Sette campanelle colorate di Mattimeus (/viewuser.php?uid=82908)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sette campanelle colorate ***
Capitolo 2: *** Anrì dalla campana rossa ***
Capitolo 3: *** Fleur dalla campana blu ***
Capitolo 4: *** Silvia dalla campana viola ***
Capitolo 5: *** Lotte dalla campana gialla ***
Capitolo 6: *** Bisque dalla campana arancione ***
Capitolo 7: *** Chris dalla campana d'argento ***
Capitolo 8: *** Maria dalla campana rosa ***
Capitolo 9: *** Bell dai sette colori ***
Capitolo 1 *** Sette campanelle colorate ***
Sette
campanelle
colorate
Osservai queste sette
ragazze. Il loro petto non avrebbe conosciuto altri respiri, né
il loro cuore altri battiti.
Sembravano
davvero in un letto di morte,
adagiate tranquillamente sul terreno.
Loro stavano là, in
quel vicolo bianco, senza vita.
Non mi chiesi come fossero
morte: la morte è irreversibile. Ti lascia lì,
esattamente dove sei, senza che tu possa andare da nessuna parte.
L'unica ragione per cui
versai qualche lacrima fu per il mio aspetto malconcio.
Non possedevo alcun ricordo
di qualcuno che mi avesse amata. Specialmente non a prima vista.
Queste ragazze avevano
ognuna una campanella colorata, pegno dell'amore della loro famiglia.
In tutta la mia vita, io non avevo mai avuto in dono una campanella.
Eppure io ero lì, viva, mentre queste ragazze, che erano state
amate incondizionatamente dalle loro famiglie, erano morte. Poteva
essere stato del veleno. O magari qualche malattia. Anche io, forse,
sarei stata trascinata via dal vento freddo della morte. Eppure,
comunque stessero le cose, io ero viva. Una parte del mio cuore rise.
“Vi sta bene. Basta osservare l'evidenza: voi mi avete deriso,
ed io sono sopravvissuta. Avete pagato con la vita il prezzo della
vostra crudeltà. Guardate! Io sono viva!”.
Ma per quanto urlassi,
nessuna di loro aprì gli occhi. E le mie lacrime non si
fermarono.
Quando presi una dopo
l'altra le loro campanelle, giurai a me stessa che non mi sarei
dispiaciuta per loro. Non dopo aver sofferto così tanto nella
mia vita. Avevo il diritto di ridicolizzare la loro vita e la loro
morte.
Le sette campanelle che non
mi appartenevano squillarono in vano nell'aria, come i rintocchi
delle campane di un funerale.
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Capitolo 2 *** Anrì dalla campana rossa ***
Anrì
dalla campana rossa
Couch! Couch couch couch!
Da dietro la graziosa
finestra di una graziosa casetta, si sentì un rauco tossire.
C'era un grazioso letto nella stanza, dove stava riposando il
grazioso corpicino di un cucciolo d'uomo.
“Tesoro, sai che
dovresti riposare”.
Il rimprovero era giunto da
un'alta donna appena entrata nella stanza. Era venuta per spegnere la
lampada quando aveva sentito il bambino.
“No” rispose
lui, scuotendo la testa. “Non posso dormire. Anrì
potrebbe tornare da un momento all'altro.”
“Oh, tesoro...”.
Il viso della madre era
affranto. Era facile notare che sapeva qualcosa. Sapeva che l'Anrì
che il bambino aspettava non sarebbe tornata.
“Anrì tornerà,
so che lo farà! Lei ritorna sempre. Le ho dato una campanella
rossa. Lei è la mia sorellina!”
Ah! quindi Anrì era
la sorella del ragazzino. Continuai a guardarli in silenzio. Pensando
al bambino, mi venne in mente Anrì, ancora più gracile
del suo povero, malaticcio fratellino. Lui era così pieno e
traboccante di amore per lei che le aveva dato una campanella rossa.
Riuscivo benissimo ad immaginarmi la scena.
“Bene, quando tornerà
Anrì, stai sicuro che ti sveglierò”.
“Io conosco il suono
della campanella di Anrì meglio di chiunque altro!”.
La campanella di Anrì
era piccola e rossa, e forse il bambino conosceva alla perfezione il
suo suono. Ma Anrì non c'era più. La sua campanella
rossa era qui solo perché era stata strappata dal suo
cadavere.
Quando guardai la luna,
pensando ai miei peccati. Stavo per profanare i defunti, stavo
per sputare negli occhi di un morto. Ecco ciò che stavo per
fare. Avevo già abbandonato il suo cadavere come spazzatura.
Stavo solo aggiungendo un altro peccato alla mia lista.
Ma questa era la mia
rivincita. Era la cosa perfetta da fare. Era la mia vendetta per
essere stata definita “squallida”. Chiamai il bambino con
voce soave.
