madre la chiamò dopo appena tre quarti d’ora che si era infilata sotto l’acqua bollente. Lauretta uscì gocciolante dalla doccia, si avvolse in fretta dentro l’accappatoio e saltellò fino al telefono, che non la smetteva di squillare. Aveva soppesato l’idea di lasciarlo suonare fino a quando chi era all'altro capo non avesse capito che lei aveva altro da fare, ma poi si era risolta per rispondere.
 -Ero sotto la doccia- rispose Lauretta dopo aver riconosiuto la voce di sua madre.
 -A che ora ti sei alzata?-
 -Poco fa-.
 -Ok. Senti, oggi pomeriggio mi si fa tardi qui in ufficio…-
 -Ah-.
 -Qualcosa da mangiare la trovi, ci dovrebbe essere…-
 -Sì, mi arrangerò qualcosa, tranquilla-.
 -Se per domani studi ora, nel pomeriggio potresti andare da tuo padre. Questa domenica non c’era e magari vuole vederti…-
 -Ah. Allora dopo cerco qualche autobus-.
 -Ok. Almeno non stai da sola-.
 -Va bene-.
 -Non ti sto costringendo, eh!-
 -Lo so- rispose piccata Lauretta. Figurati se fai qualcosa per fare un favore a papà.
 Riattaccò e guardò l’ora. Era presto per mangiare. Ma, tutto sommato, aveva davvero fame? La conversazione con sua madre le aveva fatto passare la voglia di mettere qualcosa sotto i denti. E poi non sapeva neanche cucinare; non aveva voglia di mangiare un piatto di pasta collosa come solo lei sapeva fare.
 Studicchiò qualcosa per il giorno dopo, con lo stomaco chiuso e la pelle che si distendeva dopo la doccia calda; così, per imparare quello stramaledettissimo futuro greco (era così tenera a vederla mentre cercava di capire, senza sapere che il metodo più gettonato dagli studenti era quello di andare a orecchio), saltò allegramente il pranzo.
 Poi chiamò suo padre e gli disse che, se lui non aveva niente da fare, sarebbe andata a trovarlo.
 La telefonata le fece molta tristezza. Margherita, Giak e gli altri non dovevano chiamare il loro padre per vederlo, e non dovevano neanche prendere l’autobus.
 Si diede un pizzico violento sulla coscia, conficcando le unghie nella carne: basta lamentarsi. C’era un sacco di gente che se la passava peggio, un sacco di gente che i genitori proprio non li aveva, oppure… Bella roba, dovrei consolarmi al pensiero che c’è gente che soffre più di me? Che carogna.
Pensare alla gente che stava peggio le faceva ancora più tristezza, pensare a quella che stava meglio le faceva invidia. Meglio non pensare affatto. Come a capodanno…
 
Si era arruffata per bene i capelli, si era avvolta nel cappotto e nella sciarpa e si era infilata il vecchio cappello di lana. Poi aveva afferrato l’abbonamento dell’autobus (nella foto aveva ancora i capelli lunghi e guardarla le faceva uno strano effetto dalle parti dello stomaco) ed ora lo stava aspettando sotto la pensilina. La strada era sgombra dalla neve, anche se costantemente bagnata, ma sui lati si erano formati cumuli più alti di uno sgradevolissimo materiale grigio e nero. Quella non sembrava affatto neve.
 Arrivò a casa di suo padre quindici minuti dopo. Scoprì che doveva esserci già qualcuno dentro, perché già dal pianerottolo si sentivano delle voci. Lauretta bussò sulla parete un paio di volte con le nocche per controllare se le pareti non fossero davvero di cartone, come invece sembravano.
 Da suo padre c’era Sara, con i suoi genitori. Lauretta ne fu sollevata: durante il viaggio si era chiesta come avrebbe passato il tempo a casa di suo padre senza essersi portata neanche niente da leggere, ma ora di sicuro aveva qualcosa da fare.
 Salutò tutti e, una volta appartatesi, Sara cominciò a spettegolare a raffica, confondendo le parole in un mormorio così incomprensibile che gli adulti preferirono non ascoltare dal principio.
Non che Lauretta avesse voglia di spettegolare, ma non fu fortunata quanto i matusa.
 -Ci sei ancora amica con quel Giak?- chiese Sara.
 -Certo che ci sono ancora amica!-
 -Amica, migliore amica o qualcosa in più?-
 -Immagino amica-amica. Di sicuro niente di più!-
 -Ma per caso sei interessata? Perché l’ho visto sabato. . .-
 Lauretta sbuffò sarcastica: -io, con Giak? Ma non farmi ridere. Comunque, dove l’hai visto sabato?-
 -Vicino a Charlotte, la cioccolateria dietro piazzetta. . . stava con una ragazza!-
 -Be‘, sarebbe stato preoccupante se fosse andato in un posto del genere con gli amici- sogghignò Lauretta.
 -Non sviare il discorso. . . sono curiosa, voglio sapere chi è lei, non l’ho vista bene in faccia. . .-
 La nostra eroina arricciò l’angolo della bocca, come se la sapesse lunga: -indovina? Era Alex!-
 Sara strabuzzò gli occhi, forse troppo scenograficamente, ma Lauretta era troppo divertita per farci caso.
 -Alex?! La stessa a cui aveva chiesto di uscire mesi fa?-
 -Proprio lei. Ti sembra strano?-
 -A parte che Giak mi sembra pure un po’ sfigato. . .-
 -. . . non lo è-.
 -Ma. . . e come è andata?-
 -Stanno insieme. Cioè, non so fino a che punto, ma sembra promettente la storia-.
 -Promettente! Si vede che non lo sai che tipo è Alex!-
 -Perché?- chiese preoccupata Lauretta.
 -Be’. . . ci conosciamo un po', non molto, ma abbastanza, insomma, ci siamo capite. . . conosco le sue storie, ma non nei dettagli le sue storie. . . né so perché siano finite tutte. . . dopo poco tempo. È questo il fatto: non dura. E poi. . . a quanto so io, è da qualche mese che fa tira e molla con un ragazzo del linguistico. Scrivono tutto su facebook, è divertentissimo leggere i loro flirt; però, se ora si sta sentendo con Giak, la cosa dà da pensare. . .-
 Lauretta si morse il labbro, poi però sembrò trovare una tesi convincente:
 -Alex ha accettato dopo tanto tempo dall’invito. Si vede che almeno un poco è interessata davvero. . . giusto? Magari ha deciso di lasciar perdere il tipo del linguistico-.
 Sara non rispose, ma si limitò ad alzare le spalle con fare crudele.
 -Lo spero per lui- rispose, quasi godendo nell’essere così dura e fatale.
 Lauretta chiuse lì il discorso e poco dopo Sara tornò a casa con i genitori. Si ritrovò sola con suo padre, senza sapere come ingannare il tempo. Chissà perché era sembrato contento di averla con lui quel pomeriggio, se tanto poi passò tutto il tempo a lavorare su un rapporto da consegnare entro il giorno successivo.
Stette svaccata per un po' davanti alla televisione, e quel paio d’ore furono inframmezzate solo da alcuni messaggi di Margherita e Riccardo che le tenevano virtualmente compagnia.
 A un tratto ebbe bisogno del bagno; si alzò pigramente dal divano e si diresse verso la sua meta.
Nell’attraversare l’anticamera, lo sguardo le cadde su una busta che suo padre aveva lasciato su un tavolino dietro la porta. Curiosa come non era mai stata, pensò di dare una sbirciatina; se non avesse fatto troppo rumore nello sfilare il contenuto, suo padre dall’altra stanza non se ne sarebbe manco accorto.
Presto però si pentì di quello che aveva fatto. Se ne rese conto quando capì cosa c’era scritto nel foglio che aveva cacciato: una tabella, ordinata con un fare meticoloso che riconobbe per quello di sua madre, con quelle che si rese conto essere alcune spese sostenute per lei: il cellulare nuovo (l’acquisto risaliva all’inizio dell’anno scolastico), quel paio di lezioni private di greco che aveva preso, il rinnovo dell’abbonamento dell’autobus, le lenti per gli occhiali che usava per leggere, la gita dell’anno prima. . . non lesse neanche tutto: subito le salì una nausea quasi più tremenda di quella del primo dell’anno, e rimise la lettera al suo posto. Poi si chiuse in bagno.
 Non sapeva cosa volesse dire quello che aveva letto, ma immaginava riguardasse qualche faccenda burocratica tra i suoi genitori. Eppure le aveva fatto un brutto effetto; tutto quello che lei rappresentava per quel matrimonio fallito era solo una serie di spese da dividere equamente? Lauretta si sentì male.
 
 -Lauretta, ma la notte dormi o fai altro? In quel caso. . .-
 -Alt! Cicca, niente battutacce-
 -Mi hai smontato-.
 -Comunque non scherza, almeno non per la prima parte. Tutto ok?- le chiese preoccupata Margherita.
 -Diamine, , va tutto bene! Non state sempre a preoccuparmi per me, non sono mica malata!- esclamò lei, più sgarbata di quanto di fosse aspettata.
 -Non ti incazzare, però. È che hai due occhiaie che se ti vede il WWF ti classifica come un panda in via d‘estinzione- disse Cicca.
 In tutta risposta Lauretta si passò una mano sotto le occhiaie, tirò giù i bordi degli occhi e gli fece una boccaccia, un po' anche per rimediare alla rispostaccia di prima.
 -Questo sì che si chiama rispondere per le rime- la canzonò Riccardo.
 -Attenti, dopo la miss arriva mister allegria! Giak, a te possiamo chiederlo che hai fatto?-
 Giak era appena arrivato. Guardò uno a uno gli amici, poi alzò gli occhi al cielo:
 -Alex. Non è niente di che, però non fate domande-.
 I quattro si scambiarono alcuni sguardi tesi (Lauretta aveva raccontato loro della conversazione con Sara del giorno prima) ma decisero di seguire il suggerimento di Giak.
 Tuttavia a Lauretta non era sfuggito lo sguardo di Giak; non si era mai sentita tranquilla a scandagliare l’umore dei suoi amici se questi non volevano, ma pensò che il malumore di Giak non valesse l’affetto che provava per Alex.
Lasciò passare un’ora, poi abbandonò il suo posto e si accoccolò sul pavimento, vicino alla sedia di Giak.
 -Te la posso fare una domanda?- chiese, anche un po’ stupidamente se vogliamo.
 -No-.
 -Cos’è successo con Alex? Non è per farmi gli affari tuoi, ma per vedere se posso aiutarti-.
 Giak sospirò, lanciandole uno sguardo quasi arrabbiato:
 -Non voglio parlare. . . e non lo dico tanto per dire. Non saprei proprio che dirti-.
 Lauretta rimase a sbattere le palpebre perplessa: quelle parole le erano sembrate familiari. Come se le avesse già sentite. . . o già pronunciate.
 -Questo l’ho detto io tempo fa-.
 -Me lo ricordo. È stata l’unica volta che ti sei confidata con me-.
 -Ecco perché me lo ricordo anche io. Comunque io l’ho detto per un motivo diverso- sussurrò Lauretta. Ripensandoci, ancora si vergognava di quella conversazione.
 Giak non rispose subito, fece trascorrere alcuni istanti. Poi prese Lauretta in contropiede:
 -Non è diverso. Alex potrebbe essere una scusa-.
Lauretta rimase per la seconda volta impalata davanti alle parole dell’amico.
 -Giak, ci sono. . . problemi?- domandò, cercando di andarci il più cauta possibile.
 Giak fissò senza vederli i libri davanti a sé. Si stava chiedendo quanto fosse il caso di confidare a Lauretta.
Ma in fondo lei non era l’unica che avrebbe potuto capirlo davvero? Eppure aveva paura di confessare le sue paure. Come se, a farlo, le potesse rendere d’improvviso più probabili.
 -Se non vuoi parlarne è ok, lo capisco. . .-
 -No- la interruppe Giak. Non appena lei aveva proposto di non parlarne, si sentì improvvisamente più bisognoso di farlo.
 -È che. . . mio fratello, Daniele, ha gli incubi e parla di notte. La prima volta io e Lucio ci siamo un po’ spaventati, ma ora proviamo a non farci caso. Va avanti da un po’ questa storia. . . da quando i miei hanno cominciato a litigare sempre più pesantemente-.
 Lauretta lo fissò, a metà tra il dispiaciuto e lo spaventato.
 -Mi spiace Giak. . . ti capisco. Voglio dire, neanche tanto. So come ci si sente ad avere genitori che litigano di brutto, ma io non ho fratelli e. . .- si morse il labbro, oltremodo dispiaciuta. –Loro come stanno?-
 Giak si abbandonò sullo schienale della sedia, stanco.
 -Lucio fa finta di niente. Si rinchiude da solo in salotto, secondo lui a studiare, anche se tanto non combina niente. E Daniele, te l’ho detto. . . non ci sta capendo una mazza. Di giorno sembra normale, solo che poi la notte. . .-
 -Giak, ma i tuoi. . . insomma, è solo un periodo difficile, oppure hanno intenzione di. . .?- Lauretta non riuscì neanche a pronunciare la parola “separarsi”. “Divorziare”. Già aveva problemi a spiegare alla gente che i suoi non stavano insieme, figuriamoci quando si trattava di terzi.
 Improvvisamente la professoressa entrò, facendo sfrecciare ogni studente al proprio posto. Lauretta si alzò, ma prima di tornare al suo banco si fermò ad aspettare la risposta di Giak.
 -Non lo so. Non ne hanno mai parlato. . . non con noi, almeno-.
Ormai erano tutti seduti, Lauretta era rimasta l’unica fuori posto. Si morse di nuovo il labbro, passò una mano sulla spalla di Giak e la strinse leggermente, sperando di lasciargli intendere quanto lo capiva e quanto lo volesse consolare. Poi tornò a sedersi vicino a Margherita.
 -Cos’è successo?- chiese subito lei.
 -Be’, Alex: sappiamo che tipo è. . . niente di che, davvero, solo Giak che è cotto e quindi ci rimane male per qualunque cazzata- rispose velocemente lei.
 Non voleva mentire alla sua migliore amica, ma non se la sentiva di sbandierare i problemi di Giak.
Dopotutto anche lei ci era passata, e sapeva cosa volesse dire girarsi e vedere ovunque le gente che ti riserva sguardi dispiaciuti e sorrisi tirati.
 In quel momento i genitori di Giak stavano tenendo in mano le sorti della serenità del figlio, almeno di quella dei prossimi mesi.
Se solo avessero deciso di prendere la più drastica delle decisioni, quella che anche i suoi genitori avevano scelto, Lauretta li avrebbe odiati.




 Infine, here I am! Ho approfittato di una giornata di respiro, una delle ultime della mia vita probabilmente (aaargh! Chi sa, capisca), per regalare ai miei affezionati un ultimo capitolo, prima di andare incontro alla morte.
Scherzo, la sto facendo più tragica di quello che è: non sto andando incontro alla morte, è solo la maturità; e, soprattutto, questo non è l'ultimo capitolo. Ah, beati!
Ringrazio, come al solito, chiunque perda un po' di tempo con l'Allegra Brigata: a partire da Leitmotiv, che continua imperterrita a recensire (riempiendomi di gratitudine, come al solito *_*), e tutti voi che seguite, ricordate e preferite. 
Ovviamente le recensioni sono molto molto molto ben gradite (anche solo per farmi un "in bocca al lupo"... non vi faccio forse pena? Ah, cosa non si fa per racimolare commenti!)...
 Se tutto va bene riesco ad aggiornare prima degli esami, altrimenti... prometto grasse risate!!

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Capitolo 20
*** capitolo 20 ***


Durante il febbraio di quell’anno, gelido e pateticamente lungo come solo a Polverano potevano essere i febbraio, si sarebbe srotolata una catena di eventi che avrebbe coinvolto tutti e cinque i membri della “allegra brigata”, come ormai i nostri cinque erano conosciuti all’interno della classe.
Tutti ne sarebbero stati toccati, nessuno escluso... E ovviamente nessuno se l’aspettava: come poter sospettare dell’esistenza di un vortice che si sarebbe aperto con Alex e chiuso con Marco, passando per il piccolo Daniele?
 
Quando avevano chiesto perché stesse così giù di morale quella mattina, Giak aveva mentito agli amici: la scusa di Alex era perfetta.
Perfetta perché probabile, ma anche perché non si era dovuto sforzare neanche tanto a recitare.
 Non era normale che, dopo una misera settimana in cui stavano insieme, Alex fosse diventata via via più elusiva; a questo Giak ci arrivava. E arrivava anche a chiedere cautamente se ci fossero problemi.
Lei però ogni volta sorrideva e garantiva che tutto andava alla perfezione. Salvo poi non farsi viva né sull’autobus, né durante la ricreazione.
Giak rasentava l’incazzatura più pericolosa per chiunque gli capitasse di fianco.   
 L’aveva detto agli amici, ovviamente. Margherita aveva reagito disgustata, suggerendogli di mollarla prima che la cosa diventasse ancora più seria. Cicca e Riccardo si erano guardati brevemente in faccia, perplessi, poi Riccardo aveva detto “valle a capire le femmine. Tutte uguali”.
A quel punto Margherita e Lauretta avevano cominciato a schernirlo e Cicca, al di sopra del battibecco, aveva rivolto un’alzata di spalle a Giak, come a dire tranquillo, passerà.
Invece non passava. Era dovuta trascorrere un’altra settimana, prima che Giak potesse avere il privilegio di passare del tempo con Alex senza che questa andasse di fretta. Messa alle strette, infatti, non aveva potuto far altro che acconsentire a passare il pomeriggio con lui.
“Solo fino a una cert’ora però, perché questa settimana mamma vuole che rimanga a casa per cena. . . mi spiace!”
 Giak aveva chinato la testa rassegnato, poi però aveva pensato che almeno si sarebbe goduto quelle poche ore.
Erano stati bene insieme. Avevano preso delle crépes in centro e si erano divertiti a cercare di mangiarle senza macchiarsi; avevano salutato conoscenti, poi, quando questi erano cominciati a diventare troppi, si erano nascosti in una piazzetta poco frequentata. E quell’ultima oretta, insieme all’uscita precedente, sarebbe stato tutto ciò che Giak avrebbe potuto ricordare della sua breve avventura con Alex.
 Già la domenica era sparita. Non rispondeva ai messaggi, né alle chiamate. Giak non studiò per niente bene, ansioso e frustrato com’era, e solo verso sera gli arrivò il messaggio che aveva atteso tutto il giorno:
Ehi! Scusa scusa scusa se non ti ho risposto, ma oggi sono andata a sciare con i miei. . . non ti dico che neve!! Ci vediamo domani. . . ti adoro!!
Leggendo il messaggio Giak si morse le labbra e poi, senza neanche capire bene il perché, lanciò il telefonino con tutte le sue forze contro il letto a castello.
 
Il giorno dopo arrivò a scuola più impreparato che mai e ovviamente, stando così le cose, venne interrogato in latino alla prima ora -un bel quattro che guastò tutta la media duramente guadagnata- e in letteratura alla quarta e ultima ora: dal momento che il giorno prima aveva studiato solo latino (e tutto per un quattro), l’interrogazione non andò molto meglio. 
 Quando suonò l’ultima campanella e la prof firmò con uno svolazzo l’ennesima insufficienza, Giak non si fermò neanche a salutare gli amici; scaraventò tutto nello zaino di tela, si infilò il cappotto e, senza neanche abbottonarlo, si accinse ad affrontare il freddo pungente.
 Lauretta, Margherita, Cicca e Riccardo non osarono trattenerlo: sapevano il motivo della sua incazzatura e pensarono che fosse meglio risparmiargli i loro inutili tentativi di consolazione.
 Solo per i corridoi, tra i primi della massa di ginnasiali che si stava muovendo, Giak si fiondò quasi infuriato oltre il portone della scuola. Una volta uscito stava dirigendosi automaticamente verso la fermata del suo autobus, quando notò Alex già seduta su un muretto, dall’altro lato della strada. Lei non lo vide, ma solo perché aveva di meglio da fare. . . davanti a lei, in piedi, c’era un ragazzo che Giak non aveva mai visto, per lo meno al classico. Era di spalle, per cui il nostro eroe riuscì a prendere nota solo dei capelli scuri e del giubbotto stupidamente fluorescente, ma in compenso poteva vedere chiaramente Alex: sorrideva, seppur distaccata, ma tanto gli bastò per rimanere impalato a fissare la scena. Alex non aveva mai guardato lui con quello sguardo carico di promesse con cui guardava l’altro. Non aveva mai sorriso a lui come stava invece facendo a quel truzzo venuto da chissà dove.
Se fino ad allora Giak aveva rasentato la furia, ora diventò un tornado a tutti gli effetti: strinse i pugni, basito, sperando di venir visto prima di essere costretto ad avvicinarsi perché davvero non voleva farlo, ma lo stesso i suoi piedi avevano cominciato a muoversi prima che il cervello potesse pensare a cosa eventualmente dire o fare. . . mentre scansava gli studenti che gli si paravano davanti, un autobus si fermò davanti a lui prima che potesse attraversare la strada; fu subito travolto dall’orda di passeggeri che scendevano e salivano e dovette fermarsi. Metà di lui ne fu sollevata, ma l’altra gli avrebbe volentieri fatto scavalcare l’autobus pur di non perdere di vista il suo obiettivo. Quando però l’auto ripartì, Alex e il truzzo erano spariti dal muretto.
Giak restò immobile al suo posto, pietrificato dalla gelosia; sentiva qualcosa ruggire dentro di sé e cominciò a mordersi le labbra, mentre stringeva i pugni tanto da lasciare che le unghie si conficcassero nella carne. Avrebbe dovuto correre verso di lei, mettere in fuga il truzzo, riprendersela, in qualche modo. . . invece era stato capace solo di perdere l’autobus.
 
