Nemesis ~ Stelle per Tutti

di Quintessence
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Rei ***
Capitolo 3: *** Minako ***
Capitolo 4: *** Makoto ***
Capitolo 5: *** Ami ***
Capitolo 6: *** Usagi ***
Capitolo 7: *** Il difficile ***
Capitolo 8: *** Le Nemesi ***
Capitolo 9: *** Le Luci della Città ***
Capitolo 10: *** Psyché ***
Capitolo 11: *** Kalìa ***
Capitolo 12: *** Areté ***
Capitolo 13: *** Sophìa ***
Capitolo 14: *** Voluntas ***
Capitolo 15: *** Unirsi ***
Capitolo 16: *** Preludio alla Battaglia ***
Capitolo 17: *** Giorno Uno ***
Capitolo 18: *** Giorno Due ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prima che cominciate a leggere vorrei fare qualche nota e qualche precisazione, onde evitare magari qualche incomprensione ;) Sono una fan Sailor da molti anni, ma mi sono avvicinata al Fandom solo da pochi mesi. Questo è successo perché mi sentivo dentro sempre più storie e finali possibili, sempre più emozioni che non sono più riuscita a contenere. Gioco a GDR sailor, ma non mi sono bastati. O almeno, di recente non mi bastano più. La storia che state per leggere è la prima Long-fic che scrivo, e non l'ho ancora finita. Non so quanto durerà... Ma spero che l'apprezzerete e la seguirete, e che commenterete in molti facendomi sapere punti positivi e negativi, visto che non ho particolare esperienza con questo tipo di scrittura. La storia si svolge dalla fine della Quinta serie, in particolare leggerete subito che comincia a svilupparsi circa dieci anni dopo la sconfitta di Chaos. Parla in particolare degli anni del Ventunesimo secolo che precederanno la Grande Catastrofe che porterà alla distruzione del mondo e alla ricreazione dello stesso, nell'eterna giovinezza di Crystal Tokyo (Come sa perfettamente chi ha visto l'anime). Parla di come siamo arrivati alla Catastrofe, dei motivi per cui c'è stata, di come il Destino è cambiato in modo radicale per avvenimenti imprevisti. Perché ovviamente è il centro che manca, il Futuro è storia nota.
Spero apprezzerete. Sicuramente io ho apprezzato sriverla ;)



Prologo


Chi vuole vivere per sempre? Io preferirei fermare il tempo.

La verità, in questo momento, in questo giorno di lutto, è una sola: noi non sappiamo come finirà la Terra. Potrebbe esplodere in una catastrofe nucleare, o morire con il sole fra miliardi di anni, o bruciare nel suo stesso nucleo. Non lo sappiamo, come finirà il Pianeta. Come morirà. Non sappiamo se un giorno ci saranno ancora abbastanza stelle. Se anche noi saremo una stella di troppo. Se fra un milione di anni qualcuno ci vedrà esplodere.
Però sapevamo, fino ad oggi, che almeno l'umanità sarebbe vissuta. Che la Catastrofe del ventunesimo secolo era destinata a distruggere case, città, palazzi, macchine, strade; ma l'umanità si sarebbe salvata.
Della Terra non sappiamo nulla, ma il Destino ci ha parlato di una luce abbagliante che avrebbe congelato le vite degli uomini, per farli rinascere a nuova vita eternamente giovani, sotto il secondo regno di Serenity ed Endymion. Il Destino ha narrato di un Nuovo Silver Millennium; giusto, equo, intelligente, equilibrato, in armonia con la natura e mai dispotico, congelato nell'eterna e giovane bellezza eterea di Crystal Tokyo.
L'aspettavamo con trepidazione.
Il Destino ci narrò storie di coraggio su Sailormoon, su quello che furono le Senshi, sulla venuta di Chaos. E ognuna di noi sapeva che l'umanità sarebbe vissuta. Che l'accecante potere del Ginzuishou avrebbe toccato tutti. Che Serenity avrebbe vinto anche l'ultima sfida, sconfitto anche la Catastrofe finale.
Il Destino aveva parlato. Noi avevamo creduto.

~

Oggi, però, il Destino è cambiato.
Non sappiamo più nemmeno questo. Non sappiamo, nel giorno del lutto più grande, se l'umanità vivrà. Dall'alto osserviamo la Terra e ci domandiamo se davvero, questa volta, il Destino ci ha raccontato la Verità.
Perché da 9 anni veleno nero ha infettato le guerriere che dovevano vincere la morte e la vecchiaia. Vene nere hanno portato male e tristezza nei loro cuori. Chaos ha lasciato la traccia sui suoi vincitori, proprio come Serenity aveva detto. Forse questo, il Destino non l'aveva previsto. O forse credeva che sarebbe stata abbastanza forte da vincere anche la traccia di Chaos. Ombre scure gravano sul Ginzuishou. Ombre di morte. Perdite Atroci. L'incapacità di alzarsi ancora, l'ultima volta. Cuori Neri.
Adesso non sappiamo come finirà la Terra, ma i suoi abitanti? Sono ancora protetti dal Destino di cui ci hanno narrato?
Da 9 anni non ne siamo più sicuri. Da 9 anni le Senshi non si parlano, e temono di guardarsi negli occhi. Dal Dolore di un lutto così grande è nata la grande lite, e dalla grande lite sono nate tutte le loro ombre.
Ma il Ginzuishou prende forza dal cuore di Serenity, e se il cuore di Serenity è oscuro da dove arriverà l'accecante luce? Forse, non ci saranno più stelle per tutti, e il sogno della grande forza del Neo Silver Millennium si frantumerà con il Mondo.

~

No.
Noi lo impediremo.
Come Galaxia affidò il suo seme alle ali di una Farfalla, ogni senshi ha da sempre consacrato il suo cuore ad una Stella. Le stelle siamo noi. Le Nemesi. Siamo tutto quello che hanno buttato. Siamo i sogni accumulati e scartati, siamo nati poco a poco dalle grandi delusioni, dalle grandi aspettative, dalle grandi Speranze, dai grandi dolori. Siamo il lato oscuro, il lato luminoso. Siamo gli scarti. Ogni umano ne ha una...
Una Nemesi.
Una Stella a cui affidare ogni perdita. Ogni sogno. Ogni speranza. A cui consegnare le ombre dell'anima, sperando di non doverle volere indietro. Mentre noi guardiamo dall'alto. Abbiamo sempre guardato dall'alto. Sapendo che in qualsiasi momento, ci sarebbero state Stelle per Tutti. Che ognuno poteva affidarci sogni da custodire, da congelare fino alla grande venuta del Secondo Regno. Allora, li avremmo resi.
Perché anche se non sappiamo come finirà il Mondo, il Destino ci ha affidato il compito di custodi, fino al crollo del Mondo, alla vittoria della Natura e alla venuta del nuovo regno, così che potessimo rendere ogni cosa.
Ma il Destino è compromesso.
Forse tocca a noi cambiarlo.
Perché un secondo Regno potrebbe non esserci.
Perché a pochi mesi dalla Grande Catastrofe che il Destino ha promesso, cinque ragazze non hanno la forza di guardarsi negli occhi. Non hanno la forza per salvare l'umanità.
Allora, lo faremo Noi. Le Nemesi. Gli Scarti.
Non abbiamo potere così grande, come quello del Ginzuishou, da salvare l'intera umanità regalando loro l'eterna giovinezza e una città sacra, ma insieme...
Potremmo scongiurare la Catastrofe. Fare in modo che non avvenga mai.
Cambieremo il Destino.
E ci saranno di nuovo, e per sempre, Stelle per tutti.

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Capitolo 2
*** Rei ***


Leggeri avvertimenti sui temi di questa storia: so che sono molto forti. Si parla di autolesionismo, e con tutta probabilità nei prossimi capitoli parlerò di bulimia. Se vi infastidisce, bye bye. In effetti uno dei motivi per cui l'ho iniziata è dare una voce a chi una voce non ce l'ha. In silenzio, queste persone soffrono molto. "La Solitudine dei numeri primi", di Giordano, ne aveva parlato con velata e dolcissima sincerità, tanto che mi aveva fatto scappare lacrime di commozione. Io ho voluto comunque parlarne, ma con più forza, e soprattutto con l'idea che tutto quello che c'era di felice c'è ancora, da qualche parte nelle stelle. E di stelle ce n'è per tutti. Sempre. Quindi se affidate tutto quello che avete di felice o di speranzoso alle stelle, siate fiduciosi. Un giorno ve lo renderanno. Vi racconterò come l'hanno reso a Rei, a Minako, a Makoto, ad Ami, a Usagi. Ho preso in prestito i loro personaggi perché so che sono forti, che sono umani, e che da sempre insegnano qualcosa. Ma che in qualche modo, tutti possiamo cadere. Le senshi ci insegnano la forza di rialzarci, no? In questa storia, vorrei renderlo terribilmente chiaro; la mia storia, è una storia di coraggio. Per dimostrarvi che per loro non è stato il Destino a scegliere, ma il loro coraggio. Che hanno vinto una battaglia molto più difficile che un semplice  scontro con due mostri. Sicuramente, per ciascuno, la scelta arriva dal profondo. E di chi sarà il coraggio, allora?


01 – Rei

Riflessioni su Rei e sulla sua voglia di farsi del male. Sul suo sentirsi in colpa. Una prima puntualizzazione sulla tragedia. Una prima puntualizzazione sulla Grande Lite. Obiezioni sulla lametta e divagazioni sulla vita. I guess.

 

La ragazza al volante, testa nera e ribelle e occhi viola -asciutti- guidava leggermente tesa, aveva solo 18 anni. Aveva appena preso la patente. Tornava da una festa che l'aveva appena ufficializzato con tutti i suoi amici, ed erano in cinque in macchina.
C'era Usagi accanto a lei, e rideva gettando la testa all'indietro come solo Usagi sapeva fare, e contagiava tutta la macchina, tutte e quattro loro. Makoto rideva più forte di tutte, con quel suo modo di fare mascolino, e Minako invece squittiva. Ami cercava di contenersi ma non riusciva a non singhiozzare risate sommesse. Rei le guardava nello specchietto retrovisore e sorrideva, i fari che inondavano una strada scura.
Un semaforo lampeggiava di arancione, questo Rei lo ricordava meglio di ogni cosa. Lampeggiava così, uno, due, uno, due. La notte i semafori non servono, per questo li spengono. Ami diceva sempre che era una stupidaggine, perché anche di notte le macchine vanno in giro. Minako invece diceva che era meglio così, c'è meno gente di notte e almeno chi c'è può passare velocemente. Proprio in quel momento stavano discutendo di questo fatto, forse per quel motivo Rei lo ricordava meglio di ogni cosa. Per un secondo, -uno solo- o forse anche meno, aveva girato la testa per controllare che da destra non venisse nessuno. L'aveva fatto anche a sinistra, poi era passata senza rimettere la prima.
A quel punto Usagi aveva urlato, qualcosa che suonava come Sua, fusa, o chiusa, che Rei non aveva capito. Makoto si era attaccata alla maniglia della portiera, e Minako si era piegata in avanti. Rei aveva pestato il piede, e la macchina si era riempita di grida.
Rei aveva stretto i denti, e schiacciato di più, più forte, e ancora di più, fino a far stridere le pastiglie, a consumare l'asfalto, finché il ginocchio non le faceva male, che sembrava andare a fuoco. Aveva sentito l'osso girarsi dentro la gamba, ma aveva stretto più forte il volante, le nocche bianche dallo sforzo, e s'era imposta di non urlare. Non l'aveva fatto.
La macchina si era fermata a pochi centimetri da quello che doveva essere una carcassa, un incidente precedente. Forse di pochi minuti, o come spiegarsi l'assenza di polizia? E perché non aveva le luci accese, quel coglione?! -Rei aveva la bocca aperta e il viso contratto nello sforzo. Nello specchietto retrovisore, lo sguardo viola le aveva restituito il panico più puro.
Usagi le aveva posato una mano sulla coscia.
« E' tutto ok... » -Aveva detto, ma la sua voce tremava. Tutte si erano spaventate. Rei aveva guardato di nuovo nello specchietto. Tre sguardi inondati di terrore. Quello di Ami, anche di lacrime. Deve aver pregato, si era detta Rei.
« State... tutte bene? » -Aveva chiesto con voce vibrante, voltandosi del tutto, mentre mollava la frizione e la macchina si spegneva, lasciandole inghiottire dal buio della città. Le aveva guardate negli occhi, questa volta non attraverso lo specchio. Stavano bene. Solo allora Rei s'era abbandonata sul sedile, con il fiato corto, distendendo il ginocchio dolorante e cercando di recuperare la calma, cercando di frenare i battiti del suo cuore, partiti all'impazzata. Appena in tempo, cazzo.
E poi, aveva guardato a destra. Una luce l'aveva accecata. E, come una mano di gigante, aveva sollevato la macchina.

~

Esattamente nove anni dopo, Rei si trovava nel suo tempio, nella sua stanza, rannicchiata sul futon, e da circa mezz’ora fissava la sua amica dal ghigno argentato. Piangeva.
Ottocentodue.
Da due anni contava tutte le volte che era scoppiata a piangere. E ottocentodue era un numero piuttosto interessante, tenendo conto che trecentosessantacinque per due fa settecentotrenta. Aveva pianto quasi ogni giorno.
Era tutto impolverato, in quella stanza bianca, e pieno di vecchie bambole e giochi, ma a Rei non importava. Aveva i capelli in bocca, tutti impastati dalla saliva, e sporchi, e sudati, che le facevano salire conati di vomito ad ogni respiro. Da quanto non faccio una doccia? -Ma non le importava, piangeva e fissava la sua amica dal ghigno argentato. Piangeva lacrime salate e che le inondavano gli occhi viola e i sudici veli neri appiccicati al volto. Deglutì, e le parve di mandar giù cocci di vetro.
Strinse i denti, si mise una mano sul ventre e tentò invano di regolarizzare il respiro. Per qualche secondo smise di piangere, chiuse gli occhi e si calmò.
Ottocentodue.
Da due anni contava tutte le volte che era scoppiata a piangere per quello che era successo. Ottocentodue volte su ottocentodue. Cento per cento. Le comparve con forza nel buio degli occhi serrati la notte di nove anni prima, per l'ottocentoduesima volta. E probabilmente, molto di più, visto che contava solo da due anni. Ma com'era stato possibile? Come? Perché quei due imbecilli, che avevano fatto uno scontro in pieno incrocio non avevano segnalato la cosa? Perché le luci erano spente?
Quante volte si fosse fatta questa domanda, Rei non lo sapeva. Erano le cose che non contava più.Dopo nove anni che ti chiedi una cosa, smette quasi di esistere per te. Fluttua nell'aria, sempre. La respiri, quella domanda.
Rei si rigirò sulla schiena, e guardò il soffitto. Era candido come tutto il resto della sua stanza, con l'eccezione di un pezzo d'intonaco staccato a metà. Dovrò metterlo a posto. Ma non lo avrebbe fatto, e lo sapeva. Perché stava piangendo, e quasi non lo vedeva, e poi perché quel segno l'aveva fatto Usagi almeno nove anni prima, e che diritto aveva lei di cancellarlo? Era stato il giorno che le aveva detto di essere incinta. Avevano lanciato in aria tutto, tutta la stanza, ogni oggetto, dalla felicità. E a un tratto, Usagi aveva lanciato una bambola di porcellana. Molto furbo. Quella si era schiantata sul soffitto segnando l'intonaco indelebilmente, e frantumandosi in mille pezzi. Si erano guardate per due secondi nettissimi, e poi erano scoppiate in una risata isterica, divertita e impossibile da scalfire. Perché quando sei così felice, niente ti tocca. Niente ti vede. C'è da festeggiare, aveva detto Rei. E l'avevano fatto.
Si rigirò di nuovo sul fianco, spaventata dai ricordi felici, rivide la sua amichetta dal ghigno argentato. La lametta. Le tornarono in mente tutte le cose che loro amavano, e che lei amava di loro. Pensò alle loro risate dolci, speziate, alle loro carezze ogni volta che stava male, che ogni volta la facevano volare via, lontano da quell’orribile pianeta.
Erano state le uniche persone che Rei aveva amato sul serio. E alla fine, alla fine gliele avevano portate via. Non erano morte, questo no. Ma è come se lo fossero, sussurrò una voce nella sua testa. Non voleva credere più né all’amore e né alla vita. Ma voleva vedere come sarebbe finita la sua –oppure se lo ripeteva solo perché era troppo codarda per porvi fine. Quindi si limitava a far male al suo bozzolo di farfalla, al suo involucro vuoto, al suo corpo, per alleviare il tremendo dolore che le pesava sull’anima. Il fuoco dentro si era spento da troppo tempo.
Tentò di urlare, pensando a Ami, Makoto, Minako, Usagi, ma non le uscì che un soffocato sussurro. Rei capì che non c’era via d’uscita, a quel punto. Non aveva più nessuna forza. Si passò le mani fra i capelli e provò a ricominciare a piangere; non aveva forza nemmeno per quello. Si sentiva morire, piano piano sentiva che stava per addormentarsi per non svegliarsi che l’indomani. Ma non voleva dormire, non voleva essere stanca, aveva paura di dormire per gli incubi del passato, che sempre più spesso tornavano a infestare le notti di stelle. Era debole e piccola, povera Rei, rannicchiata sul futon, con le veneziane abbassate per non esser costretta a vedere la luce.
Spalancò gli occhi, e si asciugò una lacrima con una mano; guardandola poi e vedendola tutta nera pensò che il mascara doveva ormai essere diventato poltiglia. Guardò di nuovo la lametta, e poi si osservò le cicatrici sulle braccia e sui polsi: erano davvero brutte, alcune anche violacee. Si vedeva che non le aveva mai disinfettate.
Inorridita dalla sua stessa carne, le nascose alla vista mentre buttava la lametta lontana, lontana dalla sua pelle, lontana dal bozzolo. Rimise le mani, ornate di anelli e bracciali tintinnanti, al viso, e si girò a sbirciare la lametta abbandonata sul pavimento; era un’attrazione invincibile quella esercitata dal sorriso, -dal ghigno del piccolo oggetto di metallo arrugginito.
Uno scatto in avanti.
Fuori dallo spazio buio e riparato, allo scoperto, sulla lametta. Che chiedeva sangue. Che le sorrideva dolcemente, rassicurante, melliflua. Voleva sentirne di nuovo l’odore, sentire la sua carne lacerarsi, sentire il potere di fare al suo corpo quello che voleva, senza che nessuno la fermasse.Sentire l’odore metallico, rugginoso, sentir scorrere il dolore a purificarla… Ad annientare la mente.
Non farlo, Rei –le gridò la sua parte felice. La sua Nemesi.
Zitta, stà zitta!!! –Ribatté lei, e ripensava ancora a ogni dolore, ad ogni colpa, e a Usagi e alla sua casa, senza sapere che casa fosse o se casa fosse. Eravamo in cinque, in quella macchina, cinque! (sei) Come ho potuto...?
« NO! » –Gridò alla fine, stremata. E la lama tagliò. Recise le vene con dolcezza decisa, e il sangue scorse ancora, a cristalli rossi, e a fiumi. Le cicatrici si riaprivano, una a una, e lei urlava, e la lametta tagliava. Su, giù, destra. E ancora. E ancora.
Posti più nascosti, che hanno anche sempre fatto più male. Tagliava come una furia, come se non fosse nata per far altro. Voleva solo ridurre a brandelli quel corpo.
Lo odiava. Lo odiava. Lo odiava.
Con un ultimo colpo secco sul polso si lasciò andare sul pavimento, spaventata di tanta rabbia in corpo ad una persona sola; proprio lei, poi. La lametta era vicinissima a lei, ma non ebbe il coraggio di prenderla ancora. Chiuse gli occhi.

~

« Usa, ti prego, Usa... » -Una voce rotta di pianto in una stanza di ospedale nera. Nera nonostante i fiori luminosi. Nera nonostante il bianco delle pareti. Nera. Nera. Nera.
« Usa, ti prego... » -Adesso sta piangendo apertamente, si china sul letto. Usagi si scuote, l'allontana.
« Ci hai uccise tutte » -Dice. Rei scuote la testa, sta piangendo, la scuote con forza, con disperazione, non vede più niente. Stanza nera.
« No, Usa, ti prego... » -Come non sapesse dire altro, se non ti prego. Per cosa prega, poi, non si capisce. Prega per il perdono, forse?
« Era dentro di me, Rei, era dentro di me... » -Sta piangendo anche Usagi, adesso.
« No, Usa, no, ti prego, ti prego... Eravamo tutte e cinque, eravamo insieme, lo sai, lo sai che non è stata- » -Fa quasi innervosire che non sappia chiedere scusa. Che sappia solo dire ti prego, ti prego.
« Eravamo in sei, Rei. C'era anche Chibiusa, c'era, la sentivo. E adesso non la sento più » -Non sa nemmeno lei quello che dice, ma la sua voce è orribilmente ferma. Terribilmente ferma. Non fa nemmeno una piega. Non fa una vibrazione. Come se le avesse imparate a memoria, quelle parole.
« No, Usagi! » -Finalmente la rabbia si impossessa anche di Rei. Accusata ingiustamente, maledizione, non è colpa sua!- « Non c'era, non c'era niente, cazzo! »
Usagi la guarda. Non c'è pietà nel suo sguardo, non c'è perdono. Non c'è rabbia, nemmeno, non c'è tristezza. Non c'è niente.
« Esci »
Rei esce. Senza chiedere scusa.

~

Ci sono cose che non contiamo mai. Come le volte in cui andiamo a scuola, o le volte in cui mangiamo cioccolato. Non ci importa sapere quante sono state, nella nostra vita. Rei non smise mai di chiedersi se fosse stata colpa sua, in quei nove anni. Né di domandarsi perché. Perché, per esempio, lei ne era uscita illesa. Perché non era morta. Perché il camionista che aveva investito la loro macchina non si fosse fermato. Non smise mai di chiedersi se davvero avesse preso la decisione giusta, a frenare. Forse, se avesse evitato la carcassa, sarebbe riuscita ad evitarlo. O forse no, forse sarebbe saltata in aria la macchina, si sarebbero cappottate, e sarebbero morte tutte e cinque -tutte e sei.
Così si dava forza, e non moriva. Così tagliava, e non uccideva. La prontezza che aveva avuto nel frenare era stata forse peggio della morte? Avrebbero davvero preferito morire?
Con Usagi ne avevano parlato molte volte. Molte. Usagi disse per sempre di sì. Che avrebbe preferito morire con Chibiusa, che vivere nell'eterna convinzione che non sarebbe mai più nata. Ma Rei di Usagi non sapeva nulla da anni, e per quel che ne sapeva poteva benissimo essere tutto scritto nel destino.
E' colpa mia?
Questo, Rei non lo sapeva.
E se in un anno ci sono trecentosessantacinque giorni, e in nove anni ce ne sono tremiladuecentottantacinque, che vuol dire settantottomilaottocentoquaranta ore, che vuol dire quattro milioni di minuti, che vuol dire una cosa come tre miliardi di secondi, Rei se l'era chiesto esattamente quel numero di volte.
Solo che erano talmente tante che aveva smesso di contarle.

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Capitolo 3
*** Minako ***


02 – Minako

Minako e la sua bulimia, Minako e il suo pensare che la bellezza è tutto quanto, Minako e la sua vita prima dell'incidente. Minako e la sua vita dopo l'incidente. Altre supposizioni sulla Grande Lite, precisazioni sulla tragedia. Minako e il suo riflesso a metà.

 

Minako aveva fatto una battuta -Una che tutte avevano trovato molto divertente, sul fatto di essere sordi. Avevano riso tutte tranne Ami, che aveva cercato di farle la predica prima di arrendersi ad un accesso di risa ritardato.
Se ne stava dietro, seduta in mezzo fra Makoto ed Ami, il fiocco rosso perfettamente aggiustato. Perfettamente grande sulla testa piccola, che stringeva le ciocche boccolate per l'occasione quasi gentilmente, adagio, per non far male. Makoto era grande e quasi la sovrastava, aveva detto ad Usagi più volte di andarsene avanti con il sedile, ma Usa più di così non ci riusciva. E poi, silente, Minako lo sapeva, aveva paura per la sua pancia. Era da poco che lo sapeva, probabilmente meno di un mese. Rei aveva appena preso la patente e ne avevano approfittato per festeggiare tutte insieme.
E dopo la serata, passata in una discoteca di basso borgo dove avevano ballato fino a farsi girare la testa alla velocità della luce, stavano rientrando nella sua utilitaria usata, finalmente nel silenzio dell'abitacolo. Silenzio mica tanto. Avevano continuato a ridere come matte fino alle lacrime, finché non era cominciata la discussione sui semafori. Minako pensava che non fosse importante per niente, chissenefregava se i semafori di notte lampeggiavano o meno, ma il senso civico di Ami come al solito era arrivato alla carica. E poi la bionda era brilla, per di più, ed Ami sobria come sempre. Minako s'era aggiustata il fiocco, più per abitudine che per necessità. La serata era finita... Figurarsi che discussione poteva uscirne!
E poi Usagi aveva urlato proprio mentre anche Minako gridava ad Ami « Ti voglio bene! », qualcosa che suonava come sua, chiusa, o susa. Minako aveva guardato in avanti, aveva visto quello che Rei aveva visto un secondo prima di lei, e Usagi due secondi prima, e si era chinata in avanti per proteggersi la testa. Makoto aveva afferrato con forza la portiera, ed Ami aveva detto « No, per favore » -Ed era scoppiata in lacrime.
Per dieci secondi netti, Minako aveva pensato che l'auto non si sarebbe fermata. Che si sarebbero schiantate a una velocità pazzesca contro la carcassa in mezzo all'incrocio. Si era tappata le orecchie e aveva dato fiato a tutte le sue corde vocali, la testa piantata in mezzo alle ginocchia e le guance gonfiate d'aria. Quando l'aveva sollevata, Rei era lì che la guardava con il fiato corto. Aveva mollato le orecchie e aveva espirato. Niente schianti. Minako aveva sorriso, quasi riso. C'è mancato poco, aveva pensato.
E poi, la macchina s'era piegata su Makoto. Makoto s'era piegata su di lei. Lei s'era piegata su Ami ed Ami s'era schiantata sul finestrino. La macchina s'era piegata di più, non si fermava. Rei aveva bestemmiato contro il camion, e a quel punto il finestrino s'era spaccato e Minako l'aveva sentito conficcarsi per metà almeno nella sua guancia. Giurò a se stessa che non avrebbe mai più raccontato barzellette sui sordi, e nemmeno sui muti, da quando quel pezzo di vetro le era passato a un millimetro dalla lingua. La ruggine del sangue le aveva invaso tutta la bocca, ma il vetro non era arrivato dall'altra parte. C'era buio di nuovo, quando tutto s'era fermato. Le era subito saltata in mente una domanda idiota: il fiocco rosso si sarà sciolto...?
Non aveva urlato per paura di non sentire risposta. Per paura di non sentirsi.

~

S'affacciò sul baratro, rassegnata all'idea. Tirò indietro i capelli con una mano sola, oramai era esperta in quel tipo di faccenda.
l fiocco rosso non esisteva più da quasi nove anni.
Uno scatto nemmeno percepibile, giù, a fondo, fin dove si può, fin dove si riesce, fin dove si arriva… Contrasse tutti i muscoli e poi il riflesso già sbiadito nell’acqua sparì, il sapore di dolce al cioccolato lasciò posto a un acido che le corrodeva la bocca. Gettò indietro i capelli, respirò e poi ricominciò. In un gesto meccanico, ripetuto più e più volte. Finché non si sentì davvero svuotata, e finché quel sapore acido non le riempì ogni angolo di bocca, di gola, finché anche le sue dita furono sature di vomito, di lercio, di sudicio. E più era schifoso, e più a lei piaceva, perché sentiva di purificarsi. Sentì di buttare fuori tutta la merda che aveva dentro, tutto quello che aveva ingiustamente mangiato, tutto quello che la gonfiava in quel modo che faceva così ribrezzo a Joe.
Joe era il tipo che aveva detto a Minako otto anni prima che non era più adatta a fare la modella. La persona che l'aveva scaraventata sulla strada dopo che lei aveva fatto così tanta fatica a farsi accettare. Sovrappeso, era stata la motivazione gettata lì superficialmente.
In qualche modo, Minako aveva sentito nel fondo del suo cuore che non era quella la verità, ma aveva voluto credergli lo stesso. E così, era stato lui, Joe a dargli l'ultima spinta, e s'era affacciata sul baratro. Docilmente diventò sempre più pallida, continuò ad aprire la porta del bagno per sola forza d’abitudine, per precipitare ancora, senza ben sapere perché.
Con una sola parola nel cervello.
Sovrappeso.
Una parola orribile, che aveva circondato gli incubi di Minako fin da piccola, così come quelli di Usagi. Si erano specchiate l'una nelle paure dell'altra, e si erano date forza di smettere di mangiare tutti quei dolci e tutte quelle patatine fritte. Ma da quando era successo l'incidente, lei non ci era più riuscita. Era ingrassata. Molto, molti chili. Evidentemente nessuno le aveva mai detto che la bellezza non si misura in chili, e nemmeno in etti, e nemmeno in litri. Joe la misurava in Yen guadagnati da uno spot.
Minako si alzò in piedi, e rimise al suo posto il tappeto rosso. Fosse mai stato che qualcuno, venendo da lei, l'avesse notato messo proprio lì, tutto stropicciato e sotto il water. Se ne sarebbero accorti. In realtà le uniche persone che se ne sarebbero accorte non andavano a trovare Minako dalla bellezza di otto anni e mezzo, l'unica che era rimasta in contatto con lei era Usagi. Ma solo contatto telefonico, e con il tempo era diventato sempre più rado.
Le gambe sottili la ressero a malapena mentre si dirigeva verso lo specchio, e si poggiava al lavandino per bere. Si chinò e aprì l'acqua completamente ghiacciata, se la rovesciò sulla faccia struccata con le mani e poi ne bevve sorsate abbondanti.
Almeno una ventina.
Così lo stomaco si sarebbe placato, almeno per quel giorno, e forse le avrebbe dato una notte di riposo dai morsi della fame; quelli erano la tortura più terribile. Come lame affilate nello stomaco che, era sicura, volevano ammazzarla. C'erano sicuramente degli animali dentro la sua pancia, degli animali orribili che la mordevano apposta per farle venire fame, anche quando in realtà non ne aveva. Il peggio era che purtroppo c'erano giorni in cui non riusciva a resistere al loro potere ipnotico.
Si fiondava su donuts, hamburger, bento e ramen a volontà e ingoiava a pieni bocconi, assaporando tutto, masticando piano. Ingoiava con avidità. Poi si pentiva, vuoi forse essere un botolino? -si chiedeva, e si rispondeva certamente di no.
Le sue amiche in ogni modo avevano cercato di distoglierla da quel suo problema inutile e stupido, e in ogni modo le avevano detto che era speciale, che non valeva la pena buttarsi giù per una cosa così stupida. Che l'apparenza non era tutto, nella vita.
Ma le sue amiche non c'erano più ora, giusto?
A nulla erano valsi gli sforzi, a nulla le telefonate. Si finiva o per buttarsi il telefono in faccia, o per strillare o peggio, rinfacciarsi l'una i difetti dell’altra. Dopo l'incidente, Minako si era sentita dire più volte che era brutta, e così (abituata com'era a sentirsi dire che era splendida e che irradiava luce) aveva finito per pensare che la bellezza nel mondo delle apparenze in cui viveva era l’unica cosa a cui la gente faceva caso, e lei non l'aveva. Non più.
Sollevò la testa verso lo specchio, vide gli occhi cerchiati di viola e la frangia leggermente bagnata, e la pettinò con garbo. La scostò dalla fronte. Prese il fondotinta e il correttore, e li poggiò davanti a sé. Poi, cominciò a studiarsi.
La prima cosa che le saltò all'occhio della sua faccia fu, come sempre, il lato sinistro completamente macellato. Un lungo solco in rilievo partiva dall'attaccatura del naso e le disegnava una C fino all'angolo della bocca, aperta in un ghigno innaturale. Si vedeva un pezzetto di dente. Minako strinse le labbra con forza, se le chiuse con il pollice e l'indice e finalmente riuscì a coprire quel riflesso bianco.
Se Usa fosse qui saprebbe cosa dire -Pianse appoggiandosi al lavandino e mollandosi il labbro, toccando con gentilezza la cicatrice rigonfia, che dopo otto anni ancora bruciava sul suo viso. Aprì la bocca ed estrasse la lingua per guardare la seconda. Eccola, una traccia che sembra un'autostrada. Uno strascico orizzontale. Un'impronta di un vetro spaccato che rischiava di arrivare dall'altra parte, e meno male che non gliel'aveva trapassata da parte a parte la lingua, ma l'aveva solo segnata... o non avrebbe nemmeno potuto parlare.
Maledisse in silenzio quel giorno. Quel giorno le aveva cambiato tutto, tutto.
Era stato allora che Minako si era ritrovata del tutto sola contro un mondo che aveva sempre creduto di conoscere e che invece aveva mille sfaccettature da scoprire, mille insidie da evitare, mille persone da capire. Troppe, per una ragazza ingenua come lei. Come se per la prima volta avesse aperto gli occhi sul mondo, e il mondo le fosse apparso non bello e colorato come glielo avevano sempre descritto ma grigio, e spoglio. Afferrò il piumino del fondotinta e lo scagliò con rabbia contro il suo riflesso, contro se stessa. Maledetta, Maledetta Minako!
Si accasciò sul pavimento, ma perché? Perché loro? Erano sempre state insieme, sempre. In tutto, in ogni respiro, ogni battito. Era stato sempre tutto insieme. Era bastato così poco, un solo camion a dividerle? Cosa era stato? Non poteva essere stato solo il camion.
Minako si prese la testa fra le mani. Era stata Rei, per prima. Perché aveva frenato e non era ripartita. Si era fermata là in mezzo. Maledetta Rei, perché? Forse però, a ripensarci, non era stata la prima. Makoto l'aveva convinta a prendere la sua auto anche se non guidava da molto. Makoto l'aveva spronata anche se Ami la frenava. Maledetta Makoto, perché? Ed era stata Ami a convincere Rei a prendere la patente. Maledetta anche Ami! Di chi era la colpa?
Con le mani sulla faccia se lo chiedeva.
La colpa alla fine non era di nessuna, si disse. Nessuna di noi ha avuto colpa. Allora perché, Destino, ci hai forzate a questo addio? Volevi forse renderci più forti?
Aveva ottenuto esattamente l'effetto contrario, erano diventate cinque reiette. Da dove era cominciato il declino? Cosa era stato a separarle? Non poteva essere solo il camion.
Usagi aveva accusato Rei, cominciò a pensare, e Rei s'era risentita per questo. Usagi aveva perso il bambino, forse per questo s'era chiusa nel suo mondo e non aveva più voluto vederla. Usagi dava la colpa a Rei. Minako dava la colpa a Usagi per dare la colpa a Rei, e Rei dava la colpa a Minako di difenderla. E così loro tre s'erano separate. Ami non ricordava nemmeno come si chiamava. Quanto a Makoto, Usagi l'aveva assunta a confidente estrema e quando Makoto le aveva detto che non era l'unica ad avere dei problemi nella vita, Usagi s'era risentita -di nuovo- per la scarsa importanza data alla perdita di Chibiusa. Makoto era andata da Rei, dicendole che non ce l'aveva con lei, ma Rei era già troppo presa dalla lametta per avere altri amici. Allora Makoto era andata da Minako.

~

« Che cazzo fai? » -Nel tono della voce non c'è cattiveria, solo una nota della candida sorpresa di chi non si aspetterebbe mai di vedere alcune cose. Invece le vede.
Nessuna risposta. Minako solleva la testa.
« Che cazzo fai, ti ho chiesto? » -Adesso c'è anche una sfumatura alterata.
« Devi lasciarmi fare » -Una specie di sussurro. Guarda Makoto negli occhi, e non riesce a sostenere il suo sguardo, un misto di pietà e di sorpresa, e di compassione e di amicizia. Lo riabbassa- « Ti prego, devi lasciarmi fare »
Makoto avanza leggermente, ma è lenta. Lenta dopo quello che è successo. Vorrebbe tirarle un pugno ma non ne ha la forza. Non più. Riprova con le parole, trattenendo una vena di rabbia.
« Non devo lasciarti fare. Devi smetterla » -Smettila. Quella cosa gliel'ha già detta qualcun altro, a Minako. Una voce familiare. Usagi. Guarda Makoto e rivede i suoi stessi occhi.
« DEVI LASCIARMI FARE! » -Grida e si avventa su Makoto con forza, con violenza, che quasi sembra posseduta. Lei non riesce a reagire, forse per la sorpresa o forse per la sua condizione. Cade. A quel punto Minako si riscuote. Torna ad essere Minako, non il demonio, non la mestatrice.
« Scusa, oddio, Mako, scusa » -La rimette in piedi tremando, l'aiuta a sedersi. Anche Makoto adesso piange, ma sono lacrime silenziose. Niente grida.
« Sì, sì. Insomma, ci vediamo » -Dice cortesemente, ed esce. Minako chiude la porta e guarda dalla finestra, finché non la vede sparire. Prima dentro la macchina che qualcun altro guida, poi dietro l'angolo.
Ci vediamo, ha detto. Ma era solo cortesia. E Minako non ha il coraggio di inseguirla.

~

Si rimise in piedi con fatica, doveva andare. Doveva proprio andare. Il lavoro chiamava sul serio, in quel momento, e avrebbe fatto parecchio tardi se non si fosse mossa. Si chinò sullo specchio e spalmò generose dosi di fondotinta, e poi generose dosi di correttore, talmente generose che quando finì aveva mezza faccia marrone e mezza candida. Si portò la mano destra sul volto e coprì la metà sana.
Ecco, ti presento Minako. Sfigurata, guardala, con questa C che le illumina la faccia e che allontana la gente dal terrore d'essere ammazzati, o non lo so, sfigurati a loro volta. Ecco la Minako di oggi, che da nove anni a questa parte si costringe a immergere la faccia nel correttore per fingere di potersi correggere. Di potersi aggiustare.
Cambiò mano e con la sinistra coprì la cicatrice, e il sorriso storto, e il dente bianco che spunta dal labbro bruciato, tagliato, mozzato via da un secondo breve che cambia la vita.
Ecco la Minako del passato, si disse. Quella bella, quella luminosa, candida. Quella ingenua, quella che si piace. Quella che la vita l'ama e la prende di petto. Quella del fiocco rosso.
Ma il fiocco rosso non esiste più da quasi nove anni, si disse. L'ha tranciato via il finestrino di un'auto, guidata da una ragazza con gli occhi viola, che chiunque avrebbe giudicato troppo giovane.
Spense la luce e il pezzo candido di viso le si impresse nella retina. Prese la borsa, mise le scarpe, afferrò le chiavi, e chiuse la porta. Con il suo riflesso a metà.

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Capitolo 4
*** Makoto ***


03 – Makoto

Racconto della farina e di come Makoto non riuscì a prenderla. Racconto della depressione di Makoto, di come parlava con gli oggetti, e altri dettagli sulla grande lite. La tragedia. Alcune digressioni sulla sedia a rotelle e sulla cucina.

 

Nessuna mancava mai a quelle serate, era un tacito patto che avevano fatto anche se nessuna l'aveva mai firmato. C'erano sempre tutte e cinque. Non c'era una parola d'ordine da dire, per esempio stasera il solito o cose del genere. Era il tono della voce, o la sfumatura dell'emozione da cogliere. Stasera usciamo, vieni? E la risposta deve essere sì, un tacito patto, anche se nessuna l'aveva mai sancito. Perciò Makoto aveva detto di sì senza esitare nemmeno mezzo secondo, e poi era corsa a prepararsi. La serata l'aveva passata con Rei, a guardare ragazzi da lontano e additare i più carini o i più ridicoli, mentre Minako accalappiava come una pazza e Ami e Usagi, evidentemente, avevano voglia di chiacchierare di cose serie. Qualcosa di dottori e parto, che rottura. Ma se era meno di un mese! Ma Usagi queste cose le sentiva tanto, e Mako lo sapeva, e per questo né lei e né Rei né tantomeno Minako avevano fiatato su quella scelta. Perciò mentre Ami la istruiva con le sue edotte conoscenze di sala parto e ostetricia, Makoto e Rei s'eran divertite in altro modo. Rei aveva categoricamente rifiutato di bere, pena la morte, e Makoto non aveva assolutamente contraddetto la sua volontà. Al contrario, l'aveva assecondata.
Perciò quando era salita in macchina, aveva insistito che Usagi stesse davanti e lei dietro, anche se era stata un po' tesa all'inizio. Non aveva più nessuna paura, e si era affidata a Rei senza remora alcuna. Alla fine Usagi aveva ceduto e ringraziato, e si vedeva che era sollevata. Makoto era salita sorridente, e si era persa nei suoi pensieri guardando i lampioni disegnare ombre alternate sul volto di Rei, concentrata al massimo nella guida. L'aveva trovato un po' cupo e aveva avvertito un brivido mentre passavano così, illuminandola di quel giallo forte e caldo dei lampioni della sera per un secondo e poi facendola sparire.
« ...Non sentir ragione! » -Sicuramente era una barzelletta di Minako. Si era costretta a ridere, e poi la risata era diventata una risata vera quando Ami aveva singhiozzato qualcosa come non si fa, Minachan.
« I semafori di notte sono una barba » - E a quel punto le voci erano diventate di nuovo un ronzio per Makoto, che si era riappoggiata al finestrino sbuffando, guardando una moto impennare accanto a loro e fare un cenno verso di lei. Che sbruffone. Era ancora persa nei suoi pensieri quando aveva sentito un grido che non somigliava a niente di divertito, che sembrava una parola come astrusa, fusa, o forse sposa. Makoto si chiese quale fosse il motivo d'urlare sposa con così tanto panico, e se n'era accorta poco dopo quando Rei aveva cominciato a inchiodare. Oh, merda, s'era detta, e aveva pensato di morire. Aveva gridato con Minako, e nel suo cuore pianto con Ami, aveva pensato a Usagi incinta. Chibiusa, no! Merda. S'era aggrappata con tutta la vita alla portiera, come se potesse tenerla su, aveva chiuso gli occhi aspettando di morire e sperando che non fosse ancora il momento. Qualche secondo dopo aveva aperto gli occhi, e non era morta. Aveva sentito Rei respirare forte e girarsi, Usagi rassicurarla.
«State... tutte bene? » -Makoto era scattata in avanti sovrastando Minako di due teste, per chiederle
ma che era, Rei? -Ma non aveva fatto in tempo. L'auto s'era accartocciata sulle sue gambe -perché non aveva insistito e chiesto a Usa di farsi più avanti?, e lei era stata spinta indietro. Aveva sentito tutta la parte bassa di spina dorsale andare in pezzi microscopici. Ecco, aveva pensato, stavolta muoio sul serio. Invece era tutta un dolore, tutta una fiamma, tutta una scossa mentre l'auto si cappottava una, e poi -forse, o forse il dolore l'ingannava- due volte. Aveva allungato una mano verso Usagi, per toccarla l'ultima volta. Un ultimo, estremo gesto di tenerezza, le aveva sfiorato le dita. Rei aveva bestemmiato. Makoto s'era subito pronunciata d'accordo. Quando la macchina si era fermata, e la testa aveva smesso di girarle, aveva gridato di rabbia cercando di uscire, un dolore lancinante dietro le spalle, sul fondo della schiena.
« NO, NO! » -Gridava, e sentiva silenzio- « USA, REI, AMI, MINA! » -Aveva gridato a pieni polmoni, era la prima che si svegliava? O le altre non si sarebbero svegliate? « AIUTO, PER FAVORE! » -Nessuna risposta. S'era abbandonata per un secondo con gli occhi chiusi ai dolori della schiena. Aveva cercato a tentoni il cellulare, e solo allora si era accorta
veramente del dramma. L'aveva capito in quel secondo breve, mentre girava la testa e voltava il busto, e le fiamme sulla schiena l'avevano fatta implorare per la morte. Invece, per la seconda volta, non era morta.

~

Allungò la mano verso l'alto, per prendere la farina. Non ci arrivò. Doveva essere colpa di Tomoyo. Quella scema, gliel'aveva detto cento volte, non mettere le cose nei ripiani alti. Sforzò il braccio fino ad arrivare a pochi millimetri dal pacco. Niente da fare.
Per quest'oggi niente torta, si disse.
Si abbandonò sulla sedia a rotelle, stremata da quell'unico, breve sforzo. Quando devi fare tutto con il busto non è mica facile. Fece scorrere con sapienza le mani sulle ruote, decisa a cambiare idea e fare quella stupida torta. La verità  però era che non aveva altro da fare, e di prendere la macchina non se ne parlava. Era domenica. Tutto chiuso.
Provò a mettersi sul portatile come al solito, digitò “ricette torte”, poi cambiò idea e cancellò, e riscrisse “ricette torte senza farina”. Cliccò su un sito per allergici al glutine e per una decina di minuti parlò in chat con una cuoca, ma il suggerimento era quello di sostituire non solo la farina, ma anche un centinaio di altri ingredienti con un centinaio di cose che Makoto non aveva in casa. Salutò ringraziando cortesemente e provò con “ricette africane” e poi “ricette americane”, ma niente dolci. O meglio, meravigliose torte americane che sembravano davvero gustosissime, ma niente dolci che non richiedessero farina. Sbuffò contrariata mentre chiudeva una finestra di spam che le annunciava a lettere cubitali di essere stata la milionesima visitatrice. Cliccò sulla x rossa e chiuse anche il browser.

E va bene, si disse spegnendo il pc, ora a noi due, farina 00.
Parlare con gli oggetti era un'abitudine da quando aveva smesso di parlare con le persone. Era passata dalla fase del “tenta di farti accettare e comportarti normalmente”, a quella “idioti, non capiscono nulla”, fino a giungere alla conclusione che fin quando non ti senti le gambe e non puoi camminare perché hai mezza spina dorsale in briciole e provano solo compassione per te, i dialoghi sono impediti.
Tomoyo era la domestica che l'aiutava in alcune faccende, come le spese faticose e pesanti e le questioni di moduli e scartoffie da consegnare in posti senza ascensore. Pagarla faceva sentire Makoto sollevata, perché non pesava su nessuno, ma i loro rapporti personali erano strettamente confinati nelle freddezze dei saluti o delle domande sul lavoro.
Perciò, piano piano, Makoto aveva cominciato a chiacchierare vivamente con gli oggetti che la circondavano. In cucina raccontava al forno, mentre cuoceva, la sua giornata, oppure parlava con coltello e forchetta. Parlava con la tele e con i libri. Ogni tanto con la fruttiera -ma quella era più antipatica degli altri. Parlava soprattutto con il cuscino e con le coperte, i suoi confidenti preferiti.
E in quell'esatto momento, stava litigando a viva voce con la farina. Aprì la porta apostrofandola con un secco « Permesso! » e si portò di nuovo di fronte al ripiano con la sedia a rotelle. Si puntellò sul braccio destro per sollevarsi e allungò il sinistro di scatto - « Ha! » -Sussurrò vittoriosa mentre un pacco azzurro da due chilogrammi almeno, colpito dalla sua mano, le atterrava sulle gambe.
Il dolore è un dono.
Chiunque ce l'abbra donato, ha fatto proprio una gran cosa. È un meraviglioso allarme naturale, per avvertirci che qualcosa non va, che c'è una guerra in corso.
Makoto, però, erano nove anni buoni che non aveva idea di cosa significasse sentirlo sulle gambe. Non aveva sentito proprio niente, se non il rumore del tonfo, mentre il pacco di zucchero le atterrava sulle cosce.
« Oh, no! » -Gli disse seccata- « Non volevo te di certo! Ne ho già una marea, di zucchero! »
Gli sorrise bonaria e lo poggiò su uno scaffale più in basso, rassicurandolo poi per la sgridata,
non sia mai poi s'offende- « Per ora non preoccuparti, resta qui, al tuo posto. Dopo, se servirai, ti aprirò »
Quella farina la stava facendo arrabbiare sul serio. Estrasse terrina e sbattiuova, e uova, nella speranza di trovarne qualche vecchia confezione aperta. Niente da fare.
« Ma non si posson fare dolci senza farina? Il Tiramisù, magari, o non so...? » -Ma non c'era mascarpone in casa, e nemmeno savoiardi e poco caffé, e la crema da sola... Beh, che se ne doveva fare?! Era una cuoca provetta, lei, lei era Makoto. Mica la prima che passa!