Suonai la campana, il segno
della sua piccola sorellina che diceva di conoscere tanto bene.
La finestra si aprì.
“Anrì?” Chiamò il ragazzo.
Sì! Sono io! Sono io,
Anrì!
Allungò le mani per
abbracciarmi.
“Che ti è
successo? Sei tutta sporca!” chiese lui. Non assomigliavo per
niente la meravigliosa bambina che conosceva lui e non sembravo per
nulla un suo sosia. Ma la campanella rossa rimaneva la stessa, dunque
la mia vendetta era assicurata.
Io sono Anrì.
Anrì, con la sua
campanella rossa.
La piccola sorella minore
abbracciata dalle piccole braccia del suo piccolo fratello.
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Capitolo 3 *** Fleur dalla campana blu ***
Fleur
dalla campana blu
“Proprio non lo
capisco il capo, in questi giorni”.
Dietro il mobilificio,
sentii parlare tra loro due uomini. Indossavano delle uniformi
bianche leggermente annerite. Del fumo usciva dalle loro bocche
giovanili. Mi avvicinai di soppiatto al punto in cui le loro ombre
toccavano terra e mi misi ad origliare da dietro un palo.
“Ha mancato ancora una
scadenza”.
“E giusto ieri mi ha
dato un pugno sul braccio, con la scusa che avevo lasciato il
posacenere pieno”.
“Huh, se non ci
vessasse in questo modo probabilmente non troverebbe altro da fare”.
“Dice che tutto quello
che facciamo è fumare sigarette”.
“Proprio non lo
capisco...”
“L'hai detto...”
Si sentiva il picchiare di
un martello sul legno. Secondo le dicerie questa falegnameria era
stata costruita da un imprenditore molto capace ma molto eccentrico.
Aveva assunto due assistenti per poter produrre mobili su richiesta
ventiquattro ore su ventiquattro, in continuazione. Ma i due uomini,
ora, passavano i loro giorni a far nulla, soffiando fili di fumo
senza fine.
“Deve essere per
quella cosa”.
“Non ne sarei
sorpreso”.
“Perché non
glielo chiedi?”
“Perché mi
forerebbe i timpani e chissà cos'altro se lo faccio, idiota.
Non mi lamenterei se mi facesse passare nella smerigliatrice”.
“Huh, non puoi averla
vinta con lui”.
“L'hai detto...”
Soffiarono altre nuvolette
di fumo.
“È davvero già
un mese che Fleur è scomparsa? Inizio a pensare che non
tornerà. Magari alla fine se ne è andata con quel tipo,
in barba al capo. Ma non oso immaginare cosa potrebbe scatenare nel
capo un'occhiata al suo ragazzo”.
Smisi di origliare. Senza
far rumore, feci dietro-front rasentando il muro dello stabilimento.
Dal mio collo pendeva la campanella blu, simbolo di quel mobilificio.
Quel giorno ero Fleur, la figlia del capo.
Avvicinandomi ad una
finestra, una voce esplose da dentro.
“Te l'ho detto, non è
possibile! Quello che dici non ha senso, imbecille!”. Il suono
del ricevitore sbattuto sul telefono venne seguito da quello del
legno che veniva levigato. Di colpo mi si drizzarono le orecchie e
venni scossa dai tremiti. Pensai a come sarebbe stato passare
attraverso la smerigliatrice. Avrebbe sicuramente fatto molto male.
Ci pensai, guardando la campanella blu. Chissà se avrebbe
fatto più male della morte. Non avendone ancora fatta
esperienza, non potevo saperlo, ma probabilmente morire avrebbe fatto
più male. A quel pensiero smisi di tremare. A Fleur doveva
aver fatto molto male.
“Non ne posso più!”.
Questa volta un mobile volò
fuori dalla finestra. Le cose si stavano mettendo male. Non riuscii a
frenare un tremito, così la campanella suonò. Il capo
volse il suo sguardo su di me con una smorfia isterica. Pensai che mi
stesse trafiggendo con i suoi fangosi occhi grigi. Non avevo nulla
della bellezza di Fleur. Avevo il terrore che dicesse che io non ero
la sua amata figlia che e che mi lanciasse immediatamente nella
smerigliatrice. Tese la mano destra. Il palmo era consumato, la mano
piena di vesciche e calli. La pelle come corteccia. Ero sicura che
stesse per colpirmi, invece mi accarezzò il viso. La sua mano
ruvida e possente passò dolcemente sulla mia testa.
“Piccola mia...”
La sua voce roca era più
simile ad un sospiro. Il modo in cui tremava mi diede una fitta al
cuore. Dubitava di me? Mi aveva visto dentro? Dovevo lasciarlo
continuare ad accarezzarmi la testa come stava facendo? Ero senza
parole. Mi prese senza sforzo tra le braccia.
“Ragazzi! Venite!
