Vi era un tempo in cui eravamo bambini di Beatrix Bonnie (/viewuser.php?uid=83290)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il morbo della gelosia ***
Capitolo 2: *** Il corteo di compleanno ***
Capitolo 3: *** Sibili nella notte ***
Capitolo 1 *** Il morbo della gelosia ***
Novembre
1983
Non
appena bussarono alla porta di casa, il bambino si catapultò
in ingresso. Sull'uscio era appena apparso un signore distinto, con
un'espressione vivace e dei lunghi capelli biondi striati di grigio.
«Nonno!»
esultò il bambino, correndogli incontro e gettandosi tra le
sue braccia. L'uomo lo sollevò da terra e gli schioccò
un sonoro bacio sulla guancia. Il bambino gli rivolse un sorriso
entusiasta. «Sono
il tuo nipotino preferito, eh?»
gli chiese, sicuro che avrebbe ottenuto la solita risposta
affermativa. Era facile vincere in quella gara: era sempre stato
l'unico nipotino.
Ma
il nonno rispose una cosa del tutto inaspettata: «Laughlin,
caro, ora ho due nipotini preferiti».
Laughlin
aveva solo quattro anni, ma certi conti li sapeva già fare:
non si possono avere due cose preferite. Una e basta.
«Ma
sono io il tuo nipotino preferito... non possiamo essere in due!»
mugugnò sconsolato, mentre il nonno lo rimetteva a terra.
«Ma
ora che è nato il tuo fratellino Bearach, non posso mica
scegliere tra voi due» rispose il nonno con un sorriso.
Laughlin
si imbronciò, ma subito la sua attenzione venne rapita dalla
nonna, che era entrata in casa reggendo un cavallino a dondolo con un
grosso fiocco rosso. «È per me quello?»
domandò, con gli occhi che luccicavano in direzione del
regalo.
La
nonna gli scompigliò i capelli biondi con affetto. «No,
Laugh, tesoro. È per Bearach»
rispose con un sorriso.
«Ma
lui è piccolo!»
protestò il bambino, battendo i piedi a terra. «Non
ci può salire!»
«Tu
ce l'hai già il tuo cavallino a dondolo»
replicò la nonna, in un tono dolce ma fermo; non le piacevano
le scenate di gelosia.
«Ma
questo è più bello!»
esclamò Laughlin, incrociando le braccia al petto.
A
quelle parole, nonno Abharrach scoppiò in una risata. «Egoista
ed ambizioso. Sarai un meraviglioso Nagard al Trinity!»
commentò in tono compiaciuto, rivolgendo un sorriso al
nipotino.
«Tesoro,
non incoraggiarlo. A quest'età i bambini possono essere
terribilmente testardi»
lo rimproverò nonna Helvia, che invece non ci vedeva nulla di
buono nella rodente gelosia di Laughlin.
Per
fortuna in quel momento arrivò Eoin, che invitò i
genitori di sopra per vedere il piccolo. Nonno Abharrach prese in
braccio Laughlin e insieme alla moglie salì l'imponente
scalinata di marmo verso il piano superiore.
La
culla del piccolo Bearach era stata temporaneamente sistemata in
un'accogliente stanzetta arredata con tende leggere dai colori
delicati. Sotto un castello di tulle e lenzuola di lino, sbucava una
testolina pelata, con un ciuccio in bocca talmente grande da
coprirgli metà faccia. Dormiva placido, ignaro delle occhiate
curiose dei parenti che si affollavano intorno alla sua culla.
«È
delizioso! Tutto suo padre!»
stava dicendo una giovane signora con il pancione, seduta su una
seggiola comoda per via del suo stato interessante. Il suo tono
zuccheroso doveva essere dato dal fatto che fra qualche mese sarebbe
diventata madre anche lei e già si immaginava nell'atto di
presentare ai parenti una creaturina deliziosa come quella.
«È
un po' presto per dire a chi assomiglia»
commentò saggiamente il marito della signora.
«Vedremo
quando crescerà, cugino»
gli rispose Eoin con un sorriso. Era evidentemente orgoglioso di aver
dato alla famiglia un altro erede maschio e lo sarebbe stato ancora
di più se il piccolo avesse ereditato i tratti dei Maleficium,
ma certo era un po' troppo presto per dirlo.
Laughlin
si imbronciò. Avevano sempre detto a lui che assomigliava al
suo papà, e non solo fisicamente, ma anche perché aveva
dimostrato di essere particolarmente testardo e orgoglioso proprio
come lui. Adesso quel mostriciattolo voleva rubargli anche quel
primato?
Nonno
Abharrach si avvicinò alla culla, sempre tenendo in braccio il
nipote più grande. «Allora,
non ti piace il tuo fratellino?»
gli domandò con un sorriso.
Laughlin
sbirciò sotto le coperte, anche se sapeva benissimo che cosa
vi avrebbe trovato. «Assomiglia
ad una scimmietta spelacchiata»
commentò, storcendo il naso.
«È
perché è appena nato. Vedrai che crescendo migliorerà!»
gli rivelò il nonno, posandolo nuovamente a terra.
Laughlin
mise il broncio: tutti in quella stanza sembravano assolutamente
estasiati dal piccolo ragnetto nella culla e nessuno voleva dargli
retta. Forse, se avesse fatto qualcosa di fico, l'avrebbero
ascoltato.
Corse
in camera sua a prendere il manico di scopa giocattolo che gli
avevano regalato i suoi genitori per il quarto compleanno. Si alzava
da terra giusto mezzo metro, ma per il piccolo Laughlin cavalcarlo
era davvero emozionante. Si mise a cavalcioni e cominciò a
svolazzare per i corridoi della casa, fino alla stanza dove si
trovava la culla.
«Afferra
quella Pluffa!»
esclamò, immaginandosi nel bel mezzo di una partita di
Quidditch. Cominciò a schivare le gambe degli adulti e a
emettere suoni con la bocca, come se stesse guidando una scopa da
corsa: «Sfoosh!
Sfoosh!»
«Laughlin,
smettila di fare casino!»
lo rimproverò la madre Daire, riservandogli un'occhiataccia.
Laughlin
inchiodò la scopa ad un soffio dalla culla del fratellino.
L'aveva fatto apposta: voleva far prendere a tutti un bello spavento.
E poi, insomma, era stata una frenata davvero ganza!
«Laughlin!»
tuonò suo padre.
Alzando
gli occhi su di lui, il bambino capì di averla combinata
davvero grossa. Non aveva mai visto il suo papà così
arrabbiato. Scese lentamente dalla scopa e chinò il volto a
terra, stingendosi nelle spalle in una vera espressione di
pentimento.
Eoin
prese un profondo respiro: non voleva sgridare troppo Laughlin,
perché era ovvio che fosse un po' geloso del fratellino
neonato, ma non poteva nemmeno lasciar correre tutte le sue
bricconate. Gli riservò uno sguardo severo, poi ordinò:
«Vai in camera tua. Subito».
Col
cavolo che ci andava in camera
sua!
Non
aveva fatto niente di male, non si meritava di essere punito.
Laughlin si limitò a portare in camera il manico di scopa
giocattolo, poi sgattaiolò verso il piano di sotto.
«Il
signorino non dovrebbe disobbedire al papà»
esclamò una vocetta proveniente dal salotto. Dopo una frazione
di secondo, la testa di un elfo domestico fece capolino dalla porta.
Aveva uno sguardo perforante puntato su Laughlin. Sembrava proprio
che lo stesse accusando.
