Gates of Gods - Tracklist I: Hiddenworld

di Eirien
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Track #00: New York, New York ***
Capitolo 2: *** Track #01: Welcome to the jungle ***
Capitolo 3: *** Track #02: Labyrinth ***
Capitolo 4: *** Track #03: Drive ***
Capitolo 5: *** Track #04: Walk On ***
Capitolo 6: *** Track #05: The Spirit Carries On ***
Capitolo 7: *** Track #06: Hammer To Fall ***
Capitolo 8: *** Track #07: Something To Believe In ***
Capitolo 9: *** Track #08: On The Turning Away ***
Capitolo 10: *** Track #09: Half A World Away ***
Capitolo 11: *** Track #10: Time Of Your Life ***
Capitolo 12: *** Track #11: Losing My Religion ***
Capitolo 13: *** Track #12: Sometimes You Can't Make It On Your Own ***
Capitolo 14: *** Track #13: Friends Will Be Friends ***
Capitolo 15: *** Track #14: In The Shadows ***



Capitolo 1
*** Track #00: New York, New York ***


Track #00: New York, New York

TRACK #00

NEW YORK, NEW YORK

New, new, new, ah
New, new, new, ah
New new york skyline
Wounds they heal in time
Don't crawl and don't despair
It's a new new york today 

(Cranberries)

Isola di Manhattan, tarda primavera. Uno spettacolo che faceva male agli occhi. Che si trattasse del verde dei parchi, della luce che si rifletteva sui grattacieli e rimbalzava sui marciapiedi, o del puzzo degli scarichi che saliva dalle acque provate dell’East River, nessuno sembrava immune al fascino di quella combinazione magica di umano troppo umano e di tenace natura che, a dispetto di tutto, ancora non rinunciava a tentare di dire la sua su quel formicaio a cielo aperto. L’uomo si consegnò al sole di quel maggio invadente, attraversando in fretta la United Nations Plaza ,il Palazzo di Vetro alle spalle, indirizzando un rapido ringraziamento a qualche vaga divinità per la fine di quell’inutile riunione, e dei complimenti molto più sentiti a se stesso per aver volto in proprio favore quella che all’inizio era sembrata l’occasione giusta, per i suoi denigratori, per sfilargli via il progetto sul quale aveva puntato tutti i suoi sogni di carriera. Cinico e irresponsabile, l’avevano chiamato. L’avevano buttata sul patetico. “I bambini, certo. Bisogna pensare ai bambini." Accese un sigaro, uno dei suoi cubani preferiti.
Certo non quei bambini, come destinatari di una inutile pietà alla Dickens. Piccoli bastardi, soprattutto ora che si erano lasciati l'infanzia alle spalle, carne da macello buona soltanto a costruirsi un trampolino per il gradino successivo della scalata.
Anche se quel povero coglione di Rothstein non l’ha mai pensata nel modo giusto.”
Esalò una lunga boccata, che non si rivelò piacevole quanto si era aspettato. Già, Rothstein. L’imbecille cui doveva la sgradevole attenzione dei propri superiori.
"Ipocriti.Ci siete invischiati tanto quanto me.”
Giunto a bordo strada, salì su taxi. E si guardò attorno, per circostanza, per abitudine, per una sorta di vago fastidio alla base della nuca al pensiero dell’appuntamento che l’aspettava.
Nulla fuori posto, neppure un fremito nel vento.
Eppure, non riusciva a sentirsi tranquillo.
Scese dal taxi a Battery Park e percorse con calma il tragitto prestabilito, il passo sicuro e ritmico del militare di carriera e la sicurezza di chi ha faccende estremamente importanti di cui occuparsi. La folla sembrava aprirsi al suo passaggio, infiniti turisti sfaccendati e impiegati nullafacenti in pausa pranzo, utili, per l’ordine delle cose, quanto mosche attorno alla criniera di un leone. Incenerì con lo sguardo un incauto fattorino della pizza, colpevole soltanto di averlo urtato, bastò un cenno perché si dileguasse in un lampo. L’uomo sorrise con cattiveria: la paura degli insetti l’aveva sempre divertito. Era giunto a destinazione prima del previsto, le istruzioni erano state estremamente precise: un punto a suo favore. 

“15:00, molo 11.”

“All’imbarco del traghetto per Liberty Island. Mi prende in giro? E come dovrei trovarla, di grazia?” 

“Il carretto degli hot dog.” 

“Sarà lì a vendere hot dog?” 

“No, ma se me ne comprerà uno non gliene farò una colpa. Non porti nessuno con sé, e non tenti scherzi. Me ne accorgerei.” 


L’uomo si concesse un breve sogghigno, sfiorando con noncuranza l’arma che riposava nella fondina regolamentare, proprio sotto l’ascella. "Credici pure, se ci tieni. Ma io non lascio mai che sia qualcun altro a dettare le regole." 

— Oh, ma io sono convinto che siamo soli, signore — lo sorprese una voce ironica, in un inglese dalla pronuncia studiata e volutamente priva di inflessioni. — Almeno da quando ho convinto i suoi scagnozzi a lasciarci la nostra intimità. Non tema, — chiarì, con tono esageratamente cordiale — non dovrà sostituirli. Le serviranno, quando il nostro affare sarà giunto in porto. — 

"Silenzioso, l’amico. E intuitivo." Non si voltò, non subito. Lo seccava fargli capire che l’aveva colto di sorpresa. — Ammesso che ci sia un affare da concludere, giovanotto. — Ribatté, piccato. – La nostra conversazione telefonica è stata promettente, ma nulla di più. — 

— Teme forse che non mantenga le promesse, Colonnello? Lei mi offende. — Lo sentì sorridere, mondano e sfacciato. Estremamente irritante. — Ho forzato diverse porte per proporle questo accordo, se capisce cosa intendo. — Continuò, in un tono di gelido veleno che moltiplicò l’inquietudinedell’uomo più anziano. — Non sono il tipo di persona che ami perder tempo, dovrebbe averlo capito. — 

— Abbiamo dei punti in comune, allora. Ma non è mia abitudine stringere patti col diavolo finché non ho ben chiaro cosa gli sto promettendo. — 

"Allora non si agiti inutilmente, e prenda il traghetto. Appena ci saremo mossi, saprà tutto." 

A quella direttiva, esplosa direttamente nel suo cervello, l’uomo trasalì con violenza. Gli occhi saettarono rapidi a destra e sinistra, sondando in fretta ognuna delle postazioni cui lui stesso aveva assegnato un cecchino esperto. Benché fossero troppo lontane per esserne certo, aveva l’agghiacciante sensazione che neppure uno solo dei suoi angeli custodi fosse più al suo posto. 

— Che razza di… fenomeno da baraccone sei, tu? — sibilò, tentando di nascondere il timore. Nel corso delle sua carriera ne aveva viste di cose strane, certo. Ma sempre alla giusta distanza e mai privo del conforto di una 357 magnum. Con la mano sfiorò la fondina, il presentimento divenne certezza. "Me l’ha sfilata, il bastardo. E io non me ne sono accorto." 

— Un fenomeno che è il caso di non mettere alla prova con tentativi di doppio gioco, d’ora in poi. — Una mano si posò amichevole sulla sua spalla, costringendolo a fissare la folla davanti a lui. — Sorrida, Colonnello, e sia buono, paghi anche il mio biglietto. Stiamo andando in pellegrinaggio al Santuario della Libertà. In onore di questo enorme pupazzo di rame, le spiegherò come potrà plasmare la sua fortuna. — 

La pistola scivolò nuovamente al suo posto, quasi animata di vita propria. Il suo futuro socio in affari gli permise di guardarlo in faccia, finalmente, una mano tesa sotto uno sguardo penetrante. — E quando siederà in cima alla montagna, le assicuro che il mio compenso le parrà assolutamente irrilevante. — 









Angolo della vergogna™


Signore e Signori, Lords and Ladies, Mesdames et Monsieurs, in perfetta buona fede e lucida follia, qui di seguito 5 ottimi motivi per non leggere questa storia: 
  1. E’ una follia. Antichi Portali, spie, complotti e personaggi che non sono chi vogliono far credere… come se la trama di Kurumada non fosse abbastanza delirante di suo. La storyline che ho deciso di seguire è quella dell'anime, a proposito. 
  2. Un discreto numero di ‘licenze poetiche’ (leggasi, ca..ate): a partire dall’età dei protagonisti. Alcuni li ho invecchiati di pochi anni, altri di più, per esigenze di copione. Non me ne voglia Zio Masami, ma è evidente che lui non ha la più pallida idea di come si comportino dei tredicenni. E neppure dell’età minima per portare una quinta di reggiseno.
  3. OOC (spero limitato e giustificato, almeno quello): del resto, se avrete il coraggio di andare avanti, noterete che è inevitabile, legato alla natura di AU di questa storia.
  4. Presenza di personaggi originali, che cerco di non rendere delle Mary o dei Gary. Impresa disperata, la mia, in una ambientazione dove pure il più sfigato dei personaggi e il più dimesso dei servi frantuma le rocce a mani nude, si dimena come un contorsionista e sa sbucciare dei perfetti spicchi di mela a forma di coniglietto, ma non mi sono ancora arresa. Una cosa ve la garantisco: nessuno di loro sconfiggerà Saga, diventerà Gran Sacerdote o Cavaliere d’Oro. Questo l’ha già raccontato Kuru oppure altri autori che hanno svirgolato in quella direzione, sicuramente meglio di quanto potrei fare io. Quindi… Anche se l’idea del buon Alex (pg originale, appunto) stravaccato sul trono della Tredicesima con un monumentale cannone in mano, novello Caligola che nomina primo ministro una rigogliosa pianta di maria… *si picchia il notebook in testa per far uscire questa lollosa idiozia* 
  5. Sulla scia del punto 4: Kelly. Mi spiace, mi è uscita così, con la Mariasusannite incipiente, sul limite del galoppante (ho fatto il test online, so di cosa parlo). Perdonatemi, se potete. Non ha gli occhi del mio colore, non è come vorrei essere io (a parte l’altezza, ma lì farei cambio anche con Seiya). Mi serviva soltanto un pg originale per usare un punto di vista diverso, ma vicino ai bronzini. Mi serviva un altro personaggio, esistente ma poco presente, e quel povero disgraziato di Camus mi è sembrato perfetto (dopotutto il suo ruolo nell’anime, fino alla disfatta di Saga, è stato del tipo ‘veni, vidi, mori'). Che poi quei due squinternati abbiano cominciato a litigare non appena li ho infilati nella stessa pagina, dipende da me solo in parte… giuro. Ma l’ho pagata, sissignori. Il francese di carta vuole la mia testa (e infesta il mio armadio) dal 2004. L’ho solo pregato, quando giungerà il fatale momento, di mandarmi Milo e la sua Cuspide…




Ci siete ancora? coraggiosi!
A questo punto, ecco l’unico buon motivo che avessi per scrivere queste quattro fesserie. Per dirla con Eco, avevo soltanto voglia di raccontare una storia. Che mi ronza in testa da quando hanno trasmesso per la prima volta i Cavalieri in TV (sì, sono vecchia e l’ho visto su TeleNorba) e ancora non sapevo neanche cosa fosse un manga, tanto meno quello partorito dal Maestro che disegna le chiappe più brutte del multiverso. Una fan-fiction, nel senso più comune della faccenda. 

A voi, dunque. 

Ed è ovvio, se ritenete giusto spendere 30 secondi per farmi sapere cosa ne pensate... non fate complimenti. Solo piano con i mattoni, ché c’ho la pelle delicata… 





P.S. Presa dalle mie divagazioni avevo perso di vista l’unica cosa sensata da dire in questa premessa. Questa storia non è nuova, non del tutto. Avevo iniziato a pubblicarla nel 2004, appunto, con il titolo di PAINT THE SKY WITH STARS, e lasciata a languire per motivi personali e perché non mi piaceva l’enorme differenza di stile tra i primi e gli ultimi capitoli. Ho rimesso mano al tutto, effettuato un deciso restyling della forma e in parte della trama. Dopo aver salvato gli screenshot e le vecchie recensioni, ho fatto sparire la vecchia versione. Vorrei tanto ringraziare chi, allora, mi ha incoraggiato e sperava di conoscere la fine della storia. Se doveste passare di nuovo di qua, sappiate che vi ringrazio ancora. ^^ 


E Last but not least, grazie infinite a Era Kim per le osservazioni che mi ha e spero continuerà a inviarmi!

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Capitolo 2
*** Track #01: Welcome to the jungle ***


Track #01: Welcome to the jungle TRACK # 01:

WELCOME TO THE JUNGLE

Welcome to the jungle
We take it day by day
If you want it you're gonna bleed
But it's the price you pay […]
You can taste the bright lights
But you won't get them for free
In the jungle
Welcome to the jungle

(Gun’s ‘n’Roses)

Una giornata come quella avrebbe preferito cestinarla prima ancora che fosse iniziata, verniciata com’era di rumore e di emicrania da stress. Traffico impazzito, smog, un’interminabile viaggio in taxi, e soprattutto, troppa gente. Una spessa patina di frenesia contagiava i passanti, elettrizzando l’atmosfera. Era davvero la Tokyo che aveva lasciato, quella? Ricordava poco di quella parte della sua infanzia, delle stradine assolate e deserte nel suo fulmineo passaggio all’Orfanatrofio Vattelapesca, confuse con quei ricordi che non riusciva ad interpretare, prima ancora che un riccone stravagante pretendesse di sapere quali stelle avrebbero guidato il suo destino. Ma quel poco bastava a scegliere, e il resto lo facevano gli anni di quasi totale solitudine sul cocuzzolo della seconda montagna più alta del mondo. Appena arrivata già non ne poteva più. Quanto ancora poteva diventare caotica una metropoli che stava preparando l’evento mediatico del secolo? 
Manifesti in esacromia, decine di copertine patinate; un solo, ecumenico evento teneva ancorata su di sé l’attenzione dell’intero villaggio globale. Le Galaxian Wars, il pittoresco torneo di lotta organizzato dalla Fondazione Grado, stavano per cominciare sotto il patrocinio della sua Presidente, una bambolina di porcellana che odorava ancora di latte e borotalco. 
"E tu stai per trovartici in mezzo." 
La ragazza scosse la testa, senza distogliere lo sguardo dalla copia dell’edizione settimanale del ‘TIME MAGAZINE’, pescato nel mucchio di pubblicazioni giubilanti sul tavolino art nouveau posto in un angolo del monumentale atrio di Villa Kido. E non soltanto perché, in un’altra vita, quella rivista era la prima cosa che leggeva il lunedì mattina. “Per lo meno, è scritta in una lingua comprensibile agli esseri umani.” Lei e il giapponese non erano mai andati granché d’accordo. Si era sempre confusa con le formule di cortesia, collezionando figuracce memorabili. E i kanji dopo un po’ le confondevano la vista. 
Voltò pagina, soffermandosi su una panoramica dell’anfiteatro che avrebbe ospitato il fausto evento. Il festival del kitsch. Una quattordicenne megalomane giocava ad impersonare Cesare e l’intero pianeta le dava retta. "Saori, Saori… Attenta che qualcuno dei tuoi gladiatori non ti si trasformi in uno Spartaco." 
Fu distolta da quei pensieri agrodolci da un compitissimo Tokumaru Tatsumi. Il braccio destro dei padroni di casa, nonché tutore della Piccola Lady, le fece cenno di seguirlo senza una parola. 
In effetti, si trattava di un Tatsumi divenuto compitissimo soltanto dopo una piccola discussione con le sue parti basse, le cui conseguenze potevano essere ancora rintracciate nell'andatura innaturale del tuttofare della famiglia Kido. Mentre l’accompagnava, gli occhi dell’uomo avevano valutato attentamente l’altezza, la capigliatura disordinata (ma non era bionda, da bambina?) e il fisico sottile trivialmente ostentato da un vestiario a metà tra la pornostar in erba e la studentessa di danza classica, e ne avevano tratto la poco confortante conclusione che fosse più saggio evitare ulteriori discussioni. Tatsumi sarebbe anche stato curioso di scoprire com’era diventato il suo volto, ma, prevedibilmente, la ragazza indossava una maschera rituale in metallo, segno di appartenenza all’antico culto della dea Athena. Il signor Kido, ancora una volta, si era rivelato più lungimirante di lui, che non avrebbe scommesso un soldo bucato sul ritorno di quella piccola teppista. Non solo non se l’era data a gambe, ma aveva persino portato con sé uno scrigno in tutto e per tutto simile a quello dei suoi vecchi compagni. "Delinquenti anche loro, che gli Oni se li portino." 
Non era certo l’accoglienza che le avrebbe riservato, se fosse stato lui a decidere, ma Tatsumi sapeva adempiere ai suoi doveri con stoica rassegnazione. L’accompagnò a destinazione, bussò. La ragazza sembrò tornare con i piedi per terra soltanto in quel momento.
Si scosse, prese un respiro profondo, gli occhi fissi sulla schiena dell’uomo che si allontanava. L’aveva lasciata di fronte a quello che, lo ricordava benissimo, era stato lo studio del defunto padrone di casa. Era difficile fingere una parvenza di compunzione, quella parte del suo passato la ricordava troppo bene. Certo, l’avevano prontamente informata della scomparsa del vecchio non appena scesa dall’aereo per il Giappone, eppure era ancora in paziente attesa del rammarico che forse sarebbe stato educato provare. 