Se ci fosse qui Ami, o Mina, o Usa, o Rei, saprebbe cosa fare.
Sussultò, dopo così tanto tempo senza contatti, nel cominciare a vedere tutto velato pensando a loro, e soprattutto provando compassione per se stessa, che da sola aveva sempre fatto tutto, nel sorprendersi a parlare da sola in cucina, senza riuscire a prendere neppure un sacchetto di farina. Anche se sapeva bene che non c'era nessuno, si coprì la faccia dalla vergogna.

~

Una mano dentro l'altra, una ragazza castana canta una ninna nanna. Dice che le ricorda la luna. A Usagi non piace.
« Canta qualcos'altro » -Makoto si stizzisce.
« Non sono un juke-box! È la sesta volta che mi fai cambiare » -Perché tutto le ricorda Chibiusa, ma non può mica stare al suo servizio. Una risata calda rimbalza per la stanza, non femminile. Maschile. Mamoru. Makoto tira un sorriso, Usagi non si sforza neppure. Ha ancora gli occhi vuoti. Se ne sta lì, nel letto, con la gola segnata di viola. Makoto guarda quel segno e per una volta è lei a provare compassione. Povera Usagi. Per un secondo se la figura appesa per il collo, bianca, con gli occhi riversi. No, non è possibile, scaccia quell'immagine di fretta.
« Sai quanto sia capricciosa » -Dice Mamoru, e Makoto si accorge di essersi persa nell'immagine dell'amica illuminata dal poco sole delle sei. Da' un buffetto sulla guancia di Usagi, e lei si risveglia per un secondo dal torpore. Lo fissa con occhi vitrei. Il sorriso sulle labbra di Mamoru si spegne, e la bacia sulla fronte. Lei piange. Makoto guarda senza vedere, seduta sulla sua sedia a rotelle. Impotente. Mormora un motivetto, quello di un carillon.
« Sei proprio una cretina » -è Usagi, questa- « Non capisci niente » -La fredda. Makoto sgrana gli occhi.
« Prego? » -Anche Mamoru sta guardando Usagi stupito.
« Sei sorda oltre che cretina? » - Rincara la dose- « Mi sa che non son solo le tue gambe ad essere andate nel pianeta dei sogni »
« Usako! » Interviene Mamo, Makoto arretra per quanto le è possibile e lascia la mano di Usagi mentre lei diventa stridula
« NON CHIAMARMI IN QUEL MODO! » -Rossa di rabbia, Makoto guarda Lei e poi Mamo.
« Va' al diavolo » -Dice freddamente, e si stupisce lei stessa di quanto ferma sia la sua voce. Si dirige all'uscita- « Non sei l'unica ad aver perso qualcosa »
« IO HO PERSO TUTTO! » -Grida e piange, e non riesce a dir bene le parole. Ma le marchia a fuoco nella testa di Makoto- « PER COLPA VOSTRA! »
« Colpa nostra? Come fai a dire- » -Ma Usagi la interrompe di nuovo con quella lingua che marchia, che raschia, con quel tono che trabocca disperazione ed egoismo. Un tono che nessuno le ha mai sentito.
« Adesso siete felici, no?! VOLEVATE DISTRUGGERMI! »
« Usagi! Ascoltati! Deliri! Devi riposare, adesso... Riflettici, ti prego... » -Le dice dolcemente- « Solo ieri hai sfiorato la morte e- » -La interrompe ancora.
« Adesso sei felice, no?! Sei felice di avermi salvata?! Ti senti eroica?! »
« Io non... » -Non la lascia proprio parlare, la travolge e basta.
« HAI TUTTO SENZA DI ME, NO? Perché non mi hai lasciata morire?! »
Makoto aggrotta la fronte. Mamoru non ha la forza di fermarle.
« Se chiami tutto un parcheggio per handicap in un supermercato dove gli scaffali sono bassi. » -Sta per uscire, ma esita.
« Buona fortuna, Mamoru » -Gli dice guardandolo- « Curare un'aspirante suicida che non ha più amiche. Arduo. »
E si volta verso Usagi per l'ultima volta, e parla per l'ultima volta, e questa volta non si farà interrompere.
« Brava, Usa. Adesso ci hai perse tutte »

~

Se l'era voluta lei, no? Se l'era cercata quella separazione. Aveva cominciato con Rei, aveva fatto terra bruciata di ciascuna di loro. Le aveva mandate in pasto alle belve. Sapeva benissimo che senza di lei, senza la sua vitalità, piano piano si sarebbero sciolte. Non aveva avuto torto. Makoto aveva cercato di cucirle insieme, di rimettere a posto i pezzi di un'amicizia dopo un incidente così... così...
Ma Usagi era diventata un mostro. Deformata dalla perdita di una bambina. Della sua bambina. Makoto non lo sapeva cosa volesse dire, ma avrebbe almeno voluto dirle che la vita va avanti. Che c'era tanto altro per cui vivere. Che era da egoiste cercare di suicidarsi subito dopo aver perso una bambina, quando c'è un mondo che chiede solo di essere salvato da te. Quando c'è un uomo per cui sei tutto. Quando ci sono quattro persone che ti implorano di salvarti, di uscire dal buio. Ma lei aveva bruciato tutto, perché l'unica cosa che voleva era raggiungere Chibiusa, la sua bambina. Era impazzita.
E Makoto aveva mollato, alla fine, era troppo debole per sopportare tutto quello che le diceva. Peccato che nel frattempo avesse trascurato le altre, e quando cercò di tornare indietro trovò una Rei che si scriveva sulle braccia con una lama e una Minako tossica di bellezza. -E poi quella troia l'aveva anche spinta giù dalla sedia a rotelle, quel giorno. Come pretendeva che tornasse a perdonarla, quando non aveva nemmeno chiamato per scusarsi!? Aveva capito che era finita, aveva tentato con Ami. Ma Ami era un disastro. Tutte si erano arrese con Ami, dopo pochi giorni. Ami le aveva tenute unite all'inizio, dopo l'incidente, perché ciascuna andava da lei, e andavano insieme a volte. Ma parlavano al muro. Tutte si erano arrese, dopo pochi giorni.
Ma per Makoto, che parlava con gli oggetti, perfino parlare con Ami era sollevante. Solo che poi la madre le aveva detto di smetterla, e così addio anche ad Ami. Forse anche la madre credeva che fosse colpa loro. Makoto si ripromise di andare di nuovo a trovarla uno di quei pomeriggi, ma erano otto anni che aveva smesso ed era troppo
debole per vederla così.
Nove anni di debolezza. Nove anni passati a piangere sugli sport che non avrebbe mai più potuto fare. Nove anni senza il fiatone. Nove anni a fare addominali per fingere di avere ancora qualche muscolo, da qualche parte. Nove anni a spostarsi le gambe, che da sole non lo fanno più. Nove anni, e sembrava che fosse tutta la vita che se ne stava lì, in cucina, con il volto coperto, senza essere riuscita a prendere la farina.
Debole. In uno scatto di rabbia si slanciò verso l'alto e afferrò il sacco.
Ma aveva avuto ragione a pensare che ce l'aveva messo Tomoyo, lì, e non l'aveva chiuso bene. Un velo bianco si sparse sui suoi capelli, e sulla sua faccia, e sulle gambe, e sulla camicia, e su tutta la cucina. Sul tavolo, sui fornelli.
Rimase lì, ferma, fino alla sera tardi, senza riuscire nemmeno a domandarsi come avrebbe potuto pulire, o come avrebbe potuto lavare il pavimento, o come avrebbe fatto con l'acqua, che avrebbe trasformato tutta la farina in pasta da modellare, o come le terrine si sarebbero rovinate, e lo sbattiuova anche, con tutta la polvere nel meccanismo, o come avrebbe fatto a farsi una doccia, da sola.
Quando l'abitudine ti dice di poter fare tutto, a queste sciocchezze non ci pensi.
Se ne rimase lì, nel suo bozzolo di dolore, sforzandosi di non singhiozzare, ma singhiozzando lo stesso, senza aver nemmeno la forza di domandarsi come avrebbe potuto fare una torta -
o quel meraviglioso dolce americano di cui aveva letto- senza la farina, adesso che si era rovesciata tutta.

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Capitolo 5
*** Ami ***


04 – Ami

Il buio nell'anima, il buio nella mente. Il buio nel cuore, il buio nel cervello. Lo sforzo nel cercare di capire chi sei veramente, da dove vieni e dove vuoi andare. La botta in testa. Ancora dettagli sulla tragedia, ancora dettagli sulla Grande Lite. Idee sul coma e sui sogni nel nero.

 

La serata era cominciata sotto il migliore degli auguri. Un bimbo in arrivo, e tutte sapevano come sarebbe stato. Una bellissima bimba con i capelli rosa e gli occhi rubino. Una piccola peste saltellante che finalmente avrebbe allietato le giornate di Usagi e Mamoru, diventati Mamma e papà. Alla fine del mondo e all'inizio del regno, poi, sarebbe diventata una Lady. E poi princess. E poi regina. Forse stava correndo un po' troppo con la fantasia, Ami, mentre raccontava queste cose a Usagi. Era arrossita vistosamente, ma Usa non sembrava contrariata. Anzi, andava più avanti, a quando lei vecchia avesse dato a Chibimoon il Ginzuishou, e lei sarebbe diventata la Nuova Sailormoon. Era eccitata mentre ne parlava con agitazione e ansia.
« Amichan? » -Aveva chiesto quando era stata sicura che nessun'altra la sentisse, a voce bassa. Ami si era piegata su di lei dolcemente. Il succo che stava bevendo si era quasi rovesciato.
« Sì, che cosa c'è? »
« Farà molto male? » -Aveva abbassato la voce al minimo, quasi un sussurro, e solo Ami l'aveva sentita e nemmeno benissimo, però aveva capito la domanda. E aveva sorriso.
« Moltissimo, Usa » -Lo sguardo di terrore dell'amica l'aveva fatta ridere- « È splendido per questo. O almeno così dicono » -Lei non lo aveva mai provato. Usagi l'aveva guardata con rispetto ed ammirazione. Si era accarezzata la pancia con dolcezza, e aveva sussurrato il nome della bambina. Poi si era persa in congetture su come lei e Mamo avrebbero tirato su la bimba, come sarebbe diventata un'adolescente, il fatto che Usagi non l'avrebbe mai sgridata per nessun motivo al mondo perché so come ci si sente, aveva sancito.
Ami aveva riso pensando alle loro liti continue. Usagi era cambiata da allora, l'unico suo desiderio era stato rivedere Chibiusa e stare con Mamoru da allora. Ogni giorno parlava della sua bambina, ed era come se fosse già madre. Una ventenne già madre. Ami era appena stata ammessa all'università. Ma Usagi l'università figurarsi se la vedeva anche solo con il binocolo, si era sistemata con il suo amato Mamoru e nessuno l'aveva più smossa. Ed eccola lì con il sogno della vita fra le mani e la sua volontà di ferro: sarebbe stata madre. Confessò ad Ami che l'indomani sarebbe andata a prendere il risultato delle analisi per vedere se fosse stato maschio o femmina, « Tanto lo so già » -Aveva aggiunto facendo l'occhiolino con dolcezza. Ad Ami faceva bene solo starle vicino.
Prima di salire in macchina Rei aveva commentato il fatto che se ne fossero state a confabulare tutta sera, e avevano riso. Quando si è fra amiche si ride di tutto. Ami era salita per ultima, solo perché le era caduta la catenina. Si era chinata a raccoglierla e poi aveva preso posto accanto a Minako, che stava al centro.
« La sapete questa? Qual è il colmo per un sordo? » -Usagi e Rei avevano preteso di saperlo all'istante, Ami invece era contraria, non si dice questo tipo di battuta, è disdicevole.
« …Non sentir ragione! » -Avevano riso tutte, Ami si era dichiarata apertamente contrariata ma alla fine aveva ceduto all'atmosfera di risa che s'era creata tutto attorno.
E poi aveva ripreso a sbuffare quando Minako aveva ricominciato con quella storia dei semafori. Oh, quant'era noiosa! E lo sapeva benissimo quanto ad Ami desse fastidio. Aveva aperto appena la bocca per replicare, che se l'era ritrovata addosso che le gridava « Ti voglio bene! » Makoto rideva, e Usagi aveva urlato più forte di tutte. Aveva urlato... cosa? Ami aveva aggrottato la fronte e si era lanciata in avanti, verso di lei, spaventata che potesse essere successo qualcosa di grave. Fusa? Che aveva detto?
Ami aveva congiunto le mani e al pensiero di Usagi incinta, che le parlava per tutta la sera, spaventata dal dolore, spaventata dalla vita che le cresceva dentro, non era riuscita a trattenere un singhiozzo. Non poteva finire così. Non se ne parlava...
« No, per favore », aveva pregato conficcandosi le unghie nei palmi.
Stava ancora piangendo quando si era accorta che la macchina si era fermata, e aveva visto la carcassa. Quello aveva le luci spente, e non solo. Era una macchina distrutta contro una moto. Il guidatore della moto sarà morto. L'ultimo pensiero prima di schiantare la testa sul finestrino. Una volta. Due. Alla terza si era accorta di aver perso il conto.

~

Lunga vita ai vostri ricordi. Lunga, lunga vita. Ditevi, in un angolo della vostra mente, “Ricorda questo momento per sempre” -e marchiatelo con il fuoco. Ogni quattro, cinque mesi, anche meno, richiamatelo. Quello sguardo su un viso, quel primo bacio. Chiudete gli occhi e ricordate, perché se qualcuno un giorno cancellasse con una gomma enorme tutto quello che c'è nella vostra testa... Beh, almeno se aveste scritto a penna qualcosa rimarrebbe. Perciò, lunga vita alla vostra memoria.
Ami si alzò con un pensiero pulsante: doveva fare un esame. Guardò la sveglia e segnava ventuno gradi centigradi, un sole splendente, umidità nella norma, segnale radio spento e quattro cifre significative. Uno, zero, cinque, tre. 1 0 5 3.
Le ci vollero quasi due minuti per realizzare che erano quasi le undici. A quel punto scattò in piedi e corse di sotto in preda al panico.
« MAMMA! Perché non mi hai svegliata?! » -Panico, panico totale. L'esame era alle otto, alle otto!!! Se si sbrigava, forse, sarebbe arrivata prima che fosse finito. Anatomia, poi, uno dei più importanti. Dio, dio. Infilò con velocità impressionante una maglietta. Dimenticò il reggiseno. Sfilò la maglietta, mise il reggiseno e poi si bloccò improvvisamente di fronte ai pantaloni. Aggrottò la fronte. Aveva appena visto altre otto cifre sulla sveglia che l'avevano fatta riflettere per qualche secondo.
« MAMMA! La sveglia è rotta! » -Aveva gridato. Allora forse non erano le dieci e cinquantacinque, forse era ancora in tempo a fare l'esame. Finalmente, la voce di sua madre era giunta nella camera insieme a lei, che aveva spalancato la porta.
« Per amore del cielo, Ami, che hai da gridare...? Oh, dio » -La dottoressa Mizuno s'era portata una mano sulla fronte e per un momento aveva creduto di scoppiare in lacrime. Ami l'aveva guardata stranita, e per la terza volta aveva gridato il suo nome.
« MAMMA! Si può sapere che ore sono? » -Continuava a vestirsi freneticamente- « Sono in RITARDO per- »
Ma sua madre si era accasciata sulla sedia, e adesso la stava guardando fissa, con occhi azzurri uguali ai suoi. Ami temette di affogare, guardandola. Per un attimo non riuscì a respirare, che stava succedendo?
« Non dirmelo, l'esame di Anatomia...? » -A quel punto, Ami si arrabbiò. Stava preparando quell'esame da mesi, come si permetteva sua madre di nominarlo come se fosse stato una calzetta da quattro soldi, era al primo anno di medicina e già quella rompeva come se fosse stata al quinto! Solo perché era già medico, non voleva dire che poteva prenderla come le pareva! Era un'umana anche lei, studiava anche lei!
« Sì, l'esame di ANATOMIA » -Ripeté con il suo stesso tono stizzito- « Rei doveva passare alle sette. E la sveglia è rotta. Segna otto anni e cinque mesi avanti ».
Sua madre scosse la testa. Cominciò pazientemente ma aveva la voce spezzata.
« Ami, l'orologio è giusto... È... la tua... testa... » -Scoppiò in lacrime disperate. Ma come fai a spiegare a tua figlia, tua figlia, che l'esame di Anatomia l'ha dato otto anni fa? Come fai a spiegarle che ogni quattro giorni, a volte anche meno, è la stessa storia, si sveglia e grida d'essere in ritardo? Come fai a raccontarle dell'incidente? Come fai a dirle che non ha più delle amiche? Che Rei non passerà a prenderla né alle sette, né alle dieci. Neppure alle cinque. A nessuna ora. Non passerà più. Come le spieghi che perde la memoria a scatti, che non si ricorda più niente di niente, che ogni volta devi ricominciare a spiegarle come è diventata la sua vita. Come fai a dirle che non è la sveglia ad essere rotta, ma qualche ingranaggio lì dentro? Come le racconti dei litigi, delle sfuriate che hai fatto per lei? Come le racconti tutto in pochi minuti, sapendo che se lo scorderà nelle prossime cinquantasei -se tutto va bene- ore? Come fai a dirle che speri ogni volta che il tempo s'allungherà e che si sveglierà senza angosce, senza pensare d'essere in ritardo? Come spieghi in poco meno di dieci minuti quello che è successo in nove anni di vita?
Lunga vita ai vostri ricordi. Lunga, lunga vita.
Ami si avvicinò alla madre e l'abbracciò dolcemente.
« Tutto a posto, mamma » -Le disse- « Adesso stenditi, ti faccio un tè. L'esame andrà benone »
E lei fece come Ami aveva detto. Come ogni volta, non riusciva a trattenerla, e oramai non ci provava nemmeno più -Sapeva che sarebbe tornata con la coda fra le gambe, a chiedersi i motivi di tale stramberia, di come il tempo era andato avanti di otto anni e lei non se n'era accorta. Allora le avrebbe spiegato tutto con la dovuta calma, dopo aver preparato un qualche discorso che avesse avuto più senso di qualche balbettio sconnesso.
E andò come sempre. Ami tornò a casa piangendo. E la dottoressa Mizuno le raccontò con la dovuta pazienza di come avevano avuto l'incidente.
Della botta in testa. Del fatto che era stata in coma per qualche mese. Delle sue amiche che le parlavano sul letto, chiedendole di svegliarsi. Di come alla fine si era svegliata, ma non aveva trovato nessuna. Di come l'avevano abbracciata tutti. Di come aveva fatto l'esame di anatomia e superato brillantemente. Di come aveva litigato con le amiche. E poi, di come aveva cominciato a spingere il bottone reset della memoria ogni cinque giorni.
Si sorprese di quanto era stato facile, come al solito, raccontarlo solo dopo che aveva finito di farlo. Le parole uscirono come un fiume ed Ami, come al solito, ascoltò rapita ogni sillaba, ogni suono che usciva dalle parole della madre, rendendosi conto di quanto, in effetti, le sembrasse più vecchia e più stanca del giorno prima. Rendendosi conto del fatto che non lavorava. Da quanto non lavorava più?
Si spaventò.
Un terrore sordo le invase il cervello. Otto anni, e lei credeva che fosse un giorno.
« Devo chiamare Usagi » -Disse, e afferrò subito il telefono con mani tremanti- « Zero, otto... tre... no, credo due... forse... forse... oh, dio » -Sì, i numeri da quel momento erano stati il problema principale. Non riusciva a contare, né a ricordarne mezzo.
« Sono otto anni che ha cambiato numero, Ami » -Disse la mamma, carezzandole la testa e baciandole la fronte dolcemente- « Mi dispiace »
« Ma, ma... Makoto, voglio dire, Minako, non può essere... » -Balbettò, non capiva. Le faceva male la testa. Sua madre la guardò intensamente.
« Non esistono più, Ami. Devi dimenticartele » -Si rese conto solo dopo di quanto quell'affermazione fosse orribilmente sfigurante, ma non c'era traccia di debolezza nella sua voce. Ami la invidiò.
La mamma. La mamma era quella che sapeva sempre tutto. Sapeva un sacco di cose che lei non sapeva, e da bambina credeva che fosse onnipotente. Sapeva come si accendeva la macchina, sapeva come si guidava. Sapeva esattamente dove fossero i vestiti estivi e li faceva ricomparire quando quelli invernali sparivano. Sapeva cucinare, sapeva sempre le risposte ai compiti di scuola. Sapeva tutto. Sapeva aprire le sorprese delle uova di pasqua con un tocco, che per quanto lei si sforzasse rimanevano ermetiche. Era quella fortissima, che aveva con sé i soldi. Che la proteggeva dalle macchine tenendola per mano.
Guardandola negli occhi in quel momento, Ami si rese conto che sua madre non sapeva più niente, adesso. Ma si stava sforzando con tutta se stessa di essere di nuovo la mamma. Di essere di nuovo quella che sapeva, quando Ami era confusa e perduta. La invidiò da morire.
Devi dimenticartele. -Sembrava perfino facile. Poi scosse la testa con furia.
« NO! » -Gridò, e afferrò la giacca.
« Ami, ti prego... » -Ma non l'avrebbe fermata. A che pro? Cinque giorni, e sarebbe ricominciato.
Ami aprì la porta con furia, e la sbatté con ancora più foga. Corse all'impazzata per le strade di Tokyo, tanto che la testa le girò. Prese per due volte la strada sbagliata, e si ritrovò davanti alla scuola. Fumante di rabbia si concentrò, forte, fortissimo. Doveva trovare la strada, e subito. In nove anni era impossibile che nessuna l'avesse cercata. Tutte dovevano averla aiutata, non aveva dubbi. Sua madre voleva solo proteggerla ma non capiva.
Le sue amiche erano parte della sua famiglia, e non le avrebbe mollate.
Chiuse gli occhi e ricordò. Doveva andare a destra, e poi la terza strada a sinistra. Per la terza volta, si perse, perché non riusciva a contare fino a tre. Oh, no, non mi arrendo certo.
« Mi scusi! » -Domandò subito informazioni a un passante. Quello gliele diede, e per fortuna erano lineari. Si rimise in marcia, e questa volta non sbagliò.
Casa Tsukino. Sì, era quella, era sicura, ma...

~

« E il motociclista non aveva visto l'auto, e l'auto s'è schiantata sul motociclista, e son rimasti in mezzo alla strada a fari spenti. Sono riuscita a frenare. Ma poi un camion si è schiantato su di noi. Hai battuto la testa, sei stata in coma » -Ha finito di raccontare per la ventesima volta la stessa storia. Sembra anche un po' seccata, Rei.
« Non ho sognato » -Dice- « Forse sì ma non lo ricordo »
« Non fa niente, non ti ricordi mai un cazzo » -Dice Minako scocciata- « Cerchiamo di farti ricordare, ma è inutile. Non ti ricordi mai un cazzo »
« Mi ricordo i testi di Anatomia... Io... » -Piange leggermente, sussultando e squittendo.
« Oh, Ami, perdonami... è che è così difficile! » -Le prende la mano rassicurante- « Usagi ha perso Chibiusa, da' la colpa a Rei di questo... Mako non cammina più. Io... Guardami! E tu... » -Ami la guarda comprensiva mentre si asciuga le lacrime dal sorriso a forma di C.
« Non preoccuparti, andrà bene, mi ricorderò prima o poi. Prima o poi smetterò di fare così... Prima o poi la mia memoria si aggiusterà » -Lo dice come un dottore vero. Mi sa che non ci crede nemmeno lei.

~

Lunga, lunga vita ai vostri ricordi.
Ami trovò terra bruciata di casa Tsukino, un'altra famiglia che ci viveva e una lettera per lei affossata nel vano segreto che solo loro cinque conoscevano.
Per Ami.
Ed era un diario di quei quattro giorni appena passati. Datati ordinatamente, con minuzia, e scritti con una calligrafia perfetta. Bar, ragazzi, conoscenze nuove, e sua madre. Parlava di tutto, pezzetto per pezzetto. Sembrava un minuscolo frammento di puzzle. Racconto di uno squarcio nel buio di nove anni di vita. Lo lesse piangendo, bagnandolo di lacrime, gridando non può essere.
“Gli altri sono nel secondo cassetto della scrivania della tua camera. So che fino a tre hai qualche difficoltà a contare” -Finiva così- “Non dimenticare di metterci anche questo. Ci leggiamo fra qualche giorno, ok?”
Non ricordava più la strada di casa. Quale scrivania? Pianse, e urlò, e pianse, e girò in tondo per ore, e alla fine pagò un taxi. Aveva riconosciuto quella calligrafia. Terribilmente nitida e ordinata, perfetta. Nel secondo cassetto c'era tutto il resto. C'erano parole di dolore, di rabbia. Tutto perfettamente documentato, rilegato di nastri colorati e foto, e firme e autografi. C'era anche qualche nota di sua madre. Rimase fino a notte fonda a leggerlo con amore, come il suo libro preferito. E pianse, pianse ancora nel leggere come aveva perduto le sue migliori amiche. E ancor peggio, pianse nel sapere chi glielo stava raccontando con tanto amore, con tanta dolcezza e con tanta verità, toccando i punti giusti, sapendo esattamente cosa stava provando.
Era perfetto. Lesse l'ultima parola e s'asciugò l'ultima lacrima alle quattro del mattino. 
Ottimo lavoro, Ami. -Si complimentò.

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Capitolo 6
*** Usagi ***


05 – Usagi

Il dolore di una madre. Il dolore. La paura di non poter più essere la persona di un tempo. Il cuore bruciato. Arso da quel dolore, devastato. Mamoru. Gli sviluppi iniziali della lite, come è continuata e come fra le ragazze è finita definitivamente. La tragedia. Come sono andate davvero le cose. Il Silver Crystal. Chibiusa.

 

Non era riuscita a pensare ad altro, e se ne dispiaceva. Si sentiva particolarmente egoista a continuare a sproloquiare sulla sua pancia, su Chibiusa e sul fatto che avrebbe dovuto ritirare i risultati sul sesso della nascitura l'indomani, anche se sapeva già quello che sarebbe risultato. Però non riusciva a smettere, non riusciva a pensare ad altro. Tutto il viaggio dell'andata verso il locale in cui avrebbero dovuto festeggiare era passato a discutere del parto.
« Hey, e se la chiamassi in altro modo? Immaginatevelo! » -Strillava divertita- « Al posto di chiamarla Usagi la chiamo... Ran! »
Tutte ridevano a quella divertita presa in giro. Sapevano benissimo che non avrebbe mai potuto chiamarla altrimenti. Minako aveva fatto subito dopo una battuta sul sesso con Mamoru, e Usagi l'aveva colpita con un pugno fortissimo sulla spalla. Erano sul sedile posteriore insieme, e Makoto invece si era accomodata davanti. Tutte quante avevano riso incontrollate, ancora e ancora, riempiendo l'auto con quel sapore cristallino. Perfino Ami non aveva bacchettato Minako alla battuta sul sesso, e aveva riso con loro. Arrivate al locale, Usagi non era riuscita a frenare la sua parlantina, ma pareva che solo Ami continuasse a starla a sentire. Le aveva chiesto molti dettagli sul parto, sul dolore, e alla fine si era convinta che, qualsiasi cosa fosse, voleva affrontarla.
Sì, con la sua volontà di ferro, l'avrebbe affrontata. Aveva perfino salvato il mondo, una volta, figurarsi che cosa doveva essere il parto! E poi, per far nascere Chibiusa! Era un'avventura che non voleva perdersi!
Aveva diciotto anni, stava per sposare un uomo sistemato, e tutto quello che desiderava era stare in casa, fargli trovare sempre tutto, e accudire la loro meravigliosa bambina in attesa della venuta di Crystal Tokyo. Quello in effetti spaventava Usagi non poco. Ma aveva visto il futuro, ci era stata. Sapeva che sarebbe andato tutto bene... Nel frattempo, chiacchierava con Ami e cercava di non pensarci, mancavano ancora così tanti anni... E li avrebbe passati con Mamoru. E con Chibiusa, finalmente. La sua euforia raggiungeva in quei momenti livelli quasi mai sperimentati. Perfino cambiare un pannolino le appariva come una estatica esperienza ineguagliata. Sì, essere mamma era tutto ciò che desiderava.
All'uscita del locale aveva pregato Mako di stare davanti, o forse era stata Mako ad insistere, non se lo ricordava bene. Alla fine si erano perciò scambiate di posto, Usagi davanti e Makoto subito dietro di lei.
« E fatti avanti, però! » -Aveva detto subito; Usagi sapeva che era alta e che aveva le gambe lunghe, ma si era spostata solo di qualche millimetro. La sua pancia era pericolosamente vicina al cruscotto, ora che ci faceva caso. Meglio non sfidare la sorte, no?
« Ecco, così va bene? » -E Mako aveva sbuffato e detto sì, sì, okay, anche se dal suo tono di voce si percepiva un certo disagio da insoddisfazione. Ma in fondo erano solo pochi chilometri, e non ci sarebbe certo stato problema. Al massimo, forse, poteva venirle un formicolio. Invece la pancia... Quella era più importante.
Aveva sentito grattare la marcia mentre Rei imprecava contro il cambio, ancora inesperta, e aveva riso alla stupida battuta di Minako sui sordi. Più erano idiote, più le barzellette le piacevano; ecco perché Minako era la sua preferita. Aveva distolto immediatamente l'attenzione dal discorso dei semafori spegnendo la risata, però, quando aveva visto qualcosa di nero in fondo alla strada.
Qui è tutto nero, Usa, è notte. Niente paranoie, si era detta, e poi è lontano. Rei riuscirà a frenare tranquillamente. Ma una manciata di metri prima dell'incrocio, accorgendosi che Rei non accennava a scalare, l'aveva guardata. Lei s'era voltata per mezzo secondo a destra, e per mezzo secondo a sinistra, controllando l'incrocio. Ma doveva guardare avanti!
C'era qualcosa, qualcosa. Lentamente la paura le salì in gola. Le strozzò il grido che voleva gridare, mentre Minako gettava le braccia al collo ad Ami. Aveva allungato una mano e sussurrato a Rei « Ma cos'è quello? », Rei nel casino delle risate nell'auto non aveva capito granché, ma aveva guardato in avanti, in direzione del dito, e s'era accorta solo allora di quanto fosse grande. Che qualcosa ci fosse, s'era già accorta prima, ma da lontano le cose sembrano molto più piccole, e quella carcassa d'auto con vicino una moto, invece, occupava quasi tutto l'incrocio. Usagi aveva visto l'orrore allargarsi sul suo viso quando si erano accorte, nello stesso momento, che c'era anche una persona a terra.
Non aveva gridato frena, né niente del genere. Aveva fatto volare il suo pensiero alla sua pancia, come ogni secondo di quella notte. Rei aveva frenato pestando il piede con violenza e Usagi era stata spinta in avanti dall'inerzia dell'auto. D'istinto si era abbracciata la pancia, aggrappandosi ai vestiti, per proteggerla... Doveva assolutamente proteggerla.
« Chibiusa! » -Aveva urlato disperata, nello stesso istante in cui Minako urlava ti voglio bene e poi tutte avevano cominciato a gridare frasi sconnesse.
Lo spazio di frenata comunque era stato sufficiente. Usagi non aveva battuto niente, se non il gomito, e la cintura l'aveva saldata al sedile meglio di quanto non avesse creduto. Sollevata, aveva poggiato una mano sulla coscia di Rei.
« E' tutto ok... » -Aveva detto, in un singhiozzo. Ma non stava parlando con Rei, il suo sguardo era rivolto in basso. Parlava con lei. Con la pancia. La sua adorata pancia stava bene. Benissimo. Aveva slacciato la cintura per darle sollievo. Sì, era tutto ok. Nemmeno si era voltata per controllare le sue compagne mentre l'accarezzava amorevolmente. Tanto non c'era stato nessuno schianto, non potevano essersi fatte male. Poi aveva notato un movimento strano, che non aveva notato prima, forse perché era impegnata a rassicurare Chibiusa. Si era girata a sinistra e aveva visto che Rei la fissava stranita, quasi impaurita. Aveva temuto d'essersi fatta male alla fronte, o altri punti; forse sanguinava? Si era portata le mani in faccia per controllare, abbandonando la pancia.
Per un secondo, Chibiusa era rimasta sola. Sola e abbandonata, in un'auto buia, senza cintura, senza mani o braccia a proteggerla. Un secondo, uno solo. Era bastato perfettamente.
Usagi era volata verso sinistra, in avanti, come in un tuffo. Era atterrata con la pancia sulla leva del cambio e aveva cercato di urlare di nuovo, ma il respiro le era morto in gola. Mozzato. Assassinato. Assassino, aveva pensato, assassino.
Nella sua testa non c'era spazio per niente, in quel momento. Si era resa perfettamente conto di quello che stava succedendo ancora prima di vedere il sangue grondare dai suoi pantaloni. L'auto si era ribaltata e lei aveva sussurrato « Fammi morire con lei ».

~

Fissò il test.
Seduta sul water della loro casa, ferma, immobile, attenta a non falsarlo con nessun movimento. Dai, dai. Dai, seconda linea, dai.
La chiamava con tutto il cuore, dai. Devi spuntare, dai. Cominciò a respirare più forte mentre i minuti passavano. Su, compari, perché non compari? Sono sicura, sono sicura, sono sicura. Ho un ritardo di una settimana.
Sì, finalmente, un ritardo di una settimana. Non che fosse la prima volta, ma quella volta c'era un'aria diversa. Profumava di nuovo.
« E allora? » -Domandò Mamoru dal salotto. Dal loro salotto. Usagi guardò ancora il test. Niente riga. Dai! L'esortò di nuovo. Poi chiuse gli occhi, come sempre.
Una specie di rito.
E come sempre, quando se ne stava seduta sul water ad aspettare la riga, quei nove anni le passarono davanti agli occhi chiusi. Ed ecco cosa vide.
All'inizio, vide un'assistente sanitario tirarla fuori dall'auto. Si vide aggrapparsi alla portiera e gridare « NO, NO, lasciatemi! Dovete lasciarmi, non capite, lei è lì dentro, lì dentro! ». Sembrava posseduta da una forza antica, e si attaccava alla portiera con le unghie, alla fine era riuscita a staccarsi da lui mordendolo.
« Chibiusa, Chibiusa! » -Raccoglieva il sangue con le mani. Quale di quelle cellule era lei? Doveva raccoglierle tutte. Tutte. Sette uomini servirono, per portarla via.
Poi vide una stanza di ospedale. Lì aveva passato i mesi seguenti. Poche parole li avevano caratterizzati, e tutte parole d'odio. Nel suo petto si era gonfiata una rabbia che non aveva creduto possibile. Una rabbia che doveva trasformarsi in accusa, perché doveva essere scaricata su qualcuna. Qualcuna a caso. Una rabbia che aveva diretto prima verso Rei. Perché era lei a guidare. Poi verso Makoto, perché l'aveva fatta stare davanti. Poi verso Minako, che l'aveva convinta ad andare a quella stupida serata. Poi verso Ami, perché le aveva parlato con tanto amore del parto.
Infine, tutta quella rabbia nera, nerissima, era finita sul Silver Crystal. Perché non le aveva salvate? Bastava un movimento, no? Perché non aveva ascoltato il cuore della sua padrona? Perché? Bastava una luce, non doveva nemmeno sforzarsi troppo. Usagi nel momento dello schianto l'aveva pensato, aveva pensato salvami. Ma non l'aveva fatto.
Mamoru l'aveva rassicurata, le aveva parlato. Viveva con lei giorno e notte, per evitare qualsiasi gesto sconsiderato. Ma lei odiava quel cristallo, odiava quella spilla, l'odiava. Odiava il suo cuore che l'aveva tradita.
Tornata dall'ospedale, in un momento di fredda lucidità, mentre Mamoru era fuori casa, l'aveva afferrato. Sì, l'avrebbe ammazzato. L'avrebbe ucciso. Assassino!
L'aveva lanciato con forza per terra una volta. La fitta al cuore l'aveva fatta accasciare. Si era gettata a terra, allora, e aveva afferrato un soprammobile.
Un colpo. Aveva urlato di dolore mentre lo colpiva. Bene, se per uccidere quel dannato aggeggio doveva morire, allora che morte fosse. Maledetto assassino, l'assassino di sua figlia!
Due colpi, più forte. Questa volta non aveva urlato anche se il dolore le aveva stretto la gola e quasi non riusciva a respirare. Doveva frantumarlo, doveva distruggerlo, che non ne rimanessero che pochi pezzi di vetro calpestati, che una signora delle pulizie avrebbe raccolto e gettato in un cassonetto.
Tre colpi e quasi stava per desistere. No, assassino, t'ucciderò io! La sua vita non valeva più che uno sputo senza la sua bambina da accudire. Sì, voleva morire, e trascinarsi dietro quel Cristallo di sofferenze. Il Cristallo che l'aveva indotta a litigare con le sue amiche. Il Cristallo che più di una volta le aveva causato atroci dolori al cuore. Perché doveva essere capitato a lei? Perché aveva scelto proprio lei?
Quattro colpi. Aveva urlato di nuovo di dolore, mentre la porta si spalancava.
« Usagi! » -Cinque colpi. Doveva sbrigarsi, doveva ucciderlo subito o l'avrebbero fermata!
« Muori, muori! »
« USAGI! » -Anche se era su una sedia a rotelle, Makoto s'era avventata su di lei, finendo a terra. Avevano rotolato, mentre Usagi gridava, e sfoderava le unghie per arrivare al Silver Crystal, nello stesso modo in cui voleva arrivare alla macchina.
« NO, NO, deve morire! Devo morire, ti prego, ti prego! »
« Usagi, no, calmati » -La stringeva con le braccia forti, avvolgenti, mentre lei -senza piangere- si dimenava come fosse stata fuoco- « Usagi, morirai, smettila »
« DEVO morire, Devo morire, ti prego, ti prego! »
E a quel punto era entrato Mamoru. L'aveva avvolta e il dolore era sparito di colpo. Tutto il ghiaccio si era sciolto e si era lasciata andare, aprendo le dita e lasciando scivolare per terra il soprammobile. Aveva ripreso a respirare. E poi, non l'aveva più trovato. Mamoru da quel giorno lo portò sempre con sé, sotto la giacca. E Usagi non lo trovò più, e non poté più cercare di ucciderlo. Con il tempo, la sua rabbia si trasferì ancora, e ancora, e ancora.
Colpì con forza Makoto, che le aveva impedito di fare quello che voleva, di uccidere quell'assassino. E di nuovo Rei, che guidava, ed Ami, che non ricordava niente. Fitte di veleno si impadronivano del suo cuore e non riusciva a controllare tremori, incubi, e grida di rabbia.
Mamoru la abbracciava, e ogni giorno le parlava, cercava di farle capire quanto sbagliato fosse allontanare tutte le persone da sé, perché un giorno sicuramente le avrebbe rimpiante. Ma Usagi voleva terra bruciata.
E così fu.
E senza il collante di Usagi, lentamente anche le altre si sciolsero. Da principio erano unite per Ami, ma Minako si era stufata presto di correre dietro a una sragionante, e silente dava la colpa a Rei della fine della sua carriera. Makoto non poteva uscire quasi mai per la sua condizione, Rei non riusciva a perdonarsi e pensava di meritarlo. Non rispondeva al telefono, non voleva vedere la Luce.
Usagi gridava el suo cuore quando tutte se ne furono finalmente andate. Nessuno a compatirla, nessuno a chiedere scusa.
Tre anni dopo s'era sposata. Avevano consumato. Ogni giorno.
Mamoru aveva cercato ancora di parlare, ancora di farle capire, ma lei non aveva capito. Non aveva voluto capire, nel suo cieco egoismo, cosa c'era in gioco. Voleva una bambina. Una qualsiasi, l'avrebbe chiamata Usagi e tutto sarebbe finito. Tutto sarebbe ricominciato. Lei, la sua bambina e il suo Mamo. Gli unici amori della sua vita. Le altre erano solo state capaci di ammazzare. Per altri cinque anni aveva continuato a cercare di restare incinta. Cinque anni di abbracci e di amore da parte di Mamoru, cinque anni in cui lui cercava di tenere i rapporti con Makoto, con Minako, con Rei. Cinque anni di fallimenti.
Quando un vaso si rompe, non puoi ricostruirlo. Le parole avevano tagliato troppi cuori, distrutto troppe menti. Come fai a rimettere insieme un milione di pezzi di vetro? Non credo che sia possibile. Viveva ogni giorno tormentata dall'idea che non potesse avere figli. Non più, perché era la futura regina e le regine possono avere solo una figlia. Una femmina E se lei fosse morta in quell'incidente, non avrebbe potuto averne altre.
Il primitivo desiderio di maternità si era tramutato in un maniacale bisogno. Aveva strappato tutte le cartelle di Chibiusa, quando Mamoru gliele aveva portate. Se le avesse lette con attenzione, invece, forse avrebbe saputo in anticipo il risultato del suo test. Avrebbe saputo che nella cartella c'era scritto XY, maschio. Avrebbe saputo che non portava Chibiusa in grembo. Se avesse fatto con attenzione i suoi calcoli, avrebbe saputo che all'epoca dell'attacco a Crystal Tokyo la bambina aveva poco più di cinque anni. Che significava impossibile farla nascere nove anni prima della Catastrofe.
Ma accecata dall'idea di averla persa, aveva rifiutato perfino le parole di Mamoru quando aveva cercato di dirglielo. Aveva rinfacciato a suo marito l'insensibilità dei maschi e maledetto il Destino per essere cambiato. Ma il Destino non cambia.
Forse cambiano le strade, ma non la destinazione. Forse sapere dove stava andando l'aveva confusa, perché nessuno aveva mai detto ad Usagi come ci sarebbe arrivata.
Perciò restò immobile, seduta su un water a riflettere sulla sua vita e sui suoi sbagli, mentre una riga rossa compariva leggera sul test. Mentre le pupille si dilatavano, non vedeva più niente. Si coprì la faccia poggiando i gomiti sulle ginocchia per sostenersi. Sentiva il dolore pulsante del Silver Crystal nella sua testa, come fosse stato un minuto prima che lo stava colpendo con disperazione. Spalancò la porta e si gettò fra le braccia di Mamoru. Mamoru che sapeva tutto e non l'aveva mai forzata. Mamoru che aveva cercato di dirle la verità e non l'aveva accettata. Mamoru che non si era mai mosso dal posto accanto a lei. Mamoru che aveva accusato di essere invisibile. E invece si vedeva benissimo dov'era. Mamoru che l'aveva consigliata tante volte, ma l'aveva lasciata scegliere.
Mentre se lo stringeva al cuore, accartocciandogli la camicia di lacrime, e lui non diceva nulla, ma le accarezzava solo la testa,  -perché aveva capito senza bisogno di avere una risposta- il cuore le si accese. Una scossa improvvisa, che la fece allontanare di due passi. Mamoru aveva tirato fuori dalla tasca il Silver Crystal. Incrinato dai colpi dolorosi, lentamente si stava deteriorando.
Usagi lo guardò, e pensò ancora il mio assassino. Poi cambiò idea. Si voltò verso l'interno del bagno per non vederlo, e vide il suo riflesso. La mia assassina.
Dalla sua bocca uscirono quattro parole.
« Dobbiamo dirlo alle ragazze »

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Capitolo 7
*** Il difficile ***


06 – Il Difficile

Il difficile. La vera grande lite. La rinuncia, il tentativo di Usagi. La perdita di Usagi. La trincea.

 

Il difficile non è fare una scelta. Nemmeno prendere una decisione tutto sommato. Ci si mette a un tavolino, un giorno, così, e si sceglie. Si decide che è meglio fare così, oppure in un altro modo. E alla fine si conclude che bisogna comportarsi in una certa maniera piuttosto che in un'altra. Niente di sconvolgente. Quante volte avremo detto: ho deciso, nella vita? Ho deciso di studiare da oggi, ho deciso di dire a quel ragazzo ciò che provo, ho deciso di mandare al diavolo chi non mi ama.
Il difficile non è scegliere.
Il difficile è tener testa a quello che scegliamo. Il difficile è tener fede a quello che decidiamo. Il difficile è avere la forza di dire che non importa quello che mi sta dicendo il cuore, o il cervello. Io ho deciso. Ho scelto. E non posso muovermi da ciò che ho scelto, perché la strada è questa. Non voglio prenderne di secondarie per andare a fare funghi.
Ed ecco il difficile, dunque.

~

« Mamo-chan, hai comprato quel tè? » -Gridò Usagi dalla cucina, mentre Mamoru scriveva in salotto. Aveva messo dell'acqua a bollire, ma quella non bolliva mai, perciò voleva mettere i filtri e lo zucchero nelle tazze, e recuperare i cucchiaini, ma non trovava il té.
« Sì, l'ho messo nel ripiano dei biscotti » -Pausa di silenzio- « Lo hai trovato? »
« Certo, sì, grazie. Hai cercato quei numeri? » -Pausa di silenzio.
« Sono proprio qui, sul tavolo del salotto »
Usagi schizzò come un fulmine via dalla cucina, mollando il bollitore in solitudine, a prendere il foglio. Mamoru si voltò di scatto sentendola inciampare e quasi cadere; ridacchiò divertito. Lei si sedette accanto a lui al tavolino basso, dove sapeva che Mamoru amava studiare, in quella casa profumata di vaniglia. Inspirò forte, rendendosi conto che era da parecchio che non lo sentiva davvero. Mamoru spinse in silenzio verso di lei la sua vecchia rubrica di pelle nera, graffiata quasi dappertutto. Usagi alzò lo sguardo su suo marito, aggrottando leggermente la fronte- « Dove sono? »
« Qui, naturalmente » -Usagi aprì la rubrica alla prima pagina, aspettandosi di trovare qualche nota o qualche appunto scribacchiato di recente, invece non c'era niente. Sfogliò la rubrica velocemente, come un ventaglio, per far scivolare fuori qualsiasi cosa fosse simile a un foglio con numeri di telefono. Ma non capì. Si rivolse di nuovo a Mamoru.
« Io non capisco, davvero » -Disse ripoggiandola sul tavolo, chiusa.
« Hai in mano una rubrica e non sai dove cercare dei numeri di telefono? » -Mamoru sorrise bonario, un po' prendendola in giro e un po' no- « Perfino per te è troppo, Usako »
Lei cambiò espressione improvvisamente sentendo quel nome. Aggrottò le sopracciglia in modo più accentuato, fissandolo con aria quasi persa, quasi cattiva.
« Cosa? » -Domandò perentoria. Il bollitore doveva essere già quasi a ebollizione, si disse. Ma sì, ci sarebbe andata dopo.
« Andiamo, sono in ordine alfabetico! » -La apostrofò lui irritandosi leggermente. Il fatto che non sapesse nemmeno cercare il numero in una rubrica lo rendeva piuttosto affranto.
« No, no, fammi capire, cosa? » -Questa volta era Mamoru a trovarsi spiazzato.
« Sono-in-ordine-alfabetico » -Ripeté pazientemente. Si ricordò del bollitore. Qualcuno doveva andare a spegnere il fuoco... In ogni caso era tutto a posto, finché non fischiava.
« Tu lo sapevi » -Disse Usagi spegnendosi sulla sedia, indicandolo con un dito- « Li hai conservati fino ad oggi »
Mamoru sollevò le spalle senza negare. La verità era che sì, lo sapeva che prima o poi sarebbero serviti, e perciò non aveva mai avuto il cuore di cancellarli. Si spostò all'indietro vedendo che Usagi lo stava guardando con una specie di rabbia decisa. Ma lui non abbassò lo sguardo, lo sostenne caparbiamente. Blu nel blu. Il bollitore fischiò forte, ma nessuno dei due si alzò. Il rumore riempì la casa troppo piccola per tre persone ma troppo grande per due.
« Tu lo sapevi » -Ripeté.