Adesso!” lanciò un grido dietro il mobilificio.
“Smettetela di perdere tempo e tornate al lavoro! Oppure volete
che vi metta le mani nella cera bollente? Pulitemi dei nuovi pezzi di
legno. E vedete di sbrigarvi!”.
Nonostante il loro capo li
avesse chiamati sbraitando, ai due ragazzi luccicavano gli occhi.
“Fleur è
tornata!”.
Festeggiarono correndo con
le mani al cielo a prendere i nuovi pezzi di legno. Incapace di
parlare, la campanella parlò per me con un trillo. In quel
momento, avevo vinto sul suo nome.
Io sono Fleur.
Fleur, dalla campana blu.
Coccolata da un capo
cocciuto, sono l'amatissima figlia di un falegname.
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Capitolo 4 *** Silvia dalla campana viola ***
Silvia
dalla campana viola
L'alba stava per arrivare e
la luce del mattino stava finalmente sbocciando nel cielo. Facevo i
fatti miei, passeggiando in mezzo alla gente che affolla le prime ore
del giorno. Il clamore mi riempiva le orecchie: urla arrabbiate
venivano dalla strada principale, mentre si udivano parole dolci
sussurrate nei vicoli. Evitai il vociare. Già soltanto il
fatto di essere in un posto de l genere mi faceva ricordare la mia
vita precedente. Giunsi ad un negozio con la porta lasciata aperta.
La musica che veniva da dentro non era proprio una cosa
incoraggiante. L'insegna dell'entrata era seminascosta nel buio. Era
decorata dalla parola “Silvia”.
“Hei capo, penso che
tu ne abbia avuti abbastanza” disse una voce dolce da dietro il
bar. La barista era la giovane donna dai capelli lunghi in un abito
senza maniche che stava appoggiata al muro. “So che sono fatti
tuoi, ma penso che tu abbia davvero esagerato stasera”. La voce
era giovanile e cristallina, come quella di un gatto maschio che
chiama la femmina.
“Dico soltanto che...”
“Rika.” Un
bicchiere scivolò sul bancone, interrompendola. Seguì
il silenzio.
“Bene, non ascoltarmi,
allora”. La ragazza dietro il bancone prese il bicchiere per
riempirlo, ma mugugnò di disapprovazione. “Mi sto solo
preoccupando per te. Sembri esausta i questi giorni. E l''altra
ragazza che era qui... beh, lo sai...”
“Rika” il
bicchiere scivolò ancora sul bancone. Venne accesa una
sigaretta. “Quando hai finito, puoi andare per oggi.”
“Cooosa?”
“Vuoi che ti licenzi?”
La donna era arrabbiata, ma
la ragazza di nome Rika si limitò ad alzare le spalle.
“Non dirlo nemmeno,
capo. Se mi abbandonassi, rimmarrei da sola”. Il bicchiere che
scivolò sul tavolo non puzzava di alcol. Era un liquido
bianco. “L'ultimo proprietario di questo locale è morto
avvelenato dall'alcol. Non voglio che ti succeda la stessa cosa. A
domani”.
Udii il suono di un paio di
tacchi alti che si avvicinavano. Mi nascosi dietro l'insegna.
“Huh?” Rika
guardò lungo il vicolo bagnato dalla luce del mattino.
“Silvia...?”
Sapevo già chi stava
chiamando con quel nome. Rika si lasciò sfuggire un singhiozzo
di pianto. Fu solo un attimo, poi si incamminò per la strada
sporca. Fu solo quando non la vidi più che presi la mia
decisione. Non ho mai saputo come Silvia fosse stata cresciuta prima
di morire. Era così tranquilla e riservata, non c'era molto da
dire sul suo conto. Era l'unica delle sette che non odiassi. Ma stavo
comunque per rubarle il nome. All'inizio avevo pensato che fosse per
vendetta. Doveva esserlo. Vendetta contro di loro che avevano avuto
vite migliori della mia, vendetta contro il mio fato crudele. Passo
dopo passo, entrai nel locale attraverso la porta semiaperta e
sussurrai: “Mama”. I suoi occhi spenti, circondati dalle
rughe, si spalancarono di colpo. “Oh... sei tu”. Scoppiò
in una risata, mentre delle lacrime le uscivano dagli occhi.
“Piccola... sei tale e quale alla prima volta che sei venuta
qui”. Qualcosa nel modo in cui lo disse la fece assomigliare a
Rika. “Dove sei stata? Sei mancata così a lungo... che
hai fatto? Forza, bevi. Puoi prenderlo, è il tuo preferito. Ti
darò tutto quello di cui hai bisogno. Tutto quanto... adesso
c'è una brava ragazza”. Singhiozzò in un lento
sospiro, porgendomi il bicchiere. Mi chiesi se anche a Silvia venne
servito del latte tiepido, la prima volta che venne qui. “Mi
dispiace” sussurrai per la prima volta rivolta a me stessa.