«Vai
a fare la cacca, Lappy!»
rispose Laughlin con un ghigno. Gli piaceva dire in continuazione
“cacca”, in quel periodo. Era qualcosa di disgustoso che
lo faceva sentire grande.
«Perché
il signorino fa il maleducato?»
mugugnò l'elfo domestico, dispiaciuto non tanto per l'offesa
in sé, quanto per il fatto che provenisse dal padroncino. «È
così un bravo bambino, quando vuole».
«Be',
ora non vuole!»
replicò Laughlin con audacia, poi se la svignò fuori di
casa.
Il
freddo pungente di novembre lo investì in pieno, ma Laughlin
lo ignorò. Dato che non pioveva, anche se il cielo era
decisamente minaccioso, il bambino era intenzionato a divertirsi un
po' all'aria aperta. Avrebbe potuto cercare gli gnomi, oppure tentare
di staccare la coda alle lucertole, oppure fingere di essere un mago
esploratore pieno di talento. Ma dopo un po' di tempo, tutti quei
giochi gli vennero a noia. Si sedette sconsolato su un masso e si
osservò le mani piene di graffi per aver rovistato tra i rovi
alla ricerca degli gnomi. Gli dispiaceva di aver litigato con Lappy;
visto che si annoiava, avrebbe potuto giocare con lui, se solo non
gli avesse detto quella cosa della cacca.
Cacca,
cacca, cacca! pensò rabbioso, raccogliendo un sasso da
terra e scagliandolo tanto lontano quanto permettevano le sue braccia
di bambino. Era tutta colpa di quella scimmietta nella culla! Senza
di lui, sarebbe stato ancora il nipotino preferito del nonno, la
nonna gli avrebbe portato un grosso regalo e suo papà non si
sarebbe arrabbiato con lui. Quanto avrebbe voluto liberarsene!
«Ehi,
ciao!»
esclamò una vocetta sottile alle sue spalle.
Laughlin
si voltò per ritrovarsi difronte uno strano essere con il muso
peloso, due enormi orecchie da coniglio, degli strani baffi pendenti
e due dentoni enormi. Il bambino sgranò gli occhi, a metà
tra lo spaventato e il sorpreso. Ma la creaturina aveva una faccia
simpatica. «Che
cosa sei?»
gli chiese, allungando la sua mano verso il musetto dell'animale.
«Io
sono un phooka, amico»
rispose questo, con un gran sorriso.
Laughlin
notò che aveva anche una lunghissima coda. Cercò di
afferrarla al volo, ma la creaturina la faceva saettare nell'aria
troppo velocemente. «Tu
sei mio amico?»
si informò Laughlin, abbandonando il proposito di prendergli
la coda.
Il
phooka sorrise di nuovo. «Certo.
Tutti i phooka sono amici dei bambini».
Laughlin
soppesò l'idea per un attimo, ma poi si arrese all'evidenza:
dopo tutto aveva un muso simpatico. «Allora
giochi con me, signor Phooka?»
gli chiese speranzoso.
«No,
però ho una bella proposta da farti»
gli disse il phooka, con uno sguardo d'intesa.
«Che
proposta?»
domandò Laughlin, assumendo un'aria da grande. Anche se non
era affatto sicuro del significato della parola “proposta”.
Il
phooka sorrise e, d'un tratto, Laughlin non lo trovò più
così simpatico. Faceva un pochino paura, in effetti.
«Una
proposta per liberarti del tuo fratellino».
Laughlin
non era del tutto sicuro di fare la cosa giusta. Il signor Phooka
l'aveva rassicurato dicendo che i suoi genitori non si sarebbero
accorti di nulla, che lo spiritello che avrebbero usato per lo
scambio sarebbe stato del tutto identico al rospetto... ma Laughlin
aveva come la sensazione di essere sul punto di compiere un grosso
guaio.
Molto
grosso.
Entrò
di soppiatto nella stanza del fratellino. L'oscurità avvolgeva
ogni cosa, ma la finestra a fianco della quale era posta la culla,
lasciava entrare fiotti di biancastra luce lunare. C'era una luna
piena spettacolare, gigantesca come una Pluffa, che illuminava i
prati di quel verde così intenso da lasciare senza fiato.
Laughlin rabbrividì al pensiero dei lupi mannari che si
aggiravano nelle foreste e ululavano al cielo.
Fece
un profondo respiro e si tranquillizzò. I suoi occhi si
puntarono sulla culla: non si sentiva nessun suono, se non il
debolissimo respiro del neonato.
Notando
che non riusciva a vedere dentro la culla, Laughlin prese una sedia e
ci si arrampicò sopra. Il suo fratellino era il ragnetto di
sempre, sepolto da coperte e pizzi che si alzavano e si abbassavano
piano seguendo il suo respiro. Per un attimo Laughlin ne fu
incantato, ma poi ripensò a tutto quello che il neonato gli
aveva portato via e ritrovò la sua determinazione.
«Fidati,
con il tempo peggiora: per i tuoi genitori esisterà solo lui e
si dedicheranno solo a lui, mentre tu verrai presto dimenticato»
gli aveva detto quella mattina il signor Phooka.
Laughlin
osservò il fratellino con una smorfia e strinse i pugnetti.
«Addio,
Bearach!»
mormorò con cattiveria. Dopodiché si calò sulla
culla e lo prese in braccio.
Bearach
emise uno sbuffo, ma non si svegliò.
«Molto
bene, amichetto!»
esclamò la voce del phooka, comparso in quel momento fuori
dalla finestra. «Ora
dammi il tuo fratellino!»
Quando
Laughlin, quella mattina, gli aveva chiesto perché non se lo
prendeva da solo, il signor Phooka gli aveva risposto che non gli era
permesso di entrare nelle case dei maghi per via delle protezioni che
questi vi imponevano. Per questo aveva bisogno del suo aiuto.
Così
il bambino scese dalla sedia e aprì la finestra della stanza,
per compiere lo scambio. Ma proprio mentre era sul punto di tendere
il fagotto al signor Phooka, Bearach sbadigliò e scalciò
appena. Allungò una minuscola manina, la aprì e poi la
serrò attorno a un dito di Laughlin.
Laughlin
si immobilizzò di colpo. Osservò il fratellino come se
lo vedesse per la prima volta: era piccolo, paffuto e tenero. Le sue
guanciotte rosse, il nasino all'insù, gli occhietti chiusi...
gli veniva voglia di mangiarselo di baci.
Improvvisamente
Laughlin realizzò che non poteva fare quello scambio. Si
strinse il fratellino al petto e indietreggiò di un passo.
«Non
voglio più»
si giustificò con il signor Phooka.
Ma
questo non sembrò prenderla molto bene. «Dammi
il neonato!»
ringhiò con una voce che non aveva più nulla di
simpatico.
Laughlin
indietreggiò ancora, in direzione della porta. Scosse la testa
con determinazione, anche se cominciava ad avere paura.
«Dammelo!»
«No!»
gridò Laughlin.
Fu
allora che il phooka cambiò aspetto. Divenne enorme,
gigantesco; gli spuntarono due corna ricurve e i denti divennero
zanne. Un mostro.
Laughlin
strillò di paura e scappò in direzione della porta, ma
questa sbatté e si chiuse magicamente a chiave. Con tutto quel
trambusto, Bearach si svegliò e cominciò a piangere
come un disperato tanto che Laughlin fu costretto a stringerlo a sé
per tentare di calmarlo.
«Dammi
il neonato!»
tuonò il phooka, facendo tremare i vetri della finestra.
Laughlin
picchiò contro la porta con foga, sempre tenendo in braccio il
fratellino, il più lontano possibile dal mostro.