~

Tokyo non è poi così grande, soprattutto se hai un numero di telefono, vivi nello stesso quartiere e hai del tempo libero. Non fu un caso che tutte le chiamate fossero finite con un ok, ci vediamo al Crown.
Per alcune di loro aveva fatto più fatica. Insomma, con Rei per esempio. Primo, non rispondeva quasi mai al cellulare. Irraggiungibile, occupato, oppure suoni a vuoto. Con Ami anche, c'era perfino il rischio che si scordasse dell'appuntamento il giorno successivo, e sarebbe stato un caos vero. Con Minako relativamente facile, s'erano telefonate qualche volta in quegli anni. E con Makoto, sorprendentemente, era stato quasi facilissimo. Aveva detto subito « Dove e Quando? » -e Usagi aveva comunicato allegramente il posto e l'ora. S'era subito detta la nostra amicizia non crollerà per soli nove anni, torneremo insieme, le grandi Sailor Senshi …
Così come le aveva separate, Usagi aveva pensato di poterle riunire. Perciò aveva passato tutta la sera nella vasca da bagno, tutta la mattinata a prepararsi e non aveva nemmeno mangiato, poi era corsa verso il crown, perfino in anticipo. Straordinario per lei.
Il Crown in realtà non esisteva più; da due anni Motoki era andato via e lo aveva venduto, e adesso la scritta luminosa “Articoli di Elettronica” troneggiava sul locale a porte automatiche un tempo contrassegnate dal logo dei più recenti videogiochi.
Era arrivata sudata e spettinata, e loro erano lì. Tutte e quattro. Makoto seduta sulla sua sedia. Minako voltata dal lato sano. Rei con i polsini. Ami aveva pagato un taxi per non fare tardi. Per un secondo, Usagi pensò che tutto il tempo fra loro non fosse davvero passato. Se ne spaventò, e si avvicinò con un sorriso che avrebbe fatto ombra alla luce più luminosa, a braccia aperte. Ma anziché gettarsi fra le sue braccia, tutte e quattro indietreggiarono. Fu Makoto a parlare subito, per prima.
« Che cazzo vuoi? »
Il sorriso si spense istantaneamente.
« Cos...? » -Fece per replicare Usagi, ma Rei la bloccò e si parò subito al fianco di Makoto.
« Hai capito proprio benissimo. Che cazzo c'è? »
Minako si voltò. E a Usagi sembrò un mostro, con quella cicatrice che le solcava il volto e quel pezzetto di bianco che spuntava dal labbro, a destra. Si costrinse a distogliere lo sguardo per un secondo. Era completamente spaesata da quella reazione. Minako s'era appoggiata a Makoto dalla parte opposta a quella di Rei, ed Ami se ne stava dietro la carrozzella, a pugni chiusi. Usagi credette che fossero lì lì per picchiarla, tutte e quattro insieme. Quatrro menomate, si ritrovò a pensare, e se ne vergognò immediatamente.
« Perché ci hai chiamate, Princess? » -Domandò Minako, e il lato sfigurato si mosse grottescamente facendo sembrare la sua bocca più grande del dovuto, come se stesse inghiottendo qualcosa di troppo grosso per lei. Usagi sussultò nel sentirsi chiamare così, come se fosse stato il capo, come se quelle telefonate fossero state un ordine e non un piacere...
« Scommetto che ha bisogno di qualcosa » -Rincarò Ami. E anche se non si erano mai messe d'accordo su cosa dire, o su come disporsi... In quel momento, in quel preciso istante stavano creando una trincea perfetta contro la loro Princess.
« No, no » -S'affrettò a negare lei- « Io non... » -Ma si bloccò. Si era accorta della trincea. Si era accorta che le persone che le stavano davanti la stavano fissando con qualcosa che non era né affetto, né commozione nel rivederla. Somigliava più ad un odio mai estinto. Lo era. Tutte quante, nel vederla correre verso di loro con quel sorriso smagliante, avevano avuto lo stesso pensiero. Nove anni passati a prenderci a pesci in faccia, a non cercarci, a trattarci con la stessa delicatezza con cui il sole tratta le nuvole d'estate. Adesso siamo noi, il temporale. Adesso che ti interessa così tanto tornare dalle tue amiche del cuore perché non sai a chi raccontare i tuoi problemi, è nostro immenso piacere sbatterti la porta in faccia.
Usagi le fissò e si rese conto di non sapere niente di loro. Non aveva mai pianto accanto a Rei, non le aveva mai strappato di mano la lametta. Non le aveva mai detto di non farsi male, che il sangue non asciuga le lacrime ma un'amica sì. Non aveva scritto lettere d'amore per Ami, per aiutarla a ricordare il suo passato. Non le aveva cantato ninne nanne. Non aveva detto a Makoto quanto le fosse grata per non averla lasciata uccidere. Non le aveva preso la farina. E non aveva mai detto a Minako quanto bella fosse, anche in quel momento, illuminata dal sole delle due, e quanto quella cicatrice la rendesse veramente bella. Veramente Minako.
« E allora, che cazzo vuoi? » -Ripeté Makoto, e il peso di quei nove anni crollò finalmente sulle spalle di Usagi, che si piegò come un fiore, rendendosi di colpo conto di quanto Chibiusa l'avesse accecata. Di quanto l'idea di non essere madre potesse essere stata difficile, e dolorosa, ma di come le sofferenze che adesso la guardavano dall'altra parte della trincea fossero ancora dilaniate nelle sue compagne, e si chiese come avesse fatto a non accorgersene prima. Guardò per terra mentre rispondeva.
« Chiedere scusa » -Mugugnò.
« Che cosa? » -Scattò Rei. Ami cercò di trattenerla ma lei bruciò il suo movimento e si sfilò un polsino, sollevando il braccio e rivelando cicatrici lunghe quasi tutta la circonferenza del polso- « Chiedere... che cosa? » - La sua voce era bassa, e faceva ancora più paura così- « Ma tu... tu ti rendi conto...? Guardale! »
Ma Usagi stava ancora guardando per terra, e non ebbe il coraggio di alzare lo sguardo. Allora Rei gliele mise sotto gli occhi, allungando il braccio, costringendola a fissarle. Usagi chiuse gli occhi. Rei si allontanò e riprese a parlare.
« Sei ancora una codarda, vedo. » -Tutte annuirono in approvazione- « Non è a me che devi chiedere scusa. È un po' tardi, Usagi »
Il silenzio calò sulla trincea mentre Rei rientrava nei ranghi. Usagi stava ancora guardando per terra, aveva riaperto gli occhi, ma tremava incontrollatamente. Si costrinse a parlare di nuovo
« Sono incinta » -Sussurrò in un filo di voce. Forse così l'avrebbero ascoltata.
« E chissene importa! » -Le fece eco Minako con il suo sorriso storto.
« Voi non capite... » -Adesso stava rischiando di piangere davvero. Non doveva, non doveva assolutamente piangere. Doveva mantenere la calma. Assolutamente, non doveva farsi prendere dal panico- « ...Questa volta è davvero Chibiusa »
Makoto non riuscì a trattenersi. La guardò così, accucciata come un piccolo di qualche animale che non sa ritrovare la mamma, e scoppiò a ridere. Rise forte, come solo Makoto sapeva fare, e si poggiò con un gomito su un bracciolo della sedia. Mise la testa sul palmo della mano, e la fissò negli occhi.
« Ah, allora cambia tutto » -Disse, e guardò le altre per un secondo- « Giusto ragazze? » -Ironici segni d'assenso- « Sei veramente una... » -Non le venne una parola abbastanza adeguata alla situazione, perciò non disse nulla, ma strinse i denti in maniera piuttosto evidente. Usagi pensò che anche dalla sedia a rotelle, se avesse voluto, avrebbe potuto ammazzarla, e Makoto in cuor suo aveva in mente esattamente la stessa cosa.
« ...Stai dicendo che hai chiamato... Che hai... Preso in mano il telefono... Solo perché sei di nuovo incinta...? Tu, forse... Tu non ti rendi conto... » -La sua voce vibrava di rabbia, a stento riusciva a parlare- « ...Hai idea di cosa abbiamo passato, Usagi? Ti presenti qui, oggi, dopo nove anni, solo per dirci che sei incinta? Per fortuna è Chibiusa stavolta? E il povero morto nell'auto... Lo hai forse dimenticato...? »
Aggrottò la fronte, e per un attimo Usagi credette che sarebbe scoppiata a piangere. Invece non lo fece, semplicemente la sua espressione da dura divenne morbida, e triste da arrabbiata. La fissò e lei precipitò negli occhi di Makoto. Della più forte di loro. Avrebbe voluto scavalcare il muro, entrare nella trincea. Invece non ce la fece.
« Io sono venuta a dirti addio » -Le disse con la testa alta e la fronte segnata- « Non voglio rivederti mai più. Ogni tuo gesto mi ricorda quello in cui credevamo, e in cui oggi proprio tu non credi più »
Ciascuna mormorò il suo assenso per le parole di Makoto. Ognuna ci si riconosceva. Erano tutte d'accordo sul fatto che non era più amicizia quello che le legava.
« Voi non capite... » -Sussurrò di nuovo Usagi.
« Spiega » -L'incitò Rei perentoria.
« Chibiusa è tornata nel passato quando aveva cinque anni » -prese a dire lei torcendosi le mani fino a sbiancarle- « Questo vuol dire che è nata quest'anno »
Tutte la guardarono in attesa di altre spiegazioni. Quello, lo sapevano già. Usagi credeva forse che lo avrebbero intuito da sole, e invece nessuna di loro fece una piega, aspettando che continuasse. Finalmente la princess alzò lo sguardo sulle sue compagne, e le fissò una ad una. Non trovò comprensione o passione.
« Non lo capite? » -Disse con voce strozzata- « Questo... è... l'anno della Catastrofe »
Di nuovo nessun cenno di aver capito. Niente stupore sui loro volti. Usagi cominciò ad avere paura sul serio. Il panico si stava impossessando di lei.
« Lo sappiamo »
« Sappiamo contare »
« Dove sta la novità? »
« Già, qual è la grande notizia? »
E fu allora, vedendole schierate di nuovo, in quella perfetta formazione, che Usagi capì quello che volevano fare. Lo capì con una nitidezza che faceva davvero terrore, che la fece allargare gli occhi fino a farli bruciare. Lo capì dai loro occhi, dalle loro labbra, dai toni delle loro voci.
« No... » -Sussurrò, e si carezzò la pancia in un gesto automatico- « Non potete... »
Ma poteva essere eccome. In quel secondo di netto il tempo era tornato al loro feeling originario, e Usagi s'era sintonizzata con loro. Aveva capito cosa volevano fare. Aveva capito perché erano venute e aveva capito che anche se non si erano messe d'accordo, in silenzio tutte avevano pensato la stessa cosa.
Perché dovremmo continuare?
« Dovete aiutarmi! Da sola non ce la farò, lo sapete! Il Silver Crystal! Il Silver Crystal è incrinato, ed è nero, e- » -Cominciò a gridare freneticamente, presa dal panico. Ma non la fecero finire. Minako intervenne.
« Frena il montone »
« Si dice frena il cavallo, Minachan » -La corresse Ami con un fil di voce. Non aveva parlato quasi per nulla fino a quel momento, e Usagi cercò di imprimersi la sua voce nel cuore. Era cambiata, in quei nove anni.
« Quello che ti pare. Frenalo. Noi non abbiamo intenzione di aiutarti con questa roba » -Alzò le spalle- « Catastrofi o non catastrofi, tu ci hai tolto tutto. La nostra amicizia, le nostre chiacchiere. Eri la mia migliore amica, Usagi, e mi hai spinta sul baratro »
Usagi si rese conto solo allora di quanto effetticamente Minako fosse magra. Dalla maglietta troppo larga spuntavano braccia deboli, e la C sulla guancia si incassava nello zigomo, quasi andando a far sfiorare le due estremità, quasi fosse una mezzaluna. Gli occhi azzurri le spiccavano in viso, come fari. Usagi voleva dirle che era bellissima. Ma non le venne nessuna parola in gola.
« Eri la mia migliore amica » -Ripeté Minako- « Non ho più niente per cui vivere, guardami » -Allargò le braccia.
« Io sto aspettando che la lametta mi uccida » -Sussurrò Rei- « Che lo faccia la Catastrofe, allora. »
« Il mio diario sta diventando troppo lungo » -Biascicò Ami- « Un giorno non riuscirò più a leggerlo tutto prima di perdere ancora la memoria... »
« Forse la Natura ha ragione a riprendersi questo pianeta » -Aggiunse Makoto- « La verità è che la presunzione di salvarci e creare Crystal Tokyo è solo egoismo. Guardaci, Usagi. Non siamo più Senshi »
E a quel punto, in un moto di sofferta decisione, sfoderò la sua penna trasformante. Stava quasi per ripensarci, poi però la gettò a Usagi, con decisione. Quella atterrò vicino ai suoi piedi, con un clangore metallico.
« Ti ho portato questa, Usagi... Trovati una nuova Jupiter »
Rei annuì decisa, e anche lei, in parallelo, sfilò dalla tasca un pacchetto che sembrava essere stato avvolto per molto tempo, ma comunque fatto con cura. Le faceva male il cuore solo a pensare di separarsene. Ma se c'era un momento giusto, era quello.
« E una nuova Mars! » -Disse lanciandolo, più decisa di Makoto però, e quello colpì Usagi sulla spalla. Usagi cercò di afferrarlo, ma il pacco cadde e si svolse delicatamente rivelando l'oro striato di rosso della penna di Marte.
« E anche una Venus! » -Anche Minako scagliò la penna con forza quasi cattiva, e la mandò a schiantarsi sulla pancia della sua Princess.
« In caso me ne dimenticassi, lo scrivo subito » -Asserì Ami stappando la penna e annotandosi qualcosa su un pezzo di carta- « Ho chiuso con Sailor Mercury »
Poi la accumulò con le altre, con un lancio delicato e preciso.
Usagi le raccolse, freneticamente, piangendo disperatamente, e le riportò alle ragazze.
« No, no, non potete! Lascerete la Terra alla morte certa, lascerete l'umanità alla morte certa » -Cercò di ridarle a una a una alle proprietarie, chiamandole per nome, pregandole con la stessa voce con cui loro avevano, un tempo, pregato lei di non abbandonarle.
« Vi prego, vi prego... » -Faceva, con voce rotta di pianto- « Sono vostre, siete voi... Vi prego, vi prego... » -E cercava di infilarle in mano a ciascuna, aprendo loro le dita e mettendole lì, e poi richiudendole. Ma quelle le lasciavano scivolare a terra. Usagi le riprese, e tentò ancora, e ancora. Pregò ancora, e ancora, a vivissima voce, e la gente intorno la credette pazza.
« Moriremo, moriremo... Siete delle... delle egoiste, pensateci, insomma... Chibiusa morirà, non ci sarà futuro! »
« Ecco qual è il tuo problema » -Disse Makoto, e questa volta ci infilò la cattiveria che fino a quel momento aveva cercato di evitare- « Credi che tutte noi siamo egoiste quando a te non te ne importa un cazzo... Salvati da sola, tu e la tua Chibiusa. Tu non sei Usagi »
« No, no... » -Continuò a supplicare lei- « Vi prego, vi prego, non potete... è il mondo, è il nostro mondo, è la nostra Terra... Noi siamo le Sailor Senshi! » -E ci credette davvero, fino all'ultimo secondo, mentre tendeva loro le penne con il viso solcato di lacrime. Si inginocchiò e pregò ancora, e ancora. E loro la guardarono dall'alto, finalmente, nella polvere, con il vestito sporco della terra delle strade di Tokyo; a credere che tutto fosse ancora lo stesso, a gridare che era solo un sogno, che le sue amiche non si sarebbero comportate così, che l'avrebbero capita e riabbracciata, ancora e ancora, dopo tutto quello che aveva fatto loro patire. Perché gli amici fanno così, si perdonano. Ma il perdono non arrivò. Arrivò un gestaccio, e perfino Ami, che fino a quel momento era stata zitta, le gridò addosso con una forza che non avrebbe creduto possibile.
« Sono venuta da te! Cento volte, questi nove anni! E altre cento! Mi hai chiuso la porta in faccia, Usagi! Come... come hai potuto?! »
E Usagi non rispose, pianse solo, gli odango che lentamente si scioglievano insieme con l'eccitazione della mattina, insieme con i frammenti del Silver Crystal che avrebbe voluto ricostruire con loro. Si piegò ancora, per terra, poggiando i gomiti e rannicchiandosi sulle penne, arrendendosi all'evidenza che nessuna di loro le avrebbe volute mai più. Che sarebbero morte tutte con la catastrofe. Lei, loro, e Chibiusa. In un mare di polvere, o in un'ondata di ghiaccio. Respirò lo sporco del marciapiede, tremando convulsamente, senza riuscire a fermarsi. Tutte la guardavano dalla trincea.
« Lunga vita alla Princess » -Disse Minako.
E tutte seppero che la conversazione era finita.

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Capitolo 8
*** Le Nemesi ***


07 – Le Nemesi

Quando uno star seed diventa nero, dove finisce la luce bianca? Gli star seed sono tutti neri? Perché solo le Senshi ne possiedono di puri? Sono ancora puri, i loro? O forse sono offuscati? Chi sono le Nemesi? Introducing Areté, Kalìa, Voluntas, Sophìa e Psyché.

 

...Non ditemi che avete creduto anche voi a quelle chiacchiere sul fatto che ognuno ha una stella luminosa nel petto. Balle. Il vostro star seed è nero quasi sicuramente. Se le sfere di energia vi colpissero un giorno, in pieno petto, sicuramente quello si rattrappirebbe e diventerebbe nero in un batter d'occhio. Usagi è una persona ingenua e fiduciosa, e se ha detto quelle cose è perché ci ha creduto davvero, che ogni persona ha un sacco di bontà in sé.
Spiacente di deludervi.
Non è così.
Ogni persona nasce piena di luce, questo è vero. Ma la disperde... Rubi una caramella, o non fai i compiti, o dici qualcosa di cattivo? Un pezzetto della tua luce si stacca, e vola su. Viene da noi, sulle stelle Si crea, in quel primo momento, una controparte, una parte diversa, una parte opposta, un brillante, un altro star seed uguale e contrario. Una Nemesi. Una raccolta di cattive azioni e di rimpianti, dei pezzi di bontà a cui in qualche modo ciascuno di voi ha rinunciato nella vita. Perché quando molli un pezzo di bontà, quando dici una parola cattiva, quella se ne va. È come lasciare andare un palloncino. Puoi forse recuperarlo, una volta che ti è sfuggito? Diciamo che si potrebbe, volendo, ma è particolarmente difficile. Lo stesso vale per la luce. Una volta che decidi di lasciarne andare un pezzetto, lo perdi per sempre. Per recuperarlo ti serve un pentimento, uno di quelli veri, e un'azione per dimostrarlo. Una prova. Se rivuoi la tua luce, devi dimostrare di meritarla sul serio. Pochi ce l'hanno fatta.
Ma non prendetevela, non è una cosa negativa. È solo umano. Chi è perfetto? Nessuno di certo.
Ci sono persone buie, cattive. Quando ti si avvicinano, ti senti subito trafiggere da un'ombra spigolosa e fredda. A volte sono contagiose. Se sei luminoso e sei debole, l'ombra spigolosa rischia di coprirti, di strapparti pezzi di luce a morsi. Si soffre molto, quando succede. Te ne accorgi a posteriori, spesso, quando ti spezzano il cuore. Ma la luce è già volata su.
Ci sono persone più buone, leggermente più luminose di altre. Quelle, quando ti si avvicinano, ti scaldano. Sono loro a coprire le ombre spigolose e ad avvolgerti gentilmente. Quando ti stanno vicino le riconosci subito, a volte hanno gli occhi che cambiano colore. Sono persone che sono come piacevoli certezze.
Ci sono anche persone neutre, che non illuminano e non scaldano. Sono le più frequenti.
Nessuna di queste tre categorie, comunque, ha la luce completa. Perché le persone che hanno la luce sul serio, quelle del tutto positive, senza punti deboli, quelle perfette, non esistono. Tutti hanno fatto qualche errore, almeno una volta nella vita. È umano. E quando succede, la luce se ne vola su. A tutti è capitato. Noi conserviamo la luce, ce ne prendiamo cura. Nel giorno del pentimento, nel giorno del riscatto, nel giorno della prova, la renderemo.
Per adesso, le luci di tutti sono ben custodite; le teniamo lontane dallo sporco del mondo, sottovetro, fuori dai petti malvagi. Ben visibili perché chiunque, alzando lo sguardo, possa avere la speranza e possa far crescere in sé la volontà di riavere la sua luce. Il coraggio di superare la prova.
Pochi ce la fanno. Le abbiamo ancora tutte noi, le luci.
Vi basta guardare in alto, in una notte d'estate, per rendervene conto.

~

Areté era nervosa. Kalìa se n'era accorta per prima, e aveva subito parlato della cosa a Voluntas. Voluntas aveva chiamato Sophìa.
« Allora, che le succede? » -Aveva chiesto lei.
« Quello che succede a tutte noi » -L'aveva apostrofata Kalìa con una punta di secchezza- « Proprio tu, che sei la sapienza, non te ne accorgi? »
Sophìa s'era risentita per quelle parole e per il tono tagliente  e s'era preparata a dare una risposta pungente, ma subito Voluntas le aveva separate e frenato il litigio.
« Dov'è Psyché? » -Aveva chiesto poi, guardandosi in giro.
« Ritiro... Spirituale, diciamo » -Aveva risposto Kalìa sghignazzando- « Arriverà presto. Questo trambusto l'avrà di certo svegliata »
E infatti Psyché arrivò presto. Dopo pochi minuti anche lei si era unita alla divertita -o quasi- combriccola. Era arrivata sbadigliando e stirandosi, lasciando intendere che il ritiro spirituale altro non fosse se non una bella e profonda dormita.
« E allora, che succede? » -Aveva domandato subito, strofinandosi gli occhi.
« E' Areté! Oggi è intrattabile » -Aveva spiegato Sophia.
« Che ha? » -Aveva chiesto Psyché.
Il silenzio la aveva avvolta, e nessuno le aveva risposto. Spostò lo sguardo su Kalìa, e poi su Voluntas. Infine su Sophìa. Areté se ne stava da sola, in un angolo, con un'espressione corrucciata, a sbuffare. Psyché la fissò per un secondo, cercando di capire. Ma non capì. Fu Areté a parlare, allora.
« Che vuoi che abbia? » -L'aggredì- « Tutte quante l'avete! Sovraccarico! »
Voluntas fece quasi un salto a sentire quella parola, Sophìa squittì e si portò una mano sulla bocca. Kalìa strabuzzò gli occhi quasi fino a farla sembrare brutta -decisamente improbabile, per una che si chiama bellezza-. Psyché fu l'unica a restare impassibile.
« Sì, ce ne siamo accorte » -La appoggiò grattandosi la fronte- « Mai visto un sovraccarico così... Siamo sempre state Nemesi tranquille... »
« Col cavolo » -Era intervenuta Kalìa- « Vi ricordate nove anni fa? Ho rischiato di scoppiare di luce! Minako mi ha mandato tutta la luce che aveva. O se non tutta, un novanta per cento di sicuro! Ne era rimasto appena un briciolo! Bulimia! Peggio non poteva fare, come faccio a rendergliela? »
Psyché aveva annuito con gravità.
« Sì, è vero, nove anni fa anche Rei aveva fatto un bel pacchettino della sua luce. Autolesionismo, e con il sangue salivano colonne di luce rossa che non si immaginano. Ho fatto fatica a sopportarle »
Un mugugno di assenso da parte di Sophìa; « Ami si è demoralizzata con la perdita di memoria... Non è più la stessa... Quando Usagi l'ha abbandonata, mi ha dato la sua luce... »
« E adesso guarda qua! » -Si innervosì Areté- « Quanta luce mi sta mandando Makoto! Come se lasciare la penna e rinunciare ai suoi poteri fosse di buon auspicio. Litigano come delle bambine. Non si mettono d'accordo, non si perdonano, non si capiscono. È un dramma di incomunicabilità! »
Era vero. La luce continuava a salire e ad appiccicarsi alla pelle di tutte e cinque. Era così tanta che facevano fatica a respirare. Sophìa era la più spossata, mentre Voluntas sembrava quasi non rendersene conto. Però tutte e cinque soffrivano la Luce che saliva, e non si fermava. Era un sovraccarico vero. Non se ne vedevano tutti i giorni, di salite così di luce. Nemmeno nelle guerre ne arrivava tanta. Qualcosa si era spezzato fra le cinque ragazze, ed era stato per sempre. Un silenzio grave scese sulle cinque Nemesi. Ciascuna sapeva a che cosa si andava incontro, se non si fossero riappacificate. Distruzione dell'umanità nella Grande Catastrofe del ventunesimo secolo. Il Destino parlava chiaro su quella questione: cinque ragazze e il Silver crystal erano l'unica speranza per salvare l'umanità da morte certa, ricostruendo la maestosa Crystal Tokyo, in cui si è eternamente giovani e dove la pace regna sovrana.
ophìa s'era coperta le orecchie con le mani e stava stringendo gli occhi per non sentire e non vedere. Psyché roteò gli occhi in un segno insofferente mentre Voluntas rifletteva. Kalìa di nuovo prese la parola per rincarare la dose; fra loro era sicuramente la più vivace.
« Stanno scegliendo di morire insieme alla terra! Non è possibile! » -Disse con stizza gesticolando visibilmente- « Ragazze, è arrivato il momento di fare qualcosa. Sono nove anni che ce ne stiamo a guardare. »
« Già, è stata la goccia! » -L'appoggiò subito Areté. Sophia stava ancora con gli occhi chiusi. Psyché sospirò adagio.
Ciascuna comprendeva il dolore dell'altra. Sentivano bruciare dentro di loro la luce, ognuna di loro, la sentivano attaccarsi ai loro vestiti e ai loro visi. Sentivano che ne arrivava ancora, e ancora. E mano mano che la loro luce aumentava, sentivano diminuire quella delle Senshi. Le scelte delle Nemesi non sono mai scelte facili. Diventare Nemesi significa accettare di starsene a guardare il tuo umano sbagliare senza poter fare niente. Vedere la sua luce salire, i suoi sogni svanire, e startene a vegliare su di essi. Senza poter fare nulla. Essere una stella è faticoso. Essere una Nemesi significa diventare potente, e allo stesso tempo perdere quasi tutta la tua libertà. Areté, Psyché, Sophìa e Kalìa lo sentivano, e ne soffrivano in fondo al cuore.
Areté era nata in una sera di novembre. Era successo che Makoto tirasse un pugno dritto in faccia ad un senpai, perché quello aveva cercato di baciarla contro la sua volontà. Un frammento luminoso s'era staccato dal suo pugno ed era volato su. Si era schiuso, ed era nata Areté. La Forza.
Psyché era nata un pomeriggio estivo. Rei aveva preso a male parole una ragazzina che continuava a tormentarla per diventare come lei. Alla fine aveva perso la pazienza, aveva lasciato a casa il suo spirito calmo e le aveva detto di stare alla larga. Dalle sue labbra una lama d'argento era andata in cielo. Si era rotta in due, ed era nata Psyché. Lo Spirito.
Sophìa, invece, era nata in inverno. Ami si soffiava nelle mani seduta sul suo banco, quando un ragazzino le aveva domandato aiuto per un problema di matematica. Stressata all'idea di rifarlo per la ventesima volta quel giorno, aveva rifiutato gentilmente d'aiutarlo, suggerendogli di farsi aiutare da una sensei. Dalla sua testa era nata una spirale argentata, e aveva fluttuato fino al cielo nero. Lì, dal centro dei cerchi, era sgusciata Sophìa. La Sapienza.
Kalìa aveva una storia un po' più tormentata, ma primaverile. Minako aveva fatto una bella carognata grossa per vincere un concorsino di bellezza alle medie. Aveva messo gocce per gli occhi nell'acqua della sua concorrente, e quella era dovuta rimanere a casa per gli accessi di vomito. E Minako s'era bevuta tutte le lodi. Da quelle lodi, unite insieme, era nata Kalìa. La Bellezza.
Infine vorrete sapere di Voluntas. Voluntas era nata quando Usagi si era arresa per la prima volta. Aveva mollato i compiti di matematica della prima elementare. Aveva detto non ci riesco, ed era andata a guardare la televisione. Dal suo cuore s'era sprigionata la forza di Volontà che aveva perduto in quel momento. Voluntas.
Con il tempo, le cinque erano diventate amiche. Lentamente, guardando le loro Nemesi diventare grandi, e ricevendo pezzetti di luce ogni tanto, avevano cominciato a confidarsi paure e problemi, soprattutto dopo l'incidente. Tenevano tutte molto agli uomini, e alle Senshi in particolare, in quanto parti di loro. Perciò quando era successa la tragedia, vedendo le ragazze separarsi, e tutta la loro luce salire verso di loro, avevano seriamente cominciato a dubitare del Destino. E se si fosse sbagliato? Se non fossero riuscite a salvare il loro pianeta? Avevano deciso di fidarsi... Ma dopo quell'ultimo litigio, tutte pensavano la stessa cosa. Kalìa aveva ragione, era stata la goccia.
Voluntas prese finalmente la parola.
« Non possiamo scendere sulla terra. » -Disse, e basta. Areté sentì crescere dentro di sé una rabbia sorda verso di lei.
« Come sarebbe non possiamo? » -Si alterò- « Dobbiamo, o la Catastrofe raderà al suolo il Mondo » -Qualche segno di assenso.
« Che cosa vorreste fare? Creare Crystal Tokyo? Non abbiamo il cristallo né il potere. Siamo i loro scarti! » -Disse Sophìa- « E poi sapete bene che non possiamo scendere, siamo senza corpo e- » -Sollevò le spalle.
« Non voglio che scendiamo a creare Crystal Tokyo, non ne siamo in grado » -L'interruppe Areté mentre si spiegava- « Voglio impedire la Catastrofe »
Voluntas si coprì gli occhi con una mano, Sophìa squittì una risatina come faceva sempre quando trovava qualche idea ridicola. Anche Kalìa rise. Areté arrossì leggermente d'imbarazzo e di vergogna nell'aver proposto un'idea così assurda, ma Psyché non rise.
« Potrebbe funzionare »
Kalìa la guardò, quasi alle lacrime.
« Ma stai... scherz... ando...? » -Quasi non si capiva cosa dicesse, nell'accesso delle risate- « Siamo senza corpo! Dovremmo forse combattere la furia dei quattro elementi da sole?! Senza un corpo, senza niente! »
« Non da sole » -Le disse Psyché- « Andremo a riprenderci le Senshi. Ci riuniremo a loro »
Altre risate; Areté si sentì davvero punta nel profondo e cominciò a dire qualcosa di poco gentile diretto a Kalìa. Sophìa si scandalizzò, Psyché la tranquillizzò, e cominciarono a bisticciare. Kalìa rideva dell'idea, Sophìa non poteva che essere d'accordo, e Areté e Psyché cercavano di convincerle che non c'era molta scelta Diventò rapidamente una zuffa. A quel punto, Voluntas non poté più trattenersi. Alzò una mano come volesse dire qualcosa, e tutte si zittirono.
« La Catastrofe è scritta, il Destino ce ne ha parlato » -Disse in tono grave- « E pensare di modificarlo è un'idea di completa assurdità » -Proclamò.
Kalìa fece una linguaccia in direzione di Areté, come per dire “te l'avevo detto”. Areté sollevò il dito medio senza farsi vedere da Voluntas.
« Tuttavia » -Riprese lei sospirando- « Quello che dice Areté è vero. Il sovraccarico di luce di oggi ci ha mostrato che oramai gli star seed delle uniche che dovrebbero salvare la terra, sono completamente anneriti. Non abbiamo molta scelta, se non vogliamo che la terra muoia »
Areté fece un sorrisetto in direzione di Kalìa, come per dire “tehe, e ora chi ha ragione?”. Kalìa rispose incrociando le braccia scocciata. Nessuna delle due interruppe Voluntas, però.
« Le Leggi dicono che possiamo riunirci alle nostre Nemesi, con una prova. Se la supereranno, potremo tornare con loro. E i loro Star Seed essere di nuovo Luminosi. A quel punto, anche se non saremo abbastanza forti da ricreare Crystal Tokyo -in quanto i loro legami sono spezzati- potremo sperare di fermare la Catastrofe. Di cambiare il Destino! » -Guardò con attenzione i volti delle altre ragazze. Erano tutti stanchi e spossati dal sovraccarico, pieni di ansia per il futuro, e sconcertati all'idea di abbandonare il cielo nero per il Mondo incerto e scosso. Sophìa esplicò il dubbio che tutte avevano.
« E se... Voglio dire, se non... se non ce la facessero? » -Sussurrò- « Se non superassero la prova...? »
« Io sono Volontà » -Le rispose Voluntas- « Non posso non tentare perché ho il dubbio di non farcela »
« Non tentare vuol dire condannarli a morte certa! » -Gridò
Areté addosso a Sophìa senza riuscire a contenere la terribile rabbia che l'attanagliava- « Tu studi tutto, e non sai niente! »
« Chiudi quella boccaccia! » -L'attaccò Kalìa- « Siamo tutte nella stessa macchina »
« Si dice nella stessa barca, Kalìa » -La corresse Sophìa.
« Quello che ti pare, ci siamo tutte dentro. Io mi tuffo. » -Disse poi. Areté la guardò stupefatta. Era d'accordo?- « Sì, non guardarmi così! Dobbiamo andare a fermare la Catastrofe, o a chi manderanno le Luci? Si spegneranno » -Poi pensò che in effetti stava parlando di loro stesse e si corresse- « Ci spegneremo. Le Stelle servono! Sono con te, Areté »
Sophìa annuì arrendendosi, e così anche Psyché. Areté non poté che commuoversi a sentire Kalìa parlare così. Pensò che l'aveva giudicata male; si sentì crescere nel petto un moto di tenerezza e di gentilezza verso l'amica, e per poco non si mise a piangere. Perle luminose si sprigionarono dal suo corpo, come sempre quando provava un'emozione positiva.
« Uuuh, guardate! Bei sogni! » -Fece Psyché afferrandole una per una, gonfiandosi di felicità e di orgoglio, stringendole al petto come tesori preziosi- « Lanciamoli alle ragazze. Farà loro piacere »
Voluntas si rallegrò nel vederle di nuovo in accordo, e lei stessa si sentì più sollevata all'idea di scendere. Forse il Destino della Terra non era poi così scritto come dicevano. Forse potevano modificarlo. Forse c'era della speranza. Non sapeva se quelle idee erano vere, mentre vedeva volare le perle biancastre verso il basso, mentre le immaginava depositarsi sul cuore delle ragazze e splendere di luce, mentre i loro sogni si popolavano di meraviglie. Non aveva idea se quel piano potesse funzionare. Ma lei era Volontà, e non aveva certo paura dell'incertezza. Si era fidata di Usagi fin da quando era bambina, e nei momenti più difficili lei si era sempre dimostrata all'altezza. Insieme ce l'avrebbero senz'altro fatta. Guardò le sue compagne; erano tutte e quattro ferme, una accanto all'altra, e la fissavano. Psyché le fece un cenno con la testa.
« Allora, vieni con noi o no? »
Voluntas non rispose, ma si affiancò al gruppo. Pensò che in quel preciso momento, mentre si gettavano a testa in giù verso la terra, mentre si tuffavano con grazia verso il terreno, se qualcuno avesse guardato in su avrebbe potuto esprimere addirittura cinque desideri.

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Capitolo 9
*** Le Luci della Città ***


08 ~ Le Luci della Città

Il lungo viaggio verso la vita e la dispersione. Quanta energia hanno le stelle e come si relazionano con gli esseri umani. Essere mortali, essere umani. Vedere le luci della città. Fili d'argento. Incontrarsi.


Atterrarono su un grande prato alla periferia delle città luminose, che ammiccavano piccoli lumi e rumori ovattati da lontano. Erano in cima ad una piccola collina, si resero conto ben presto.
« Mi fanno male le Ali » -Dichiarò subito Kalìa nel tono più lagnoso che le riuscì. Le pulsavano dolorosamente sulla schiena, all’attaccatura alle scapole. Avevano volato in picchiata, e la picchiata non era mai rilassante. Facevano male, a battere così come un tamburo sulla schiena. Cercò di arrivare all’attaccatura per massaggiarsela, ma non ci arrivò.
« Lascia stare, ti aiuto io » -Fece subito Psyché, appoggiò una mano sul punto delle scapole in cui sapeva che Kalìa stava provando dolore, e subito un serpente nero pece s’inerpicò sul suo polso. Sentì la compagna mandare un sospiro di sollievo, e allora si fermò- « Va meglio? » -Domandò con una smorfia di prurito mentre il serpente nero entrava nella sua pelle. Sarebbe sparito in un paio d’ore.
« Molto. Grazie… Ti fa molto male? » -Domandò Kalìa indicando il punto dove il Serpente era entrato, vedendolo trasformarsi in una vena rossa. Psyché alzò le spalle; Kalìa pensò che non voleva mostrarsi debole, ma probabilmente le dava parecchi fastidi.
« Passerà » -Rispose solo, e Kalìa non fece altre domande, sapeva che Psyché si sarebbe arrabbiata e non voleva che accadesse. E poi, anche se stava per ringraziare di nuovo, venne interrotta da un luccichio che attirò la sua attenzione- « Hey, ragazze, guardate un po’ qui »
Ma Sophìa e Areté, con Voluntas, erano già qualche metro più avanti, sulla collina. Solo Voluntas la sentì e si girò di una spanna.
« Tutto a posto? » -Domandò.
Kalìa si chinò e raccolse qualcosa che somigliava ad un frammento luminoso, mostrandolo a viva forza e scuotendolo con la mano destra, con un’espressione sul viso che somigliava un po’ a una smorfia e un po’ a una sorpresa terrorizzata nel tenerlo in mano. Sembrava che le bruciasse in mano.
«Dispersione! » -Gridò in direzione di Voluntas, che s’era fermata e adesso stava correndo verso di lei quasi a rotta di collo. Né Kalìa né Psyché l’avevano mai vista così preoccupata. Kalìa mollò il frammento, mentre si chinava ad analizzare il terreno. Non se ne era resa conto prima, perché le ali le tormentavano le scapole rigide, ma tutto il terreno era disseminato, qua e là, di piccole gocce luminose.
« Ce ne sono un sacco… » -Disse Psyché, muovendosi intorno- « Ma da dove vengono, Voluntas? »
Voluntas aveva cominciato a muoversi con circospezione, e appena Psyché fece un passo verso di lei, diventò di un paonazzo che le fece paura, e gridò con il panico che le incrinava la voce.
« Dispersione, accidenti! Non calpestatela, non calpestatela... Il sovraccarico deve averla rispedita indietro... »
Psyché si immobilizzò- « Voluntas, è impossibile. Sono troppi » -Mentre lo diceva, uno si spezzò sotto un piede. Voluntas imprecò, proprio mentre lo squittio acuto di Sophìa che, arrivata in cima alla collina, si diffondeva per tutta la zona lanciando l’allarme. Immediatamente tutte e tre si alzarono in volo, e in poco meno di qualche secondo furono in cima alla collina. C’era una conca, una piccola conca. Sophìa s’era girata e sembrava in preda a conati di vomito, Areté respirava lentamente e costantemente senza riuscire a dire una parola. Voluntas s’affacciò sulla conca, e voleva quasi gridare verso le altre due no, non guardate, non guardiamo, ma la voce le morì in gola e i suoi piedi si mossero da soli. e quasi pianse. Kalìa scostò Psyché e guardò anche lei.
« Oh, Dio » -Fece subito- « Non è possibile »
Tutta la conca traboccava di luce. Piena di frammenti luminosi di stella, piena di pezzi di sogni. Piena zeppa di dispersione. Di scarti. Psyché arricciò le sopracciglia e le labbra, e si rivolse a Voluntas immediatamente.
« Che significa? Voluntas, cos'è questa... cosa...? »
« Sono i nostri cadaveri » -Disse lei, senza riuscire a distogliere lo sguardo lucido dalla conca, che quasi illuminava a giorno il suo viso; Psyché se ne accorse, e non glielo disse, ma in quella luce bianca, con quella pelle, e gli occhi traboccanti di luce di lacrime, la trovò davvero bellissima.
« Cadaveri…? » -Areté arretrò di un passo mentre Voluntas riprendeva a parlare.
« Sì, è quello che ci è sfuggito. Quello che non siamo riuscite ad assorbire » -Spiegò in pochi termini Sophìa, che ancora non riusciva a guardare; Kalìa sbuffò.
« Siamo delle schiappone, come Nemesi » -Ridacchiò, e per un attimo Voluntas la seguì in quel leggero tentativo di riportare la serenità nel gruppo. Nessun’altra rise.
« E’ solo colpa del sovraccarico, non siamo riusciti ad assorbire tutto… Siamo troppo piene... » -Spiegò di nuovo Sophìa in un tono che Kalìa trovò abbastanza antipatico e saccente- « Dobbiamo sbrigarci, o ne perderemo ancora e ancora… E non possiamo abbandonarla » -Accarezzò un frammento di luce, e quello rientrò per metà nella sua mano. Poi si rigettò fuori, come se non ci fosse spazio per lui.
« Vedete? Non riesco ad assorbirlo, sono piena » -Sussurrò. Era un suo frammento, un rimpianto di Ami, o forse un suo ricordo. Lo guardò con intensità, era suo, e non era riuscita a custodirlo. Non era stata abbastanza forte da prendere tutto con sé, il peso era stato troppo. Si vergognò enormemente, nel vedere quanto si erano lasciate sfuggire. Quanto avevano da recuperare. Quanti errori, quanti sbagli. Scoppiò in lacrime lucenti e si gettò nella conca correndo.
« No, Sophìa, no! » -Le gridò subito Voluntas, ma quella stava volando praticamente- « Lasciali, siamo sovraccariche! »
Affondava le mani nei frammenti e cercava i suoi con disperazione, assorbendoli uno per uno e poi vomitandoli fuori dal corpo- « Sono suoi! Sono di Ami! Non lo capite, non lo capite? »
Singhiozzava disperata e affondava le mani ancora, e ancora- « Vi prego, entrate, forza! Devo salvarvi, devo custodirvi. Sono una Nemesi, sono la vostra Nemesi! » -La voce era rotta dalle lacrime di luce- « No, no, era il nostro compito, guardate quanta ce n'è, sono i loro sogni! Non possiamo lasciarli qui, non possiamo lasciarli qui! » -Infilava la luce dovunque ci fosse spazio. Nelle tasche, nella tunica, nei capelli. Ma quella ostinata scivolava giù come l'acqua. Sophìa si abbandonò in ginocchio.
« Non possiamo lasciarla qui... » -Ma era colma. Non ne aveva raccolto nemmeno un centesimo.
Psyché lasciò perdere tutto, allora, e le si avvicinò correndo, in lacrime anche lei, e le sue ali sembrarono di due misure più grandi. Le avvolse tutto il corpo con le piume, e lentamente il respiro di Sophìa si placò, si regolarizzò. Le vene nere ricominciarono a pulsare nelle ali di Psyché, ma lei non sembrò curarsene. Continuò a cullare Sophìa finché non smise del tutto di fare quegli sbuffi e si asciugò tutte le lacrime. Il dolore così simile a un senso di nausea per aver cercato di prendere con sé i frammenti andò scemando, passo a passo. Si aggrappò alle ali di Psyché mentre quelle si ingrigivano. Kalìa la vide serrare i denti. Poi la vide alzarsi e prendere per mano la compagna, e risalire la conca fino alla cima della collina. C'era uno sguardo duro e doloroso nei suoi occhi, e Kalìa non glielo aveva mai visto. Le ali stavano tornando bianche a fatica. Guardò la vena rossa che poco prima era stato il dolore alla sua scapola e fece una smorfia distogliendo lo sguardo.
Psyché la guardò fissa, poi fissò gli occhi in quelli di ciascuna di loro. Infine, si fermò su Voluntas. Aveva ancora le ali avvolte intorno a Sophìa e l'espressione dura e dolorosa di prima.
« Dobbiamo sbrigarci » -Sentenziò, e svolse l'abbraccio.

~

Volarono con le grandi ali piumate per quasi un'ora prima di arrivare alla periferia di quella che doveva essere Tokyo all'epoca. Una città quasi priva di interesse a guardarla da fuori. Nel buio, una luce rossa che lancia i suoi segnali di vita. Unico segno che lì c'è qualcosa di più che solo un ammasso di cemento e metallo. Vita. Voluntas sbatté le ali con potenza, planando verso il basso. Le altre la seguirono velocemente. Kalìa volteggiava dolcemente, e sembrava davvero un angelo così, avvolta di luce e capovoltandosi nell'aria come fosse acqua. Sophìa tremava ancora, e Psyché era di cattivo umore; le ali da grigie stavano lentamente tornando di un bianco sporco, e così il suo dolore si stava alleviando. Il braccio era guarito quasi del tutto, solo un graffio testimoniava il nero serpente di poco prima. Areté non aveva parlato fino a quel momento, ma soppesando le parole decise di schiarirsi la gola e affiancarsi alla compagna.
« Tutto ok? » -Le chiese dolcemente.
« Sì, rientrerà. È sempre così... » -Rispose lei con una punta di tenerezza nella voce- « Sophìa sta meglio, questo importa. Kalìa vola come prima. È tutto a posto. Rientrerà »
Areté l'accarezzò con la punta di un'ala.
« Non devi sempre fartene carico, non è certo un dovere per te » -Le disse. Ma in quel momento lo strillo eccitato di Kalìa la fece volgere verso il basso, e anche Psyché si sentì pervadere dall'entusiasmo della stella bionda.
Luci. Luci ovunque. Sembravano altri scarti, altra dispersione, ma brillavano di diverso, di quasi... Di finto. Eppure riscaldavano molto, moltissimo. Aprì la bocca e voleva quasi lasciarsi volteggiare anche lei in quel turbinio di luci. Forse era così che gli esseri umani rimediavano alla mancanza di luce nei cuori? Creavano luci artificiali, e poi se le impiantavano? Areté aveva la bocca completamente spalancata.
« Si chiama elettricità » -Spiegò Sophìa vedendole così sorprese- « Si tratta di luce fatta in casa »
Luce fatta in casa... Meraviglioso. Guardando giù, vedevano accendersi sempre più lumini, sempre più molecole in movimento, sempre di più, sempre di più. Le colonne delle luci nei cuori salivano vorticando impazzite; un litigio fra amanti, una tristezza improvvisa, un lavoro non ottenuto, un votaccio, una lunga discussione con i genitori. Tornadi di luce, eppure la città era ancora così luminosa.
« Oh, è magico! » -Gridò Kalìa e volteggiò ancora, scendendo più in basso- « Fa più luce della luna, più luce di tutto! »
Era vero. L'elettricità, come l'aveva chiamata Sophìa, era il più alto degli obiettivi immaginabili. Avere luce portatile, da infilarsi nel cuore quando volevano. Da darsi speranza, forse, di recuperare quella vera. Volando in formazione compatta, sorvolavano quel mare di scintillii, di candele, di fuochi ardenti, di speranze vive.
« Quest'umanità non è morta... » -Sussurrò Psyché- « ...Quest'umanità non può morire »
Si poggiarono tutte e tre sulla torre di Tokyo quando cominciarono a sentire i fili tirare.
« Tira » -Kalìa fu la prima a notarlo. Il filo d'argento stava tirando.
Il filo d'argento, per chi non lo sapesse, è il legame con la Nemesi. Se questa scende sulla terra, è difficile che riesca a stare lontana dalla sua protetta o dal protetto per più di qualche ora di tempo. Perché c'è un legame indissolubile che li lega, e cercare di opporvisi è inutile. Significa morte certa per entrambi. Le Nemesi lo sentono nelle ali, mentre gli uomini avvertono fitte alla testa o leggeri malesseri che non riescono a spiegarsi. A volte svengono.
« Vola » -Le disse Voluntas- « Devo andare anche io » -Aggiunse. Lo sentiva in mezzo alle scapole e stava cominciando a fare male.
« Sì, sì, ci troviamo nel Limbo » -Sussurrò Sophìa alzandosi in volo.
Il tacito consenso delle altre fu il loro allontanarsi in cinque direzioni diverse. Correre. Correre. Correre. Non c'è molto tempo.