Io sono Silvia.
Silvia, dalla campana viola.
La piccola ragazza che sta
accanto a Mama, in un piccolo bar di periferia.
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Capitolo 5 *** Lotte dalla campana gialla ***
Lotte
dalla campana gialla
Un alto umano stava
innaffiando il giardino. La sua t-shirt bianca e i suoi pantaloni
neri erano semplici e puliti.
“Maestro!”
Appena due bambini lo chiamarono, l'uomo che innaffiava il prato alzò
la testa.
“Ditemi, c'è
qualche problema?” L'uomo che chiamavano maestro si inginocchiò
per scrutare meglio i bambini attraverso i suoi occhiali.
“Maestro, quand'è
che Lotte ritorna?” La domanda veniva dalla ragazzina. Anche
da lontano, riuscii a vedere un'ombra calare sul viso del maestro.
“Maestro, Lotte
tornerà mai?” Il ragazzino guardava il maestro con
aspettativa, ma il maestro non popoté fare altro che alzare le
sopracciglia e scrollare le spalle. Vennero altri bambini, con
domande simili sui loro volti. Le loro t-shirt bianche erano
tappezzate di macchie collezionate giocando. Riuscivo ad immaginare
anche Lotte lì con loro, con la sua graziosa campanella
gialla.
Quei bambini non avevano
genitori. Vivevano tutti in quella grossa casa con l'uomo che
chiamavano “maestro”.
“Perché ci
mette così tanto? Era già andata via qualche volta,
ma...”
Il maestro mormorò
una scusa, ma i bambini non si facevano ingannare.
“Vogliamo giocare
ancora con Lotte”.
“Magari è
malata”.
“Magari è
ferita!”.
“Scommetto che le
manchiamo”.
“Certo che le
manchiamo!”.
Quando apparve
preoccupazione sul volto dei bambini, il maestro pose loro una
domanda.
“Vi rende tristi
pensare che Lotte sia sola?”
“Certo!”
“Ci manca!”
Il maestro annuì e
continuò.
“Dunque, se Lotte
sapesse quanto ci manca, questo la renderebbe triste, giusto?”
La sua voce era gentile. Osservando da lontano, esitai un momento.
Sapevo che la campanella di Lotte veniva da questo orfanotrofio, ma
non immaginavo che avesse una famiglia come questa. Importava davvero
a qualcuno che se ne fosse andata?
Passata la loro
preoccupazione, i bambini ripresero i loro giochi. Una bambina
lentigginosa con i capelli ricci, però, rimase indietro.
“Ma... noi...”
mormorò guardandosi i piedi. “noi siamo tristi anche se
Lotte non è da sola”.
Il maestro le mise una mano
sulla testa.
“Suppongo che ci siano
cose per le quali non possiamo fare nulla”.
“Io so cosa fai di
notte!” Lo accusò la bambina guardandolo intensamente.
“Se davvero pensassi che non si può fare nulla, non
andresti a cercarla ogni notte dopo che siamo andati a dormire!”
Il maestro le pose svelto un
dito sulle labbra.
“Ognuno si preoccupa
come può”.
“Ma io adesso sono più
preoccupata per te, maestro!”
Il maestro si limitò
ad annuire alle parole della bambina. “Lo so. Mi dispiace”.
Poi, con la canna dell'acqua ancora in mano, guardò il cielo e
disse: “Tra noi, io non sono per niente preoccupando per Lotte.
Sono sicuro che starà bene anche fuori da queste mura. Il
fatto è che noi siamo la sua famiglia. Sono sicuro che anche è
lei questo importa, perché la famiglia che abbiamo costruito è
l'unica che abbiamo mai avuto. Per quanto mi riguarda, noi siamo la
famiglia di Lotte e, fintanto che anche lei si ricorderà di
questo, tutto andrà bene. E, se devo essere sincero, penso che
prima o poi Lotte tornerà”.
Scese la notte e le luci
dell'orfanotrofio si spensero. Lentamente uscii dalle ombre di fronde
al casolare. Nel momento in cui il maestro mi vide, si fermò.
La luce della luna piena mi rendeva irriconoscibile. Suonai la
campanella, sapendo che era l'unica cosa su cui potessi contare.
“Lotte... sei tu?”.
Sì! Sì, sono
io, Lotte.
“Allora, questo vuol
dire che sei pronta a tornare a casa nostra?”
Ma certo. Se mi volete...
Tornati all'orfanotrofio, la
bambina lentigginosa stava facendo del suo meglio per calmare gli
altri bambini che piangevano per l'assenza del loro maestro. Da
giorni quella ragazzina si era sobbarcata il compito di prendersi
cura di loro durante la notte. Stringendo a sé la bambina, il
maestro annunciò il mio ritorno i quella casa.