Il giorno dopo non solo non aveva smaltito la furia, ma se ne era aggiunta altra: per tutto il pomeriggio precedente aveva avuto voglia solo di imprecare, ma aveva pensato che sarebbe stato più saggio tacere, per non far innervosire i suoi. Solo che loro si erano innervositi lo stesso perché non aveva dato segno di interrompere quel mutismo incazzoso, così la miccia era esplosa lo stesso. Al mattino, Giak fu contento di uscire di casa.
Non si aspettava di incontrare Alex sull’autobus, e infatti non c’era. Non si aspettava neanche di vederla durante l’intervallo –e, per evitarsi la delusione, rimase direttamente in classe. Passò quattro ore ad arrovellarsi il cervello, cercando spiegazioni per quel comportamento che non fossero troppo spiacevoli, ma non approdò a nulla che volesse prendere in considerazione.
Siccome, al suonare dell’ultima campanella, aveva ormai perso definitivamente le speranze di incontrarla (magari non era venuta a scuola!), all’improvviso qualcuno gli saltò addosso:
 -Weee!- lo salutò allegramente Alex, dandogli un bacio sulla guancia. Giak ci mise un po’ per rendersene conto, ma quando capì fu sollevato: dopo tutti i rimurginii, dopo tutto il tempo che aveva perso a pensarla, dopo tutte le volte in cui arrivava a convincersi di essere stato preso per il culo, scoprì, costernato, di essere felice che lei fosse finalmente comparsa:
 -Che mi racconti di bello?- chiese, come se non si vedessero dal giorno prima.
-Alex, hai fretta?- chiese Giak, senza rispondere.
 -Non eccessivamente. . . perché?-
 -Resta un po’ a farmi compagnia. Non ho voglia di tornare subito a casa- disse lui.
 -Oh. . .- il sorriso svanì dal viso di Alex e per un millesimo di secondo rimase a sbattere le palpebre con aria seria. Poi abbassò lo sguardo, sorrise e annuì.
 -D’accordo-.
 Giak la prese per mano e la condusse dietro la scuola, sperando che nessuno avesse avuto la brillante idea di occupare il cortile esterno.
Ebbero fortuna.
 -È quasi un anno che sto in questa scuola, ma ancora non sapevo dell’esistenza di un cortile del genere- disse Alex.
 -”Cortile” è una parola grossa- rispose Giak.
In effetti, a vedere quello spiazzo di mattonelle e erbacce che si contendevano il suolo, sotto alberi spogli e un tetrissimo muretto coperto di muschio, sembrava più un angolo di degrado capitato per caso vicino la scuola, piuttosto che un cortile fatto apposta.
 Giak si sedette sul muretto, dopo aver scaraventato lo zaino per terra, poi tirò a sé Alex. Lei si chinò e lo baciò teneramente, passandogli una mano tra i capelli.
 -Vieni- disse Giak. La fece accomodare sulle sue ginocchia, passando una mano sotto la sua giacca e carezzandole dolcemente un fianco.
Alex abbandonò la testa contro il suo petto e Giak le posò un ennesimo bacio tra i capelli.
 -Domenica ti ho odiato, accidenti a te- sogghignò Giak a un tratto.
 -Sì, scusami davvero, ma non avevo sotto mano il cellulare. . .-
 -Non sapevo saresti andata a sciare. . . veramente non sapevo proprio niente di quello che facevi, ma vabbè. . .-
 -Dai, non lo sapevo neanche io, papà mi ha tirata giù dal letto presto e me l’ha detto all’ultimo momento. . .-
 -Ah-. Avrebbe voluto aggiungere qualcosa riguardo al giorno prima, ma non sapeva come. Non sapeva se.
 Trascorsero alcuni istanti di silenzio.
 -Certo che sei proprio nervoso, vero?-
 Giak corrugò le labbra, mentre continuava a tenere stretta a sé Alex.
 -Sì. È che sono troppo stressato, davvero. . .-
 -È per la scuola? Io neanche pensavo sarebbe stato così difficile. . .-
 -Tu fai ancora il quarto, neanche sai cosa vuol dire essere rimandati. E comunque no, non è solo per la scuola-.
 -E per cos’altro?-
 Giak pensò se tacere, ma non era sicuro di riuscirci: improvvisamente gli era salito un nervosismo tale che avrebbe potuto far scoppiare Alex in lacrime come una bambina, se solo l’avesse voluto. Finalmente si decise a risolvere quella questione spinosa:
 -Anche per te. Non ti fai sentire mai, né vedere-.
 Alex si scostò bruscamente, guardandolo con aria quasi offesa.
 -Adesso sono qui, mi pare- disse.
 -Sì, adesso. Ma per il resto non ti fai sentire mai-.
 -Avrò anche i miei problemi-.
 -Pensi siano abbastanza per snobbarmi così?-
 -Tu che ne sai-.
 -Io so che, a quanto pare, tu hai sempre i tuoi problemi. Ma guarda che un minuto per cagarti le persone che ti vogliono bene si trova. . .-
 Alex si alzò, sciogliendosi dall’abbraccio di Giak.
 -Che vuoi ora?- chiese piccata.
 -Come sarebbe. . .-
 -Che vuoi! Come te ne esci! Io sono così, non puoi accusarmi perché non mi faccio sentire, non sono ossessiva come te!-
 -Io sarei ossessivo?- esclamò Giak, ancora abbandonato sul muretto. Alex invece ora stava camminando avanti e indietro, davanti a lui.
 -Be‘, sì!-
 -Alex, ma sei scema? Io non voglio essere ossessivo o robe del genere. . .- Giak pensò al Marco di Margherita e si sentì più sicuro, -conosco persone che lo sono veramente e, fidati, io non lo sono! È che. . .-
 -Cosa?- abbaiò lei, incrociando le braccia davanti al petto.
 Giak prese fiato, coraggio e voce:- è che a te ci tengo. Insomma, non so come dirtelo. . .  tu mi piaci, e pure tanto. Non voglio che la nostra sia solo un’avventura così. . .-
 Alex si fermò, impalata davanti a lui, e lo fissò con sguardo grave.
 -Tu. . . tu vuoi una storia seria- mormorò.
 Giak abbassò lo sguardo:
 -Be’, non voglio perderti subito. Scusami se te lo dico così, schietto, ma lo sai che mi riesce più facile-.
 Alex non rispose. Si sedette sul muretto, vicina a lui ma attenta a non toccarlo, e addolcì i toni.
 -Giak, anche io ci tengo a te, ti voglio bene davvero. . . ma non me la sento. Fino a quando è una cosa senza impegno è ok, ma poi. . . non voglio legarmi troppo. Ho avuto altre esperienze in passato per le quali sono stata molto male, e. . . non me la sento di ripetere tutto. Ti prego, capiscimi-.
 Giak rimase immobile, a momenti senza avere neanche il coraggio di respirare. Si limitava solo a mordersi le labbra fra i denti, cercando di farsi molto molto male.
 -Insomma ti servivo giusto per un’avventura: niente di sofisticato- sibilò.
 -Non è così semplice. . .-
Il truzzo del giorno prima. Lo sguardo con cui Alex lo contemplava. Quel sorriso. Uscire insieme solo un paio di volte, sempre rigorosamente in luoghi frequentati. . . tutto si andò ad incastrare nella mente di Giak in un puzzle improvvisamente chiaro.
 -. . .e hai mai pensato che io avrei potuto rimanerci male?- continuò, senza risponderle. Usato, e ora gettato via. Giak cominciò a non sentirsi più le ginocchia dalla delusione.
 -Sì Giak, ci ho pensato, e ho sperato che mi perdonassi. . . non voglio perderti, sto bene con te-.
 -Ma stai bene pure senza! Invece io, in quanto cretino, riesco anche a stare male!-
 -Non è per cattiveria che. . .-
 -Infatti è per egoismo, il tuo egoismo! Perché vuoi usare le persone solo come e quando ti va. . . credi che non l’abbia capito? Il tuo truzzetto si è poi ingelosito abbastanza per decidere che poteva prenderti in considerazione, dopo averti visto per il tempo necessario insieme ad un altro ragazzo?-
 -Giak. . .-
 -Ma chi vuoi prendere in giro?!-.
 Finalmente Alex ammutolì. Si morse un’unghia, poi, con una voce che rasentava la disperazione, provò con l’ultima carta:
 -Giak, io ti. . .-
 -Alex, ma vaffanculo-.

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Capitolo 21
*** capitolo 21 ***


In quel periodo arrivarono le pagelle.
Erano temute ed aspettate come quando vedi le nuvole d’estate e pensi “no, non può piovere davvero" e invece, inevitabilmente, piove.
Il preside entrò in classe come se dovesse solo scambiare quattro parole con la prof, ma dal modo in cui gli studenti scattarono in piedi l’entità del disastro fu palese. Posò il fascio di cartellette sulla cattedra mentre, dietro di lui, la professoressa riusciva a malapena a nascondere un sorrisetto.
 -Merda!- sussurrò Cicca a Riccardo. Riccardo riferì il messaggio a Giak.
In ordine alfabetico, iniziò la sfilata di studenti ansiosi. Alcuni inciamparono, altri riempirono lo spazio con falcate più ampie del normale, altri si mordevano le labbra.
 I nostri cinque ritirarono le loro pagelle, senza aprirle prima di essersi seduti al loro posto.
 Il preside ci mise meno di una decina di minuti per consegnare tutto il consegnabile, poi li abbandonò al loro destino.
La prof, dopo aver incassato stoicamente l’interruzione, provò a convincere i suoi studenti a mettere da parte le pagelle, ma quelli ci misero un po’: stavano tutti esaminando i propri voti. E i propri pagellini, ovviamente: era tutto un circolare di fogli da stampante che avrebbero decretato il loro secondo quadrimestre.
 -Greco e storia. . . merda, anche storia!- mugolò Lauretta disperata.
 -Anche a me ha ridato storia, e geografia. . . ma ‘sti cavoli, per quelle non ci servono gli esami- disse Cicca. Si sentiva in colpa, perché era sicuro che quei sei a greco e latino tutto erano tranne che meritati, ma non se la sentiva di parlarne proprio in quel momento.
 - Giak, come è andata?-
 -Come previsto- rispose lui, scuro in volto, -greco, latino, inglese e matematica-.
 -Cavolo, mi spiace. Dai, inglese e matematica non sono un problema, ci metterai poco. . . - tentò Margherita.
 -Margheri’, ti prego, non serve. So come stanno le cose-.
 -Scusa!-
 Giak sospirò e infilò la pagella tra i libri, assicurandola dentro lo zaino.
 -Fa niente-.
 Lauretta diede un buffetto a Margherita: le avrebbe voluto dire di non prendersela, che ultimamente Giak si comportava così per Alex e per tutti gli altri casini, ma non ce ne fu bisogno: Margherita già lo sapeva.
 
Lauretta riportò la pagella a casa, senza sapere come avrebbe reagito sua madre alla vista di quei voti e quello stupido pagellino di greco.
Infilò la chiave nella toppa per scoprire che sua madre in realtà era già tornata e stava cucinando, in tenuta casalinga. Lauretta l’aveva sempre trovata più bella con i pantaloni della tuta e la felpa slargata, ma non glie l’aveva mai detto.
 -Ciao. Come è andata la scuola?- chiese lei.
 -Ci hanno portato la pagella. . . - mugugnò Lauretta. -Tieni- continuò cacciandola dalla borsa.
 Sua madre inforcò gli occhiali, prese la cartelletta e Lauretta vide le sue sopracciglia avvicinarsi sempre di più man mano che scorreva i voti.
 -Greco, scritto tre e orale quattro. Storia, quattro. Lauretta, come me lo spieghi?- sibilò alla fine.
 Lauretta si abbandonò su una sedia della cucina, improvvisamente stanca:
 -Come dovrei spiegartelo. . . È difficile il classico-. Sperava di far leva sul fatto che sua madre non aveva frequentato quel liceo.
 -L’anno scorso sei andata molto meglio-.
 -Sì, be’, quest’anno no-.
 -E perché?-
 Lauretta alzò lo sguardo e lo puntò su quello di sua madre:
 -Perché quest’anno è diverso dall'anno scorso-.
 La donna chiuse la pagella e la sbatté sul tavolo. Forse aveva capito l’allusione di Lauretta, forse no. In ogni caso decise di non rispondere, tenendo quell’atteggiamento sostenuto e glaciale che le era sempre riuscito bene.
 Lauretta abbandonò la cucina e si rinchiuse in camera sua. Non era stata per nulla soddisfatta della reazione di sua madre; non si era aspettata niente di preciso, ma forse avrebbe preferito che le urlasse contro, che la rimproverasse, che la facesse incazzare al punto di piangere. E invece niente di tutto ciò.
 Però si era arrabbiata lo stesso. Forse perché cominciava a pensare che di lei non importasse niente a nessuno dei genitori.
 -Fantastico- mormorò tra sé e sé. Poi accese il computer, alzò il volume delle casse al massimo e iniziò a scartabellare tra la sua poca musica.
 Le piacque ascoltare musica ad alto volume, come tempo prima le aveva consigliato di fare Giak.
 Uscì qualche minuto dopo, quando sua madre le urlò di mettere la tavola. Lei la raggiunse, scaraventò un paio di piatti e un paio di bicchieri sopra la tovaglia e si sedette, aspettando il pranzo.
 Mentre mangiavano, sua madre le disse che quella sera non ci sarebbe stata.
 -Dove vai?- chiese Lauretta.
 Non ricordava neanche l’ultima volta che sua madre si era impappinata in quel modo: ma, dopo alcune sillabe sconnesse, la risposta fu: -devo discutere con un mio collega sul caso che stiamo seguendo-.
 Lauretta si fece bastare quella risposta e non aggiunse altro. Continuò a deglutire forchettate di pasta, sempre più esigue, ma si rese conto di doversi sforzare per compiere quei gesti così normali.
 Non aveva la testa per studiare quel pomeriggio, eppure si impegnò per farcela; il risultato fu una traballante versione lasciata a metà (confidava in Riccardo e Margherita la mattina dopo) e diversi paragrafi di italiano che la sua memoria avrebbe catalogato come effimeri.
 Sua madre uscì verso le sette. Lauretta non avrebbe davvero voluto vederla, ma lei andò a salutarla mentre stava ancora studiando, così si accorse di come, per la prima volta da tempo, la vedesse curata: indossava un tailleur scuro, si era gonfiata i capelli di spuma e li aveva fissati con la lacca ( a Lauretta quella pettinatura ricordava sempre quando usciva per le serate speciali, e portò un’ennesima vagonata di scomodi ricordi), ed aveva un profumo così buono e sofisticato da sembrare più giovane di diversi anni.
 -Ciao- la salutò voltandosi. Non le sembrò carina come cosa, ma vederla così acconciata per un altro uomo le aveva fatto un effetto bruttissimo. Le parve quasi di aver bisogno di vomitare.
 Si ritrovò a casa da sola. Che piacevole novità.
Annoiata, dopo aver messo da parte i libri soppesò l’ipotesi di cenare, ma poi decise di farne a meno. Non ne aveva voglia.
 Invece si sedette davanti al computer, si connetté a internet e, senza sapere bene come ingannare il tempo, pensò che forse era venuta l’ora di iscriversi a Facebook. Non che le piacesse poi così tanto, ma le avevano detto di iscriversi anche solo per entrare a far parte del gruppo di classe, dove qualche anima buona, quando e se aveva tempo e voglia, scriveva le frasi o le versioni per il giorno dopo.
 Fu facile: nome, cognome, data di nascita ed e-mail, ed ecco finalmente cos’era quel social network che aveva stregato milioni di schizzati.
 Chiamò Margherita per farsi istruire un po’, e lei la aggiunse subito come amica.
 -Guarda che cosa stupida! Secondo internet, io e te abbiamo stretto amicizia solo ora- commentò ghignante Lauretta.
 -La settimana scorsa mamma ha stretto amicizia con papà, pensa un po’! Ora io devo andare a cena. Tu intanto vai tra i miei amici e aggiungi un po’ di gente che conosci. . . E vedi di mettere una foto del profilo al più presto!- Margherita la salutò e riattaccò.
 Lauretta smanettava su internet, mentre scorreva centinaia di nomi di gente di cui neanche ricordava l’esistenza. Nel frattempo aveva scaricato l’immagine di una nana bianca e ne aveva fatto la propria immagine del profilo.
 Trovò subito Cicca, Giak e Riccardo. Poi quasi tutto il resto della classe, e anche quelle delle medie e delle elementari. Aggiunse Sara e un altro paio di cugini più grandi. Aggiunse gente che conosceva di vista e vecchi professori andati in pensione (e che quindi non avrebbero potuto interferire sulla sua vita scolastica). 
 A un certo punto, tra gli amici di Sara, trovò Alex. Era abbastanza sicura che fosse lei, ma prima di aggiungerla controllò le foto.
Sì, era davvero lei: tra le foto aveva anche il disegno che le aveva fatto Giak. . . Lauretta fu stizzita quando scoprì che solo Alex avrebbe potuto eliminarlo da lì: le era venuta una voglia bestiale di farlo per lei.
 Una che asserisce di aver avuto “altre esperienze in passato per cui aveva sofferto tanto”, quando invece non aveva neanche quindici anni, non avrebbe dovuto avere la decenza di farsi vedere con un disegno del suo amico.
Solo che poi, scorrendo tra le immagini del profilo, ne trovò una che le sembrò parecchio familiare. . .
 Sconcertata, corse a prendere il ritratto che Giak aveva fatto per lei. Ci mise poco per accorgersi che in realtà quella nel disegno era Alex, solo con alcuni tratti e il taglio di capelli modificati.
 Rimase perplessa. L’unica cosa certa era che non avrebbe aggiunto Alex tra gli amici, lei che era stata così bastarda con Giak: fingersi interessata ed illuderlo in quel modo, solo per far ingelosire un truzzetto. Roba per cui lei avrebbe volentieri ucciso.
C’era però qualcosa che non le piaceva nel fatto che Giak avesse ritratto Alex e poi l’aveva spacciata per lei. Forse perché sapeva cosa aveva fatto quella ragazza al suo amico, e perché aveva visto Giak nei giorni seguenti.
 Non aveva mai avuto più paura di avvicinarsi a lui: sembrava così cupo, irritabile e scontroso da lanciare fulmini dagli occhi.
 O forse a non piacerle era proprio il fatto che Giak avesse voluto (e continuasse a volere) così bene a quella carogna. Stava forse diventando gelosa? O lo era sempre stata?
Lauretta decise di mettere da parte il disegno; avrebbe chiesto chiarimenti il mattino dopo, a scuola.
 Solo che, così facendo, si ritrovò con un’intera serata da trascorrere in casa, da sola. Aggiungendo questo al fatto che per Lauretta si avvicinava quel periodo del mese in cui la luna gira e i brutti pensieri salgono, immaginate facilmente verso quali baratri di tristezza sarebbe sprofondata.
 La mattina dopo ci fu l’esplosione.