Il
phooka cominciò a fare strane magie: i mobili della stanza
presero a tremare violentemente, come se qualcuno li scuotesse con
forza, e la culla si ribaltò a terra, per poi trasformarsi in
un grosso serpente.
«Mamma!
Papà!»
gridò Laughlin, con voce terrorizzata, prendendo a pugni la
porta.
Improvvisamente
sentì provenire dal corridoio dei passi e poi delle voci.
«Laugh,
amore, che succede?»
domandò la madre, cercando di aprire la porta.
«Presto,
mamma, presto!» piagnucolò il bambino, voltandosi a
guardare il serpente che strisciava nella sua direzione.
«È
chiusa a chiave»
sentì dire da sua mamma. «Eoin,
vai a prendere la bacchetta!»
«Mamma,
ti prego!»
supplicò il bambino, terrorizzato. Il serpente gli era ormai
addosso, Bearach strillava disperato, il phooka ghignava soddisfatto.
Laughlin
gridò.
E,
magicamente, il serpente tornò ad essere una culla, i mobili
smisero di tremare e la finestra si chiuse di scatto, sbattendo fuori
il phooka.
«Alohomora»
mormorò il padre dal corridoio e la porta si aprì.
Daire
si gettò nella stanza e corse ad abbracciare i figli.
Eoin
osservò il caos che regnava lì dentro e intuì
cosa fosse successo. Guardò verso la finestra e, una frazione
prima che sparisse, riuscì a intravedere il volto di un
phooka.
«Oh
cielo, Laugh, tesoro, tutto bene?»
domandò agitata la madre, vedendo la culla a terra e il
piccolo Bearach che piangeva disperato tra le braccia del fratello.
Laughlin
mugugnò qualcosa, mordendosi il labbro inferiore per imporsi
di non piangere. Ma, nonostante tutti i suoi sforzi, due grossi
lacrimoni gli attraversarono le guance.
Daire
allora gli prese dalle braccia il fratellino e lo cullò
teneramente per tentare di calmarlo. Dopo poco, Bearach smise di
piangere e si acciambellò accanto al seno della madre.
«Che
cosa è successo?»
chiese la donna, con un tono più dolce.
Laughlin
tirò su con il naso. «Un
phooka voleva rapire Bearach»
mormorò infine, guardandosi bene dal far notare che era stato
lui ad accettare la proposta e a offrire al mostro il fratellino, in
cambio di uno spiritello.
«E
tu l'hai salvato?»
gli domandò Daire, riservandogli quel sorriso tenero e
amorevole che solo una madre sapeva fare.
Laughlin
si strinse nelle spalle. Almeno ebbe il buon gusto di non fare
l'eroe. «Ci
ho provato»
mormorò con un mezzo sorriso. Ma quando si voltò verso
suo padre, capì che la faccetta innocente non sarebbe bastata.
Aveva
un'aria seria di uno che sapeva. Come se avesse intuito quello
che doveva essere successo, come se avesse capito che lui aveva
stretto un patto con il phooka per liberarsi del fratellino.
Laughlin
abbassò gli occhi a terra, consapevole che preso sarebbe
arrivata una strigliata con i fiocchi. Questa volta l'aveva combinata
davvero grossa.
Eppure,
quando osò alzare nuovamente lo sguardo sul padre, vide che un
debole sorriso gli incrinò le labbra. Non era più
arrabbiato, l'aveva perdonato. Fu solo quando Laughlin provò a
rispondere timidamente al sorriso, che suo padre gli si inginocchiò
di fronte e lo abbracciò.
«Sono
fiero di te, Laughlin» gli sussurrò l'uomo, prendendolo
per le spalle. «Hai fatto la scelta giusta e hai protetto il
tuo fratellino da quel phooka. È così che si comportano
i fratelli più grandi: difendono i più piccoli»
gli rivelò, con uno sguardo intenso.
Laughlin
sorrise e tirò su con il naso. «Gli voglio bene»
si azzardò infine a dire. «Anche se è un po'
bruttino e piange tanto» aggiunse poco dopo, giusto per mettere
le cose in chiaro.
Eoin
si lasciò sfuggire un sogghigno. «Tutti noi gli vogliamo
bene, perché è il nuovo arrivato nella nostra famiglia»
spiegò poi, con semplicità, per essere capito da un
bambino di quattro anni.
Laughlin
annuì, ormai consapevole e rassegnato che non poteva cacciare
quella scimmietta di casa. Perché un pochino gli voleva bene
anche lui.
«Ma,
Laughlin» lo richiamò suo padre, guardandolo con
intensità. «Noi non smetteremo mai e poi mai di amare
anche te».
A
quelle parole, Laughlin scoppiò a piangere. Era stato un
bambino cattivo: come aveva potuto pensare che i suoi genitori non
gli volevano più bene? Mamma e papà erano sempre così
buoni con lui...
«Oh,
papà!» esclamò Laughlin, gettandogli le braccia
al collo. «Vi amo anch'io!»
E
da allora non ne avrebbe più dubitato.
Ecco
qui la prima one-short di questa mini raccolta!
Un
carinissimo Laughlin di quattro anni è il nostro protagonista;
è stato molto divertente calarsi nei suoi panni, quando è
geloso di Bearach, quando si diverte a ripetere la parola cacca,
quando vuole che la nonna gli porti un regalo... insomma, tutte cose
che fanno i bambini di 4 anni! Non è tenerissimo Laughlin? *-*
Martedì
prossimo, nel pomeriggio, la one-short dedicata a Mairead, oltre alla
spiegazione di come è nata questa raccolta. Edmund chiuderà
il ciclo.
Grazie
a tutti! A presto,
Beatrix
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Capitolo 2 *** Il corteo di compleanno ***
Ottobre
1984
Una
bambina riccioluta di nome Rose si avvicinò al gruppo dei maschi e
tirò il cappellino di carta, rimasuglio della festa di compleanno,
all'unica femmina che stava giocando con le macchinine.
«Mairead,
perché non vieni con noi?» le domandò imbronciata. «Nessuna vuole
fare Ken».
«Neanche
io voglio fare Ken» replicò l'altra, lanciandole di nuovo il
proiettile improvvisato.
«Ma
tu giochi sempre con i maschi!» sbottò Rose. Aveva bisogno di lei,
perché tutte le sue amiche volevano fare Barbie, ma serviva qualcuna
che manovrasse Ken. Chi meglio di quel maschiaccio di Mairead?
La
bambina alzò le spalle. «Perché sono più belle le macchinine»
rispose, sventolando la sua Ferrari sotto il naso dell'altra.
«Ci
puoi scommettere!» intervenne George, migliore-amico-per-sempre,
nonché fidanzatino ufficiale di Mairead. Dopodiché allungò la mano
verso la bambina per farsi dare il cinque.
Rose
scosse i riccioli biondi e se ne andò imbronciata.
«Bambini,
forza, mettete via che è ora di andare!» chiamò la maestra,
battendo le mani. I piccoli sbuffarono, ma furono costretti a mettere
in ordine i giocattoli che avevano utilizzato.
«Domani,
però, la uso io la Ferrari» si lamentò George, mentre riponeva le
macchinine nello scatolone.
Mairead
arricciò il naso. «No, ormai è mia e la uso io».
«Oggi
te l'ho lasciata solo perché era il tuo compleanno» rivelò il
bambino, spingendo lo scatolone al suo posto.
«Ma
io sono la tua fidanzata e quindi devi essere carino con me» rispose
Mairead, con un sorriso angelico, che nascondeva a stento la malizia
dei suoi occhi.