~

Sophìa arrivò proprio nel momento in cui la gomma del Destino stava cancellando i ricordi ad Ami. La scacciò con un gesto solo, creando attorno a lei uno schermo di luce. « Non se ne parla » -ringhiò- « Ne ho già persi fin troppi, di ricordi » Abbracciò dolcemente Ami, e si volatilizzò nel limbo.
Psyché trovò Rei addormentata in una pozza di sangue. La ripulì e toccò i suoi polsi. Le cicatrici si rimarginarono mentre i serpenti neri si inerpicavano sulle sue dita. Gemette di dolore, ma non si scompose. Prese in braccio Rei, e corse al limbo.
Areté invece, entrò in casa mentre Makoto stava guardando la tv. Un programma di cucina della una di notte. Si soffermò a guardarlo per qualche minuto con lei, accarezzandole la testa e regalandole una dolce sensazione di sollievo. Poi, si riunì alle altre nel limbo.
Kalìa ebbe problemi a tirare su Minako dal cesso. Continuava a sboccare l'anima e non riusciva a fermarla. Il filo d'argento era stato tirato abbastanza, e probabilmente la propensione per la ragazza a vomitare le aveva fatto assecondare la nausea. Alla fine l'afferrò per la collottola, la tirò su e se la portò via.
Voluntas restò ferma quasi mezz'ora a osservare se stessa abbracciata a Mamoru e con il viso solcato di lacrime. Pianse anche lei, per quello che le sembrò un anno, o due forse. Si chiuse a uovo nelle sue ali cercando di afferrare la tristezza che lentamente si diramava dal suo petto e dal Silver Crystal.
« No, basta... Smettila... » -Era sovraccarica anche lei. Per quanto tentasse di evitare quel pensiero, non ne poteva più.
L'immagine della conca piena di dispersione le tornava in mente prepotente. Era così tanta la tristezza di quelle ragazze? Come aveva potuto superare addirittura il carico di una stella? Brillavano così tanto, viste dalla terra? Sfiorò con gentilezza la testa di Usagi.
Quanto hai sofferto, amica mia. Quanto mi dispiace. Cantò, togliendole dalla testa l'incubo in cui il mondo finiva e la sollevò dal giaciglio d'amore. Mamoru, perdonami, pensò.

~

Aprire gli occhi fu una sofferenza per tutte e cinque. Mugolarono tutte di dolore, e condivisero il pensiero che, in quel posto, di luce ce n'era veramente troppa. Rei si sollevò su un gomito e subito pensò che doveva trattarsi di un sogno. C'era un angelo, o qualcosa di simile accanto a lei. Più di uno. Che cos'erano...? Era sicuramente un sogno. Psyché si coprì la bocca con due mani vedendola svegliare. Aveva creduto d'essere forte. Aveva creduto che non avrebbe ceduto a quella debolezza. Aveva creduto di poterla affrontare, invece appena la guardò negli occhi e si specchiò nella cattiveria, nello stress, nel pallore di quella ragazza, scoppiò in pianto e si inginocchiò di fronte a lei. Quando aspetti un incontro così tanto che il tempo non lo conti più, quando succede non è come lo immagini. Lo hai programmato mille volte, e mille ancora nella tua immaginazione, quasi che ti sembra di ricordarlo. Ma Psyché, come tutte le altre, non aveva guardato Rei negli occhi nemmeno una volta. E farlo in quel momento terribile le parve quasi un insulto.
« Sei tu... » -Le sussurrò con un filo di voce- « Oh, sei tu... »
Rei non la riconobbe e se ne rincresceva. Era così bella che pareva uno spirito, o forse era uno sprito diventato angelo.
« Io non... Chi sei...? »
« Sono io, sono io, Rei... » -Si inginocchiò mentre Rei si metteva seduta, e le prese il viso fra le mani. I serpenti corsero subito sulle sue braccia, mentre la ragazza riprendeva colore e si sentiva calda e sollevata- « Sono Psyché, sono il tuo star seed, sono la tua Stella, la tua Nemesi »
« Ah, io... »
« Psyché... » -La voce di Kalìa le arrivò lontana- « Canta, è meglio »
Fu come se fosse tornata in sé. Lasciò il viso di Rei e i serpenti ricaddero sul suo volto. Si guardò intorno. Tutte e quattro le altre nemesi avevano avvolto le loro protette, e stavano cantando tutte. Psyché guardò Rei; lei, diffidente, stava già per correre via. Ma Psyché le disse « Abbi fede » e le tese una mano. E Rei seppe che cosa era giusto, e si adagiò fra le sue ali. Cullandola, dolcemente, cantò per lei più e più volte. Le ricordò cosa una volta credeva. Per lei fu come cadere in un tunnel caldo, e quasi soffocante. Ma non era spiacevole. Quando aprì gli occhi di nuovo, riconobbe subito la sua Nemesi.
« Ce li hai i miei sogni? » -Le chiese con voce impastata.
« Tutti qui » -Rispose Psyché con gli occhi luccicanti, toccandosi il cuore.
« Che posto è questo? » -Chiese invece Makoto più pragmaticamente.
Voluntas sollevò le mani e l'indicò. Era tutto bianco, e luminoso quanto bastava per potersi guardare in faccia senza fatica.
« Questo » -Sentenziò- « È il limbo »
« E che ci facciamo con... » -Smorfia di disappunto e gesto con un dito in direzione di Usagi- «
Lei in questo Limbo? Non è una stupida trovata del tuo Silver Crystal per convincerci a salvare il mondo, vero? »
Ami e Minako si scambiarono un'occhiata significativa. Avevano pensato la stessa identica cosa. E ora che glielo facevano pensare, anche Rei era d'accordo. Si svincolò da Psyché velocemente, e andò ad affiancarsi alle compagne mentre la trincea riprendeva la sua forma. Loro quattro da una parte, e le cinque Nemesi e Usagi dall'altra. Usagi scosse la testa.
« No, non ne so niente, non ho usato il Silver Crystal! » -Gridò disperata- « Non lo so chi sono, non lo so, non ne ho idea! »
Voluntas alzò le sopracciglia in un'espressione che doveva sembrare sconcertata, ma in realtà i suoi lineamenti non si piegarono più di tanto.
« Io
sono il Silver Crystal » -Spiegò. Mugolii di dissenso e un sacco di ve l'avevo detto e lo sapevo dall'altra parte della trincea. Un'altro stupido trucco perché doveva salvare Chibiusa.
« E noi siamo i vostri Star Seed » -Aggiunse Areté fissando Makoto.
« E in effetti questa
è una felice rimpatriata per il salvataggio della terra » -Fece Kalìa al seguito.
« Non mi somiglia per niente. Come fa ad essere il mio star seed? » -Disse Minako in direzione di Rei. Rei ridacchiò, ma Kalìa s'offese e incrociò le braccia in segno di disprezzo.
« Hai ragione, sono parecchio più bella »
« Sei anche più
grassa » -Le fece eco Minako.
Ci vollero sei o sette minuti per districarle e farle smettere di bisticciare. Voluntas si riprese la parola, alla fine.
« Noi siamo solo anime. Non siamo niente, non abbiamo nessun potere e nessuna speranza di salvare la terra da sole. E voi, visti gli ultimi sviluppi della lite, nemmeno. Ma insieme, contiamo di sventare la catastrofe »
« Cosa?! Niente Crystal Tokyo? » -Usagi era sconcertata, boccheggiava. Ami sembrava sul punto di vomitare.
« Non per adesso. Io sono debilitata, Usagi » -Disse Voluntas accarezzandole la guancia- « C'è poca luce nel tuo cuore. L'ho dovuta prendere tutta su di me quando l'hai abbandonata. Sono sovraccarica, mi dispiace... Non ce la faremo a salvare l'umanità se non fermiamo la catastrofe »
Ma Makoto aveva ben chiaro il quadro della situazione, e non voleva partecipare. Lo esplicitò subito e con veemenza.
« E se non volessimo partecipare? »
« Ma, Makochan! » -Le gridò Usagi, di nuovo sul punto delle lacrime, di nuovo dall'altra parte del fosso. Makoto scosse la testa.
« Preferisco morire sulla mia sedia a rotelle e non avere il peso di nessuna responsabilità. Se la natura ha deciso, allora la natura deciderà ancora. La Catastrofe ci sarà, non possiamo cambiare il destino » -Arricciò le labbra e fissò la sua Nemesi. Le sembrò di ferro, in quelle ali e con quel viso mascolino. Possibile che quello fosse quello a cui aveva rinunciato?
« Il destino non è scritto! » -Saltellò su Kalìa- « Anche noi lo abbiamo creduto, ma siamo qui per cambiarlo. Non è scritto! Dobbiamo scriverlo noi! »
Minako fece un gesto con la mano, a gran fatica si reggeva in piedi ossuta com'era.
« Non se ne parla. Se anche volessimo, guardateci. Voi senza corpo e noi senza niente. Io mi reggo a malapena in piedi, Makoto nemmeno quello. Rei ha cicatrici ovunque »
Rei sobbalzò a quelle parole, e distolse lo sguardo da Psyché. Quanto doveva averla delusa, quanto stava soffrendo?
« Sì, sì, sì! » -Kalìa sembrava invece sempre più felice mentre squittiva le sue spiegazioni infantili- « Noi vi daremo la forza, e voi il corpo! La volontà è quello che conta, è il quinto elemento, è quello che vi lega! È il vantaggio che abbiamo sulla natura! Il
desiderio di salvare la terra! »
Makoto parve spazientirsi all'improvviso.
« Non c'è nessun desiderio! » -Gridò a gola secca- « Non ci importa più un fico secco della terra, né della nostra vita! Crepate, crepi la terra e noi con voi, e voi con lei! E adesso, rimandami giù a godermi i miei ultimi giorni da Mortale! » -Aveva detto
rimandami, e Areté aveva subito capito che stava parlando con lei. Sollevò la testa, sapeva che quel momento sarebbe arrivato. Usagi singhiozzava come una bimba di prima elementare senza il gioco, Makoto la fissava negli occhi e non c'era pietà né rancore nei suoi occhi. Niente. Il vuoto. E così, anche tutti gli occhi delle altre erano solo pozzi vacui in cui precipitare, giù, sempre più giù. Capiva il motivo del sovraccarico, e capiva anche le dispersioni. Annuì gravemente.
« Non si può tornare giù dal Limbo »
« Che cosa? » -Per quello che era parso un secolo, Ami non aveva parlato. Ma adesso era scattata in avanti, il terrore dipinto sul viso- « Siamo bloccate qui? »
Subito Sophìa la rassicurò con il suo fare un po' saccente.
« No, no, no, devi stare tranquilla, non siete bloccate. Tornerete giù, naturalmente. Ma ve lo ha spiegato prima Kalìa, qui la volontà è quello che conta. Solo quella. Per tornare giù, quindi, dovrete dimostrare di volerlo sul serio »
« Io voglio! » -Piagnucolò Minako improvvisamente isterica all'idea di restarsene lì l'eternità e oltre- « Voglio voglio e voglio! Ora fammi tornare! » -Anche lei aveva detto
fammi. Kalìa la guardò in viso, deturpata com'era. Una grottesca C dipinta sul viso di una Bulimica. Marchiata per sempre dal vetro di un finestrino. Non sarebbe stata causa di altre sofferenze, per lei. Il sovraccarico era bastato a tutte. Voluntas fece un gesto con la mano.
« Buttatele giù » -Si coprì gli occhi per non far vedere che stava di nuovo per piangere- « Non voglio vederle soffrire di più, non lo sopporterei. Sottoponetele alla
prova e rimandatele giù in fretta »
Ciascuna deglutì in quel momento, quattro sguardi di fuoco puntati su di loro. Makoto non sapeva di che prova stesse parlando, ma si sentiva così determinata a volersene tornare a casa, senza più la preoccupazione del salvataggio del mondo o altre stronzate del genere, che era sicura di superarla in meno di cinque secondi, con esito positivo. Ma la prova non ha esito positivo o negativo. La prova è solo una prova. Non c'è una scelta giusta. Kalìa lo aveva detto, è solo questione di volontà nel Limbo. Quello che vuoi viene da te, automaticamente.
E Makoto, così sicura di sapere cosa volere, questo non l'aveva capito.

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Capitolo 10
*** Psyché ***


09 ~ Psyché
La prima prova è la prova di Rei. Consiste nella scelta precisa fra tre archi, che simboleggiano tre precisi momenti. Il momento del passato della felicità senza nessun dolore e quindi la cancellazione dell'incidente, il momento del presente e quindi il dolore vacuo della vita che finirà con la Catastrofe, e infine il dolore giusto, che ti consente di superare te stesso e combattere per un bene che qualche volta sembra male, ma è solo bene troppo grande per comprenderlo.
 

Per la seconda volta, Rei aprì gli occhi e c'era troppa luce. Da dove venisse, però, da dove sfumasse quel colore perlaceo e verdastro, non era chiaro. Il sole, dovunque fosse, non si vedeva. Si strofinò gli occhi con veemenza; era tornata sulla terra, nel suo letto? O forse era stato tutto un sogno, un'allucinazione alimentata dal fuoco del dolore? Si guardò intorno. Non era nel suo letto, non era in nessun posto. Era da sola. Le altre non c’erano, non c’era nessuno. Non c’era niente. Cercò di ricordare cosa fosse successo dopo che le Nemesi avevano finito di parlare. Ah, era precipitata. Aveva battuto la testa, forse.
« Su, alzati » -Rei si tirò su automaticamente, scattando in piedi e pronta a difendersi da qualsiasi fosse la fonte della voce che sentiva.
« Dove sei? Su, esci » -La voce le tremò mentre sapeva bene che non avrebbe mai potuto affrontare una qualsivoglia creatura divina. Non senza l'henshin. Lo cercò velocemente nella tasca destra in un gesto di istintiva difesa, senza trovarlo. Giusto, si disse, è in un pacchetto in qualche cassetto. Anzi, no, l'ho gettato a Usagi. Ce l'ha lei, sicuramente...
« Togli i polsini » -Rei sollevò la testa e non ubbidì. Non se ne parlava, di toglierli. Non voleva mostrare a nessuno quella sua debolezza. Non si spostò di un passo, con le mani strette a pugno davanti alla faccia. Era pronta a picchiare, se fosse stato necessario.
« Togli i polsini » -Questa volta il tono era più perentorio. Fu per paura, forse, o forse per rassegnazione all'idea che in un modo o nell'altro glieli avrebbe fatti togliere a farla agire. Ubbidì, sfilando le due spugnose fasce che le stringevano i polsi.
« Dove sei? » -Chiese per la seconda volta.
« Sono intorno a te. Sono con te. » -Eppure, non vedeva nessuno- « Non importa quello che vedi, importa quello che sai »
« Datti forma, allora, Nemesi! » -Aveva capito.
Il cuore le martellò il petto mentre stava a osservare lo spettacolo che le si presentava di fronte. Vide la forma prendere corpo. Rimase a guardare, ferma, con la mascella serrata. La prima cosa che prese forma furono i capelli. Erano corti, e rossi. Capelli lisci, che arrivavamo come strisce di raso, come lingue di fuoco. Avevano sfumature aranciate, e striature giallastre. Da principio, Rei non capì che cosa fossero, poi però comparvero gli occhi. Quelli erano gialli, e luminosi, e allora si rese conto che quello che stava prendendo corpo di fronte a lei era il viso del suo Star Seed. Occhi grandi e profondi, di un giallo così vivo che sembrava oro. E poi il corpo, la veste. La veste dello stesso colore degli occhi e con le stesse sfumature dei capelli, contornato di rubini e di pagliuzze luminose che la facevano splendere come se avesse avuto un'aura intorno. Le ali, le ali! Rei sussultò mentre quelle si facevano vedere, leggere, sulle scapole della sua Nemesi, timidamente. Erano piccole, larghe quanto un braccio. Poco meno. Sembravano bianche, a una prima occhiata, ma studiandole meglio ci si accorgeva della meraviglia che celavano. Ambra colante da ogni lato, e trapuntate di magenta. Aveva la pelle candida, e quando sollevò il viso a fissare Rei non rideva. Sorrideva. Scosse la testa e il corpo e i suoi contorni divennero nitidi. La polvere che l'aveva avvolta sfiorò il paesaggio.
Rei fece un passo indietro; non capiva perché, ma adesso le faceva ancora più paura. Credeva che vedere la sua Nemesi l'avrebbe sollevata, ma non fu così. Perché se lei era davvero tutto quello che aveva perso e tutto quello che poteva essere, era devastante vederla così bella e così luminosa. Avrei potuto essere così, e ora invece è tardi.
« Chi sei, tu? » -Domandò tremante.
« Mi è stato assegnato il nome di Psyché, da quando il tuo spirito è volato sulle stelle. Sono la tua Nemesi, il tuo contrario, la tua forza, la tua debolezza. La tua bellezza. Sono quello a cui hai rinunciato. Non chiedere, ma desidera; io sono ciò che ti manca per essere luminosa, completa. Felice »
Rei non mosse un muscolo. Restò ferma, immobile. Attendeva. Psyché parlò ancora.
« Insieme, dobbiamo salvare il mondo » -Rei sussultò.
« Non è stato un sogno? »
« Non lo è stato. Io sono uno dei cinque guardiani dei semi più potenti, degli Star Seed più forti. Delle Inner Senshi. Scelti per voi, con voi. Per il vostro mondo »
« Per Noi? » -Rei aggrottò le sopracciglia- « Noi... Cosa c'entriamo? A cosa serviamo alle cinque più potenti creature dell'universo? » -Psyché assunse un cipiglio rassegnato, e Rei se ne risentì. Che poteva saperne, lei?
« Ci serve la vostra forza di volontà. Ci serve il vostro corpo. Senza di voi, le nostre capacità sono limitate allo spirito. Ci arrenderemmo dopo poco, stanche di lottare » -Annuì gravemente- « Ma se ci riunissimo,  saremmo potenti. Potrete avere i nostri doni, e usarli per salvare il mondo »
« Io non voglio salvare il mondo » -L'interruppe Rei. Ancora con quella storia.
« Tu devi imparare quello che vuoi » -Psyché stava disegnando in aria, con le dita, qualcosa che Rei non riusciva a individuare. Fiori, le sembrò al principio, e poi credette che fosse un albero, e poi un pesce, e poi una fiamma. Poi, si arrese e distolse lo sguardo- « Non sempre è facile sapere cosa volere. Bisogna osservare, e capire; vuoi cancellare l'incidente, per esempio? »
Rei sollevò un sopracciglio, ma non lasciò trasparire la scossa che le si era appena propagata su per la schiena.
« Qui si può fare. Ma è quello che vuoi? Vuoi tornare a quel momento ed evitare di frenare? Sei sicura che funzionerebbe? E se morisse Makoto, invece di Chibiusa? Devi riflettere bene su quello che vuoi desiderare. Rischia di avverarsi »
Finì il suo disegno, e volò in alto. Rei la seguì con lo sguardo e la gola secca, da cui cercò di fare uscire un aspetta, ma non le uscì che un gorgoglio sommesso. La guardò scomparire e si sentì sola, mentre il luogo mutava intorno a lei. Nel disegno c'erano davvero degli alberi, ma quello che aveva scambiato per un fiore erano in realtà tre archi. Stava diventando una radura. Alberi a destra, a sinistra, e quei tre, più grandi degli altri, davanti a lei. Intrecci di rami, di foglie, di fiori. Bellissimi.
Da dietro, una folata di vento la spinse verso gli archi. Psyché, pensò.
« Mostrami quello che vuoi. Mostrami la tua volontà » -Rei cercò di indietreggiare, ma il vento spinse ancora, e alla fine si ritrovò a pochi centimetri dai tre archi. Fu allora che cominciarono le voci.
« Posso renderti felice, se lo vuoi » -sapeva che quella voce esisteva solo nella sua testa, ma non riuscì a fare a meno di voltarsi, repentinamente, per controllare di non avere nessuno alle spalle. Come il suo istinto le aveva suggerito, però, quella voce era nel suo cervello. Ed era una voce che conosceva parecchio bene.
« Yuu...? »
« Ssssìììì » - No, non era la sua testa a parlare. Era l'arco. L'arco centrale parlava con la voce di Yuuichirou. Ma non c'era lui dentro. C'erano le ragazze, tutte e cinque, che sorridevano salendo sull'auto. L'immagine si fermò repentinamente, mentre Rei -la Rei dell'arco, l'altra Rei- metteva in moto. Da fuori, Rei si guardava come in un film.
« E, cosa...? »
« Puoi rivivere quel momento... Decidere di prendere un autobus... Creare una realtà parallela. Fingere che la macchina sia rotta. Puoi prendere un'altra strada. Puoi... non frenare. Sarà come se non fosse mai accaduto... » -La voce si affievolì e poi svanì, lasciando solo quell'immagine di loro cinque, felici, ferme nella macchina, congelate in un sorriso eterno.
« Ehi, aspetta, Yuu! » -Ma lui non aspettò- « Aspetta, ti prego! »
Ma non aveva fatto in tempo ad allungare la mano, che il secondo arco stava cantilenando con la voce infantile di Usagi.
« Oppure puoi scegliere la realtà, senza paura di morire dei tagli tuoi volontari » -Era infantile, e fastidiosa. Rei non si era resa conto, fino a quel momento, di quanto trovasse irritante la voce di Usagi negli ultimi tempi, quando da cristallina era diventata stridula.
« Vuoi dire che non mi ucciderò? » -Soppesò quell'eventualità.
« Non lo farai, mai. La Catastrofe verrà a prendervi tutte. Morirete tutte con l'umanità e solo allora » -Rei cominciò a valutare le opzioni che aveva. La prima era di gran lunga la preferita, in quel momento. Cancellare il passato per ricominciare a vivere in un sogno perfetto anche se parallelo. Chi se ne importava della realtà, in fondo? Avevano deciso di morire tutte con la catastrofe, perciò perché non farlo fingendo che tutto vada bene?
« ...Ma se non ascolti » -Sussurrò il terzo arco naturale con la voce di Rei stessa- « Le falsità dei sogni e vinci la paura della morte, la paura dell'infelicità, la paura di te stessa, attraversa i miei corridoi »
La sua voce era particolarmente familiare, ma diversa, tanto che all'inizio Rei non ci si riconobbe. Dopo qualche secondo, però, con uno stralcio di lucidità, si rese conto che era proprio lei stessa a parlare a se stessa e... Le faceva male la testa.
Le possibilità che aveva erano infinite, ma in effetti, si disse, si riducevano a quelle tre. Tornare a casa illesa e come se nulla fosse successo, senza essere costretta ad affrontare i suoi fantasmi, oppure cancellare tutti i rimpianti che aveva con la gomma del Destino. L'ultima possibilità era quella che le faceva, più di tutte, pulsare il sangue nelle vene. L'eccitazione di non avere paura. L'idea di superare una volta e per tutte se stessa la rendeva in quel momento spavalda e quasi oltraggiosa.
Il suo desiderio era veramente di cancellare il momento che l'aveva resa Rei Hino, così come era in quel momento, cicatrici e pallore e occhi bordati del viola di notti insonni? Forse sì, ma forse, in quel momento stava pensando, forse no. Per tutti quegli anni aveva voluto con ogni forza tornare indietro nel tempo. Con tutta la sua essenza, si era consumata per trovare un modo di cancellare tutto. Ma in quel momento, in quel preciso istante, si rendeva conto che qualsiasi arco l'avesse rispedita indietro, lei si sarebbe comportata esattamente nello stesso modo. Avrebbe schiacciato il freno, anche se avesse dovuto rivivere quel momento un milione di volte. Anche se fosse significato uccidere il bimbo di Usagi. Avrebbe pestato il piede destro sul pedale ancora, e ancora, senza sosta. Perché non schiacciarlo sarebbe significato darla vinta a loro. Regalargli la vittoria. Ribaltare la macchina, e morire tutte e cinque -tutti e sei. O forse sarebbe significato sopravvivere da sola alla tragedia. Un'idea che la raccapricciava.
E la porta della realtà, invece? Quella era una prospettiva più interessante. Tenere fede a se stessa voleva dire entrare là dentro e tornare sulla terra. Sarebbe stata la scelta più coerente. La scelta più giusta. La scelta vera, la scelta più difficile... Non è vero. Anche attraversare i corridoi della porta di Usagi sarebbe stato facile. Sapere di non morire se non  travolta da una Catastrofe, vivere ogni giorno avvicinandoti a quell'evento, era forse quello che le interessava? Dar via per sempre il suo spirito, la sua Psyché, abbandonarla. Abbandonare la sua Nemesi.
Le venne in mente un episodio che le era capitato quando era bambina. Suo nonno l'aveva accompagnata per la prima volta ad un corso di danza. Lei era scoordinata, e andava continuamente fuori tempo, così alla fine la maestra l'aveva lasciata da parte. L'aveva costretta a fare esercizi di postura da sola, alla sbarra. E Rei si era sentita non solo arrabbiata e triste, ma soprattutto incapace e inferiore alle altre. Quando il nonno le aveva chiesto « Com'è andata? » aveva risposto solo « La danza fa schifo ». Ma non era vero. La danza non faceva schifo, per niente. Solo che lei aveva mollato. Le era bastata un'ora o poco più per decidere che, siccome non era capace di coordinarsi come la migliore delle ballerine, allora la danza era uno sport mediocre... In quel momento si rese conto che avrebbe dovuto aggrapparsi alla sbarra con forza, e fare quegli esercizi con più vigore di quanto non faceva con gli esercizi normali, perché le cose che non ci piacciono ci rendono migliori, gli esercizi di vita sono le tragedie che affrontiamo e se fosse facile, ce la farebbero tutti. Saremmo tutti ballerini.
Saremmo tutti provetti scultori, medici, o ingegneri senza sforzo. Invece la vita premia chi non abbandona il campo. Rei lo aveva fatto, e si rese conto che lo stava facendo anche in quel momento. Stava lasciando a morire non solo lei stessa, non solo Usagi, e Chibiusa, e Minako e Makoto e Ami... Stava mandando al loro destino suo nonno, e Yuuichirou, e la signora che le sorrideva vendendole il latte. Che c'erano volti che non aveva conosciuto, e che forse non avrebbe mai potuto conoscere se avesse scelto di restare così, in stallo.
Che scegliere di tornare a casa sarebbe stato come non scegliere. Come dire che la vita fa schifo perché non siamo capaci di buttarci a capofitto. Anche se le scarpe a punta fanno male. Anche se la sbarra è noiosa. Anche se all'inizio sei solo.
Si avvicinò all'arco centrale, e osservò le ragazze sorridenti dentro la sua macchina. Un nodo le si formò in gola, e con la mano sfiorò la superficie che sembrava acqua. Attraversò l'arco fino al polso. Sentì calore. Quando la ritirò spaventata, le cicatrici sul polso erano sparite. Non c'erano più. La sua vita, e non c'erano più.
Si lanciò tremando verso l'arco della realtà, nero pece, e rifece lo stesso. L'attraversò con la mano. La ritrasse subito, con una smorfia di dolore. Erano tornate. Ed erano doppiamente infette, tormentate, e gonfie. Blu, e viola, e gonfie, e sembravano quasi delle labbra.
« Su, ora, entra » -Le suggerì Usagi.
« Vieni da me » -Disse Yuu.
E Rei, Rei del terzo arco non disse niente. Non la invitò ad entrare, non le disse vieni, né sono la scelta giusta. Perché quello, Rei, doveva saperlo da sola. Scoppiò a piangere. Un pianto disperato, infinito, senza scampo. Gridò perché, perché io, perché a me. La piccola Rei, davanti agli archi grandi.
Aveva capito perché Psyché le aveva detto di sfilare i polsini, aveva capito che non voleva guardarle, non le interessavano. Voleva che Rei le guardasse, che guardasse le sue cicatrici. E che non le nascondesse al mondo, ma che gridassero guardatemi, ora, sono sopravvissuta. Se non ci fossero state, non sarebbe stata lei.
Avrei dovuto fare danza,  si disse. Avrei dovuto dire a mia madre che l'amavo. A mio padre che l'ho sempre stimato anche se lui non stima me. Avrei dovuto dire a Minako che è bellissima, a Usagi che non ho smesso mai di volerle bene.
Avrebbe dovuto fare un sacco di cose. E adesso che sapeva che non era più tardi, non era più tutto finito, decise di essere quella che avrebbe voluto essere. Quella coraggiosa. La Rei vera.
« Addio, ragazze » -Disse in un soffio, sfiorando la mano di Usagi in quella foto d'acqua. Usagi sorridente. Usagi vittoriosa con la mano sulla pancia, in quel momento. Avrebbe almeno voluto dirle che tutto sarebbe andato bene. Si promise che l'avrebbe fatto.
« Vi rivedrò, un giorno. Ma non qui. Non oggi » -Doveva salvare chi amava. E chi doveva ancora amare. Non poteva essere ancora egoista. Non poteva permetterselo.
Alzò lo sguardo e una morsa di terrore la strinse. Aveva tanta paura, ma doveva farcela. Non c'era strada. Cercò di entrare piano nel terzo arco, ma tremava troppo. Era scossa di brividi incontrollati e non riusciva a fermarli. Allora, si allontanò. Prese la rincorsa.
Si lanciò contro l'arco di se stessa e ne squarciò l'entrata con il corpo. Urlò di dolore. Tutto era una lancia, lì dentro, tutto era appuntito. Affilato, anche. Gridò ancora, e invocò Psyché.
« Coraggio » -Le disse la voce dello Star Seed riempiendole la testa- « Devi arrivare da me » -Lei era la luce, la vedeva in fondo. In fondo a quel tunnel di lame. Era piccola. Fioca. Lontana nei mille tagli, nelle mille spine.
« Sopporta la sofferenza, e vivrai » -Che ironia, si disse Rei. Fino a quel momento aveva sopportato la vita con la sofferenza, e adesso era il contrario. Doveva tagliarsi per farcela. Rise istericamente, rise forte, e gridò.
« So come ci si taglia! » -Cominciò a camminare- « L'ho fatto per tutta la vita, Psyché! »
Cominciò a camminare più veloce, e da sotto i piedi cominciarono a spuntare cocci di vetro che le uccidevano le piante. Strinse i denti mentre cercava di schivare i tagli che fino al giorno prima voleva, bramava, amava. Ma la luce era più chiara. Man mano, diventava più vicina. Eccola, in fondo. Veniva quasi voglia di correre, se non fosse stato per i piedi completamente fracassati.
Fu allora che tutto intorno a lei cominciò a dare segni di vita. Cominciò a ruotare intorno a lei. Le lame divennero acciaio rotante, le spine spade affilate. Si muovevano veloci, e... Cominciavano ad attaccare. Quelle... cose... le trafiggevano le gambe, e le braccia, con una precisione millimetrica. E a nulla valevano i suoi sforzi e i suoi salti per cercare di scansarsi. Scattavano su, e giù; sferzavano l'aria con sibilo di tuono. Colpivano veloci, e se mancavano il bersaglio lo centravano un secondo dopo, con precisione agghiacciante.
« Non morirai... » -Sussurrò la voce di Psyché al suo orecchio.
Ma Rei non l'ascoltava. Non si fidava, più che altro. Stava cominciando a vedere il sangue, e mentre quello usciva la sua vista si faceva più sfocata. Strinse i denti, era ovunque, tutte le lame erano rosse e sapeva che non era il loro colore naturale. Però non urlava. Non si scomponeva. Pensava. Avanzava. Pensava Usagi, Chibiusa, signora del latte. E Psyché.
Il suo cuore non aveva mai battuto così forte.
Alla fine, dove c'era la luce, sapeva che c'era anche il coraggio.
Ma le lame tagliavano, e fenderono precise il suo fianco. Lo segarono da parte a parte. Per un secondo, non ebbe aria, e dovette inginocchiarsi sui cocci di vetro per respirare.
« Di questo passo morirò prima … » -Si disse, ma si alzò, avanzando ancora di un passo e poi di due, le mani premute sul fianco lacerato- « Lo sapevi che non ce l'avrei fatta! » -Inveì a Psyché. E una risata cristallina riempì l'aria, e ci fu tregua di dolore e lame. E Rei inspirò, e sentì un conato di vomito riempirle la bocca. C'era un'aria pesante, calda, e zeppa di odore di rame. Di ferro. Di sangue.
« Non morirai » -Ripeté lei- « Non senti il dolore? Sei viva. Ci vuole coraggio per morire. Tu devi averne di più. Per vivere. Soffri, perché molto hai sofferto e molto soffrirai. Soffri il dolore di una vita. Ma non morirai. Non se non lo vuoi. Qui, la volontà è tutto »
Rei spalancò gli occhi, e con grazia rinnovata spiccò un balzo verso la luce. Ma ecco le lame. Ecco il sangue. Ecco lo stomaco completamente trafitto. Ecco la spina entrare nella pancia e uscire dalla schiena. Da parte a parte. Le fermò il respiro, di nuovo, congelandoglielo in gola. Cercò di nuovo di prendere aria, annaspando, ma non ci riuscì. Rantolò. Credette che non sarebbe mai più riuscita ad inspirare l'aria buona di mare, di montagna. Che sarebbe morta nel fetore del suo sangue, annegata nel rubino del suo liquido vitale. Non l'avrebbe mai più sentita, l'aria del tempio, che odorava leggermente di incenso, o la puzza di suo nonno quando aveva appena fumato. Non avrebbe mai più potuto sentire il profumo preferito di Minako, l'odore delle torte di Makoto quando sono appena sfornate. L'aria. Quella pura, quella buona, che vorresti mangiartela con i suoi odori, con i suoi sapori, rumori, colori. Forse avrebbe dovuto passare il tempo a respirarne di più anziché limitarsi al minimo indispensabile. Non le sarebbe più entrata nei polmoni.
Sarebbe morta, sarebbe morta affogata nel suo sangue. E il mondo con lei. Il suo mondo, morto con lei. Suo nonno, Yuu, e la signora del latte della domenica, che la salutava sempre dicendo buona giornata, e le regalava una liquirizia fin da quando era bambina. Aveva dei nipotini sicuramente, oramai. Sperò che morissero abbracciati.
Rei cominciò a tossire, e sputare, nel tentativo di riprendere fiato. Inutile, quel pezzo le aveva sicuramente perforato i polmoni. Allora impiegò ogni forza che aveva ancora in corpo per spremere lacrime. Pianse disperata sentendo il suo sangue correre veloce fuori, il suo cuore accelerare il battito.
Il battito?
Allora c'era. C'era ancora. Batteva, risuonando nella sua testa. Come un tamburo, sentiva ogni vena portare il sangue in ogni angolo del corpo. E in quel momento in cui era così vicino alla morte, il cuore pompava con forza, e ribadiva, attaccandosi con disperazione alla vita, ci sono. Sono qui. Com'era possibile? Le stava comunicando qualcosa, con quel pulsare nella testa? Le stava dicendo… Io ce la faccio. Io sono qui. E tu?
Per la prima volta in otto lunghi anni, Rei pensò anche io. Se lui non mollava, lui che era il capo del suo corpo, che lo dominava con forza anche nel momento in cui tutto -per il corpo- sembrava perduto… Se tutto il suo corpo stava lottando con ogni fibra per non mollare… non poteva certo permettersi di farlo lei.
Rei strinse i pugni. Mancavano forse dieci metri, alla luce. Forse di più. Sollevò la testa, gonfiando il petto di quell'aria lurida; se era l'unica che le era stata concessa, meglio farne il pieno. Si sollevò sulle ginocchia, i gomiti poggiati sul pavimento di cocci allagati di rosso. Sollevò anche i gomiti. Adesso l'aria non mancava più, anche se era sporca, anche se era poca, anche se sentiva scivolare via il liquido faticosamente pompato.
Ma così vicino! No, non poteva morire. Andiamo, non così!
« Su, alzati » -. Risparmiò il fiato per dirlo, e risparmiò anche quello per dire grazie, ma urlò la sua risposta a Psyché con ogni muscolo del corpo mentre si sollevava, e i piedi la reggevano a malapena. Sembrava stabile. Si spinse in avanti, e si aggrappò alle lame -le sue lame- per non cadere, segandosi le mani, segandosi le dita, segandosi ogni centimetro di corpo per continuare. Non se ne parlava. Non sarebbe caduta. Si attaccava con tutte le sue forze a qualsiasi appiglio, e anche se tutto era appuntito lì dentro, quasi non soffriva più. Quasi si guardava dall'esterno. Quasi sentiva la voce, la sua voce, e quasi sentiva il calore, e si disse se questa è la morte, non è fredda. Si vedeva saltare nel cono di luce. Si vedeva sdraiata per terra.
Si vedeva aprire la bocca, e ingoiare aria. Aria buona, aria di mare, aria d'incenso. Aria di vita. Non importava più se pezzi di metallo spuntavano da ogni centimetro del suo corpo, non importava se era morta trafitta dal metallo, perché c'era l'aria. Respirava.
La Luce ebbe la meglio, e vide il buio.

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Capitolo 11
*** Kalìa ***


10 ~ Kalìa
La seconda prova è la prova di Minako. L'idea della bellezza è centro della sua scelta, in cui compaiono due specchi. Uno specchio di perfezione, in cui Minako resterà per sempre bella e del peso perfetto, e uno specchio di realtà, in cui sarà costretta per sempre a guardarsi sfigurata. Qual è il più fragile? Chi è sfigurato sul volto lo è anche nell'anima? Le cicatrici dell'anima sono quelle che restano per sempre. Mostruoso, è quello che c'è dentro.
 