Si era svegliata che erano da poco passate le sei. Oggi ho battuto ogni record. 
 Pensò se fosse il caso di riaddormentarsi, ma decise di no: magari avrebbe potuto finire la versione del giorno prima. . . Magari. Ma scoprì di avere ancora il cervello in pappa, per cui fu facile rinunciare.
 Andò in cucina e cercò di mangiare, ma l’odore rivoltante di qualche prodotto andato a male nel frigo le fece passare la voglia di fare colazione.
Scazzata al massimo, un’ora e mezza dopo si accingeva a prendere l’autobus. Sarebbe arrivata prima del resto del mondo a scuola, ma non le importava.
 Si sedette sul solito muretto, con le cuffie alle orecchie e il libro di italiano davanti al naso. Come se servisse davvero a qualcosa.
Guardava la gente arrivare, gli autobus scaricare studenti, la barista vendere cornetti, e di tanto in tanto salutava qualcuno da lontano.
Solo dopo un quarto d’ora vide Riccardo che le si avvicinava:
 -Ciao Lauretta. Come mai sei già qui?- chiese.
 -Mi sono svegliata troppo presto. Si vede?-
 -Un po’-.
 -Tu?-
 -Mauro oggi ha la simulazione di terza prova ed è voluto arrivare per forza in anticipo. . . Io devo stare appresso a lui, che ha la macchina. Ma vabbò-.
 -Hai visto qualcun altro?-
 -Tra un po’ arriva Cicca. Ma tanto non sarà di compagnia. . . Ieri diceva di voler fare sega-.
 -Oh. . . -
 -Vai anche tu con lui?-
 -No, credo di no. Deve interrogarmi ad italiano, e poi già ho saltato abbastanza giorni. . .-
 Era vero: durante le ultime settimane del primo quadrimestre, Lauretta aveva usato il vecchio ripiego per fuggire alle interrogazioni sempre più spesso. Non lo decideva mai prima, anzi, studiava. . . e pure tanto. Solo che poi la mattina si sentiva così impreparata che, non appena Cicca la guardava con sguardo allusivo, cedeva. E poi aveva scoperto di saper falsificare la firma della madre alla perfezione, indi per cui. . .
 -Ciao raga’- salutò Giak, appena sceso dall’autobus. Aveva la faccia più nera del solito; solo in seguito avrebbero scoperto che era dovuta al viaggio in autobus, di cui aveva usufruito anche Alex. Che ovviamente era tornata a prendere la stessa linea di Giak, ora che tutto era chiarito e che lui non le si sarebbe avvicinato per nulla a mondo.
 Gli amici salutarono e rimasero lì ad aspettare Cicca, che arrivò con un cornetto ripieno e Margherita. Poi, dopo aver abbandonato Cicca con alcuni amici di un’altra sezione, entrarono.
 Anche Margherita rasentava la furia: ci mise un po’ per raccontare a Lauretta il perché avesse litigato con Marco, per l’ennesima volta.
 -Che palle! Oggi state tutti neri!- esclamò Riccardo, tra l’ora di storia e quella di italiano.
 -Be’ direi, tra un po’ mi interroga e non so niente- rispose Lauretta.
 -Ma come? Perché non hai studiato?- chiese Margherita. Lauretta le puntò addosso lo sguardo, irritata:
 -Ho studiato! Solo che non mi ricordo niente. Non passo mica le giornate a cazzeggiare- sibilò. Che ne sapeva Margherita di tutto quello che le passava per la testa? Lauretta non credeva di essere mai stata troppo suscettibile, ma talvolta certe uscite di Margherita le smuovevano qualcosa dalle parti del fegato e riusciva a rimetterlo a posto solo saltando su come punta da una vipera.
 -Ehi, tranquilla. . .- Margherita decise di lasciarla perdere e si concentrò su Giak, ma neanche lui era dell’umore adatto per fare conversazione. A quel punto si scambiò uno sguardo esasperato con Riccardo, l’unico che pareva immune allo stato di arrabbiatura collettiva, e tornò a farsi i fatti suoi in attesa della prof.
 Ma da qualche parte la catena doveva pur cominciare: la scintilla doveva accendersi, il combustibile spargersi, il fuoco divampare.

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Capitolo 22
*** capitolo 22 ***


Lunedì
 
 -Lauretta- Giak affiancò la sua amica, alla fine delle lezioni.
 -Che c’è?-
 -Volevo solo sapere come stai-
 -Oddio Giak. . .- Lauretta alzò gli occhi al cielo. Non l’aveva fatto apposta a sentirsi male proprio durante la lezione di italiano, ma ad un tratto aveva sentito qualcosa muoversi dalle parti dell’esofago e. . . non aveva neanche capito come avesse fatto a dire alla prof di sentirsi poco bene senza vomitarle in faccia: era solo consapevole di essersi ritrovata dentro uno dei gabinetti della scuola giusto in tempo per rovesciare.
 -Non è normale. . . Sei sempre debole, sfiancata. . . Ci vai da un dottore?-
 -Macché, non ne ho bisogno. . . Questo è solo un periodo-.
 -Mi dici cos’hai?-
 -Niente, sta’ tranquillo. . .- 
 -Non ci provare, Giak. Tanto non parla-. Questa era Margherita, che insieme a Riccardo si era unita al discorso.
 -Be‘, dovrebbe!-
 -Raga, che palle! Andiamo, va tutto bene. . . -
 -Insomma. . .- tentò Riccardo. Ora erano usciti e si erano seduti al solito muretto, in attesa degli autobus.
 -Ma ora uno non può sentirsi male, senza che tutti inizino a pensare le peggio cose? Andiamo, sto bene, davvero. . . -
 In quel momento arrivò Mauro, che fece un cenno a Riccardo.
 -Io devo andare, altrimenti mio fratello mi lascia a piedi. . . Ci sentiamo oggi, ok?-
 I tre salutarono Riccardo. Ma, prima che potessero tornare all’attacco, Margherita gemette e indicò Marco che si stava avvicinando.
 -Dai, vai a vedere che vuole. Magari ha intenzione di scusarsi. . .- disse Lauretta.
 -Semmai sarei io a dovermi scusare con lui. . . mi ascoltavi quando ti ho raccontato che mi ha fatto ricacciare? Ma comunque non ne ho la minima intenzione. . .-
 Ora si era avvicinato. Salutò con un cenno i due, poi si rivolse a Margherita.
 -Ti posso parlare?-
 Margherita si girò verso gli amici, in cerca di aiuto, ma Giak e Lauretta le fecero intendere la stessa cosa; alla fine, Margherita si allontanò con Marco. Lui provò a prenderla per mano.
 Trascorsero alcuni istanti di silenzio, poi Giak riprese il discorso:
 -Tanto io l’ho capito qual è il problema. Magari Riccardo e Margherita non ci arrivano, ma io forse mi ci avvicino. I tuoi si sono risentiti di nuovo?-
 -No. Non c’entra il rapporto tra i miei questa volta-.
 -C’entra qualcos’altro?-
 -Sì, ma non sono affari tuoi!-
 Giak la fissò; ora si stava arrabbiando.
 -Sono affari miei solo quando ti va di confidarti?-
 -Cos’è, hai sete di pettegolezzi? E magari poi, dopo che ti avrò detto tutto, sarai soddisfatto e te ne dimenticherai, perché sei tutto preso da Alex che non ti si caga!-
 -Che c’entra Alex ora?!-
 -C’entra!-
 C’entra perché non sopporto l’idea che tu sia perso per lei, quando sono io che voglio attenzioni almeno dal mio migliore amico!
 - C’entra perché. . . perché ogni volta che sei incazzato a causa sua, diventi nero e te la prendi col primo che ti capita. . . E in genere sono io!-
 -Non. . . No! Questo si chiama fare la vittima-.
 -No, questo si chiama non avere voglia di confidarmi con uno a cui tanto non importa-.
 -Ma sei scema? Te lo sto dicendo che mi importa! Sei mia amica, Lauretta, la migliore, e non mi piace vedere che stai male-.
 Lauretta abbassò lo sguardo, confusa. Aveva l’impressione di stare ad arrampicarsi sugli specchi. . . E di non riuscirci. Prima di trovare una risposta le volteggiarono davanti agli occhi le immagini della lettera che aveva trovato da suo padre, e di sua madre che si era fatta bella per un altro uomo. Infine cedette.
 -È. . . È che essere figlio di genitori divorziati è uno schifo. Sai di essere il frutto di un amore che non sarebbe mai dovuto esistere, perché era destinato a fallire. Ti senti come se fossi un intoppo in due vite nel cui corso non avresti dovuto esserci. È. . . È devastante-.
 Le mani di Lauretta avevano sudato nel dire quelle parole; ora se le stava rigirando sul grembo, con lo sguardo basso.
 Non credeva che l’avrebbe mai detto; non credeva che ci sarebbe riuscita. Aveva svelato la parte più intima di sé a Giak, ma ancora doveva decidere se la cosa le piaceva o no. Per il momento si sentiva solo in pericolo: ora era Giak il depositario di quel groppo che le ostruiva la gola, e Lauretta poteva solo sperare che glie lo trattasse bene.
 Ma stiamo parlando di Giak. Lo stesso Giak che si infila le cuffie nelle orecchie per non sentire i litigi dei genitori. Che la notte invece di dormire pensa al futuro della sua famiglia, e nel farlo gli bruciano gli occhi. Che ascolta il fratellino parlare nel sonno in preda agli incubi.
Le parole di Lauretta avevano dato forma a tutti i pensieri peggiori di Giak: proprio quando temeva che i suoi genitori potessero prendere la più drastica delle decisioni, proprio quando la sua paura era giunta al culmine, Lauretta aveva avuto la bella pensata di confermare i suoi incubi più terrificanti.
 Come aveva potuto non pensarci? Come aveva potuto lei, la sua migliore amica, mancare così tanto di delicatezza? Non le importava davvero niente di quello che stava passando lui? Di come stava soffrendo?
Il cuore cominciò a pompare più sangue, il respiro si fece più veloce.
In tutto questo tempo, erano rimasti in silenzio.
 -Lo vedi? Lo vedi che ora non dici niente? Hai saputo quello che volevi sapere, ti sei levato la curiosità e ora sei a posto. Non ti importa. . .-
 -A me non importa?!- ruggì Giak. Lauretta ammutolì.
 -Di’ un po’, ti diverti? Ti diverti a sbattermi in faccia quello che sai perfettamente potrebbe succedere anche a me da un momento all’altro? Oppure non ci pensi? Non ti importa, ecco, a te non importa niente!-
 Lauretta rimase a bocca aperta.
 -Giak, ma come te ne esci? Mi hai chiesto cosa ho fatto, ti ho risposto -e Dio solo lo sa quanto mi sia sforzata per farlo- e ora te la prendi con me? Ma sei rincretinito?-
 -No, non sono rincretinito, sono solo incazzato! Perché non ci pensi a quello che dici? Perché non ci pensi che puoi far male alla gente?!-
 -Male? Cos’è: ti ho risposto e, siccome non ti è piaciuta la risposta, te la stai prendendo con me?- Lauretta sentiva gli occhi pericolosamente caldi. Ecco, era successo: aveva regalato la parte più delicata di sé a Giak e lui l’aveva calpestata senza pietà.
Senza pietà. . . due lacrime le caddero sulle guance. Lauretta si maledì, ma scoprì di non avere la forza per asciugarle.
 -Tu sai perfettamente quello che sta succedendo a casa mia. Sei l’unica a saperlo, perché non l’ho detto mai a nessuno. Solo che te ne sbatti! Non ci fai neanche caso, non ti sforzi di capirmi!-
 -Non ho bisogno di sforzarmi, ti capisco benissimo, forse perché ci sono già passata!-
 -Basta!- ruggì Giak, al colmo della disperazione. Si alzò e si mise lo zaino in spalla. Non sopportava più di parlare con Lauretta.
 -Bravo, vattene! Vattene, ed abbi il buon senso di non rivolgermi più la parola!- altre due lacrime.
 -Non ne ho la minima intenzione!- il ragazzo si allontanò a passo svelto, con lo zaino poggiato su una spalla sola e tanta, ma tanta fretta di allontanarsi.
 -Giak, ti odio!-
 
Lauretta rimase a piangere su quel muretto per un po’. Non trovò niente di meglio da fare: a casa non voleva tornare, dato che non c’era ancora nessuno ad aspettarla.
Rimase semplicemente lì, abbandonata; gli occhi smisero quasi subito di sputare acqua e tra le poche persone che, per un motivo o per l’altro, le passarono davanti mentre uscivano da scuola, nessuno si accorse del suo stato. Meglio così: non si piange davanti agli altri.
 Forse sarebbe rimasta lì per sempre, se non fosse arrivato Cicca.
Il nostro Cicca infatti aveva passato una mattinata ammorbante con alcuni amici di un’altra sezione, rinchiuso in un bar nascosto tra i vicoli a giocare a flipper e, non appena vide Lauretta, fu felice di avere una scusa per andare via subito da loro. Ma anche lui non si rese conto delle condizioni dell’amica fino a quando non le fu vicino.
 -Cosa è successo?- le domandò, preoccupato. Lauretta scosse la testa, senza voler dire una parola.
 -Dai, parlane. . . - tentò ancora Cicca. Ma era la cosa sbagliata da dire.
Lauretta proruppe con una risata amara: -oh sì, ne parlo, che idea grandiosa!- poi si accasciò contro il muro della scuola.
 -Lauretta, ti prego! Non voglio farmi i fatti tuoi, ma si vede che hai pianto, hai gli occhi rossi e sei pallida. . .-
 -Vorrei vedere, ho sgottato praticamente davanti alla prof, oggi!-
 -Cosa?! È per questo che ti senti male?-
 -No. È che dopo. . . Oh, lasciami stare. Non ho la minima intenzione di parlare con nessuno-.
 -Ma. . . -
 -Lasciami stare!- Lauretta avvicinò le ginocchia al petto e nascose la faccia, dondolandosi in bilico sull’orlo del muretto. Cicca restò impietrito a guardare la sua amica cercare di non cadere a pezzi, senza riuscirci. A vederla in quelle condizioni sentì qualcosa dentro di sé spezzarsi, anche se non l’avrebbe mai ammesso. Ma Lauretta era sempre stata così piccola e debole, e lui non sapeva dove sbattere la testa; sapeva che era sempre stata restia a confidarsi, ma in genere bastava fare un po’ di pressione per scioglierla. . .
Non trovò niente di appropriato e intelligente da dire in quel momento. Si ritrovava davanti agli occhi la sua amica appallottolata e non riusciva a capire come sbloccarla.
Allora, dopo aver ripulito la mente da tutti i pensieri, fece la prima cosa che gli passò per la testa: le posò una mano sulla spalla e l’abbracciò.
 Lauretta non avrebbe voluto lasciarsi abbracciare così alla leggera; Cicca era uno degli amici migliori che avesse, ma a stargli così vicina si sentiva in pericolo. . . Come quando, poco prima, si era confidata con Giak.
Rifletté che Giak invece l’abbracciava spesso; ma solo perché, durante la lezione di ginnastica di diversi mesi prima, le era ruzzolato addosso. . . Era stato solo un caso che si fosse avvicinato così tanto. 
 Solo che, quando sentì il calore di Cicca passarle attraverso i vestiti e la pelle, si sentì talmente commossa da versare altre lacrime. Fu a quel punto che crollò:
 -Io e Giak abbiamo litigato- mormorò, stretta ancora al cappotto di Cicca.
 -Ti va di dirmi perché?- chiese dolcemente lui. Non aveva mai parlato a voce così bassa con nessuno; nel rendersene conto, cominciò a preoccuparsi. Realizzò che, se in quella situazione si fosse trovato con Margherita o con qualunque altra ragazza, non sarebbe stato felice di abbracciarla tanto quanto lo era di abbracciare Lauretta.
 -Sì. . . Oh, non so da dove cominciare. . . È stato cattivo, troppo-.
 Cicca sentì qualcosa ribollirgli nel petto; come si permetteva Giak di far del male a una creatura così fragile?
 -Mi ha chiesto cosa avessi fatto, e io glie l’ho detto, solo che lui ha reagito male. . . Dice che me ne sono fregata di quello che prova lui, che mi diverto a vederlo soffrire. . .- le si spezzò la voce e non riuscì a proseguire.
 -Come ha potuto essere così stronzo?- si domandò Cicca.
 -Non lo so, non lo so. . .-
In realtà lo sapeva perfettamente, ma non le venne in mente una risposta migliore.
Restarono così per un po’. Poi Lauretta si riebbe e decise di tornare a casa. Cicca l’accompagnò alla fermata e aspettò che salisse sull’autobus prima di andarsene. Quando sparì dietro una curva, ripensò all’abbraccio di Lauretta e si rammaricò del fatto che ora fosse lontana.
“Oh, merda”.
 
A casa trovò la solita scena di sempre: suo padre era appena tornato, sua madre stava cucinando e contemporaneamente guardava la sessione pomeridiana di Forum alla televisione. Gli chiesero come fosse andata la scuola e lui rispose che era andata bene, anche se una sua compagna si era sentita male durante la lezione di italiano. Quello lo sapeva per certo. . . Quando poi gli chiesero i dettagli gli toccò inventare un po’ di cose, ma tutto sommato risultò credibile. 
Si defilò prima che potessero intavolare un discorso: senza neanche essersi levato la giacca e lo zaino dalle spalle salì nella mansarda, aprì la finestra e cacciò un pacchetto di sigarette dallo zaino.
Si sistemò davanti alla finestra, con un orecchio attento a un’eventuale chiamata dei suoi, e si mise a riflettere su quello che era successo.
Dopo cinque minuti in cui il suo cervello aveva spremuto solo segatura, provò a chiamare Giak.
Numero occupato.
Cicca maledì l’amico, poi mandò un messaggio a Riccardo:
“Qui è successo un casino, Giak e Lauretta hanno litigato di brutto. . . Tu sai cosa è successo?”
Dovette attendere un poco per la risposta, mentre nel frattempo temeva che sua madre lo chiamasse per il pranzo. Più di metà sigaretta si era consumata.
“Ciao Cicca! Non lo so come sono andate le cose, me ne sono dovuto andare subito. . . Però ho sentito Giak che chiedeva a Lauretta come stava, e Lauretta che non voleva rispondere. . . Può essere che si è incazzato per quello, boh. . .”
“Ok ok. . . c’era anche Margherita?”
“Sì, lei se ne è andata dopo di me. Magari sa qualcosa in più. . .”
“Ok. . . Allora chiedo a lei. . . Grazie!”
“Ma è successo qualcosa di grave?”
Cicca sospirò, poi pensò di dire al suo migliore amico il minimo indispensabile.
 “Lauretta sta a pezzi. Voglio vedere un po’ che è successo, ma Giak non risponde al telefono. . .”
 “Ah, cavolo! Vabbè, fammi sapere come si evolvono le cose, ok?”
 Cicca salutò Riccardo, poi pensò di sentire Margherita. Solo che, prima che potesse anche solo digitare il numero, i suoi genitori lo chiamarono per pranzo. Decise di rimandare la chiamata per presenziare a tavola, anche se non ne aveva per nulla voglia.
 I genitori stavano tranquillamente chiacchierando dei fatti quotidiani, delle notizie del telegiornale, del lavoro e quant’altro, quando arrivò un messaggio a Cicca. Pur sapendo quanto loro non sopportassero l’uso del cellulare a tavola Cicca se ne fregò altamente; era Giak che lo stava cercando, e la questione che stava sorgendo era troppo grave per badare a cosucce del genere.
 “Mi hai chiamato?” diceva Giak.
 “Sì, ti ho cercato una mezz’oretta fa. Disturbo se ti chiamo ora?”
Giak ci mise un po’ per rispondere; evidentemente sapeva già quello che Cicca aveva da chiedergli.
“Va bene. Chiama tu che sono quasi al verde”.
 -Io vado in bagno- disse Cicca alzandosi a metà del pranzo.
 -Proprio ora devi andare?- chiese perplesso suo padre.
 -Che ci posso fare se mi scappa?- Cicca si allontanò, lasciandoli perplessi, e si rifugiò nel bagno più lontano dalla cucina.
 Fece il numero di Giak e aspettò che rispondesse.
 -Ciao Cicca-. La voce di Giak era più roca del solito e Cicca riusciva a sentire il rumore di macchine che passavano vicino a lui. Evidentemente doveva essere uscito in balcone per parlare in pace.
 -Ciao Giak. Senti un po’. . . mi spieghi cosa è successo oggi con Lauretta? L’ho vista dopo scuola, era a pezzi!-
 Giak sbuffò sonoramente: -Cicca, non ricominciare a rompere, ok? Mi sono incazzato con Lauretta, ho i miei motivi e lei lo sa. Punto-.
 -La fai facile tu! Perché invece non mi dici quali sono i motivi, così almeno posso provare a mettervi d’accordo?-
 -Perché sono fatti miei-.
 Cicca si sedette sul bordo della vasca da bagno, un po’ seccato e un po’ perplesso.
 -Non siamo amici abbastanza da poterli dire anche a me?-
 -Be’. . . sì, sicuramente sì, ma non ho voglia di parlarne. Ho detto tutto a lei, ma lei se ne sbatte. Tanto basta-.
 -Ma perché Lauretta dovrebbe sbattersene di te? Non è così lei. . . L’hai vista oggi, stava malissimo, avrà avuto altro a cui pensare. . . -
 -Con questa scusa però non ci pensa mai agli altri!-
 -Giak ma sei rincoglionito o cosa? Con tutto quello che sta passando, non è facile. . . -
 -Lo so che non è facile! Lo so meglio di tutti voi messi insieme!- Giak si stava incazzando sempre di più; Cicca che gli faceva la morale non lo riusciva davvero a sopportare.
 -Lauretta ti fa pena solo perché tu hai sempre avuto la pappa pronta e sai che lei invece non ha tutto quello che hai tu. Ma svegliati, lei non è l’unica!-
 Cicca si era bloccato alla prima frase. Rimase a sbattere le palpebre, senza osare capire.
 -”Solo perché hai sempre avuto la pappa pronta”? Giak, mi stai dando del viziato!?-
 Giak si morse il labbro: non voleva essere così esplicito.
Ma sentiva la furia crescere dentro di sé e il suo corpo era troppo poco per contenerla tutta. Sentiva il bisogno di far uscire tutte le porcherie che aveva assimilato negli ultimi tempi, e quale modo migliore se non riversare un po’ di rancore su Cicca, che doveva aver finalmente capito di essere cotto di Lauretta e non voleva sentire altro?
 Siccome non rispondeva, Cicca cominciò l’assalto:
 -Giak, sei una merda! Ma sai che ti dico? Tieniteli i tuoi presunti problemi! Non me ne frega niente, cavoli tuoi, non contare su un viziato come me!- Cicca riattaccò, furente.
Era stato davvero un colpo basso; sicuramente si riferiva alla raccomandazione non richiesta. . . Ma Giak sapeva perfettamente che non era stato lui a volerla; era solo motivo di vergogna, quella raccomandazione.
Accecato dall’ira, non aveva neanche più voglia di sentire Margherita per capire cosa fosse successo a Lauretta. E neanche di far sapere a Riccardo l’esito della telefonata.
Si limitò a far finta di studiare, e a fumarsi tutto il pacchetto di sigarette.