— Altair, è un piacere rivederti — Saori Kido, l’erede della dinastia, aggirò senza fretta la pesante scrivania, dandole il benvenuto con una voce beneducata, forse ancora un po’ leziosa. Le manine inguainate nel pizzo, tese verso di lei come in un bizzarro incubo ottocentesco, erano il particolare più sobrio del quadretto. La ragazza si chiese chi altri mai potesse avere la finesse di sedere al lavoro infagottata nell’abito di Cenerentola al ballo. — Sei tornata, finalmente. Di tutti sei quella che mi è mancata di più. — 

“Sei anni fa non sembravi così interessata." La sedicente Altair si lasciò abbracciare con un certo disagio. Ricordava il giorno della partenza, e la piccola Saori, aggrappata come sempre ad una falda dell’abito del nonno, protestare fieramente che, senza di lei, giocare alla cerimonia del tè non sarebbe stato altrettanto divertente. E poi correre a montare il nuovo pony che le era stato regalato. Anche lei in un qualche modo le era stata affezionata, allora, nel modo in cui poteva esserlo un cucciolo che non aveva mai attraversato il cancello del giardino, ma cosa provava ora, con quel peso sul cuore? La voce del bastardo ancora nelle orecchie… 

"Un giorno capirai. Certe scelte ce le impone un bene superiore." 

— Altair… mi stai ascoltando? — 

"Questa non sono io! Come hai potuto portarmi qui? e cos’hai fatto ai miei ricordi?" 

— Scusami… un po’ di stanchezza — mentì in fretta, appoggiandosi leggermente alla scrivania. La sua stessa voce aveva un suono talmente impersonale, dietro la maschera. A volte temeva il momento di toglierla, e non lo faceva mai davanti ad uno specchio. A pensarci bene, maschera o no, cercava di guardarsi il meno possibile. E ogni volta che non poteva evitarlo, quasi si stupiva di incontrare ancora il suo riflesso. 

— Ti stavo spiegando che tuo fratello non è ancora arrivato, ma ha mandato un messaggio per informarci che tarderà. Penso che abbia ottenuto l'armatura, anche se non ne sono ancora del tutto sicura — proseguì la Piccola Lady, senza commentare. 

— Non avevo dubbi… — accondiscese la Sacerdotessa, con malcelato sarcasmo. — Ne sono contenta, naturalmente — si affrettò ad aggiungere, sotto lo sguardo sempre più perplesso di Saori. 

Che bugiarda impenitente, e come le veniva naturale. Quasi si aspettava che il pavimento si spalancasse e le fiamme dell’inferno cominciassero a lambirle i piedi, reclamandola a gran voce. 

"Che fantasia fervida, ragazzina…" le avrebbe detto lui, voltandole le spalle con la solita composta sufficienza. 

"Va’ all’inferno, maestro…" 

— Ora che sei arrivata anche tu, aspetto notizie soltanto da Ikki — proseguì Saori, con aria compiaciuta. La sua ospite, invece, cominciava a sentirsi seccata. "Ne parla come se dovesse tornare dalla villeggiatura. Non ti sei mai resa conto di cosa ci ha fatto quel sant'uomo di tuo nonno?"

— Riprendi la tua vecchia stanza, vero? — 

“Certo. Com’è vero che ti sei degnata di chiedermi se volevo far parte di questa farsa.” Trattenne la risposta pungente che le era salita alle labbra. Dopotutto, Saori non avrebbe mai potuto capire. Troppe cose erano cambiate, dall’ultima volta che si erano incontrate. Lei stessa, quanto somigliava ancora a quella bambina senza ricordi? Non le interessava la buffonata in mondovisione, come non le interessavano le chiacchiere mondane di quella debuttante che giocava alla manager con la stessa leggerezza con cui anni prima montava a cavallo di quell’idiota divenuto Cavaliere dell’Unicorno. 

— Penso mi cercherò un posto tutto mio, Saori. Non mi sento molto a mio agio in compagnia — aveva chiarito in fretta, sapendo di deluderla. Quello che non aveva immaginato era la sottile soddisfazione che le avrebbe procurato. "Non sono più il vostro burattino, signorina Kido." 

L’altra ragazza s’irrigidì, per un attimo che le oscurò il sorriso tutto miele. — Non sei la prima che me lo dice, Altair, e non lo capisco. Dopotutto, siete tornati a casa. — 

"Io e te non abbiamo mai avuto un concetto tanto diverso di ‘casa’, Saori san.

— Tutti i partecipanti si sono impegnati, ormai — 

"E non vedo l’ora di scoprire chi glielo fa fare." — Avranno i loro buoni motivi… forse — le concesse. — Anzi, lo spero. Nessuno di noi dovrebbe ricercare la fama a buon mercato. Non fa bene alla salute. — 

Saori sospirò, tornando a sedersi sulla sua poltrona dirigenziale, senza chiederle di accomodarsi. "A quanto pare, i bambini cattivi restano in piedi." — Il nonno ha sacrificato tanto per poter vedere questo giorno, Altair, e non c’è riuscito. Non dovresti parlare con così poco rispetto della sua più grande fatica. — 

"A questo punto le condoglianze sarebbero doverose, immagino." — Allora ti risparmierò quello che penso di questa Carnevalata Galattica — sorrise, fiera del punto appena segnato. 

— Carnevalata Galattica… dovrei sentirmi offesa? — Saori la fissò, abbastanza a lungo da metterla sottilmente a disagio. — E comunque, non ti ho chiesto di partecipare. Almeno, non in qualità di concorrente. — 

— Ma allora… — “Che diavolo ho fatto sul cocuzzolo della montagna, negli ultimi anni?" 

— Il nonno aveva altri progetti per te, e intendo rispettarli — Il telefono anni ’50 sulla scrivania prese a squillare. "Ma che tempismo…” Saori controllò l’orologio. 

— Scusami Altair, questa è una telefonata che non posso assolutamente perdere — Il viso di porcellana della piccola Kido si distese in un sorriso cordiale, mentre con un cenno le indicava la porta. "Il vecchio megalomane si è reincarnato dentro una gonna di taffetà…" — Ti manderò qualcuno nei prossimi giorni. Presto saprai. Anzi, saprete tutti — ripeté in tono cordiale, e definitivo. 



~.~

Dopo una lunga e noiosa presentazione, le Galaxian Wars erano cominciate sotto la volta pacchiana di un Colosseo made in Japan, tutto plastica, acciaio e vetroresina. Persino il marmo era fasullo, ma altamente scenografico. "Beh, almeno ho rimediato un posto d’osservazione privilegiato. E, al momento, la priorità è restare accanto a loro." 
Con un rapido sguardo in alto, al palco d’onore chiuso da tre pareti di vetro antiproiettile, colse il quadretto della Dama Bianca con il suo fido Zuccapelata, il cranio lucidato con la pelle di daino, un completo italiano e la compunzione di una beghina a San Pietro. 
"Voleva che fossi lassù anche io… come una bambola da esibire, come un cane da guardia…" 
Saori le era sembrata offesa quando le aveva risposto picche, naturalmente, ma si era lasciata convincere dall'obiezione che restando tra la folla avrebbe organizzato meglio la vigilanza durante l’evento. E per lei si trattava di un'ottima soluzione per ottenere un ingresso privilegiato a tutti i settori dell’edificio. 
In realtà, in quel momento la sicurezza di Saori Kido non avrebbe potuto essere più lontana dai suoi pensieri. 
La terza giornata era già incominciata. Altair aveva evitato abilmente la ridicola vestizione pubblica ad uso e consumo della mondovisione, i flash dei fotografi sfaccendati e le domande idiote dei cosiddetti cronisti sportivi, ritirandosi in fretta nel cono d’ombra dell’ingresso degli atleti. Aveva persino, per un attimo, provato una punta di apprezzamento per quella dannata maschera, che rendeva facile una indifferenza impossibile da provare. Contemplava i concorrenti, sezionando con lo sguardo i suoi amici, chiedendosi sconsolatamente se avrebbe mai trovato un modo di rimediare alla follia di quello psicopatico che un tempo aveva chiamato maestro. 
Davanti ai suoi occhi increduli si stagliavano nove imbecilli in tutta la loro gloria. Gonfi come palloni, pronti ad uccidersi per vincere un premio che, avrebbero dovuto già saperlo, Sua Altezza non aveva alcun diritto di attribuire. E tre di loro erano suoi amici da una vita, avevano diviso l’infanzia ed erano diventati adulti con lei. 
“Forse. In questo momento non riesco a crederci. E dei Life Model Decoy(1) mi sembrerebbero una buona spiegazione.” 
A pochi metri di distanza, i sedicenti Seiya di Pegasus, Shiryu di Dragon e Shun di Andromeda si guardavano in cagnesco, pronti a sbranarsi al minimo cenno ostile. Per non parlare di suo fratello, tornato quel giorno dalla Siberia con la simpatia di una tazza di latte cagliato.
Le sue tristi fantasie stavano per toccare il fondo, quando le sembrò di intravedere una sagoma familiare tra le prime file della tribuna stampa. 
"Christine…” Sua sorella tra gli spalti era quasi irriconoscibile, i lunghissimi capelli biondi stretti in una crocchia severa, occhialini tondi da topo di biblioteca e il bavero del soprabito sollevato il più possibile a nascondere un volto un po’ troppo giovane per quel genere di lavoro. La ragazza rispose con un rapido cenno e uscì in silenzio dall'arena. Nessuno le badò. Era appena stato annunciato l'incontro successivo. 


Pegasus VS Dragon


Pegasus… difficile decidere se fosse peggio un fidanzato che non ricordava di esserlo stato, oppure che il suddetto passasse il tempo libero facendo il cascamorto con una istitutrice. "Sorvolando sull’attuale duello all’ultimo sangue con uno dei vostri amici più cari…" 
Fuori, Christine la aspettava. Da quanto tempo non provava il calore di un abbraccio?

 — Ciao, Kelly — si sentì salutare, con un sorriso e un tono che tentavano di smentire la preoccupazione. E le facevano venire voglia di… "Non frignare, ora, ti ha solo chiamata per nome!" —Come va dietro le quinte? —


 — Niente di nuovo sotto le stelle… fasulle — rispose, indicando un punto imprecisato alle sue spalle, oltre i buttafuori che presidiavano l’ingresso secondario. Sfilò la maschera, respirando più liberamente. — Si guardano in cagnesco, fanno sfoggio di metallo e testosterone… uno spettacolo divertente, a quanto dicono gli ascolti. —

Chris sorrise appena, come per dovere, e Kelly notò del gonfiore sospetto sotto gli occhi. “Hai visto Steve, non è vero?” — E ora che tu hai fatto sfoggio del tuo migliore sarcasmo, come stanno le cose, per davvero? —

Kelly sospirò. A che sarebbe servito indorargliela? — Stanno per azzuffarsi come galletti per quell’orrore d’oro massiccio, e io non posso farci nulla. Ma tu, perché non ti sei risparmiata lo spettacolo? — 

— Non potevo certo lasciarti sola a godertelo… — sogghignò la sua Chris, di nuovo simile alla sorellona indistruttibile dei suoi ricordi, un braccio attorno alle sue spalle, una carezza tenera sulla guancia, di quelle che facevano stringere il cuore. "Era come te, la mamma? Me la ricordassi, almeno…"

— Allora sei venuta per restare? — la interruppe, speranzosa. Averla a Tokyo con lei, avere sua sorella sempre accanto, poter dividere il peso di quella situazione grottesca… 

Christine esitò, prima di decidersi a demolire quella pia illusione. — Non proprio… in realtà, devo ripartire stasera stessa. — 

— Ma… non rimani neppure per la notte? — 

— Non dovrei, Kelly. Sono qui in missione. Sai, Albion mi ha chiesto di sbirciare cosa diavolo succede qui, senza dare troppo nell’occhio. — 

Già, per un attimo l’aveva dimenticato. Anche sua sorella si era ritrovata ad aspirare ad un’armatura, senza averlo mai chiesto. June di Chameleon, era diventato il suo nome. E come lei prima di ritrovare la ragione, venerava il folle cerebroleso che la stava addestrando. "Finché non scoprirai anche tu che conta solo la loro stramaledetta causa, sorellona." 

— E lui non è abbastanza grande da farsi il lavoro sporco da solo? — replicò, astiosa. Christine l’aveva annoiata per un pomeriggio intero, un mese prima, cercando di convincerla che il silver saint di Cepheus non somigliava affatto al suo maestro. Che non c’entrava niente con quella farsa.

— Kelly, ascolta! — La sorella l’afferrò per le spalle, con urgenza. “Non voltarti, so che non te ne importa un fico secco. Non è questo il punto.” — Non è Albion che vuole sapere cosa combina Michael qui. È il Santuario di Grecia. — 

Altair della Gru la beneficò di un sorrisetto sardonico. — Digli la verità: che aspetta il suo turno per battersi con indosso un’armatura che farebbe la gioia di qualunque drag queen — ribatté, nascondendo la delusione dietro quella malignità a buon mercato. Sua sorella tacque, abbastanza da consentirle di ripartire all’attacco. — Christine, io non ti capisco. Questo posto, qualunque cosa sia, non ci appartiene. Nulla di quanto vogliano questi pazzoidi mi interessa. Non dovrebbe interessare neanche a te. — 

C’erano sempre stati dei momenti in cui Christine aveva coltivato seri e fondati propositi omicidi di fronte alla lucida ottusità di sua sorella nei suoi momenti più irragionevoli. Quella sera, evidentemente, Kelly aveva deciso di rivangare i vecchi tempi in grande stile. — Anch’io ricordo. Anch’io voglio tornare a casa. Ma per farlo dobbiamo sopravvivere abbastanza a lungo da trovare una strada. Ricordi cosa ci diceva sempre Martin? In un ambiente ostile bisogna giocare secondo le regole. E io mi sto adattando, come dovresti fare tu. — Sospirò ancora, di fronte a quell'espressione scettica. — Adesso dammi retta, per favore. Albion ha mandato me perché la sua venuta sarebbe stata troppo… ufficiale. La situazione è pericolosa: il Voto di Segretezza è stato infranto. Pare che ad Atene siano furibondi perché dei veri Santi si sono prestati a partecipare a questa buffonata. Ci sarà una reazione, e presto. —
 
Già, il voto di fedeltà ad Athena e al suo Santuario. Un altro effetto collaterale di quell’investitura di cui, adesso, avrebbe fatto volentieri a meno. Sembrava che tutti i presenti avessero dimenticato la proibizione di rivelare ad estranei la propria appartenenza a quel culto antico quanto il mondo. Per non parlare di quei poteri ben oltre il limite dell’umano, sbattuti in faccia alle telecamere con una leggerezza degna dell’età dell’esperta imprenditrice che tirava le fila di quel gioco. “Quattordici anni, quattrini e potere… che ci si poteva aspettare, che si dedicasse alle opere di bene?” 

— Dai, Chris, non esagerare. Credi che invieranno dei giustizieri per una corazza falsa e quattro ragazzini che si sparano pose in TV? — tentò di sdrammatizzare, pur con quel brividino gelido che saltellava allegramente lungo la sua schiena. Non aveva voglia di pensarci. Soprattutto, non voleva prendere in esame la possibilità di restare in quel posto abbastanza a lungo da dover affrontare le ire di chicchessia.

 — Quattro ragazzini che hanno aderito al culto di una Dea che non è mai stata famosa per la sua tolleranza. E neanche chi la rappresenta in terra. La vita ti sembrerebbe troppo tranquilla, senza un Gran Sacerdote furibondo alle costole? — 

Kelly si passò una mano tra i capelli, sul viso. — D’accordo, cosa vuoi che ti dica? Loro non ricordano niente. Li hai visti, in quell’arena, vero? Se non recupereranno la memoria anche loro non potremo fare altro che stare a guardare. — Sospirò, e le sue spalle sembrarono accasciarsi. — Siamo sole, Chris. — 

“Lo so.” — Credi davvero che quell'armatura… —

— Sia un falso? — Il cavaliere della Gru sembrò accasciarsi su se stesso per un attimo, breve quanto preoccupante. — Non lo so, Chris, d'accordo? Io… Per la maggior parte del tempo sono convinta che si tratti di paccottiglia, e che tutta l'operazione non si a altro che una speculazione mediatica di pessimo gusto. Eppure, ci sono momenti in cui… —

— Quindi, l'ha percepito anche tu. — Era un bene, forse la prima buona notizia della giornata. Se Kelly avesse iniziato a prendere coscienza dei rischi della loro posizione, allora, forse…

— Alle volte, di rado. Tanto da farmi chiedere se quello che sento sia reale. Non può trattarsi dell'armatura autentica. Vorrebbe dire che… —

“Che qualcuno ci cercherà molto presto”.

— Resterai qui con loro? — le domandò, già certa della risposta. Sapevano entrambe di avere ben poche alternative. 

Kelly si strinse nelle spalle. — Non vedo cos’altro potrei fare. Tu non puoi ancora, no? E poi… ricordi cosa mi ha detto quel bastardo, vero? —

Christine annuì, chiedendosi per quanto avrebbe potuto continuare a controllare la tensione che le irrigidiva il volto, rendendolo simile a quel simulacro offensivo che anche lei era fin troppo spesso costretta a portare. — Come se me l'avessi raccontato ieri. Non che si sia reso particolarmente utile… —

 — In effetti un biglietto aereo per Washington, la nostra Washington, sarebbe stato un pensiero più gentile — sogghignò sua sorella. — Ma non è il caso di aspettarselo. Non da uno come lui. —

Christine stirò un piccolo, mesto sorriso. Senza un'altra parola, l’abbracciò forte, cercando, in quel groviglio di sentimenti contrastanti che le stavano bloccando il respiro, di lasciar trapelare soltanto l’affetto. “Non voglio abbandonarti qui…”
Avrebbe voluto dirlo, mentre la lasciava andare lentamente. Era certa che a sua sorella sarebbe piaciuto sentirlo. Ma loro non erano due ragazzine sprovvedute. Erano adulte ben oltre la loro età, e da tali si sarebbero comportate.
  