Io sono Lotte.
Lotte, dalla campanella
gialla.
Un piccolo membro di questo
orfanotrofio, con una famiglia più grande di quanto chiunque
possa sperare.
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Capitolo 6 *** Bisque dalla campana arancione ***
Bisque
dalla campana arancione
Tutti gli abitanti della
città ritenevano che il vecchio scrittore che viveva in questa
casa fosse un tipo decisamente strano. La casa era datata, i muri
sembravano sostenere anche il peso del tempo. Era un luogo così
malconcio e trascurato da poter essere definito tranquillamente una
bettola. La porta principale era sempre aperta. Non perché non
funzionasse la serratura, ma semplicemente perché non c'era
nulla da chiudere a chiave. Si potrebbe pensare che fosse un invito
ai ladri, se non che il posto era talmente sporco da dissuadere
chiunque vi avesse messo piede.
La casa rifletteva alla
perfezione il suo proprietario, un tipo bizzarro e disadattato,
invecchiato prima del tempo. Quel giorno, quel vecchio bizzarro
giaceva nel bel mezzo dell'anticamera. Pensai che fosse morto. Poi
vidi che ogni tanto le sue dita erano percorse da un tremito, segnale
che tradiva la presenza della vita in quel corpo. Le ossa delle sue
mani erano prominenti, nodose sotto la pallida pelle, ma i capelli
impomatati sembravano più giovanili. Gli occhiali gli erano
rimasti sul naso anche dopo la caduta. Probabilmente li aveva
indossati così tanto che ormai erano diventati parte di lui.
Dunque giaceva là.
Facendomi strada tra cianfrusaglie, vestiti e mobili, entrai in casa.
Lui nemmeno se ne accorse.
“Bisque...”
Pronunciò il mio nome
con una voce quasi tombale. Mi scossi per la sorpresa e la campanella
suonò. Aveva un suono rinfrescante. Anche il vecchio doveva
averla sentita.
Si alzò di scatto da
terra e si girò per non vedermi, offrendomi la schiena.
“Non un altro passo!”
quasi sputò l'uomo. “Non voglio che ti avvicini”.
Detto questo, fece ritorno
alla montagna di carte che ricopriva quella che era una scrivania. Da
quando si grattò la testa le sue mani non smisero più
di muoversi. È difficile da credere, ma disse qualcosa ad alta
voce, ricadde sul pavimento e riprese da capo la scena precedente.
Ero estremamente perplessa,
così mi strinsi in un angolo e aspettai che scendesse la
notte. La campanella suonava ogni volta che cambiavo posizione.
Era davvero questa la
famiglia di Bisque?
Tornai a controllare nei
giorni successivi, ma ogni volta agiva in modo assurdo e insensato.
Quando non si buttava per terra, era completamente immerso nella
scrittura. Disturbata dal suo innaturale comportamento, feci del mio
meglio per far suonare la campanella il meno possibile. Così
rimasi accovacciata nell'angolo, finché finalmente udii
cessare il suono della penna che solcava i fogli.
“Fiu...” un
lungo sospiro venne immediatamente seguito da un tonfo sonoro. Era
caduto di schiena dalla sedia. “Finalmente. Finito”. Il
tono con cui soffiò queste parole non era quello del suo
solito delirio. Alzai la testa e la campanella tintinnò
gentilmente. Ancora per terra, il vecchio emise un basso sospiro.
“Oh, Bisque. Bisque,
mia cara...”
Ero sicuro che mi avrebbe
intimato di allontanarmi, invece levò il suo braccio spettrale
e mi rivolse un gesto. Quando, cautamente, mi avvicinai, subito mi
afferrò e trascinò sul pavimento con lui. Venni
tramortita dalla paura, ma poi sentii il calmo battito del suo cuore.
Chiuse dolcemente gli occhi e cominciò a coccolarmi.
“Ah, Bisque, sei
proprio tu...? Sei... Sei dimagrita molto”.
Le sue mani ossute erano
ruvide, ma mi accarezzavano con dolcezza. Io rimasi lì,
incapace di rispondere, mentre il battito del suo cuore si faceva più
lieve. Continuò a coccolarmi.
“Fiu... finalmente
posso fare un pisolino”.
Quelle parole sembravano
dette in sogno. Quando la sua mano smise di muoversi, finalmente
capii.
Non avevo più dubbi:
questa era la famiglia di Bisque e della campanella arancione.
Chiudendo gli occhi, riuscii a sentire il battito del mio cuore che
lentamente si liberava dal ghiaccio.
Io sono Bisque.
Bisque, dalla campana
arancione.
La figliastra che concede un
sonno pacifico al grande scrittore che tutti chiamano pazzo.
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Capitolo 7 *** Chris dalla campana d'argento ***
Chris
dalla campana d'argento
La campanella d'argento non
aveva particolari decorazioni, ma il suo suono era magnifico. Mi sono
sempre chiesta da quale amabile casa potesse essere venuta.