 

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Capitolo 23
*** capitolo 23 ***


Margherita stava alternando un programma sul sesto canale a una versione di latino che non aveva voglia di fare. Di tanto in tanto il cellulare trillava: era Marco, ansioso di tenerle compagnia, dopo la riappacificazione di quella mattina.
 Sì, avevano fatto la pace, o almeno quella era la versione ufficiale; in realtà era stata Margherita che, a un certo punto, si era scocciata di tenergli il muso. Aveva mormorato uno “scusa amore. È un periodo un po’ incasinato. . .”, si era alzata sulle punte per dargli un leggero bacio sulle labbra e l’aveva fatto stare più contento. Ci era voluto così poco.
 Diversa invece era la questione di Lauretta; a lei non poteva darle semplicemente un bacio per farla sentire meglio.
 Aspettò un altro quarto d’ora, finì la versione, mangiò una barretta al cioccolato (tanto il culone ce l’ho comunque) e a quel punto pensò si fosse fatta l’ora giusta per chiamarla.
 -Pronto?- rispose Lauretta con voce atona.
 -Lau, sono io. Come stai?-
 -Male. Ho vomitato tutto il giorno. Domani non vengo-.
 Margherita reagì sorpresa: era raro che Lauretta saltasse la scuola perché stava male; in genere se non entrava era a causa di qualche interrogazione.
 -Ma hai mangiato qualcosa di avariato?- chiese Margherita.
 Lauretta scoppiò in una risata amara: -mangiare? È da ieri sera che sto con una mela-.
 -Perché non mangi? Mi preoccupi, davvero. . . -
 -May, fidati: se mangio qualcosa ora, la rivomito mezzo digerita. Non è il caso-.
 -Ma perché ti senti improvvisamente così male?-
 -Aspetta, ho il vocabolario qui davanti, che sto studiando, ora ti trovo la parola giusta. . .- Margherita sentì davvero il fruscio di pagine leggere che venivano sfogliate; -psicosomatico: che si riferisce nello stesso tempo all’attività della psiche e alla funzionalità degli organi e degli apparati del corpo-.
 -Ovvero?-
 -Sto di merda. Oggi ho litigato con Giak-.
 -Oddio. E perché?-
 -May. . . Abbiamo litigato. Punto. Non ho voglia di stare a raccontare tutto. . .- pensò di dirle di chiedere a Cicca, ma non lo fece. Non afferrò subito il perché, ma sentiva solo di essere più sollevata al pensiero che l’amica non sapesse che si era confidata con lui.
 -Ma magari posso aiutarvi a fare chiarezza. . .-
 -Ma chi la vuole fare, chiarezza! Non ne ho la minima intenzione, dato che, quando si parla con lui, o dici quello che gli va di sentire o si incazza-.
 -Lau, mi dici che è successo?-
Lauretta sospirò: non aveva voglia di ripetere a Margherita quello che aveva confessato a Giak. Lei era la sua migliore amica, ma era sicura che non avrebbe capito perché stava soffrendo così tanto. Ci avrebbe provato, sicuro. Ma non ci sarebbe arrivata.
 -È successo semplicemente che lui voleva farsi gli affari miei, io gli ho detto un paio di cose e lui si è incazzato, perché erano cose che non voleva sentire-.
 Margherita ci mise un po’ per assimilare il tutto.
 -Mmm. . . E cosa gli avresti detto di così brutto?-
 -Ma niente! Niente di grave - niente di grave per lui, in ogni caso. Eppure, siccome non è riuscito ad essere un attimino lucido per capirlo, si è incazzato. L’avrei pure accettato, se solo non avesse risposto per le rime. Quindi ora stop, non voglio né parlarci né tantomeno parlarne-.
 -Lauretta, sono sicura che se solo ti fermassi un attimo anche tu a riflettere, magari potreste trovare una soluzione. . . Tu e Giak siete sempre stati in un certo senso complici, non è possibile che ora di punto in bianco finisca tutto. . .-
 -Evidentemente è possibile. Davvero May, non sopporterei un’altra scena del genere. Preferisco tenermi alla larga da lui-.
 -E restare a vomitare per conto tuo?-
 -Che c’entra, non è per lui che vomito-.
 -Mi era sembrato di aver capito così, cara! Per cosa, allora?-
 Oh sì, grandioso. Ora vado a dire a Margherita che sto male da due giorni perché non ho una famiglia che sia una, perché mia madre ormai il tempo che ha lo divide tra il lavoro e il suo nuovo amico, perché mio padre è troppo occupato a contare quanto gli costo. È inutile: la gente tanto non si sforza di capire le sofferenze degli altri, è troppo occupata per le proprie, è questa la verità.
 -Margherita, perché non pensi a far pace con Marco invece di chiedere cose che già sai?-
 -Perché non le so, queste cose!- E perché con Marco ci aveva già fatto pace, ma in quel momento non contava.
 -Mi conosci, sai come sono messa e sai perché sto così. Dovresti solo arrivarci. Ma non voglio chiedertelo, quindi stai tranquilla e lasciami così-.
 -Ma sei diventata scema?-
 Ecco, appunto. Come volevasi dimostrare.
 -Dimmi di Marco-.
 -’Sti cavoli di Marco!-
 -Non te ne frega più niente? Allora mollalo!-
 -Lauretta, ma per caso ti devono tornare le tue cose? Ti sento quanto mai antipatica-.
 Lauretta sospirò:
 -Sì, può darsi. Perché allora non mi lasci in pace? Ti prego-.
 Margherita sospirò rumorosamente, cosa che infastidì ancora di più Lauretta.
 -Va bene, va bene. Però con Giak ci parlo io, ok?-
 -Fai quello che ti pare. . .-
 -Ciao-.
 Margherita appese la cornetta e si guardò per un attimo attorno.
Sua madre era in cucina, stirava una cesta di panni di tutta la famiglia. Suo padre non era in casa, ma Margherita era stata così attenta quando glie l’aveva detto che non avrebbe neanche saputo dire dove fosse.
Pensò che, se davvero voleva chiamare Giak, quello era il momento giusto.
Non aveva il numero di casa, per cui dovette cercarlo sul cellulare. . . Che, per motivi che noi immaginiamo, era spento.
 Margherita era lì lì per lasciar perdere, ma non si sarebbe sentita a posto con la coscienza; accantonò l’idea di chiamare Cicca e mandò un messaggio a Riccardo. Con Riccardo era più in confidenza.
 Macché: le disse che aveva chiesto a Cicca di tenerlo aggiornato, ma a quanto pareva anche quest’ultimo era irraggiungibile.
 Margherita sprofondò sul divano, improvvisamente stanca. Non ne poteva più di quei telefonini; pensava che tutto sarebbe stato più facile se si fossero potuti guardare negli occhi.
Proprio in quel momento, Marco le mandò un messaggino.
Margherita ringhiò e lanciò il cellulare lontano.
 
Martedì
 
Il giorno dopo Margherita irruppe in classe con tante domande in attesa di una risposta che le vorticavano nel cervello.
 -Dov’è Giak?- chiese, senza neanche salutare. I compagni di classe che erano entrati la fissarono perplessi.
 -Ancora non è arrivato. . .- mormorò un ragazzo seduto vicino alla finestra.
 Margherita marciò verso il suo banco, poggiò lo zaino e il cappotto e si piantò sulla porta della classe.
 -Ciao- la salutò Riccardo quando arrivò.
 -Ciao. Attento, sono incazzatissima. Dimmi che hai visto Giak, voglio parlargli!-
 Riccardo la fissò di sbieco prima di rispondere:
 -Non l’ho visto, ancora non arriva. . . Ma ci sono novità? Dov’è Lauretta?-
 -Lauretta non viene. L’ho sentita ieri, sta a pezzi. Oh, la campanella sta suonando, dove cavolo è Giak?!- ringhiò Margherita.
 -Giak? Ma lascialo perdere-. Era stato Cicca a parlare; era appena arrivato e si trascinava come se camminare fosse l’ultima cosa che volesse fare.
 -Non mi dire che ha discusso anche con te!- chiese Riccardo.
 -Discusso? Oh, no. Non glie ne ho dato il tempo! Meglio per lui che si scazzi il prima possibile però, perché se continua così presto incontrerà uno che lo picchia come dio comanda!- sibilò.
 -Cicca, racconta- disse Riccardo con aria stanca.
Cicca raccontò; ci mise poco e, quando ebbe finito, i tre non sapevano cosa pensare.
 -Ma si può sapere cos’ha che non va?- chiese Margherita.
 -A quanto pare no. L’unica che sa qualcosa forse è Lauretta, ma non vuole neanche nominarlo, Giak-.
 -Oh, questa situazione sta diventando assurda. . .-
 -Arriva la prof!- urlò un compagno rientrando in classe, e tutti furono rapidi a prendere i propri posti.
 Giak entrò che la lezione era cominciata da dieci minuti. Si scusò con la professoressa, dicendo che aveva perso l’autobus e che quindi aveva dovuto aspettare la corsa successiva, e riuscì a cavarsela garantendo che il giorno dopo avrebbe portato una giustificazione.
Trafelato, percorse a grandi falcate il corridoio di banchi e prese posto vicino a Riccardo.
Mentre falsificava la firma di sua madre sul libretto delle giustificazioni, né Cicca né Margherita gli rivolsero la parola.
 -Giak, mi spieghi che sta succedendo?- sussurrò Riccardo quando la soglia di attenzione della prof si abbassò.
 -Che sta succedendo? Niente, non sta succedendo niente. Perché?-
 -Come perché? Cicca non ti rivolge la parola e Margherita vuole sapere perché hai litigato con Lauretta, solo che già parte arrabbiata. Valla a capire-.
 -Oh. Lauretta non si è presentata?-
 -No. Margherita dice che sta poco bene-.
 -E quando mai. . .- borbottò Giak.
 -Ehi amico, sei l’unico che può chiarire questo casino-.
 -C’è anche Lauretta-.
 -Ma lei dice che c’entri tu, che hai fatto tutto tu. . .-
 -Ma davvero? Che cosa carina. Non vi ha detto però che ultimamente ho parecchio da fare, quindi mi spiace, ma fate scomodare lei-.
 -Giak, andiamo!-
 -Riccardo, non rompere, ok? È un brutto momento, passerà-.
 -Nel frattempo però un po’ di persone stanno incazzate. . . Cicca ci ha detto che ieri hai discusso anche con lui-.
 -Se uno mi caccia i pugni dalle mani, dopo un po' sbotto-.
 -Ma. . .-
 -Moraschini! Smettetela di chiacchierare, tu e il tuo amico. Forza, mettiti al posto vuoto qui davanti, forse seguirai la lezione- tuonò la prof.
 Riccardo imprecò, poi radunò libri, astuccio e quaderni e si sistemò in un posto lasciato libero da un assente.
Cicca, rimasto solo al banco con Giak, non si mosse per colmare il vuoto che il posto vacante di Riccardo aveva lasciato. E Giak non fu da meno.
 Al suono della campanella gli studenti lasciarono i banchi seduta stante: ora di ginnastica. . . Proprio quello che ci voleva.
 Mentre raggiungevano la palestra Margherita scivolò in avanti, bloccando Giak.
 -Ti va se parliamo?- chiese.
 -No. Tanto lo so che devi dirmi-.
 -Bene, siamo già un passo avanti-.
 -Le cose non cambiano-.
 -Ti conviene farle cambiare, invece! Ascoltami bene: ieri ho parlato al telefono con la mia migliore amica. Tu la conosci Lauretta: è tosta, ma se sta male si vede. E ieri stava malissimo. Siccome voglio bene sia a lei sia a te, mi farebbe piacere sapere cosa le hai detto per farla stare male in quel modo, così magari risolviamo. . . ok?-
 -Ok un corno!- ringhiò Giak.
 -Andiamo Giak!- implorò Riccardo.
 -Ma perché non vi fate gli affari vostri?-
 -È inutile- sibilò Cicca, lì vicino, -tanto Giak è troppo occupato a scaldare il suo piedistallo per preoccuparsi anche degli altri-.
 Giak si voltò furente verso di lui:
 -Piedistallo? Che ne sai tu dei motivi per cui io non voglio parlare? Pensi che io sia troppo snob per dirvi tutto? Te lo farei provare a te, il mio piedistallo, e poi ne potremmo riparlare!-
 -Giak, se sei davvero tu ad avere ragione, dicci come sono andate le cose!- esclamò Margherita.  
 -Lasciatemi in pace! Non ne voglio parlare! Non capireste, è inutile!- Giak ruggì esasperato, poi allungò il passo per finire in testa alla fila dei compagni di classe.
Evitò le domande dei più curiosi e si infilò nello spogliatoio. Fu il primo ad entrare e l’ultimo ad uscire; per tutta la durata della lezione evitò accuratamente i tre amici.
 Dopo non ebbero molto tempo per parlare, dati gli esercizi e la loro dispersività. Ma, in quel paio d’ore, Margherita ebbe modo di rimuginare: non le stava piacendo il comportamento di Giak. Non le andava proprio giù il fatto che per colpa sua Lauretta stesse male. Tanto bastava per farle tenere il muso.
 Alla fine della lezione, quando gli studenti si apprestavano ad uscire da scuola, Giak le si avvicinò. Scelse un momento in cui Riccardo e Cicca erano lontani, così non si sarebbero intromessi.
 Margherita stava chiacchierando con alcune compagne di classe. Quando vide che Giak si stava avvicinando, si voltò dall’altra parte.
 -Margherita. . .- le fece cenno di scostarsi dalle amiche.
 -Senti, mi spiace, ma è davvero un brutto periodo. Passerà. Solo. . . Non chiedetemi di raccontare cosa è successo con Lauretta-.
 -Ma figurati, non lo chiederò più. . . - Giak rimase stupito. . . Ma poi Margherita continuò, con un luccichio rancoroso negli occhi: -tanto, se hai la coda di paglia è peggio per te. Ma sì, fatti pure gli affari tuoi. Non ti aspettare di trovarmi, ovviamente, a meno che non ti decida a trattare meglio la mia migliore amica. Ciao Giak-. Lo lasciò così, senza più speranze.
Ovvio: lei era un’altra che Lauretta, nella sua condizione di apatia, si era portata dalla sua parte.
 
-Giak ha litigato con Cicca, e io ho litigato con Giak- disse poche ore più tardi Margherita a Lauretta.
 Era appena tornata a casa e aveva voluto sapere se il mal di stomaco le era passato: l’aveva chiamata, e ora Lauretta aveva appena incassato l’ennesimo colpo.
 -Vuol dire che Giak ora non parla più né con me, né con Cicca e né con te?- chiese.
 -Già. Ma non me ne dispiace: uno altezzoso come lui dovrebbe capire un po’ meglio quando è il caso di parlare e quando no! Io non ho niente in contrario che lui abbia dei fatti suoi. . . Be‘, oddio: siamo amici da mesi, mesi, uno si aspetta che un po’ di fiducia ci sia. . . Ma, se vuole fare lo snob, ok. Basta che non tratti male gli altri! E che non si lamenti poi quando gli altri si allontanano!-
 Lauretta ascoltava da un lato, e dall’altro colmava le lacune che il discorso di Margherita presentava.
 -Lauretta, tu lo sai qual è il suo problema? Perché, se lo sai, puoi dircelo. . . Almeno capiamo cos’ha, e cerchiamo di riparare la situazione!-
 La nostra eroina fu presa in contropiede, ma di una cosa era certa: se Giak aveva deciso che i fatti suoi dovevano restare suoi, non sarebbe stata lei a parlare. Non sarebbe stata lei a confessare ai suoi amici l’ansia, il terrore e la tristezza che Giak stava vivendo. . . Anche se si era comportato così male con lei.
 -Non so niente- mormorò. E sarebbe stata anche convincente: Margherita non avrebbe riconosciuto la bugia, se quella mattina non avesse parlato con gli altri amici.
 -Non è vero! Cicca dice che tu lo sai, e Giak l’ha detto a Riccardo. Insomma, da che parte stai? Forza, raccontaci per una buona volta che ha fatto quello e non se ne riparla più!-
 -Margherita, ho detto no ed è no! Per piacere. Se lui non vuole parlare, non sarò io a farlo-.
 -Lo fai per ripicca nei suoi confronti?-
 -Lo faccio perché so quello che prova. E a me non piacerebbe che lo sapessero tutti-.
 -Ma stiamo parlando di noi amici! Che razza di amicizia è, se uno non si confida neanche con i propri amici?!-
 Lauretta sospirò. Non voleva correre il rischio di confondersi.
 -L’amicizia non è solo sapere tutto l’uno dell’altro, ma prima di tutto è rispetto. Rispetto per i sentimenti e per la volontà di parlarne o meno. Pensi che sia facile? Che uno chiede “che hai fatto”, l’altro risponde, ed è tutto finito? Non funziona così. Amicizia consiste anche nel porgere un orecchio che ascolti, ma al momento giusto e senza il bisogno di forzare le confessioni. O le confidenze, decidi tu-.
 -Lauretta, ma di che stai parlando? Giak si è comportato malissimo con te, ti ha ridotta a uno straccio, e tu lo proteggi? Cos’è, te ne sei innamorata?-
 Quanta stizza e delusioni possono procurare delle semplici parole? Lauretta cominciò ad avvertire i graffi della rabbia.
 -Questi incisi completamente fuori luogo ti riescono benissimo- sibilò.
 -Oh andiamo! Era un battuta. . .-
 -Mi riferivo a tutto quello che hai detto. Non ci arrivi, non lo capisci. . . Non lo capirai mai, probabilmente-.
 -Non sono stupida! Se solo qualcuno mi spiegasse come stanno le cose! Che problema avete tu e Giak, che a noi non è concesso sapere?!-
 -Mi stai cacciando i pugni dalle mani! Pensa a me, e ti viene in mente il motivo per cui Giak sta male-.
 -Ma è troppo alla larga il discorso. . . Che ne posso sapere io di quello che ha Giak?-
 -Puoi arrivarci!- sbottò Lauretta. -Puoi arrivarci, solo che non hai voglia di sforzarti! E non hai voglia di sforzarti perché sei presa da altre cose, perché sei occupata ad essere la migliore della classe, perché stai ancora appresso a Marco e. . .-
 -Cosa c’entrano tutte queste cose?-
 -C’entrano perché. . .- Lauretta rasentava le lacrime. Troppo tardi, si stava confondendo: ora non capiva più se stesse parlando di Giak, o di se stessa.
 -Non c’entrano niente, te lo dico io!-
 -Ecco! Esattamente quello che intendevo: tu. . . Tu non hai orecchie per ascoltare, ma vuoi solo sapere!-
 -Ma di cosa stai parlando?!-
 -Oh Margherita, basta! Non voglio più continuare questo fottutissimo discorso!- esclamò Lauretta.
 -Senti bella, schiarisciti le idee: qua tu e quell’altro siete convinti di non avere nessuno che vi capisca, ma la realtà è che non riuscite proprio a spiegarvi. È così: quando una persona dice ad un‘altra “non mi hai capito”, la colpa è di entrambi: se qualcuno non capisce, per metà la colpa è anche di chi non si spiega-.
 -Margherita, fottiti. Questo lo capisci?-