«Non
sono più tanto sicuro di volerti sposare» borbottò George,
meditabondo. I grandi progetti sul futuro che solo un bambino di
cinque anni poteva fare, non gli sembravano più così rosei, ora.
Mairead sapeva essere molto invadente, quando voleva.
«Che
ti ha regalato il tuo papà per il compleanno?» domandò George,
tanto per cambiare argomento.
A
quelle parole, Mairead sfuggì il suo sguardo e cominciò a
giocherellare con l'orlo del suo grembiulino verde. «Non lo so. Non
me l'ha ancora dato...» mormorò con un sospiro. In realtà, suo
padre Reammon non le aveva nemmeno fatto gli auguri, quella mattina.
Possibile che si fosse dimenticato? Non era una cosa strana, visto
che nonna Joey diceva sempre che non perdeva la testa solo perché ce
l'aveva attaccata al collo, ma di solito si ricordava sempre dei
compleanni. Certo, una volta si era scordato del proprio, ma era
stato un caso limite. Quelli degli altri, se li ricordava sempre.
«Forza,
bambini, andiamo fuori che sono arrivate le mamme!» esclamò la
maestra, mentre i piccoli si riversavano fuori urlando.
Anche
Mairead corse verso la scalinata esterna ma, guardandosi in giro,
vide che non c'era nessuno per lei. Suo papà non era venuto a
prenderla. Di nuovo.
Allora
Mairead si sedette con aria sconsolata sul primo gradino, i gomiti
appoggiati sulle ginocchia e il mento sorretto dai palmi.
«Puoi
venire a casa con noi, se vuoi» mormorò George, avvicinandosi con
la sua mamma, una bella signora dall'aspetto gentile.
«Vieni
da noi a fare merenda e poi chiamiamo il tuo papà perché ti venga a
prendere lì» propose la madre di George, con un sorriso sincero. Le
faceva così tanta pena, quella bambina sempre abbandonata a sé
stessa. Certo, il padre stava passando un gran brutto periodo, ma
questo non gli dava il diritto di trascurare la figlia. Era una
creaturina indifesa, dopotutto.
«No,
grazie, signora Anderson. Il mio papi arriverà» rispose Mairead,
cercando di dare alla sua voce un tono convinto. In realtà, sperava
che arrivasse.
«Come
vuoi» mormorò mortificata la signora Anderson. «Se ti servisse
qualcosa, non esitare a chiederlo, va bene?» le disse, prendendo il
figlio George per mano.
«Grazie»
rispose Mairead con un sorrisetto tirato.
Lentamente,
tutti i bambini dell'asilo furono recuperati dai rispettivi genitori
e la scalinata d'ingresso restò vuota, ad esclusione di Mairead che
se ne stava seduta sui gradini a guardare il parco con aria mogia.
Proprio
in quel momento, la maestra e una bidella uscirono dall'asilo e si
avvicinarono alla bambina. «Mairead, tuo padre?» le chiesero. La
piccola si strinse nelle spalle.
«Meg,
per favore, vai dentro a chiamarlo al telefono» sbottò allora la
maestra, con uno sbuffo rassegnato.
Ma
Mairead mugugnò avvilita, perché sapeva che il suo papà non
avrebbe risposto: al momento dell'iscrizione all'asilo, Reammon aveva
compilato la casella del numero di telefono con delle cifre a caso,
dal momento che loro non ce l'avevano. Era un attrezzo Babbano,
dopotutto.
La
bidella, infatti, tornò poco dopo dicendo che suonava occupato.
La
maestra sbuffò. Era la terza volta in quindici giorni che il signor
Boenisolius arrivava in ritardo a prendere la figlia ed era arrivato
il momento di porre rimedio a quella situazione. Non erano lì ad
aspettare i suoi comodi, insomma! Va bene, la morte della moglie lo
aveva scosso, ma quella bambina non poteva essere abbandonata a se
stessa. Aveva bisogno di suo padre, santo cielo!
Invece
lui era sempre in giro, chissà dove. Era sempre stato un po' strano,
il signor Boenisolius, con quella sua faccia stralunata. Non si
sapeva neanche bene che lavoro facesse... a volte tornava a casa con
ferite ed escoriazioni. Magari se ne stava nei bar ad ubriacarsi e
faceva a botte con i clienti, mentre la figlia restava da sola...
«Mio
papà non è un ubriacone!» sbottò Mairead, con foga.
«Come,
scusa?» domandò la maestra, colta alla sprovvista. Si era persa nei
propri pensieri, ma le pareva che la bambina avesse detto qualcosa
come... no, impossibile.
«Ho
detto che mio papà non è un ubriacone!» protestò la piccola,
incrociando le braccia al petto.
La
maestra rimase pietrificata. «Io... non ho mai insinuato nulla del
genere» si giustificò, con un risolino stiracchiato. Stava solo
pensando quelle cose, com'era possibile che Mairead le avesse
sentite? Non è che, per caso, aveva espresso ad alta voce i suoi
pensieri?
«Mio
papà mi vuole bene!» borbottò Mairead, mettendo il broncio.
«Ma
certo» le rispose dolcemente la maestra.
Povera
piccola! Così ingenua! Bisognava intervenire, fare qualcosa, prima
che fosse troppo tardi. Sarebbe stato proprio il caso di portarla via
da quel padre degenere. I servizi sociali avrebbero potuto fare
qualcosa, magari affidarla ad una famiglia che l'avrebbe ricoperta di
amorevoli attenzioni. Ricordandosi di lei.
La
maestra guardò l'orologio: era passato un quarto d'ora dall'orario
di chiusura; giusto in tempo per chiamare la polizia e accusare il
signor Boenisolius di abbandono di minore.
«No,
per favore, non lo fare!» piagnucolò Mairead, aggrappandosi ai
jeans della maestra. «Loro mi porteranno via da papà! Io non
voglio!» strillò la bambina, scoppiando a piangere.
«Mairead,
tesoro, è tutto a posto» cercò di consolarla la maestra, ma la
piccola singhiozzava sempre più forte.
«Non
è vero! Tu vuoi chiamare la polizia! Non lo fare, o mi porteranno
via da papà e lui è l'unica cosa che mi resta da quando mamma è
volata in cielo!» strillò la bambina, tirando su con il naso.
«Ma,
tesoro, avrai un'altra bella famiglia» provò a dire la maestra, con
un sorriso.
«Io
non voglio un'altra famiglia! Io voglio il mio papà!»
«Ma
lui non è qui» rispose con durezza la maestra. «Si dimentica
sempre di te e non è così che dovrebbe comportarsi un padre. È ora
di porre fine a questa penosa situazione» decretò e con quelle
parole fece un cenno alla bidella perché andasse a chiamare la
stazione di polizia.
«Reammon,
sei sicuro di questa cosa?»
domandò un uomo panciuto, con un paio di grossi baffi e le guance
piene.
Un
altro uomo, parecchio più giovane, vestito con camicia beige e
pantaloncini con le bretelle nonostante l'aria fresca di inizio
ottobre, osservava il tutto con aria seria. «Assolutamente
sì, Lorenzo».
«Non
è un tantino contro lo Statuto di Segretezza Internazionale?»
si informò quello di nome Lorenzo, mettendosi le mani in tasca con
aria rassegnata: sapeva che era inutile discutere con l'amico quando
si metteva in testa qualcosa.
Reammon,
infatti, si strinse nelle spalle con disinteresse. «Nah...»
rispose, ma poi ridacchiò «Ok, forse giusto un
pochino...»
ammise, con gli occhi verdi che brillavano per la furbizia. «Ma
tanto ci sarà solo quella impicciona della sua maestra! E poi i
Babbani non riconoscono la magia nemmeno se se la vedono davanti al
naso».