Apparteneva ad una vecchia
signora sola in un'enorme magione, senza alcun parente. Non l'avevo
mai notata, prima.
“Madame, è
l'ora della zuppa”.
“Grazie caro”.
“Madame, i gigli in
giardino sono fioriti, li ho messi nei vasi”.
“Che profumo
adorabile”.
“Madame, sta iniziando
a piovere. Mi permetta di chiudere le finestre”.
“Certo, ritira anche
il bucato”.
La vecchia dama era riverita
e coccolata dai suoi servitori. Poteva contare sul loro aiuto per
qualunque cosa desiderasse mentre era comodamente sistemata sulla sua
sedia, ad ascoltare la sua musica preferita. Chiedeva loro perfino di
cambiare il vinile, eppure la maggior parte di loro sembrava adorare
la signora.
C'era una cosa che la donna
chiedeva molte volte nella stessa giornata.
“Perdonami, potresti
chiamarmi Chris? Grazie”.
Più tardi, nello
stesso giorno...
“Oh, sai dov'è
Chris?”
E ancora, più
tardi...
“Per favore, trova
Chris per me”
La servitù, di solito
pronta e obbediente, esitava sempre su questa richiesta.
“Madame, Chris è
già..” Incominciava cauto il maggiordomo.
“Oh, già. Hai
ragione” lo interrompeva la signora. “Non è più
con noi, vero? Hmm... l'avevo quasi scordato...” mormorava
annuendo, ma, solo poche ore più tardi, ripeteva la stessa
domanda. Si faceva perfino spegnere la sua musica preferita.
“Oh, dove potrebbe
essere la mia cara Chris?”
Una notte piovosa, la
residenza era nello scompiglio.
“Madame?”.
“Madame!”
La servitù schizzava
da una stanza all'altra come uno sciame impazzito. Alla fine, una
delle cameriere urlò disperata: ”Non riesco a trovare il
suo bastone!”
Anche se fuori non faceva
troppo freddo, gli spilloni di pioggia cadevano senza sosta.
“Non può essere
uscita, vero?”
Un tremito passò per
la servitù riunita nell'atrio prima che si lanciassero fuori.
Si buttarono addosso le mantelle e cercarono aiuto. Li lasciai alla
loro preoccupazione e mi diressi verso la cittadina bagnata dalla
pioggia. Nel bel mezzo del temporale, sentii profumo di giglio nel
vialetto di un parco pubblico. Scorsi il profilo della donna. Era
arrivata molto lontano dalla sua residenza. Era circondata da un
gruppo di uomini che le parlavano intorno.
“Avanti signora, si
ammalerà qui fuori! Dovrebbe andare dalla polizia”.
Le scarpe e il soprabito
pregiati della signora erano completamente inzuppati. Un uomo tentò
di trascinarla per un braccio, ma lei resistette, impassibile. Stufi
della cocciutaggine della donna, gli uomini la lasciarono in pace.
Entrai cautamente nel suo
campo visivo e, senza dire nulla, suonai la campanella d'argento.
Rintoccò chiara nella pioggia.
La vecchia signora levò
il capo sorpresa e mi fissò.
“Chris...?”
Tossì la signora. Suonai ancora la campanella e tornai sui
miei passi.
“Chris, aspetta!
Aspettami!”
Il suo bastone ticchettava
mentre mi seguiva. Non sarei riuscita a riportarla alla magione, ma
dai suoi maggiordomi sì. Mi fermai spesso a guardarmi
indietro, per essere sicura che mi seguisse. Il magnifico suono della
campanella era come un faro nella notte. Alla fine, uno della servitù
notò la signora e gridò: “Madame!”
Mentre correva verso di lei,
la padrona mi raggiunse e mi strinse a sé, tremante.
I servitori non poterono
nascondere la loro sorpresa vedendo quanto fossi cambiata. Nessuno
disse che io non ero Chris. Poiché la loro dama mi aveva
chiamato così, i camerieri annuirono obbedienti, grati che la
loro amata padrona fosse sana e salva.
Io sono Chris.
Chris, dalla campanella
d'argento.
La piccola, adorabile Chris,
beniamina di sua nonna in questa grande magione.
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Capitolo 8 *** Maria dalla campana rosa ***
Maria
dalla campana rosa
Ho guadagnato parecchio.
Mani gentili e molti, molti
nomi.
Anrì per il lunedì.
Fleur per il martedì.
Silvia per il mercoledì.
Lotte per il giovedì.
Bisque per il venerdì.
Chris per il sabato.
E, per un giorno solo, non
sono altro che me stessa.
Avevo pensato che fosse una
vendetta. Una vendetta contro quelle ragazze defunte che avevano
avuto una vita migliore della mia. Con la vendetta e la blasfemia
messe da parte, tutto ciò che rimane sono io. Una bugia.