Cioccolato. Ne voleva, ne voleva tanto. Se ne sarebbe ingozzata e poi, arrivata al limite, lo avrebbe vomitato. Sì, doveva andarne a comprare un sacco, e poi un sacco di Pepsi per mandarla giù più facilmente; cinque o sei litri e -Acqua. Voleva acqua, e tanta. Non solo perché si sentiva la gola secca, ma anche perché si sentiva lo stomaco vuoto… Qualcosa doveva riempirlo, e il cioccolato decise, era meglio di no, e se non cioccolato, allora acqua. Se ne sarebbe ingozzata fino a scoppiare. Tanta di quell’acqua che alla fine sarebbe stata acqua anche lei… Aprì gli occhi leggermente infastidita. L’emicrania era scoppiata nella sua testa con una forza inaudita. Si toccò la testa, l’aveva forse battuta? Si rigirò sulla schiena, fino ad allora aveva guardato il pavimento. Prese una boccata di aria e tirò su con il naso. Due volte. Ingoiò la saliva che aveva fatto; almeno così non aveva più la gola secca come se fosse stata un deserto.
« Hey! » -Provò a dire, e la sua voce echeggiò nel buio rinnovando le fitte d’emicrania- « C’è qualcuno? Aiuto! » -Rimbalzi di voce e di echi inquietanti. Niente di niente.
In verità aveva già il sentore che non ci fosse nessuno attorno a lei, se non spiriti. Kalìa, si disse subito, è lei che è qui da qualche parte. Quelle maledette nemesi ci costringeranno a torture d’orribile entità prima di rimandarci a morire sulla terra… Minako si massaggiò le tempie con due dita per cercare di darsi sollievo, ma non c’era verso. Le faceva male la testa, niente da fare. Era un continuo pulsare, probabilmente perché non aveva mangiato nelle ultime ore. La nausea da mancanza di cibo stava facendosi sentire.
« Kalìa! Fammi uscire di qui! » -Nessuna risposta, di nuovo. Minako studiò il posto in cui si trovava. Era un cubicolo, una stanza di tre metri per tre sì e no, a giudicare dal suo senso dell’orientamento. Questo perché non si poteva dire quanto grande fosse, a occhio: era scurissima: completamente dipinta di nero, forse, e senza arredamenti. Al centro, unica cosa visibile, spiccava un semicerchio laccato d’oro, alto più o meno fino alle sue ginocchia. Dal semicerchio spuntavano due lame scintillanti. Era una fonte di luce, l’unica che c’era, e illuminava leggermente il viso di Minako.
« Prendilo » -Suggerì una voce.
« Ah-ha! » -Fece subito lei- « Sapevo che eri tu. Forza, fammi uscire di qui! » -Chiese per la seconda volta. Per la seconda volta non ottenne risposta, allora gridò ancora- « Codarda! »
La luce che veniva dal semicerchio piantato in mezzo alla stanza fu oscurata in pochi secondi da un’esplosione di luce bianca. Minako dovette fare due passi all’indietro per colpa della leggera onda d’urto; cercò di ripararsi la faccia con le mani, mentre, quando il vento si intensificò, volava per terra di sedere e faceva una smorfia di dolore. Sarebbe uscito il livido. Il secondo, oggi. Quando la luce si diradò e finalmente riuscì a spostare il gomito dal viso e guardare, dove c’era il cerchio c’era anche Kalìa. Minako pensò che anche senza la luce accecante si faceva fatica a guardarla, perché era perfetta. Al contrario di lei, non aveva nessuna cicatrice sulla faccia, ma una pelle perfettamente liscia e del colore dell’avorio. Boccoli biondi le ricadevano disordinatamente su ogni centimetro di corpo, incorniciandole delicatamente il viso in spirali dorate. Erano scomposti e irregolari, ma davano alla ragazza quell’aria un po’ sbarazzina che qualunque modella dovrebbe avere. Era vestita di bianco e di oro, e tutto quello che toccava il suo sguardo sembrava prendere una luce pressoché nuova. I calzari le si arrampicavano docilmente sulle caviglie, avvolgendole nelle spire scintillanti. Tulipani arancioni e petali gialli turbinavano quasi su tutto il suo corpo; Minako ne notò uno in particolare intrecciato nei suoi capelli. Aprì le ali, e anche quelle erano delle sfumature dell’arancione e del giallo del grano, e dell’oro. Aprì gli occhi, e il cielo la investì. In fondo, in fondo, forse si somigliavano.
Minako sussultò di sorpresa nel trovarsela di fronte così improvvisamente, così bella e così luminosa. Per un secondo si dispiacque di averla insultata, poco prima. Poi tornò seria e la rabbia riprese a farsi sentire con forza.
« Si può sapere cosa volete da noi? » -Le gridò con veemenza- « Andatevene a salvare il mondo, e lasciateci in pace! »
Fece un gesto con la mano, per scacciarla dalla sua vista. Le faceva male guardarla perché era bella. E perché era felice. Con sua immensa sorpresa, però, Kalìa scosse la testa in tono grave.
« Nonostante siamo i più potenti fra le stelle delle Nemesi, gli star seed delle cinque Inner Senshi, non abbiamo corpo. Abbiamo solo potere, e da solo non vale molto. Io sono nata Kalìa, e ho raccolto i tuoi sogni e le tue tristezze. Io sono la tua forza e la tua debolezza. Sono quello che ti manca per essere felice. » -Poi proseguì, mentre il sorriso che prima le allargava il volto scemava lentamente- « Il sovraccarico ci ha debilitate parecchio. »
Aveva abbassato lo sguardo e non sorrideva più. Sembrava più vecchia, e stanca, ora che ci faceva caso meglio. Minako si sentì tradita. Come faceva la sua nemesi ad essere triste? Se era triste perfino lei, per Minako davvero non c’era più speranza. Sollevò la testa in un gesto di stizza e di rimprovero.
« E che posso farci io? » -la apostrofò- « Io non sono niente. Come faccio a salvare il mondo!? Non sono una Senshi, sono… Beh, guardami! Cosa vedi? Come ti sembro?! »
E Kalìa la guardò. La guardò davvero, come pochi avevano fatto negli ultimi anni. Né Joe, né Usagi, né Rei, e nemmeno Makoto l’avevano mai guardata in quel modo. Come se stesse leggendo un libro di estremo interesse, come se stesse guardando l’opera d’arte più bella che avesse mai visto. Lei se ne rimase ferma, come una statua, mentre Kalìa la analizzavain ogni dettaglio. Si domandò quando sarebbe arrivata alla faccia, e se a quel punto avrebbe distolto lo sguardo. Ma non lo face. La guardò come ultima cosa, la cicatrice, per ultima si fermò sullo sfregio che le invadeva la faccia come una strada infinita, e la guardò incantata, come se fosse un prezioso cimelio. Alla fine, la sfiorò con un dito percorrendola tutta con delicatezza.
« Perfetta »
Minako pensò che fosse una presa in giro, e anche di pessimo gusto, perciò cercò di allontanarla con un pugno, ma la sua mano l’attraversò. In qualche modo, però, dovette farle male, perché Kalìa fece una smorfia e si allontanò, stizzita. Non la stava prendendo in giro, che aveva? Riprese a parlare con quella cadenza dolce e un po’ speziata che l’aveva caratterizzata sin dalla prima volta che era venuta al mondo.
« Allora ecco la tua prova, Minako » -Allargò le braccia e la stanza fu illuminata del tutto. Adesso, era chiaro che non era mai stata nera; era solo buia, e la luce aveva svelato quella che era la seconda verità della cosa: la stanza era molto lunga, non era piccola. E non era arredata, era vero, ma in fondo, in fondo, c’era una coppia di specchi. Sembrava un corridoio. Al centro spiccava ancora quel semicerchio dorato, e alla fine del corridoio quei due specchi. Minako aggrottò la fronte per vedere meglio, poi si avvicinò al limitare e subito sussultò. Gli specchi le restituivano due immagini nettamente differenti l’una dall’altra.
Il primo, quello alla sua sinistra, era una Minako dritta e impettita, molto aggraziata e con il viso perfetto. Pelle liscia come quella di un bambino. Nessuna imperfezione in nessun punto del corpo, e decisamente in normopeso. Non grassa. Anzi, piuttosto magra, ma niente in confronto all’immagine del secondo specchio. Quella era una specie di scheletro che si reggeva a malapena sulle gambe, e con il volto strappato da quell’orrida C che, quando Minako sorrideva, sembrava unire le estremità e creare una mezzaluna.
Sono io,pensò subito lei. Quello era il riflesso di ciò che era diventata in quegli otto anni. Un’anoressica a tratti bulimici. Uno scheletro. Si fissò disgustata, e il riflesso assunse la sua stessa espressione di malumore restituendole lo sguardo.
« Questa sei tu » -Le disse Kalìa- « Questo è il tuo riflesso, oggi. E quest’altro, invece, è il tuo riflesso ieri. Il cerchio al centro della stanza è un’arma... »
Minako la fissò terrorizzata. Stava cominciando a capire cosa doveva fare. Doveva… ammazzarle… Vero? Era quello lo scopo, uccidere quello che era il suo vero io. Ammazzare il suo riflesso per tornare ad essere quella di prima, atterrare sulla terra e ricominciare a vivere una vita di felicità fino alla catastrofe.
« …Afferrala, e distruggi uno specchio. La volontà è verità, qui. Ti basta volere e puoi fare. Quello che distruggerai, però, non potrà essere recuperato, ricordatelo. Scegli bene »
Nonostante avessero litigato, bisticciato e in quel momento Minako stesse odiando il suo star seed, un nodo le bloccò la gola e le venne voglia di ringraziarla. Per essere stata con lei anche quando lei l’aveva rifiutata, per averla amata anche quando lei l’aveva odiata. Per averle accarezzato la cicatrice come fosse stata un cimelio di inestimabile valore. Per aver vinto dove lei aveva perso: amare se stessa.
Fissò il primo riflesso, quello perfetto, e sorrise. Era ovvio che avrebbe distrutto la se stessa brutta e rachitica per tornare ad essere la perfetta ragazza bionda. Chi non lo avrebbe fatto, insomma? Poteva restare bella fino alla fine del mondo, fare invidia a quella stronzetta di Usagi e poi morire in santa pace.
Tutto qui? Le arrivò una domanda nel cervello. Questo è il motivo per cui vuoi essere bella? Fare invidia a Usagi e morire in pace?
Per un secondo, Minako indugiò paralizzata. Era tutto lì quello che era capace di desiderare? Kalìa e le altre avevano detto che la volontà era tutto; che volontà aveva lei? Quella di fare invidia a Usagi e poi andarsene? Non era proprio da Minako Aino. Si fermò a guardare di nuovo il riflesso bello, studiandolo in ogni particolare, e cercando le differenze con il riflesso rachitico e piegato su se stesso. Ovviamente erano palesi, ma Minako cercava dei particolari, delle sciocchezze. Un neo, oppure una cicatrice in più. Non c’era niente, niente. Era proprio lei, solo perfezionata. Perfetta. Senza difetti. Sospirò sfiorando la superficie fredda. Aveva anche il fiocco rosso. Oh, sì, voleva essere quella ragazza, lo desiderava profondamente.
Ma perché?
Perché voleva così ardentemente essere bella? Perché la gente vuole essere bella, si chiese? Fin da piccola aveva pettinato con cura i capelli biondi, li aveva ossigenati, lasciati crescere e li aveva massaggiati con ogni riguardo sotto la doccia. Con quale scopo? Per vedere un giorno quel riflesso, nello specchio? Per provare che il suo riflesso era meglio di qualsiasi altro? D’altronde ogni persona fa di tutto per essere meglio delle altre, e non riesce a capacitarsi dell’idea del successo di qualcun altro senza provare invidia. Per Minako, pressappoco, era sempre stata la stessa cosa. Non voleva che nessuna fosse più bella di lei, perché in fondo voleva bearsi dei complimenti da sola. Voleva che tutti fossero invidiosi di lei, e non dovere essere mai più invidiosa di nessuno. Perché sarebbe stata lei la migliore. E cosa ne era venuto fuori? Non solo gli altri non erano invidiosi di lei, ma lei stessa non si apprezzava. Non riusciva a volersi bene.
L’aspetto fisico è una di quelle cose che, una volta appassite, non puoi cambiarle. Se sei brutta, non ci puoi fare proprio niente e il massimo che ti possa uscire è … provare compassione per te stessa. Per un momento, le venne in mente un episodio della sua vita, in cui aveva perso una gara scolastica di Kanji. L’avevano scelta per rappresentare la sua classe più per il suo aspetto che per la sua reale bravura; volevano esibire una modella, non una secchiona. La sua avversaria invece era di una bruttezza impressionante, tanto che Minako non riusciva a capacitarsi di come fosse possibile che non si vergognasse. Invece non solo non si vergognava. Camminava con la testa alta, e un sorriso stampato in viso che raccontava la fierezza di chi è stato scelto. Di chi ha distrutto la coltre di nebbia dell’aspetto fisico, e ha capito che siccome quello non lo puoi cambiare, devi modellare quello che hai dentro.
L’intelligenza. La gentilezza. Il carattere. L’amore. Il perdono.
Minako non era stata in grado di perdonare nessuno di essere stato più bravo di lei, ed essere più brutta non aveva impedito a quella ragazza di stracciarla alla gara per i Kanji. E per quanto assurdo in quel momento le fosse sembrato, era stata lei a vergognarsi.
Aveva deciso che visto che era troppo stupida per diventare così brillante, troppo scema per diventare intelligente, avrebbe puntato solo su quello per cui le facevano i complimenti. La bellezza. Ma con odio s’era calpestata, e quando quella se n’era andata non le era rimasto che un pugno di polvere; non aveva saputo nemmeno mantenere l’unica sua fonte di felicità, le sue amiche; e d’altronde se non riesci ad amare nemmeno il tuo riflesso, come puoi amare chi ti sta vicino?
Allungò la mano sinistra verso il riflesso meraviglioso, e la destra verso il mostro rachitico. E a quel punto, si accorse di una differenza che prima non aveva notato. Il riflesso reale le stava rispondendo. Aveva allungato le dita come aveva fatto Minako, e le stava sfiorando attraverso la superficie liscia e fredda. L’altra, invece, non si era mossa di un centimetro, concentrata nella sua espressione perfetta. Ogni movimento che Minako faceva era stato seguito millimetricamente dal suo riflesso… Mentre l’altra non aveva fatto nemmeno un piccolissimo cenno di volersi spostare.
E a quel punto, Minako capì di essere sola. Sola al mondo. Senza nessuno. Nessuno che le tendesse una mano. Nemmeno il suo riflesso lo faceva, nemmeno quella perfetta ragazza nello specchio le stava allungando la mano. Nemmeno lei voleva intrecciare le sue dita con quelle di Minako. L’unica che lo stava facendo, con la stessa espressione di stupore dipinta sul viso, era proprio lei stessa.
Si scrutò attentamente, il piccolo punto bianco del dente che sbucava dal labbro ricucito alla meglio da qualche dottore per salvarle la vita. Lasciò che una lacrima le scivolasse sulla guancia, e quella si incanalò dritta nella cicatrice, seguendo la traccia della C. Una strada che chissà quante lacrime avevano percorso. Arrivò al labbro frantumato, e fu lì che Minako l’asciugò in fretta. Con il dito disegnò la strada della C, mentre il suo riflesso la seguiva imitandola. Questa mezzaluna mia.
« Sei bellissima » -Disse al riflesso con il fiocco rosso- « Ma… Non sei me… »
Non importava più non essere belle. Importava essere vive. Importava essere vere. E mai, come in quell’istante in cui aveva fissato il blu nel blu di se stessa, Minako s’era vista bella. Si voltò e a passo deciso si diresse verso il limitare del corridoio. Arrivata a metà, con uno schianto secco liberò il semicerchio dal pavimento. L’altra mezza parte del cerchio resuscitò dalle assi cedevoli. Sorprendentemente, era molto leggero. Era un cerchio completo. Una lama rotante precisa e netta, lavorata d’oro e di topazio. Da principio le ricordò un hula-hop. Uno di quei cerchi che da piccola era un asso a far ruotare intorno alla vita, poi si rese conto che era un’arma. Proprio come aveva detto Kalìa. Minako la fece roteare due volte fra le mani; era perfetta, sapeva usarla senza averla mai toccata. Era parte della sua mano in meno di un secondo, e ruotava con una scioltezza che faceva quasi impallidire. Arrivata in fondo al corridoio cominciò a correre con il cerchio teso davanti a sé. Lo ruotò solo una volta, e con precisione straziante. Gridò di rabbia e di vittoria mentre il vetro andava in mille pezzi con un clangore metallico devastante, e annullava in un attimo l’immagine della perfezione, che anche morendo era rimasta in quell’esatta, immobile, gelata posa fasulla. Sorrise mentre guardava i pezzetti rimasti. Adesso vedeva centinaia di piccole Minako, tutte quante con la cicatrice a C. Con la sua cicatrice. Ne afferrò un pezzo e quasi s’abbracciava, ma le arrivò alle orecchie il suono di uno schiocco secco, seguito da altri due, e poi da altri tre a intervalli regolari.
Era Kalìa che batteva le mani compiaciuta.
« Molto brava » -Le disse soddisfatta, mentre Minako riprendeva fiato- « Adesso distruggi l’altro »
Il terrore s’allargò negli occhi della ragazza.
« C…C…Cosa? » -Pronunciò appena, mentre respirava per recuperare l’aria perduta nella corsa.
« Devi distruggere anche l’altro specchio » -Si spiegò Kalìa.
« Cos… No! » -Aveva aggrottato la fronte e si era opposta categoricamente. Se si trattava di una scelta, perché doveva distruggere entrambi? Non voleva!
« Devi farlo, o resterai bloccata in questa dimensione per sempre » -Fece spallucce e sparì di nuovo. Merda, pensò Minako, non è giusto. Si guardò allo specchio, quello ancora intero, pallida e segnata. Anche il suo riflesso completo alzava e abbassava lo sguardo ritmicamente, e la fissava negli occhi con aria di sgomento, paura e turbamento.
Poteva contare solo su se stessa, era vero. Però forse qualcosa le era sfuggito, prima, mentre con rabbia mandava in pezzi quella falsa bionda in minigonna. Forse non c’era solo lei in gioco. Forse non era solo il suo riflesso a dover essere considerato, ma quello di Rei per esempio. Se ci fosse stata lei, lì, in quel momento, non si sarebbe scagliata sullo specchio a mani basse per farsi fuori da sola pur di tornare sulla terra a … a… salvarla?
Cosa avrebbe fatto Makoto? E Usagi?
Stupida, stupida e ancora stupida Minako! Usagi le aveva protette con tutte le sue forze, sempre, e se stava subendo una prova anche solo la metà dura di quella di Minako, allora ne aveva avute abbastanza. Tutto quello che Minako era stata capace di pensare era stato morirà di invidia. Per un secondo volle tornare all’incidente, gettarsi in avanti, proteggerla lei, non permettere a quel bimbo di morire! A costo di farsi trafiggere la lingua due, o tre, o cento volte. Non era stata solo colpa di Usagi. Tutte avevano sbagliato a scagliarsi le une contro le altre in quel modo, ed era stato… Perché? Perché Minako non era più bella? Non poteva credere di essere stata così stupida. Avrebbe dovuto chiamare Usagi, ancora e ancora. E se non avesse risposto avrebbe dovuto tartassarla di chiamate e andare a casa sua e parlare con Mamoru. Mamoru! Anche lui era stato con loro, le aveva chiamate, aveva provato a riunirle… Ma perché erano state così sorde?! Forse aveva ragione Kalìa, quello specchio andava distrutto. La sua anoressia, il vomito, la bulimia, andavano cancellate e dimenticate.
Tuttavia, di nuovo, qualcosa non filava in quel ragionamento. Se aveva capito qualcosa, quel quid che in quel momento la spingeva a desiderare ardentemente di salvare la terra se non altro per dire a Makoto che era stata la migliore amica che avesse mai avuto, soprattutto quando aveva cercato di fermarla, era stato grazie al suo riflesso. Alla ragazza che le aveva teso una mano quando nessuno lo aveva fatto. Minako-chan. Non voleva distruggere il passato, perché sarebbe stato solo un altro cancellare se stessa. E non voleva, non voleva, non voleva a nessun costo! Proprio adesso che aveva capito, non se ne parlava!
Ma se lo desidero ardentemente, allora è vero. La volontà è tutto, la volontà è verità, così ha detto Kalìa…
« Non voglio, non lo farò » -Disse alzando la testa verso l’alto- « Mi hai sentito?! »
Nessuna risposta, nessun cenno di assenso, e nessun mutamento di paesaggio; ancora tutto bloccato. Credeva che dicendolo così convinta, tutto sarebbe mutato… Invece, doveva davvero distruggersi. Doveva farlo. Prese coraggio, e tornò al fondo del corridoio. Si guardò dal fondo, si vedeva con il cerchio spianato davanti a sé pronta a colpire la seconda volta. Pronta a devastare ancora. Pronta a fare mille pezzi di se stessa. Pronta.
E allora, guardandosi, l’ultimo pezzo andò a posto. Chiuse gli occhi e una lacrima leggera le sfiorò di nuovo la guancia. L’immaginò percorrere la strada invisibile della mezzaluna, anche se non la vedeva da quella distanza. Anche se non si era mai amata, e non si era fidata mai di se stessa, adesso il suo riflesso era completamente fiducioso. Non solo si era  consegnato nelle sue mani, ma mentre Minako spiccava la corsa verso lo specchio, anche lei si era lanciata in corsa verso di lei allo stesso modo, stesso piglio, stesso stile. A Minako ricordò una vecchia amica, che le correva incontro per abbracciarla. Allora anche lei pensò così, anche se aveva in mano un cerchio e stava per colpirla a morte.
Sto arrivando, e tu non mollare. Non abbandonarmi. Abbracciami.
La volontà è verità, nel limbo, la volontà è verità. La volontà è verità.
In quel momento preciso, Minako seppe come sarebbe andata a finire. Corse più veloce, con meno fiato ma con più forza. Più luce. Il cerchio perfino, sembrava più luminoso. Prendeva luce da lei. Aprì la bocca per prendere fiato, e si rivolse all’alto. Sapeva come sarebbe finita. La volontà è verità, la volontà è verità.
Non posso rompermi! Non cederò! Non si romperà!
« Guardami adesso! Che cosa vedi?! Come ti sembro, ora?! » -Gridò sollevando il cerchio, e colpendo con una percossa secca lo specchio. Ma quello, nonostante fosse stato colpito con una forza tripla della precedente, con una veemenza e uno spirito ancora più tenace di quello di qualche minuto prima, non andò in mille pezzi. Anzi. Respinse Minako in una sola, unica ondata di luce che la fece quasi tornare all’estremità del corridoio. Non cadde di sedere, anzi, restò in piedi. Il cerchio ancora spianato di fronte a sé. Scoppiò nella sua risata storta, gettò il cerchio a due metri davanti a sé, e sollevò i pugni in aria e rise ancora guardando il soffitto nero, e gridò « Sono infrangibile! Capito, stronza? Sono infrangibile! Allora, cosa vedi adesso? Come ti sembro?! » -Gridò ancora, verso il vuoto, tutti i muscoli del corpo atti all’urlo del saluto della vittoria.
E allora, solo allora, Kalìa comparve sopra di lei. Annuì.
« Perfetta »

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Capitolo 12
*** Areté ***


11 ~ Areté
La terza prova è la prova di Makoto. Ovviamente è una prova che ha al centro di se stessa la forza, e una intrinseca riflessione sul suo significato. Infatti troveremo il drogato che ha provocato l’incidente, i colpevoli del fatto, le questioni irrisolte e il modo in cui le persone si sono redente. Ma qualunque redenzione sarà valida? Sarà abbastanza per lasciarlo libero? La forza vera è uccidere o perdonare?
 
La prima cosa che la terrorizzò, prima ancora del buio, prima ancora dell’ambiente ostile, prima ancora del fatto che si sentisse osservata, e ancora prima del dolore che provava alla testa, fu il fatto che si trovava per terra. Imprecò immediatamente qualcosa di poco gentile. Cercò di sollevarsi leggermente facendo pressione sui gomiti, ma come immaginava la cosa era decisamente impossibile. La parte inferiore della sua spina dorsale non rispondeva più da molto tempo. Si coprì la faccia con una mano. Una luce arancione intermittente le illuminava il viso puntando dritto nel suo occhio destro. Chiuse gli occhi seccata. Con la capacità che aveva sviluppato negli anni diede un colpo di reni e riuscì a mettersi seduta per evitare quella fastidiosa luce. La cosa le era costata uno sforzo non indifferente, comunque, per cui si abbandonò stremata alla fatica, inghiottendo la saliva con il fiatone.
« Come va? » -Le fece una voce. Makoto si aggiustò le gambe, posizionandole in maniera dritta; fino a quel momento erano rimaste riverse in una maniera completamente innaturale. Tossì di sorpresa e sollevò le spalle.
« Potrebbe andare meglio » -Rispose circospetta- « Dove mi trovo? »
« Sei ancora nel Limbo. Nel mio Limbo, questa volta »
Makoto diede uno sguardo intorno, per tentare di riconoscere elementi familiari. Il mal di testa era andato scemando, e il fiatone si era già affievolito; in definitiva stava meglio di prima, anche se era ancora seduta per terra. Non poteva muoversi. Ruotò il collo, e lentamente i suoi occhi misero a fuoco il contorno. Non era buio, o almeno non del tutto come aveva creduto all’inizio. Una luce aranciata era soffusa più o meno ovunque, anche se non illuminava molto. La luce intermittente di prima fu affiancata da un’altra luce intermittente. Questa volta però blu, non arancio. Era… Era…
« Non è possibile » -Era il semaforo. La scena a cui stava assistendo, completamente senza suono, era il finale dell’incidente. Vide Usagi urlare senza sentirla. Si aggrappava alla portiera dell’auto mentre i paramedici la staccavano e la portavano verso l’ambulanza. Vide Minako con la faccia completamente impastata di sangue. La misero su una barella e la portarono sull’ambulanza. Nemmeno un suono. E poi, Ami, che barcollò fuori dall’auto insieme a Rei, cos’è successo? Sillabava con le labbra. E se stessa. Se stessa… dov’era? Ah, eccola. Anche lei piangeva e strillava di dolore, anche se non si sentiva. Cercò di distogliere lo sguardo da quella scena, non voleva vedere, non voleva ricordare; ma cos’era quella cosa? Perché lo stava vedendo? Si ripropose di alzarsi e scappare, per non guardare, e poi ricordò che in effetti non poteva farlo. Si coprì il viso con le mani.
« Non devi avere paura del passato » -Sentì una mano sulla spalla destra, e si voltò nella direzione da cui era arrivata. C’era Areté, lì. Era una ragazza grossa, più grossa del normale. Era alta, molto alta, probabilmente di due teste più alta di Makoto; i suoi lineamenti erano di quella dolcezza tipica femminile, ma sulla faccia portava cicatrici varie che la facevano sembrare più uomo che donna. Colpa probabilmente anche di quella pettinatura completamente fuori moda, con tutti i capelli tirati dalla parte sinistra, lunghi fino al collo. E il resto dei capelli era così corta che quasi non si vedeva; era mezza rasata. La ciocca lunga tirata fino al collo a sinistra era di un bel colore marrone scuro, inframmezzato da ciocche verde intenso. Aveva gli occhi di colore diverso, notò Makoto. Uno era color nocciola, l’altro di smeraldo, con venature dorate. Nonostante tutto, era bella. Improvvisamente, spostò lo sguardo sulla mano che le si era posata sulla spalla, e sussultò. Era ricoperta di ferro. Si scostò e le guardò il corpo. Per un momento impallidì. Lei dovette accorgersene, perché sorrise
« Non devi aver paura nemmeno di questo » -Si indicò l’armatura che formava tutta la parte inferiore del suo corpo e che ricopriva quella superiore. Era di un bel color argento, e sembrava molto solida. Era ben fatta, ben forgiata, era forte. Areté la portava con naturalezza, come fosse stato il suo corpo da sempre. Sulla parte superiore, alcune maglie erano sbocciate in disegni floreali. Dalla schiena si diramavano ali dello stesso acciaio. Una vera guerriera.
« Io sono nata Areté, e sono tutto quello che hai perduto. Quest’armatura sono le tue gambe, Makoto. Sono uno degli starseed. Sono un’anima che ha bisogno di un corpo per salvare il mondo. Sono il tuo contrario. Sono grande, e forte, perché tu sei piccola e debole » -Subito, la scossa dell’orgoglio la pervase tutta e Makoto si slanciò verso di lei con il busto.
« Non me ne importa di cosa ti serve! Non voglio salvare il mondo. E poi, io non sono piccola, e nemmeno debole! » -Areté sorrise.
« Avrai occasione di dimostrarlo. Qui la volontà è tutto, Makoto; se vorrai tornare a casa lo farai, ma ti mostrerò come il passato doloroso possa diventare futuro luminoso » -Le disse, e le mostrò con una mano la scena. In quel momento, l’ambulanza si stava allontanando. Era rimasta di nuovo solo la luce arancione intermittente del semaforo, e la carcassa dell’auto con il camion schiantato sopra, pochi metri più avanti sulla sinistra. Nello schianto, si vedeva che l’auto aveva aperto gli airbag e questo aveva provocato l’accensione delle luci di emergenza. Adesso lampeggiavano in sincronia con il semaforo; era una scena dolorosa, in cui si vedeva solo la morte, in cui esisteva solo la desolazione delle quattro frecce e del deserto dell’asfalto nella notte, e Makoto non vedeva come potesse diventare un motivo di gioia e di futuro luminoso.
« Ti presenterò una persona » -Le disse Areté, e si diresse verso il limitare dell’incrocio. Tutto si era congelato, nel momento in cui aveva cominciato ad attraversare. Le luci arancioni erano diventate tutte fisse, e il vento non soffiava più. Un uomo, in fondo, con un casco –il motociclista!- era fermo, i lineamenti deformati di rabbia e il dito sollevato in un gesto molto poco gentile.
Quando Areté tornò da lei, aveva con sé un altro uomo. Era un uomo provato, magrissimo e smunto. Aveva sotto gli occhi le borse di chi non dorme da un secolo; portava una camicia bianca sciancrata, stropicciata e con le maniche lunghe. A sinistra la manica era arrotolata fin quasi alla spalla, e i buchi rivelavano chiaramente cosa aveva passato la serata a fare. Makoto lo guardò con un misto di tristezza, compassione e rabbia.
« Questo è il colpevole degli ultimi otto anni, giusto? Andava in giro ubriaco, a fari spenti. Ha colpito un motociclista, non ha messo segnalazioni. Quando il camion vi ha colpite per colpa sua, è scappato a gambe levate » -Adesso il nervoso cominciava a farsi sentire. Makoto scattò in avanti con le mani serrate, per tentare di afferrarlo e ammazzarlo. Quel pensiero era talmente freddo nella sua mente, che sembrava quasi non appartenerle. Ma era seduta e le gambe non rispondevano. Ottenne solo un buffo slancio e niente di più. Guardò Areté con tutta la rabbia e il veleno che le riuscì di raccogliere in uno sguardo.
« Perché mi fai questo? »
Ma Areté non rispose. Gettò l’uomo a terra, mentre quello era ancora immobile e congelato nell’espressione di resa precedente.
« Sei sicura che sia lui il colpevole? Non è forse Rei, che ha attraversato così avventata? O il camionista che andava a quella velocità? O forse Usagi o Minako che hanno distratto il guidatore? O magari, che so, il motociclista? Sai davvero come sono andate le cose? » -Le chiese con calma e pacatezza. Makoto non se l’aspettava. Insomma, non sapeva come erano andate le cose di preciso ma sapeva quanto bastava. Quello stava con le luci spente in mezzo a un incrocio alle due di notte. Era quello che bastava. E il camionista? Non andava forse troppo veloce se non era riuscito a frenare? Era stata solo sfortuna? Makoto non lo sapeva, era vero. Non sapeva un bel niente della verità delle cose, aveva solo puntato il dito gratuitamente; forse era stata avventata.
« Ti donerò le mie gambe, Makoto » -Le disse Areté- « E la mia spada » -Aggiunse- « E starà a te scegliere il colpevole. Giudicherai. E potrai infliggergli la stessa pena che è stata inflitta a te »
La scena scomparve inghiottita da una nebbia fitta, e per la prima volta dopo otto anni Makoto Kino si alzò da sola. Si osservò stupefatta le gambe, erano come nuove. Meglio che nuove, erano di un acciaio finissimo, come un’armatura. Poteva piegarle docilmente e saltare, e correre. La cosa la terrorizzò di nuovo. Non era sicura di sapere ancora come si facesse a fare tutte quelle cose… Però appena mosse un passo seppe che era la cosa più giusta che potesse mai capitarle di avere. Erano fatte su misura per lei. Erano le sue. Erano perfette. E la spada promessa era nella fodera attaccata alla cintura. Grossa e lunga quasi fino a terra, era un’arma di proporzioni cosmiche. Ma quando la estrasse, Makoto non fece nessuna fatica a tenerla sollevata davanti a sé, davanti alla nebbia. Wow, fu il suo unico pensiero. Forte. Quella era proprio la parola giusta, era forte. Era tornata ad essere forte, ad essere la Makoto di un tempo. Era anche meglio, mentre fendeva l’aria e testava le sue nuove cyber gambe. Ma l’euforia non durò a lungo; la nebbia si diradò presto, rivelando molte sagome. La circondavano, a trecentosessanta gradi, e ciascuna la fissava con occhi vuoti.
« Puoi colpire uno di loro, tagliargli le gambe. Quando lo farai, le gambe d’acciaio saranno tue per sempre. E la persona che hai colpito sarà costretta sulla sedia a rotelle per sempre, esattamente come te » .La voce di Areté le arrivava dall’alto, da chissà dove. Lontana- « Scegli quello che reputi colpevole della tua rovina. Ed esegui la giusta condanna »
Makoto strinse gli occhi e cominciò a mettere a fuoco i volti. Il primo era il viso del drogato di prima. La guardava implorante, e gemeva. Si copriva la bocca con tutte e due le mani e diceva mi dispiace, mi dispiace, perdonami. Distolse lo sguardo disgustata passando al secondo. Il camionista. Lui non gemeva, ma non la guardava. Era tutto piegato su se stesso, e diceva sono scappato perché ho moglie, ho moglie e figli, ti prego… Un po’ tardi per pregare, si disse Makoto. Ruotò ancora di qualche grado, ed ecco Rei. Sì, sono stata io… Colpiscimi, uccidimi. Risparmia gli altri… Non voleva nemmeno pensarci. Se c’era qualcuno non colpevole, quella era proprio Rei. La successiva era Minako. Sibilava non dovevo farvi ridere. Scusami, Makochan. Non dovevo colpirti. Scusami. Quella poteva essere una delle colpevoli della sua rovina. L’aveva colpita così forte da farla cadere quando lei aveva solo cercato di aiutarla, e l’aveva allontanata quando aveva più bisogno di aiuto. Ma se c’era Minako, allora doveva esserci anche… Oh, Mako. Ti voglio bene. Ma devi perdonarmi. Devi farlo, Mako. Usagi. No, non l’avrebbe perdonata, si voltò senza ascoltarla. Prossimo. Un viso che non conosceva bene. Lo mise a fuoco, era sicura di averlo già visto ma non riusciva a ricordare dove. Dove? Dovevo condannarlo, ma come potevo? Avresti condannato un padre? Quando sibilò, Makoto ricordò improvvisamente. Era il giudice del processo per l’incidente: aveva giudicato il drogato innocente, anche se quello era fuggito, anche se era così lampantemente colpevole. Forse era lui quello che si meritava più di tutti che gli si tagliassero le gambe. Ruotò, il motociclista. Non lo vedeva in faccia, aveva il casco. Io non andavo veloce. Lui ha sbandato, lui ha sterzato. Ecco qua, guarda come si accusano a vicenda; ridacchiò.
Un bel girotondo di stronzi, non c’era che dire. Areté li aveva scelti con il mirino. Aveva un motivo per tagliare le gambe a ciascuno di loro, uno dopo l’altro. Forse con un bel movimento circolare e ben assestato ci sarebbe riuscita, a colpirli tutti uno dopo l’altro. La volontà è tutto? Bene, voleva farli fuori tutti, adesso che era forte. Adesso che era potente, adesso che poteva. Aveva passato tutti quegli otto anni a cercare un modo di andarli a prendere, e sparar loro nella pancia; aveva passato tutti quegli anni a fare piani per coglierli di sorpresa e vendicarsi. E finalmente poteva, ah, poteva. Finalmente aveva la forza e l’occasione per farlo, per attuare la vendetta, per distruggere chi l’aveva distrutta, per mettere la bomba che li avrebbe fatti esplodere! E poi, tornare a casa con le gambe, le sue gambe, e riprendere a correre e a camminare, e a fare judo e-
Perché sono tutti così tristi?
Improvvisamente, guardandoli negli occhi, si accorse che ciascuno di loro aveva dentro un abisso di tristezza, di disperazione. No, non era possibile, quelli erano i cattivi; non potevano essere tristi. Di sicuro quel drogato si era fatto un paio di dosi e aveva dimenticato. Era così, sicuramente era così!
« Dopo l’incidente si è disintossicato » -Le disse Areté all’orecchio- « Oggi aiuta gli anziani e gli andicappati come volontario »
Lasciamo stare, sarà stato solo un caso, tutti gli altri saranno sicuramente colpevoli e ci avranno riso su per tutta la vita. Quel camionista, per esempio.
« È scappato perché ha una famiglia che mantiene da solo » -Le sussurrò Areté- « Non ha saputo fare altro, ma tormenta ogni sera la sua anima per averlo fatto »
Anche quella era un’eccezione. Di sicuro. Sapeva com’erano finite Rei, e Minako, e Usagi perché le conosceva. Tutte si erano sicuramente distrutte di disperazione per l’incidente… Troppo forse. Ricordò di come aveva salvato Usagi dal suicidio gettandosi giù dalla sedia.
Il giudice, lui era il peggiore.
« Si è ritirato dopo quel processo » -Areté- « E ha deciso di donare il suo denaro alla causa di una casa di ricovero per alcolisti »
Ma quelle cose non contavano niente! Niente! Era come dire che uccido un uomo, ma poi ne salvo un altro e così sono innocente! Falso, la colpa c’era lo stesso! C’era! E lei doveva punirla, punirla! Sollevò la spada con cattiveria, ma l’abbassò quasi subito. Chi doveva colpire, alla fine? Adesso era confusa. Improvvisamente sentì i ruoli invertirsi, scivolando; improvvisamente erano loro a guardarla con sguardi accusatori, e lei ad aver acquisito l’espressione triste e malinconica che poco prima li aveva caratterizzati. Arretrò di un passo, spaventata. Voleva chiamare Areté, ma qualcosa le disse che in ogni caso non le avrebbe risposto, non le avrebbe detto quello che era giusto fare. Doveva trovare una soluzione da sola. Respirò profondamente e si appoggiò alla spada, e poi cominciò a parlarle.
In tutti quegli anni di conversazione con gli oggetti aveva imparato che chiunque può chiedere consiglio a se stesso quando ha bisogno, e in quel momento la spada era la cosa che le era più vicina.
« Cosa vuol dire essere colpevoli? » -Già, cosa vuol dire essere colpevoli? Quella era la domanda fondamentale. La domanda vera. Makoto si fermò a pensare. La spada non le aveva risposto, com’era chiaro che fosse, ma c’era stata comunque una punta di dispiacere quando non aveva sentito una voce amica dirle la verità. Colpa assomiglia a colpire, probabilmente veniva da lì; qualcuno che ti ha colpito. Allora lì erano tutti colpevoli, tutti, al cento per cento. Perché ognuno di loro, in qualche modo, aveva colpito Makoto. Ma oltre la colpa c’era qualcosa d’altro.
« Cosa vuol dire perdonare? » -Domandò allora alla spada. Perdonare vuol dire dimenticare, fu la risposta che le affiorò automaticamente alla mente. Ma perdonare non è solo dimenticare, si disse poi, è soprattutto mettere un bacio dove qualcuno ha messo uno schiaffo. Mettere il bene dove tutti hanno messo il male. Quello sarebbe stato il perdono vero, sarebbe stato mettere la spada al centro del cerchio e lasciarla cadere. Perdonare vuol dire rinunciare alla vendetta, e dimenticare… Ma non dimenticare il fatto. Dimenticare la colpa. Ma come faccio a dimenticare la colpa?
Questa era una cosa di cui non si capacitava. Non ce l’avrebbe fatta, mai e poi mai, a guardare in faccia una persona e pensare di lei ogni bene, dimenticando il male, dopo tutto quello che le aveva fatto. Non poteva, non poteva. Non era abbastanza… Forte.
Guardò il volto di Usagi, alla sua sinistra. Stava ancora piangendo, e Makoto provò un impulso fortissimo di correre ad abbracciarla. Usagi aveva sempre perdonato tutti. Perfino Galaxia; perfino la persona che le aveva portato via tutto e tutti, perfino la persona che l’aveva quasi uccisa, perfino la persona che aveva ammazzato Mamoru. Usagi aveva allungato la mano e le aveva detto di non preoccuparsi. Che la speranza l’avrebbe guarita, e che lei ci credeva che sarebbe diventata una persona migliore…
Makoto si vergognò. Usagi era la più debole di loro, apparentemente, e invece aveva fatto scaturire dal cuore una forza che nessuna avrebbe mai potuto credere possibile. E invece lei, Makoto, lei non era stata nemmeno in grado di perdonare le sue amiche. Aveva pensato subito di tagliar loro le gambe con un colpo netto, come aveva potuto?
Usagi aveva avuto perfino la forza di perdonare il proprio nemico. E Makoto, Makoto forte, Makoto d’acciaio, Makoto guerriera con una spada lunga fino a terra… Non era stata capace neppure di farlo con chi aveva un tempo amato.
« Che cosa vuol dire essere forti? » -Ecco, la domanda vera forse era proprio quella. Cosa vuol dire essere forti? Cosa vuol dire davvero essere forti?
La risposta non l’aveva pronta, ma un abbozzo lo poteva immaginare… Essere forti vuol dire amare. E amare significa perdonare. Ogni pezzo andò al suo posto, e annuì convinta in direzione della spada che teneva in mano. Sì.
« Essere forti vuol dire amare. E amare vuol dire perdonare. E perdonare vuol dire dimenticare… Dimenticare le colpe. Vuol dire vedere le persone » -Così come Usagi aveva visto Galaxia, così come aveva visto ciascuna di loro e non si era curata del passato, anzi. L’aveva usato come trampolino di lancio per un radioso futuro: perché non poteva essere così di nuovo? Voleva forse che Usagi soffrisse quanto aveva sofferto lei, senza le gambe?
Forse sì, da qualche parte nel suo cuore lo desiderava; forse in qualche angolo dolorante, in qualche recesso del suo cuore ferito lo voleva davvero.
Ma se c’era una cosa che in quel momento, in quell’attimo in cui fissava gli occhi blu di Usagi gonfi di pianto, aveva capito, era che l’avrebbe superato. Che avrebbe ucciso tutto quello che la spingeva nella direzione opposta, che la spada sguainata sarebbe servita a quello. Ad ammazzare tutto quel dolore, a succhiarlo via dal cuore, a usare tutta la forza che aveva per riuscire a perdonare tutto quello che Usagi aveva fatto, quello che Rei aveva fatto, quello che tutti quegli uomini in cerchio intorno a lei avevano fatto. Avrebbe distrutto tutti gli ostacoli che ancora le attanagliavano il cuore di vendetta, avrebbe scacciato tutti i ricordi di quegli otto anni, sarebbe tornata a quell’incrocio e avrebbe abbracciato Rei. Avrebbe salvato Usagi ancora, cento e cento volte ancora, e al mondo avrebbe gridato che ce l’aveva fatta. Che Makoto Kino era ancora forte come un tempo.
Sapeva benissimo quale fosse l’unico ostacolo alla sua corsa al perdono, l’unica cosa che la tratteneva dal gettare la spada per terra, senza colpire nessuno di loro.
Fissò lo sguardo verso il basso, e lo vide il motivo, l’ostacolo: le gambe. Le sue gambe perfette, quelle che Areté le aveva donato… Quelle che avrebbe avuto per sempre con sé, se avesse trovato la forza di tagliarle a qualcuno di quei condannati. Le facevano gola in un modo assolutamente disumano, voleva averle per sempre, voleva correre e giocare a calcio e a pallacanestro, e tornare nel club di tiro con l’arco e smetterla con il club di cucito. Per lei quelle gambe valevano oro colato, valevano otto anni di sacrifici terribili, di morte e desolazione nel cuore, da quando aveva dovuto saltare giù da una sedia a rotelle per fermare Usagi e impedirle di uccidersi.
E proprio per questo, erano l’unico ostacolo al perdono, quello vero. Sapeva con precisione millimetrica cosa doveva fare, ma non sapeva se ce l’avrebbe fatta. Sollevò la spada, e tentò una prima volta, ma aveva sbagliato angolazione e le mani le tremavano, per cui quella era atterrata un paio di metri davanti a lei, senza successo.
« Dannata! » -L’insultò mentre la recuperava, per terra, con clangore di suono.
Tutti, intorno a lei, avevano cominciato a fare un rumore sommesso. All’inizio le era parso che fosse solo un brusio sconnesso, una specie di insensata e malata supplica. Invece non lo era, si rese conto all’improvviso. Era un’incitazione… Ciascuno di loro la stava incitando. Non a fare quello che Makoto voleva, piuttosto il contrario.
« Prendi me… Prendi me… » -Sussurrava ciascuno di loro, in lacrime- «Per favore, prendi me, non farlo, prendi me… »
Mai prima di allora, Makoto credette che quello che stava per fare fosse la cosa giusta. Sorrise fiera, fiera della sua forza, fiera del suo cuore di metallo, fiera del suo cuore di Senshi. Non voleva prendere nessuno di loro, e non l’avrebbe fatto. La volontà è tutto, e se quella ce l’hai di ferro allora a che servono gambe di ferro?
« Makochan, non farlo. Taglia le mie, ti prego. Taglia le mie gambe, non le tue » -Oh, Usagi.
« Non azzardarti a buttare la mia penna, Usagichan » -Le disse, e le asciugò una lacrima con un dito. Usagi singhiozzava ancora, ma Makoto intuì che non erano più lacrime di scusa ma lacrime di ringraziamento. Già, pensò Makoto, uno pari. Se io ho salvato la tua vita, quel giorno, adesso tu stai salvando la mia. Le aveva fatto capire il valore di essere senshi, la forza di essere senshi, il coraggio di essere senshi. Le aveva fatto capire davvero cosa volesse dire amare, e se un tempo era stata lei a sentirsi sola e disperata, non avrebbe permesso che negli anni a venire per Usagi sarebbe stata la stessa cosa.
Capì cosa voleva dire Areté, quando aveva detto che il passato può diventare futuro luminoso, aveva ragione. Buttarlo nella spazzatura era stata la scelta più sbagliata che potesse mai fare, nella vita, anche se era costretta su una sedia a rotelle. Anche se fosse stato per sempre. L'avrebbe fatto per Areté, allora. Per Minako, e per Usagi. E per Rei, e per l'alcolizzato, e per il giudice e per i figli del camionista.
Ma soprattutto per Makoto. Per se stessa. Per dimostrarsi che aveva ancora forza per lottare, e aria nei polmoni, e vita nel cuore.
Fosse stato anche solo per lei, avrebbero fermato la catastrofe. Punto a punto, avrebbero cucito la loro unione, avrebbero ricominciato ad essere guerriere, avrebbero perdonato, si sarebbero abbracciate come non si vedessero da secoli e il mondo sarebbe stato salvo.
Per l’ultima volta, si rivolse alla spada che teneva fra le mani, sollevandola con più decisione.
« Allora, sei con me, Makoto? » -Questa volta la risposta era pronta. Sono con te. Come fai a perdonare gli altri, se non perdoni prima te stessa? Devi stare con te; devi stare dalla tua parte; ci vuole forza per punire. E ci vuole più forza ancora per perdonare. Tanta, forse troppa, si disse Makoto, ma adesso ce l’aveva. Grazie, Usagi.
Questa volta, la mano non tremò. Il clangore metallico e la gravità che la trascinavano verso terra le comunicarono che ce l’aveva appena fatta; sentì un dolore atroce, come se le avessero appena tirato via l’ombelico. Come se le avessero appena strappato la parte inferiore del corpo, come se le avessero appena–
Mi sono tagliata le gambe; fu il suo ultimo pensiero.

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Capitolo 13
*** Sophìa ***


Ciao ragazzi! Ciao a tutti quelli che seguono la mia storia, ciao a quelli che non la seguono e ciao a quelli che la commentano, soprattutto. Questo capitolo è estremamente noioso. Non guardatemi così, è vero. La partita è una cosa estremamente noiosa per chi non conosce gli scacchi. Ma è una partita famosa e di grande impatto per chi invece li conosce. Murphy/Lord Lyttelton nel 1858... Beh, la trovate qui: http://www.chessgames.com/perl/chessgame?gid=1075142 Io vi consiglio di seguirla mentre leggete la storia, per capire qualcosa in più su come è la posizione, che inizialmente sembra cattiva per il bianco ma si volge in un bellissimo matto finale con abbandono del nero. Mi dispiace per chi odia gli scacchi, spero comunque possa essere uno spunto di riflessione in generale, su quanto parlare con qualcuno che non sia noi stessi sia importante... E sul fatto che la rabbia bisogna gridarla, dopo averla scritta sul diario. So, enjoy e commenti... Non negativi dai xDDD un bacio! ♥



12 ~ Sophìa

La quarta prova è la prova di Ami. La prova è basata sull’intelligenza e sull’astuzia, che sono le principali qualità che Ami possedeva prima di perdere la memoria. Sono anche le qualità che ha smesso di coltivare da quando sua madre le ha rivelato che perde la memoria ogni cinque giorni; così ha scelto il baluardo di un diario, al posto di sforzarsi di ricordare... La rabbia di uno sfogo unicamente suo. Sarà in grado di salvarlo, o sceglierà la via dell’oblio?
 