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Capitolo 24
*** Capitolo 24 ***


Mercoledì
 
Se il giorno prima a scuola il ghiaccio tra gli amici si era presentato sotto forma di piccole scaglie che non lenivano più di tanto la serenità dei nostri amici (salvo quella di Giak, ovviamente), non fu niente rispetto all’atmosfera che li accolse quella mattina a scuola, quando tornò Lauretta.
 Insieme a quella ragazzetta pallida e febbricitante, arrivata giusto tre secondi prima che cominciasse la lezione, entrò una folata di gelo che investì gli ultimi banchi, paralizzandone gli occupanti.
 Lauretta prese posto vicina a Margherita, senza rivolgerle la parola.
Margherita soppesò attentamente il suo comportamento, poi decise di mantenere il muso per un tempo indeterminato.
 Trascorse un’ora. Poi un’altra ora, dove Riccardo venne interrogato a latino e guadagnò stentatamente un sette scarso. Per uno abituato all’otto, la prof si impensierì.
 Quando suonò la campanella della ricreazione, i cinque amici si ritrovarono in imbarazzo, per la prima volta. L’imbarazzo durò pochi secondi, tuttavia: prima che passasse anche solo un minuto, Margherita schizzò via, probabilmente a cercare il suo Marco.
Giak si alzò, strascinando rumorosamente la sedia, per uscire dalla classe. I tre amici rimasti si chiesero dove sarebbe andato, ma nessuno tramutò in voce il dubbio che aveva attraversato le loro teste.
 Quando se ne fu andato, senza una parola per nessuno, Cicca si rivolse a Lauretta.
 -Come stai oggi?- chiese.
 -Meglio. Ma-, e a questo punto si alzò anche lei, -ti sarei grata se non andassi in giro ad informare tutti dei fatti miei-.
 -Di cosa parli?-
 -Del fatto che ho litigato con Giak. Io l’ho detto solo a Margherita, ma ormai lo sanno tutti-.
 -Ma non è colpa mia. . .-
 -Avete rotto con questa storia! Cos’è, la colpa non è mai di nessuno?-
 -Ma cosa. . . È successo qualcos’altro?- chiese impaurito Cicca.
 -Oh sì, sei proprio la persona a cui andrei a dirlo, fidati!-
 -Lauretta, ma che ti ha preso?-
 -Mi ha preso che qui è ora che impariate a mettervi nei panni degli altri, prima di parlare e cagare sentenze!-
Lauretta si alzò, inferocita, e uscì anche lei dalla classe.
Non aveva una meta precisa, ma pensò di andare da Sara. . . I discorsi che avrebbe ascoltato non sarebbero stati un toccasana, ma almeno avrebbe avuto qualcosa con cui distrarsi.
 Cicca e Riccardo erano rimasti soli in classe, salvo un gruppo di ragazze che chiacchieravano tra loro, scambiandosi gli esercizi di matematica.
 -Non ci capisco più niente- mormorò Cicca.
 -A chi lo dici. . . Io non oso neanche muovermi. Per una persona con cui parli, se ne incazzano il doppio-.
 -Che palle. Amici. . . Amici di ‘sta ceppa-.
 -Hanno litigato anche Margherita e Lauretta?-
 -A quanto pare. . .-
 -Ieri Margherita mi ha detto di essere scocciata, ma non pensavo che. . .-
 -Margherita non può proprio parlare. Lei se ne è sempre sbattuta di tutto e di tutti, per stare dietro a quel Marco. . . Non può ripiombare di punto in bianco, e pretendere di sapere tutto-.
 -Cicca. . .-
 -Che c’è?-
 -È strano come tu te la prenda sempre con chi sospetti faccia del male a Lauretta-.
 Cicca restò per un attimo in silenzio.
 -No, cosa vai mai a pensare. No, io. . . Oh, andiamo!-
 -L’hanno capito tutti, manchi solo tu-.
Cicca sbiancò. Si sentì improvvisamente vulnerabile e in imbarazzo, come se fosse nudo davanti a tutti i suoi amici.
 -Io. . . io non. . . oh, merda infinita!-
 
Giovedì
 
 Riccardo, l’unico ad essere rimasto immune dal malumore generale, davvero non osava pronunciarsi. Era l’unico che poteva parlare con Giak, ma tanto era quest’ultimo a non avvicinarsi più.
 Aveva provato a far ragionare Cicca: lo conosceva, sapeva quanto potesse essere permaloso e tentava di convincerlo a porgere l’altra guancia.
Inutile, ovviamente. Cicca rimaneva sulle sue, e poi ormai era diventato più taciturno anche lui: a parlare della cotta per Lauretta si vergognava, e allora preferiva starsene saggiamente zitto con tutti.
 Aveva pensato di tentare una mediazione tra Margherita e Lauretta.
Margherita gli aveva spiegato a grandi linee la discussione che avevano avuto: aveva detto che Lauretta si ostinava a non voler rivelare il motivo del malumore di Giak e che le aveva detto che comunque non avrebbe mai capito, quindi tanti saluti: lei stessa aveva pensato di tenerle il muso per un po’; voleva aspettare che fosse Lauretta ad avvicinarsi, magari le si sarebbe sciolta la lingua. . .
 Ma Riccardo sospettava (e a ragione) che Lauretta sarebbe riuscita a resistere più di quanto credesse Margherita. Così le due si ostinavano a restare fredde come le stalattiti di ghiaccio appese alle finestre.
 Era una situazione così assurda che non sapeva più dove sbattere la testa: si sforzava, ma non riusciva a far raccapezzare nessuno.
Al quarto giorno, un giovedì tetro e pesante, stava già cominciando a pendere le speranze. E lo disse chiaro e tondo: mentre la classe usciva e intorno a loro non c’era altro che movimento di giacche e zaini, prese Cicca e gli disse, chiaro e tondo, di non riuscire più a capire dove volessero arrivare e di non sapere che fare.
 -Ma che ti frega. Non c’è più niente da fare, tanto. Se la gente è una merda te ne accorgi dopo un po’, ma l’importante è che te ne accorgi- rispose lui lapidario. Poi si issò lo zaino su una spalla e uscì.
 
Capitolo 13
 
Venerdì. . . Sabato. . . Domenica. . . Lunedì. . . Martedì. . . mercoledì. . . Giovedì. . .
Non è mai stata così lunga una settimana, pensò Lauretta a distanza di giorni.
 
“Amore, sabato prossimo hai ancora da fare con i tuoi oppure mi degni un attimo di considerazione?”
  “Marco, per cortesia. È un brutto periodo, cerca di capirmi”
“Ci provo, ma tu non mi dici più niente! A momenti neanche vuoi stare più al telefono con me! Che problema hai? Tra un po’ facciamo un anno e mezzo. . . Hai intenzione di tenermi il muso ancora per molto?!”
“. . .Amore?”
“Margherita, mi vuoi rispondere sì o no??”
“Margheri’ la mia pazienza non è infinita. . . Se devi dirmi qualcosa dimmelo senza tante cerimonie. . .”
   “Marco, non essere assillante, dai. Tra un po’ sistemiamo tutto. Dammi un po’ di tempo”.
 
 Cicca non era mai stato così a lungo dentro casa; in genere usciva quando poteva, non appena aveva un minuto di tempo libero.
 Cicca non aveva neanche mai passato un sabato sera in casa da quando aveva quattordici anni.
 E non aveva mai trascorso così tanto tempo rinchiuso su in mansarda, ad ascoltare musica e a fumare. E a pensare; a fantasticare: ipotetici dialoghi che sarebbero finiti inevitabilmente con un commosso abbraccio che sarebbe finito con un lunghissimo ba. . . 
 Ormai con Riccardo si vedeva poco. A scuola cercavano di tenere un rapporto vivo, in onore di un’amicizia che li aveva resi complici di cazzate da quando avevano undici anni, ma nessuno dei due in quel periodo aveva poi così tanta voglia di uscire. . .
 Margherita c’era, sì, ma era spesso così assente, presa dai suoi problemi con Marco e da improbabili impegni con i parenti, probabilmente inventati di sana pianta.
 Giak. . . Giak era ancora un caso perso.
A volte soppesava l’ipotesi di buttarsi quello che gli aveva detto alle spalle: dopotutto, non era neanche così grave.
Ma poi ripensava a Lauretta, a come piangeva e a come in quel periodo il loro amico se ne stesse sbattendo di tutti i casini che gli vorticavano intorno.
 Lauretta, Lauretta. . . come si sentiva cretino al solo pensiero. Si ripeteva che era solo un’amica, solo un’amica, quasi temendo di ammettere un altro tipo di interesse. Cielo, a lui le ragazze era sempre piaciuto solo guardarle: non si era mai innamorato. Innamorato come una pera cotta! Non aveva neanche mai avuto una storia, a dire la verità, anche se da fuori pareva che con le ragazze ci sapesse fare: aveva molte amiche ed era sicuro che, se avesse voluto, non ci avrebbe messo molto ad approfondire un rapporto qualunque. . . e invece no: Lauretta.
 Non solo: Lauretta che gli teneva il muso.
 Cielo! Lui il cuore non se l’era mai sentito: possibile che ora doveva rivelare la sua presenza in modo così penoso?
 
Riccardo si limitava ad esistere. Aveva lasciato perdere il suo ruolo di intermediario e si era rassegnato a guardare i suoi migliori amici scannarsi a vicenda.
 Loro non sapevano, e non avrebbero mai saputo, quanta amarezza gli avevano trasmesso.
 
E poi c’era Giak.
Giak che sembrava impazzito, Giak che non si curava più degli amici, Giak che. . .
 Giak che non dormiva praticamente più.
 Che rimaneva ore e ore impietrito a letto, senza neanche sapere quanto inoltrata fosse la notte, a imbottirsi di musica per non dover sentire Daniele gemere nel sonno.
 Che non parlava più con nessuno, ma rimaneva tappato in camera a disegnare. E dalla matita uscivano creazioni talmente spettacolari da far impallidire chiunque.
 Che limitava quanto più possibile i contatti con i genitori, perché tanto loro continuavano a litigare, litigare. Per quanto cercassero di contenersi, sbottavano sempre più spesso.
 Che, quando il tutto diventava troppo pesante e lo schiacciava contro la scrivania, addormentandolo, sognava ancora Alex. La sognava e non poteva raggiungerla, e quella era altra frustrazione, altro dolore.
 Dolore. . . Che cosa patetica.
 Patetica come i suoi dormiveglia: quando dalla scrivania passava al letto ed entrava in quella fase dove il corpo dorme e la mente continua a pensare, piangeva. . . senza neanche rendersene conto.
Piangeva, senza realizzare davvero cosa fossero quelle cose che bagnavano il cuscino. Ma se solo avesse realizzato si sarebbe disperato ancora di più, quindi magari era un bene. 
  E si risvegliava col cuscino asciutto, quindi non sospettava minimamente che il suo dolore aveva trovato un modo così strano e imbarazzante di mostrarsi.
 Daniele parlava nel sonno, Giak piangeva. Lucio, che dei tre era sempre stato la pecora nera, rimaneva beatamente zitto.
Non che non si sfogasse in altri modi: era lui che impuzziva di fumo le felpe di Giak. E Giak, che prima non si era mai accorto di nulla, passando più tempo a casa iniziò a fare caso ai suoi movimenti.
 Un giorno in cui i tre fratelli erano soli in casa, Giak ebbe improvvisamente bisogno del caricabatterie per il cellulare. Non lo trovò da nessuna parte e, in preda all’ossessione, cominciò ad aprire tutti i cassetti di casa. . . Anche quelli della loro camera.
 -Lucio, vieni qui-.
 Lucio stava seduto davanti al computer, in salotto. Aveva altri pensieri per la testa: quell’anno avrebbe dovuto sostenere gli esami di terza media e non se la stava cavando così bene da poter stare tranquillo. Tutti gli dicevano che erano una stupidaggine. . . Ma lui, che di esami non ne aveva mai sostenuto uno, cominciava a impensierirsi.
 Così, con la testa tra le nuvole, raggiunse docilmente la camera dove Giak lo stava aspettando.
Si accorse di essere in pericolo quando vide suo fratello davanti al cassetto del suo comodino, aperto. Cavolo, lì ci teneva le cicche. E infatti. . .
 -Queste come le spieghi?- domandò Giak mentre faceva volteggiare un pacchetto di sigarette tra le dita.
 Che poi quel pacchetto non era neanche suo (era raro che Lucio avesse i soldi per comprarsene di suoi), ma glie l’aveva affidato un amico che non voleva correre il rischio di venire scoperto.
 E invece era stato scoperto lui.
 -Non è mio, è di Mario- rispose.
 -Sicuro? E allora i mozziconi di cicca che hai lasciato sul davanzale?-
Be’, ovviamente Mario non sperava davvero che Lucio restituisse tutte le cicche. . .
 -Quelli non li ho lasciati io, può essere stata mamma, o papà. . .-
 -E perché sarebbero dovuti venire a fumare proprio qui, in camera nostra?-
 -Ma che ne so io!-
 -Lucio, fai schifo. Hai tredici anni!-
 -Quattordici. . .-
 -Non ci sei ancora arrivato! E comunque non cambia niente, sono pochi comunque!-
 -Anche i tuoi amici fumano, che problema hai?-
 -Che i miei amici sono più grandi di te! E che loro non sono mio fratello!-
 -Ma non rompere, chi ti credi di essere? Da te non prendo ordini!-
 -Ah davvero? E cosa mi impedirebbe ora di andarlo a dire a mamma e papà?-
 -Tu non lo farai!-
 -Ti copro solo se smetti-.
 -Ma fatti gli affari tuoi! Io faccio quello che mi pare e piace!- 
 -E allora peggio per te-.
 -Giak, fanculizzati!- Lucio si scagliò contro il fratello maggiore, cercando di sfilargli il pacchetto di sigarette dalla mano senza prendere troppe batoste.
 Giak alzò la preda del fratello e riuscì facilmente ad atterrarlo sul letto.
 Si stupì di Lucio: in altri casi già avrebbe cominciato a piagnucolare, ahia ahia, ma quella volta no: si divincolò e gli sferrò un cazzotto sullo stomaco.
 Giak si piegò in due, stritolando le sigarette mentre contraeva i pugni. Poi alzò lo sguardo verso Lucio, e fu come se lanciasse fulmini.
 -Deficiente, sei solo un deficiente! E dire che poi sono le mie felpe quelle che puzzano di fumo, perché ovviamente chi si aspetta che a comportarsi da bimbomichia coglione sia quello sfigato di Lucio!- sibilò.
 -Fatti i fatti tuoi!-
 -Sai dire solo quello, ma perché sei solo uno sfigato!-
 Lucio gli lanciò altri epiteti in risposta, ma Giak già aveva sbattuto la porta dietro di sé. Si diresse a grandi falcate in cucina, dove Daniele stava guardando i cartoni animati. Gesù, possibile che non ci sia un posto di merda in cui io possa restare SOLO?!
 Giak si sentiva braccato: non sapeva più dove rifugiarsi, come comportarsi. . . Come uscire da quel casino che era diventata la sua vita.
 -Giak, ma i tuoi amici non vengono più a casa?- chiese Daniele, innocentemente.
 Giak neanche rispose.
E Daniele cominciò a pensare che avere sette anni era davvero una fregatura.




Buonasera a tutti! Lo so che è passato un mucchio di tempo; lo so che nel frattempo magari vi sarete persino dimenticati cosa sia successo prima; lo so che tanto questa storia mi convince sempre meno ora che la vedo attraverso EFP. Ma che vogliamo farci... non si molla una sfida raccolta, no?!
I capitoli hanno raggiunto il numero di recensioni: pleeeease, solo voi che avete avuto la pazienza di arrivar fin qui potere favorire la rimonta!!
 Besos

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Capitolo 25
*** capitolo 25 ***


Povero Daniele: tra i genitori che si tormentavano e i fratelli che si picchiavano sempre più selvaggiamente, lui continuava ad esistere senza sapere neanche come facesse ad andare avanti. Era un bambino, ovviamente: per distrarsi gli bastava passare il pomeriggio da un amico oppure immergersi nella sua cesta dei giochi tenuta amorevolmente sotto al letto a castello. La camera dei tre era piccola, ma piena di cose: Giak sotto al materasso teneva i disegni, Lucio le sigarette, Daniele i giochi.
Tra i tre, l’unico passatempo che i genitori approvavano era quello dell’ultimogenito. Dopotutto, era il più normale.
 Dal momento che ultimamente la madre trascorreva molto più tempo a casa della nonna inferma, di pomeriggio aveva arrangiato i suoi figli come meglio poteva: Daniele usciva di scuola mezz’ora dopo le quattro del pomeriggio, Lucio e Giak invece prosperavano in casa, godendosi quell’autonomia dalla scadenza incerta.
Prima che tornasse il loro padre dal lavoro, tuttavia, qualcuno si doveva pur preoccupare di riportare Daniele a casa. . . E ovviamente il compito toccò a Giak.
 Il nostro eroe non aveva davvero voglia di dover sottostare a quell’ennesimo onere, ma, per amore del suo fratello pseudo-preferito, dovette chinare la testa. Per un po’ riuscì a gestire la situazione; ma, quando i pensieri sono troppi e confusi, è facile che si perdano. Giak spesso si chiedeva a quante faccende potesse badare un cervello. Immaginava un limite, come gli hard disk dei computer, e in quell’ultimo periodo temette di averlo raggiunto.

 Un giorno in cui il cielo era talmente nuvoloso da sembrare nero, Giak tornò a casa ancora più depresso e frustrato del solito: a scuola aveva ricevuto un compito di matematica in cui aveva ricevuto un cinque stiracchiato (troppo poco per recuperare) e, subito dopo, era stato interrogato in greco: sbalordì la prof con uno splendente cinque e mezzo –be’, lei si aspettava un quattro: era stato pur sempre un miglioramento- ma ovviamente gli aveva abbassato ancora di più il morale. Con quei voti, rischiava davvero di dover portare greco a settembre.
Aveva anche visto Alex di sfuggita ma lei, dopo aver fatto finta di non vederlo, gli era passata davanti con uno svolazzare di capelli.
E poi la solita tortura di non parlare con nessuno degli amici, mentre loro intorno a lui riuscivano ancora a scambiarsi due chiacchiere. Forse più fredde del solito, ma pur sempre chiacchiere. . . 
Era davvero a terra. Neanche la musica riusciva a tirarlo su. Quando uno come Giak non riesce neanche più a sentire musica, ma solo rumore, vuol dire che le cose erano davvero messe male.
 Quel giorno dovette sopportare Lucio che girava per casa con una cicca in bocca (da quando Giak l’aveva scoperto -e aveva lasciato perdere il proposito di tradirlo- se in casa non c’era nessuno fumava con sempre più disinvoltura), ed aveva così tanti compiti e interrogazioni da preparare. . .
 