Prima che mi rendessi conto
di questo, avevo cominciato a farmi domande sul futuro. Quando?
Chissà quando... Quando mi innamorerò? Una volta che
avessi trovato qualcuno che mi amasse, avrei finalmente ottenuto un
nome. Non il sostituto di qualcun altro, ma un nome tutto mio. Così
avevo deciso.
Quindi perché? Perché
dovevo incontrarlo?
Viveva in una casa sul bordo
dell'altura che dominava la città. I suoi lineamenti erano
giudicati da tutti bellissimi, la sua postura addirittura regale. Ma
non erano queste le cose che mi frenavano. In realtà non mi
serviva una ragione per fermarmi, avrei potuto farlo e basta. Perché
per lui non importava quale campanella avessi indossato. Niente
avrebbe mai cambiato il fatto che io, per lui, non ero nulla.
Ora una campanella con due
strisce rosa chiaro giaceva vicino ai suoi piedi. Non gli apparteneva
più. La campanella, come il suo amore, era spazzatura sulla
strada.
Il suo viso aveva conosciuto
la disperazione. Lo si vedeva nel vuoto dei suoi occhi, un vuoto
pieno di morte. Per quanto avessi potuto fare o dire, non si sarebbe
mai girato verso di me. Raccolsi la campanella rosa. Il suo lieve
suono avrebbe dovuto raggiungere le sue orecchie, sciogliere il suo
cuore e aprire i suoi occhi. Poi, con una voce profonda, lui avrebbe
dovuto parlare grondando emozione e chiamare il nome del suo passato
amore.
“...Maria?”
E io avrei risposto con
altrettanto sentimento, avrei sorrido dicendo: “Sì, sono
io. Sono la tua Maria” e poi non ci sarebbe stata più
nessuna me reale in questo mondo.
“Per favore, dimmi il
tuo vero nome”.
Ammiccai graziosamente e
dissi ancora: “Io sono Maria”.
I suoi occhi si socchiusero
quando si avvicinò.
“Quello non è
il tuo nome. Non può esserlo”.
Ma questo è il nome
della tua amata, non è vero? Io ti ho amato. Ma quella che tu
hai amato non sono io. Tu hai amato la vera proprietaria di questa
campanella. Immagina, un rivale che nemmeno la morte può
uccidere. L'unica che lui abbia mai amato. L'avevo odiata, maledetta,
le avevo rubato il nome e l'identità. E l'avevo fatto
nonostante questo mi avesse reso un essere miserabile.
“Oh, Maria! Se non ci
fossimo più incontrati, sono sicuro che avrei finito col
marcire nella banalità di questa vita”.
Queste sono le uniche parole
che possono salvarmi, ora. Finché tu sarai felice, io non avrò
mai bisogno di alcun frivolo nome.
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Capitolo 9 *** Bell dai sette colori ***
Bell
dai
sette
colori
Il
cielo era in tempesta. I forti venti che venti che avevano picchiato
fin dal mattino contro le finestre avevano raccolto nuvole nere e
sradicato vari alberi nella foresta.
Saltai
fuori dal sicuro riparo delle coperte che vi aveva offerto la vecchia
dama e corsi a perdifiato attraverso la città diretta al
cottage sulla montagna. Il mio vecchio rifugio. Ogni volta che venivo
qui prendevo una campanella e pensavo al passato. Ora che avevo molti
nomi, chissà quali fantasmi regnavano in quella catapecchia.
Un
fortissimo lampo, seguito dal tuono, riempì il cielo. Mi venne
la pelle d'oca. Si sentì un penoso rumore di legno che andava
in pezzi, mi caddero addosso delle gocce. Accelerai il passo senza
pensarci. Un tremore mi scosse.
La
scena che mi si parò davanti fu... indescrivibile.
Una
gigantesca nuvola di fumo mi stordì le narici e mi scottò
la pelle. La montagna era in fiamme e il forte vento stava
accelerando l'incendio. Presa dal panico balzai nella casa di legno.
Sembrava di essere tra le braci di una stufa. Ma, pur in mezzo alle
fiamme e al legno carbonizzato, dovevo salvare le campanelle. Erano
l'unica prova che quelle ragazze avessero vissuto ed erano l'unica
cosa che mi facesse sentire a casa. Raccolsi le sette campanelle e
corsi verso l'uscita, che però trovai già ingombrata
dal fuoco. Saltai attraverso una finestra rotta sul suo davanzale,
pensando che di lì a poco sarei bruciata viva. Potevo
percepire la distruzione che mi circondava.
Fuori
dalla finestra mi attendeva un burrone. Saltai dal mio appiglio e mi
preparai ad affrontare la caduta. Dopo tutto, avevo le campanelle
strette saldamente nella mia bocca.