Ami si ritrovò in un luogo che non aveva mai visto. Pensò subito di aver perduto la memoria, ma solo il fatto che si ricordasse di perderla ogni cinque giorni scartava quell’ipotesi. Voleva dire che era nei cinque giorni in cui le cose bene o male se le ricordava. Però poteva essere un luogo che aveva visitato negli ultimi otto anni e che non aveva segnato sul diario. E com’è che era seduta a un tavolo e non si capacitava di come ci era finita? La situazione era decisamente bizzarra, e la cosa aveva poco e niente a che fare con la sua memoria. Sollevò lo sguardo per analizzare il posto; era tutto in bianco e nero, ed anche abbastanza suggestivo. Era ben illuminato da una luce montata su un lampadario a quadri bianchi e neri. Anche il pavimento era a quadri bianchi e neri, e le pareti lo seguivano a ruota. Ami pensò che l’arredatore dovesse avere qualche problema con le cose a quadri bianchi e neri, perché era tutto così. Sembrava un grazioso caffè anni ottanta senza caffè, comunque. Il divanetto su cui era seduta era molto morbido e comodo. Abbassò lo sguardo sul tavolo. Era vuoto, eccetto per due cose.
La prima, poteva facilmente aspettarsela, ma non ci aveva pensato prima. Quei quadri bianchi e neri erano scacchi. E la scacchiera che c’era sul tavolo lo confermava. Otto per otto quadratini alternativamente bianchi e neri, e uno splendido set di legno bianco e nero ordinatamente sistemato, ciascun pezzo nella propria casa. Torre, cavallo, alfiere, donna (Per gentile concessione aveva avuto il bianco), Re, e di nuovo. Alfiere, cavallo e torre. E naturalmente i suoi preferiti. I piccoli fanti con la testa tonda. Otto pedoni nuovi di zecca, candidati a donna ancora prima di cominciare la partita. Dritti e fieri.
Si abbassò sulla seconda prima di riconoscerla al volo. Era il suo diario. Oh. Lo afferrò subito, per portarselo via, e fece per alzarsi, ma non ci riuscì. Appena si fu alzata, si rese conto che era di nuovo seduta al tavolo. Temette che la sua memoria facesse le capriole, e che fossero passate ore e non solo pochi secondi, e che fosse stata a casa e poi al supermercato e poi fosse tornata in quel bar senza ricordare di avere un appuntamento.
« La tua memoria sta bene. Almeno finché resti qui » -E quella doveva essere la ragazza con cui aveva un appuntamento, perché si stava sedendo di fronte a lei. Schieramento nero.
« Qui dove? » -Domandò con circospezione. Forse quello era un bar magico, o forse…? Ah, improvvisamente la violenza dei ricordi delle ultime ore si fece largo nel suo cervello con dolore. Era nel…
« Qui, nel Limbo » -La ragazza davanti a lei accavallò le gambe con gentilezza. Ami si prese la testa con le mani nel tentativo di frenare il mal di testa. La prova, ecco. Doveva superare la prova, per dimostrare di voler tornare a casa. E quella doveva essere la sua Nemesi. La studiò con attenzione. Non sorrideva, però sembrava tranquilla. Aveva il viso pallido. Spiccavano quasi con cattiveria due occhi di un colore blu intensissimo; Ami li evitò con cura, mentre guardava le labbra carnose, e poi il collo sottile, e un vestito che ricordava una vergine medievale. Le maniche si arrampicavano sulle sue braccia in spirali irregolari, e quasi divertite. Si avvolgevano dappertutto. Tutto il vestito era di qualche tessuto che Ami non aveva mai visto nella sua vita, cangiante da qualsiasi angolazione lo si guardasse; sembrava fatto di mare, o di cielo, di qualcosa del genere. Sophìa si sporse leggermente verso di lei, e allora Ami fece altre due osservazioni. Aveva le ali, la prima; e non erano ali comuni, in ogni caso. Erano ali d’acqua. Cadevano come cascate sulle sue spalle, anche se non facevano rumore di scroscio, e si muovevano alternativamente a destra e a sinistra come in uno spasmo. Aveva dei capelli lunghissimi, la seconda; i più lunghi che avesse mai visto. Correvano su tutto il pavimento, blu e argento e azzurro e un sacco di altre sfumature cerulee, e per quanto Ami cercasse di capire dove finissero erano troppi. Con tutta probabilità, non finivano.
« Sì, spazzolarli è una vera fatica » -Ami sussultò. Allora forse le leggeva anche nel pensiero… L’idea la terrorizzò.
« Chi… sei tu? » -Sophìa sorrise piacente, raddrizzando un cavallo nero e riportandolo nel preciso centro della sua casa di appartenenza. Fece lo stesso con due pedoni del suo stesso colore, e con una torre bianca.
« Scusa, acconcio » -Annunciò con naturalezza. Ami sollevò le spalle, di certo non le importava. Non stavano mica giocando!- « Mi piace la precisione. Sono nata Sophìa e sono te stessa. Sono il tuo Star Seed, uno dei più potenti. Quelli delle Inner senshi. Ma anche il tuo contrario. La luce che hai perduto, io l’ho raccolta. Sono la tua Nemesi, il tuo opposto, la tua vera te. Sono quello che ti manca per essere completa. Insieme, dobbiamo salvare il mondo »  -Ami pensò che era da stupidi. Se loro cinque erano le stelle più potenti, si precipitassero a salvare il mondo da sole!
« E io che c’entro? Vai a salvarlo se ci tieni. Se sei così potente non avrai problemi » -Sophìa si accarezzò un sopracciglio con aria di riflessione.
« Lo faremmo volentieri, ma siamo senza corpo. Abbiamo bisogno di unirci a voi, abbiamo bisogno della vostra volontà. Inoltre siamo sovraccariche; senza di voi, è una resa certa. Però, insieme, potremmo scongiurare la catastrofe » -Scongiurarla! Cambiare il destino! Sempre le solite baggianate, alla fine il Destino si prende quello che vuole in tutti i casi. Ami afferrò il diario e la guardò con aria compassionevole.
« Grazie comunque, ma non mi interessa » -Si alzò dal tavolo, e appena lo fece fu di nuovo seduta. Guardò Sophìa con rabbia-  « Fammi uscire di qui, ora » -Sophìa scosse la testa.
« In questo mondo la volontà è tutto e volere è potere. Se dimostri di volerlo, tornerai a casa e tornerai ad aspettare la catastrofe senza responsabilità. È il bianco che muove per primo, cara »
Che c’entrava in quel momento il… Santo cielo. Doveva giocare. Era così? Doveva vincere per mostrare di poter andare via? Allora non ci sarebbe stato nessun problema. Conosceva tutte le aperture a memoria, aveva studiato i finali per anni, e in medio gioco nessuno la batteva. Era stata la prima giapponese a vincere il titolo, e ancora per la maggior parte delle persone era imbattuta. Come poteva pensare, Sophìa, di vincere contro di lei? Ci doveva sicuramente essere qualche inghippo, oppure visto che era il suo star seed era brava quanto lei… E allora poteva diventare un problema.
« Devo giocare? » -Prese tempo.
« Certo che devi! » -Sorrise lei mentre aggiustava ancora i pezzi nelle case maniacalmente. Ami pensò che quel vizio l’aveva preso da lei. Anche lei, ogni volta che i pezzi non erano drittissimi li acconciava finché non erano perfetti-  « Conosci le regole. Qui la posta in gioco è il tuo diario, e ogni pezzo che mangi un ricordo. Ogni pezzo che cedi, invece, è il tuo ricordo negli altri. Mangia, e ricorderai. Fatti mangiare, e gli altri si dimenticheranno di te. » -Ami raddrizzò la schiena in un brivido. Poteva riprendersi i suoi ricordi, quelli veri. Non quelli finti scritti in un diario. Bastava cambiare tutti i pezzi e poi mattare con un pedone promosso. Era capace. Ma… chi si sarebbe dimenticato di lei? Sua madre non l’avrebbe riconosciuta, forse? Beh, le avrebbe parlato e le avrebbe mostrato le foto, e alla fine si sarebbe convinta. E le sue amiche… Le sue presunte amiche s’erano dimenticate di lei già da un po’, e senza bisogno degli scacchi magici.
e4. Pedone di re. Una mossa iniziale di validità universale, con l’intenzione di cominciare una partita italiana. Infatti, Sophìa spinse e5. Subito, f4. Niente partita italiana, aveva cambiato idea. Voleva giocare un gambetto di re, per vedere come fossero andate le cose perdendo subito un pedone a favore di una buona posizione. Sophìa non esitò per un secondo, exf4. Addio al primo pedone candidato donna, e addio al suo ricordo nella mente di chissà quale persona. Ami distolse lo sguardo, mentre il pedone veniva diligentemente spostato fuori dalla scacchiera e compariva un nome. Tomoyo qualcosa... Nemmeno sapeva chi fosse. Era un pezzo minore, quindi voleva dire che probabilmente non era una persona importante nella sua vita. L’idea, comunque, la nauseò. Cf3. Bisognava bloccare subito l’avanzata di quel pedone f, e poi ricatturarlo in un secondo momento. In ogni caso, il blocco del cavallo era assolutamente irrinunciabile. Conosceva quella variante, e ci si era addentrata con cognizione di causa. Quello che non aveva previsto, invece, era che Sophìa aveva tutta l’intenzione di difendere quel baluardo in f4. g5. Ma come, g5? Che razza di gioco faceva, d’aggressività così completa? E va bene, se proprio aveva voglia di fare in quel modo barbaro, l’avrebbe ripagata con la stessa moneta. Voleva catturarle un altro pedone? Facesse pure, il gambetto era fatto apposta per aprire le colonne, e Murphy l’aveva giocato vincendo nel 90% dei casi. h4! Vediamo se hai il coraggio di prendertelo, ora.
Ma Sophìa non solo non aveva il coraggio di prenderselo, aveva studiato la variante molto approfonditamente, perché non calcolò il pedone in h4 nemmeno per un attimo… giocando una spinta g4 decisamente inusuale e inopportuna. Ami pensò che non sapesse giocare. Non solo perché la minaccia che aveva appena esplicato verso il suo cavallo era assolutamente inutile (il cavallo poteva muoversi liberamente e scappare), ma anche perché era di un aggressività estrema. E l’aggressività estrema in apertura –il suo maestro gliel’aveva detto cento volte- negli scacchi è una cosa molto cattiva. Prima bisogna far comunicare le torri, sviluppare tutti i pezzi. E poi, può cominciare l’attacco.  D’accordo, allora, doveva spostare quel cavallo da f3, e il posto migliore come sempre per un pezzo era il centro del campo. Senza considerare che da e5 poteva minacciare quel fastidioso pedone g4 che stava facendo manna del suo arrocco. Ce5. Anche questa volta Sophìa non sembrò rifletterci più di tanto prima di giocare la successiva d6. Adesso la sua tattica era più o meno chiara. Probabilmente voleva spingerla a mangiare il pedone di rimando, pareggiando i conti, e costringerla a muovere il cavallo più e più volte in apertura, per costruire una buona difesa in accordo con i principi di Kieseritsky. E va bene, allora, andiamo a riprendere questo pedone. Con il cavallo, naturalmente. Cxg4.
Appena rimosso il pezzo dalla scacchiera, da quello si sprigionò un calore quasi insopportabile. Ami, che lo teneva ancora in mano, lo sentì bruciare fra le dita. Si lasciò sfuggire un ah, più sorpreso che altro, mentre il calore le entrava nel corpo e le ricordava… Qualcosa. Dapprima un’immagine confusa, poi sempre più nitida. Sua madre che le spiegava del suo problema di memoria. Più e più volte. Ami respirò più profondamente, assaporando di nuovo il piacere della memoria. Una sensazione che credeva di aver dimenticato. Alzò gli occhi su Sophìa, e lei le sorrise.
« Piacevole, non è vero? » -Era divino. Credeva davvero di aver dimenticato anche quello. Improvvisamente si sentì in colpa. Aveva giocato il gambetto di re con la precisa intenzione di farsi mangiare il pedone, per poi recuperarlo e vincere qualche ricordo. Era stata egoista, però… Aveva pensato che non le importava se qualcuno si dimenticava di lei, tanto non era importante per nessuno… Invece non era così. Per lei, per esempio, era importante. E se a un tratto, magari perdendo la donna, fosse stata Ami stessa a dimenticarsi di sé? Era un’idea quasi assurda, ma non impossibile. E se sua madre si fosse dimenticata di lei? No, non poteva permettersi di perdere altri pezzi. Doveva dare matto in fretta, in fretta. Non doveva cambiare nessun pezzo. Nemmeno uno, altrimenti rischiava di… Ae7. Questo voleva dire guerra aperta. Alfiere di fronte alla donna con la promessa di scendere in h4 il prima possibile. Era prematuro, era prematuro. Non avrebbe preso il pedone in h4, o Sophìa avrebbe davvero rischiato di perdere la partita. Sono mosse che si fanno più avanti, non in quel momento. Placò il respiro. Quella cosa la terrorizzava.
All’inizio era convinta di sapere cosa voleva, come una droga. Di voler ricordare ancora, e ancora, e ancora. Invece no, non voleva! Non le importava ricordare se qualcun altro doveva dimenticare. Preferiva riavere il suo diario, e basta. Doveva puntare al matto, in fretta e senza cambiare pezzi. Quell’alfiere in e7 la convinceva meno che sua madre quando la chiamava AMI MIZUNO con tono autoritario. Ma il centro era più importante, in quel momento della partita. Ami si convinse dell’idea che non poteva prendere il pedone, era presto. La variante diceva prima di muovere il cavallo, arroccare, Donna in g5 e poi l’attacco. Con mano tremante prese il pedone bianco della colonna d. d4. Risposta immediata?Axh4+.
Si coprì la faccia con le mani. Non voleva leggere il nome, non le interessava, era solo un pedone, mentre Sophìa rimuoveva il suo secondo pezzo della partita. Ad Ami venne da piangere. Forse non era vero che i pedoni rappresentavano le persone meno importanti, in fondo erano tutti candidati donne! Chi non sa usare i pedoni, a scacchi perde. Ma il nome era di nuovo un nome che non riconobbe, e questo la fece sospirare di sollievo. Ma quel più sulla notazione, per chi non lo sapesse, vuol dire anche scacco. Cioè, in pratica, doveva risolvere il problema del suo re minacciato. Prima ipotesi, muoverlo. Aveva una sola casa buona, però, e scoprirlo in quel modo voleva dire matto in poco tempo. Doveva coprirlo, allora. E il pezzo disponibile era il cavallo. Tanto, Sophìa non avrebbe cambiato. Non le conveniva, in quel caso… Era scossa da tremiti incontrollati. Chi era quel cavallo? E se l’avesse cambiato? Se l’avesse cambiato e fosse stato Usagi? Ma peggio per lei, fu il primo pensiero di Ami. In fondo, chi se ne importava? Lei l’aveva chiusa fuori di casa, da sola. Se lo meritava, che andasse al diavolo lei e la catastrofe. Cf2.
Era stata avventata e lo sapeva, e l’avventatezza negli scacchi fa un male cane. Le mosse fatte con rabbia fanno male. Le mosse fatte con aggressività esagerata fanno male. Infatti fece male. Axf2+. S’era presa il cavallo. Il cuore le scoppiò di dolore mentre questa volta leggeva un nome che conosceva fin troppo bene. Ryo. No, ti prego, fai che non sia vero.
« No, no per favore! La ritiro, muoverò il Re… Cambia la mossa, per favore… No! » -A Sophìa ricordò se stessa, mentre cercava di assorbire tutta quella luce senza riuscirci. Deglutì. Forse le sarebbe servito di lezione, allora. C’erano persone importanti, nella sua vita, e forse scambiare i suoi ricordi per quelli di qualcun altro non era delle idee migliori.
« Pezzo toccato, pezzo mosso. Pezzo lasciato, pezzo mosso. Mi dispiace »
« Sei… no, basta. Abbandono la partita. Ti prego, non posso andare avanti e… »
« Non puoi abbandonare, nel limbo. La volontà è tutto » -Ami si portò una mano sul cuore. Ryo. No, non lui. Gli aveva voluto bene con ogni sua fibra, e non poteva essersi scordato di lei. Quando fosse tornata a casa, l’avrebbe preso con sé e baciato finché non l’avesse ricordata. Quell’idea coraggiosa e rinnovata le diede la forza di riprendersi il pezzo. Rxf2. Conti pari, mentre i ricordi di sé stessa a casa di Usagi, che veniva chiusa fuori, e tutte le parole fluivano nel suo cervello bruciandole la mano. Anche se erano ricordi negativi, erano tutti suoi, e leggerli nel diario non avrebbe mai pareggiato quella sensazione…
Ma non poteva essere Usagi, al posto di Ryo?!
Eppure quel pensiero non era vero. Era una falsità. Nella vita, come negli scacchi, certe cose non le puoi scegliere. E soprattutto, in quel momento, si rendeva conto che anche se ci fosse stata Usagi, il suo cuore sarebbe scoppiato comunque. Il pregio della memoria, quando si infirma, non lo puoi spostare. Dimenticare le aveva fatto male, e ricordare le aveva fatto bene. Ma se il prezzo era infliggerlo ad altri, non l’avrebbe più accettato. Avrebbe vinto quella partita e non solo. L’avrebbe fatto senza perdere nemmeno un altro pezzo. Senza cambiare nient’altro, senza accettare più compromessi.
Si era pianta addosso per tutto quel tempo, dimenticandosi non solo delle sue amiche, e scrivendo cattiverie sul suo diario. Soprattutto, dimenticandosi di se stessa. Non aveva mai detto ad Usagi quanto fosse arrabbiata con lei, l’aveva detto al diario. Non aveva detto a Makoto che l’aveva scordata, l’aveva detto al diario. E non aveva detto a Minako che le faceva male sentirla insultare Ami. L’aveva detto al diario. Aveva personificato il diario come se fosse il suo migliore amico ma… Le sue migliori amiche erano altre. Forse aveva dimenticato perché dimenticare le faceva bene, la faceva stare meno male, e leggere le sue stesse accuse su un diario scritto da lei… La faceva sentire migliore. Ma non era migliore, per niente. L’unica cosa che avrebbe dovuto scriversi, sul diario… Era vai e fai il culo a tutte! Invece, come sempre, l’aveva detto solo a se stessa. Aveva covato un dolore immenso raccontando tutto solo ad Ami Mizuno. Certo che poi gli altri si dimenticavano di lei. Era stata lei, la prima a voler scordare. Ma non è dimenticandotelo, che il dolore se ne va. Avrebbe dovuto chiedere a Usagi di tenere il diario per lei, oppure a Mako o a Rei. Avrebbe dovuto chiedere loro di raccontarle le cose in un caffè anni ’80, non scriverle su un diario sgualcito. Forse avrebbe riso di più, e pianto di meno. Gli occhi le si riempirono di lacrime amare. Vedeva la scacchiera sfocata, anche se non ci aveva mai visto così chiaro. Deglutì.
 Sophìa non disse niente, la guardò piangere e capire lentamente che non è l’oblio la soluzione. La soluzione è combattere, e parlare. La soluzione è gridare. Allungò la mano e prese il cavallo; Cf6. Fine dell’aggressività.
Ami cominciò ad analizzare la situazione. Centro forte, partita aperta e aveva cambiato un cavallo con un alfiere. Tutto supponeva un vantaggio suo; adesso rivoleva quel diario. Lo rivoleva a ogni costo. Doveva proteggere il centro, doveva restare forte sul campo. Adesso, doveva andarsi a prendere la vittoria, visto che Sophìa aveva appena mollato il colpo. E la prima cosa era proteggere il pedone f, altrimenti quel cavallo c6 l’avrebbe mangiato sul colpo. Difesa, e poi attacco. Strinse i pugni. Cc3.
Questa volta era a posto sul serio. Non poteva mangiare il pedone, ed eliminarla da altre parti, altrimenti avrebbe preso matto in meno di dieci mosse. Aveva coperto. Aveva coperto bene, e avrebbe continuato a coprire. Non gli avrebbe permesso di catturare quel pedone centrale; anzi, se non si fosse mossa c’era ancora un pedone laterale da prendere gratis. Comunque. Sophìa non se ne preoccupò. De7. Donna in e7. Voleva andare a prendere il centro. Va bene, si disse, prenditelo. Io mi prendo il matto, in cambio.
Più studiava i piani, più si accorgeva che stava giocando la sua vita, finalmente. Che stava giocando per riprendersi qualcosa che era stato suo, e a cui non avrebbe rinunciato. I suoi ricordi. Non si sarebbe dimenticata di se stessa, questa volta, né delle altre. Avrebbe giocato per ricordare quello che era importante. Perché a forza di dimenticare i fatti, aveva dimenticato anche le emozioni. Non avrebbe lottato per un diario. Avrebbe lottato per Ami Mizuno, e per ricordare a tutte quante che lei, proprio lei che aveva dimenticato tutto sempre… Adesso aveva presente ogni cosa. E con quella sicurezza le avrebbe salvate. Anche da sola, se necessario, avrebbe salvato il mondo. Con mosse mirate, e precise, e con una strategia perfetta. Senza perdite. Qualche cambio forse. Ma niente perdite. Axf4. Il ricordo di una giornata al mare si fece strada nella sua testa. Cxe4+. Il nome comparso era fumoso, qualche lettera a caso, questa volta, perché la sua volontà diceva che non voleva che nessuno si dimenticasse di lei. E volere è potere, nel Limbo. Togliere di mezzo quel cavallo che sta rompendo lo scacco, subito. Cxe4. Fatto fuori. Il ricordo che le venne fu un abbraccio di Minako, mentre era nel letto dell’ospedale. Era un ricordo forte, potente. Un ricordo vivo. Anche se aveva dimenticato il fatto, come poteva aver dimenticato il profumo, le carezze, la sensazione di essere amata, e protetta? Aveva dimenticato la sua famiglia, forse, scrivendo quelle cattiverie sul suo diario? Sophìa afferrò la donna e catturò il suo cavallo. Dxe4. Sapeva che avrebbe cambiato il pezzo, ma non aveva più paura. Stava andando a riprendersi il diario. Stava andando a riprendersi le sue parole. Stava andando a riprendersi la voce di gridare. Ab5+, scacco. Non poteva fare nulla se non una mossa. Rf8.
Adesso era lei ad essere nell’angolo e senza arrocco. Non avrebbe respirato, parola di Ami Mizuno. Il coraggio non se lo sarebbe più scordato. Ah6+, scacco. Vediamo dove vai, adesso. Per non farsi inchiodare la donna sul re e quindi perderla, la mossa era unica. Rg8.
Molto bene, la chiusura era decisamente vicina. E Sophìa, nell’apertura aggressiva, le aveva aperto la colonna apposta per dare via alla sua torre. Th5. La minaccia di matto era fin troppo chiara perché non la cogliesse, per cui l’unica mossa della Nemesi era un blando tentativo di difesa con Af5, per avere il tempo di frapporlo successivamente e non perdere la donna (e con essa, la partita). Ma la partita era chiusa almeno da cinque mosse. Ami era una persona che quando analizza, lo fa per bene. E in quel caso, l’aveva fatto davvero bene. Per quanto buona potesse sembrare quella mossa, non avrebbe resistito all’attacco finale della sua donna.
Dd2. Il nero è in Zugzwang. Qualunque cosa faccia, la partita si volge a suo sfavore. E siccome deve muovere per forza, allora opta per la migliore in circolazione.
Ag6. Il bianco vince in due mosse.
Te1. E se non perde la donna, perde la partita.
« Dammelo »
Sophìa esitò, con il diario fra le dita. Qualsiasi mossa avesse fatto, la partita era andata e lo sapeva. Colpì il re nero con un dito. Voleva dire abbandono.
« Dammelo, avanti » -Non c’era traccia di esitazione nella sua voce. Sophìa allungò lentamente il quadernetto verso Ami. Lei lo aprì, e lo guardò. C’erano foto, e frasi, e tutto quello che aveva rifiutato di ricordare dalla voce di qualcuno in quegli anni. C’erano tutti i ricordi di Ami Mizuno… E nemmeno uno di quelli delle sue amiche. Volere è potere? Molto bene, allora. Se non riusciva a ricordare, voleva qualcuno che l’amasse che lo facesse per lei. Voleva sentire voci che glielo raccontassero. Video che lo gridassero. Quella carta era solo bianca e nera. Era solo morta. Guardò il re nero morire nella sua casa, attaccata da ogni pezzo bianco che ci fosse sulla scacchiera. La collaborazione vince sempre nella vita… Un’altra delle lezioni che amava degli scacchi.
La prese a due mani, e la strattonò come se stesse aprendo una porta. Tutte le pagine scritte a mano volarono in mille pezzi in giro per la stanza a scacchi, finendo sulla scacchiera e sul pavimento, e liberando pezzi di ricordi e di emozioni, e di rabbia e di stupore dal suo cuore. Sophìa la guardò con la bocca mezza aperta.
« Hai giocato così bene, per vincere… E l’hai fatto solo… Per distruggerlo? Per distruggere il tuo diario? »
« Ti sbagli » -Le rispose lei- « Non ho giocato per distruggere il diario. Ho giocato per costruire un futuro che potessi ricordare. Ho giocato così per salvare il mondo »
E Sophìa non poté che chinare il capo, sorridendo e piangendo insieme, disperata per la dispersione, per non essere stata una buona nemesi… Ma fiera di essere un ottimo star seed.

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Capitolo 14
*** Voluntas ***


13 ~ Voluntas
La quinta e ultima prova è la prova di Usagi. Forse la più dura, o forse no. Sicuramente è la più importante. Chi sceglie di voler morire, e viene salvata per caso o per destino o per scelta di altri, deve dimostrare di voler vivere. E non solo per se stessa. Tutto sommato, tuttavia, Usagi è sempre stata la più altruista delle Senshi. Ma è ancora in grado di gridare il suo amore alla vita, e correre incontro alla salvezza del mondo non solo per sé e per Chibiusa, non solo per amore di madre, ma per amore di amica, di sorella, di moglie, e di donna?

 

 

La testa pesante, le gambe completamente atrofizzate da un freddo gelido che proveniva da ogni direzione. Gli occhi che bruciano e le palpebre incollate. Le braccia, dove sono? Usagi aprì gli occhi la prima volta, e la luce la colpì con schegge dolorosissime. Era in uno stato di semitorpore, come se avesse dormito per giorni e giorni. Le faceva molto freddo… Molto. Riprovò ad aprire gli occhi, ma non riuscì di nuovo. Le facevano male, un dolore atroce. Era sdraiata sulla schiena. Per la terza volta, spalancò le palpebre. Questa volta resistette al dolore, e non le chiuse. Sopra di lei c’era il cielo blu. Era tutto a posto, c’era il cielo. Provò a sorridere, le fece male la guancia. Poi, un altro freddo. Il freddo del panico.
« Dvmm » -Suoni sconnessi. Aveva anche la lingua gonfia, ma lentamente stava vincendo la stanchezza- « Dove sono…? » -Aveva paura. Paura dell’eco che non arrivò. Si poggiò su un gomito, la testa era sempre più pesante da reggere solo con il collo. Si aiutò con una mano. Lentamente si alzò, a fatica, mentre tentava di rendersi conto di dove fosse. Ed ecco, il freddo della consapevolezza.
« Aiuto! » -Gridò chiudendo gli occhi. Aveva paura.
« Non urlare, non ne hai bisogno » -Il caldo, adesso. Quello della luce di qualcosa… Di una creatura, di un angelo forse, che le aveva illuminato gli occhi. Finalmente riuscì ad aprirli del tutto, e a scacciare quel freddo che l’avvolgeva. Improvvisamente, ricordò una cosa importante. La più importante. La sua mano corse ad avvolgere la pancia. Ma qualcosa le diceva che era tutto a posto. Respirò lentamente. Andava meglio.
« Chi sei tu? » -Non più dove sono? E nemmeno perché sono qui?
« Sono il Silver Crystal. Sono la tua Nemesi. Il tuo contrario, te stessa. La tua forza, la tua debolezza. Sono il nero sul bianco, l’esponente per la tua base. Il seme della stella più potente. La tua. Sono nata Voluntas » -Aprì gli occhi, e Usagi li vide di un bianco quasi surreale. Argentato, quasi. Mostrava ostentatamente un colore chiarissimo, in netto contrasto con la pupilla nera ed espressiva. Aveva gli odango, come lei. Aveva un vestito lungo, e a balze; capelli bianco latteo, delicati e raffinati, con fili argentei in ognuna delle due cascate. Anche la divisa era bianca, anche se sulla parte anteriore la gonna scopriva una leggera porzione di colore. Di colori, in verità, due. Un azzurro tenue e uno più forte; aveva decolleté alate, e l’argento traboccava da ogni parte del suo corpo. Usagi la guardò con attenzione, come se non avesse mai visto altro nella sua vita; quella era lei, eppure non era lei. Era una parte di sé che non le apparteneva più, una guerriera sopita e mai risvegliata in quegli otto anni. Era il cristallo che aveva cercato di uccidere per suicidarsi, e le cicatrici che le solcavano il viso e le braccia lo denotavano con forza, anche se non sembrava soffrirne. Le ali, bianche come la fuku, e ornate d’argento come lo sguardo. Era una forma divina. Usagi non ci fece particolarmente caso, ma aveva un’aria familiare. Forse era perché era lei stessa… Forse perché era la sua anima.
« Sei la mia volontà? » -Chiese con una leggera incertezza nella voce.
« Sono la volontà » -Rispose lei con un tono duro- « Non sono tua. Sono quello che ti manca. Sono il passo avanti »
Usagi non capiva. Non perché fosse tarda, quello era sempre stato un classico della sua vita, ma non nelle situazioni importanti. In quelle, aveva sempre fatto attenzione e compreso ogni dettaglio. Ma in quel caso, non riusciva a collegare due cose.
« Che ci facciamo qui? Dobbiamo salvare il mondo! » -Voluntas ridacchiò, leggermente. A Usagi sembrò che si stesse rompendo un bicchiere di cristallo. Solo il suono che produceva le regalava brividi incontrastati. Voleva restare ad ascoltarla per sempre. Quando parlò, pendeva dalle sue labbra
« Naturalmente, ma occorre unirci ancora per poterlo fare. Occorre che stiamo insieme, o nessuna di noi vivrà. E per stare insieme, occorre che tu lo voglia » -Allora era molto facile, si disse Usagi. Lei voleva salvare il mondo, e voleva stare con il suo Silver Crystal ovviamente!- « E devi mostrare di volerlo, con una prova »
Usagi mosse un passo verso di lei, ma rischiò di perdere l’equilibrio. Lo ritirò subito, cercando di prendere del tempo. La prova poteva essere pericolosa per lei, ma soprattutto per Chibiusa. Aveva perso un figlio, non voleva perderne un altro.
« Sei la più potente o no? Usa il tuo potere. Uniscici » -Voluntas si abbassò su di lei, volando, e si fece ancora più caldo. Usagi arrossì leggermente.
« Qui la volontà è tutto. Come posso avere volontà di unirmi con chi mi ha quasi uccisa? » -Usagi si ritirò nel guscio di dolore. Era vero, doveva dimostrarle di avere ancora fede nel Crystal. Di essere ancora forte per lui, per loro. Per le sue amiche, che avevano sofferto le pene dell’inferno per anni. Doveva dimostrare di avere volontà di salvarle…?
« Ma io non sono più una Senshi. Non ho volontà da darti » -Quella era l’unica verità. L’aveva perduta tutta, tutta per Chibiusa.
« Vuoi salvare il mondo? » -Le domandò Voluntas.
« Sì, ma… »
« Allora devi voler vivere »
Usagi capì che sarebbe successo un millesimo di secondo prima. E cercò di schivare la sua Nemesi con un repentino movimento, ma fu inutile. Con uno slancio d’ali, Voluntas le fu addosso quasi dolcemente. L’abbracciò, trascinandola fuori dal suo appoggio. E poi la lasciò andare. E Usagi, Usagi cadde. Cadde con Chibiusa. Cadde come non era caduta da quella volta, dalla luna spenta. E da ancora più su. Cadde dal tetto del mondo, dall’altezza di un posto che arrivava alle nuvole. Che ci stava sopra, alle nuvole, dove il sole c’è sempre. Perse l’appoggio dei piedi, e cadde a schiena in giù, pensando ancora una volta subito a come Chibiusa sarebbe morta, con lei. Cadde chiedendo pietà almeno per sua figlia.
« Adesso, vola » -Le sussurrò il Crystal, seguendola nella sua spaventosa picchiata. Era la seconda volta che le era richiesto di volare. Ma la prima aveva il golden crystal. Era diverso. Adesso non aveva nessuna speranza. Stava cadendo di schiena, e completamente a peso morto, nemmeno era trasformata. Non ce l’avrebbe fatta. Cercò di voltarsi per vedere il terreno, volava già a una velocità doppia di quella iniziale. Non si vedeva, in ogni caso, il suolo; si vedevano le nubi, molto più in basso.
« Cosa? » -Gridò in direzione di Voluntas. Sbarrò gli occhi, mentre attutiva la caduta aprendo le braccia. Non sentiva niente. Andava veloce, e l’impatto con l’aria era come con un blocco di cemento. Si sentiva lacerare molto più di quanto non fosse successo l’ultima volta. Voleva solo rallentare. Solo rallentare, per favore. La pancia si sarebbe distrutta, Chibiusa sarebbe morta con lei, questa volta. Questa volta non ce l’avrebbe fatta.
« Devi volare… » -Sentì di nuovo la voce della nemesi, ma la contrastò con forza.
« Non so volare! » -Urlò con veemenza in direzione del vuoto. Non la vedeva, cosa stava facendo? Volava accanto a lei? Forse era pronta a prenderla al volo, magari la prova era solo quella; doveva resistere, e avere fiducia in lei. E lei l’avrebbe salvata. Qualcosa le diceva che non sarebbe stato così facile, comunque.
« Se non sai farlo, morirai come hai deciso » -Stava volando accanto a lei, sì. Usagi si rivoltò in aria e gettò le mani nella sua direzione, per ucciderla. Questa volta non aveva dubbi, l’avrebbe finita subito. Era veramente un’assassina, una proiezione malsana di sé e doveva essere eliminata. Ma Voluntas aveva le ali, e Usagi no. Tutto quello che ottenne fu di farla volare su, in alto, mentre si rivoltava in aria come un’ossessa.
« Io non voglio morire » -le gridò- « MI HAI SENTITA? C’è Chibiusa con me! Non voglio morire, ma devo adesso! »
Si slanciò verso l’alto con rabbia, nell’intento di raggiungerla con le mani, per prenderla e trascinarla con sé nella caduta. Ma non ottenne niente, se non di accelerare la rovinosa cascata verso il basso. Guardò ancora verso il basso e vide le nubi. Erano più vicine, questa volta. Vicinissime, e si avvicinavano a lei a velocità assurda. Le vide inondarle gli occhi; poi nebbia. L’umidità le penetrò nelle ossa istantaneamente, mentre si dimenava con gli occhi chiusi per la rabbia e il dolore dell’acqua a piccolissime gocce che formano le nubi, che a quella rapidità l’avevano quasi accecata.
« Non devi » -Le sussurrò Voluntas. Adesso non la vedeva più, di nuovo- « Qui la volontà è tutto. Hai voluto morire, e adesso vuoi vivere. Non puoi giocare con la vita. Adesso, devi scegliere. Non solo per te, Usagi. Per il mondo. La tua scelta sarà per sempre »
Il vento cominciò le sue raffiche allora. Era arrivata abbastanza in basso per cominciare a sentirlo. Usagi non vedeva la sua Nemesi, ma la sentiva accanto a sé perché era calda. Era nella nebbia più completa. Si strofinò gli occhi per riaprirli. Le bruciavano come fuoco. Sprazzi d’argento le lasciavano intuire dove fosse Voluntas, caldi soffi glielo facevano sentire. Chiuse gli occhi nel vento delle nuvole.
« Io voglio vivere » -Disse con calma pacata e determinata.
« Non basta dirlo » -Rispose Voluntas con lo stesso tono.
« Và al Diavolo! » -Le urlò Usagi, allora, cercando di nuovo di scaraventarsi contro di lei per quanto possibile- « Và al Diavolo! Perché dovrei morire? Per te, Crystal? Io non morirò! » -Stava urlando più forte, mentre l’angelo le sorrideva volando leggermente più in basso di lei e guardandola cadere.
« Sì, così mi piace di più » -Annuì.
« Non ho intenzione di essere egoista e lasciar morire chi amo, e chi non amo, e chi potrei amare. Se credi di potermi fermare, ti sbagli » -Ma lei era il silver Crystal. Non doveva stare dalla sua parte? Se non c’era nemmeno lei, schierata al suo fianco, le cose si facevano davvero particolarmente complicate. Ma non poteva arrendersi. Per Chibiusa. Per Mamoru. Per le amiche deluse. Per il suo mondo. E per il mondo degli altri. Le era bastato commetterlo una volta, quell’errore, per capire. Strinse i pugni con decisione, aprì le braccia, cominciò a batterle nella grottesca imitazione di un uccello.
« Funziona? » -Chiese Voluntas con divertita ironia. Ma Usagi non sorrise, non l’ascoltò. Adesso, vedeva il suolo. E anche se non l’aveva mai visto così lontano, mai l’era sembrato così vicino. Non c’era tempo- « Non hai tempo. Devi scegliere, ora »
« Io ho scelto! » -Urlò continuando a sbattere le braccia con veemenza. Ma i muscoli cominciavano a farle male. Smise, per un minuto, per riposare il dolore che le si diramava per le spalle fino al collo, e alla schiena, fino alla fine della spina dorsale.
« È evidente che il tuo corpo non basta »
E Usagi capì. Che tutto non era un sogno, una sfida o un dolore. Che tutto intorno c’era un mondo, una vita, una volontà che non avrebbe mai potuto competerle. Che non avrebbe mai saputo volare, solo lei, solo Usagi. O forse, tutto era dentro di lei e il suolo era più lontano di quanto credesse e c’era tempo, questa volta. Tempo per tirarla fuori.
Come non aveva fatto quando Mamoru le aveva detto che l’amava. Come non aveva fatto quando le aveva detto che soffriva per il figlio che aveva perduto. Come non aveva fatto quando credeva di aver perso Chibiusa. Come non aveva fatto quando era rimasta sola. Come non aveva fatto in otto anni di lunghe e faticose prove per rimanere incinta e perdere tutto il resto.
Non era il corpo, Voluntas aveva ragione. Non era la voce, non era il gridare, lo sbattere le braccia; non era la pancia. Non era quello. Il Destino le chiedeva qualcosa di molto più grande.
Non si preoccupò del terreno che si avvicinava, né tantomeno del fischio del vento. Si girò di nuovo, faccia verso il basso, braccia aperte. Non voleva vivere per salvare gli altri. Non voleva vivere per paura di perderli. Non voleva vivere per paura. Non voleva vivere per timore del suolo o della morte. Voleva vivere perché aveva paura della vita, e voleva vincerla. Adesso. Per gli altri, certo. Per Mamoru, e per Chibiusa. E per Makoto, per Rei, per Ami e per Minako… Ma soprattutto per se stessa. Avrebbe difeso il mondo perché non voleva che altri morissero senza volerlo, come stava toccando a lei. Ma soprattutto, perché voleva vivere. E non aveva nessuna intenzione di morire.
« Io-so-volare » -Disse a se stessa a denti stretti- « So-farlo » -ripeté- « Devo-farlo » -ancora- « Voglio-farlo! »
Le scapole le si spaccarono con uno schianto secco. Usagi urlò come non aveva mai fatto nella sua vita, e il dolore non l’aveva mai fatta sentire così… Viva.
Sentì la spina dorsale scoppiare, osso dopo osso, dolore dopo dolore. Cominciò ad avere paura sul serio quando smise di riuscire a muovere qualsiasi cosa che non fosse la testa. Non riusciva a muovere le braccia, né le gambe, né il bacino, a causa della rottura completa della sua schiena. Probabilmente si era completamente aperta. Era paralizzata, il viso rivolto verso il terreno sempre più vicino. Cominciava a distinguere, oltre a chiazze colorate, qualche particolare. Quelli più grandi, lontanissimi. Palazzi e alberi e le strade, che sembravano ricamare con grazia tutto il suolo. I campi di grano… Guardandolo dalla giusta prospettiva, il mondo era bellissimo. Usagi lo amò in quel momento, lontano. Distante molti chilometri, distante tutta una vita. E lei, come una stupida, aveva chiuso gli occhi per non vederlo, per vedere solo Chibiusa. Makoto le aveva salvato la vita, e le aveva permesso di vedere. Di vedere il mondo. Di vedere ancora una volta il sole. Ancora la pioggia, e ancora le nuvole. Di giocare ancora a cercare la forma di un animale fra le stelle. Di baciare di nuovo Mamoru. La vita non era poi così male sulle sue labbra. Forse avrebbe dovuto baciarlo un’ultima volta, prima di andare via. Forse avrebbe dovuto dirgli più forte che l’amava, e non solo perché le aveva dato una figlia. Lui aveva sofferto molto più di lei, per la perdita di quel figlio. Il fatto che lo mostrasse in maniera diversa, non significava che Usagi dovesse prendersi tutte le attenzioni e- Beh, se fosse riuscita a non morire quel giorno, gli avrebbe chiesto scusa, e si sarebbe fatta perdonare. Ci sarebbe voluto del tempo? Non importava. Era pronta ad aspettare per riprendersi le sue migliori amiche. Una dopo l’altra.
Due lacrime le scivolarono giù dagli occhi. Non aveva più la spina dorsale, come sarebbe riuscita a fare qualsiasi cosa senza nemmeno potersi muovere? Ma volere è potere, qui. Cercò di muovere le dita, ma quelle non dettero segno di aver capito. Ci provò ancora, ma non si mossero. Provò a scalciare, a muovere le gambe. Nulla da fare. Allora chiuse gli occhi. E strinse i pugni, preparandosi allo schianto. Tutte e dieci le dita si piegarono in uno spasmo improvviso e inaspettato. Aveva chiuso le dita su qualcosa di viscido e marrone, e morbido. Riaprì gli occhi e l’osservò meglio. Era una piuma. Era di sfumature caramello, completamente inzuppata di sangue e molto corta; ma che stava succedendo alla sua schiena?
Gridò inarcandola, accecata improvvisamente da una scossa di sofferenza bruciante che partì dal suo collo fino ad arrivare al fondo della schiena. Era la sua colonna vertebrale. La sentiva con una lucidità da panico. Stava cercando di dividersi in due. Rabbrividì, inghiottendo la poca saliva che aveva nella bocca secca. Non sapeva più dov’era, il dolore l’accecava completamente. Vedeva cerchi colorati dietro gli occhi chiusi, le girava la testa. No! Aprì gli occhi, fu un attimo. Doveva. Assolutamente. Riuscire. A.
Adesso le piume quasi la circondavano, era una nuvola di piume che cadevano accanto a lei. Erano più lente, e piano piano le superava tutte; man mano che cadeva, da marroni diventavano bianche, in contrasto con il rosso del suo sangue. Sentì di nuovo la spina dorsale, l’inarcò di nuovo all’indietro con un gemito soffocato. Capì che si era sbagliata, poco prima. Le sue ossa non stavano cercando di dividersi in due, erano già aperte. Stavano cercando di richiudersi. A quanto pareva, senza successo. Il suolo era più particolareggiato, adesso. Adesso non c’è tempo.
Prese il coraggio a quattro mani, aveva poco tempo. Troppo poco. Si guardò intorno, doveva sbrigarsi, doveva trovare qualcosa che l’aiutasse, qualsiasi cosa e-
Si strappò il maglione di dosso, gliene rimase un pezzo in mano con il freddo che le uccideva le braccia nella velocità. Per fortuna aveva almeno una maglia a maniche corte e non era rimasta in biancheria. L’ironia della cosa la fece quasi sorridere.
Doveva farlo. Doveva muoversi, o avrebbe gettato le speranze.
Rei, non ho pianto con te. Non ti ho mai tolto la lametta di mano. Non ti ho mai detto di non farlo. Rei, non ti ho mai detto che non avevi colpa. Non sono mai venuta al tempio, non ho pregato per te. Non ho cercato di dirti che ti voglio bene, e nemmeno che mi dispiace. Non ti ho mai abbracciata, da allora. È la verità. Ma se vorrai, ti abbraccerò adesso. Se vorrai, disinfetterò le tue ferite. Se vorrai, bacerò le tue cicatrici e le ascolterò, ascolterò la loro storia. Se vorrai, Rei, ti abbraccerò adesso.
Si rivoltò rannicchiandosi, per vedere il cielo e non il suolo.
Makoto, non ho pianto con te. Non ho parlato con te quando avevi bisogno di una voce, e non del silenzio degli oggetti. Non ti ho detto mai grazie, per quello che hai fatto quel mercoledì di maggio. Non ti ho mai aiutata, su quella sedia. Non ho mai corso per te. È la verità. Ma se vorrai, lo farò adesso. Se vorrai, parlerò con te, e ti racconterò la storia della vita mia. Ti dirò grazie, e ti voglio bene, e tutte le parole che non ti ho detto. Se vorrai, Makoto, sarò le tue gambe. Ti porterò in spalla finché non sarò esausta. Rotoleremo sull’erba fin quando non l’avremo nei capelli, nelle scarpe, nel naso, nella bocca.
Con la schiena rivolta verso il basso, tirò un sospiro di sollievo.
Minako, non ho pianto con te. Non ho distrutto il tuo riflesso, non ho rotto tutti i tuoi specchi gridandoti che sono inutili nella vita. Non ti ho detto mai che sei la migliore amica che si possa desiderare. E anche la più bella. Non ti ho mai offerto un gelato che ti avevo promesso, e non siamo mai state sulla collinetta che (quella sera mi hai detto) fiorisce più colorata di qualsiasi altra. È la verità. Ma se vorrai, ci andremo adesso. Anche se non ci sono i fiori in questo periodo dell’anno. Pagherò per te il gelato, se vorrai. Per te distruggerò tutti gli specchi, e ti dirò che sei la più bella del mondo, e l’unico posto dove ti specchierai saranno i miei occhi, per sempre.
L’aria le solleticava la schiena con grande sollievo della sua spina dorsale.
Ami, non ho pianto con te. Non ho scritto un diario per te, e non ho fatto foto che ti ricordassero chi eri. Non ho passeggiato con te raccontandoti quello che è successo, non ti ho regalato ricordi abbastanza forti da imprimersi con il fuoco nella tua testa. È la verità. Ma se vorrai, te li darò adesso. Ti racconterò la stessa storia cento volte, con cento parole diverse, e ti insegnerò a contare di nuovo. Conterò con te, Ami. Se vorrai, parleremo fino alle sei del mattino di quello che è successo in questi otto anni. Sarà talmente bello, che sarà impossibile dimenticarlo.
Il respiro si stava facendo più regolare. Adesso, doveva usare il maglione.
Mamoru, non ho pianto con te. E ancora più terribile, non ho riso con te. Sono otto anni che non piango e non rido con te. Sono otto anni che ti porto via l’estate, che come una foglia aspetto che arrivi il vento. Sono otto anni che non ti bacio davvero, perché in ogni abbraccio fra noi c’è sempre stata Chibiusa. Mamoru, ti ho amato male, ti ho amato come la proiezione di una figlia futura. Mi hai dato tutto quello che avevi, mi hai regalato tutto il tuo amore, e io volevo restituirti solo un addio. È la verità. Ma se vorrai, se mi amerai ancora, se ci ameremo ancora, prometto di amarti nel modo giusto. Se vorrai, ti bacerò davvero. Se vorrai, faremo l’amore fino a mattina. Se vorrai, parleremo del bambino morto in quel momento, e l’immagineremo, e disegneremo anche il suo profilo. Ti sarebbe assomigliato, io sono sicura. Se vorrai da oggi onorerò la promessa che tu hai sempre onorato, e io ho dimenticato. Ce la farò per te. Ce la farò per tutte voi. Non sarete più soli. Vi sarò accanto. Per sempre.
Passò il maglione dietro la schiena. Sopra la spalla destra, e sotto l’ascella sinistra, in una inquietante imitazione di una fascia da vincitrice di concorsi di bellezza. Annodò.
Si morse il labbro per il dolore, mugolando mentre l’aria l’aiutava a non sentirlo. Sanguinò ancora, e ancora. Non si arrese. Strinse più forte il nodo. Più forte che poteva, ancora e ancora. Quasi al soffocamento.
Ansimava. Ma adesso, era pronta. Le piume erano tutte sopra di lei, oramai tutte candide; e non ce n’erano più intorno a lei. Sentiva la schiena, era quasi fatta. Si era quasi chiusa. Camminò sull’aria, si capovolse. Ecco il terreno, sicuramente mancavano pochi minuti. O pochi secondi, non importava. Il maglione si sciolse da solo, appena lei smise di trattenere il nodo, e volò sopra di lei. Allargò le braccia, mentre la schiena finiva di chiudersi. Pronti.
Per voi, ragazze. Per te, Mamochan.
Ecco. Una casa, un tetto. Un contadino. Ha in mano un fiore. Che fiore è? Una margherita, la vedeva nettamente, e… Troppo vicino!
Fai presto, Usagi! Ma dov’è finita Voluntas?
Nel momento in cui sbatté le ali con tutta la forza che le era rimasta in corpo, la vide. Il sole faceva brillare ogni goccia d’argento che aveva addosso.
Sorrideva.
Sorrise anche lei.
Il dolore era svanito.

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Capitolo 15
*** Unirsi ***


Un commento velocissimo; sto revisionando quindi ci metto sempre un po' a pubblicare perché ho poco tempo con l'uni. Voi abbiate fede e seguitemi. Io sono sempre qui! :D Questo capitolo vi racconta cose simpatiche e interessanti, e c'è un bel powerup. Dal prossimo, vi narrerò della lotta contro la Catastrofe... Sovvertire il Destino è possibile o no, allora? Stay Tuned ;) Nel frattempo, godetevi il 14 - Unirsi.

14 ~ Unirsi

Il Coraggio di stare unite! Questa è la risposta a ciò che cercate. Non abbiate paura. Poiché c'è stato un momento in cui vi siete legate l'una all'altra. C'è stato un giorno in cui avete riso insieme, e uno in cui avete pianto insieme! Questo è il vero significato dell'Orgoglio Sailor!
 