Kelly trasse un lungo respiro, indossò ancora la maschera rituale. Non l'avrebbe abbandonata, non tanto presto. Annuì, triste. — Io torno dentro, Chris. Tu… beh, racconta al caro Albion quello che vuoi, mi fido di te. — Un gesto vago, alle proprie spalle. — Prenditi quell’armatura, cogli la prima occasione e torna da me. Io… aspetterò. —

"Non posso fare altro. Ma dammi un’opportunità di metterti le mani addosso e ti torcerò il collo, maestro. È una promessa." 


~.~


Anche ripensandoci ad anni di distanza, Kelly avrebbe sempre ringraziato tutte le divinità della terra per quell'abbaino alla darsena di Yokohama, che le permetteva di non dormire a Villa Kido. Almeno, dopo una giornata come quella, poteva finalmente togliersi la maschera. In tutti i sensi. “Vorrei tanto avere tra le mani il maledetto misogino che ha inventato questa tortura di metallo…” Sì, una fortuna che rischiava di diventare un’arma a doppio taglio. Il rischio, molto concreto, era quello di passare ancora la notte in bianco, china sulle foto e gli oggetti che aveva provvidenzialmente ritrovato in un armadio ben protetto nella stanza del suo maestro un paio d'ore prima dell'Ultima Prova. “I miei bagagli. La prova che mi serviva.” Per scongiurare il pericolo, prese in mano la chitarra. 
"Pessima idea…" 
Non aveva bisogno dell'amplificatore. Né del plettro, o di una pedaliera. Soltanto lei, una Fender Stratocaster, e accordi improvvisati nel silenzio della stanza. L’accarezzò quasi con reverenza, come la prima volta che ne aveva tenuta una in mano. Un compleanno ormai da dimenticare, i suoi amici attorno e un lungo, pesante pacco rettangolare. Aveva quasi pianto di gioia, quando aveva fatto scattare la serratura della custodia rigida. Era lì, bianca e perfetta, la copia esatta di quella che Jimi Hendrix aveva suonato a Woodstock. Cosa poteva importarle che quello fosse uno dei modelli più commerciali? Non la riguardava che migliaia di adolescenti esaltati ne possedessero una identica. Era la sua chitarra. La prima che non avrebbe diviso con nessuno. Che cosa stupida, essersene procurata un'altra uguale appena tornata a Tokyo, una stupidità di cui non era riuscita a fare a meno. “Cosa c'è di più bello al mondo?” 
(2)‘Play it 'til your fingers bleed...’ 
La voce profonda di Jason le riempì le orecchie all’improvviso. Il ricordo era tanto nitido che le ballava davanti agli occhi, come se d’un tratto quella stanzetta squallida fosse piena di volti cari. 
Jason. 
Era seduto sul divano, il sorriso gentile stampato sul bel viso, i lunghissimi capelli neri sempre sugli occhi, la sua personale versione della (3)Red Special appoggiata con naturalezza sulle gambe accavallate. Tra il pollice e l’indice della destra, la moneta da sei pence con cui carezzava lentamente il suo strumento. Lui e la sua sconfinata ammirazione per Brian May… "A ciascuno le proprie manie, vero?" 
La visione scomparve, così com’era venuta. Kelly si ritrovò sola, come sempre in quella soffitta da poco, in quel quartiere malfamato, puzzolente di nafta e di acqua putrida, che aveva scelto soltanto per tenere d’occhio quello che in un’altra vita era il suo ragazzo. Si ritrovò le mani attorno alla testa e il viso in fiamme, un grido di rabbia che chiedeva di uscire. Non poteva, maledizione, non poteva. Aveva cose più importanti cui pensare. 
Al suo rientro nell'Arena delle Vanità… 
Non bastava avere ritrovato Mark e Jason coperti di sangue tra i resti delle armature polverizzate, il primo mezzo morto e il secondo quasi del tutto, rianimato soltanto grazie ad una sberla da primato piazzata nel punto giusto della schiena. Quasi morto d'infarto, all’attempata età di diciassette anni. 
Non bastava avere visto Mark — "il mio Mark!" — accasciarsi sul pavimento, sul viso troppo pallido i chiari segni di un’emorragia cranica. 
Non bastava aver capito perfettamente che non sarebbe mai stata davvero in grado di proteggerli. 
Kelly aveva sentito un brivido gelido attraversarle il corpo. Qualcosa, più del solito, non stava andando per il verso giusto. Aveva avvertito una presenza, solo per un istante, prima che svanisse nel nulla. Credeva di averla riconosciuta. E ora pregava con tutte le sue forze di essersi sbagliata. 
"Dave, dove diavolo sei?" 
Prese in mano una fotografia: la ritraeva tra le braccia di due ragazzi. David Ruser, il suo compagno di missioni, e suo fratello, il piccolo Michael. La tenevano sollevata allegramente, gli occhi lucidi per il troppo ouzo, i visi abbronzati e felici. Quella vacanza sognata per tutti gli anni dell’addestramento era trascorsa troppo presto. Non avevano pensato ai loro genitori che non c’erano più, alla loro infanzia rubata, alle vite che già avevano calpestato. 
"Dovevamo immaginare che non avrebbe potuto durare…" 
L’inizio della fine, quello stesso giorno. 
"Eppure era così reale…" 
Come le braccia delicate che ora le stringevano la vita. 

 — Ciao, bellezza… — Mark la stava abbracciando da dietro, il mento contro la sua spalla. La cullava, in un lento appena accennato, solo per loro due. — Credo tu abbia fatto colpo… — le bisbigliò all’orecchio, con un cenno espressivo. 
Davanti agli occhi, Kelly non aveva più una parete vuota, ma la folla brulicante e coloratissima di Monastiraki, in una mattina d’estate, l’ultima di quel viaggio. E della sua vita precedente.
Aveva trovato un viso sconosciuto, bello e distante, dei capelli lunghi e scuri, uno sguardo tagliente che sembrava soppesarla. Doveva avere l’età di Martin, forse qualche anno in meno. Non era un turista e neppure un semplice sfaccendato, ci avrebbe scommesso l’arma d’ordinanza. Sembrava una spia anche lui, una reclutata da (4)Abercrombie&Fitch.
"Se solo avessi saputo quel giorno chi eri, bastardo…" 
La fissava come se non riuscisse a credere a quello che vedeva, ricordò. I loro occhi s’erano incrociati, a lungo, e Kelly aveva sentito prudere le mani. Che diavolo voleva? Era stata lei la prima a cedere, distogliendo lo sguardo. Lui s’era voltato per andarsene, scrollando le spalle come se quella tacita sfida non avesse la minima importanza. 
L'occhiata di quel ragazzo, e il brivido di disagio che aveva provato, non erano mai davveri usciti dalla sua mente, anche se in seguito non aveva più avuto occasione di rifletterci. Molto, troppo presto l’avrebbe incontrato di nuovo. 

La ragazza sospirò, passandosi una mano sugli occhi, scacciando quel ricordo con forza. Inutile piangere sul latte versato. Adagiò teneramente la Fender sulle gambe accavallate, gli accordi già pronti sulla punta delle dita. Quella notte l’avrebbero passata insieme, loro due. E chissà se l’oscurità le avrebbe portato il consiglio di cui aveva tanto bisogno. 
Nove ore più tardi, era ancora sveglia, il torneo era entrato nel suo primo giorno di pausa, e la sua idea era una follia. 
Non restava che metterla in pratica. 


~.~

Un cielo stellato. Colonne cadute, l’ombra di un fantasma con il volto nascosto da una maschera di metallo. Un luccichio metallico, sangue che sprizzava, il pianto di un neonato. 
Non voleva, eppure doveva avvicinarsi. Vedere con i suoi occhi. 
Il suo migliore amico, gli occhi aperti che non vedevano più, una profonda ferita a squarciargli il fianco, là dove si intravedevano sangue e interiora violacee. Una ferita da taglio. 
Una risata, fredda e feroce. 
Occhi che bruciavano dietro una maschera rubata. 
E poi cadeva. 
L’attesa dello schianto, in fondo, sempre più in basso, nel baratro di cui non intravedeva la fine. 
L’uomo finalmente si svegliò in un bagno di sudore. 
Dalla finestra, la Meridiana dello Zodiaco svettava sul Santuario di Grecia. Un’ombra in nero, il cielo più scuro del ventre della Terra… e le stelle, sempre troppo lontane. 


~.~



Angolo della vergogna™

Qualche piccola nota:


(1) Quando la vita ti dà limoni, tu fai la limonata. Quando ti dà i tuoi amici in preda ad una irrecuperabile amnesia, credi che siano stati sostituiti da androidi appositamente programmati. Non fa una piega, no?


(2) "suonarla finché non ti sanguinano le dita". La canzone è SUMMER OF '69 di Bryan Adams, e i primi versi, che spiegano il perché della citazione, sono: 

I got my first real six-string
Bought it at the five-and-dime
Played it til my fingers bled
It was the summer of 69


(3) La Red Special, la celeberrima chitarra di Brian May, che leggenda vuole sia stata costruita dal nostro genio ancora ragazzino con l'aiuto di suo padre. Molti appassionati, negli anni, hanno tentato di realizzarne una propria versione. Quella di Jason doveva avere quantomeno le corde al posto giusto, mi hanno riferito. ^_^

(4) In pratica, il misterioso guardone aveva l'aspetto di uno dei commessi/modelli che si possono slurp... ehm incontrare nei punti vendita di questa celebre catena d'abbigliamento.


Detto questo, saluto e ringrazio chi ha letto e chi ha recensito. È molto bello ricevere incoraggiamenti, e spero di stuzzicare e soddsfare la vostra curiosità. 

Grazie ancora a tutti!

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Capitolo 3
*** Track #02: Labyrinth ***


Track #02: Labyrinth TRACK # 02:

LABYRINTH

I see my memories in black and white
they are neglected by space and time
I store all my days in boxes
and left my wishes so far behind
I find my only salvation
in playing hide and seek in this labyrinth
and my sense of connection
is lost like the sound of my steps.


(Elisa)



Se solo avesse potuto, se lo sarebbe risparmiato.
Lasciar vagare il cervello tutto solo, di notte, è una faccenda pericolosa. Perfido e determinato, riporta alla coscienza tutte le immagini che vorresti seppellire in una buca profonda quanto l’eternità, senza poterci riuscire. Una giornata di festa sotto il sole di Atene, un amico scomparso da tempo, uno scherzo divertente. Un viso di ragazza dietro il bancone di una libreria, un sorriso che per un attimo ti aveva fermato il cuore. Anni, resi tanto più cari dal filtro parziale della memoria, anni trascorsi in fretta, senza fermarsi ad assaporarli, senza sapere che sarebbero stati rimpianti.
I ricordi creano un nido caldo, una cuccia tiepida in cui deporre le armi per qualche istante, e, prima che si possano fermare, ti hanno già tradito. L’amico è divenuto un ricercato, il tempo degli scherzi è finito, e quel sorriso di ragazza non brilla più per te. E il nido caldo è diventato un letto di spine, lo stesso in cui ti agiti per tutta la notte, già sicuro che tanto non dormirai più. Che passerai quel che resta della notte fissando il cielo stellato di una Grecia che non è più tua, con una carica che vorresti gettare alle ortiche, sacro guerriero in un Tempio che non chiamerai più casa.
Se soltanto avesse potuto scegliere, lo avrebbe evitato come la peste. Ma il suo subconscio non la pensava mai come lui.
Camus dell’Acquario si era svegliato di soprassalto nel mezzo della notte, i capelli umidi, gli occhi dilatati dall'incubo che da anni lo perseguitava a fasi alterne. Come con l’insonnia e l’emicrania perenne, anche con quel sottile senso di angoscia aveva imparato a convivere da tempo. Mille immagini gli turbinavano nel cervello, una peggiore dell’altra. Il vecchio Kido che esigeva la promessa più difficile della sua vita, Aioros morente ai piedi del Santuario, il Gran Sacerdote Shion, lei che gettava via la maschera, il viso rigato da lacrime amare…
Si distese più comodamente, le braccia incrociate dietro la nuca, e chiuse gli occhi, rassegnato. Lo sapeva per esperienza, niente l’avrebbe più distolto dal viale dei ricordi.



Ancora non poteva credere che Aioros avesse tentato di uccidere il Sacerdote. Peggio, che avesse portato via con sé la bimba che aveva l’incarico di proteggere e che si fosse dissolto nel nulla. Per quanto la sola idea gli procurasse un salutare e corretto disgusto, doveva ammettere che la preoccupazione per la dea neonata non riusciva a reggere il confronto con l’amarezza che il tradimento del suo più caro amico gli causava. Strofinandosi il viso tirato con il dorso delle mani, Camus era sgattaiolato fuori dall’Undicesimo Tempio. Aveva bisogno di pensare, anzi, di ammazzare i pensieri e lo sconforto. E di evitare come la peste chiunque potesse ricordargli le sue responsabilità. E anche che non era grande abbastanza da affogare i dispiaceri nella Guinness.



La mano strinse le lenzuola con fastidio. "Piccolo illuso..."



Le Parche, o chiunque tirasse le fila al loro posto, avevano già deciso che quella non sarebbe stata la serata propizia per la sbornia della sua vita. Proprio davanti alla sua – loro – taverna preferita, mentre già pregustava il dolce torpore che l’avrebbe allegramente spedito nel mondo dei sogni… era stato urtato da uno sconosciuto, uno spilungone in nero che era certo di non aver mai visto in vita sua.

– Sei tu Camus dell’Acquario, non è vero? – gli aveva rivolto la parola in francese, torturando le sue orecchie con un raccapricciante accento orientale. Si era voltato lentamente, guardandosi intorno con circospezione. In pochi, nel mondo esterno, erano anche solo al corrente dell’esistenza del loro ordine, ancor meno dell’identità di chi ne faceva parte. E se si trattasse di…

– Seguimi. –

Aveva aggrottato le sopracciglia, una invidiabile imitazione di Saga nei sui momenti di più seria estasi mistica. Pentendosene all’istante: anche Saga non si faceva vedere da giorni.
"Lo sta cercando anche lui…" – Prego? – aveva scandito. "Non ci pensare…"

– Si tratta del tuo amico, Aioros. –

Nell’arco di pochi istanti il colorito di Camus aveva attraversato tutte le sfumature possibili tra il vermiglio e il mortalmente pallido. Senza una parola, e senza un minimo di prudenza, aveva seguito l'uomo che si era già quasi perso tra la folla.




Si dimenò tra le lenzuola, come se l’avesse punto una vespa. Aria, aveva bisogno d’aria. Pestò una mano rabbiosa sul comodino, in cerca dell’interruttore. Luce…
Nella testa, sempre la stessa domanda. Una sola, pesante quanto un macigno. "Perché diavolo non ho saputo resistere alla curiosità? Athena, dovunque tu sia, rispondimi!"
‘Perché sei un imbecille, amico.’
"Ecco, se non è la Voce della Dea, potrebbe essere quella cosa che ha preso il posto del buonsenso…" Scostò violentemente il guanciale, rituffandosi sotto. La lampada volò oltre il bordo del comodino.



Lo strano personaggio l’aveva portato a spasso per quasi mezz’ora, camminando senza alcuna fretta, ma con l’aria di chi sapesse benissimo dove stava andando. Lontano, sempre più lontano dal centro, fino al Pireo, verso le strade più malfamate della città. Là, tra drogati e spacciatori, si era fermato di fronte ad un vecchio capannone alto come un palazzo a tre piani, una catapecchia che aveva tutta l'aria di stare ancora in piedi per una speciale concessione di Zeus. Era entrato dietro di lui, indirizzando un cenno rispettoso a quello che sembrava il direttore di tutta l’orchestra, un uomo anziano dai tratti orientali, che Camus era certo di non aver mai visto prima. Un breve scambio in una lingua sconosciuta, uno sguardo compiaciuto. Intanto, il lacchè gli aveva chiuso la porta alle spalle, come un lupo che avesse trovato il modo d’invitare in casa i tre porcellini.
Camus si era chiesto in privato se il vecchietto non intendesse stenderlo e farlo sembrare un incidente.
Lo sconosciuto si era guardato attorno con circospezione, quasi a ribadire la necessità del segreto, la poca luce proveniente dall’esterno scolpiva un volto che era un reticolo di rughe.

– Ti starai chiedendo chi sono e cosa voglio da te. –

Molto perspicace, nonno. Dall’alto del suo mancato metro e settanta d’altezza, e con la veneranda saggezza dei suoi ben tredici anni d’età, aveva pensato bene di recitare la parte dell’uomo vissuto.

– Mi è stato fatto un nome – scandì, fingendo una calma che non provava. – Sono qui soltanto per questo. – Tremava, dentro, e sperava di riuscire a nasconderlo.
"Devo trovarlo io. Devo. Altrimenti… anzi, no. Non dirmi dov’è. Non voglio essere io a riportarlo indietro." Il giudizio del Sacerdote era quanto aspettava il suo amico. E il Sommo Shion, per quanto a malincuore, avrebbe fatto quanto doveva.