Febbraio si avvicinava faticosamente alla fine, dopo aver scatenato su Polverano così tanta pioggia e vento che i suoi abitanti si erano più volte chiesti se davvero il bel tempo fosse mai esistito.
 Per qualche strano motivo, dovuto forse a sua madre che per pranzo aveva avuto un impegno e a suo padre che l’aveva invitata a magiare da lui, Lauretta si ritrovò per strada, sola, a piedi, verso le cinque del pomeriggio. Un orario in cui vorresti essere in qualsiasi posto tranne che per strada, se hai da recuperare diverse insufficienze e il giorno dopo hai un compito di latino. I vecchi Articolo 31 cercavano di cantare come meglio potevano alle orecchie di Lauretta, ma lei era cosciente solo di un rumore dalle parti della testa e una voce che cantava di scazzottate contro il mondo. Stava camminando distrattamente verso casa; ma, quando passò davanti ad una scuola elementare, si rese conto di dove si trovava. Ci era venuta con Giak, una volta, a riprendere il fratellino del suo ex migliore amico.
Meccanicamente gettò lo sguardo verso l’ingresso; l’orario di uscita dei pargoli era passato da una mezz’oretta o poco più, in giro non c’era quasi nessuno. Però il portone era aperto e, seduto sui gradini, c’era qualcuno rannicchiato con la testa sopra le ginocchia. . .
 Lauretta si avvicinò, perplessa.
 -Daniele?- chiamò, staccandosi le cuffie dalle orecchie.
Il bambino alzò lo sguardo e Lauretta notò che aveva gli occhi arrossati, come se avesse pianto.
 -Come mai sei ancora qui?
 Lui alzò lo sguardo e qualcosa in fondo ai suoi occhi sembrò brillare:
 -Lauretta! Ciao!- esclamò. -Sto aspettando Giak, deve venire a riprendermi. . .
 Lauretta represse un moto di stizza:
 -Oh, capisco. . .
Poi si rese conto che qualcosa non quadrava, e controllò l’orologio.
 -Sono quasi le cinque e dieci, e tu esci alle quattro e mezza. . . Perché sei ancora qui?
 Daniele abbassò lo sguardo, a metà fra l’amareggiato e il deluso.
 -Devo aspettare Giak. . .- mormorò.
 Lauretta pensò al compito di latino del giorno dopo e alla media di Giak. Probabile che si fosse messo a studiare, che non si fosse accorto dell’ora. . .
 -Non può essersi dimenticato di venirmi a prendere, no?- mugolò Daniele. Lauretta pensò che fosse proprio così, ma non ebbe cuore di dirlo al bambino.
 -Ehm. . . tua madre non c'è?
 Il bambino scosse la testa: -mamma è dalla nonna. Ultimamente deve passare un sacco di tempo con lei, perché sta male, quindi ha detto a Giak di venirmi a prendere. . .
 Oddio. Non posso lasciarlo qui.
Ma non aveva neanche la minima intenzione di rivolgere la parola a Giak, se era per quello.
 -Senti, tu la sai la strada di casa, sì? Posso chiedere alle maestre se ti posso accompagnare io. . . Non ho molto da fare- mentì - e almeno non rischi di restare qui fino a quando quello stupido non si sveglia. . .
 -Per me è ok. . . Vieni, la segreteria è qui, c’è sempre qualcuno dietro la scrivania.
 Daniele si alzò e, senza curarsi di prendere lo zaino, condusse Lauretta dentro l’edificio.
 Scoprirono che non c’era verso di portare Daniele a casa se non con uno dei genitori o con il fratello. Le maestre non avevano la minima intenzione di lasciare uno dei loro alunni in mano a una tipa che aveva bisogno di una bella dormita, o, al limite, di una pettinata a quei capelli che stavano ricrescendo più arruffati di quanto non fossero mai stati; Lauretta non poté neanche biasimarle. Però era davvero un problema.
 -Se conosci il fratello di Daniele, puoi chiamarlo e avvertirlo. Ci metterà giusto una decina di minuti per arrivare, no?- disse la signora seduta dall’altro lato di una tristissima cattedra dall'aspetto unticcio.
 -Be’. . . Immagino che non ci sia altra soluzione- convenne Lauretta. 
 Lei e Daniele tornarono sulla soglia del portone, dove il bambino si accoccolò nella stessa identica posizione di prima, e Lauretta poté sospirare liberamente.
 Non voleva sentire Giak. Non avrebbe retto. Il solo suono della sua voce le risultava odioso. . . In che situazione si era andata a cacciare.
Avrebbe potuto fingere di trovare il cellulare occupato, o anche il telefono di casa, al limite, scusarsi con Daniele e andarsene dicendogli semplicemente di avere fede.
Ma non l’avrebbe mai fatto, ne era sicura. Inoltre non le piaceva che fosse Daniele a rimetterci per uno screzio che riguardava lei e Giak.
Pensò che nessuno dovrebbe permettere che eventuali terzi paghino le conseguenze di una litigata. Le venne quasi da ridere, una risata amara: esperienza diretta.
 Rassegnata, col cuore che batteva di rabbia e di fastidio, digitò il numero di Giak e si mise in attesa.
 -Pronto?
Per quanto Giak si fosse sforzato a tenere una risposta formale, Lauretta riuscì a intravedere un pizzico di perplessità in quell’unica parola.
 -Tuo fratello è qui davanti la scuola- disse in tono neutro.
 Sentì Giak esitare per una frazione di secondo, poi imprecare pesantemente.
 -Digli che lo sto venendo a prendere.
 -. . . Ciao-. Lauretta riattaccò.
 Si accorse che Daniele la fissava, ansioso di essere messo al corrente; lei si sforzò di sorridere.
 -Sta arrivando.
 -Oh, meno male! Mi ero rotto di aspettare qui.
 -Ci metterà poco, tranquillo.
 -Mi fai un po’ compagnia, nel frattempo che arriva? Non voglio stare solo. . .
 In realtà Lauretta non aveva la minima intenzione di rimanere, col rischio di incontrare Giak una volta che fosse arrivato; eppure le si spezzò il cuore a vedere Daniele così innocentemente implorante.
 -D’accordo-. Si sedette vicino a lui, chiedendosi di che diavolo avrebbero parlato.
 Fortunatamente (o sfortunatamente) Daniele era ancora un ottimo conversatore. Che poi la sua giovane età non lo aiutasse a distinguere cosa dire e cosa non dire era un altro discorso. . .
 -Lauretta, ma tu con Giak non ci parli più?- chiese infatti.
 Lauretta si morse il labbro:
 -Ehm, non molto in realtà. . . Abbiamo litigato.
 -E perché?!
 -Ehm. . . È una cosa stupida-. In effetti, ora non sarebbe riuscita a spiegare perché effettivamente Giak le riuscisse così antipatico. Sapeva solo di non volerlo vedere.
 -Se è stupida, allora potete fare pace.
 -Non credo. . .
 -Ma di chi è la colpa?
 -Ecco. . . Be’, penso sia stata un po’ di tutti e due.
 -Ah. Ma voi volete fare pace?
 Lauretta ora se lo stava quasi strappando, il labbro. Non aveva mai avuto a che fare con i bambini e la speranza di Daniele la stava spiazzando.
 -Boh. . . Dovrei sapere cosa pensa lui. Ma è impossibile, quindi probabilmente non si saprà mai. . .
 -Certo che vi fate davvero troppi casini in testa. Sembrate mamma e papà! Anche loro litigano sempre.
 Lauretta esitò, ma poi la curiosità ebbe la meglio; voleva sapere come se la passava Giak in casa:
 -Come vanno le cose? Un po’ meglio?
 -Mica tanto. Ma tanto ormai non si incrociano quasi più. Papà è al lavoro, mamma da nonna: tornano a casa solo per non lasciare noi da soli. Ieri mattina ho visto il divano letto aperto in salotto, mi sa che ci ha dormito papà. . .- Si bloccò immediatamente: era quasi sicuro che quella fosse una di quelle cose che non era conveniente dire.
 -Oh. . . Mi spiace. Stamattina era tutto normale, invece?
 Daniele non rispose, ma si limitò a mettere su un broncio triste e ad abbassare lo sguardo. No, quello che aveva capito quella mattina non l’avrebbe detto, poco ma sicuro.
 -Eccolo!- scattò improvvisamente in piedi, alzandosi sulle punte.
 Giak camminava con andatura veloce, sembrava che stesse praticamente marciando: fu davanti a loro in pochi secondi.
 Lauretta abbassò lo sguardo, senza sapere dove posarlo. Sicuramente non su di lui. Ora che Giak era vicino si sentiva improvvisamente vulnerabile, come se avesse un orso inferocito dietro le spalle pronto ad attaccarla.
 -Andiamo- disse Giak.
Daniele forse avrebbe voluto aggiungere qualcosa, ma il tono di Giak non ammetteva repliche.
 Afferrò in fretta lo zaino, sproporzionato rispetto alla sua corporatura esile, e si incamminò col fratello.
 Quando entrambi le furono di spalle, Lauretta fu in grado di alzare lo sguardo. Giak non stava parlando, si limitava a camminare con le mani in tasca e il fratello al fianco.
 Si sentì improvvisamente coraggiosa, come se l’orso ora fosse diventata lei.
 -Comunque prego, è stato un piacere!
 
Daniele non parlò a Giak per tutta la sera. Era arrabbiato come una bestia: tutta la fiducia che aveva sempre avuto in Giak si era volatilizzata in quel pomeriggio. Era stato dimenticato! Prima l’avevano dimenticato i genitori, poi Giak. Era stato davvero un colpo basso. Che andassero al diavolo, loro con i loro stupidi problemi!
Daniele pianse lacrime che a sette anni nessun bambino dovrebbe piangere, ma se ne sarebbe reso conto anni più tardi. Quando ormai risultò palese che quel periodo di cacca aveva temprato anche lui, così piccolo e malleabile.
 Giak lo cacciò in malo modo dalla cameretta e ci si chiuse dentro senza uscire neanche quando rientrò il loro padre. Non sentì quello che stava dicendo: se ne sarebbe accorto da solo che la loro madre sarebbe rimasta a dormire in casa della nonna.
Non se ne stupì: aveva perso il conto di quanto tempo fosse trascorso dall’ultima volta che i suoi avevano dormito insieme. Per quanto la loro madre avesse sempre cercato di sistemare il divano letto prima che i figli si accorgessero che era stato usato, quel particolare non era sfuggito a nessuno dei tre.
Ora però il problema era stato risolto: la sera prima il padre era andato a dormire fuori, ora toccava alla mamma. Ecco quello che Daniele aveva taciuto a Lauretta.
 Alla frustrazione si aggiungeva altra frustrazione: ora c’era anche il fatto che era in debito con Lauretta.
 Giak si chiese perché le era venuto in mente di raccattare Daniele. Ne era rimasto infastidito: ora si sentiva grato a lei. E la cosa non gli piaceva.
 Eppure, oltre alla frustrazione sentiva una strana inquietudine dentro di sé; come se avesse ingoiato un boccone troppo grande che gli si era fermato a metà dell’esofago. Qualcosa da sputare, da cui liberarsi. . .
 Non è possibile liberarsi. Non ci sono vie d’uscita. . . Tutto va male, e non dipende da me. I miei amici non mi parlano, i miei genitori non parlano né con me né tra loro, e nessuno mi capirà mai perché nessuno ha mai voglia di capire le situazioni degli altri. Immedesimarsi in un’altra persona è come costringere qualcuno ad imitare la tua grafia. . . Per quanto ci si impegni, non riuscirà mai.
 Non era vero, e lo sapeva: Lauretta avrebbe -e aveva- capito perfettamente quello che stava vivendo.
 Lauretta è troppo occupata a fare la vittima.
 Magari però anche lei pensava che nessuno potesse capirla.
 Ma lei neanche si è sforzata! Lei sa quanto sto male, e non ha capito che. . .
 Ma importava se aveva sbagliato? Non era concesso neanche un errore? Alla resa dei conti, gli mancava. Aveva bisogno di lei.
 No. Posso farcela da solo.
Non era vero.
 Sì.
 Bene: si sarebbe preso in giro per un altro paio di giorni, in tempo perché il caso sistemasse le altre faccende e potesse far incastrare di nuovo tutti i pezzi della vicenda, come una linea di tetris destinata a scomparire.

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Capitolo 26
*** capitolo 26 ***


I giorni a scuola si trascinavano come un’agonia lenta e devastante: ogni mattina i nostri cinque amici avevano sempre meno voglia e motivi per alzarsi dal letto. Riccardo non teneva neanche più così tanto alla sua media... tanto, che mi importa se perdo qualche punto. Non ne vale la pena.
 Erano passati giusto due giorni da quando Lauretta aveva raccattato Daniele per strada (senza ricevere neanche un ringraziamento da Giak); la nostra eroina si trascinava verso le fermata dell’autobus, dopo l’ultima campanella, con un paio di occhiaie omaggio delle poche ore di sonno. I capelli si stavano allungando, ormai poteva legarli facilmente, ma non aveva voglia di tagliarli di nuovo.
Aspettava silenziosamente, accoccolata sul muretto dietro la pensilina. Che tristezza: in genere, fino a quel punto l’accompagnava sempre Margherita, che abitava poco più in là, ma ormai non le parlava da settimane... Ah, eccola. Si era attardata, a quanto pareva. Sicuramente con Marco.
 Margherita era infagottata in un cappotto di stoffa stretto in vita da una cintura, anche se stretto non era proprio la parola giusta. Camminava speditamente e aveva la faccia seminascosta da una sciarpina blu che Lauretta aveva sempre odiato. Insomma, non si mette una sciarpa del genere sopra la felpa.
Si accorse che Lauretta era seduta al solito posto e per una frazione di secondo pensò di fermarsi: Lauretta notò l’indecisione. Poi però cambiò idea e ripartì, spedita, passando davanti alla sua migliore amica senza neanche degnarla di uno sguardo. Ma era stata Lauretta questa volta a guardarla attentamente: inizialmente pensò di esserselo immaginata ma poi, quando Margherita la superò, ne fu sicura: stava piangendo. Sapeva ormai riconoscere come le si trasfigurava il volto quando succedeva: il naso diventava rosso, gli occhi si infossavano e come fraintendere quel luccichio che rendeva le guance umide... Margherita si allontanava sempre di più, con lo zaino che le sobbalzava sulle spalle, pieno dei libri che non condivideva più con Lauretta. E questa, che non aveva mai amato dover prendere decisioni velocemente, non riuscì a fare altro che lasciarla allontanarsi.
 Perché piange? Per tutto questo casino? O è successo qualcosa?
Quanto tempo che non parliamo. . . Magari è successo qualcosa che non so. E dove va? A casa? E si sfogherà con Marco?
 Ma lei ha sempre detto tutto prima a me. Poi magari finiva di sfogarsi con lui, ma prima venivo io. Anche se era solo per stupidaggini. E ora, che farà?
 Un paio di converse nere atterrarono sull’asfalto e cominciarono a correre; Lauretta ansimava sotto il peso dello zaino e sentiva già i polmoni lacerati, ma non si fermò fino a quando non fu abbastanza vicina da poter urlare “Margherita!!” certa di essere sentita.
 Margherita si voltò, vide Lauretta e si fermò.
 Lauretta le si piantò a qualche centimetro di distanza, riprendendo fiato. Eh sì: aveva pianto, aveva due occhi così rossi da far spavento.
 -Ciao- disse.
 -... Ciao- rispose lei.
 -Ehm... Ci sediamo?- Lauretta la condusse verso il muretto.
 -Che c’è?- chiese Margherita.
 Lauretta non sentiva più niente dentro la testa: ora l’unica cosa che le importava era Margherita. Lasciò da parte il cervello, con tutto quello che era successo, e fu tutta cuore.
 -Dovrei chiedertelo io... Sembri star male. È successo qualcosa?
 Margherita ci mise un po’ di più per abbandonarsi.
 -Perché ti interessa?
 -Perché... Be’, perché ti voglio bene. Ti voglio ancora bene.
 Margherita abbassò lo sguardo e, mentre cercava qualcosa da dire, un’ennesima lacrima le scivolò giù per il viso.
 -Tu... Tu sei arrabbiata. E quando ti arrabbi ti chiudi e non lasci entrare nessuno. Io mi sono scocciata a cercare di aprirti a forza. Non è facile...
 -Lo so. Mi dispiace.
 Margherita restò in silenzio, cercando di ricomporsi.
 -Quindi... Ti sei definitivamente scocciata?- mormorò Lauretta, mordendosi le labbra. Non voglio perdere anche Margherita.
 -Be'... No. Anche io ti voglio ancora bene. E anche io so che sei fatta così... Però ti voglio comunque con me. Questi giorni pensavo di passarli con un problema in meno, senza te che ti lamentavi ogni minuto di Giak, e che soffrivi per tutto il resto... Invece no. Insomma... Mi sei mancata.
 Il cuore di Lauretta si sciolse di sollievo.
 -Davvero?
 -Sì...
 -Non sembrava...
 -Lo so. Ma...
-Ma lo so che sei così. Anche io pensavo di essermi levata una rogna di torno, senza te che continuavi a chiacchierare quando invece volevo solo rimanere sola... Ma anche a me, invece, sei mancata-.
 -Oh. Be'...- minuto di silenzio.
-Che cosa schifosamente dolce- proruppe infine Lauretta.
 Margherita sogghignò.
 -Immagino che ti faccia schifo l’idea di un abbraccio, vero?
 -Immagini bene, ma per te questo e altro.
 Margherita finalmente sorrise, poi si buttò tra le braccia dell’amica.
 -Bella Laure’... oggi mi ci volevi-.
 -Cosa è successo? 
L’amica si staccò dall’abbraccio e tirò su col naso.
 -Marco- disse semplicemente.
 -Avete litigato?- tentennò Lauretta. Margherita annuì:
 -Sì... Ma per l’ultima volta. Io... L’ho mollato-. A quel punto le si spezzò la voce.
 -Oh, May...-
 -Non dire che ti spiace, perché so che non è vero-.
 -Non stavo per dire quello... ok, stavo per dirlo. Ma mi spiace davvero... Per te, perché stai male-.
 Margherita emise un risolino, poi si strinse nelle spalle.
 -Male? Male? Lauretta... Io non aspettavo altro!  
 
Lauretta si trascinò Margherita a casa e, una volta lì, le riempì la vasca da bagno.
 -Hai sempre desiderato provare la vasca idromassaggio, ora è tutta per te. Ti ci vuole: allontana lo stress, tira su il morale e ti sciacqui pure, che male non fa.
 -Puzzerai tu!
Mentre Lauretta selezionava il giusto bagnoschiuma dall’armadietto, Margherita si divertiva a giocherellare con l’acqua, accoccolata sul bordo della vasca.
 -Se vuoi, dopo ti piastro i capelli- disse Lauretta -anche se secondo me stanno meglio ricci, naturali-.
 -A proposito di capelli, tu che hai intenzione di fare con i tuoi?-
 Lauretta fece salire le dita dall’attaccatura della nuca in su, poi se li scompigliò:
 -Penso di tagliarli di nuovo. Mi piace poterli scrollare e poi, ora che ho provato un taglio corto, portarli lunghi mi sembra inutile-.
 -Andrà a svantaggio del tuo sex appeal, sappilo-.
 -Non disperare... Le ragazze con i capelli corti attizzano-.
 -Se lo dici tu...
 -... O almeno mi piace pensare così.
 Margherita sorrise, poi cominciò a spogliarsi. Senza pudore, senza vergogna: conosceva Lauretta da così tanto tempo che l’imbarazzo non la sfiorò neanche minimamente.
 -Aaah... scotta-.
 -Smettila di frignare e concentrati sul caldo. Pensa a quanto sta facendo freddo fuori, se può consolarti...
 -Così va meglio-.
 -Ora rilassati. Bagnati i capelli, che ti faccio un massaggio-.
 -Da quando sai fare i massaggi?-
 -Se ti fa schifo evito...
 -Idiota, taci e massaggia.
Lauretta si levò la felpa, restando a maniche corte, e cominciò a massaggiare la pelle dell’amica. Poi passò allo shampoo e, a quel punto, Margherita cominciò ad emettere gemiti di piacere.
 -Lau, sei un mito. Solo che penso tu avresti più bisogno di me di un bagno rilassante...
 -Puzzo davvero?
 -No. Però hai i tuoi problemi, decisamente pesanti.
 Lauretta non rispose, ma continuò a insaponare i capelli dell’amica. Solo che ora si ritrovava a misurare i gesti, perché temeva di poter tradire una strana emozione che le partiva dal cuore.
 L’emozione di realizzare che qualcuno vicino a te ha scandagliato ogni virgola del tuo animo e, nonostante tutto, persevera nel volerti bene.
 
 Non appena Giak si accorse che Lauretta e Margherita avevano fatto pace, si sentì sprofondare.
Con la rinascita dell’amicizia delle due ragazze, anche Cicca e Riccardo si erano rilassati: Lauretta era abbastanza bendisposta per togliere il muso a Cicca e Riccardo si sentì finalmente sollevato nel rivedere che i suoi amici tornavano ad andare d’accordo.
L’unico ad essere rimasto escluso era quindi proprio Giak: l’unico a cui Lauretta e, di conseguenza, gli altri continuavano a non rivolgere la parola. Vedere tutti i suoi amici di nuovo insieme gli spezzò letteralmente il cuore, una volta per tutte. Fu il colpo di grazia: gli fece realizzare quanto il suo stato di tristezza fosse avanzato.
 Al primo cambio dell’ora dovette sopportare i quattro attorno a sé, che chiacchieravano e scherzavano. Ancora cauti, sia chiaro, ma i rancori tra loro si erano sollevati e stavano sparendo come il fumo di una sigaretta.
 Al secondo cambio dell’ora, uscì dalla classe e si rifugiò in bagno.
 Posso farcela da solo.
Non era vero.
 Sì.
 … Non era vero.
 Al terzo cambio dell’ora, non appena suonò la ricreazione, arrivò Lauretta.
 