È stata una lunga strada. C’è stato un vuoto di otto anni. Forse l’unica cosa che davvero può parlare di questo vuoto è il silenzio. Non è un silenzio sterile, in ogni caso. È sicuramente un silenzio in cui si sono fossilizzate paure e rimpianti, e parole cattive e parole di perdono che non c’è più stata occasione di dire. Tutto questo non si è perso, però. Come sempre, quando abbiamo pensieri maligni o buoni, o quando proviamo emozioni forti che poi dimentichiamo, in qualche modo queste si depositano. E possono tornare a galla in forme svariate.
Chi di noi ha perduto una persona, per esempio, dopo qualche anno la relega nella dimensione fluttuante del “dimenticato”. E tuttavia, rivedere un oggetto o risentire una canzone che ci ha legato a chi abbiamo perduto riporta alla memoria (curioso, vero?) tutte le cose belle vissute insieme. Quasi mai rivedendo una persona dal passato ci vengono in mente le cose orribili che ha combinato o le parole brutte che ci ha detto… Piuttosto, ci prende una insana voglia di abbracciarla, e di tornare al tempo in cui avevamo pianto e riso insieme.
È vero che si apprezza il valore di una persona solo dopo averla perduta?
Forse lo si apprezza di più se dopo molti anni la si rivede.
~
Improvvisamente, si trovarono di nuovo insieme. Rei non aveva più una lama che le trafiggeva lo stomaco. Ami ricordava bene. Makoto non era solo un busto senza gambe, aveva di nuovo le sue vecchie. Minako vantava la sua cicatrice sul lato sinistro del viso, e Usagi camminava piegata dal peso delle sue ali.
« Ragazze! » -Fu la prima parola che le uscì dalla bocca, mentre cercava di reggersi, china sul pavimento come se uno zaino troppo pesante le fosse stato messo sulle spalle.
« Usagi! » -Fu la prima risposta che ottenne, e la voce era quella di Makoto. Nonostante tutto il peso che le gravava addosso, Usagi spiccò una corsa che si trasformò in pochi passi in una caduta, piangendo e bisbigliando parole che nessuna afferrò. Otto mani si chinarono su di lei, per alzarla. La trincea era sparita.
« Ragazze! » -Ripeté con panico, temendo che tutte sarebbero sparite da un momento all’altro, se solo avesse osato pronunciare uno dei loro nomi, timorosa di essere ancora dentro la sua prova, ancora dentro il mondo di Voluntas. Ma niente si sbriciolò, mentre una dopo l’altra si gettavano su di lei in un forzuto abbraccio di gruppo che sapeva di sangue e polvere, e di otto anni perduti.
« Ragazze… » -Continuò a singhiozzare Usagi, come se nel suo vocabolario non esistesse più altra parola, incapace di dire di nuovo scusa, con le scapole in fiamme per lo sforzo che i suoi muscoli avevano dovuto fare. Le ali che il Ginzuishou le aveva donato l’ultima volta erano leggere, come degli arti. Queste erano pesanti, e dentro ci correvano ossa sottili e articolate. Minako le accarezzò con un dito.
« Usagi, sono… Ali… » -Notò che sull’attaccatura aveva delle cicatrici ancora fresche. Le ricordarono la sua all’inizio, quando era bruciante di vita, e le sembrava che pulsasse sul suo viso, tanto che doveva trattenersi per non grattarsi fino a farla sanguinare- « Usagi, era la tua prova? »
Usagi fece in tempo ad annuire, prima di accasciarsi a terra di nuovo. Ami si gettò su di lei.
« Oh, Usagi, mi dispiace tanto! Io- »
« I convenevoli li lasciamo al futuro, d’accordo? La Catastrofe è vicina » -Voluntas.
Le ragazze aiutarono Usagi ad alzarsi di nuovo, e la sorressero tutte insieme. Makoto era accanto a loro, le gambe tremanti ma incredibilmente e temporaneamente funzionanti.
« Quanto vicina? » -Le domandò Rei con una sfumatura sofferente per lo sforzo.
« Venti giorni » -Le comunicò Sophìa con la punta di gaiezza con cui si comunica una risposta corretta in classe - « Oh, ma avete superato le prove, adesso sarete forti »
Minako non approvò.
« Siamo sempre Noi »
« Sbagliato » -La corresse Kalìa- « Siete Voi, ma non siete sempre Voi. Siete Voi con la consapevolezza della sofferenza che vi ha percorso. Avete compreso la forza di essere se stesse, comprese di ogni esperienza. Questa comprensione vi ha spinte a perdonare… Non è vero, Makochan? »
Makoto arrossì e abbassò la testa. Mugugnò un assenso. Si vergognava di ammettere che aveva avuto ragione su ogni fronte, perché il suo orgoglio glielo impediva. Tuttavia, non poté fare a meno di sbirciare Areté. E quella le sorrise, comprensiva, e annuì velocemente. Makoto comprese, e rimase zitta. Kalìa si riprese la parola.
« Sì, come immaginavo, e questo vi riporterà all’unione. Al Senshi Pride. Poiché c'è stato un momento in cui vi siete legate l'una all'altra. C'è stato un giorno in cui avete riso insieme, e uno in cui avete pianto insieme! Questo significato vi aiuterà a fermare la Catastrofe »
Ci fu un attimo di silenzio, in cui ciascuna si rese conto di quello che Kalìa aveva appena esplicato. Dovevano farlo da sole e senza Nemesi. Minako scattò improvvisamente in avanti, senza che nessuna facesse o dicesse altro, inaspettatamente. Gettò le braccia attorno alla sua Nemesi, avvolgendole la schiena e sfiorando le piume delle sue ali.
« No, non puoi lasciarmi sola! Tu sei… » -Esitò un attimo- « Tu sei me! Sei il mio star seed, non puoi! » -Kalìa era rimasta impressionata da quel gesto inaspettato, e l’espressione sul suo volto la diceva lunga sulla sorpresa che aveva provato quando Minako l’aveva abbracciata in quel modo. Sorrise, quasi impercettibilmente, e poi ridacchiò un poco, allontanandola con le braccia per guardarla. Non stava piangendo, ma si vedeva che si sforzava di non farlo, forse per i loro leggermente burrascosi trascorsi.
« Nessuna di noi vi lascerà sole. Ma non ci è concesso scendere sulla terra senza corpo e lo sapete. Moriremmo in pochi minuti. Tuttavia ciascuna di noi ha il potere di entrare in voi, e di unirsi per poco o molto tempo al vostro corpo… In quanto avete superato la prova, potete riavere la vostra dispersione »
« Inoltre abbiamo per voi dei doni; » -Intervenne Psyché, con delicatezza e gentilezza- «siamo i vostri star seed e le vostre stelle custodi, a ciascuna di noi è dato un potere derivato dai vostri errori e dalle vostre sofferenze. Abbiamo il consenso di darvelo, all’atto del superamento della prova »
Le ragazze si guardarono per un momento. Nuovi Poteri? In Makoto si allargò una macchia di fierezza, e le altre si sentirono più sollevate; probabilmente con quelli avrebbero potuto salvare il mondo con più facilità. Anche Ami, che fino a quel momento era rimasta rigida come un bastone, ricominciò a respirare. Le cose stavano volgendo a loro favore a quanto pareva, e questo significava possibilità in più per riuscire in quello che fino a qualche giorno prima avevano ritenuto non solo improbabile, ma anche inutile da tentare; rivoltare il destino come un calzino e fermare la Catastrofe. Salvare tutta l’umanità, e non solo una parte. Regalare a tutti una seconda occasione, così come era stata regalata a loro. Così come avevano distrutto Beryl al polo nord. Così come avevano distrutto il Phantom. Così come avevano fatto con il Pharaoh 90. Così come per il Dead Moon Circus, Nehellenia. Così come era stato per Galaxia, e infine, Chaos. Come era stato un tempo, poteva essere ancora, forse; e così come era stato un tempo, anche la Catastrofe avrebbe ceduto sotto l’enorme potere delle Inner Senshi ritrovate.
« Le condizioni sono due » -Disse Voluntas- « Le uniche in grado di usarlo sarete voi. Nel salvataggio della Terra non potranno intervenire altre forze di alcun tipo »
« Ma, Mamochan… »
« Niente Mamochan! » -La zittì con un ruggito- « Mamochan sarà al sicuro »
« Ma, Lui… »
« Non hai scelta! » -La sua espressione da dura si intristì- « Non è una faccenda che lo riguarda »
Anche se a malincuore, Usagi convenne. Mamoru non avrebbe avuto spazio in questa storia. Anche se avesse cercato di ricavarselo, non l’avrebbe trovato. Perché quella era una storia fra lei e le ragazze. Fra lei e la Catastrofe. Fra lei, e il mondo che non aveva voluto vedere. Silenziosamente capiva che Voluntas era dispiaciuta di quel veto, anche se non voleva farlo vedere; tuttavia era anche sollevata all’idea che Mamochan sarebbe rimasto fuori dalla battaglia senza nessuna possibilità di replica. Come sempre, l’ultima parola sarebbe stata sua e delle Inner Senshi. Per Mamoru non ci sarebbe mai stato posto, in quello spazio. Come non c’era stato posto in macchina, non ci sarebbe stato posto nella battaglia contro la Catastrofe.
Fu la voce di Sophìa a riportarla alla realtà.
« …persona, sulla Terra, verrà da noi congelata in un sonno virtuale. Ciascuno dormirà fino alla fine della Catastrofe. Se non la fermerete, allora moriranno in serenità. Se ce la farete, il Sylver Crystal le riporterà al loro ritmo normale, e sarà come se questi venti giorni non fossero mai passati »
Ami fu incerta per un secondo, poi alzò la mano. Subito l’abbassò sentendosi una stupida, come se fosse stata in classe. Alla risatina di scherno di Kalìa, si grattò la testa arrossendo vistosamente e prese la parola.
« …E Crystal Tokyo? »
« Se fermeremo la Catastrofe, non esisterà Mai. Il Destino sarà cambiato » -Le rispose Kalìa- « E la Terra continuerà ad esistere come la conoscete »
Niente Neo Queen Serenity, niente King Endymion. Niente dominazioni, niente ere di pace. Solo e semplicemente esseri umani, come prima. Niente glaciazioni. Niente di niente.
« Siamo pronte » -Disse Rei- « A quanto pare non possiamo perdere un minuto » -Questo fece sorridere Psyché, che annuì decisa. Uno scambio di sguardi fra le Nemesi comunicò alle ragazze che era arrivato il momento di conoscere quale sarebbe stato il nuovo ed entusiasmante potere che avrebbero ricevuto. Psyché fece un passo in avanti. Chiamò Rei, indicandola con un dito e facendo un gesto che significava eloquentemente di imitarla. Rei non se lo fece ripetere con le parole, scattò in avanti mentre lo star seed allungava tutte e due le mani. Da queste emerse un fazzoletto tremendamente familiare. Rei si coprì la bocca con una mano, sussultando di sorpresa. Fissò Psyché.
« Dove l’hai presa? »
« Ha bisogno della sua padrona… Forse sai indicarmi chi sia » -Rei singhiozzò vistosamente.
« Era di una guerriera, un tempo. Di una guerriera che ha fatto finta di essere una ragazza normale per salvare la vita del Mondo » -Psyché le sorrise.
« Questo lo so… » -Il fazzoletto si svolse. La penna era come Rei la ricordava, solo che ai margini erano spuntate leggere due ali color rubino- « Non è tardi »
Come aveva potuto gettarla? Rei si avventò sulla penna con avidità; non esitò nemmeno un secondo, l’afferrò con decisione e la sollevò sulla testa. Non c’era altro posto dove avrebbe dovuto stare.
« Mars Eternal, Make Up! » -Non provava quel calore da otto anni. Il calore delle fiamme che l’avvolgevano. Sentiva profumo di legna da ardere, lo stesso odore di un camino acceso in una notte di inverno. Sentiva il calore del sole, e il calore della stufa che sua nonna (la moglie di quel nonno che serviva all’Hikawa Shrine) quando era viva adorava accendere le sere di pioggia. Un calore che credeva di aver dimenticato. Atterrò avvolta in una fuku di fiamme. Anche se non aveva le ali, sentiva di poter volare. Guardò Psyché raggiante.
« Il tuo dono » -Le disse lei, allungando di nuovo le mani- « È il dono dell’Algesìa. La sensibilità al dolore, tuo e degli altri. In qualsiasi momento, puoi prendere su di te le ferite altrui, di qualunque tipo. Puoi soffrire per loro » -Dalle mani della Nemesi si dipanarono diversi di quei serpenti neri che le si arrampicavano spesso sulle braccia- « Il dolore diviso è dimezzato, ma lascia segni. I serpenti sono il dolore che ho tolto alle mie compagne, e che ho preso su di me. Sentire dolore è per te un’abitudine, è vero. Potresti caricarti di ogni sensazione spiacevole… Tuttavia, come sai meglio di me, il dolore lascia cicatrici. I Serpenti sono le mie » -Rei si sporse. Uno di quelli si avvolse dolcemente sulla sua mano, sul braccio marchiato dalle cicatrici che si era provocata. Si tuffò nel suo braccio, e Rei si lasciò sfuggire un gemito. Era come un veleno. Lo sentì diramarsi dentro tutto il corpo, un calore molto diverso da quello che aveva sentito prima; tuttavia non era spiacevole. Lo comprendeva. Quando Psyché chinò la testa in quello che sembrava un inchino, seppe che la loro conversazione era finita. Le aveva donato una parte di sé, e in quel modo sarebbero state insieme.
Subito dopo, fu Kalìa a venire avanti. Lo fece con un portamento molto diverso da quello di Psyché, decisamente più elegante e molto più menoso, si disse Minako. Cercò di imitare la sua rettitudine mentre, sapendo che era il suo turno, faceva anche lei qualche passo avanti; ma come sempre la luce della sua bellezza sembrò oscurare quella di chiunque altro le fosse vicino.
« Ciao, Minachan » -Le disse la sua Nemesi, con gentilezza, mentre con le dita lavorava un invisibile maglia davanti a sé, senza guardare o prestarci particolare attenzione.
« Ciao, Kalìa » -Rispose Minako educatamente.
Dal lavoro di dita che Kalìa stava facendo emerse la penna di venere. Anche quella era cambiata solo di una virgola, nelle ali dorate.
« Questa è tua? » -Le domandò con cortesia, porgendogliela in dono. Minako le guardò la mano. Era perfetta come tutto il resto del suo corpo, affusolata e con le unghie tutte intatte; la sua invece era completamente tumefatta dalle mangiucchiate durante tutte le ore a scuola. Allungò la mano, ma la ritrasse subito dopo.
« Non so se è ancora mia » -Sussurrò chinando il capo.
« Non è tardi »
La prese come un’autorizzazione. Afferrò la sua penna e la tese di fronte a sé, con un gesto teatrale come usava farlo ai tempi delle battaglie peggiori. Non solo perché Rei le aveva già pronunciate, ma le parole le uscirono dalle labbra in un conato. Fu come se le stesse vomitando. Il vomito più bello della sua vita.
« Venus Eternal, Make Up! » -La luce la prese per la vita e la sollevò in alto. Le tirò leggermente l’ombelico, e Minako quasi rise. Era come un solletico, quella luce. Non luce accecante, luce delle stelle di Natale. Come quando da piccola ne sollevava una e la magia dell’accensione invadeva tutta la casa, mentre correva su e giù cantando Silent Night. Luce di un sole di Maggio, giornate perfette per marinare la scuola e prendersi uno yogurt gelato con tripla panna e topping al cioccolato con la tua migliore amica. Luce di stelle.
Quando discese, era avvolta anche lei di luce. Guardò Kalìa e le sorrise.
« Ti dirò » -Commentò lei- « Quella cicatrice ti dona un’aria da vera guerriera » -Tutte ridacchiarono alla battuta. Minako inclusa.
« Il tuo dono » -Le disse Kalìa ricominciando a filare la lana invisibile- « È il dono dell’Alchimìa. Rendere belle le cose. Renderle brutte. Renderle utili. O renderle inutili. Modificarle, plasmarle. Ovviamente ricorda che non puoi crearle, perché dal niente nasce il niente… » -dalle mani di Kalìa stava nascendo una sorta di filo- « Ma gli atomi sono nelle tue mani, le molecole anche. Puoi fare ossigeno dall’oro, basta togliere un po’ di elettroni e di protoni! » -Il filo era diventato un gomitolo. Minako lo prese fra le mani e quello si dipanò avvolgendola stretta, finché non scomparve in lei in un riverbero.
« Così sarò con te » -Minako scattò di nuovo in avanti e l’abbracciò con energia, con veemenza, con vitalità e con amore. Amava quella se stessa. L’amava con ogni forza. Kalìa per la prima volta le rispose. L’avvolse con le ali. Minako pianse.
Areté fu quella che più di ogni altra dipanava fierezza quando avanzava. A Makoto ricordava un soldato di quelli che si vedono nei film americani, per come incedeva con quello spadone, più grande di lei di due misure, appoggiato sulla spalla e l’armatura fino al busto.
« Farà male? » -Domandò Makoto appena arrivata di fronte a lei- « Combatterò in sedia a rotelle? » -Areté la guardò con la morte negli occhi, capendo la sua tristezza.
« Lo saprai presto. Abbi fiducia » -Makoto aveva imparato ad averne parecchia ultimamente, e anche parecchia pazienza. Significava che comunque fossero andate le cose, lei avrebbe combattuto. Se avesse dovuto farlo in sedia a rotelle, l’avrebbe fatto in sedia a rotelle. Areté piantò lo spadone nel terreno con forza, e da quello si generò la nuova penna di Giove. Makoto si lanciò su di essa ancora prima che Areté si riprendesse la spada, e fendette l’aria con energia.
« Jupiter Eternal, Make Up! » -Elettricità. Era elettricità. La stessa che era un tempo indefinibilmente lontano. Era fulmini che cadevano sulla terra nei momenti della tempesta; era la corsa delle cariche verso la destinazione. Era la corsa che permetteva di accendere la luce. Era divisione di cariche. Era magnetismo, tutto era attratto da lei. Era la paura che aveva da bambina, nel vedere accendersi e spegnersi la luce del lampo, aspettando il tuono, e aggrappandosi alle ginocchia di suo padre. Elettricità.
Era vestita di elettricità e petali di rosa quando tutto finì. E incredibilmente, era in piedi. Avrebbe potuto camminare. Avrebbe potuto combattere. Forse si era guadagnata con quel colpo un nuovo corpo. Un corpo fatto di elettricità. Areté annuì con dolcezza.
« Il tuo dono » -Disse allargando le braccia- « È l’Anolethrìa. Un’armatura indistruttibile » -Intorno al corpo della ragazza si posarono pezzi di un’armatura simile a quella di Areté, ma di un colore leggermente diverso. Mentre quella della Nemesi era annerita, probabilmente dalle numerose battaglie affrontate, quella che stava crescendo intorno a Makoto era argentea e nuova- « Un corpo perfetto. Impenetrabile. L’unico nemico che dovrai mai temere sarà te stessa »
Makoto la ringraziò con gli occhi. Non voleva dire grazie perché le sarebbe sembrato scontato e riduttivo, tuttavia cercò di farle capire quanto le fosse grata fissandola, e fu sicura che Areté avrebbe capito. In quel modo erano una cosa sola. In quel modo, erano la stessa cosa. In quel modo era il suo star seed. Areté si riprese la spada e se la rimise in spalla con quel fare da film americano, e Makoto arretrò con il suo corpo perfetto.
Non si dissero nient’altro.
Sophìa prese il posto di Areté subito dopo, seguita dai suoi infiniti capelli.
« Lo sai, Ami, questi sono tutti i capelli che ti sei tagliata » -Le disse mentre Ami avanzava con gli occhi bassi- « Me li hai mandati negli anni… Li ho conservati tutti »
La ragazza alzò lo sguardo sulla sua Nemesi, e cercò di seguire i suoi capelli fino alla fine; non le riuscì perché a un certo punto andavano a ingarbugliarsi, e non si capiva quale dei capi bisognasse seguire. Non c’era una fine, da nessuna parte.
« Ah, io… Insomma, grazie » -Balbettò, mentre Sophìa le faceva fluttuare davanti la sua penna, alata e che svolazzava da destra a sinistra. Ami cercò di afferrarla due volte prima di riuscire ad averla. La sollevò e per un attimo le parole le morirono in gola. Non le ricordava, forse? O forse era troppo tardi.
« Non è tardi » -Disse Sophìa. Ami si strinse la penna sul petto.
« Mercury Eternal, Make Up! » -Fu come un abbraccio, e le ricordò un tuffo della sua infanzia. Aveva dieci anni e suo padre l’aveva lanciata in acqua. Era atterrata di schiena e l’acqua l’aveva avvolta da dietro in un confortante abbraccio; un abbraccio come quello che stava avvenendo in quel momento. Acqua dissetante. Acqua fresca quando fa troppo caldo. Oceano misterioso, profondità infinite. Ami portava i capelli corti per asciugarli più in fretta, così poteva stare in acqua più a lungo. Così poteva vivere in acqua. In quel momento l’acqua si attorcigliava in ogni punto del suo corpo, come sempre. L’acqua raggiunge qualsiasi punto. Non la puoi fermare.
Aprì gli occhi e si ritrovò vestita di acqua. Sophìa si avvicinò di più e le poggiò un dito sulla fronte con gentilezza.
« Il tuo dono » -Un liquido perlaceo scivolò dal suo dito alla fronte di Ami, e dentro la sua testa- « È l’Empatìa. La capacità di capire. Potrai capire le sensazioni di chiunque, e i pensieri di tutti. Inoltre, il mio dono ti permette di compensare la tua perdita di memoria, e di ampliare la tua mente » -Ami la scrutò con curiosità- « Potrai vedere qualche minuto nel futuro, e avere così la possibilità di cambiarlo. Inoltre ricorderai ogni cosa, ogni particolare. Non dimenticherai mai più nulla »
Ad Ami venne mal di testa mentre il liquido le scorreva nella testa. Era una sensazione molto simile al mordere un cubo di ghiaccio con gli incisivi. Un brivido le prese tutto il corpo e dovette sforzarsi di non urlare. Trattenne il fiato. Respirò di nuovo quando finì; la testa le pulsava. Ma di qualcosa di positivo. Qualcosa di potente. Rientrò fra le righe arretrando con le altre mentre Voluntas, alfine, si faceva avanti.
« Sailor Moon »  -Esordì. Usagi era piegata dal peso delle ali, ma si sforzò di stare diritta. Non aveva perso la sua fierezza di guerriera.
« Voluntas… »
« La tua spilla, non l’hai mai gettata » -Usagi lo sapeva. La estrasse dalla sua tasca con un gesto timoroso, ed era cambiata. Era a forma di stella e aveva in sé i colori dell’arcobaleno. Scintillava di una luce nuova e bruciava nella sua mano. Naturalmente conosceva le parole, ma non volle pronunciarle. Improvvisamente, fissando Voluntas, le era venuta familiare. Era una figura che aveva già visto, con la fuku bianca e le decolleté con le ali, e gli odango bianchi. Era stata lei, ad avvertirla. Era lei, la sagoma che aveva visto. La sagoma che era tornata dal Cauldron a dirle che doveva sconfiggere Chaos, o le stelle sarebbero tutte morte. Forse, allora, unendosi…
« Vuoi dire che ero io...? » -Disse in un soffio. Voluntas non capì, e inarcò le sopracciglia in un gesto interrogativo. Usagi scosse la testa e la fissò. No, non era lei. Era insiemea lei. Era un concetto così difficile da spiegare che non ci sarebbe mai riuscita a parole. Perciò si decise a sollevare la spilla. C’era solo un modo per scoprirlo.
« Moon Cosmos Power, Make Up! » - Il suo momento fu pieno di suono, e di calore, e di luce, così tanta che la riempì, l’assorbì. Un tunnel di Luce che schizza via, che si incurva sempre più su, e se cantare fosse stata una sensazione, sarebbe stata questa. Questa Luce. Questo innalzarsi. Come ridere...
Sailor Cosmos. Allora era stato quello il momento in cui lo era diventata. Quello era stato il secondo in cui si era trasformata, per la prima volta. Quello era stato il momento in cui aveva perso tutto per diventare la nuova Sailor Moon. Eppure qualcosa le sfuggiva di mano. Credeva che Cosmos fosse stata successiva a Neo Queen Serenity…
Forse però l’incidente non era nei piani del destino e l’aveva già cambiato. Forse il destino era stato deviato nel momento in cui il camion le aveva sollevate da terra e ribaltate tre volte. Forse la Catastrofe, in quel modo, era stata cancellata. Si portò le mani sul cuore. Questo significava che la battaglia era aperta. Apertissima.
« Il tuo dono » -Le disse Voluntas indicandola- « Lo hai guadagnato. Sono le ali per volare » -Usagi si voltò ed erano ancora lì. Non poteva crederci, fino a un momento prima erano pesantissime, e invece ora… Era come se non ci fossero. Era come un tempo- « Avrai in dono anche la sicurezza di sopravvivere alla Catastrofe, e di portare con te Chibiusa. Non te la toglieranno più. Inoltre ti faccio dono del mio scettro, una lunga lancia che ti permetterà di vincere molte battaglie… Usagi… Vi prego, fate attenzione »
Usagi prese dalle mani di Voluntas il suo scettro e quello si illuminò. Voluntas si ritrasse. Adesso, cinque contro cinque, tornate guerriere, le ragazze si sentirono forti. Avevano molto di cui parlare, ma ci sarebbe stato tempo. Tempo per piangere e ridere insieme come una volta. Tempo per mangiare un hamburger al peggior bugigattolo della città e tempo per rotolare sul prato. Ma in quel momento, c’era solo un tempo. Tempo per salvare il mondo. Venti giorni.
Kalìa indicò una vecchia cinquecento in un angolo.
« Oh, vi regaliamo anche quella. È utile per tornare sulla terra, viaggia fra i mondi. Potete tornare a trovarci quando volete, e noi… Beh, vi saremo accanto in battaglia ovviamente! » -Fece l’occhiolino a Minako e lei spostò lo sguardo altrove imbarazzata- « Non è molto moderna ma funziona! »
Tutte corsero verso l’auto, mentre Usagi esitava e guardava Voluntas, la sua perfetta fotocopia. Forse era quello l’obiettivo. Essere uguali. Essere Ginzuishou e Usagi insieme. Forse quello avrebbe cambiato il futuro. Anche le ragazze si voltarono non vedendola arrivare, e guardarono le Nemesi. Solo Usagi ebbe il coraggio di aprire la bocca, ma espresse il pensiero che nessuna di loro quattro aveva avuto l’ardire di pronunciare e che tutte e quattro avevano sulle labbra.
« Grazie di tutto » -Disse.
Areté si portò le quattro dita alla fronte e fece un saluto stile militare, Sophìa accennò un saluto imbarazzato agitando le dita, Psyché agitò entrambe le mani, Kalìa sollevò la mano sopra la testa e spennellò l’aria con un’onda enorme. Voluntas non fece niente invece, anche se Usagi sapeva che voleva piangere e non lo faceva. Perché lei era indistruttibile, era potente e irraggiungibile. Perché se lei era la sua Nemesi, allora non avrebbe pianto nemmeno sotto tortura visto quanto Usagi era facile al pianto.
Per un attimo fu fiera del suo cuore. Ma la sua fierezza aumentò a dismisura quando la vide scoppiare, prendersi il viso fra le mani e piangere; forse di gioia, o forse di tristezza. Usagi non lo sapeva, e non fu in grado di capirlo mai anche se Voluntas era il suo Crystal.
Aveva venti giorni per tornarci in sintonia, e così sarebbe stato.
« Usagichan! » -La chiamò a gran voce Makoto.
« Devo andare… » -Sussurrò Usagi, e si diresse verso l’auto. Rei stava per salire al posto del volante, e Usagi aveva aperto lo sportello del passeggero quando un urlo proveniente dalle sue spalle la fece saltare di due metri dal terreno. Probabilmente quell’heyyyy gridato a gran voce era il secondo o il terzo di una serie, e prima non l’avevano sentita. Poi la voce parlò molto chiaro, ed era senza dubbio quella di Kalìa.
« Ragaaaaaaaaaazze!!! Non credete che sia meglio che guidi qualcun’altra…? »

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Capitolo 16
*** Preludio alla Battaglia ***


15 ~ Preludio alla Battaglia
Armonia è quello che ci vuole, prima di cominciare a combattere. Bisogna avere armi, è vero, ma anche una indispensabile coordinazione per trovare i giusti momenti per attaccare, per difendersi, per sapere cosa fare. L’orchestra che affronterà questa catastrofe ha perciò senza dubbio bisogno di un Preludio. Ritroverete le Nemesi? O loro hanno fatto il loro dovere e quindi tornano nell'Etere? O nel Limbo? E le Senshi? Sono pronte alla battaglia? E tu, sei pronto?
 

« Sta arrivando » -Sì, stava arrivando. Lo preannunciava il vento forte. Lo preannunciava la pioggia temporalesca che non si fermava da almeno due ore. Il fatto che l’elettricità andasse a intermittenza. Rei appoggiò una mano sul vetro freddo della finestra della casa di Usagi. Tutto si era fermato in una maniera gelida e impressionante. Le persone dormivano nelle auto. Probabilmente molte si erano addormentate nell’esatto punto dove erano, ecco perché certe erano ferme sulle panchine o sulla strada, abbracciate o semplicemente distese e con una espressione perfettamente serena nonostante completamente inzuppate dalla pioggia scrosciante. Il cielo era grigio e buio. Il sole non riusciva a bucare le nubi. Rei deglutì; il quartier generale era sempre stato il suo tempio, e il suo fuoco. Ma adesso, il fuoco era spento da molto tempo. Casa di Usagi era molto più profumata di quello che un tempo erano state loro. Anche se si poteva pensare l’inverso, Usagi aveva conservato più di tutte loro i segni della loro amicizia. Ami prese fra le mani un soprammobile a forma di goccia d’acqua e cominciò ad accarezzarlo amorevolmente, probabilmente per non guardare le altre in faccia. Un nuovo velo di freddezza si era adagiato su di loro fin da quando la macchina le aveva riportate a casa. Adesso era l’unico mezzo che probabilmente avrebbe funzionato, in tutto il mondo. La Catastrofe si annunciò ululando, e spalancando di botto una finestra.
L’acqua scrosciò all’interno. Minako sussultò e scattò in piedi, afferrando la maniglia e tirando con forza verso sinistra. Rei le si affiancò subito, con un verso di sgomento.
« Accidenti » -Biascicò- « è bloccata »
Usagi si precipitò in loro aiuto, ed Ami poggiò il soprammobile da qualche parte per dare una mano –seppur debole. Anche un gesto facile come chiudere una finestra riusciva così difficile per quattro persone insieme? Infine, Makoto si rizzò sulle gambe di metallo dalla poltrona dove si era seduta. Con un solo dito, spinse la finestra a schiantarsi contro la chiusura. Sollevò lo sguardo sconcertata.
Le quattro ragazze indietreggiarono.
« Wow » -Sospirò subito Minako.
« Già, Wow » -Le fece eco Usagi.
Makoto si guardò le mani. Wow era proprio la cosa giusta da dire. Non si aspettava di fare così poca fatica. Aveva sbloccato la finestra come se non fosse stato più faticoso che sollevare una matita da un tavolo. Dove in quattro avevano fallito, un suo dito era riuscito.
Per altri cinque minuti nessuna disse niente di nuovo; Sta arrivando erano state le prime parole del pomeriggio, e poi c’era stato Wow e Già, Wow. L’evento più interessante era stata la finestra aperta fino a quel momento. Makoto si decise a prendere la parola e una posizione.
« Rei ha ragione, sta arrivando. Questa ne è la prova » -Sentenziò. Ami si morse un dito. Rei si accarezzò una spalla. Minako si sedette di fianco a Rei, e Makoto tornò a prendere posto sulla poltrona di prima.
« Credete che ci stia cercando? » -Chiese Usagi con una punta di inquietudine.
« Intendi, la Catastrofe? » -Disse Minako mentre prendeva da un contenitore sul tavolo un cioccolatino. Ami la trafisse con uno sguardo di rimprovero, a cui Minako fece eco con un’alzata di sopracciglia. Che c’era di male a mangiare? Se erano gli ultimi giorni, valeva viverli bene.
« Sì. Forse è il caso di andare via… Insomma, Mamochan... » -Il suo pensiero volò immediatamente a suo marito, in quiete nella stanza da letto chiusa a chiave. Aveva creato un buon rifugio, per lui, nel suo letto. Se doveva morire, se avessero fallito, se il pensiero che la stava trafiggendo e che combatteva con ogni forza doveva avverarsi… Beh, voleva che fosse così.  Che morisse nel suo letto. Nel loro letto. Rei le poggiò con delicatezza una mano sulla spalla.
« Dobbiamo andare a combatterla, Usagi » -Le disse- « Qui Mamoru sarà al… Ami, è tutto ok? »
« La finestra! » -Fece con forza lei, e prima ancora che Rei potesse chiederle che cosa andava blaterando, lei si era alzata e aveva scavalcato il tavolo. Era come se fosse già successo. L’aveva visto, era sicura. La finestra si era aperta. Dovette concentrarsi per capire cosa stesse succedendo. La testa le stava per scoppiare.
« Cosa? » -Aveva chiesto Rei e si era affrettata a tranquillizzarla- « Va tutto bene, Ami, l’abbiamo chiusa con i blocchi » -Ami aggrottò la fronte e la guardò come se stesse parlando in alieno spaziale, o come se stesse dicendo una sciocchezza di proporzioni astronomiche.
« Cos- Non quella finestra. Quella della cucina! » -Minako alzò le sopracciglia.
« Ami, ti ha dato di volta il cerv… » -Un boato le informò che una seconda finestra si era spalancata al di là della porta della cucina. Quattro facce si puntarono su Ami. Makoto si puntellò sulle gambe e corse a chiudere anche quella.
« Non dirò ve l’avevo detto » -Disse Ami puntando il dito contro le ragazze, mentre Usagi faceva il giro e metteva il blocco alle rimanenti finestre, per poi accasciarsi di nuovo sul divano. Ci furono altri dieci minuti di silenzio, rotto solo a metà da un rombo di tuono, anche se meno pesante. Il fatto che i loro nuovi poteri funzionassero piuttosto bene era rassicurante, anche se meno rassicurante era il fatto che non sapevano da dove o come l’attacco sarebbe arrivato. La prima a rompere il nuovo cristallo di silenzio fu Minako.
« Sarà un po’ come combattere la Natura, no? » -Disse con un’alzata di spalle prendendo un altro cioccolatino.
« Sì, falla facile » -L’apostrofò Rei- « Stai parlando della furia degli Elementi! » -Usagi sospirò, Makoto si prese un secondo di riflessione. Ami era tornata a giocare con il soprammobile di vetro.
« Io posso cambiarli, gli elementi! Guarda. Dammi qua, Amichan » -Le disse con tanta autorità che Ami cedette subito la goccia con un accenno di sorriso e con un velo di curiosità negli occhi. Tutte si piegarono verso Minako mentre prendeva l’oggetto in mano. Per un secondo, tutte trattennero il respiro all’unisono. Minako guardò il soprammobile. Lo fissò con intensità e lo scandagliò. All’inizio, era un semplice pezzo di vetro con un velo di colore azzurro. Si concentrò con più attenzione.
« E allora? » -L’apostrofò Usagi, subito zittita da uno shhhhhhhh! generale.
Minako strinse i denti, e improvvisamente eccoli. Come le era successo la mattina, anche in quel momento il soprammobile si stava praticamente aprendo sotto le sue mani, rivelando la sua vera natura. Silicio, e Ossigeno. Di Ossigeno ce n’era molto, di Silicio un po’ meno. Minako respirò profondamente. Si sgranchì le dita e cominciò a separarli con qualche esitazione. Silicio di qua, Ossigeno di là, Silicio di qua, Ossigeno di là… Alla fine ebbe due gruppi di elementi. Ossigeno, e Silicio. Con un colpo netto tirando l’ossigeno verso sinistra e il silicio verso destra, li separò. L’Ossigeno si unì all’aria istantaneamente. Cominciò a lavorare sul Silicio disallineandolo, e infine, lo pressò con un battito di mani.
« Voilà! » - sentenziò. Quando ebbe finito, teneva in mano un cuore di Silicio solido di un colore tendente all’argento, anche se molto più scuro e lavorato con cura, lisciato dalle sue mani più velocemente di quanto il fuoco non avrebbe potuto fare.
« L’hai fatto diventare Ferro? » -Le chiese Usagi, mentre ooh di sorpresa si levavano dalle altre ragazze. Ami lo riprese fra le mani esaminandolo con cura e lasciandosi sfuggire un sospiro di ammirazione per il materiale.
« No, è Silicio Policristallino… Caspita, Minachan. Questa roba è preziosissima, si usa per i pannelli fotovoltaici » -Rispose al posto suo. Minako sorrise di soddisfazione, gonfiando il petto per la fierezza e un dente le spuntò dalla cicatrice. Le ragazze si fecero passare fra le mani l’oggetto che Minako aveva appena creato con delicatezza. Era brillante anche se si vedeva che non era fatto di diamante e niente che gli somigliasse. Era bello nonostante non avesse la bellezza tipica dei soprammobili di cristallo o di vetro. Aveva un fascino magnetico straordinario e assolutamente unico. Era come Minako.
« Visto? Possiamo controllarli, gli elementi… » -Disse con enfasi, mentre Usagi accarezzava il cuore di Silicio.
« Io mi riferivo ad acqua, terra, fuoco, aria… Quintessenza. » -Le disse Rei, facendosi passare il neonato soprammobile. Lo guardò con attenzione notando come la superficie fosse irregolare e luminosa. Era un cuore pulsante.
« Sì, sicuramente la Natura attaccherà così. Gli elementi insieme non possiamo combatterli, sicuramente sono troppo forti per noi, ma ciascuna di noi potrebbe occuparsi di uno di loro » -Suggerì Ami- « In fondo ciascuna di noi ha un campo d’azione. Tu Rei, il Fuoco. Io l’Acqua. Makochan è in sintonia con la Terra, visto che tutto ciò che riguarda gli alberi e la natura è il suo ambiente. Se ci fosse Haruka, sicuramente avrebbe l’aria. Ma potresti pensarci tu, Minako, insieme ai metalli » -Concluse poggiando il soprammobile al centro del tavolo da salotto.
Le ragazze si chiusero di nuovo nel silenzio precedente. Un silenzio di sapori ancora diversi. Un silenzio che sapeva di riflessione. Usagi avrebbe dovuto avere la Quintessenza? L’essenza della vita? Non era convinta di sapere come potevano combattere la Natura, anche se l’idea di Ami non era per niente male. Tuttavia, l’idea della separazione le mise la pelle d’oca e scosse la testa, mentre un lampo faceva saltare di nuovo la corrente per qualche secondo.
« No, dobbiamo restare unite » -Suonò come un ordine e nessuno se la sentì di contraddirlo. Makoto annuì subito, perfettamente in accordo. Anche Rei fece lo stesso. Minako non si pronunciò, ma era evidente dal suo sguardo che era d’accordo- « …Non possiamo rischiare di finire come in questi anni »
Fino a quel momento nessuna aveva nominato gli otto anni passati. Nessuna voleva parlarne, preferivano seppellire la cosa. Ma Usagi aveva un buon talento per le scomode verità che prima o poi bisogna ritirare a galla, e il seguente silenzio fu un silenzio carico di disperazione e di sofferenza. Nessuna di loro voleva dimenticare, e nessuna di loro voleva ricordare. Era stato troppo doloroso non avere più le persone più preziose su cui contare, e troppo doloroso sapere che tutte avevano avuto una parte di colpa. In quel momento, e più che mai, ciascuna aveva bisogno di sapere che si poteva contare su di loro. Per qualche ora, era sembrato che tutto il tempo non fosse davvero passato, ma ciascuna portava su di sé i segni di quegli otto anni. E non solo la cicatrice che sfigurava Minako o quelle sui polsi di Rei. Segni piccoli, ma molto più evidenti. Makoto non amava più portare orecchini a forma di rosa, aveva deciso di preferire le margherite alle orecchie. Minako non metteva il fiocco rosso da qualche tempo, preferendo una pettinatura all’indietro più discreta. Ami aveva fatto crescere i capelli fino alle spalle. Usagi aveva grosse occhiaie, non aveva più la curiosità di un tempo, e le sue risate non facevano lo stesso rumore. E Rei aveva cominciato a intrecciare sempre più spesso i capelli che prima erano sciolti sulle spalle, per comodità o per abitudine.
Forse si amano le persone per i loro particolari. Per questo ciascuna di loro si era accorta di questi cambiamenti. Probabilmente, ne avevano sofferto nel cuore più che per le tragedie che le avevano segnate. Faceva loro male notare quei cambiamenti come improvvisi, repentini e spersonalizzanti, quando fra amiche dovrebbero essere piccolezze quasi invisibili. Da una parte, a Usagi faceva piacere sapere che nessuna di loro si era fermata. Dall’altra, le faceva male immaginare che fossero cambiate senza che ne sapesse niente. Quei leggeri cambiamenti esteriori erano il riflesso di cambiamenti interiori che sicuramente erano avvenuti in quegli anni oscuri; e più di ogni cosa, a Usagi dispiaceva di non averli mai veduti.
Poi successe una cosa strana. Makoto si alzò in piedi. Era molto maestosa con quel corpo d’acciaio, e Usagi si spaventò temendo che volesse picchiarla. Invece, cominciò a parlare.
« Dopo che ho perso i contatti con Minako a giugno perché mi ha fatta cadere, sono rimasta disoccupata per un anno. Poi, ho trovato impiego come segretaria in una ditta che produceva impasti pronti per torta… Lì ho conosciuto Kenji. Di lui mi sono innamorata, per l’ennesima volta, ma sono famosa per gli amori sfortunati. Ha preferito una che potesse correre con lui la maratona di Tokyo. Tre anni dopo, mi hanno licenziata. Mi ha sempre aiutata, in questi anni, Tomoyo… Una governante molto dolce e un po’ sbadata che mi ha sempre ricordato un po’ te, Usagi. Sono rimasta disoccupata fino ad oggi, anche se ho coltivato molti hobby, fra cui beh, la passione per la creazione di gioielli artigianali come gli orecchini che indosso » -Attimo di silenzio. Makoto si risedette.
« Me ne faresti un paio, un giorno? » -Chiese Minako con disinvoltura. Rei ridacchiò, ma Makoto annuì in modo solenne.
« Se vinceremo la catastrofe, ne avrai molti e molti paia ancora » -Minako le fece un segno di vittoria aprendo l’indice e il medio.
« E quello scemo di Kenji non ti ha voluta? » -Chiese Usagi con una punta d’amarezza.
« No, per niente! Ha ditto che ero solo un’amica, per lui. Immagina che cretino »
« Galattico »
« Sproporzionato »
« Imbecille »
« Asintoticamente ad enne elevato ad enne, con enne che tende a infinito. E con il cervello asintotico all’asse delle x. Zero! » -Attimo di silenzio, di nuovo. Poi la risata di Usagi, seguita da tutte le altre in un coro che sovrastò la pioggia per qualche minuto. E poi, la perplessità di Ami- « Ma che ho detto? »
Passarono il pomeriggio piovoso a raccontarsi tutto quello che era successo in quegli anni; un amore corrisposto, un ragazzo lasciato, un’amica poi rivelatasi una traditrice. Una passione sviluppata, uno studio mollato a metà, un matrimonio a gonfie vele. Usagi raccontò di essere incinta e tutte ne furono felici. Chiacchierarono del bambino e di come sarebbe stato se fosse nato. Usagi pianse. Ami anche. Minako raccontò della sua carriera di modella e di come fosse diventata bulimica, Rei dell’origine del suo autolesionismo. Ciascuna raccontò fatti personali e stupidaggini come fossero la stessa cosa, e lentamente il sole bucò le nubi quando l’orologio segnava oramai le sei. Il desiderio di aria era troppo forte, a quel punto. Allora decisero di uscire e di dirigersi verso il posto in cui più di tutti ritenevano che la Natura avrebbe scelto come suo tempio; poco fuori città, la conca da cui si vedevano le stelle. Nessuna di loro lo propose, tuttavia ciascuna seguì i suoi piedi senza esitazione fino al posto dove, qualche giorno prima, le Nemesi avevano perso la loro dispersione.
Fecero la strada ridendo e dandosi buffetti. Makoto, per darle un pugno sulla spalla, cappottò Usagi due volte e le lasciò un livido grosso come una palla da biliardo, scusandosi successivamente molte e molte volte. Ma Usagi non se l’era presa. Piangeva di gioia e non di dolore, in quel momento, anche se non riusciva a dirlo. La città addormentata era immersa in un silenzio del tutto surreale, che faceva cantare il tramonto di una musica tutta nuova. Quando arrivarono alla conca, si sedettero tutte sull’erba, e intrecciarono corone di fiori come facevano un tempo, raccontandosi i più oscuri segreti e le più acute osservazioni. Il sole moriva, probabilmente nascendo da qualche parte in America, e il rosso del cielo dopo il temporale lasciava la scia della speranza di un bel tempo successivo.
« Forse dovremmo lasciare il Mondo in mano alla Natura per davvero » -Suggerì Ami, godendosi il vento- « Sarebbe una pace imperitura »
Usagi guardò in alto. La prima stella fece capolino dal rosso che sfumava verso il viola, annunciandosi primitiva fra tutte, fra tutte la più bella. Venere.
« Non è giusto » -Disse- « Non voglio perdere tutto questo. Ma non voglio nemmeno perdere gli uomini, l’umanità… Voi. Non credo che dovremmo arrenderci » -Makoto annuì.
« Scongiurare la Catastrofe potrebbe significare un’alleanza, non per forza nuove guerre. Forse gli uomini capiranno » -Ami si sporse per guardarla in faccia e si prese le ginocchia fra le braccia.
« L’umanità non è mai stata disposta a fare davvero dei sacrifici » -Il vento soffiò più forte. Rei strinse gli occhi e si riparò il viso- « Hanno sempre finito per devastare tutto questo. Se fossi la Natura, anche io sarei arrabbiata » -Usagi chiuse gli occhi. Minako invece si prese il diritto di parlare.
« Usagi ha ragione. Dobbiamo fidarci dell’umanità o saremo perdute » -strinse un filo d’erba, ne modificò i connotati e quello si sciolse in gocce d’acqua- « Da quando vedo come è fatta la natura, ne sono affascinata. Ma non posso pensare che dobbiamo rinunciare anche a tutto quello che l’uomo ha fatto per lei. L’amore, la coscienza. Queste cose la preservano »
« Minachan ha ragione, dobbiamo farle capire che non tutti gli uomini sono uguali… » -Disse Rei. Poi abbassò la voce- « Noi non siamo così »
« Sì, avete ragione. Grazie ragazze… » -Improvvisamente, Ami si piegò sotto una fitta di dolore afferrandosi la testa. Chiuse gli occhi. Qualcosa che stava per succedere…? Li riaprì di scatto- « Sta arrivando » -La sua voce era pregna di panico e di disperazione.
« Cosa, Amichan? Cosa arriva? » -Chiese subito Makoto, chinandosi su di lei insieme a Minako. Usagi si portò le mani alla bocca, terrorizzata, ripetendo il suo nome. Ma Ami urlò di dolore- « Amichan! » -Provò a scuoterla, ma tremava. Rei poggiò la mano sulla spalla di Makoto.
« Spostati » -La cosa suonava decisamente come un ordine, e Makoto non lo contraddisse, fece un passo indietro. Rei l’abbracciò con decisione, portandosi la sua testa sul petto. Immediatamente, Ami trasse un sospiro di sollievo. I serpenti neri si tuffarono nelle spalle di Rei, mentre il dolore si spezzava in due e correva dall’una all’altra, nelle braccia, nella testa, sulla schiena. Ami si aggrappò con forza alla schiena di Rei, e appena fu in grado di parlare, le parlò sussurrando e inframmezzando ogni parola da gemiti di dolore alla testa.
« Reichan, arriva. Il primo attacco. Due minuti » -Aveva usato meno parole possibili. Le pupille di Rei si dilatarono improvvisamente.
« Trasformiamoci, ADESSO! » -Non fece in tempo a finire la frase che una folata di vento le aveva abbattute tutte sul terreno, esclusa Makoto. Ami si rivoltò, mentre la fitta alla testa si affievoliva. Makoto sfoderò la spada, e la piazzò in verticale come una mazza da baseball. Usagi pensò che era decisamente grande, e messa così… Sembrava ancora più grande.
Fendette l’aria come se fosse stata una palla da baseball, vincendone la resistenza e scacciando il vento verso l’altro lato della conca. La spalla urlò di dolore mentre tutto il vento cambiava direzione e scappava con un ululo di dolore.
« Che aspettate, la fatina turchina? » -Gridò voltandosi mentre il vento frenava la corsa e tornava a dirigersi verso di loro- « Forza! Trasformatevi! »
Nessuna se lo fece ripetere più di una volta. Mars, Mercury, Venus, Cosmos e Jupiter si mischiarono in un grido di lotta, come un rito antico pronunciato così anticamente da essere dimenticato. Makoto levò la spada per colpire di nuovo.
« Jupiter! Oak evolution! » -fendette di nuovo l’aria, con la spada, e quella raccolse e sprigionò fulmini e petali di rosa. Le altre ragazze furono sbalzate indietro dalla folata successiva. Usagi sfoderò lo scettro, ma il vento trasportava terra e semi che le finivano negli occhi. Anche se non parlava come gli Youma che aveva sempre affrontato, Usagi lo immaginava come un’entità quasi umana. Aria. Una Catastrofe che si abbatte sul mondo. Chissà in quel momento, gli altri elementi cosa stavano distruggendo. Makoto aveva appena piantato la spada nel terreno sprigionando un’onda di elettricità che respinse un altro attacco.
« Così non va! » -Gridò alle retrovie. Stava facendo tutto da sola, ed era decisamente stremata. Areté, dove sei?
Bastò il pensiero. O forse la volontà, come aveva detto Lei. Volere è potere. Cinque stelle cadenti si mostrarono al mondo in parallelo, atterrando nella conca con uno schianto secco e con una luce accecante. Nessuna ebbe nemmeno per un secondo un dubbio solo su chi fossero le ragazze che si erano appena parate di fronte al loro nemico.
« Voluntas, Lancia di luce »
« Areté, Spada di forza »
« Sophìa, Scudo di saggezza »
« Kalìa, Lama splendente »
« Psyché, Arco fiammeggiante »
Immediatamente, appena le Nemesi sollevarono le mani al contempo, una barriera si alzò fra le guerriere e il vento. Lo videro schiantarsi su di essa, prendere forma. Lo videro alzarsi e prepararsi a sfondarla. Usagi brandì lo scettro e invocò il potere del Silver Crystal. Aveva bisogno di tempo. Sentì la voce di Sophìa.
« La sfonderà! » -No, le serviva tempo. Tempo. Chiuse gli occhi e si concentrò più forte. Vi prego, tenete duro- « Scudo d’acqua! »
Una parete d’acqua si alzò proprio mentre il vento ci si schiantava contro. Minako alzò lo sguardo. Era diventato un vero e proprio tornado... Doveva fare qualcosa. Ma cosa? Usagi stava caricando il suo potere, aveva bisogno di quel poco di tempo che… ecco, c’era arrivata. Si affiancò a Kalìa.
« Kalìa, posso creare uno scudo d’acciaio. Posso fermarlo per il tempo necessario a Usagi a chiamare il potere del Cuore! » -Kalìa aveva ancora le mani sollevate nel tentativo di non infrangere la barriera- « Posso mutare l’acqua in acciaio, ma dovete resistere ancora qualche minuto e… »
« BASTA CHIACCHIERE, Venus! » -Le strillò in faccia mentre sembrava che reggesse un tir intero. Minako indietreggiò e immerse le mani in acqua. C’era idrogeno, e ossigeno. L’ossigeno non le serviva. Lo scartò immediatamente immettendolo nell’aria, e contemporaneamente staccava elettroni e protoni dall’idrogeno, incollandoli insieme ventisei alla volta. Uno, due, uno due. Le sembrava di cucire a una velocità impressionante. Via l’ossigeno. Ventisei idrogeni. Tredici molecole. Creava nuclei e immetteva elettroni. E poi, carbonio. Ogni cento di ferro, due di carbonio. Cento, e due di carbonio. Cento, e due di carbonio. L’acqua mutò a una velocità incredibile in un muro grigio adamantino e duro come la corazza di Areté.
Ami, nel frattempo, aveva poggiato la mano sulla spalla di Makoto.
« Jupiter, arriverà da sinistra. Se non la proteggi, la colpirà » -Minako era arrivata a circa tre quarti della conversione, quando alla sua sinistra un rumore l’avvertì che qualcosa non andava. Makoto stava disintegrando un blocco di detriti che l’avrebbe sicuramente ammazzata, se non si fosse mossa. Girò la testa in un riflesso lento e condizionato, mentre il muro saliva ancora e le sue mani tessevano automaticamente l’acciaio. Cento di ferro, due di carbonio, cento di ferro, due di carbonio, cento di-
Il vento si abbatté sulla barriera nel momento esatto in cui Minako finiva di tessere le molecole di acciaio. Un rumore orribile, metallico e di tuono, mentre le Nemesi tenevano la barriera in alto, annunciò che il tornado ci si era appena schiantato sopra. Minako guardò Makoto.
« Grazie »
« Non a me » -Le fece l’occhiolino- « Ad Ami. Usagi? » -Domandò guardandosi indietro e cercando la luce di Sailormoon.
« Pronta » -La luce si stava sprigionando dalla punta del suo scettro- « Cosmos… » -Rei si precipitò su Psyché.
« Lasciatela cadere, ora! » -Le Nemesi si guardarono, abbassarono le mani insieme e la barriera si dissolse in un unico movimento. Il tornado si abbatté sulla conca.  
« …Starlight! » -Ma non fece danno. La luce lo polverizzò, per quanto si possa polverizzare l’aria. Usagi si accasciò sul terreno. Le Nemesi erano svanite. Ami si chinò su di lei, e le accarezzò i capelli.
« E’ finito, Usagi… » -Ritmicamente- « E’ finito… »
Usagi aprì la bocca e urlò l’urlo che non aveva urlato per otto anni. Rei si gettò su di lei in un secondo, e l’abbracciò. Makoto fece lo stesso, senza stringere. Minako si unì a loro. La foresta di braccia l’avvolse dolcemente, come se non ci fosse stato altro al mondo. Il vento le accarezzava con dolcezza, adesso, si univa all’abbraccio. Usagi pianse, e pianse ancora, finché non ebbe più respiro. Le lacrime le rigavano le guance con prepotenza, rendendole rosse e deformate di rabbia, di dolore, di tristezza. I serpenti erano solo parte di quell’abbraccio, e anche Rei piangeva. E anche se entravano solo dentro di lei, i serpenti, anche Ami e Minako e Makoto piansero. Piansero con Usagi, con forza e veemenza. Come se fossero un corpo solo, come se non ci fosse altra strada per sopravvivere. Come se respirare, in quel momento, fosse solo merito di quell’abbraccio.