Il vecchio l’aveva scrutato, apparentemente indeciso. – Quel ragazzo… Aioros… non puoi più fare niente per lui –

Camus l’aveva fissato con odio – Mi dica cosa gli ha fatto, prima che glielo faccia rimpiangere. –

L’uomo non si era scomposto. Tuttavia aveva continuato a fissarlo, soppesandolo. Sembrava chiedersi se e quanto gli convenisse raccontare.
"Di sicuro ti conviene fare in fretta, nonno." – Mi dispiace, ragazzo, ma il tuo amico è morto. – aveva scandito lentamente, senza esitazione, senza staccare gli occhi dai suoi. Senza permettergli di dubitare della sua serietà.

E la maschera del giovane Custode delle Energie Fredde si era infranta di colpo. – Co… come? Che vuol dire morto? – aveva balbettato, incespicando nelle parole.
"Sai benissimo che vuol dire…" Shura aveva rinunciato a cercarlo, tanto ne era sicuro. Ma sentirselo ripetere era tutta un’altra storia.

– È stato ferito a morte – l’uomo aveva riflettuto per pochi attimi, come cercando nella memoria le parole esatte da usare – mentre fuggiva con una neonata che avevano tentato di uccidere – aveva continuato, del tutto ignaro della gravità di quelle insinuazioni.

Camus si era sentito ribollire. Un mentecatto, non c’erano dubbi. Un pazzo pericoloso. – Nessuno oserebbe alzare una mano sulla nostra… su quella bambina. E poi lei cosa può saperne? –

– Come dici tu, non potrei saperlo. – aveva replicato il vecchio, continuando a fissarlo con tutta tranquillità. – A meno che non abbia trovato io il tuo povero amico e non intendessi mantenere la parola che gli ho dato. –

Camus si era sentito troppo stanco per ribattere. Aveva rilassato le mani, strette a pugno, sorprendendosi della sensazione del sangue che rifluiva, e aveva osservato l’uomo con più interesse. Giapponese, aveva tirato ad indovinare, anche se non poteva vantarsi di averne conosciuti molti. Non troppo alto e ben piazzato, dimostrava parecchie primavere, ma la sua sembrava tutto tranne che una vecchiaia rassegnata. Un uomo all’antica, un patriarca. Uno che probabilmente stava faticando non poco nel tollerare tanta impudenza senza cedere alla tentazione di un manrovescio.

– Chi è lei? – s’era deciso ad informarsi, con l’orribile sensazione che il peggio dovesse ancora arrivare.

– Mi chiamo Kido, Mitsumasa – aveva risposto il vecchio, in tono sbrigativo – ho trovato il tuo amico due notti fa, poco lontano dall’acropoli. Gli ho promesso che ti avrei trovato e ti avrei portato il suo messaggio. La verità, se ti interessa. –

– La verità? – Che verità poteva mai raccontargli? Cosa c'era ancora da dire?

L’uomo l’aveva guardato con commiserazione. – Non sei stato neppure sfiorato dall’idea di essere ingannato, non è così? –




Da tredici anni, ogni volta che ci pensava, trovava soltanto due parole. Perdonami, Aioros…



– In punto di morte non si mente, ragazzo. E se io non avessi creduto al tuo amico non avrei perso tempo a cercarti. –

Camus gli aveva restituito uno sguardo risentito. E quello che credi tu vale per tutti, no? Era rimasto in silenzio, chiedendosi se invitarlo a farsi gli affari propri l’avrebbe soddisfatto quanto congelarlo, quando…

– Un momento. Se lei ha davvero incontrato Aioros… l’ha trovato solo? –

Non sapeva neppure lui perché l’avesse chiesto. La piccola Athena era tornata, tra le braccia di Shura, abbandonata dal suo rapitore ferito a morte. L’aveva detto il Sacerdote, prima di aggiungere che nessuno di loro si sarebbe più avvicinato alla Dea, finché non fosse stata forte abbastanza da difendersi da sola.
Una simile decisione, da parte del vecchio Shion… come biasimarlo? Eppure aveva notato il piccolo Mu, il suo allievo prediletto, impallidire e abbandonare appena possibile il Crysos Synagein. L’ennesima stranezza cui non aveva badato, in quei giorni di follia. Perché, a pensarci ora, si chiedeva se non avesse avuto un valido motivo?

– Me lo dica, per favore. –

L'espressione sul volto di Kido s’era fatta, se possibile, ancora più dura. – Questo per il momento, non puoi saperlo. –

Camus si stava nuovamente irritando. Quell’uomo non sapeva affatto con chi stava parlando, e se lo sapeva, amava scherzare col fuoco. Sapeva farsi ascoltare, in ogni caso. Non stava forse scartando a priori l’idea di portarlo dal Gran Sacerdote? – Quindi cos'è che posso sapere, di grazia? –

Kido aveva tratto di tasca qualcosa, senza raccogliere la provocazione. – Leggi. – Gli aveva porto una busta, che una volta doveva essere stata chiusa da un sigillo in ceralacca. Il ragazzo s’era rigirato l’oggetto tra le mani, incredulo. La grafia del Sommo Sacerdote… Shion… era la sua, senza dubbio.
D’accordo, forse questo vecchietto non è del tutto pazzo…

– Come ha fatto ad ottenerlo? –

Kido gli voltò le spalle, incrociando le braccia. Era certo di averlo colpito, si vedeva. – Come ti ho già detto, ho incontrato il tuo amico. –

– Già, e scommetto che è per caso che mi ha trovato. Signor Kido, devo ammettere che comincio a trovare tutto ciò davvero… –

– Non mi ha permesso di chiamare aiuto, ha detto che c’erano cose molto più importanti della sua vita. – Il vecchio l’aveva interrotto, gli occhi obliqui che lo scrutavano attentamente. – Mi ha raccontato cosa gli era successo, di un Grande Tempio e di un assassinio. E poi ha parlato di te. Ha detto: Camus, Camus dell’acquario. Lo trovi, la prego. – C’era un vago sorriso sulle labbra sottili – Ha pronunciato il nome di quell’osteria dove ti aspettava la mia guardia del corpo – era di nuovo serio, ora – È stata l’ultima cosa che ha detto. –

Camus si era aspettato di sentirsi distrutto, a quel punto. Invece quell’ultima rivelazione lo aveva lasciato del tutto indifferente. Si chiese se questo significasse che non avrebbe provato più niente, e stranamente, quella prospettiva era quasi confortante.
Kido tese ancora la mano. Come osservandosi da lontano, Camus vide la sua tendersi verso un mazzetto di fotografie. Lui, Aioros, la loro taverna. Ricordava quelle immagini, le avevano scattate un mese prima e il suo amico aveva cercato di costringerlo a ritirarle di persona a Rodorio, da quel fotografo con una figlia che sembrava un angelo caduto dal Paradiso. Gli sembrava impossibile che si trattasse della stessa vita.

– C’erano queste, tra i suoi abiti. Ora, se non ti dispiace, ho molte cose di cui occuparmi – la voce dura di Kido sembrava una secchiata d’acqua gelida, ora.

– Aspetti! –

L’uomo si era voltato, serio. – Non sono venuto qui a perdere tempo, ragazzo. –

– Mi dica almeno… – la voce tremava dannatamente, ma Camus aveva proseguito – cos’aveva promesso ad Aioros? –

Kido lo fissò ancora, poi si decise a rispondergli, quasi a malincuore – Che mi sarei fidato soltanto di te. –

Camus era crollato su una sedia semidistrutta, le mani sugli occhi tanto asciutti da bruciare, le dita serrate attorno al pezzo di carta che era l’unico lascito del suo amico più caro. Dopo le prime righe, le tempie avevano cominciato a pulsare senza controllo, e lui aveva pregato tutti gli Dei dell’Olimpo di aver frainteso.

– Non dubito che saprai ritrovarmi, se lo vorrai – Kido aveva asserito con sicurezza, prima di varcare la soglia con estrema dignità.

Camus era rimasto bloccato dov’era, sopraffatto dallo stupore e dalle domande che non aveva fatto in tempo a porre. E sentiva, confusamente, che la sua strada era appena tracciata.


~.~


Le lenzuola scottavano, troppo, perfino per una fine d’estate calda come quella. Camus si rigirava tra le mani il dannato plico che aveva occultato da allora, troppo importante per distruggerlo, troppo pericoloso per riportarlo al suo posto, quasi temesse che cominciasse a vivere di vita propria. "Magari un giorno tornerà alla Tredicesima di sua volontà… e il mentecatto che la occupa avrà un’altra testa da aggiungere alla collezione."
Inutile continuare a chiedersi che cosa sarebbe stato di tutti loro se Aioros non l’avesse mai ricevuto. Il destino di quei ragazzi sarebbe stato ancora peggiore… o forse no. Ora che anche Mitsumasa era morto, era rimasto l’unico a custodire quella scomoda verità. Sulla notte in cui un usurpatore aveva preso il posto del Sacerdote, e sulla notte in cui sette anime ignare avevano varcato la Porta del Capricorno.



– Stammi lontano – la sua voce non era mai stata tanto dura. La ragazza aveva lasciato cadere sulla neve la sacca sdrucita, mandando subito lo scrigno appena conquistato a farle compagnia. L’aveva fissata perplesso, ancora troppo sorpreso per irritarsi.

– Altair… – aveva cominciato, la mano ancora tesa per salutarla.

Senza preavviso, la ragazza era scattata, ricomparendogli alle spalle in tempo per caricare un sonoro manrovescio. – Non chiamarmi mai più così! –

"Lo sa… Camus era arretrato di un passo, fingendo un’indifferenza che non provava.

– Bastardo! – aveva ringhiato lei, scattando in avanti, portando colpi potenti ma disordinati, furiosi. Se avesse potuto, l’avrebbe ucciso volentieri. – Lurido impostore, cosa mi hai fatto? Per conto di chi? –

Ecco, il momento era arrivato e tutto quello che aveva da dire… – Un giorno capirai, Altair. Certe scelte ce le impone un bene superiore. – Non era credibile, neanche un po’. E come poteva? Stava soltanto ripetendo il copione stabilito durante le lunghe serate masochiste passate ad immaginare quel momento. Il momento di spiegare ciò che non poteva giustificare.

Un pugno alla bocca dello stomaco, un altro alle costole, fin troppo facili da parare. Camus non tentava neppure di contrattaccare, paralizzato da quel ridicolo, improvviso senso di colpa: avvertiva il dolore di quella ragazzina come un peso sordo che gli mozzava il respiro, e per la prima volta in vita sua… non riusciva a metterlo da parte.
"Me lo sono meritato. Se mi uccidesse, potrei darle torto?"
L’aveva raggiunto con un diretto al mento, che aveva parato appena in tempo, afferrandole la mano al volo. La ragazzina si era divincolata, indietreggiando di diversi passi e tentando di riprendere fiato. Tremava.

– Guardami. Guardami in faccia, come hai fatto quel giorno. –

La maschera rituale giaceva abbandonata sulla neve. Le guance erano rigate di lacrime. Era identica alla prima volta in cui l’aveva vista.
"Quasi mille anni fa… tu aveva la tua vita e non sapevi che te l’avrebbero rubata."

– Ti piace quello che vedi? Sai cos’hai fatto? –

– Kelly – aveva mormorato, ripescando quelle due sillabe dal fondo dei suoi ricordi, una mano tesa verso di lei. "Kelly… era questo il tuo nome, allora." Avrebbe voluto sfiorarla, asciugarle il viso. La mano si era alzata appena, per ricadere subito, inerte. Era colpa sua, e lo sapeva fin troppo bene.

Lei non gli aveva badato. – La conosci l’angoscia di svegliarti e non avere più niente? Sai cosa vuol dire non ricordare neppure il tuo nome? Proprio tu… Perché, maestro? – aveva insistito, con sarcasmo. – Forse se me lo dici sarò così contenta da non ucciderti… –

Quelle parole presuntuose gli avevano snebbiato il cervello in un attimo, efficaci quanto una secchiata d’acqua gelida in pieno viso. – Non tentare sciocchezze – aveva sibilato Camus, ricomponendosi. – Non sei in grado di torcermi neppure un capello, ragazzina.

– Ti ho preso a schiaffi, però – gli aveva risposto lei, mascherando il tremito della voce con quella ridicola spacconata.

– Allora riprovaci – aveva ribattuto seccamente, allargando le braccia. Se era la guerra che cercava, l’avrebbe avuta. E chissà se un po’ di dolore non le avrebbe ricordato quale era il suo posto.

La ragazzina aveva lasciato ricadere i pugni: sapeva perfettamente che non avrebbe mai avuto la meglio su di lui. Ma neppure aveva intenzione di cedere le armi tanto in fretta. Aveva respirato a fondo, una, due, tre volte.

–Perché? – un bisbiglio, senza guardarlo.

Camus ci aveva riflettuto per un lungo momento. "Ma come si fa trovare le parole per questo?"

– Non importa – aveva continuato la sua allieva, la delusione nella voce –Trova un’altra vittima da ammaestrare. Porgi i miei migliori saluti ad Athena. E non dimenticare i suoi cavalieri. –


~.~


Camus gettò via il plico, un lampo di bianco che scomparve nel buio della stanza. Scomparse, lei e la sua armatura. Per quanto ancora avrebbe continuato a chiedersi se aveva fatto bene a lasciarla andare? E a cosa sarebbe servito trattenerla con la forza, obbligarla a rispettare il patto stretto con la Dea? Parole vuote, se scopri che le fondamenta della tua fede sono più fragili di una lastra di vetro gelato.
Sapeva soltanto che di fronte al disprezzo di quella ragazzina non era riuscito a far altro che chinare la testa, e vederla svanire nella neve, allo stesso modo in cui era apparsa, sei anni prima.



Erano già dieci giorni che aspettava in quella baita in disuso sul lato Nord del K2, solo e sempre più irritato. Con Mitsumasa Kido, tanto per cominciare, e con la sua idea ridicola che avrebbe potuto rivelarsi una balia per marmocchie. Con se stesso, in secondo luogo, per aver accettato come un cretino un altro di quegli appuntamenti tranello a Tokyo, in cui la semplice vista del musetto ignaro della piccola Athena intenta ai suoi giochi riusciva sempre a fargli mandare giù una nuovo idea balzana del suo nonno adottivo. Il vecchio, accidenti a lui, l’aveva imparato da tempo, e lui probabilmente non avrebbe imparato mai.
Dopo la guerra contro i Titani, in cui Saga, nel bene e nel male, aveva giocato la sua parte, si era convinto che tentare di smascherarlo prima del tempo si sarebbe potuto rivelare un errore madornale. Troppi sapevano, e nonostante tutto, si erano prestati al gioco, ognuno per le proprie personalissime ragioni.
L’unico problema era che il silenzio lo stava uccidendo. Da mesi si aggirava per il Santuario con la sensazione di soffocare in quella gabbia di menzogne, rimpiangendo fra sé gli anni trascorsi in Siberia con il suo primo allievo, lontano dal mentecatto e dal suo circo e senza sapere ancora che il suo amico più caro era diventato il suo assassino preferito. Il tempo passava, troppo lento per i suoi gusti. Ciò che doveva essere si era compiuto, ma lui non riusciva a restare con le mani in mano, in attesa che la maggiore età della Dea lo liberasse da quel fardello. Meglio per lui che si rendesse utile.
Erano davvero soltanto queste, le sue ragioni? Secondo Mitsumasa e la sua fida bottiglia di sakè d’annata, parte di esse, e non le peggiori, stavano per materializzarsi alla sua presenza. Questioni di minuti, al massimo di poche ore.
Poche ore che stavano durando troppo.
Era uscito sulla soglia, chiudendosi attentamente la porta alle spalle, un cappotto di pelle di yak gettato con indifferenza sulle spalle, senza darsi neppure la pena di chiuderlo. In quel momento l’aveva vista, nascosta subito da una folata di neve gelida, letteralmente avvinghiata al mantello del fidato sherpa di collegamento col Santuario. Gli era sembrato impiegassero un’eternità per i pochi passi che ancora li separavano dalla luce dorata della casetta, e dal suo calore.
La marmocchia si era fermata di fronte a lui, sbirciandolo da sotto in su mentre Camus scambiava saluti di cortesia con il suo protettore, apparentemente decisa a non mollarlo. L’uomo aveva assentito con un cenno del capo, ma non era riuscito a congedarsi. La mano della bambina non lasciava il suo mantello. Imbarazzato, aveva fatto del suo meglio per liberarsi, con poco successo. A Camus veniva da sorridere, al pensiero di non essere l’unico adulto a disagio, ma si era limitato a scuotere la testa, fingendo di saperla lunga. Occhi enormi sotto il cappuccio della giacca a vento, la pelle del viso arrossata fino al sangue, le mani irrigidite. Si era avvicinato a quel mucchietto di neve e geloni, e chinando un ginocchio a terra, le aveva sistemato meglio la sciarpa.
La bimba era rimasta immobile, indecisa, con l’aria di chi ha preso troppi calci dalla malasorte per concedere facilmente la sua fiducia. "Come se quello che pensi tu fosse rilevante…" Sotto il berretto spuntavano lunghe ciocche di capelli, che prima della marcia dovevano essere stati bionde. La sacca, aveva notato ancora, senza più alcuna voglia di ridere, era quasi più pesante di lei. Persino la maschera di bronzo che le avevano già fatto indossare le era finita attorno al collo, fissata piuttosto malamente con un laccio sudicio che si perdeva tra le ciocche bagnate.
Troppo giovane, quanto lui dieci anni prima. Quanto tutti loro, aveva pensato, sfilandosi il cappotto per metterglielo attorno alle spalle.