«Se
ci cacciamo nei guai, Ray, io ti ammazzo» promise Lorenzo,
scrutandolo dall'alto in basso.
Reammon
soffocò una risatina nervosa. «Andiamo, quando mai sei finito nei
guai per colpa mia?»
Lorenzo
finse di grattarsi il mento con aria pensierosa. «Fammi
riflettere...»
mormorò, alzando gli occhi al cielo. «Multa
per Creazione di Passaporta non Autorizzata ti dice qualcosa?»
«Ma
io non potevo sapere come funzionano le leggi italiane!»
replicò Reammon, con una risata. Si ricordava benissimo l'occasione
in cui l'amico Lorenzo era stato multato: era stato ormai otto anni
fa, quando Reammon aveva escogitato una caccia al tesoro attraverso
tutto il mondo per chiedere la mano di Mary. Effettivamente era stata
una cosa folle, ma quanto ne era rimasta colpita Mary! Se avesse
potuto tornare indietro, Reammon l'avrebbe rifatta da capo. Multa
compresa.
«Ah,
e quella volta in cui hai perso il reperto archeologico per il quale
avevamo scavato almeno una decina di aree?»
chiese allora Lorenzo, incrociando le braccia al petto. Ma sotto i
suoi enormi baffoni castani, si vedeva che stava sogghignando.
Reammon
scosse la testa. «Non
l'avevo perso... l'avevo solo messo in un posto che non ricordavo
esattamente quale fosse!»
rispose, cercando di apparire come la raffigurazione dell'innocenza.
Lorenzo
sospirò rassegnato. «Non
cambierai mai, Ray»
commentò, ma dal suo tono di voce, pareva piuttosto convinto che
l'attuale versione di Reammon fosse anche la migliore. Infatti, poco
dopo soggiunse: «Sei
un bravo bischero, figliolo. Nessuno penserebbe mai di mettere in
piedi una cosa del genere solo per festeggiare un compleanno».
Reammon
rivolse all'amico un sorriso di gratitudine. «Lo
so, ma è per la mia bimba. Voglio che allontani tutti i brutti
pensieri, voglio che sia di nuovo spensierata e felice»
spiegò, con un tono di voce doloroso. Doveva fare di tutto per
cancellare quella terribile immagine dagli occhi della sua piccolina:
sua madre, a terra, gli occhi vitrei rivolti al cielo. Assassinata.
Doveva
aiutarla a dimenticare e ad andare avanti.
Lorenzo
gli mise una mano sulla spalla, nel tentativo di consolarlo. Aveva
perso la moglie solo pochi mesi fa, eppure era lì a farsi in quattro
per la figlia. Davvero un bravo bischero.
Reammon,
finalmente, riprese a sorridere: ora doveva pensare solo a Mairead,
la sua piccola perla. Si voltò verso Lorenzo con nuova energia.
«Direi che
possiamo partire»
esclamò, mentre un lampo di furbizia attraversava i suoi occhi
verdi. «Che
il corteo abbia inizio!»
Mairead
era arrabbiata. Con il suo papi, perché era in riardo di quasi
mezz'ora, con la maestra che aveva insistito per chiamare la polizia,
e con il poliziotto grassone che era arrivato in bicicletta insieme
alla sua collega e continuava a farle domande noiose su suo padre.
«Succede
spesso che lui si dimentichi di venire a prenderti?» chiese il
ciccione, accarezzandosi i baffi.
«No!
Lui... non si è proprio dimenticato» sbottò Mairead, con
uno sbuffo. «È solo un po' sbadato».
La
poliziotta più giovane aveva l'aria gentile, ma continuava a
scrivere appunti sul suo taccuino per ordine dell'altro.
«Dimenticarsi della figlia non è sbadataggine, tesoro» le disse
con un sorriso dolce. «È contro la legge».
«Che
cos'è questa musica?» sbottò d'un tratto il poliziotto ciccione,
tendendo l'orecchio.
In
effetti, una strana melodia riempiva l'aria. «Sembrano... cornamuse»
sussurrò Mairead, affascinata. Trovava il suono di quegli strumenti
incantevole, quasi come le voci lontane del vento, qualcosa di...
magico.
Parevano
provenire dal parco. Mairead, i due poliziotti, la maestra e la
bidella si voltarono contemporaneamente nella direzione verso cui
proveniva il suono. Strizzarono gli occhi e poco dopo videro
comparire due scozzesi con tanto di kilt e basco, intenti a suonare
una melodia alla cornamusa.
«Ma
che caspita...?» cominciò a dire il grassone, stupito da
quell'apparizione. Ma non riuscì a completare la frase, che i due
suonatori scozzesi furono seguiti da un acrobata mangiafuoco. Solo
che le vampate di fuoco che sputava dalla bocca non avevano nulla di
normale: gli saettavano attorno in un vortice di colori scintillanti.
Tuttavia, nemmeno questo riuscì a mantenere l'attenzione a lungo su
di sé, perché fu seguito da una ragazza in equilibrio su dei
trampoli altissimi che lanciava in cerchio cinque palline, che, nel
punto più alto della parabola lanciavano spruzzi di strane sostanze
colorate.
Quel
bizzarro corteo continuò lungo la strada di fronte all'asilo:
arrivarono dei giocolieri che si lanciavano palle infuocare, alcuni
ragazzi che suonavano dei tamburi e infine uno stormo di omini
barbuti con una lampada in mano, che -miracolo a vedersi!- si
sollevarono in volo e formarono una scritta nel cielo.
«Che
dice, che dice?» domandò Mairead, tirando i jeans della maestra.
La
donna boccheggiò, incapace di rispondere. Fu la poliziotta gentile a
soddisfare la curiosità della bambina: «C'è scritto: “Auguri
Mairead”»
Sul
volto della piccola si dipinse un sorriso luminoso, coronato da due
piccole fossette sulle guance.
Infine,
l'attenzione di tutti fu rapita da un magnifico e terribile animale,
con la testa e le zampe anteriori di un'aquila e il resto del corpo
da cavallo. Avanzava fieramente, trascinando dietro di sé una
carrozza grandiosa, con decorazioni e riccioli dorati, attorno alla
quale danzavano delle lucciole; anzi, sembravano più che altro delle
fatine uscite da un libro di favole per bambini.
Lo
sportello della carrozza si aprì e ne uscì il signor Boenisolius,
che indossava un improbabile frac bianco, completo di tuba e bastone
da passeggio. La grandiosa apparizione, in realtà, fu rovinata dalla
sua goffaggine: l'uomo si levò la tuba e si inchinò, ma scendendo
le scalette si inciampò in un gradino e ruzzolò faccia a terra
sull'asfalto.
«Papà!»
gridò la piccola Mairead, correndo incontro al padre.
«Tutto
bene, tutto bene!» rispose Reammon, alzandosi con rapidità e
ripulendo alla belle meglio il suo completo bianco. Dopodiché si
aprì in un gran sorriso ed esclamò: «Auguri, principessa!»
La
bimba gli gettò le braccia al collo e Reammon la sollevò da terra e
la fece girare in aria. Poi la depositò sul marciapiede, si
inginocchiò davanti a lei e le mise tra le mani una scatolina di
velluto.
Mairead
la osservò per una frazione di secondo, poi la scosse avanti e
indietro vicino all'orecchio, per sentire se faceva qualche rumore.
Ma non udì nulla. «Così piccolo il mio regalo?» domandò allora,
delusa.