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Capitolo 17
*** Giorno Uno ***


Con questo capitolo ho tardato parecchio e lo so. Me ne dispiaccio ma l'uni è quella che è... Proprio un caos. E' anche il motivo per cui non rispondo sempre alle recensioni, e di questo mi duole ancora di più. Vorrei quindi ringraziare tutti coloro che hanno sempre la creanza di lasciare anche solo un segno del loro passaggio, una piccola recensione o una grande. Siete tutti importanti per me. Un bacio a tutte voi!!! E ora, il primo giorno di battaglia. Enjoy. 


16 ~ Giorno uno

Durante il primo giorno c'è aria di tempesta. Tutte si preparano a quella che sarà la battaglia del secolo, sanno che durerà molto. Sanno anche quanto durerà. Ma non sanno quanto dolorosa sarà, quanto dura sarà, quanto in effetti sono pronte ad affrontarla. E quanto i loro problemi peseranno sulle loro anime, in questi venti giorni di battaglia. Ancora una preparazione.

 

Ami aprì gli occhi e si ritrovò al buio. Si portò le mani dietro la testa e cominciò ad ascoltare il ticchettio delle gocce di pioggia sul soffitto di casa Tsukino. Era per terra. Stava dormendo su un futon di fortuna. Se lo ricordava, sapeva dove si trovava, e questo le diede sicurezza. Non arrivò nessuna premonizione, e questo la rassicurò di nuovo. Non sapeva cosa sarebbe successo, e questo significava che non c'erano tragedie in arrivo. Sospirò, contando le gocce sul soffitto. Era bastato tanto poco, per farle tornare a un tempo. Quella sera, a cena, avevano riso come se il tempo non fosse davvero passato. Come se avessero distrutto la barriera che si era creata in tutti quegli anni. Ripensò a quando Usagi le aveva supplicate, per strada. A come aveva pianto, e quando si era rialzata il suo viso era nero di lacrime e di polvere. Un misto di pena e compassione le arse il cuore. L'amore di una madre per una figlia, Ami non l'aveva mai provato. Voleva chiedere ad Usagi se fosse vero, che non le interessava del feto che aveva perduto anni prima, ma temeva che la domanda sarebbe risultata indiscreta. E poi, dentro di sé, conosceva già la risposta. Era sì, certo che le importava. Le importava così tanto che pur sapendo in fondo al suo cuore che non era Chibiusa, aveva tentato di uccidersi. Ami era sicura che Usagi lo sapesse, che lo sapesse benissimo. Eppure, una seconda voce si fece strada dentro di lei, eppure le aveva abbandonate. E loro non erano state capaci di restare unite. La battaglia le aveva unite, e senza di essa erano solo foglie al vento, solo persone. Persone normali. Persone che litigano e fanno pace, dopo otto anni. Otto? Forse nove. O dieci? I conti ancora non le riuscivano perfettamente. Sciolse il nodo da dietro la testa e si intrecciò le mani sulla pancia. Il buio si stava diradando leggermente, e cominciò a vedere il soffitto con più chiarezza. Come la battaglia le aveva divise, così le stava riunendo. Ami non era sicura che andasse bene così. Ma i suoi pensieri furono interrotti bruscamente da una orribile fitta alla testa. Si rizzò sul futon, e fece giusto in tempo ad arrivare in bagno per vomitare tutta la cena che aveva ingurgitato sul pavimento. Si aggrappò alla maniglia.
« R-Raga-aa-zze » -Balbettò con la voce più alta che poté- « A-Arriva » -Gridò afferrandosi la testa- « ...di-di... Nuovo... »

~

Rei non aveva dormito che due ore. Aveva passato la notte in cucina. All'inizio aveva detto alle ragazze di andare pure a dormire, che lei si sarebbe curata dei piatti. Poi, ne aveva approfittato per farlo più lentamente possibile mentre le chiacchiere dall'altra stanza le arrivavano prima divertite, poi sempre più sommesse, e infine si interrompevano. La fioca luce che era rimasta le aveva consentito di sfregare la pentola con forza. Sempre più forza. Perché quella macchia non andava via, perché...? Le era sfuggito un gemito quando la spugna per raschiare le aveva tagliato la mano. Il sangue era corso giù fino al polso, e Rei non lo aveva fermato. Aveva goduto della sua vista e del dolore per qualche secondo. Poi aveva unito le mani in una preghiera silenziosa. I serpenti avevano trasferito il dolore da una mano all'altra, formando due cicatrici speculari. Straordinario, aveva pensato lei. Doveva ancora abituarsi a quel potere. Doveva ancora abituarsi a tutta quella situazione. Era rimasta lì ferma, sveglia, gli occhi serrati sulle due cicatrici a specchio. L'acqua del lavandino che scorreva sulla spugna e sulla pentola del riso. Chiuse il rubinetto abbandonandola al suo destino. Qualche volta, sciacquare il sudicio da fuori non ti toglie il sudicio da dentro. Il suo corpo era martoriato di cicatrici, diverse per forma e per numero. Sulle ginocchia c'era ancora il segno di quella frenata, sui polsi quelli di quegli otto anni. Rei si abbandonò sulla sedia, la luce fioca che l'illuminava appena. Si guardò i polsi. La voglia di aprirli di nuovo la divorava, il senso di colpa che la prendeva ogni secondo la rendeva vulnerabile. L'unica cosa che le impediva di farlo era il ricordo di quelle spine, il ricordo di Psyché. Le sue parole, sei viva. Ci vuole coraggio per morire, ma tu devi averne di più. Per vivere! -Quando aveva avuto l'unione e aveva preso i suoi poteri, Rei si era sentita completata da tutte quelle cose che nella vita aveva perduto. E aveva scelto di non perderle mai più. Di non perdere Yuu o chiunque altro. Ma sapeva come sarebbe andata, sapeva quello che il Destino diceva. Usagi creerà Crystal Tokyo. Tutti moriranno. Tranne noi. Ma che cosa aveva questa Usagi di tanto speciale per condannare tutta questa gente? Rei aveva lottato per loro, non solo per la sua Princess. La sua vita non gravitava più intorno ad Usagi da otto lunghissimi anni, e non voleva che tornasse ad essere così. Amava Usagi, questo era fuori discussione. Avrebbe dato la vita per lei, ma... Amava se stessa, adesso. Usagi aveva insegnato loro ad amare gli altri, ma mai ad amarsi. Passò la notte a piccoli sonni e brevi risvegli, sul tavolo, inframezzati da incubi in cui Yui veniva preso e portato via, in cui tutto veniva inghiottito. Alla fine, Psyché era scesa su di lei, e aveva custodito i suoi sogni. Infine, era scivolata in un sonno quasi rilassato. Finché le urla di Ami l'avevano svegliata.

~

Minako aveva passato la notte pensando che doveva assolutamente vomitare tutta quella robaccia che aveva mangiato. Siccome però non poteva farlo davanti alle ragazze, ci aveva rinunciato presto, pensando che l'indomani non avrebbe toccato nemmeno un minuscolo frammento di qualsivoglia cosa commestibile. Forse così avrebbe recuperato le mille calorie che aveva assorbito la sera a cena. Si sentiva orribilmente in colpa, e anche elettrizzata per ciò che aveva fatto la sera prima. I suoi poteri erano aumentati straordinariamente, e il muro che aveva sollevato era una ulteriore prova del suo riuscire a manipolare tutti gli elementi. Nel suo cervello frullavano formule chimiche e composizioni di oggetti che non credeva potessero esistere. Si stava divertendo da morire a esplorare la sua mente da un giorno a quella parte. A cena aveva mutato l'insalata in patate fritte, e tutte avevano applaudito e riso. Si sentiva sollevata a pensare a quella scena, perché si sentiva di nuovo accettata. Di nuovo fra visi amici e sorridenti. Qualcosa la inquietava, però, dall'interno. Un po' associò quel malore alla battaglia, ma sapeva che non era quello a disturbarla al cento per cento. Parzialmente aveva paura di tornare a combattere, ma visti i risultati dell'ultimo rendez-vous era pienamente convinta di farcela. Mano mano che la Catastrofe era più vicina, si sentiva sempre più pronta a fermarla. Allora quel malumore da dove le veniva? Il mal di pancia non era associato al cibo, ma a un inconfessato desiderio di qualcosa... Qualcosa che non riusciva a spiegare, probabilmente legato al fatto che dopo otto anni carburare è veramente faticoso per tutti. Tutti, tranne Usagi. Quando sentì Ami rantolare restò a letto, pensando andrà qualcun altro.
E poi, sentì Mars che si trasformava. Si costrinse ad alzarsi. Sgranò gli occhi.

~

« Jupiter Eternal, make up! » -Ancora prima che Ami dicesse cosa stava succedendo, Makoto era in mise da combattimento. Già il giorno prima la crisi di quella portata aveva annunciato la battaglia. Meglio essere pronte prima. Prima dei due minuti di scarto che Ami regalava loro. Si accasciò vicino alla ragazza e la sorresse. Pesava poco meno di una piuma per lei. Le mise una mano in fronte, reggendole la testa, mentre un altro conato la scuoteva da capo a piedi. Rantolò, la bocca impastata dal sonno e la fuku stretta in vita, chiamando Usagi e Rei. Usagi mugolò e si rigirò nel suo letto, e una rabbia inconfessata si fece strada nel cuore di Makoto. Perché dovevano sempre essere loro ad occuparsi delle cose serie? Alla fine Usagi interveniva e basta e solo nel finale. Tutte loro la proteggevano, ma lei non proteggeva loro? Quei pensieri erano chiaramente dovuti agli otto anni di liti e di incomprensioni, quindi Makoto li scacciò con forza mentre sollevava Ami e la metteva a sedere. Rei si unì a loro quasi istantaneamente, saltando la sedia e il tavolo e atterrando di fronte ad Ami. Le poggiò due mani sulla testa, e la sentì risollevarsi mentre il dolore entrava nelle sue mani. Era la seconda volta che succedeva.
Infine, anche Usagi si sollevò dal letto, dalla nottata quasi tranquilla che l'aveva caratterizzata, e si unì a loro. Ami le fissò con occhi vitrei.
« Amichan, parla! »
« Cos'è, questa volta? »
« Lasciatela respirare » -Intimò Makoto.
Ami sollevò lo sguardo e vide tutte e quattro le ragazze di fronte a sé. Si era fatto il silenzio. Tutte avevano dormito con la penna a portata di mano, ma Rei era l'unica a stringerla nel pugno.
Makoto era l'unica con la fuku addosso, e il tempo stringeva. Non sapeva cronometrare con precisione centoventi secondi, ma era sicura che ne avevano appena sprecati almeno metà. Aprì la bocca acida di vomito.
« Acqua... » -Rei scattò verso la cucina. Si sentì uno sciacquare, e poi tornò con un bicchiere in mano.
« Ecco, ecco, bevi » -Lo mise nelle mani di Ami. Lei, ancora leggermente scossa, ne bevve. Poi lo rese alla guerriera di marte.
« Acqua... »
« Ne vuoi ancora? »
Ami scosse la testa.
« Arriva l'acqua. » -Aveva cercato di informare le ragazze con meno parole che aveva potuto. Difatti non pensava di avere energia per usarne altre. Minako si alzò dal letto in quel preciso istante, proprio mentre tutte le altre sollevavano le loro penne. Si rese conto di essere in ritardo sulla situazione di almeno una manciata di secondi. Fatali. Si sentì sollevare e fece appena in tempo a recuperare la penna da sotto il cuscino. L'acqua sfondò completamente le finestre della cucina. Le luci saltarono tutte in una volta. Usagi mugghiò un lamento vedendo la sua cucina distruggersi completamente. Paralizzate dal terrore, vedendo arrivare l'acqua in tale portata, si prepararono a morire in quel momento; nessuna si mosse. Nessuna, tranne Makoto.
Aveva avuto una leggera sensazione già precedentemente, e successivamente aveva intuito, una frazione di secondo prima che succedesse, quello che stava per accadere. Aveva aperto gli occhi, e l'aveva vista arrivare. Afferrò le ragazze una dopo l'altra, per la vita, come delle bambole, e scattò in avanti verso il muro della camera di Usagi, spingendo con forza sulle gambe. Prese una velocità straordinaria in poco meno di un secondo. Usagi ebbe giusto il tempo di stupirsi di essere sotto il braccio di Makoto insieme a Minako, e il tempo di gridare qualcosa che avesse il suono di un « Makochan, no! » -che la guerriera di Giove aveva sfondato con la spalla il muro ed era saltata dal primo piano di casa sua con addosso solo l'armatura e con loro quattro praticamente in braccio. Il rombare dell'acqua passò loro sopra in un getto unico e potente, devastando del tutto il primo piano di quella che un tempo era stata casa Tsukino. Atterrò sulla schiena, proteggendo tutte le guerriere. Si aspettava di sentire dolore, molto. La schiena impattò con l'asfalto con forza, la sua schiena si inarcò innaturalmente. Ma il dolore non arrivò. Il suo corpo era fatto di un acciaio straordinario, ricordò mentre si alzava come se avesse appena saltato uno scalino. Quando ebbero tutte poggiato i piedi per terra, Minako strinse la penna in mano e si trasformò. Appena ebbe finito, tutte e cinque si fissarono attonite e tremanti. Ciascuna di loro, nel momento di piena, era stata investita da spruzzi di acqua un po' ovunque, bagnandosi la fuku e i capelli; Makoto le guardò con il fiatone per lo scatto.
« Tutto bene? » -Chiese alle altre mentre si appoggiava sulle ginocchia, per l'enorme sforzo dello scatto. La pioggia ticchettò su tutte loro, finendo l'opera che l'ondata aveva cominciato.
« Bene »
« A posto »
« Makochan, sei stata grandiosa »
« Sì, senza di te saremmo morte »
Makoto fece un gesto come a dire che non era nulla di speciale, ma il suo cuore batteva forte e sul suo viso si stava già allargando un sorriso compiaciuto e orgoglioso per la prontezza, e per il pericolo appena scampato. Si rivolse a Sailormercury.
« È stato merito di Ami. Se non avesse detto quella frase... » -Ami la stava fissando. Le girò intorno velocemente, ravviandosi i capelli fradici, e poi il suo viso si illuminò.
« Makoto, è straordinario. Nemmeno un graffio, e hai fatto un volo di quasi quattro metri! » -Makoto arrossì un poco, e abbassò lo sguardo. La Forza era un bel dono, non c'era che dire. Essere così forte, così indistruttibile, la rendeva sicura di se stessa e molto più convinta di poter fare qualcosa di concreto per il mondo. Di salvare quelle persone. Tutte. Di fermare la catastrofe. Tutte sorridenti, le senshi si congratularono a turno, dando pacche sulle spalle di Mako per provarne la resistenza. Rei fu l'unica che ristette. Aveva aguzzato l'udito, e aveva sentito l'acqua tornare indietro. Tutte se ne accorsero poche frazioni di secondo dopo di lei, e le loro facce si oscurarono all'improvviso; Rei aveva tutte le ragioni di credere che stesse tornando indietro, e aveva anche una … forma.
« Che... che... diavolo è quello? » -Fece Usagi, e l'indicò con la mano guantata. Tutte scossero la testa, più perché la risposta era quantomeno ovvia, piuttosto che perché non lo sapessero. Era un drago. Alto quasi il doppio del grattacielo più alto della città, stendeva un'ombra minacciosa come una colonna, su tutta l'area occupata dalle ragazze. Era fatto di acqua e di ghiaccio su alcune protesi, come i denti o le corna o le unghie. Se ne stava fermo e maestoso, enorme a dominarle, a studiarle. Man mano che l'acqua saliva, diventava più grande e il cielo più scuro. Minako pensò che questa volta una barriera avrebbe dovuto essere alta non due, non tre, ma almeno cento metri per fermare l'acqua. Acqua che spinge tutto, non è come l'aria. L'acqua si infila, filtra, e preme, con forza e durezza. È forte e subdola l'acqua, dolorosa, fredda. L'acqua se vuole non ha pietà. All'acqua dai una crepa, si prenderà tutta una casa. All'acqua dai del vento e fa un maremoto. L'acqua ti da' la vita e in un secondo può riprendersela.
I cinque respiri si fecero più regolari. Makoto sfoderò la spada. Usagi chiamò a sé lo scettro. Rei caricò l'arco. Minako roteò il suo cerchio.
Ami fu l'unica a rimanere ferma ad ascoltare. Ascoltò il battito del suo cuore andare a tempo con quello sciacquio, ascoltò il respiro condensarsi nel freddo che quell'umidità e quella pioggia stavano procurando. Tutto quello che le stava intorno la fece sentire parte del mondo, per davvero, per la prima volta. Perfettamente incastrata in un punto in cui doveva stare, dove c'era l'acqua. Non le sembrò una pessima idea, per un momento, inondare Tokyo e renderla al mare. Non le sembrò male lasciare che la Natura si riprendesse il suo mondo, creare una nuova città perfetta, un nuovo punto di incontro per tutti. Una capitale del mondo emerso che garantisse la vita anche alla Natura, senza inquinamento, senza nulla di tutti quei palazzi... Tutto governato dalla suprema essenza del Ginzuishou. L'acqua le pulsò nelle vene al posto del sangue. Restò ferma.
« Mercury-sama! Che stai facendo?! » -La voce le arrivò ovattata. Stava per voltarsi e scappare. Poi, si sentì abbracciare forte. Per un momento le mancò il respiro, proprio come se fosse sott'acqua, proprio come se non potesse parlare, scappare o anche solo muoversi. Era un abbraccio amichevole, non cattivo. Era un abbraccio che sentiva familiare, che sentiva suo. Come quello di sua madre, o quello di una sorella. Come l'abbraccio di Usagi.
« Non avere paura, Ami » -Ami si chiese come aveva fatto a non riconoscerla subito. L'abbraccio le era stato subito amico perché era il suo abbraccio.
« Sophìa... »
« Affrontalo » -Affrontarlo? Era assolutamente al di fuori di qualsiasi discussione. Non era capace, non era abbastanza forte e il suo potere era limitato. Preveggenza. Niente di più. Non sarebbe stata in grado di fare altro se non prevedere le sue mosse.
« MERCURY! » -Le arrivò di nuovo la voce di Rei, e poi- « Usagi, attaccalo! »
Ami restò ferma, inebetita, a fissare il drago con Sophìa alle spalle che l'abbracciava con le ali d'acqua. Inspira, espira. Forse era quello che intendeva con affrontalo. Forse aveva capito male, forse voleva dire... Ascoltalo. Sentì le profondità dell'oceano dentro le viscere, e improvvisamente lo sentì. Sentì che parlava, o meglio, che gorgogliava. Le gorgogliava nella testa.
« Aprigli la mente » -Suggerì Sophìa. Ami ubbidì. Aprì la testa, prese fiato, e fu sott'acqua di nuovo. Le voci delle sue compagne non esistevano più.
« Usagi, attaccalo. Adesso! »
« NO! » -Ami sollevò la mano sinistra senza voltarsi- « Non attaccare! Sta soffrendo... »
Il gorgoglìo mutò in un soffocato urlo di terrore. Qualsiasi cosa fosse quella creatura, in quel momento aveva paura. Ed era molto arrabbiata. Empatìa, ricordò Ami. Posso sentire quello che sente, posso percepire la sua paura. Sono dentro il drago, sento la sua rabbia e la sua frustrazione. Era una colpa antica ad animarla, una colpa di tutti e di nessuno. Colpa dello spreco dell'acqua, e del calore dei riscaldamenti artificiali. Colpa dell'uomo, che voleva farle del male. L'acqua la stava implorando. Ami non riuscì a trattenere una lacrima di sgomento.
« Mi dispiace » -Sussurrò.
« Ma con chi parla? » -Domandò Minako in direzione delle altre.
« Penso che... Stia parlando con l'acqua... » -Le rispose Rei.
La voce che gorgogliava nella testa di Ami divenne distinta. Potente. Le fece male come mille aghi di ghiaccio. Immaginò che la stesse attaccando, invece voleva solo parlarle. Ma forse non era abituata a un contatto telepatico di qualsiasi tipo, e lo faceva con troppa veemenza. Ami arretrò di un passo, ma non si fermò. Mantenne la mente aperta, gemendo di dolore. Fu a quel punto che Psyché poggiò una mano sulla spalla di Rei.
« Vai » -Le disse. Mars abbassò l'arco, respirando di paura, tremando di freddo e di insicurezza. La voce di Psyché la guidò fino da Ami.
« Coraggio » -Le disse quando l'ebbe raggiunta- « Sono qui ».
Impose le mani e dimezzò il suo dolore, afferrando i serpenti per la coda, lasciandosi mordere. Il senso di sollievo che pervase Ami fu un toccasana. Finalmente, la voce del drago si aprì nella sua testa come una bomba che esplode all'improvviso.
Vi stiamo avvertendo.
Ami affondò le mani nel terriccio, abbassandosi a terra per trovare sollievo.
Vi distruggeremo.
Perché?
Voi avete distrutto noi.
No, non è vero.
Abbiamo bisogno del mondo.
C'è un'armonia che possiamo trovare.
L'abbiamo cercata a lungo. Non esisterà.
Sì, esisterà, vi aiuteremo. Non desideriamo una Catastrofe.
Il Destino ha parlato.
Il Destino non esiste.
Noi distruggeremo ogni cosa.
Noi combatteremo.
« Usagi, attaccalo adesso! » -Intimò Ami voltandosi di scatto. Il potere della purificazione non gli avrebbe fatto del male, gli avrebbe fatto capire che l'armonia esisteva. Che poteva essere trovata. Usagi non si mosse- « Usagi! »
Lo scrosciare della pioggia e il rombo del tuono coprì il suo grido. La vide con gli odango afflosciati, fissare quell'enorme drago. La vide prendersi il viso, ed esitare. Restare ferma. Grottescamente, il drago rise di lei nella sua testa, facendola piegare su se stessa in un conato di vomito, un senso di nausea inaspettato che le attanagliò tutto il corpo, come una vertigine improvvisa. La pioggia cominciava a correrle giù per la fuku. Era inerme. Si voltò di nuovo a cercare le sue compagne e vide di nuovo Makoto prendere l'iniziativa nel momento in cui la voce le tuonava nel cervello.
Vedrete cose più grandi di questa.
« Supreme Lightning! » -Aveva affondato la spada nel terreno fin quasi all'elsa. L'acqua conduce l'elettricità... Il pensiero della fisica in quel momento la fece ridere e sobbalzare al tempo stesso. Il drago fu percorso da una luce tanto accecante da risultare inguardabile. Muggì di dolore nella testa di Ami, animalescamente. Ami vide le scintille riflettersi su tutta la sua superficie in entusiasmanti fuochi d'artificio, colori splendenti e luci così forti che pareva che il buio della mattina presto fosse stato dissipato. Frizzavano, scoppiettando lungo tutto il corpo di quell'enorme creatura. Tutte si portarono una mano davanti alla faccia, contemporaneamente, mentre una diffusa carica di energia faceva accendere tutte le luci dei palazzi, suonare tutti gli allarmi delle macchine in una insopportabile nenia. Minako scattò verso Rei ed Ami.
« Indietro, ragazze! » -Il drago si piegò su se stesso, grottescamente, come se non riuscisse a reggersi in piedi. Poi, si lasciò andare, una colonna che cade, un pilastro che cede. Un'onda che si frantumò sulle vie della città.
« Sophìa, scudo di saggezza! » -La nemesi di Ami allargò le mani, e creò per loro una grande cupola simile ad una bolla di sapone. A vederla, non si sarebbe detta così resistente perché non solo fermò la pioggia, ma anche il maremoto che si era appena abbattuto sulla città. Quando l'acqua sparì, anche Sophìa e Psyché erano andate via.
Al loro posto, un sole timido e freddo si fece spazio a gomitate fra le nuvole grigie. Qualche allarme diede ancora dei segni di vita, lontani. Le luci tornarono piano a spegnersi. L'alba si prese con violenza la notte e la portò via.
Ami pensò che se le avessero lasciato il sole, allora tutto il resto poteva morire. Fradicia e sfinita, si accasciò nel fango.

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Capitolo 18
*** Giorno Due ***


17 ~ Giorno due
Il secondo giorno la battaglia è verbale. Non è fisica, perché la Natura da' tregua. O forse, si lecca le ferite anche lei. La battaglia è una battaglia che cerca la scelta giusta in mezzo a mille sbagliate, una tortuosa decisione da prendere. È una battaglia nello spirito, per trovare la convinzione che sia giusta la strada che si percorre. Perché chi non crede che la strada che sta percorrendo porti in un posto migliore, presto smetterà di camminare.

 

« Si può sapere che ti è preso? » -Le lanciò Rei. A Usagi sembrò una freccia del suo arco, tanto che si rannicchiò su se stessa come un riccio che cerca di nascondersi dietro i suoi aculei. Rei non si lasciò intimidire in ogni caso, e alzò il tono della voce di un'ottava al costo dello stridulo- « Allora? »
Minako entrò in quel momento con un vassoio su cui aveva ordinatamente poggiato cinque tazze piene di quello che sembrava caffè americano. Dal soffitto, una goccia cadeva a intervalli regolari sul pavimento, formando una piccola pozzanghera.
« Prendo i biscotti » -Fu il suo commento per rompere il silenzio che Usagi stava violentando con un grattante rumore di unghie su quello che rimaneva del copri divano. Rei la stava ancora guardando. Makoto guardava il pavimento. Ami era seduta per terra, pallida e stremata. Questa volta, nessuna aveva dormito. Nemmeno una.
La cucina aveva un buco enorme nella finestra, provocato dall'acqua. Avevano impiegato fino alle sei, per rimettere a posto tutto quel marasma. Avevano spazzato, tolto i vetri e tentato di riparare il riparabile. Minako aveva rifatto del tutto il soffitto e la parete che Makoto aveva sfondato. Si era riservata di fare la cucina più tardi. L'unico punto che le era sfuggito, gocciolava insistentemente sul pavimento. Poggiò sul tavolo il vassoio con le cinque tazze e lanciò a Rei un'occhiata eloquente. Lei prese in mano una delle cinque e un biscotto, e dopo avercelo inzuppato distolse finalmente gli occhi roventi da Usagi. Ami si strinse al petto la sua; non si poteva dire che facesse caldo, in quelle ore, e il piacevole tepore del caffé le riscaldò tutte. Alla fine, fu di nuovo Minako a parlare per prima, in quella malandata e mal riparata sala riunioni; al centro del tavolo troneggiava il suo solido di Silicio Policristallino a forma di cuore. Sembrava ancora pulsante e caldo.
« Usagi, vuoi dirci che è successo? » -Domandò con garbo, prendendosi il tempo di un altro sorso di caffé- « Perché non hai attaccato il Drago, quando Ami ti ha chiesto di farlo? »
Usagi serrò di più le dita intorno alla sua tazza. Minako aveva usato il servizio buono, l'unico che si era salvato. Tutte le tazze erano di un colore azzurro pallido, con un motivo di fiori di pesco. A Usagi fece pensare a casa. La sua casa, quella che era un tempo. Senza buchi nel soffitto, con i rumori molesti di Shingo e le urla di sua madre. Con la sveglia e con il suo letto caldo, non con un cerchio sgangherato di sedie e un fuoco incrociato di sguardi. Eppure, si rese conto, quella era casa. Le sue amiche. Non si lasciò sfuggire una lacrima che premeva negli occhi azzurri, e cacciò il bruciore della gola indietro, deglutendolo con un sorso di caffé bollente. Perché era una parola che la paralizzava. Perché non la sgridavano e basta, come sempre? Perché pretendevano da lei spiegazioni, le domandavano il motivo? Proprio a lei, alla più buffa pasticciona incapace di usarle, domandavano parole. Non gliele voleva dare, non ne aveva da dare. Non aveva idea di come spiegare il bozzolo che le aveva frenato il cuore in quei momenti. Non poteva spiegarlo, o forse non voleva farlo. Decise di provarci.
« L'ho sentito soffrire. Non volevo... Non volevo... fargli... male... » -Disse, e basta. Rei fece un gesto esasperato. Makoto lo tramutò improvvisamente in parole. Non arrabbiate, non alte. Non stridule. Calme e pacate, e che a Usagi fecero molta più paura di qualsiasi urlo precedente.
« Ascolta, Usagi. » -Allungò una mano e raggiunse il suo ginocchio- « Ci siamo tutte dentro. Sappiamo bene quanto sia difficile, per ciascuna, combattere il proprio elemento o comunque, in qualche modo... La Natura che dovrebbe amarci, che ci ha dato la vita... » -Si interruppe un momento per guardarla negli occhi lucidi- « Ma non possiamo permetterci che tu te ne vada. Dobbiamo sapere di poter contare su di te, questa volta. Questa volta, non puoi davvero abbandonarci di nuovo. »
Usagi gelò. Sussultò ed ebbe voglia di abbracciare Makoto.
« Mako-chan ha ragione. » -Aggiunse la voce di Rei- « Questa volta non possiamo permetterci nessuna distrazione. Nemmeno una. Se abbiamo deciso di fermare la Catastrofe, allora dobbiamo essere certi di avere Voluntas con noi. »
« E se non potessimo fermarla? » -Quattro paia di occhi si puntarono su di lei. E lei sollevò i suoi, azzurri e fieri, su ciascuna di loro- « Se questa fosse una vana battaglia? Stiamo facendo soffrire molto la Natura esattamente come gli uomini hanno fatto prima di noi. Cosa abbiamo di meglio da offrirle? Forse dovremmo salvare il salvabile. Ricreare Crystal Tokyo. Ammettere la sconfitta. » 
Per un minuto, ciascuna di loro soppesò la possibilità. Abbandonare il campo almeno in parte significava mettere in salvo tutti quelli a cui davvero tenevano. Prendersi venti giorni per riunire le forze e per prepararsi a creare le tombe di cristallo che le avrebbero protette fino alla fine della grande Catastrofe. Fino all'inizio del mondo che sarebbe venuto. Ciò cui stavano dicendo no con forza era un Destino scritto che ciascuna di loro aveva veduto sotto gli occhi. Fermare la Catastrofe poteva significarne uno peggiore. E soprattutto, provarci senza riuscirci poteva significare solo morte. Per tutti.
« Forse Usagi non ha tutti i torti » -Espresse Minako con chiarezza quello che tutte stavano pensando- « Forse dovremmo usare questi poteri almeno per evitare una morte totale... »
« Secondo me stiamo pensando in modo estremamente egoista » -Sottolineò invece Ami- « Perché chiami morte il grande trionfo di natura che ti ha donato la vita? Un mondo senza città forse sarebbe più vivo di quanto non sia adesso. Io l'ho sentito, quel drago. Rantolava. Faticava a respirare. E se l'acqua sta morendo, forse qualcosa che non va c'è. »
La stanza piombò di nuovo in qualche momento di silenzio. Ciascuna fece una riflessione su quell'ipotesi di resa sottobanco. Sdraiamoci tutte e dormiamo. Aspettiamo la morte, diceva quella frase. Potremmo vivere ancora, pensò Makoto. Forse nella prossima vita poteva essere un albero al vento, avrebbe vissuto per mille anni e mille ancora. Fuori, il pastello dell'alba annunciava per la prima volta dopo molti anni aria pulita. L'aria che si respira senza che nemmeno una macchina abbia camminato. Senza che nemmeno un aereo abbia volato. Il mondo stava tirando davvero un sospiro di sollievo. E Makoto poteva capire perché non si sarebbe arreso a nessun compromesso. Sentiva i suoi figli morire. Guardò la pancia di Usagi. Le sue motivazioni non erano poi tanto folli. E tuttavia, lasciar morire molte altre persone in ogni parte del pianeta non poteva che farle storcere il naso. Non negò d'essere combattuta. Desiderò Areté al suo fianco, per avere la forza di scegliere. La voce di Rei interruppe le sue riflessioni.
« Psyché ha detto con chiarezza cosa ci aspetta se ci proviamo. Non siamo forti abbastanza da ricreare Crystal Tokyo. Possiamo solo combattere e sperare che i nostri star seed non ci abbandonino... Possiamo solo stare insieme » -Usagi scosse leggermente la testa. L'idea di essere regina non era ovviamente la prima delle sue priorità. Anzi, probabilmente era una di quelle cose di cui avrebbe fatto volentieri a meno. Ma temeva davvero che un fallimento l'avrebbe uccisa, insieme a Chibiusa. Era lei, in fondo, il fulcro di tutto. La sua nuova vita, no? Sua figlia doveva vedere un mondo migliore, uno che fosse degno di essere veduto e vissuto così come aveva fatto lei. Voleva per lei delle amiche. Voleva per lei una vita in cui ridesse e piangesse proprio come qualsiasi ragazzina normale. Non voleva che avesse un passato come il suo, non voleva che dovesse soffrire per Helios, che dovesse vederlo morire o veder morire chiunque altro avesse amato, come era toccato a lei. Non intendeva per nessun motivo fare una scelta che avrebbe rovinato il mondo. Perché desiderava consegnarlo a sua figlia in tutta la sua interezza. Restò in silenzio. Minako si prese la parola.
« Ma per combattere, Usagi, abbiamo bisogno di te! Non possiamo credere che un giorno Voluntas verrà meno, o che tu non sarai forte abbastanza per uccidere o per salvare una vita... » -Usagi gemette, senza riuscire a trattenere tutte le lacrime che aveva ricacciato indietro fino a quel momento.
« Non sono abbastanza forte... » -Voluntas le aveva dato forza di vivere, ma il terribile peccato che le gravava sull'anima ancora la permeava del tutto, penetrandole nella pelle e rendendola fragile, vulnerabile, come di cristallo.
Ami la fissò, e lo fece così intensamente che Usagi ebbe l'impressione di essere trafitta da lame di ghiaccio. Tutte la guardarono. Per un attimo ebbe paura che sarebbe successo come quel giorno lontano e vicino, sul marciapiede. Invece, una voce si levò su tutte.
« Tu sei stata la nostra forza, un tempo. Adesso, vogliamo essere la tua » -Come non erano state in grado di fare per otto lunghi anni- « Il nostro compito è proteggere la Princess. È quello che abbiamo sempre fatto, e sarà quello che tutte noi faremo sempre. » -Makoto serrò il pugno sinistro e se lo portò sulla spalla destra, rizzando la schiena. A una a una, tutte le ragazze la seguirono, la imitarono. Si trovarono tutte affiancate, di fronte ad una Usagi che per la sorpresa aveva smesso di piangere; grottesche, con un'espressione di granito sul volto, quattro ragazze menomate le promettevano di combattere per lei. Di fermare una Catastrofe decisa dal Destino. Chi era, lei, per venire meno ad una così antica promessa?
Si sollevò lentamente, sulle ginocchia. Appoggiò la tazza sul tavolino, e si sollevò dritta sulla schiena. Non voleva supplicare, anche se lo sporco sulla faccia aveva lasciato che le lacrime le solcassero il viso, come una maschera di guerra. Non si preoccupò di cancellarne i segni. Al contrario, fieramente sollevò il mento e guardò le ragazze, una per una, questa volta senza averne paura. Promise a se stessa e a Chibiusa che non avrebbe lasciato un mondo morente. Che avrebbe trovato un modo di fermare la Catastrofe e che poi avrebbe anche trovato un modo di salvare la Natura. Che ce l'avrebbe fatta. Anzi, che ce l'avrebbero fatta. Sopra la pancia gonfia, sollevò il braccio sinistro con la mano stretta a pugno.
Se la batté sulla spalla destra.
« Noi siamo le Inner Senshi. Niente ci ha mai fermato. Niente ci fermerà. Vinceremo. » -Voluntas fu fiera di lei.

~

Areté era inquieta. Di nuovo. Sophìa quindi non si soffermò più di tanto sul fatto che avesse appena perso la sesta partita di scacchi consecutiva. Non che di solito ne vincesse –o anche solo pattasse- nemmeno una. Ma almeno, di solito, ci volevano sei ore. In mezz'ora l'aveva sbaragliata in modi che erano assurdamente stupidi anche per una principiante.
« Scacco matto » -Annunciò stancamente. Se ne stava seduta sul nulla, i suoi capelli vagavano per il piano astrale come onde. Appoggiò il gomito su un niente più solido e si rivolse alla sua compagna con più serietà- « Che hai che non va? »
Areté osservò la posizione del matto cercando di svicolarne. Forse Sophìa si stava sbagliando, per quanto raro fosse. Quella sesta partita le pareva di averla giocata un po' meglio, ma evidentemente il suo cervello la ingannava. Aveva fatto di nuovo fiasco. Si arrese all'evidenza e fece schioccare il dito sul Re bianco, che cadde con un tonfo addosso alla sua regina.
« Niente, pensavo alle ragazze. » -Allargò le braccia e si stirò, il sovraccarico molto meno evidente dell'ultima volta. Chi di loro non ci pensava? Un'allegra Kalìa le piombò alle spalle improvvisamente, gridando qualcosa di sconosciuto e aggrappandosi al suo collo e tirando per farla cadere. Inutile dire che Areté non si spostò di mezzo millimetro, ma si voltò lentamente per vedere chi fosse l'autore di quell'attacco indesiderato. Kalìa scese dalla sua schiena con l'espressione di un cane a cui sono appena stati negati dei croccantini.
« Qualche volta puoi anche fare finta di cadere » -Le disse lamentosa.
« Non oggi, Kalìa. Non oggi »
« Uffa » -Sbuffò lei- « Di che stavate parlando? » -Chiese con il suo fare luminoso e divertito mentre notava la scacchiera e il Re bianco rovesciato in una posa innaturale a ridosso della Donna. Sorrise- « Hai perso di nuovo. »
« Ah, stà zitta » -Sophìa ridacchiò.
« Ti sconsiglio di provocarla oggi, Kalìa. Potresti dover meritare un colpo di spada sul collo. O in faccia. Non sarebbe piacevole »
« Non rovinerebbe mai il mio bel faccino » -Areté sfoderò la spada con un'espressione cattiva, ma si vedeva che sul fondo nascondeva un sorriso.
« Vuoi scommettere? » -Scaturirono un paio urli e di risate fintamente maligne che spaventarono Psyché; la Nemesi accorse subito a vedere cosa stesse succedendo. Alla vista di Areté con la spada sollevata su una Kalìa scossa dalle risate e dalla paura fasulla, scosse la testa in disappunto.
« Che diavolo state facendo? » -Areté si voltò di scatto e si nascose la spada, grande due volte lei, dietro la schiena. Usciva da sopra la sua testa di un metro, ma lei sorrise come se non fosse assolutamente un problema. Sophìa si fece seria a una velocità superiore a quella della luce. Kalìa ci provò senza successo, scossa da risate silenziose più somiglianti ad un vago singhiozzo. Psyché si risparmiò la predica. Tanto, non sarebbe servita a niente. L'ottimismo che ultimamente prendeva tutti era un buon segno, tutto sommato, e aveva lei stessa visto le ragazze riunirsi poco prima. Insomma, forse qualcosa cominciava a funzionare. Si lasciò andare a un mezzo sorriso e si sedette accanto a Sophìa. Si rese subito conto che, nonostante il siparietto a cui aveva appena assistito, Areté era piuttosto strana e decisamente irrequieta. La posizione sulla scacchiera, con quel Re buttato a terra con secchezza, era prova ulteriore di quella sensazione. Nemmeno lei sarebbe riuscita a perdere in modo così platealmente idiota.
« Che cosa ti turba, Areté? » -Kalìa si era ricomposta e si era seduta con loro. Della risata di prima era rimasto solo un singhiozzo. Vero, però. Areté piantò la spada nel piano astrale e si decise a parlare.
« Pensavo alle ragazze » -Cominciò per la seconda volta- « Non siamo sovraccariche, ma Voluntas per una volta non ce la racconta giusta. »
Kalìa singhiozzò e fece un mezzo saltello. Psyché sgranò gli occhi. Sophìa non fece una piega. Tutte, con il loro silenzio, l'esortarono a continuare il discorso; la ragazza non le deluse. Prese a tirare i pezzi in piedi mentre parlava, rimettendoli nelle loro originali posizioni.
« Ecco, il fatto è che Usagi non ha tutti i torti. Il Destino parla, e parla chiaro. Distruggere una linea temporale, così... Sconvolgerla per sole cinque persone... Non so se è così giusto. Magari la natura dovrebbe fare il suo corso. O magari con impegno potremmo ricostruire Crystal Tokyo. » -Finì di aggiustare l'ultimo pedone bianco e rigirò la scacchiera. Toccava a Sophìa il bianco, e a lei il nero. Le piaceva di più, anche se sapeva che il bianco aveva un notevole vantaggio. Sophìa mosse distrattamente il primo pedone.
« Non possiamo... tenere... il piede in due scarpe... se mi capite... » -Partì Kalìa con un singulto ogni tre parole. Il proverbio non aveva nessuna contestualizzazione attuale, le Nemesi la guardarono con perplessità. Lei sbuffò, come se non avessero appena capito la cosa più facile del mondo, e con la pazienza di una maestra si apprestò a spiegarla- « Insomma... Voglio dire che... » -Un colpo sulle spalle la fece saltare di tre metri e perdere il respiro per qualche secondo. Areté le fece segno con il pollice.
« Adesso è passato. » -Kalìa la guardò con il terrore negli occhi, mentre muoveva l'alfiere. Areté se ne accorse e le sorrise- « Continua pure. »
Lei si prese un momento per fare la stizzita. Poi riprese il filo del suo discorso.
« Voglio dire che non possiamo scegliere entrambe le strade. O decidiamo di fermarla, o ci mettiamo a costruire una città che con tutta probabilità non esisterà mai, e se la Natura ci vince... Le riconsegniamo il mondo »
« E moriamo? » -La domanda di Psyché lasciò tutte un momento sbigottite. Sophìa finì di catturare un pedone, e poi si espresse in un mugolio che raccontava perfettamente tutta la sua perplessità.
« Senza umani, non siamo niente. » -Puntualizzò enciclopedicamente- « Tecnicamente sì, moriamo. Ma non la vedrei in questo modo. La vita è mutevole, e dovremmo ringraziare di questi anni insieme, non lamentarci se dovessero finire. Ci sarebbe nuova vita per noi, sono sicura. »
« Vuoi dire tipo resurrezione? » -Provò Kalìa.
« Voglio dire tipo rinascita »
« Vuoi dire tipo resa » -Sottolineò Areté. Sophìa restò zitta mentre Areté mandava avanti la Torre ad occupare una colonna aperta, visualizzando con precisione il suo piccolo campo di battaglia. Più Makoto diventava determinata, più sentiva la forza fluire via da se stessa. Si sentiva solo un'ombra, una custode. La verità era che quando era sovraccarica si sentiva un corpo. Utile. Adesso, sempre di più, era una fiasca vuota. L'unica cosa che poteva davvero fare era stare accanto a colei a cui dava vita. L'unica cosa che potevano fare, tutte, era proteggere nell'ombra. Vivere nascoste, come avevano sempre fatto, senza combattere. Senza entrare nel vivo dell'azione. Forse per lei combattere la Catastrofe era un modo per uscire da quel limbo fatto di Scacchi e di luce, e di parole e di siparietti comici. Sophìa le rispose istantaneamente prendendosi un suo Cavallo. Areté lo riprese con la Donna. Qualcosa le sfuggiva, sia dal campo che dalla scacchiera.
Psyché osservò la posizione ma rinunciò presto a una qualsiasi riflessione; a scacchi, non era affatto buona. Kalìa al contrario sembrava tutta presa ad elaborare strategie complesse e a dare suggerimenti una volta a destra, una a sinistra. Sophìa li smentiva tutti con garbo. Areté rimaneva in silenzio a pensarci. Poi, non li seguiva.
« Areté, non sempre la battaglia è combattimento. » -Areté sollevò la testa. Come aveva fatto a intuire quello che stava pensando? Ricordò che Sophìa aveva il dono dell'Empatìa. Pensare troppo, in sua presenza, era dannoso. Scosse la testa.
« Allora vuoi arrenderti, ho ragione » -Sophìa non disse nulla. Fece la sua mossa con calma, e poi guardò Areté.
« No, non voglio arrendermi. Ma comprendo la grande sofferenza che una grande scelta comporta. E sono sicura che la comprendi anche tu. La battaglia è anche strategia. La battaglia è anche tempo. La battaglia è anche posizione. » -Areté sospirò e portò la donna al centro del piccolo piano di gioco. Psyché e Kalìa guardavano estasiate, da una parte all'altra, aspettandosi un finale al cardiopalma.
« Sono filosofie da scacchiera. La battaglia è distruzione. La battaglia è impatto. La battaglia è fuoco. » -Psyché non era d'accordo con Areté anche se ne comprendeva le motivazioni. Anche lei voleva essere una nemesi attiva, anche lei avrebbe voluto aiutare Rei molto meglio che non stupidi consigli sussurrati. Avrebbe voluto alleviare meglio il suo dolore, che camminasse meglio nei suoi passi. Avrebbe voluto essere per lei necessaria. Invece, come Areté, si sentiva inutile e frustrata. Kalìa saltò su all'improvviso, in un modo che sorprese tutte e tre.
« Anche il Destino è una filosofia da scacchiera. Chi ha detto che l'alfiere si debba muovere in diagonale? Limitate di molto la sua personale libertà »
« Se non ci fossero regole da rispettare, Kalìa, ogni cosa cadrebbe in mano a Chaos. E sarebbe male. » -La corresse Sophìa con un sorriso scuotendo il dito, e fece la sua mossa.
« Era solo una metonimia, Sophìa! » -Sbuffò.
« Una metafora? »
« Sì, sì, e io cosa ho detto? Insomma, io non voglio muovermi solo in diagonale! » -Si lamentò con forza- « Io il Destino lo voglio sconfiggere. Non è di questo che stiamo parlando da otto anni? Di sbaragliare il Destino? Di muoverci come vogliamo e non come qualcuno ha deciso? » -Areté volle bene a Kalìa per quelle sgangherate parole. Sorrise divertita. Pscyhé ridacchiò, e Sophìa si prese la parola.
« Sì, è vero. È quello che desideriamo ma... non dobbiamo dimenticare quello che siamo. Anche io voglio cambiare il Destino, ma voglio anche fidarmi di Ami. Voglio che sappia che se cadrà, la prenderò. Forse voi credete che loro abbiano bisogno di principi o di armature scintillanti, ma non è questo il punto. Vi sbagliate. Hanno bisogno di qualcuno che attutisca la loro caduta quando sbagliano. » -Areté si fermò su quelle parole, mentre muoveva ancora il Re bianco sotto scacco. Improvvisamente, Sophìa non le sembrò tanto debole. Non le sembrò una persona arrendevole. Nei suoi occhi vide una caparbia determinazione che poteva essere anche più forte della stessa sua. E capì che forse, sulla battaglia, si sbagliava.
« Ed è così, che voglio fermare la Catastrofe. È così che voglio vincere. Ed è così che vinceremo » -Sophìa spostò la donna- « Scacco » -Areté prese il Re e lo spostò a destra- « Scacco Matto. »
Kalìa scoppiò in un grido ammirato, mentre Areté spalancava la mascella e Sophìa faceva cadere il suo re con l'indice, e saltellò battendo le mani. Psyché annuì con forza. E nemmeno la grande veemenza di Aretè poté contenere quelle parole. Se la battaglia è strategia, allora con Sophìa al loro fianco erano a cavallo. Le diede uno sguardo di approvazione, e lei capì. Con Sophìa nei paraggi, un pensiero era perfino troppo. Una quinta voce si unì ai gridolini di vittoria e di festa.
« Cosa state combinando, ragazze? » -Domandò Voluntas.
Tutte diressero gli occhi verso la loro leader, nello sguardo l'espressione del bambino appena pescato a rubare le caramelle o con le mani sporche di fango. Ci fu un momento di intesa. Kalìa sollevò le spalle.
« ...Niente! »

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