"Ecco, adesso è sepolta." Si era rialzato, tendendole una mano. – Vieni con me, ragazzina – l’aveva invitata nella lingua del Tempio, più gentilmente possibile.
Lei sbatté gli occhi più volte, confusa.

Camus sospirò – Vieni con me, ho detto – ripeté in inglese, sillabando le parole.

– So parlare il greco, io! – sbottò la bambina, con una pronuncia che smentiva le sue parole.

Allora non era del tutto congelata… – Se fosse come dici, saresti più pronta quando il tuo maestro t’interpella, ragazzina – replicò, con uno scintillio pericoloso negli occhi.

La bimba doveva essere svelta di comprendonio, perché raddrizzò la postura in un attimo, incrociò le mani dietro la schiena e proruppe in un –Sissignore! – abbastanza entusiasta da causare una slavina.

Lo sherpa, finalmente libero, sbirciò terrorizzato il ghiacciaio millenario che li circondava, indirizzò a Camus un rapido saluto e se le diede a gambe, scomparendo nel giro di pochi istanti.

– Riposo, allieva – Camus sospirò per la seconda volta, prendendo la sacca. – E d’ora in poi, parla a bassa voce. Non sei ancora in grado di bloccare una valanga. –

Gli occhi della piccola si allargarono di desiderio – Davvero me lo insegnerai, signore? – strillò, per poi coprirsi la bocca con entrambe le mani, quasi a tentare di riacchiappare lo sbaglio appena commesso.

Camus si guardò attorno, pronto ad afferrarla per la collottola e scappare. Ma la Montagna, per quella volta, parve non prendersela.

– Entra in casa, ragazzina. In silenzio. – borbottò, indicandole la porta.

Il buongiorno si vedeva sempre dal mattino… dannato Mitsumasa Kido.


~.~


Potevano essere trascorse ore, sul suo personale viale dei ricordi, quando si rese conto di non essere più solo. Scattò a sedere, gli occhi che saettavano rapidamente in tutte le direzioni. Una figuretta smilza si avvicinava con studiata lentezza, muovendosi nel buio con circospezione.
"Per la barba di Zeus, come diavolo è arrivata fin qui?"
La vide meglio nel riquadro di luce della finestra. Non indossava armatura, né maschera. Una semplicissima maglietta chiara e i capelli che le danzavano sulle spalle, incorniciandole il viso sottile. Un fantasma a mezzobusto che fluttuava nell’oscurità della stanza. "Ora capisco. Un'allucinazione particolarmente vivida…"
Era così strana, in panni tanto diversi. Così lontana, e sempre tanto familiare. Sei anni passati a vederla mangiare, dormire, allenarsi, diventare più alta e forte. E sentiva di non averla mai conosciuta davvero.
La ragazza si avvicinò, sedendosi sul letto a pochi centimetri da lui. Appoggiò la testa alla spalliera imbottita e tirò su le ginocchia, abbracciandole. Le loro spalle si sfioravano. Camus era paralizzato dallo stupore e ormai certo di avere le traveggole. "Se tutto questo fosse vero, avrebbe già tentato di uccidermi."
L'allucinazione sospirò, perdendo di colpo tutta la sua aura mistica.

– Se te lo chiedo, stavolta mi risponderai la verità? – Al suo sguardo attonito, la ragazza sorrise suo malgrado. – E no, non stai sognando. –

Camus si scosse dal suo stato di catalessi, e sobbalzò. Delle mille domande che avrebbe dovuto porle, non gliene venne in mente nessuna. Voleva soltanto saltar fuori dal letto, accendere la luce. Era sicuro che sarebbe svanita nel nulla. Ma il semplice fruscio del lenzuolo sulla pelle gli ricordò che, forse, non sarebbe stata una mossa saggia.
Si sentì ridicolo come mai in vita sua. E allegramente imbecille. Perché quelli piegati su una sedia, ad un paio di metri di distanza, erano i suoi vestiti. Tutti i suoi vestiti. Riuscì soltanto ad accostare meglio il lenzuolo, con un gesto che voleva essere disinvolto.

– Rilassati, grand'uomo, sotto quella stoffa non c’è nulla che non abbia già visto da qualche altra parte. – Kelly si sentì in dovere di rassicurarlo, tornando a fissare il buio di fronte a lei.

– Co–cosa…? – esalò Camus, molto più imbarazzato di quanto avrebbe voluto mostrarle.

La ragazza lo guardò di nuovo, con un’aria compassionevole degna della tenutaria di un orfanotrofio. – Sono quasi sicura di essere cresciuta in una base militare, sai? –

"Ah, beh, se la vista di un paio di sederi freschi di doccia rende donne vissute…"

– Credevo che l'unica occasione in cui intendessi rivedermi fosse il mio funerale. – Il ragazzo cambiò decisamente discorso, scrutandola con attenzione.

– Mi servi vivo. Per ora, almeno – fu la pronta risposta.

Camus fissò la sua allieva, le lenzuola, i suoi vestiti piegati sulla sedia accanto allo scrittoio, e valutò il paio di metri che lo separavano dalla salvezza: nessuna speranza di fuga dignitosa. Inchiodato a quel letto dalla decenza, lo avrebbe avuto a sua completa disposizione.

– Che cosa vuoi, Kelly? Non credo tu sia qui per rimboccarmi le coperte – si decise a chiedere, già sicuro che la risposta non gli sarebbe piaciuta.

Lei rimase in silenzio per un po’, soppesando le parole. Così tanta strada e ora… non sapeva cosa rispondergli. Perché aveva rischiato la vita per tornare indietro, e riprendere quella conversazione che aveva troncato il giorno dell’investitura?
Cercava una spiegazione, era quella la verità, perché si sentiva una stupida. Per avergli creduto quando le aveva riempito la testa con tutte quelle frottole mitologiche, per essere scappata con una ridicola scenata, impulsiva e poco saggia come sempre, convinta di sapere tutto. E perché le sembrava di aver vissuto due vite in cui non aveva fatto altro che ripetere gli stessi errori. Ma questo lui non poteva e non doveva saperlo. Come non doveva sapere che le era mancato, perché senza i suoi occhi a seguirla all’improvviso si era sentita perduta.

"Si chiama sindrome di Stoccolma…" continuava a ripeterselo, certo, e forse alla fine ci avrebbe creduto.

– Perché? Non saprei cosa vorrei sentirti dire, maestro – si decise a confessare. – Ma potrei accettare una risposta sincera. – "Soprattutto se mi dimostrerà che non mi sono sbagliata del tutto su di te…" –Vorrei soltanto capire, a questo punto. – La ragazza sospirò ancora. Doveva essere sfinita.
Camus aveva intravisto la propria salvezza nel copriletto, arrotolato ai piedi del materasso. Stando bene attento a non scoprirsi troppo, lo agguantò, se lo drappeggiò addosso a mo' di toga e si alzò. Kelly non poté trattenere un sorriso. "Parola mia, Saint d’Aquarius, dev’essere troppo tempo che non frequenti una donna."

— La moglie del capo del villaggio, dove andavamo a comprare cibo… Se fortunato che non ti abbia mai visto così. – ridacchiò, e lui si chiese se non avrebbe fatto meglio a procurarle una bara di ghiaccio.

Riuscì a recuperare la busta col sigillo sacerdotale per un puro colpo di fortuna, e tornò indietro con smorfia seccata. Sedette di nuovo accanto a lei e borbottando un sommesso “So già che me ne pentirò amaramente” glielo porse. Kelly l'esaminò, perplessa, poi alzò lo sguardo,che divenne all'istante vitreo.
Camus la rivide in un lampo, com’era sei anni prima, quando le aveva mostrato per la prima volta il potere di un Guerriero dei Ghiacci. Quando si era sentito divertito e orgoglioso insieme e non poteva immaginare che un giorno lei avrebbe smesso di ammirarlo.

– Non credevo bastasse così poco, per lasciarti a corto di parole. –

La ragazzina strinse gli occhi, quindi sorrise con sarcasmo: la mannaia calò senza misericordia. – Capisco che sia tornato di moda lo stile senatore, ma dovresti chiuderti il laticlavio, se non ti spiace. Le mie budella non reggeranno a lungo la vista dei tuoi beni più preziosi – sentenziò, riportando gli occhi sul foglio che teneva in mano.

"Se l’ammazzo, Athena crederà alla legittima difesa?"

– Le ragazzine non dovrebbero guardare in certe direzioni! – ribatté Camus pallidissimo, rimettendo a posto l’abito improvvisato con una mossa degna della velocità che raggiungeva in battaglia. Raccolse la lampada volante, miracolosamente illesa, e la posò sul comodino.

Kelly sorrideva ancora, mentre scorreva rapidamente le righe fitte del plico, ma cambiò espressione molto, molto in fretta. – Questo… questo è delirio… non può avere a che fare con noi – bisbigliò, cercandolo con lo sguardo.

Camus non le era mai sembrato sconfitto. Mai fino ad allora. Lo vide distogliere lo sguardo da lei, e fissarsi i palmi. – Kelly… non troverai altre risposte se non lì. Quello è il testamento del Grande Sacerdote legittimo, trafugato e messo in salvo tredici anni fa. È stato salvato a prezzo della vita di un Cavaliere. È autentico. E ogni parola che leggi è la pura verità. –

– Anche… –

– Soprattutto la parte che riguarda il tuo amico. – Camus lo disse tutto d’un fiato, rendendosi conto che temeva e desiderava quel momento da troppi anni.

"Sta’ calma, sta’ calma, sta’ calma" – Quindi questo Santuario è governato da un usurpatore, e tu lo sai… – Lui la guardò allora, spalle curve e occhiaie profonde. Quanto erano tristi quegli occhi… – e Mark sarebbe un predestinato. Sarebbe l’incarnazione del Cavaliere prediletto di Athena. E noi? Incidenti di percorso? –

Il ragazzo sedette di nuovo accanto a lei e guardò oltre la finestra aperta, verso le luci rosate dell’alba. – Conosci già la risposta. La Dea vi ha chiamato, Kelly, e le vostre costellazioni vi hanno concesso la loro protezione. Altrimenti, le vostre armature non vi avrebbero riconosciuto come legittimi custodi. –

– E credi che questo possa bastarmi, ora? – lo fissava tanto intensamente da trapassargli il cranio, lo sapeva. Sentiva quasi formicolargli la nuca. – Tu c’eri, quel giorno. Lo so, ti ho visto a Monastiraki. Sei stato tu? –

Camus tornò a posare gli occhi su di lei, ma solo per alcuni istanti. Se lo ricordava, eccome. Il momento esatto in cui aveva capito che era tutto vero, che Shion non scherzava e non si era sbagliato, nel testamento che aveva affidato ad Aioros. Lo spirito del Cavallo Alato, il prediletto di Athena, si era incarnato davvero, ma nel luogo più sbagliato. Dove nessuno avrebbe potuto trovarlo, se il Sacerdote non avesse usato tutto il suo potere per rintracciarlo. E insieme a lui, aveva potuto percepire le flebili emanazioni di altri prescelti. "Tutti voi…"

– Ho fatto quanto dovevo, Kelly. In ogni circostanza, anche se è stato necessario sporcarsi le mani. Non è possibile evitarlo. Anche tu dovresti saperlo, ormai. –

Non si può scegliere… Lo sapeva. Tutta la sua vita – le sue due vite – era stata scandita da quella verità tanto banale da non ritenere possibile sentirla dalle ricercate labbra di Camus. Lo sapeva, ma non le sarebbe mai bastato.

– Perciò facciamo tutti parte di un piano più ampio… –

"Tu non sai quanto, ragazzina."

– Hai scelto tu di essere il mio maestro, Camus? – riprese lei, stancamente.

Il ragazzo le restituì l’occhiata, di nuovo imperturbabile. – Ero la persona più adatta. –

Bugiardo. Lui era soltanto un rimpiazzo, e magari, insistendo un po’, Mu dell’Ariete avrebbe accettato un’allieva che non provenisse della sua comunità. E l’armatura della Gru sarebbe stata guadagnata in Jamir e conquistata sulla Montagna, com’era sempre stato. Ma dopo averne parlato con Kido aveva lasciato stare, pensando soltanto a far pervenire a Saga le soffiate appropriate perché venisse a sapere dell’esistenza di alcuni candidati alle armature vacanti di bronzo e d’argento.
Quando il mentecatto lo aveva convocato per chiedere il suo parere, era stato lui a suggerire che sarebbe stato più appropriato che lui addestrasse il futuro Cavaliere d’Argento, mentre il suo vecchio allievo avrebbe potuto occuparsi dei due candidati all’Armatura di Bronzo di Cygnus.

– Niente di personale, dovevo immaginarlo. – stava mormorando lei, soprappensiero.

Camus sentì un qualcosa calargli in mezzo al petto, proprio dove qualche minuto prima si era sentito più leggero. Qualunque cosa fosse, era straordinariamente pesante.

– Ho fatto qualche indagine, in questi mesi. – sentirla rivolgergli ancora la parola lo sorprese. – Ricordavo un qualche genere di arco che abbiamo attraversato, l’ho cercato dappertutto, fino ai testi esoterici più antichi… e quelli più strampalati. E alla fine ho trovato qualcosa. –

"Ci siamo."
Camus strinse le dita attorno alle lenzuola sgualcite.

– Ho letto dei Portali che collegano i Tre mondi. Del rischio di viaggiare tra universi paralleli. So di essere nata Altrove. – la rabbia nella sua voce era quasi palpabile. –ma sono le cose che non so ad interessarmi di più. Secondo rotoli più antichi dei Rigveda, il viaggio tra i piani di esistenza deve essere un atto volontario, e va insegnato con cautela, pena conseguenze terribili. Tu invece ci hai portato qui con la forza. –

La ragazzina tacque, una pausa ad effetto che doveva avere lo scopo di farlo sentire in colpa.

– Maledizione, Camus! Abbiamo perso il ricordo di noi stessi, e i nostri corpi sono tornati… indietro. La mattina dopo, quanto ci siamo svegliati in uno squallido orfanatrofio giapponese, avevo di nuovo otto anni! –

Kelly lo fissò ancora, come se volesse passarlo da parte a parte. Si alzò, percorrendo diverse volte la distanza tra la finestra e la porta. Tremava come se sentisse freddo, e nella luce tenue del mattino, Camus notò per la prima volta le occhiaie che le segnavano il viso. Come se non dormisse da giorni. O forse, da quando se n’è andata.

– Io… mi hai manipolato, sempre. Mi hai rubato la vita, i ricordi. Mi hai reso una schiava. Ti sei mai fermato a pensare a quanta sofferenza avresti causato? Hai vissuto sei anni con me, maledizione… È stato divertente? Ti sei compiaciuto della scimmietta che stavi addestrando? Ti sei mai chiesto com’è stato ricordare chi sono davvero? Hai pensato a Mark e Jason, che si sono quasi uccisi a vicenda? A David, che è scomparso all’isola di Death Queen? A cosa si prova a rendersi conto di aver perso ogni ricordo della propria sorella per anni? – alla fine stava urlando, sconvolta, e sembrava sul punto di svenire. – Cosa diavolo ci hai fatto? Mio Dio, ho rischiato di impazzire… Ho vissuto due vite… e la tua unica giustificazione… le stelle vi hanno scelto! –

Aveva ragione, e lo sapeva. Come sapeva che il momento di rendere conto a qualcuno sarebbe arrivato. E il peso al centro del petto stava aumentando, fino a togliergli il fiato. Perché quel dolore era colpa sua, e non c’era niente che potesse…
Tranne qualcosa che non aveva mai fatto prima. Si alzò, sfiorando le spalle che la ragazza si ostinava a tenere voltate. Lei non si lasciò toccare, ma si fermò, un singhiozzo che le sfuggiva.

— Non saremo mai liberi – la sentì sussurrare, come se parlasse con qualcuno che non era lì.

Non le rispose, ma tese le braccia e la strinse, voltata com’era, la strinse con forza, sperando che potesse capire. Lei cominciò a divincolarsi, infuriata, ripetendo con voce sempre più rotta che doveva lasciarla andare, che non aveva bisogno di lui né della sua ridicola pietà. Non le diede retta, la trattenne più forte ancora, finché Kelly gli piantò le unghie nelle braccia e scoppiò a piangere a dirotto.

– Bastardo, maledetto bastardo… io… mi fidavo di te… –

Se la teneva vicina, senza permettere che si allontanasse, lasciandosi coprire d’insulti sempre più sconnessi e coloriti. "Sfogati un po’, piccola…"
Cominciò a sentire dolore alle braccia, là dove la ragazzina l’aveva graffiato a sangue. Il copriletto era quasi scivolato a terra e lui non si era mai sentito tanto ridicolo in vita sua. Passarono i minuti, lenti, finché non gli sembro di avere completamente perso la nozione del tempo, e che sarebbe invecchiato e diventato polvere prima che lei cessasse di lanciare minacce alla sua vita e i suoi gioielli di famiglia.
In compenso, era sempre più sicuro di stare facendo la cosa giusta. Lentamente i singhiozzi diventavano più deboli, le frasi più sconnesse, e quando lei finalmente sembrò calmarsi sentì la sua stessa voce blaterare una sciocca battuta, del tutto indipendente dalla sua volontà: – Non guardare, ora. Le tue budella sono già troppo provate. –

Un singulto le scosse le spalle, a metà tra un singhiozzo e una risata. Kelly si voltò senza più divincolarsi e si lasciò andare per alcuni istanti, la guancia premuta contro il suo petto, le sue lacrime che gli bagnavano la pelle là dove la stoffa non lo copriva. Camus le accarezzava i capelli e, forse per la prima volta in vita sua, sentiva di provare una tenerezza struggente, che fermava il respiro in gola.
"E che non puoi permetterti."