Il
padre le diede un buffetto sulla guancia e poi sorrise. «Non fidarti
mai delle apparenze» rivelò con una strizzata d'occhio. «Avanti,
aprilo!»
La
bimba si affrettò ad aprire la scatolina e a riversare il suo
contenuto sulla mano: un mucchietto di polvere dorata si formò sul
suo palmo. Mairead alzò gli occhi sul padre, piuttosto perplessa.
«Lanciala
in aria» le suggerì lui.
La
piccola eseguì quanto le era stato detto. Nel momento stesso in cui
la lanciò, si trasformò in mille foglie meravigliose e petali
colorati, che volteggiarono pacifici nell'aria. Quando si
depositarono a terra, rimasero immobili per qualche secondo, poi
cominciarono a fremere, si sollevarono, si unirono a formare la
sagoma di un animale e, con un esplosione di suoni e colori, si
trasformarono in un bellissimo cane San Bernardo.
«Oooh!»
esclamò la piccola Mairead, estasiata da quella magia.
Il
cane le si gettò addosso e cominciò a leccarle tutta la faccia con
la sua lingua ruvida e umidiccia, provocandole risatine divertite.
«È
tuo, puoi chiamarlo come vuoi» le disse il padre, con il cuore
ricolmo di gioia per la felicità della sua bambina.
«Lo
chiamerò... Momo!» esultò la bambina, gli occhi che brillavano per
la bellissima sorpresa che la aveva fatto il suo babbo. «Oh, ti
voglio bene, papà!» esplose, stringendogli la vita con le sue
braccia magrine.
L'uomo
cercò di ricacciare indietro le lacrime di commozione che gli
stavano inumidendo gli occhi e prese ad accarezzare delicatamente i
capelli castani della sua piccina. «Anche io ti voglio bene, bambina
mia» sospirò. «Anche io».
Dei
quattro Babbani presenti allo strano spettacolo, il primo a
riprendersi dallo shock, strano a dirsi, fu proprio il poliziotto
grassone. «E questo sarebbe il padre che trascura sua figlia?»
sbottò, con aria incredula. «Io non ho mai assoldato un gruppo di
saltimbanchi e prestigiatori squattrinati per festeggiare il
compleanno di uno dei miei marmocchi».
«Nemmeno
io» mormorò la bidella Mag, ancora con la bocca semiaperta.
«Date
retta a me» continuò a dire il poliziotto, accarezzandosi i
baffoni. «Quell'uomo ama sua figlia più della sua stessa vita».
E,
stranamente, questa volta ci aveva azzeccato in pieno.
Ce
l'hooooo fatta! È stata un'impresa, perché pare che in questi
ultimi mesi il computer si stia ribellando ferocemente contro di me,
ma... chi la dura la vince! Più o meno...
Comunque,
spero che vi sia piaciuto il capitolo dedicato a Mairead! Qui è una
delle prime volte in cui la piccola compie magie (quando sente i
pensieri della maestra); lei ancora non se ne accorge di usarla,
ovviamente! È uno di quegli esperimenti a casaccio che capitano ai
maghi bambini. Ah, anche Laughlin aveva fatto una magia, quando,
spaventato, riesce ad interrompere i piccoli trucchi del phooka.
Però,
vi avevo promesso che avrei spiegato come è nata questa idea della
raccolta con la pubblicazione di questo capitolo. Dovete sapere che,
tempo fa, stavo chiacchierando con delle amiche, una delle quali
maestra di asilo, che mi rivelò (io, povera ingenua) che agli asili
pubblici, se tu arrivi con più di un quarto d'ora di ritardo senza
avvisare, sei passibile di denuncia per abbandono di minore. O.O Ho
pensato che, quando avrò figli, sarò perennemente in questura... e
poi ho pensato a Reammon... lui sì che sarebbe nei guai! Ahahah! Da
qui è nato tutto... ah, a volte, i casi della vita!
Comunque,
martedì prossimo pubblicherò l'ultima one-short, quella dedicata a
Edmund... preparatevi, sarà inquietante! ;-)
A
presto, Beatrix
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Capitolo 3 *** Sibili nella notte ***
Giugno
1988
Il
bambino osservò la sua misera valigia con aria circospetta: era
sicuro che la signorina Quinn, la sua assistente sociale, ci avesse
ficcato dentro un sacco di inutile paccottiglia che lui aveva cercato
inutilmente di scartare. Gli aveva messo dentro dei giocattoli.
Assurdo.
«Allora,
siamo d'accordo» esclamò l'assistente sociale, con un gran sorriso.
Diede una pacca sulla spalla di Edmund, che aveva molto l'aria di
essere una spinta, e poi allungò il modulo verso il signor Sunset
per farglielo firmare. «Qualsiasi cosa succeda...» cominciò a
dire, quasi a disagio. «Non spaventatevi, davvero. Edmund sa essere
un bambino adorabile, quando vuole».
Sembrava
proprio che stesse cercando di indorare la pillola. Ma la signora
Sunset, una corpulenta donna di mezz'età, non sembrava affatto
intimorita. «Non si preoccupi, signorina Quinn. Abbiamo cinque
figli, di cui uno adottato e uno in affido. Sappiamo come cavarcela
con i bambini» rivelò con una strizzata d'occhio.
La
signorina Quinn fece un sorrisetto di circostanza e si affrettò a
riporre il modulo firmato tra i documenti. La signora Sunset pareva
anche una donna simpatica e aperta, forse avvezza ad avere marmocchi
per casa, ma non aveva la più pallida idea di quanto potesse essere
strano Edmund Burke.
«Allora,
sei pronto, Eddy?» esclamò la signora grassoccia, allungando la sua
mano verso di lui. Aveva un sorriso solare e aperto che Edmund trovò
assolutamente fastidioso. Non c'era proprio niente da sorridere nel
passare l'estate in un cottage di campagna in mezzo a una marea di
frastornanti mocciosi che avrebbe dovuto considerare suoi fratelli.
«Vedrai,
ti piacerà. Abbiamo anche un cane. Ti piacciono gli animali?»
domandò gentilmente la signora.
Edmund
incrociò le braccia al petto, per far capire che non aveva nessuna
intenzione di darle la mano. «Solo i serpenti» rispose atono.
«Ah»
commentò la donna, con un sorrisetto. «Be', ci saranno anche
quelli... siamo in campagna, no?»
«Allora,
ehm, bene» intervenne l'assistente sociale, nel tentativo di
interrompere l'imbarazzante conversazione sui serpenti.
Prima
che i coniugi Sunset ci ripensassero.
«Buona
estate, Edmund. Ci rivediamo a settembre» esclamò con un tono che
voleva essere convinto.
Edmund
le rivolse un sorriso che era sinceramente inquietante per un bambino
di nove anni. Faceva rabbrividire, per la precisione.
Cielo,
fa che resistano almeno una settimana! pensò sconsolata la
signorina Quinn, osservando le tre figurine che lasciavano
l'orfanotrofio.
Durante
il viaggio in macchina la signora Sunset cercava inutilmente di fare
conversazione con Edmund. «Io mi chiamo Juliet e lui Andrew, ma puoi
chiamarci mamma e papà, ovviamente, se ti va» gli disse, voltandosi
verso il sedile posteriore con un gran sorriso.
«Signore
e signora Sunset andranno benissimo» rispose Edmund, con le braccia
incrociate e lo sguardo torvo.
La
donna grassoccia scoppiò a ridere. «Oh, ma è così formale!»
esclamò divertita. «Ci avevano detto che eri un ometto rispettoso.