Dopo
aver perso i sensi, mi svegliai nella pioggia battente. Sentivo
ancora l'odore del fuoco e la pioggia ora stava cadendo ancora più
forte, sapevo di essere tutt'altro che fuori pericolo.
Accasciata
al suolo, non riuscivo a sentire ancora né le braccia né
gambe. Chiesi al cielo se quella fosse la mia punizione. Era questo
che mi meritavo per aver rubato la felicità delle ragazze,
atto folle e sconsiderato?
“...!”
Nel
mondo coperto di cenere, una voce mi stava chiamando.
No.
Non era il mio nome.
Eppure....
“Maria!
Maria!”
Sì,
quello che mi stava chiamando non era altro che il mio amato.
“Maria,
tieni duro! Non morire!”
“Oh,
sì! Mio amato! Mio vero amore! Non abbandonarmi!” urlai
disperatamente. Non mi lasciare nello sconforto, ti prego! Fammi
vivere! Pensai che se mi avesse perso non avrebbe mai più
rivisto la sua amata Maria. E non pensai solo a lui. Anrì,
Fleur, Silvia... Lotte, Bisque, Chris... erano tutte bellissime, e
non le avrebbe mai più riviste nessuno.
“Non
uccidermi!” urlai “Non uccidere la tua amata, ti prego!”
Tremando,
gli porsi le sette campanelle. Se vuoi, prendile. Solo, non lasciare
che le loro famiglie perdano la speranza.
Mi
guardò come se volesse dire qualcosa. Poi, prendendo le
campanelle, si girò e corse via. Sembrava che venisse lavato
via dalla pioggia, mentre si allontanava e si faceva sempre più
piccolo. Provai a chiamarlo, ma non riuscii a mettere in fila le
parole. Se fossi riuscita a parlargli forse avrei fatto l'errore di
dire cose di cui non sarei mai stata capace.
Mentre
pensavo a come la pioggia avrebbe lavato via anche la mia anima,
pensavo all'ultima persona che mi aveva considerato la sua famiglia.
Forse non ero quella che loro avevano amato, ma io amavo le mani
calde e gentili che mi avevano stretto. Avevo mentito e dissacrato la
morte, tutto per vendetta.
Eppure
ero lì che piangevo. Lì, ad un passo dalla morte, ero
molto vicina alle sette ragazze e potevo, finalmente, piangere
davvero per loro. Dopo tutto, lo sapevo. Lo dovevo sapere, no? Tutto
ciò che volevo... era vivere.
La
pioggia bagnava il grigio fianco della montagna, assorbendo la luce
da ogni cosa. Ero immersa nel buio e nella pioggia.
Udii
chiaramente il suono di una campanella. Almeno potevo dire che le mie
orecchie funzionavano ancora. Indirizzai i miei sensi verso la fonte
del suono. Poi, subito dietro, udii dei passi e delle voci
avvicinarsi.
“Forza,
Anrì!”
Pensai
di aver cominciato ad immaginarmi le voci. Doveva essere un ricordo
legato alla campanella. Nessuno mi avrebbe mai cercata.
“Fleur!”
“Silvia!”
Non
poteva essere... sbattei le palpebre. Perché? Da sotto la
cenere cadente, potevo scorgere delle figure. Mi circondarono. Il
ragazzo, il falegname, Mama.
“Lotte!”
“Bisque!”
“Chris!”
No.
I bambini... e il maestro. Lo scrittore, e la signora!
“No”
Provai a dire senza successo.
Non
guardatemi! Vedreste le mie menzogne! Non
odiatemi!
Non sono mai stata la ragazza che voi avete amato.
“Lo
sapevamo già”, fu la risposta di colui che aveva usato
le campanelle per radunare gli altri. Mi strinse, mentre mi avvolgeva
in un asciugamano tiepido. Poi mi diede le campanelle.
“He
he. Lo sapevamo già. Dall'inizio”.
Quando
mi baciò il collo sentii il sapore delle lacrime. “Non
lo vedi? Quella che noi abbiamo amato non è un fantasma del
passato”.
Le
sue parole mi stavano perdonando.
“Sappiamo
che hai detto quelle bugie per aiutarci. Nessun altro avrebbe potuto
farci stare così bene e darci così tanta gioia. Noi
tutti ti ringraziamo. Te e le tue campanelle”.
Chiusi
gli occhi, ma le lacrime scesero ugualmente. Avevo pensato che la mia
vita fosse una bugia dopo l'altra. Non più. Finalmente l'avevo
capito. Il mio nome sarebbe stato Bell, dai sette colori. Un nome
donatomi dalla mia famiglia e dai miei amici.
Io
sono Bell.
Con
i miei sette colori, ero la più amata nella città.
Io
sono Bell.
E,
avendo addirittura sette nomi, sono la gatta più fortunata del
mondo.
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