– So che non saresti voluta tornare – Lei rialzò la testa, già pentita di quell’attimo di abbandono. Camus non la lascò parlare. – Ma non hai pensato che potrei aiutarti, ragazzina. –

Kelly si scostò, fissandolo attonita. Il copriletto si apriva sempre di più. "Per grazia d’Athena guarda in alto."

– Perché? – una sola domanda, diretta. La più difficile di tutte. – Non basta… questo, Camus. – Anche se l’ho desiderato disperatamente. – E non credo più a nulla di quello che mi hai raccontato – distolse gli occhi, abbastanza da consentirgli di ricomporsi rapidamente.

– Sono ancora il tuo maestro… –

– Camus, questo non… –

– E il mio lavoro non è ancora finito. – "Contavo di insegnarti a sopravvivere, per esempio."

– Ma… –

– Niente ma. – Tagliò corto lui, con un tono che non ammetteva repliche. Lei lo guardò male, ma non reagì. Si sentiva troppo stanca. Del tutto incongruamente, lo vide sorridere appena.

– Lasciamelo fare, ragazzina. – E un giorno, forse, il debito con voi potrà essere saldato.

Fuori albeggiava. Kelly si distrasse un attimo, rapita dai colori dell'aurora. "Mi piacerebbe crederti un mostro, ma sei lo stesso che mi ha tenuto in piedi per tutti questi anni, non posso dimenticarlo." Sospirò. Era come se anni di stanchezza le fossero caduti sulle spalle. "E neppure posso dimenticare che non l’hai fatto per me."
Un delicato fruscìo di stoffa la riportò alla realtà. Camus era a pochi passi da lei, assurdo involtino primavera dentro un antiestetico copriletto di cotone.

– Ora voglio che mi aspetti qui. – Le ordinò secco. In mano aveva un involto di abiti.

– Aspettare… cosa? – rispose, divertita suo malgrado. Era così evidente:il Signore dei Ghiacci cercava un modo di riprendere il controllo della situazione. E, possibilmente, anche un paio di mutande.

— Ti faccio uscire io dal Santuario, Kelly. Non è il caso che altri ti vedano e dobbiamo ancora… chiarire delle cose. Cerca di non sgattaiolare in pasto alle sentinelle, se puoi. – Le voltò le spalle. – E chiudi la bocca se non vuoi che diventi un ricovero per mosche – aggiunse con soddisfazione. Si avviò verso il bagno, compiaciuto di aver avuto l'ultima parola, almeno quella volta.

– Grazie, Camus… – la voce della ragazza lo raggiunse, inaspettata… e sincera.

Non la guardò neppure. Con una mano già sulla porta, Camus pensò che un ‘grazie’ come quello valeva il rischio di farsi uccidere.
Senza rimpianti.

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Capitolo 4
*** Track #03: Drive ***


Track #03: Drive TRACK # 03

DRIVE

Sometimes, I feel the fear of uncertainty stinging clear
And I can't help but ask myself how much
I'll let the fear take the wheel and steer […]
It's driven me before and it seems to be the way
That everyone else gets around.
But lately I'm beginning to find that when
I drive myself my light is found.
Whatever tomorrow brings,
I'll be there with open arms and open eyes, Yeahhh
Whatever tomorrow brings, I'll be there… I'll be there.

(Incubus)

Aprì un occhio, poi l'altro, senza nessuna voglia. E la prima cosa che vide (e le aprì il cuore) fu una tazza fumante che le fluttuava a pochi centimetri dal naso. — Ancora cinque minuti, amore… — gemette, abbracciando il cuscino.

Era a casa, finalmente. Mark era sgattaiolato in camera sua dopo una delle sue spedizioni in cucina, e le aveva portato cornetti appena sfornati e almeno due tazze di caffè. L'avrebbe svegliata con un bacio tenero e poi avrebbero fatto colazione in fretta, ché l'alba era vicina e quel bastardo di suo fratello si sarebbe fiondato da lei appena sveglio per sfidarla di prima mattina.
Sì, la vita era di nuovo bella e degna di essere vissuta. Che strano incubo aveva fatto, però…

— Come mi hai chiamato, esattamente? —

Ma che diavolo? Con gli occhi ancora pieni di quel dolce ricordo, la ragazza impiegò qualche secondo più del dovuto a mettere a fuoco la mano che reggeva la tazza fumante, indi il suo proprietario… e quando ci riuscì diventò terrea.

Camus aveva l'aria perfettamente seria, mentre le porgeva il caffè. — Bevi, forse uscirai dal mondo dei sogni. —

Kelly inspirò a fondo, tentando di non cedere alla tentazione di sprofondare sottoterra, quindi accettò la tazza con un grazioso cenno di ringraziamento. — Buongiorno, maestro! Non ti avevo riconosciuto… vestito. — cinguettò, riprendendosi in fretta e godendosi quella favolosa occhiata omicida. — Ma… che cosa è successo? che ore sono? —

— Le dieci del mattino. Quando sono tornato in camera stavi russando — le spiegò Camus, sottolineando l'ultima parola con un'occhiata di riprovazione — evidentemente non dormi abbastanza. — Recuperò la propria tazza dal comodino e raggiunse lo scrittoio dall'altra parte del letto. Si lasciò cadere sulla sedia, senza perderla d'occhio.

Kelly spostò lo sguardo dai suoi piedi nudi ai jeans scuri, alla camicia nera con le maniche arrotolate. Le trovava così strane… incongrue, su di lui. Parlavano di normalità, di una persona diversa dal maestro delle favole, che si svegliava con lei in una catapecchia d'alta montagna e la portava sulla cima del mondo per insegnarle ad evocare la forza delle stelle. Diversa da quel bastardo arrogante da cui era fuggita quando aveva scoperto come le aveva distrutto la vita per 'il bene superiore'. "Allora non mi hai mentito, questa notte."
Un altro uomo, in questo e chissà se in altre cose.
Forse avrebbe potuto chiedere un favore a quel ragazzo che era stato così gentile da svegliarla con un caffè. Vuotò la tazza in pochi sorsi, soppesando le sue due decisioni. La prima, di non bere mai più un caffè uscito dalle sue mani, sembrava di gran lunga la migliore.

— Camus, prima di parlare dobbiamo andare in un posto. C'è qualcosa che devi vedere. — "E una persona da presentarti assolutamente."

~.~


Max Herrmann quella mattina pareva deciso a distruggere il quarto sacco del mese, sotto gli occhi attenti di un Martin Rothstein non esattamente al massimo della forma. Colpa della notte in bianco, delle pessime notizie e, come nelle peggiori farse, del suo capo. In quella palestra, quanto restava della prima squadra che avesse avuto l'onore di comandare.
Martin aveva voglia di una sigaretta, una indecente, irrefrenabile voglia di una sigaretta. Nonostante avesse smesso da anni. Nonostante avesse un mal di gola da elefante e fosse vietato in tutti i locali dell'edificio.
E se la fumò, dopo una ricerca maniacale, a lunghi tiri avidi, mentre cercava di rimettere insieme le idee.
Tre mesi svaniti tra ricerche infruttuose e notti in bianco avevano lasciato a lui e al suo sottoposto un'eredità di occhiaie, nervi a fior di pelle e resti di caffè da asporto nel cestino. Se almeno avessero raggiunto qualche risultato… Erano scomparsi, da troppo ormai per pensare ragionevolmente che fossero vivi. L'altra ipotesi, la fuga, neppure riusciva a prenderla in considerazione.
Eppure, ancora non riusciva a lasciar perdere.
Il suo primo, segretissimo incarico da addestratore per il Department of Peacekeeping Operations era stato l'esperienza peggiore e al contempo più importante della sua vita. Lui, il primo sopravvissuto al Project S., incaricato di rendere simili a lui un branco di bambinetti che avevano in comune solo le origini. Figli di spie, come lui, di uomini e donne deceduti in servizio, più o meno con onore, e ingannati fin oltre la morte: i loro figli, a partire da lui, non erano entrati in un programma di protezione, ma in una speciale e molto esclusiva base militare in cui si addestravano bambini soldato. Future spie al servizio della Società delle Nazioni, che ne avrebbe sempre negato l'esistenza agli occhi dell'opinione pubblica.
Pensò a loro, a Mark e a Jason, ai tre fratelli Nolan, a Michael e David Ruser. Ricordò la prima occhiata che aveva dato a ciascuno di loro, a quei bimbi spauriti con lo sguardo falsamente adulto dei marmocchi venuti su troppo in fretta.
Pensò ai giovani che erano diventati, ai sorrisi che gli avevano rivolto partendo per la Grecia, increduli ed emozionati di fronte alla prospettiva di vivere due settimane di vacanza, sentendosi normali come non erano mai stati.
Ora non gli restava che rimirare sette sedie vuote e una parete tappezzata di crudeli fotografie scattate in tempi più felici.
Doveva fare qualcosa, subito, pensò, gettando via una cicca aspirata fino al filtro. E perdio, pensò con l'accendino e la quarta sigaretta in mano, l'avrebbe fatto.


Max sferrò un ultimo calcio al sacco, afferrò l'asciugamani scivolato sul pavimento e se lo gettò sulla spalla sinistra con un gesto stizzito.
La porta del bagno sbatté con violenza. Con le mani appoggiate sui bordi del lavandino, il ragazzo cercò di dominare il tremito rabbioso che l'aveva colto. Si bagnò le mani e le passò tra i cortissimi capelli biondi, fermandosi a giocare con una l'unica ciocca che, da anni, lasciava lunga a coprirgli parte della fronte. Lo faceva ogni volta che cercava di raccogliere le idee, e lei diceva sempre che adorava guardarglielo fare. Due iridi verdi lo fissavano beffarde dallo specchio, chiedendogli, ancora una volta, a cosa accidenti servisse quella divisa di cui fino a poco tempo prima sarebbe andato fiero.
Scomparsi, svaniti, volatilizzati. Come trasportati in un'altra dimensione. E lui non era riuscito a fare nulla.
Come unica traccia, un sogno sfocato… "Oppure un ricordo?"


Stava correndo, sembrava che ogni passo gli costasse il doppio della fatica e lo portasse avanti della metà. Gli mancava il respiro, come una mano soffocante che gli sottraesse l'aria. Un orrendo presentimento stretto attorno al cervello non gli dava pace. Aveva appena lasciato una turista tremante nel vicolo in cui Jason si era dissolto davanti ai loro occhi. Un rumore a destra l'aveva fatto voltare voltare. Per l'ennesima volta stava maledicendo i sobborghi di Atene. Dietro l'angolo, un uomo altissimo, il viso nascosto dai lunghi capelli, si stava chinando su Kelly e Dave svenuti. L'uomo s'era girato, con un rapido movimento lo aveva mandato a sbattere contro una parete. Il dolore gli aveva tolto il fiato. Con la vista impedita dal sangue che scorreva abbondante dalla fronte Max aveva intravisto l'uomo ordinare ai suoi scagnozzi di portare via in fretta i corpi inerti dei suoi amici. Una fitta lancinante, poi più nulla.



— Maledizione! — sbraitò, prima di salire a medicarsi la mano. L'aspettavano una quantità di noiose spiegazione per quelli della manutenzione. Aveva spaccato un altro specchio.

~.~


Avrebbe dovuto immaginare che non gli avrebbe portato niente di buono.
Camus adesso sapeva come ci si sentiva a casa dei genitori la sera del primo appuntamento. Anche se la sua unica esperienza in merito aveva avuto come protagonisti lui, il suo primo allievo, il permafrost siberiano e una robusta eschimese a caccia di marito, riconosceva i segni.
Sguardo perforante, braccia incrociate, sopracciglio sollevato. E domande imbarazzanti. "Appunto mentale: mai dare ascolto a questa serpe a sonagli."
Si concentrò su quello che aveva attorno, tanto per darsi un contegno: una piccola soffitta, poco più di una stanza, in effetti, ma luminosa e accogliente nonostante l'odore di acqua stagnante della Darsena, posta in quello che indubbiamente non era uno dei quartieri chic di Tokyo. Arredata giusto l'indispensabile, in quel soggiorno stranamente occidentale: un divano piuttosto comodo, il cui rivestimento doveva aver visto tempi migliori, un tavolino basso, un televisore e una libreria quasi vuota. Doveva sembrare una reggia, dopo la baita che avevano diviso per anni, con l'acqua calda e un collegamento con il mondo esterno. Camus era più che certo che, invece, la poltrona di plastica gonfiabile, rosa acceso, su cui era appollaiata la piccola serpe, apparentemente assorbita da un programma di cucina, provenisse diritto da una bottega di rigattiere che aveva notato poco distante, e non fosse compresa nell'affitto. Come anche le pareti tappezzate di gruppi rock, tra cui spiccava un castoro baffuto in calzamaglia rossa piumata, dall'aria meno virile ancora del custode delle Dodicesima.
E ce ne voleva, per sembrare più checche di Aphrodite.
La Grande Madre finalmente smise di esaminarlo ai raggi X, la sua espressione seccata doveva essere meravigliosamente eloquente, e scambiò uno sguardo nervoso con la sorella.
Poi, all'improvviso, sorrise, luminosa e inquietante.

— E così, saresti tu il famoso Camus… —

~.~


Se c'era una cosa di cui Martin Rothstein andava fiero, era rispettare le promesse che faceva a se stesso. La prima della giornata, era quella di dedicarsi anima e corpo a ritrovare i suoi ragazzi. La seconda, cui pensò appena ebbe la sventura di imboccare quel corridoio, era non mostrare a Henry Wood quanto lo disgustasse la sua promozione a Generale.
Non che l'ego di quel pallone gonfiato fosse in grado di notare quisquilie come la disapprovazione altrui…

— Salve, Tenente. —

Se si stava degnando di salutarlo per primo, il motivo poteva essere uno solo. — Agli ordini, Signore! — Martin si pose sull'attenti, fissando la parete bianca di fronte a lui. "Fa' che finisca in fretta, fa' che finisca in fretta…"

— Riposo, Tenente. — sogghignò l'uomo, con l'aria di godersi ogni più piccola briciola di trionfo. — Proseguono bene, le tue ricerche? —

— Meglio non si potrebbe, Signore. — Martin non desiderava altro che spaccargli la faccia. Se il Comando Generale intendeva accettare l'ipotesi delle diserzione, e radiare con disonore i suoi ragazzi, il merito era principalmente suo.

— Ho sentito che hai convinto i due rinunciatari a riprendere l'addestramento. Non so se tu stia cercando un aiuto, o dei sostituti, finalmente… ma forse due bambocci che già si sono ritirati una volta sono degni eredi di quelli che se la sono data a gambe, Rothstein. — Wood si allontanò svelto, senza più degnarlo di uno sguardo, imboccando un altro corridoio.

Martin strinse i pugni. Aveva appena avuto un'illuminazione, un'idea che valeva la pena di approfondire, riguardo quella improvvisa promozione e e il nuovo progetto di ricerca in cui Wood era stato coinvolto.
"Goditi pure il tuo momento di gloria, caro non-più-Colonnello. Ma lascia che scopra che parte hai avuto in questo, e te ne pentirai amaramente."

~.~


La caffetteria della base non andava più bene, per quello che Martin aveva in mente di fare, adesso. Si sentiva un imbecille per non averci pensato prima, ma allo stesso tempo sentiva che un peso gli era caduto dallo stomaco, un peso per che per tre mesi gli era sembrato impossibile da rimuovere. E ora aveva bisogno di un altro pacchetto di sigarette. Sarò morto soffocato prima di trovarli, di questo passo…
Non che vivere in una base sotterranea fosse la massima garanzia per i polmoni, ma a quello ormai aveva fatto l'abitudine. E poi, venir fuori dalle viscere della terra per emergere alla luce di Washington, D.C., beh, quello non aveva prezzo.
"Possibile che nessuno se ne sia mai accorto?"

Oltrepassò la guardia al cancello di sicurezza con un sorriso e il pacchetto vuoto in bella vista. — Ti portò un caffè, Alfred? —

— No, ma grazie, ragazzo. — gli sorrise di rimando l'uomo, con lo stesso fare protettivo che non aveva mai smesso, in tutti gli anni da che durava la loro conoscenza. Venticinque esatti. Quanti bambini come lui doveva aver visto entrare, in quell'antro, e quanti pochi doveva averne visti uscire.

Il sorriso morì sulle labbra di Martin appena fuori dal raggio d'azione della guardia. Ora si trattava di essere seri, terribilmente seri. E di stare molto attenti, perché se l'avessero seguito avrebbe dovuto aspettare un'altra occasione. E non era il caso di perdere altro tempo.
Aveva un folle bisogno di riflettere sulla sua idea balzana, e sulle conseguenze che ne sarebbero derivate. Per fortuna, era provvisto di buoni piedi e di nessuna voglia di prendere un taxi. Si fermò soltanto una volta, in un locale pronto per l'happy hour. Le sue sigarette, una indispensabile telefonata, e il dado era tratto.
Sì, camminare per le strade gli schiariva sempre le idee. Quando spinse la porta d'ingresso dello "Starbucks" che aveva scelto, in Liberty Place, tra studenti, impiegati e ragazzini in libera uscita, il piano era delineato. Non restava che ottenere l'aiuto necessario. E in quello, era terribilmente bravo.