Ma, vedrai, quest'estate sarà uno spasso» continuò, ammiccando
nella sua direzione. Per un attimo le parve di vedere un lampo di
maliziosa furbizia balenare negli occhi azzurri del bambino, ma fu
una frazione di secondo, poi tornarono limpidi e quieti.
La
bocca sottile di Edmund si allargò in un sorriso. «Ne sono certo».
Almeno
per me.
La
casa della famiglia Sunset era un tipico cottage irlandese a due
piani, immerso nelle colline e circondato dal nulla. Un piccolo
ruscello, un orto, un albero di albicocche e le galline. Tutto finiva
lì.
I
figli erano davvero cinque: un maschio e una femmina più grandi che
sembravano essere intorno ai sedici anni, un ragazzino di colore con
una massa di capelli ricci, una biondina slavata con l'aria da dura e
un cappellino da baseball calato storto sugli occhi, e un bambino che
poteva avere circa la sua età. Erano tutti schierati davanti a casa,
pronti ad accogliere il nuovo fratellino.
«Ciao»
lo salutò il più grande, con un sorriso. «Io mi chiamo Peter».
«Io
Rose» si presentò la seconda figlia.
«Kevin»
aggiunse quello di colore.
«Will»
ringhiò la ragazzina tosta. Edmund ghignò: aveva anche il nome da
maschio. Forse era la contrazione di qualcosa di terribile come
Willhelmina.
«Josip»
concluse l'ultimo, con un leggero accento slavo.
«Edmund»
si presentò a sua volta il bambino.
La
ragazzina tosta ridacchiò. «Santo cielo, il nome l'hai rubato ad un
romanzo di Jane Austen?» gli chiese con un ghigno.
«E
tu all'ultimo ragazzo che hai scuoiato?» la rimbeccò Edmund. Odiava
il suo nome e odiava quando gli altri lo prendevano in giro per come
si chiamava.
«Suvvia,
ragazzi, cercate di essere carini con Ed e di farlo sentire a casa»
intervenne la madre, con un leggero tono di rimprovero. Ma, a
giudicare dai sorrisi falsi e disinteressati che Edmund si vide
rivolgere, i figli non sembravano affatto dell'idea.
Quella
sera la cena fu piuttosto caotica. Edmund, che adorava la solitudine
e il silenzio, si sentì come travolto da una mandria di rinoceronti
impazziti.
Quando
fu finalmente libero, si rifugiò nella cameretta di Josip, dove era
stato aggiunto un letto per lui, e si rannicchiò in un angolo a
leggere “Le metamorfosi” di Kafka. Era talmente concentrato che
quasi non si accorse che tutta la banda Sunset si era catapultata
nella stanza.
«Ci
sono un paio di cosette che dobbiamo mettere in chiaro, Ed»
sentenziò Peter, il più grande. Edmund mise il libro da parte con
aria scocciata, ma non si alzò dall'angolino in cui si era
rintanato: non voleva dimostrare ai ragazzi Sunset di dare importanza
alla faccenda.
«Allora.
Primo: non si entra nelle camere degli altri senza bussare» recitò
Peter.
«Secondo:
non si prendono le cose degli altri senza chiedere» aggiunse Kevin,
il ragazzo di colore.
«Terzo:
quando vengono le mie amiche non ti devi impicciare» rincarò la
dose Rose.
Will
si fece avanti di un passo con aria strafottente. «Quarto: siccome
tu sei l'ultimo arrivato, tocca a te pulire il bagno al primo piano
tutte le mattine» decretò in tono perentorio.
Peter
allora le mise una mano sulla spalla e la fece retrocedere sulla
linea del fronte Sunset. «Vedi, Ed, siamo in tanti e ci vuole un
certo ordine. Tra di noi, così, per regolarci. Non pensare di andare
a piagnucolare da mamma e papà» concluse Peter, in un tono che
voleva essere affabile. «Tutto chiaro?»
A
Edmund ricordava tanto un lager. Annuì lentamente, fissando i suoi
occhi azzurri in quelli di Peter. Era una sfida aperta.
Peter
non si scompose minimamente. «Ottimo, allora» esclamò, battendo le
mani, come se fosse stato raggiunto un difficile accordo diplomatico
tra nazioni rivali. Il fronte Sunset batté in ritirata, tranne
Josip, ovviamente, che si trovava già in camera sua. «Buona notte»
salutò Peter, prima di sparire e chiudere la porta alle sue spalle.
Edmund
rimase a fissare con astio il punto dove era scomparso per parecchi
secondi. Avrebbe voluto dargli fuoco con lo sguardo.
«Non
hanno niente contro di te, sai» gli rivelò Josip, preparando il
letto per andare a dormire. «Fanno così con tutti, l'hanno fatto
anche con me. Solo che tu sei l'ultimo arrivato»
«E
sarò anche il primo ad andarmene» mormorò Edmund, raggomitolandosi
sul letto a leggere.
«Ti
conviene metterti il cuore in pace, sai. Ci devi stare qui tutta
l'estate» gli rispose Josip. Sbadigliò e poi si infilò sotto le
coperte. Per un attimo vide un'inquietante espressione brillare sul
volto del nuovo arrivato, ma forse era solo un gioco della lampada
sul comodino.
Edmund
si lasciò sfuggire un sorriso. «Tu lo credi».
L'erbetta
era umida e gli solleticava i piedi nudi. L'aria fresca e piacevole
gli si infiltrava sotto il pigiama, provocandogli dei brividi lungo
la schiena. Era buio, c'era silenzio, solitudine. Si stava
magnificamente.
Edmund
allargò le braccia, chiuse gli occhi, si lasciò invadere da quella
piacevole sensazione di nulla eterno, di serenità.
Fu
allora che lo sentì. Un sibilo, emesso da un piccolo serpentello di
campo che strisciava nell'erba davanti a lui. Edmund adorava i
serpenti: aveva un certo feeling con quegli animali, un'empatia
particolare. Riusciva a capirli, a parlare con loro.
«Ciao,
piccolino» sibilò nella notte. La sua voce aveva un che di
serpentesco quando parlava con quelle bestie. Non se lo sapeva
spiegare, ma riusciva a capirle.
«Vendicami»
rispose quello, strisciando contro i suoi piedi.
Edmund
si inginocchiò e allungò la sua mano verso l'animaletto, come se si
trattasse di un grazioso cagnolino da accarezzare. «Vendicarti,
perché?» gli domandò, sfiorando con un dito la testolina
viscida della bestiola.
Il
serpente sembrò guardarlo dritto negli occhi. «La mia casa.
Distrutta» sibilò in risposta.
Edmund
capì immediatamente che doveva essere stata Will, con il gusto di
fare qualche stupido scherzo all'animaletto, a distruggergli la tana.
Certe volte i bambini sapevano essere davvero cattivi.
Ma
Edmund di più.
«Ti
vendicherò» promise, mentre una malvagia prospettiva si
delineava nella sua mente. Un sorriso perfido si allargò sulle sue
labbra.
«ODDIO!
Vai via, brutta bestiaccia!» strillò proprio in quel momento la
signora Sunset, brandendo una scopa per cacciare il serpente.
Sembrava folle e terrorizzata assieme.
«No!»
esclamò Edmund, proteggendo il suo piccolo amico dalla furia della
donna.
«Allontanati,
allontanati, Eddy! Ci penso io!» gridava quella, svegliando con le
sue urla il resto della famiglia.