 Quando ti ritrovi a girare solo in mezzo a tante persone che girano in compagnia, ogni dimensione ti sembra distorta: il corridoio è più lungo, le porte più strette, il pavimento più duro, le pareti più fredde.
 La porta stretta che Giak aveva attraversato era quella del bagno, il pavimento duro era quello del gabinetto dentro cui aveva cercato un po’ di pace, la parete fredda era quella su cui aveva appoggiato la schiena. Cercava solo un po’ di silenzio e quel posto era quasi perfetto. Tanto nessuno andava davvero in bagno alla ricreazione: se uno voleva perdere tempo c’erano le lezioni, senza stare a consumare i dieci minuti di intervallo.
Aveva anche fantasticato di addormentarsi lì dentro. Insomma, ultimamente non aveva dormito affatto bene; si portava dietro un sacco di ore di sonno arretrato, un pisolino di qualche minuto gli avrebbe giovato e il puzzo di piscio non era così asfissiante...
 Mentre rimaneva con gli occhi spalancati e lo sguardo fisso nel vuoto, con uno spiacevole odore nelle narici e le ossa del culo che gli dolevano, Lauretta era rimasta in classe: gli altri amici le avevano detto di raggiungerli in cortile, ma lei era abbastanza sicura di non volerlo fare. C’era il quaderno di Giak davanti a lei. La classe era vuota. Lauretta si avvicinò circospetta al banco del suo antico migliore amico, aprì il quaderno e lo sfogliò velocemente: c’erano disegni lì dentro. Sapeva che ne avrebbe trovati.
D’improvviso la sua mente si svuotò e di nuovo fu tutta cuore, come quando si era trattato di fermare Margherita: prese i disegni più belli, poi chiuse il quaderno e passò a setacciare lo zaino, nervosamente. Non c’erano molti quaderni, ma lo stesso li sfogliò tutti velocemente e arraffò un altro paio di disegni. Poi, dulcis in fundo, trovò l’album. Non si diede neanche la pena di controllare cosa ci fosse dentro: lo prese, ci infilò quei quattro fogli che aveva in mano e se lo nascose nello zaino. Dopo aver rimesso tutto al proprio posto e aver controllato quanti minuti restassero prima della campanella, corse fuori dalla classe e si guardò velocemente attorno: Giak non era da nessuna parte, ovviamente, ma Lauretta non ci mise molto per pensare ai posti in cui una persona poteva fermarsi senza essere disturbato da nessuno.
 Non dovrei andare a cercarlo. È stato davvero cattivo con me.
 È stato proprio stronzo. Perché continua ad attirarti?
 Non lo so. Vorrei solo sapere che sta bene.
 Non dovrebbe importartene. Dovresti aver imparato com’è, giusto? Non vorrai mica stare di nuovo male per colpa sua?
 Io non lo so quello che voglio. Non so neanche se voglio rivolgergli mai più la parola... però non mi piace che stia male.
 Se lo merita.
 Nessuno si merita di star male.
 -Ehi, dove pensi di andare? Quello è il bagno dei ragazzi!- esclamò un bidello.
 -Oh andiamo, non devo fare niente di zozzo- disse Lauretta cercando di svincolare.
 -Non se ne parla, lontana da qui!
 -E’ una cosa importante, accidenti!
 -Via!
 Lauretta fissò il bidello con odio, poi si allontanò e aspettò che si distraesse. Quando quello si voltò a guardare un gruppo di quartine che stavano rientrando dal cortile, Lauretta di infilò svelta il cappuccio della felpa e sgattaiolò dentro il bagno dei ragazzi.
 C’erano pochi gabinetti, tutti chiusi. Nell’aria un odore per nulla piacevole, ma non si diede pena di qualcosa che archiviò come scontata. Bussò alla prima porta, ma non venne nessuna risposta. Bussò alla seconda e alla terza, quasi contemporaneamente; solo da quella di sinistra sentì provenire un “occupato!” rabbioso.
Non appena Lauretta riconobbe la voce, fece per spalancare la porta; riuscì ad aprirla di due centimetri, ma l’occupante del gabinetto fu fulmineo:
 -Ehi, ho detto che è occupato!- urlò Giak alla figura col cappuccio nero che aveva intravisto.
 -L’ho capito, ma tanto lo so che sei lì a non fare niente.
 -... E tu che ci fai qui?- chiese lui, mentre ancora faceva pressione sulla porta per contrastare la spinta di Lauretta.
 -Voglio parlarti. Posso?- Voleva davvero parlargli. Come quando la sera fai le ore piccole, ben sapendo che più tiri tardi e più sarà faticoso il risveglio.
 -No. Non hai niente da dirmi, non voglio sentire una parola. Tanto potresti solo farmi sentire ancora più di merda, tu e i tuoi stupidi problemi di ‘sta ceppa!-
 Lauretta sospirò e smise di spingere.
 -Per quanto ancora hai intenzione di restare lì dentro?- chiese.
 -Non sono affari tuoi.
 -Giak...- Lauretta pensava di riuscire ad arrivare a qualche compromesso, ma Giak era fermamente deciso a restare sulle sue posizioni. Sospirò.
Giak non rispondeva, lei era una ragazza nel bagno dei maschi. Per quanto si confondesse bene con il paesaggio (non aveva ancora osato calarsi il cappuccio), le forme dentro i jeans l’avrebbero tradita davanti a qualunque inatteso visitatore.
 Lauretta sospirò di nuovo, poi -convinta che ci fosse ancora Giak ad impedirle di aprire il gabinetto- appoggiò la fronte sulla porta.
 -Oddio!
Sentì la porta aprirsi e un corpo rannicchiato a terra fra questa e il muro; mentre cercava di non perdere l’equilibrio, si ritrovò dentro al gabinetto.
Lì l’odore di piscio era ancora più penetrante.
 -Ahia!- esclamò Giak.
 -Scusa, scusa...- Lauretta si chiuse la porta alle spalle, liberando Giak.
Una volta resasi conto di essere finalmente faccia a faccia con lui, si preoccupò di osservarlo per bene. Quelle occhiaie le conosceva. E conosceva anche il modo in cui si era seduto a terra, con le braccia attorno alle ginocchia.
 -Ciao Giak- disse, guardandolo dall’alto.
Lui alzò lo sguardo, a metà tra il preoccupato e l’arrabbiato.
 -Perché sei qui?
 Lauretta arricciò l’angolo della bocca, e Giak vide una fossetta sulla sua guancia.
 -Ieri ho parlato con Margherita. Ha mollato Marco.
 -Oh. Mi spiace.
 -Sei l’unico.
 -Ah.
 -... Giak?
 -Che vuoi? 
Lauretta sospirò, per l’ennesima volta, poi si accucciò davanti a Giak.
 -Voglio parlarti. Voglio sapere come stai-.
 -Perché?
 -Perché... Maledizione Giak, perché ti volevo bene. Sei soddisfatto ora?
Giak abbassò lo sguardo con una smorfia. Lauretta decise di continuare: se non avesse funzionato neanche quello, avrebbe gettato la spugna.
 -Ti fa tanto schifo l’idea? Se è così, ci mettiamo l’animo in pace e ti lascio a te stesso.
 -Oh, piantala...
 -Di far cosa? 
 -Di... Oh, merda, Lauretta!- la voce di Giak si ruppe.
Lauretta, che non aveva mai visto nessun ragazzo in quelle condizioni, si spaventò. Terrorizzata, non riuscì a proseguire.
 -Piantala di dire le cose come stanno! Piantala di dire che tanto io sono solo con me stesso! Lo so che è così, lo so che sono una merda, non voglio sentirmelo sbattere in faccia ogni volta!
La nostra eroina non riuscì a far altro che deglutire un nodo alla gola. La scena che le si stava parando davanti agli occhi era spaventosa: Giak, completamente alla deriva, aveva gli occhi pieni di lacrime.
Lauretta non aveva il coraggio di pensare. Come aveva potuto odiarlo? Come aveva potuto odiare una persona così simile a lei?
Giak si era accorto di avere qualche imbarazzante problema in zona occhi. Si spinse la maniche della felpa fin sui palmi delle mani e, privo ormai di ogni dignità davanti a Lauretta, si asciugò le lacrime prima che cadessero.
 -Giak...- sussurrò lei -Giak, tu non sei una merda.
 Giak ora era tornato a circondarsi le ginocchia con le mani.
 -Non vedo nessuno intorno a me. Non c’è nessuno. In casa i miei ormai non si parlano più, la situazione è troppo pesante e non ce la faccio. Ho sbottato, solo che così ho perso anche tutte le persone che avevo fuori da quell'inferno... Sono una merda, non so come funziona la tristezza e faccio stare di merda anche gli altri. Non so cosa sia peggio-.
Altre lacrime, questa volta con ancor meno dignità. Tutto quello che Giak era stava andando in pezzi, dentro quel gabinetto disgustoso. Non importava che davanti a lui ci fosse Lauretta; sarebbe potuta essere lei, sarebbe potuto essere Cicca o qualcun altro, sarebbe potuto essere un cane o uno di quegli uccellini che ogni tanto si avvicinano per rubarti le molliche. Giak sarebbe crollato lo stesso.
 -Hai presente quando sei in una stanza, che magari non conosci, e all’improvviso salta la luce? Tu ti ritrovi completamente al buio e allora cerchi l’uscita, ma non sai da che parte andare. Cammini, cammini, e più vai avanti più sbatti ai mobili, distruggi oggetti, ti fai male. E non riesci a chiedere aiuto, perché è una cosa stupida, insomma, si tratta solo di uscire da una stanza senza luce...
 -Si tratta solo di vivere- continuò Lauretta.
Giak rimase zitto e i due si concentrarono sui suoi respiri affrettati.
 -Si tratta di vivere felici. Dovrebbe essere semplice, no? C’è un sacco di gente al mondo, grossomodo tutti riescono a...
 -No, non tutti. Ognuno ha i propri motivi per star male. Alcuni soffrono proprio. Però... Tutti fanno del loro meglio. È una cosa che alla lunga aiuta.
 -Tutti loro però almeno una luce ce l’hanno. Chi ha gli amici, chi ha la famiglia, chi ha -senti questa- l’amore... io invece non vedo niente. Non vedo un’emerita ceppa-.
 -Be‘... Una fregatura doveva pur esserci, non credi?-
 Giak mugolò: -è inutile parlare, lo vedi?! Non riuscirai mai a capirmi, per quanto tu posso sforzarti, perché...
 -Giak, sta’ zitto- sibilò Lauretta.
 -No, è inutile...
Lauretta non gli fece terminare la frase: lo prese e, goffamente, lo abbracciò.
 Ci mise tutto l’affetto che le era rimasto. Sentiva i capelli di Giak sul suo viso, ne annusava l’odore e lo stringeva con tutto l’affetto con cui aveva sempre desiderato che qualcuno abbracciasse lei.
Non avrebbe lasciato che anche lui si distruggesse come aveva cominciato a fare lei; non avrebbe lasciato che arrivasse a saltare i pasti, a perdere il sonno, a piangere senza dirlo a nessuno, a bere e bere e bere fino a star male.
Si chiese se Giak avrebbe percepito tutto quello che voleva infondere in quell’abbraccio...
Giak lo percepì. Non fu mai sicuro di quello che Lauretta avesse voluto dirgli, ma neanche glie l’avrebbe mai chiesto: alcuni momenti sono talmente intimi che anche solo il tornarci su equivarrebbe a profanarli. Ma sentì tutto l’affetto che la sua amica stava cercando di trasmettergli.
Pianse ancora mentre lei lo stringeva; pianse, per quella che giurò essere l’ultima volta, ma non ebbe bisogno di chiedere a Lauretta di non farne parola con nessuno: erano cose che, semplicemente, si sanno.
 Non si accorsero subito che era suonata la campanella della ricreazione; li scosse solo un rumore di passi, qualcuno che evidentemente aveva bisogno davvero del bagno.
Lauretta sciolse l’abbraccio.
 -Ora ce la fai?- chiese a Giak.
 -Non lo so...
 -Sai, essere figli di genitori che non si amano è una fregatura: dentro noi siamo per metà come un genitore e per metà come l'altro. Se non sono riusciti a restare insieme loro, ancora più difficile sarà per noi... Perché loro almeno si sono potuti separare, alla fine; noi invece dobbiamo faticare per mettere d’accordo geni incompatibili dal principio-. 
 -È troppo difficile...
 -Lo so. È così faticoso, e loro non potranno mai capirlo. Ma... La colpa non è loro. Non è di nessuno. Resisti, resisti, resisti- sorrise e gli diede un pugnetto sul braccio. Giak abbassò lo sguardo.
 -Giak, non sei una merda... E non sei neanche solo. Ok? 
 Giak alzò gli occhi e li piantò in quelli della sua amica.
 -Tu dici così, ma gli altri...
 -Giak, stai tranquillo. Siamo amici. E anche Margherita, Cicca e Riccardo sono amici... Miei, e tuoi. Anche io temevo di perderli, quando mi chiudevo e non avevo il coraggio di dire quanto stessi male. Ma, se hanno capito me, capiranno anche te-
 -Non ne sarei così sicuro... Tu non sei stata bastarda quanto me-.
 -Fidati... Ho i miei motivi per essere sicura che capiranno-.   
Buoni motivi, ottimi motivi: Lauretta, infatti, aveva capito che certe volte le persone hanno solo bisogno di essere perdonate... e che, quelle volte, il perdono sale facilmente come una risata liberatoria.





 Ecco qui: un capitolo bello lungo per farmi perdonare l'altrettanto lunga assenza! 

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Capitolo 27
*** Capitolo 27 - EPILOGO ***


Giak si accorse che i disegni erano spariti solo una volta tornato a casa.
Rivoltò lo zaino, cercò sotto il letto, torturò i fratelli, ma presto si accorse che non erano né in casa né tantomeno in possesso dei due pidocchi.
Realizzò che il furto doveva essere avvenuto a scuola e pensò a quando era rimasto chiuso in bagno: solo in quel momento il ladro aveva potuto agire indisturbato. Maledisse il mondo e tutto quello che gli capitò intorno per il resto della giornata... Ma lo stesso non riusciva a sentirsi eccessivamente furioso, anzi: se non fosse stato per la sparizione del suo album, quella sarebbe stata la giornata più bella degli ultimi mesi.
Il fatto che Lauretta, nonostante tutto, fosse stata disposta ad andare a recuperarlo dentro un gabinetto, gli aveva scaldato il cuore: era la sua migliore amica, lo era stata e lo sarebbe sempre stata. Tanto bastava per fargli passare la giornata con un mezzo sorriso sulla faccia, che voleva a tutti i costi sembrare arrabbiata.
Nel pomeriggio riuscì a sentire Cicca.
Giak stava studiando, o almeno si impegnava a far finta di studiare, quando arrivò una chiamata dalla casa dell’amico.
 -Pronto?-
 -Giak, sono Cicca-.
 Giak sentì il respiro fuggire via dai polmoni; eccolo, infine.
 -Ciao...
 -Ciao. Senti un po’... oggi ho parlato con Lauretta.
 -Ah. Ehm... Anche io.
 -Lo so. Non so di preciso come abbiate fatto, ma lei dice che ora è tutto ok. Ehm...- Cicca sembrò imbarazzato.
 -Sì, è davvero tutto ok- lo soccorse Giak.
 -Ah. Bene. Volevo sapere solo questo...
 -Ok.
 -Già.
 Silenzio. Tra loro c’era solo il fruscio della linea telefonica.
 -Cicca... Senti, ma tu sei ancora incazzato con me?
 -Be'... Un po’.
 -Sì, ehm... Insomma, mi dispiace. Lo sai come sono, quando mi arrabbio comincio a sparare cazzate...- Giak dovette chiudere gli occhi mentre parlava: li strizzò come se le parole che aveva appena detto fossero state un’agonia.
 -Sì, be'... Insomma, però è tutto ok. Penso che possiamo lasciarci tutto alle spalle. Ti dicevo, Lauretta mi ha detto che stai meglio... Stai meglio, sì?
 Giak non sapeva che rispondere, ma non voleva impappinarsi proprio in quel momento.
 -Sì. Sto bene-. Ecco: Lauretta era riuscita a farlo sembrare convinto, anche a distanza. Come ci fosse riuscita, sarebbe sempre rimasto un mistero.
 -Meno male... 
 -Già.
 Silenzio.
Passarono pochi istanti, poi Cicca proruppe in una sonora risata:
 -Che c’è? Perché ridi ora?- continuò Giak.
 -Oddio, scusa, scusa! Non ce la faccio, davvero...
 -Mi stai prendendo in giro? Cicca, andiamo, ti ho chiesto scusa, già è stato imbarazzante per me, non aggiungere il carico da novanta...
 Ma lui continuava a ridere: -un momento, dai, scusa, ora la smetto, un attimo...- ma non si fermava, le risate erano così forti che Giak dovette allontanare il telefono dall’orecchio.
 -Cicca, che ti sei fumato? Cicca?- Giak si stava preoccupando.
 -Niente, broccolo’. Sono solo sollevato.
 -E ridi per questo?
 -Be'? Fattela pure tu una bella risata, amico.
 Giak sogghignò. Non ce la fece a sciogliersi come era successo a Cicca, ma anche lui sentì qualcosa dentro che stava per decollare.
 -A proposito… al di là da tutto: ora puoi dirmelo il perché tieni così tanto alla felicità di Lauretta? 
 
Le due ragazze camminavano a passo svelto per il corridoio della scuola, elettrizzate. Avrebbero dovuto essere a lezione, ma era l’ora di religione. Ci era voluto poco per far credere alla prof che avessero bisogno del bagno.
 Una era piacevolmente tonda, massiccia e con i capelli sempre più lunghi che si arricciavano verso le punte.
L’altra era di costituzione magra, ma l’effetto era enfatizzato dalla felpa larga e dai jeans abbastanza larghi da finirle sotto le converse. I capelli si erano allungati dall’ultima volta che li aveva tagliati, così li aveva raccolti in un codino. In attesa di tornare dal parrucchiere, ovviamente.
 La ragazza con la felpa stringeva al petto un album di fogli A4, è importante dirlo.
 -Di qua- disse Margherita, -è quasi aprile, e ancora non impari la classe di tua cugina... Sei uno scandalo! 
 -Zut!- Lauretta cacciò il cellulare dalla tasca dei jeans e mandò un rapido messaggio a Sara.
 Pochi minuti dopo, eccola uscire: sempre più bassetta delle altre due, sempre più truzza.
 -Tutti questi misteri mi intrigano! Perché mi hai chiesto di uscire, cugi? 
 -Ho bisogno di un favore enorme... Tu conosci qualcuno del giornalino di istituto, vero?
 -Solo Mastropaolo, quel tipo alto con i capelli che sembrano una fratta, ma solo di vista...
 -Che classe fa?
 -Il terzo E.
 -Perfetto. Grazie, cugina!
 -Ehi, ti servivo solo per questo? Potevi semplicemente mandarmi un messaggio...
 Lauretta si abbassò di un po’ e le diede un bacio sulla guancia, come piaceva a lei.
 -Anche per questo. Ti voglio bene!
 -Temè, che sdolcineria è mai questa? 
 -Lascia stare, Sara. Lauretta sembra impazzita ultimamente- si intromise Margherita.
 -Andiamo, abbiamo il terzo E da cercare- disse Lauretta.
 -Cerchiamo, cerchiamo... Ho una vaga idea di quello che vuoi fare.
 
Margherita ci aveva visto giusto. E quando, il giorno dopo, Giak scoprì che tutti i suoi amici erano tornati a parlargli -la chiamata di Cicca doveva aver sortito un certo effetto rassicurante-, si rese conto che tutti sapevano qualcosa di cui solo lui era all’oscuro.
 In ogni caso, decise di non dar troppo peso alla cosa: era troppo contento di essere tornato a far parte dell’Allegra Brigata.
 Era successo tutto molto tranquillamente: dopo la chiamata (e la confessione) di Cicca si era recato a scuola un po’ confuso, un po’ teso e molto ansioso. Prima arrivasse al suo posto Cicca gli si era fatto incontro, con un largo sorriso sul volto.
 -Bella Giak!- aveva salutato. Gli aveva rifilato un cinque e un breve abbraccio, poi aveva lasciato che anche Riccardo gli desse un paio di sonore pacche sulla spalla.
 -Ehi... Tutto apposto allora.
 Mentre Giak smaltiva l’imbarazzo, aveva sentito l’emozione farsi strada dalle parti del petto.
 -Sì. Sì, tutto ok. Ho parlato con Lauretta, ci siamo chiariti...
 -Grandioso! Allora possiamo non pensarci più.
 -Già...
 -Ehilà!- Lauretta era balzata al centro del gruppo di ragazzi e i tre avevano cominciato a spintonarsela tra loro, mentre lei rideva.
 Era stato un piacevole diversivo, aveva pensato Giak: era bastato che sorridessero lui e Lauretta, per sollevare anche tutti gli altri dal peso che aveva gravato negli ultimi tempi. 
 