— Salve, Allen. — ghignò, sedendo di fronte ad un uomo sulla quarantina, i cui corti capelli grigi testimoniavano sia la mancanza di gusto del suo barbiere, sia l'abitudine, tipica degli ex—marine, a non lasciare mai che i capelli arrivassero a sfiorare le orecchie.

Jack Allen gli rivolse uno sguardo azzurro sorprendentemente limpido, colmo di disapprovazione per quella chioma castana e disordinata che scendeva fino alle spalle, da chitarrista metal che avesse litigato con le forbici.
Un cenno del capo era il massimo saluto che l'uomo gli avesse mai concesso, ma Martin lo conosceva da troppo tempo per prendersela davvero.

— Non mi aspettavo una tua telefonata, Rothstein. Non da quando sei sotto inchiesta per la sparizione della tua squadra. — esordì l'uomo, prendendo un sorso dalla sua tazza di caffè nero.

Martin sorrise, di quel suo sorriso che non si capiva bene se fosse cordiale o pericoloso. In fondo se lo aspettava. Quello che lo seccava davvero era non averlo scoperto da solo. Chissà cos'altro gli era sfuggito… avrebbe dovuto colmare le lacune, e presto.

— Quindi l'incarico è stato affidato a te? — finse di essere perfettamente informato. Allen annuì appena, come se quell'informazione non avesse la minima importanza. — E nonostante tutto, hai accettato l'invito di un sospettato? —

— Mi piacciono i dolci — sorrise appena l'uomo, gli occhi chini su suo muffin alle mele, appena intaccato.

— Ma non la mia compagnia, se non ricordo male. —

— Tu sei una mina vagante, Rothstein. Tu e la tua banda di ragazzini esaltati convinti di vivere in un film di James Bond. E il mio lavoro, invece, consiste nel fare in modo che tutto sia in ordine, scovare gli inganni e mettere dietro le sbarre criminali in divisa. — Questa volta Allen lo fissò a lungo, l'espressione del viso dura come pietra. — Ma questo non vuol dire che ti augurassi di finire davanti alla Corte Marziale. —

— Potrei meritarmelo, dopotutto. —

Per la prima volta Allen tradì un moto di nervosismo, di fronte a quella ammirabile faccia tosta. — Lo sappiamo entrambi, che non sei stato tu, bamboccio — Martin gli riservò un'occhiata colma d'ironia. "Mai un dubbio, Jack? Da te che ne hai messi dentro tanti? Dovrei sentirmi onorato." — Ma la domanda resta. —

— Chi? — tirò ad indovinare il ragazzo.

— Sbagliato — Allen incrociò le mani, lo guardò come si fa con uno strano reperto. — Perché. Ecco quello che bisogna scoprire. Prima che sia costretto ad incriminarti. —

— Incriminarmi — ripetè Martin, tanto per sentire se dalle sue labbra la parola avesse un suono meno preoccupante.

— Già. — L'uomo finì il suo caffè con una lunga, lunghissima sorsata. Una dipendenza peggiore della sua appena ritrovata per le sigarette. —Le prove indiziarie a tuo carico sono già piuttosto pesanti. —

— E quali diavolo... —

— Manca ancora il movente, ma tu sai bene che una mente ben organizzata lo troverà in fretta.. a costo di fabbricarlo — l'uomo sorrise appena alla cameriera che gli aveva riempito nuovamente la tazza — Qualcuno vuole chiuderti la bocca, Martin. E al posto tuo starei attento anche all'ultimo superstite. La testimonianza che ha reso dopo il presunto rapimento non avrebbe più valore, se anche lui 'disertasse'. —

— E tu, che non mi hai mai particolarmente apprezzato, sei corso qui, dopo la mia chiamata, soltanto per mangiare una torta di mele e dispensarmi buoni consigli, giusto? —

— Sbagli sempre prospettiva, Rothstein. — L'uomo tese una mano, un foglio piegato tra le dita — sono qui per lo stesso motivo per cui tu hai finalmente deciso di contattarmi. Per mandare in prigione le persone giuste, prima che sia troppo tardi. —

Martin sorrise, del suo sorriso sicuramente pericoloso. E tese la mano.

— Dimmi solo come posso aiutarti, Allen —

~.~


Il ragazzo biondo percorreva con aria truce il corridoio che portava dalle palestre ai piani superiori, dove si trovavano le camere da letto.
La mano sinistra gli faceva un male cane. Probabilmente era rimasto qualche pezzo di vetro conficcato all'interno, ma lui non se ne preoccupava. Ne aveva subite di peggiori nella sua breve carriera. Certo però che gli girava la testa. Sentiva i riflessi rallentati e troppo tesi allo stesso tempo. Colpa della notte in bianco. Forse per questo accadde tutto così velocemente, o almeno così gli sembrò.
Max si ritrovò voltato, la mano tesa e l'arma di ordinanza pronta a sparare. Un battito di ciglia, un riflesso. Poi, per fortuna, aveva riconosciuto chi lo stava seguendo.
Un sorriso candido, guance coperte di efelidi leggere, occhi neri e luminosi, capelli rossi come il fuoco, corti, cortissimi. E nonostante ciò, incredibilmente spettinati. La sua amica l'aveva abbracciato di slancio, senza chiedere permesso.
"Ma che diavolo?"

— Stavi cercando di impallinarmi, Herrmann? Bell'amico… —

Max rimase a fissare come un cretino quell'altra apparizione. Non poteva crederci, non dopo tanto tempo.

— Katie… Alex… —

~.~


Era strano ritornare all'Undicesima Casa, trovarla identica a come l'aveva lasciata, quando in realtà tutto era cambiato.
Camus si voltò verso l'interno, soffermandosi sul letto disfatto, il copriletto della dignità gettato con noncuranza sulla poltrona, un cuscino sul pavimento. Per non parlare degli abiti della sera prima, sparsi per ogni dove quando lui ricordava di averli lasciati perfettamente ordinati sulla sedia. Avrebbe dovuto metter ordine in quel caos, ma non ne aveva voglia. Non quella sera.
Non mentre sentiva scorrergli dentro una tenue serenità che non provava più da troppi anni. Ed era tutto merito loro.
Senza saperlo, gli stavano restituendo l'anima. La stessa anima che aveva sentito scivolare via dopo quella notte di tradimenti e inganni.
Scoprire che Saga aveva ucciso il vecchio Shion e mandato a morte Aioros era stato peggio che morire. Lo ricordava bene, il Santo, che da tredici anni dicevano scomparso. Il migliore esempio da seguire, per tutti loro. Talmente perfetto in tutto quello che faceva che spesso il suo fulgido esempio non lo seguiva neppure Aioros, che pure pareva l'unico in grado di paragonarsi a lui per saggezza e devozione alla Dea.
Dov'era finita la devozione, mentre indossava la maschera di Arles e si fingeva Sacerdote? Dove la saggezza, mentre mandava Shura a finire Aioros?
Camus aveva vissuto giorni in cui l'unica sensazione era stata l'affievolirsi e lo spegnersi di ogni sensazione. Dopo aver conosciuto Mitsumasa Kido si era dedicato al compito affidatogli con determinazione, ma non aveva potuto nasconderlo a se stesso. Il suo mondo cavalleresco ed ideale era crollato come un misero castello di carte. E forse, se non avesse incontrato la piccola Saori, non avrebbe più creduto neanche nella Dea della Giustizia. Non aveva avuto nessuno, in tutti quegli anni, con cui dividere la pena. Per tredici lunghi anni il segreto e il dubbio gli avevano mangiato il cuore, rovinato ogni gioia. Per tutto quel tempo non era stato capace che di chiedersi quale futuro poteva mai aspettarli se il tradimento era capace di sedere in cima al Grande Tempio facendosi beffe di tutto ciò che avevano di più sacro.
Era morto dentro.
E dopo anni, era bastato così poco… per sentire di nuovo.



Aveva occhi di un blu rovente, quella ragazza, del tutto simili a quelli appena riscoperti di sua sorella. E come lei, indossava una maschera solo se aveva interesse a nascondersi.
Si era seduto sul divano con tranquillità, fingendo di non aver notato come quello sguardo lo stesse chiaramente minacciando, aveva sopportato l'esame, le domande che puntavano ad infrangere la sua tolleranza. Kelly ad un certo punto aveva chiamato in disparte sua sorella, probabilmente per spiegarle, finalmente, il motivo della sua presenza lì.
Poi, gli occhi erano caduti sul tavolino. Le aveva prese in mano, erano un mucchietto di polaroid. Non le aveva mai guardate con attenzione, ma sapeva che provenivano dal quell'armadio che la sua allieva aveva depredato il giorno dell'investitura, quello in cui, preso da un raptus di autolesionismo, aveva infilato distrattamente lo zainetto rigonfio che lei portava quella notte, e che forse sarebbe stata contenta di ritrovare, se avesse mai recuperato la memoria.
Aveva cominciato a sfogliare le fotografie, ancora nitide, ma rovinate. Irrimediabilmente
passato.
Un'immagine lo aveva catturato, trasportandolo in un altro tempo: l'allievo di Dohko e il futuro Phoenix sghignazzavano seduti al bancone di un pub, le mani strette attorno ai boccali pronti per quella che sicuramente era una gara di bevute alla goccia.
Aveva sospirato di nostalgia.
Quei due somigliavano tanto a lui ed Aioros, prima di quell'altra notte maledetta, che improvvisamente un nodo gli aveva stretto la gola come non era più successo dal giorno in cui Mitsumasa Kido l'aveva stanato per rivelargli una verità che gli aveva cambiato la vita.
La verità. anche quei ragazzi meritavano di conoscerla. Eppure lui sapeva che si trattava di merce da maneggiare con cautela. Non poteva correre rischi, non ora che finalmente ognuno di loro stava prendendo il posto che gli spettava, non ancora. Non erano mai stati tanto vulnerabili come in quel momento, in cui sarebbe bastato un cenno di Sua Santità per distruggerli tutti.
E la piccola Athena, con loro.

— Quella l'ho scattata io — la sua voce, priva d'emozione. Kelly gli aveva tolto le fotografie di mano, senza lasciargli capire se la sua curiosità l'avesse infastidita. La vide soffermarsi, con un sorriso, su un'immagine di lei e Pegasus, stretti in un abbraccio felice, prima di metterle via. Gli era sembrato di capire parecchio, tutto d'un tratto.

— Le faresti vedere la stessa cosa che ha mostrato a me, Camus? —

Non aveva dubitato neanche per un istante che l'avrebbe portata con sé. La ragazzina lo conosceva bene, e non sapeva se sentirsene contento. o preoccupato.
Senza un'altra parola, aveva teso il testamento di Shion anche a sua sorella. Dopo la lettura la ragazza aveva socchiuso gli occhi, quegli occhi davvero troppo simili a quelli di Kelly, e aveva riflettuto a lungo, prima di parlare ancora.

— Che tipo di aiuto hai intenzione di offrirci ora, Camus dell'Acquario? — aveva sospirato. — La nostra strada è tracciata, ormai. —

"Hai già fatto abbastanza", era quello che avrebbe voluto dirgli, Camus lo capiva chiaramente. Come capiva che quella ragazza esitava, sul filo che correva tra la rabbia e il desiderio di carpire ogni più piccola possibilità per sé, per i suoi compagni.
"Le Galaxian Wars costringeranno il male a venire allo scoperto, vedrai", aveva detto Kido, prima di precipitarsi ad organizzare quella buffonata blasfema.
E lui ci aveva pensato e ripensato per quasi cinque ore quella mattina, senza poter staccare gli occhi dalla figura addormentata e serena della sua allieva.
La risposta, così ovvia, l'aveva colpito come una sferzata. Doveva prepararli ad affrontare il Santuario per la guerra a venire, aveva pensato, sentendosi addosso lo sguardo teso di Kelly. Avrebbe dovuto renderla in grado di fare a meno di lui. Di volare via, se l'avesse voluto.
Perché la fedeltà non può nascere dalla costrizione.

— Vi insegnerò ad attraversare il Portale — aveva promesso, il tepore di quei due sorrisi spontanei che si insinuava, traditore, a scaldare anche lui.




— Quale sorpresa! Il nostro gelido Aquarius che sorride! E in maniera piuttosto ebete, vedo! Che abbia finalmente seguito il mio consiglio? —

Camus sobbalzò. Milo di Scorpio era appoggiato allo stipite della porta, una risatina maliziosa sulla sua famosa faccia da schiaffi.
Il suo amico fraterno da quella notte… La notte in cui Aioros era fuggito e Milo era rimasto fino all'alba con lui, dividendo l'attesa e la trepidazione dietro la porta del Gran Sacerdote, fin quando la sala non era sta aperta, tutti loro convocati dentro e Shura aveva raccontato nei dettagli il duello e la caduta del suo amico. Non c'era cordoglio nella sua voce, soltanto disprezzo per il traditore, e aveva guardato Camus più volte, come a voler cogliere un qualche segno di debolezza. "Ce la puoi fare, amico" si era sentito sussurrare dalla voce di Scorpio, e Camus con uno sforzo sovrumano era riuscito a rimanere freddo e impassibile. Più tardi, tornato al Tempio dell'Acquario, quando il magone aveva rotto gli argini, Milo era apparso ancora. Da allora c'erano sempre stati, l'uno per l'altro. E quante volte Camus aveva sogghignato immaginando la faccia di Aioros nello scoprire nel lunatico Scorpio un amico tanto premuroso… oltre che un formidabile compagno di bevute. Si costrinse a tornare con i piedi per terra. Milo lo stava ancora fissando.

— Il tuo consiglio sai già dove puoi mettertelo… credi che abbia bisogno del tuo aiuto? — si decise a replicare, fingendosi seccato.

— In verità, penso di essermi sbagliato. Neanche tu puoi essere ancora tanto acido dopo una sana sgroppata! — una risata allegra, cristallina. — A meno che tu non abbia rimediato una vera Latrina… —

"Tu non avresti mai dovuto vedere quel film…"*

Camus pensò bene di cominciare a massaggiarsi le tempie con le dita. Meglio avvantaggiarsi, poco ma sicuro che entro breve gli sarebbe stato servito un favoloso mal di testa. Guidò il suo amico in cucina, lanciandogli una birra direttamente dal frigo.

— Milo, sai perché mio nonno campò cent'anni? —

— Perché riusciva a schivare i colpi del suo scontroso nipote privo del benché minimo senso dell'umorismo? — sorrise quella canaglia.

— T'interessi troppo della mia vita sessuale, Scorpio. Deduco che negli ultimi tempi la tua non sia poi così interessante… — Ora l'aveva sparata grossa. Tutto il Santuario, volente, o nolente come lui, conosceva le 'imprese' di Milo con chiunque avesse due gambe e portasse un peplo, un corsetto di metallo, un costume da bagno, o niente del tutto. Lui stesso a volte tentava di suggerirgli una maggiore discrezione, ma quella testa vuota scrollava le spalle e gli rispondeva che si dava da fare anche per lui. Idiota.

Milo fece saltare il tappo con la chiave di casa e un abile colpo di polso.

— Che insolente! Pensare che ero venuto ad invitarlo a cena. Quasi quasi ci ripenso… — si voltò con un coreografico svolazzo di mantello, ma non riuscì a resistere più di tre secondi. — Dai, dimmelo, che ti costa? —

Camus si rese conto soltanto in quel momento che il suo amico indossava la Veste Sacra. "Sei andato a prendere ordini, così bardato?" Non l'avrebbe saputo, non tanto presto. Milo non parlava mai delle missioni che il Mentecatto gli affidava, tranne quando il peso diventava insopportabile. E allora, era sempre troppo tardi.

— Dirti cosa? —

Scorpio gli sorrise come se gli avessero appena annunciato che aveva sbancato al black jack. — Voglio sapere chi ha occupato il tuo letto nelle ultime ore, naturalmente. —

Camus gli dedicò un'occhiata angelica. — Nessuno, te lo posso assicurare. — "Cosa che non posso giurare del tuo, croce e delizia delle ancelle."

L'amico lo guardò di traverso. — Non ti credo. Da quando ti conosco non ho mai visto la tua camera così in disordine. E da profondo conoscitore della tua natura non del tutto umana, so che una sola circostanza ti avrebbe impedito di rifarti il letto alla perfezione. — Pausa ad effetto. — Tanto. Sano. Sesso. —

— Vuoi piantarla? Il tuo è un chiodo fisso, un'ossessione! — Non era credibile con quel tono divertito, lo sapeva. Ma era più forte di lui.

— D'accordo, tieniti i tuoi segreti. Ma sappi che mi ritengo mortalmente offeso. I veri amici non si lasciano così a bocca asciutta. — Milo era quasi scomparso, quando si udì ancora la sua voce. — Alle otto! —

— Non mi prenderai per la gola! — rincarò Camus, guardando il mantello svolazzare per le scale.

— Lo so. — Milo era di nuovo di fronte a lui, ora. — Ma confido che un giorno finalmente vuoterai il sacco, e io saprò finalmente cos'è che tieni tanto segreto. — Mimò tutto il discorso con le mani, come se dovesse spiegarlo ad un ragazzino svogliato. — Mi troverai a qualunque ora. Con una leggera sovrattassa nel caso in cui debba rinunciare ad una compagnia più interessante di te. —

Camus era rimasto immobile, a bocca aperta. Provò a replicare, ma l'altro scosse la testa con l'aria di chi la sa lunga. — Sono certo che mi nascondi qualcosa, e lo fai da anni. Spero che un giorno ti deciderai ad aprire quella preziosa boccaccia. — Si voltò ancora — Porta una bottiglia! —

Camus lo guardò andare via, un mezzo sorriso che chiedeva a gran voce di essere lasciato andare.