«Sali»
ordinò Edmund al serpente, emettendo sibili sinistri. Si alzò da
terra, mentre la povera bestiola si avvolgeva intorno alla sua gamba
nuda, strisciando sotto il pigiama finché non raggiunse il ventre
del bambino e vi si avvinghiò.
La
signora Sunset rimase pietrificata dal terrore, con la scopa levata
in aria. Non sapeva se era peggio l'idea che una biscia strisciasse
sulla pelle nuda del bambino o l'espressione feroce che quello le
rivolse.
«Edmund,
fai scendere quel serpente da lì» intervenne il signor Sunset,
apparso in pigiama e vestaglia al fianco della moglie.
Edmund
gli puntò i suoi occhi addosso. «Non dovete fargli del male, lui è
mio amico» replicò con un tono di voce forte. Era un ordine, senza
dubbio.
Il
signor Sunset annuì accondiscendente. «Va bene, Ed, ma tu fallo
scendere».
Edmund
rimase immobile per una manciata di secondi, ma alla fine si
inginocchiò e poggiò una mano a terra. «Scendi» sibilò
rivolto al serpente, che strisciò lungo il suo braccio fino a
raggiungere l'erba. Prima di sparire, si voltò verso di lui. «Sarai
vendicato» gli promise Edmund, in tono serio.
«Quel
coso... quella biscia...» borbottò la signora Sunset, incredula.
Sembrava che il bambino riuscisse a comunicare con la bestiola ed era
assurdo il modo in cui quella sembrava obbedire ai suoi ordini
sibilati al vento.
Edmund
si alzò nuovamente in piedi. «So parlare con i serpenti. Loro... mi
trovano, mi sussurrano cose».
La
signora Sunset rabbrividì.
Il
signor Sunset osservò il cupo cielo notturno sopra le loro teste e
infine mormorò: «Torniamo dentro».
Per
tutto il giorno successivo, la famiglia Sunset lo lasciò in pace.
Avevano assistito tutti alla scena con il serpente, che era stata
francamente inquietante, e non volevano avere nulla a che fare con
quello squilibrato. Così, Edmund poté progettare la sua vendetta in
tutta tranquillità.
Il
piano aveva un duplice scopo: vendicare il serpente, come promesso, e
convincere i signori Sunset a riportarlo all'orfanotrofio al più
presto. Non che quel luogo rappresentasse qualcosa di positivo, ma
almeno là tutti lo consideravano strambo e lo lasciavano in pace a
leggere.
Quella
sera, terminata la cena, Edmund sgattaiolò fuori. «Venite, miei
amici!» sibilò con aria eccitata. Arrivarono a frotte, da ogni
tana, da ogni buco. Il suo esercito. Edmund sorrise malefico. «È
ora di ricambiare la gentilezza di questi umani» ghignò,
voltandosi verso il cottage.
Entrò
in ingresso con passo deciso, come un vero conquistatore.
«Che
cosa...?» cominciò a dire Rose, la secondogenita.
«Attaccate!»
ordinò Edmund, alzando le braccia davanti a se. Almeno un centinaio
di serpenti si riversarono in casa, sul pavimento di terracotta,
sulle pareti. Una moltitudine di esseri disgustosi strisciò ai piedi
di Edmund, si avvinghiò sui mobili, risalì il divano, sibilò verso
la famiglia Sunset. Una piccola biscia di campo si arrampicò lungo
il corpo del bambino, sotto i vestiti, e si posizionò a spirale
intorno al suo braccio destro.
Era
una scena apocalittica. L'intera famiglia Sunset strillò e si fiondò
verso le porte per scappare, ma queste sbatterono violentemente e si
chiusero magicamente a chiave. Rose spinse violentemente su e giù la
maniglia, in preda al panico, ma questa non si aprì. Erano in
trappola.
«Aiuto!»
gridò la signora Sunset, come se qualcuno potesse udirli.
«Edmund,
smettila!» lo implorò il signor Sunset, cercando di essere
ragionevole.
Il
volto di Edmund era una maschera di durezza. «Will ha distrutto la
tana di questo serpente, per dispetto. Ci ha buttato dentro i sassi,
l'ha quasi ucciso» spiegò con una voce forte, perentoria. «Ora
provate quanto è bello che qualcuno vi distrugga la casa».
«Non
è vero, non è vero!» gridò Will, in preda al terrore. «Io non ho
fatto niente!»
«MENTI!»
gridò Edmund, irrigidendosi e stringendo le mani a pugno. «Chiedi
scusa per quello che hai fatto!»
«Io
non ho fatto niente!» replicò Will, scoppiando a piangere.
Edmund
ringhiò. Gli bastò volerlo, e le due finestre del salotto
semplicemente esplosero, schizzando proiettili di vetro dappertutto.
«Chiedi scusa!» ordinò, con un'espressione folle che gli
attraversava il volto.
E
finalmente Will capitolò; si accasciò a terra e gridò: «Va bene,
va bene! Scusa!»
Edmund
rilassò i muscoli e tornò sereno. Tutti i serpenti si
tranquillizzarono e poi si radunarono strisciando ai suoi piedi.
Edmund sorrise angelico, ma i suoi occhi azzurri erano un pozzo di
oscurità.
«Visto
che non era difficile?»
Edmund
attraversò il cortile dell'orfanotrofio con evidente soddisfazione.
Reggeva la sua piccola valigia in mano e aveva un'aria estremamente
trionfante.
La
sua assistente sociale, invece, aveva il morale a terra. Avevano
resistito due giorni, i signori Sunset, prima di riportare Edmund e
bagaglio all'orfanotrofio, con tanto di espressione terrorizzata e
voci tremanti. Tutte le volte la stessa storia.
«Questo
bambino è malvagio!» squittì la signora Sunset, con gli occhi
sgranati. Tutti i suoi buoni propositi riguardo all'estate e al “noi
sappiamo come cavarcela con i bambini” erano spariti.
«Sul
serio, dovreste farlo ricoverare in manicomio» rincarò la dose il
signor Sunset, restituendo alla signorina Quinn le carte firmare per
la riconsegna del “pacco”.
Edmund
osservò i coniugi Sunset che si allontanavano con evidente
soddisfazione. La sua espressione era meschinamente beffarda.
«Santo
cielo, Burke, perché per una volta non ti comporti come tutti gli
altri bambini?» sbottò la signorina Quinn, esasperata.
Edmund
le rivolse un sorriso innocente. «Perché io non sono come loro»
rispose senza scomporsi troppo. «Io sono diverso».
E
non immaginava neanche lontanamente quanto diverso.
Eccoci
qui!
Questa
storia l'ho scritta per prima, ma cronologicamente doveva essere
l'ultima, posta a chiusura della piccola raccolta dedicata
all'infanzia dei tre protagonisti.
Se
le altre storie erano tenere e carine, questa trovo che sia
francamente inquietante! Il piccolo Edmund non ha nulla di dolce!
Ahahah! È l'unico che sa già indirizzare la sua magia e sfruttarla
per punire chi gli fa del male. Vi ricorda qualcuno, magari? ;-)
L'idea
dell'affido estivo mi è venuta in mente ripensando ai bambini
dell'est che d'estate vengono in Italia a fare le vacanze ospitati da
qualche famiglia. La povera signorina Quinn tenta ogni volta di
spedire Edmund a fare una di queste vacanze, ma tutte le volte è la
stessa storia: le famiglie affidatarie riportano indietro il pacco in
fretta e furia... chissà perché!
Va
be', spero che questa piccola raccolta vi sia piaciuta! Io, più che
altro, mi sono divertita a scriverla e spero vi aver divertito un po'
anche voi!
Alla
prossima occasione!
Beatrix
B.
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