-Giak, Giak!-
Era passata una settimana: era un sabato mattina e i nostri eroi, di nuovo amici fra loro, stavano rientrando in classe, dopo la ricreazione. Lauretta correva, con un giornalino arrotolato tra le mani.
 -Che c’è?- chiese distrattamente Giak.
 Lauretta si fermò davanti a lui, affannata, col petto che si alzava e abbassava ritmicamente seguendo il suo respiro. Aprì il giornalino, che Giak riconobbe come il giornalino d’istituto.
 -Tieni. No, non guardare ora: aspetta di essere più tranquillo. Magari quando torni a casa, ok?
 -Non capisco... Non c’è mai scritto niente di interessante, lo dici sempre!
 -Non è quello che c’è scritto... Tu sfoglialo un po’, poi mi dirai. Forse ti arrabbierai un po’, ma... Be‘, poi mi dici.
 In quel momento passarono Cicca e Margherita e, vedendo il giornalino in mano a Giak, ghignarono:
 -Aaah, Lau, non dirmi che l’hanno fatto davvero...
 -È stato facile convincerli. Tra tutta quella spazzatura che ci arrabattano dentro, finalmente qualcosa di davvero meritevole... 
 Un presentimento si fece spazio in Giak, ma, prima che potesse esclamare qualsiasi cosa, arrivò la professoressa a farli filare a posto.
 Inquieto, Giak lasciò che passasse la prima mezz’oretta della lezione, poi chiese di poter andare in bagno; nessuno si accorse che, dentro la tasca della felpa, era ripiegato il giornalino.
 Il nostro eroe si infilò nello stesso gabinetto in cui era crollato neanche due settimane prima. Non ci fece caso.
Ansioso, si sedette sulla tazza e sfogliò rapidamente il giornalino. Sapeva dove andare a guardare...
Non temere, se disegni una cagata ti prometto che sarò la prima a dirtelo. Comunque, che problema c’è? Disegna qualche vignetta e vedi se la mettono nel giornalino della scuola”, aveva detto Lauretta mesi prima.
 Giak si rese conto di parecchie cose in pochi istanti: prima di tutto, che era stata Lauretta ad aver rubato i suoi disegni.
La seconda cosa era che evidentemente aveva ricercato qualcuno del giornalino.
 La terza era che ora i suoi disegni erano lì, scannerizzati, stampati in diverse decine di copie e sotto gli occhi di tutto il liceo classico di Polverano.
 La quarta che i suoi erano gli amici migliori del mondo.
 Sorrideva Giak, dentro il gabinetto: sorrideva, e visto così sembra stramaledettamente figo. I capelli scuri si erano allungati in quei mesi, ora gli pendevano davanti agli occhi e alla fronte, e si stava mordendo le labbra in modo che sarebbe sembrato provocante anche alla Alex più remota.
 

 Epilogo

 
Due giugno.
Ponte.
Caldo.
Cinque biglietti del pullman per il mare.
 I nostri amici dell’Allegra Brigata si erano svegliati indecentemente presto e, sotto un sole finalmente caldo, avevano lasciato Polverano in favore di quel mare che non vedevano da mesi. Si erano quasi scordati com’era una spiaggia.
 La scuola stava per finire, quelle ultime due settimane sarebbero state una passeggiata... Ormai, le medie erano fatte e i voti segnati. Buoni voti: le loro sufficienze erano state scritte con il sangue.
Non che fosse stato semplice; sia Giak che Lauretta avevano dovuto pagare un insegnante di ripetizioni prima di arrivare al sei in greco e latino. Il suddetto insegnante (lo stesso per entrambi, dopo che Lauretta aveva passato il suo numero a Giak) era stato prossimo a gettare la spugna, ma alla fine ce l’avevano fatta - anche grazie a un paio di notti insonni da parte dei ragazzi e alla bontà della prof che, come ultima versione, propose loro una favola di Esopo. Be‘, a rimandare metà classe avrebbe sfigurato anche lei, tutto sommato.
Quando scoprirono che anche l’ultima versione decisiva era andata bene, i due amici si erano presentati dal professore di ripetizione con un vassoio pieno di pastarelle e gli occhi colmi di gratitudine.
 Ed ora eccoli là, in converse di pezza rotte e costumi colorati, mini jeans per le ragazze e mezze maniche per i ragazzi, zaini della scuola svuotati di libri e riempiti con teli da mare, a calcare le sabbie della misera costa abruzzese.
 -Bella per tutti!- esclamò Cicca non appena si furono sistemati su una fetta di spiaggia libera.
Di fianco a loro, gli stabilimenti balneari avevano aperto i battenti da un po’, su quelle spiagge ancora scevre da vagonate eccessive di turisti.
 -Che caldo...- sospirò Margherita.
 -Già... Be', non è magnifico?- rise Lauretta. Era l’unica che ancora non si era levata i pantaloncini e la t-shirt, ma il suo imbarazzo forse non era dovuto solo al naturale pudore dei timidi: ultimamente era arrossita un po’ troppo spesso a determinate occhiate che non aveva mai pensato di poter meritare da parte di un ragazzo… meno che mai da un suo amico. Meno che mai da Cicca. E sì che Margherita glie l’aveva messa la pulce nell’orecchio, ma Lauretta non aveva mai capito se ogni volta scherzasse… e, tutto sommato, non era neanche sicura di volerlo sapere. Non aveva mai pensato a Cicca sotto quel punto di vista; ogni volta quindi si ritrovava ad abbassare lo sguardo per nascondere l’imbarazzo davanti alla sua migliore amica, senza sapere mai come schernirsi. L’unica cosa che il suo cervello pensava era semplicemente no, no, non posso essere io, non è possibile che qualcuno addirittura si… innamori… di me…
Poi però prima di dormire si ritrovava a considerare che ok, forse una spanna più alto sarebbe stato meglio, ma anche così Cicca non era affatto male, dopotutto… e, anche se la mattina dopo non poteva ricordarlo, ogni volta si addormentava con la mente che era tornata a quando lui l’aveva vista in lacrime fuori scuola e l’aveva abbracciata con tutto se stesso.
 Giak aveva appena fatto in tempo a sistemare senza pieghe il suo telo da mare sulla sabbia, che Riccardo ci si gettò sopra a peso morto.
 -Voglio restare così fino a settembre!- disse.
 Giak afferrò i lembi dell’asciugamano, li tirò e fece rotolare Riccardo sulla sabbia:
  -Cento punti per Giak!- risero Cicca e Margherita.
 Mentre Riccardo e Giak cominciavano a fare a botte sulla sabbia, Cicca si rivolse a Lauretta:
 -Ehi amica, hai intenzione di restare vestita ancora per molto? Guarda che non devi vergognarti, anche noi siamo ancora pallidi come mozzarelle-.
 Lauretta ridacchiò (una risata strana e nervosa): -oh, non è quello il problema... È che mi sento più a mio agio così. Magari poi, quando entreremo in acqua, mi metterò in costume-.
 -Mmm...- Cicca lanciò un’occhiata complice a Margherita, poi richiamò gli altri due che si stavano ancora rotolando nella sabbia.
 La schiena di Giak sembrava una fettina panata.
 -Ragazzi, Lauretta non vuole spogliarsi. . . Veloci! Lei al centro e tutti in acqua
 I quattro si misero ai lati di Lauretta, la agganciarono e, tutti insieme, fecero forza per trascinarla in acqua con pantaloncini e tutto.
Lauretta squittiva, ma non riusciva a liberarsi dalle prese d’acciaio di Cicca, Giak e Riccardo.
 -Bella!!!
In cinque finirono in acqua, tra spruzzi gelidi e ondate fredde.
 Ridevano: avevano aspettato quel momento per mesi e, ora che era arrivato, toccavano il cielo con un dito.
 Avevano dimenticato tutto quello che avevano passato durante l’anno scolastico: la sofferenza, la stanchezza, la tristezza. Tutto era scivolato meravigliosamente via, ed era proprio la speranza di un momento come quello che li aveva aiutati ad arrivarci.
 
 La pace regnava: si trovavano sotto le fronde di una pineta ora, erano da poco passate le tre del pomeriggio. Avevano appena finito di mangiare, le carte dei panini e delle pizze che avevano comprato giacevano appallottolate dentro un cestino dell’immondizia.
Davanti a loro la spiaggia libera, colorata dai loro teli da mare e da un paio di ombrelloni piantatati da qualche altra famiglia arrivata nel frattempo.
 Era quella fase di abbiocco post-pranzo, ma ovviamente nessuno aveva voglia di dormire; non ora che erano tutti insieme. Ci sarebbe stato tempo quella sera, dopo una doccia per lavare via la salsedine dai capelli.
 -Che pace. . . È uno di quei momenti che vorrei non finissero mai, questo- disse Margherita.
 -È uno di quei momenti in cui un’amaca ci starebbe tutta- sbadigliò Cicca.
 -Una bella amaca, tra un pino e l’altro. . . Sai che figata?
 -La prossima volta che torniamo qui - perché ci sarà una prossima volta-, mi porto dietro l’amaca di Giorgio. Ne ha una che quando la pieghi occupa pochissimo- disse Lauretta.
 -Giorgio, Giorgio. . . Ma non ti stava sulle palle?- chiese Giak.
 -Mi sta ancora sulle palle. Potrei ucciderlo da un momento all’altro. Ma, se lui si è preso mia madre, non vedo perché io non possa prendermi la sua amaca...
 Giorgio: la nuova fiamma della madre di Lauretta. Quello per cui si era fatta bella, la sera in cui Lauretta si iscrisse a Facebook.
 Non era stato facile: fu uno dei momenti più imbarazzanti per lei, per sua madre e più di tutti per quel Giorgio, che non c’entrava niente ma che ci era voluto rientrare per forza.
Non era stato simpatico a Lauretta fin dal primo incontro: lo trovava esteticamente spiacevole (ma qualcuno disse che, dopo i quaranta, sei così disperata da non mettere più in conto la bellezza, purché fosse quello giusto) e immensamente stupido.
Non le piaceva la sua presenza e odiava il fatto che, quando le rivolgeva la parola, provava a sembrare giovanile... Perché effettivamente non ci riusciva. 
Odiava trovarselo tra i piedi ogni fine settimana.
E, più di tutto, odiava quando usciva il discorso di Giorgio con suo padre: lui cercava di non sbilanciarsi troppo (con la ex moglie cercava sempre di salvare quella parvenza di civiltà, davanti alla figlia) ma ogni volta l’astio traspariva dalla sua voce.
Eppure Giorgio esisteva ed amava, corrisposto, sua madre. Ci erano voluti diversi mesi perché la cosa diventasse ufficiale, ma ora il guaio era fatto. E Lauretta non aveva potuto far altro che adeguarsi.
Non le piaceva per niente, ok; ma l’aveva capito da sola che avrebbe dovuto farsene una ragione ed abituarsi... O forse, a farglielo indirettamente capire, era stato lo sguardo con cui a volte aveva beccato sua madre a guardarlo. Uno sguardo pateticamente innamorato e finalmente sereno.
Davanti a uno sguardo del genere, con quale cuore di figlia avrebbe potuto continuare a tenerle il muso?
 -E poi è quasi bello essere di nuovo in tre a tavola- Lauretta si strinse nelle spalle.
 -Dipende... L’altro giorno eravamo anche noi in tre a tavola. Io, e i due pidocchi- ghignò Giak.
 -Che dolci!- esclamò Margherita.
 -Ma che! Lucio è solo un coglione. A momenti non lo steccavano, sapete?
 -Be', da che pulpito!- sghignazzò Cicca.
 -Un conto è in quinto ginnasio, un conto in terza media! Deve essere proprio stupido...
 -Come mai eravate solo voi tre?
 -Non ricordo, probabilmente mamma era da nonna.
 La risposta bastò a tutti, senza che ci fosse bisogno di chiedere dove fosse invece il padre: alla fine, era successo.
 Alla fine i genitori dovevano essersi accorti che la situazione stava degenerando. Forse li aiutarono a capirlo i voti di Lucio e Giak, forse ci riuscirono da soli... In ogni caso, un bel giorno si erano guardati negli occhi e avevano pensato, nello stesso momento, “così non può continuare”.
 Avevano continuato a discutere per mesi: allo stesso modo in cui Lauretta si era fatta una ragione della presenza di Giorgio, Giak si era dovuto adattare a quella condizione di guerra continua. Ormai la dava per scontata: non gli rendeva la vita piacevole, ma, con i fratellini, si era adattato. Eppure pian piano si erano accorti che le discussioni si andavano facendo sempre più pacate… fino a quando non cessarono del tutto: ci fu una tetra serata attorno al tavolo, parecchio imbarazzo e lo sguardo perso di Daniele (l’unico che, in fondo, non aveva mai capito cosa stesse succedendo). Era finita.
Cominciò quello che sarebbe stato il periodo più stancate per tutti i membri di quella famiglia che si preparava a non essere più tale: Giak e Lucio aiutarono il padre a caricare la macchina scatolone dopo scatolone, fino a quando un piccolo appartamentino affittato in periferia non fu pieno degli effetti che subito avevano abbandonato la loro vecchia casa, e da allora i tre fratelli si erano andati abituando ad una buffa routine che li vedeva ora tutti attorno alla madre (che in quel periodo si sentì tanto mamma chioccia, circondata da quei ragazzotti che forse, pensava sentendosi un po’ in colpa, stavano venendo su un po’ più tristi del necessario) e ora stretti nell’appartamento del padre (il quale invece più che in colpa si sentiva preoccupato: sperò, in quel periodo più che mai, che ognuno dei suoi ragazzi fosse destinato ad incontrare una donna in grado di amarli per sempre, in futuro).
 Era una condizione un po’ penosa, ma Giak non dubitava che presto ci avrebbe fatto l’abitudine: non era la fine del mondo, dopotutto. Dopotutto era il giusto prezzo da pagare, pur di non sentire i suoi litigare ogni giorno più ferocemente. Magari non era il meglio che potesse augurarsi, no, nient’affatto; eppure da quel momento in poi per lo meno ricominciò ad assaporare uno spiraglio di tranquillità, lo stesso di cui aveva sentito la mancanza per tutti gli ultimi mesi.
 
 E tranquilli lo erano tutti: Lauretta e Giak, Cicca, Riccardo, Margherita.
 Cicca era felice perché, nella loro condizione di passaggio da quinto ginnasio a primo liceo, non solo non avevano compiti per le vacanze, ma avrebbero anche cambiato professori. Era fermamente deciso a non lasciare che suo padre si fermasse a parlare con quelli nuovi, e si sentiva estremamente positivo nei confronti della vita. Tanto da essersi appena accorto di aver finito il drum per le cicche, e…
 Margherita non aveva mai avuto eccessivi problemi: l’unico suo cruccio era stato Marco, ma ultimamente non l’aveva più visto.
In realtà io so che entro giugno già aveva trovato una bionda, devotissima ma decisamente meno casta di Margherita, e si era sistemato come un sultano nel suo harem.
 Riccardo stava cominciando a trovare accordi con quel suo fratello così popolare. Ora che aveva la maturità stava studiando come non aveva mai studiato in cinque anni. . . E già da tempo aveva cominciato a dare un’occhiata ai test d’ingresso di diverse facoltà universitarie. Era talmente preso che ci era servito proprio Riccardo per ricordargli della sua chitarra.
 -Non ho tempo- aveva risposto Mauro.
 -E Bianca Glossa?
 Mauro non aveva risposto. A quel punto Riccardo era andato in camera, aveva preso la cinta dalla fibbia grande che tanto piaceva a Mauro e glie l’aveva data.
 -Vattela a riprendere. Tanto, lo sai: l’unico modo per essere bocciati alla maturità, una volta che ti hanno ammesso, è salire sul banco e sparare agli esaminatore esterni. 
 Mauro aveva alzato lo sguardo, incredulo. Stava per sorridere, quando si ricordò che lui era un duro e un figo, soprattutto davanti al fratello minore.
 Però da quel giorno la cinta la condivisero volentieri.
 
 Vedendoli così, sotto il primo sole estivo, i nostri cinque eroi mi sembrano uno più bello dell’altro.
 Incredibilmente belli e incredibilmente forti.
 Rimasero tutto il giorno in spiaggia, perché avevano deciso di riprendere l’ultimo autobus per tornare: al diavolo le storie che avrebbero fatto i loro genitori.
  Durante quella giornata, i cinque dimenticarono davvero tutto quello che avevano sofferto quando a Polverano era freddo. Lo dimenticarono: i periodi scuri saranno pure lunghi, ma quelli belli sono così intensi da cancellarli e così potenti da dare la forza per affrontarne cento, di periodi scuri. Bastava saperseli portare dentro.
 Ce ne sarebbero stati, oh sì: aspettate solo che cominci il nuovo anno scolastico, vedrete quanto altro dovranno patire Lauretta, Giak e gli altri.
Dovranno affrontare l’anno più difficile del liceo, per niente preparati da un ginnasio che era stato abbastanza carente.
Dovranno vedersela con le famiglie e con la salute: roba così tosta che rimpiangeranno i fatti narrati in questa storia.
Ma la loro era una forza che veniva da dentro, scolpita e modellata da un crudelissimo scalpello. 
Non importava cos’altro avrebbero dovuto affrontare: pur non conoscendo quello che il futuro aveva in serbo per loro, si sentivano pronti a viverlo. Era già un bel passo avanti.
 -Ho finito il drum- annunciò Cicca. –Chi è l’anima pia che mi accompagna a ricomprarlo?
 -Cicca, abbi pietà, siamo in pieno svacco…- mormorò Margherita.
Cicca, che nel frattempo si era già alzato, sospirò. –Pigri! Andrò da solo…
Stava già per attraversare la pineta, diretto alla tabaccheria più vicina, quando si alzò rapidamente anche Lauretta: -aspetta, ti accompagno io.
 Il vecchio Cicca sentì la gola seccarglisi mentre si rendeva conto che Lauretta, sola, stava avvicinandosi proprio a lui. Al diavolo la maglietta bianca che lasciava indovinare la sagoma del costume, al diavolo i pantaloncini calzati senza sforzo da quelle due belle gambine: Cicca, per un istante che gli parve terrificante e pericolosamente lungo, rimase incantato da due occhi vispi e, finalmente, sorridenti. Deglutì un nodo alla gola.
 -Grazie. Già che ci siamo, devo anche dirti una cosa… 


 
 
 
  


 Fatto: "L'Allegra Brigata" è finita... o forse no: se potessi stringermi la mano da sola lo farei anche solo per la conclusione che mi è venuta in mente. Non avreste mica voluto che scrivessi anche gli esiti del discorso di Cicca e Lauretta, vero? Mi piace che resti a libera interpretazione. Credo dia più gusto.
Se la mossa non è di vostro gradimento... venitemi pure a cercare, ma sappiate che sono abbastanza crudele per non rivelare cosa potrei aver progettato.
Spero che la storia non abbia annoiato, spero di non aver ingrossato le file del pattume che si trova già fin troppo facilmente, spero (udite udite) che abbia lasciato qualcosa. L'ho scritta anni fa ormai -anche se, almeno, non ero più al ginnasio come i protagonisti; non so quanto di me vi abbia messo dentro, però di sicuro pochi dei sentimenti descritti sono inventati. Per il resto... non ho mai passato il capodanno fuori senza che i miei lo sapessero, ma in compenso per sentirmi più vicina ai protagonisti ho preso un sacco di belle insufficienze a scuola. Evvai!
Non sono molto convinta dalla storia, però vederla così conclusa mi fa un certo effetto: ho cambiato casa due volte da quando ho scritto la parola "fine", eppure ogni volta in cui la rileggo mi pare di tornare indietro nel tempo. Cicca, Lauretta, Giak, Riccardo e Margherita sono lo specchio dei miei sedici/diciassette anni, dopottutto. 
Ringrazio tutti quelli che sono arrivati fino qui. Chi ha recensito (balsamo per il mio povero cuoricino, ripeto!), ma anche chi ha semplicemente letto. Non che non mi farebbe piacere ricevere un parere anche ora (siete ancora in tempo per sentirvi piovere addosso la mia gratitudine!), ma ho comunque apprezzato sapere che qualcuno, da qualche parte d'Italia, si è fermato un attimo dalle parti di Polverano. 
 Grazie a tutti per il sostegno e, ovviamente, mi auguro presto la pace nel mondo.
 

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