"Non posso ancora, amico mio… ma un giorno ti racconterò una storia.

~.~










Angolo della vergogna™


* Ovviamente, la colta citazione si riferiva a 'Robin Hood, un uomo in calzamaglia' di Mel Brooks. Per chi non conoscesse Latrina, la misteriosa Creatura della Torre, un corso accelerato qui. Ebbene sì, il caro Mel fa parte delle videoteca del Santuario. O almeno lo farebbe se i film li scegliessi io.

Seconda considerazione: se riscontrate una strana rassomiglianza tra il nostro ex-marine Jack Allen e un certo personaggio piovuto diritto da una serie TV poliziesca... siete dei maledetti nerd, sappiatelo. Ma mai quanto me che ho avuto il barbaro coraggio di plasmare Jack ad immagine del buon Leroy Jethro Gibbs. Non ho saputo resistere, brutta fangirl che non sono altro!

Terza, e più importante: sia resa lode a Barakei, lettrice attenta, grande sacerdotessa del LOL e, per questo capitolo (e tutti quelli che vorrà) anche precisa beta-reader. Senza di lei avreste trovato molti più strafalcioni, e io avrei riso molto di meno. ^^

Per il resto, consigli, pomodori, critiche. qui tutto è ben accetto. Venghino, siori venghino! Prometto un Camus massaggiatore per ognuno/a! Reversibile! Per tutte le occasioni! E per i maschietti etero… ehmm… facciamo che a voi offro un caffè, che ne dite?

Ancora grazie a tutti!

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Capitolo 5
*** Track #04: Walk On ***


Track #04: Walk On TRACK # 04

WALK ON

And if the darkness is to keep us apart
And if the daylight feels like it's a long way off
And if your glass heart should crack
And for a second you turn back
Oh no, be strong

(U2)

L'ora di cena, all'Ottavo Tempio del Santuario di Athena. O, secondo una versione più accreditata, l'ora del travaso di bile.
Il coltello e la forchetta del padrone di casa stridettero violentemente contro la liscia superficie di ceramica dipinta a mano. Milo di Scorpio osservò il suo piatto, vuoto da una decina di minuti, quindi quello quasi intatto del suo invitato, che non aveva neppure sollevato la testa, come se il rumore non avesse sfiorato le sue orecchie.
Ricordatosi a fatica dei suoi doveri di anfitrione, Milo si accontentò di sbocconcellare distrattamente del pane, osservando di sottecchi quella che rischiava di diventare la sua prossima vittima.
Per Zeus, 'vittima' era una parola esagerata. Non avrebbe mai torto un solo capello al suo più vecchio amico. Questione di deontologia. Se poi si fermava a considerare il rischio più che tangibile di ritrovarsi il ditino mortifero congelato fino all'osso, doveva concludere che proprio non poteva. "Oh, maledizione…"
Se una vittima c'era, nella sua graziosa cucina da scapolo, questa era senza dubbio lui, preda di un'insana e irrefrenabile curiosità, stuzzicata oltre ogni misura dall'atteggiamento demente del suo ospite. Cominciava a pentirsi di averlo invitato: non lo ascoltava, gli poneva domande imbecilli sull'umore del Gran Sacerdote, e, per colmo d'idiozia, gli chiedeva nuovi particolari della sua vita amorosa, di cui per altro non gli era mai importato un accidenti. "Se non ti conoscessi bene penserei ad un depistaggio…"
E lui moriva dalla voglia di farsene spiegare il perché.

— Insomma, che diavolo ti prende oggi? — sbottò infine esasperato, interrompendo l'amico a metà di una crisi di mutismo inspiegabile. Cominciava davvero ad irritarsi. Era arrivato il momento di farlo cantare.

— Uhm? — L'altro riprese a masticare. Non si era neanche accorto di avere la bocca piena.

"Se ti sbattessi contro il muro torneresti tra i comuni mortali?" — Non fare lo gnorri con me, Camus. Che accidenti ti passa per la testa? —

— Niente. — Una voce che proveniva da un altro pianeta.

— Chi, allora? — insisté Milo speranzoso. Donna. Non c'era altra spiegazione. Per lo meno, nessuna che avesse voglia di esprimere.

Aquarius passò ad esaminare con un dito il decoro floreale che ornava i bordi del suo piatto. — Saresti il primo a saperlo, lo sai — lasciò cadere con indifferenza, come se quella fosse una domanda del tutto inutile.

"Ah, davvero?"

Non occorreva certo un intuito geniale, né un'amicizia vecchia di anni, per rendersi conto che Milo non era il genere di persona che fosse opportuno prendere per il naso, non se si era intenzionati a restare ancora a lungo in questa valle di lacrime. Ma forse, pensò Scorpio, quella sera valeva la pena di soprassedere.

— Scusami, provo a renderti più comprensibile la domanda. — Un ghigno leggiadro gli illuminò il volto. — Chi si è intrufolato nel palazzo dell'Acquario la scorsa notte? —

Per un pelo Camus non si spaccò un paio d'incisivi sullo spiedino che stava addentando. — Come ti vengono in mente certe idee, Milo! — ribatté, cercando d'essere spiritoso. — Lo sai che non ricevo di notte… come tu non smetti di rimproverarmi. —

Milo lo fissò come se volesse passarlo da parte a parte. "Da quando i souvlakia sono così difficili da mangiare?" — Sul serio? Forse dovresti sapere che meno di ventiquattr'ore fa qualcuno si è introdotto al Grande Tempio. Mi è passato sotto il naso mentre tentava di risalire le Dodici Case. —

— Stai ammettendo che qualcuno è riuscito a seminare te, Milo di Scorpio? Si vede che stai proprio invecchiando… — Era Camus a ghignare, ora. Ma sudava freddo. "Ecco come ha fatto, quella piccola pazza… si è solo lasciata scoprire da mezzo Santuario."

L'altro era ormai furibondo. Non che la diplomazia fosse mai stata il suo forte… < — Piantala di prendermi per il culo, dannazione! — ringhiò, la voce deformata dalla rabbia trattenuta a stento.

La sua faccia, registrò Camus, non prometteva niente di buono. L'unghia dell'indice destro stava impercettibilmente cambiando colore. — Io proprio non capisco perché sei convinto che questa… persona sia venuta per me — commentò, fingendo l'imperturbabilità di una sfinge.

Scorpio decise di assecondarlo per un po'. Se quello sfacciato aveva intenzione di giocare, era libero di provarci. Lui non si sarebbe certo tirato indietro.

— Te lo spiego subito, tesoro. In questo momento gli unici Templi occupati dal proprio guardiano sono il mio, il tuo… —

— E quello di Aphrodite. Allora perché non hai pensato che magari lui avesse uno dei suoi soliti 'appuntamenti'? — ribatté Camus precipitosamente, stampandosi in faccia la sua espressione più innocente.

Milo sorrise, sardonico. La trappola scattò sull'ingenuo topolino. — Perché, chiunque fosse quella graziosa biondina, si è infilata in Casa tua. —

Oh, cazzo… Camus depose delicatamente la forchetta e l'ultimo spiedino. Gli era appena passata la fame. Definitivamente.

~.~


Kelly aprì la porta del suo monolocale alla Darsena, evitando di entrare a velocità sovrumana, come d'abitudine. L'onnipresente cinquantenne guardone era di nuovo di vedetta alla finesta. "Se il buongiorno si vede dal mattino…
Non sapeva cosa fosse peggio, se una notte agitata da pessimi e brevi sogni, una sveglia antelucana per accompagnare sua sorella alla nave che l'avrebbe ricondotta ancora via da lei, o fare da diversivo alla noia per un vecchio maniaco ficcanaso. Con ogni probabilità, uno di quei matti che affollavano i sexy shop, disposti a spendere migliaia di yen per comprarsi le mutandine usate di una liceale.
Certo, avrebbe potuto architettare una beffa divertente. Già vedeva la scena. La corsa verso il telefono, il numero del posto di polizia più vicino. 'Mi creda ispettore, è passata attraverso la porta!' Ci pensò su un momento, quindi chiuse le tende in faccia all'uomo con un gesto stizzito.
Crollò con tutto il suo dolce peso sul divano e rimase a fissare come inebetita la sua Strato bianca semisepolta dalla miriade di fotografie che lei e Chris avevano lasciato sul pavimento. Di nuovo.
La segreteria lampeggiava. Saori le aveva lasciato un messaggio per assicurarle che i suoi amici sarebbero stati dimessi entro un paio di giorni.
Si sentiva a pezzi, ma stranamente dentro era serena, come rinata. Persino le seccature di quella giornata iniziata col piede sbagliato la toccavano meno di quanto si sarebbe aspettata.
Tante cose erano cambiate, nelle ultime ventiquattro ore.
Era andata al Santuario armata delle peggiori intenzioni. Era stanca, dopo l'ennesima notte in bianco, troppo stanca di aspettare che la soluzione a tutti i suoi guai le piovesse dal cielo. Non sarebbe andata da nessuna parte se non avesse ottenuto risposte, e la baita sul Karakorum era vuota e fredda. L'unico in grado di risponderle non poteva che essere tornato a casa sua, a proteggere la copia di marmo della sua preziosa Athena. Desiderava e temeva di rivederlo, quel maledetto traditore che le aveva rubato la vita e quanto aveva di più prezioso.
Aveva trovato la zona protetta, passando fin troppo facilmente accanto ai soldati di guardia, con la pratica del suo addestramento da spia che le calzava come un guanto, ora, insieme a quello che aveva imparato da lui. La lunga, interminabile scalinata che univa le Dodici Case al Tredicesimo Tempio era proprio come lui le aveva raccontato una volta. L'aveva percorsa lentamente, passando accanto ai Templi vuoti con uno strano senso di soggezione. Fino al penultimo. Una ripida scala a chiocciola portava ad una mansarda circolare.
E poi, aveva trovato lui. Era perfino sveglio, nonostante in Grecia fosse ancora notte fonda. Avrebbe dovuto farsi avanti, affrontarlo a muso duro, come aveva deciso.
Invece era rimasta sulla porta. Incredula, quasi ammaliata da quello spettacolo che mai si sarebbe aspettata.
Camus non somigliava per niente ai suoi ricordi. Lo ricordava altero e scostante, avvolto dall'aura terribilmente luminosa e fredda della propria energia cosmica, capace di gelarti con un semplice sguardo. Durante quei sei anni passati fianco a fianco si era chiesta spesso se, al mondo, esistesse un'arma in gradi di scalfire quella sua imperturbabile sicurezza.
"Mi sbagliavo?"
Non poteva essere lui quello sconosciuto seduto sul letto, con la testa tra le mani, il volto nascosto dai capelli lunghi, le spalle curve, come sotto un peso troppo difficile da portare. Solo, come lei. E forse fragile, per un'unica preziosa occasione. Non avrebbe mai saputo perché l'aveva fatto, ma era entrata in punta di piedi, godendosi il suo stupore. Non le era sfuggito il lampo di sollievo che per un attimo gli aveva attraversato gli occhi, non appena l'aveva riconosciuta. Perché? Possibile che in quei tre mesi si fosse davvero preoccupato per lei?
Non poté impedirsi un sorrisetto. Chi avrebbe mai sospettato che il suo maestro tutto d'un pezzo avesse l'abitudine di dormire nudo come la mamma l'aveva fatto… e che sapesse perfino come si arrossisce per l'imbarazzo. "Forse sei meno ibernato di quanto sembra…"
E poi quella promessa, che sapeva di speranza e di un rispetto nuovo. Forse l'aveva capito anche lui, quanto desiderava potergli credere.
Tic, tac. L'orologio alla parete segnava le cinque e mezzo del mattino. "Ho voglia di dormire…"
Lo squillo del telefono la fece sobbalzare. Uno, due, tre. "Dio benedica la segreteria telefonica…"
— Altair, maledizione, dove ti sei cacciata? Combatterai, questa mattina! — La voce acida di suo fratello le martellò i timpani, soave quanto il verso del pennuto appollaiato sul diadema che gli ornava la fronte in un trionfo di cattivo gusto.
"Che dovrei fare, io?"

— Oh, accidenti a te, Steve! Oh, pardon… Hyoga di Cygnus… — grugnì, con uno sbuffo spazientito. Riesumò la maschera sotto una pila di spartiti per chitarra e sospirò.

Il circo ricominciava.

~.~


La cena era finita da ore, lassù, all'Ottava Casa di Scorpio. Dopo un paio di bottiglie di rosso di Nemea la vita poteva sembrare molto meno complicata. Camus guardava Milo riporre pentole e padelle, indeciso sul da farsi. Sebbene il suo amico avesse fatto del suo meglio per nasconderla, la sua irritazione non gli era sfuggita.
Oh, certo, avevano bevuto e scambiato sciocche battute fino alle ore piccole, come ogni volta che si ritrovavano assieme dopo mesi di lontananza. L'unica nota positiva, in quel ritorno forzato. Se Saga non avesse deciso all'improvviso di convocarlo al Santuario per chiedergli notizie della sua allieva, sarebbe rimasto alla larga il più a lungo possibile. Il solo pensiero di restare tra quelle mura soffocanti, essere costretto ad inchinarsi di fronte a quella maschera ipocrita, gli faceva prudere le mani. Paura, Santità? "Senti il destino che ti alita sul collo?"
Fu strappato ai suoi pensieri da un leggero colpo di tosse. Milo. Da quanto tempo lo stava fissando? Senza una parola, lo aveva guidato all'esterno. Camus aveva la netta impressione che volesse liberarsi di lui il prima possibile. Non intendeva certo opporsi. Orgoglioso com'era, non avrebbe mai mostrato quanto si sentisse rattristato in quel momento, tanto da quella curiosità insistente ed inopportuna, quanto dalla sua stessa incapacità di aprirsi quel poco che sarebbe bastato ad alleggerire il peso sulle sue spalle.
Quanto si sentiva solo…
Milo lo trattenne per un braccio proprio nel momento in cui, senza una parola, stava per allontanarsi in direzione dell'Undicesimo Tempio.

— Vai già via? — gli domandò pacatamente, due bicchierini di ouzo nella mano libera.

— Non sarebbe meglio? — replicò, rendendosi conto di suonare ostile. Sapeva bene che Milo non meritava quella freddezza, ma era difficile farne a meno.

Scorpio volse lo sguardo verso il cielo stellato, porgendogli il suo cicchetto. — Meglio per chi? — Sedette su uno dei primi gradini della scalinata che portava alla Nona Casa. Camus si lasciò cadere accanto a lui, mandando già il liquore tutto d'un fiato, come voleva la tradizione. La stanchezza di quell'assurda giornata cominciava a pesargli addosso come un macigno.
Milo aveva vuotato il suo bicchiere giusto un attimo dopo, continuando a sbirciare di sottecchi il suo amico, per poi prendere a fissare un punto indefinito dell'orizzonte. E Aquarius aveva cominciato ad avvertire una fastidiosa sensazione di pericolo. "Brutto segno, quando è così serio…" — Camus, quante volte ti ho detto che puoi contare su di me? —

Un'ammissione silenziosa, ad occhi bassi. "Tu ci sei stato, Milo, ogni volta che ne ho avuto bisogno. Non credo di meritarlo." — Qualcuna… —

Scorpio piegò le labbra in un'espressione amara. — Lo penso davvero. Ma credo che tu non sia esattamente dello stesso parere. —

— Aspetta un momento… — provò ad interromperlo. Il tentativo cadde nel vuoto, liquidato con un cenno.

— Concedimi un piccolo indovinello, Camus — continuò Milo, con un sorriso sarcastico. "Non è il momento di menare il can per l'aia, Signore dei Ghiacci…" — Prova a ricordare quante volte, negli ultimi anni, mi hai chiesto di aiutarti. Qualcosa di più serio che spostare i mobili del tuo appartamento, ovviamente. — Di fronte al silenzio dell'altro, ebbe un'espressione di triste consapevolezza. — Sono stanco di essere sempre tenuto all'oscuro, soprattutto ora, che stai andando a caccia di guai. — Si voltò, fissandolo di nuovo con il suo sguardo penetrante. Camus si chiese se si riferisse a qualcosa in particolare, e se sì, se gli convenisse controllare le vie di fuga.

— Milo, tu sei stato l'amico migliore che potessi avere, lo so. Ma non hai motivo di… —

L'altro lo interruppe, impaziente. — Non avevi mai detto niente del genere. Sicuro di non aver bevuto troppo? —

Aquarius distolse lo sguardo, colpito in pieno dal rimprovero appena velato. — Mi conosci da tanto, Milo. Sai che non sono… quel tipo di persona. — tentò, senza troppa convinzione.

La risposta calò come una mannaia. — Ed io lo sarei? Il più stimato boia di Arles vive spargendo amore, non è così? — lo rimbeccò Milo, con una schiettezza che si concedeva soltanto in rare occasioni. Non doveva averlo detto mai ad anima viva. — Non farmi ridere, Camus… siamo due sfigati vestiti d'Oro Sacro, tendenti al solitario e forse anche un po' sociopatici, forse perché sappiamo già che non vivremo abbastanza da preoccuparci della pensione. L'unica vera differenza tra noi due è che io mi fido di te! —

— Anch'io mi fido di te! — si affrettò a protestare l'amico, anche se sapeva di non avere scampo da quell'accusa.

"Ah, sul serio?" — Evidentemente non abbastanza da dirmi chiaramente che la scorsa notte hai ricevuto la visita della ragazzina che hai addestrato sulle montagne del Karakorum. Sì, quella che dovrebbe essere ancora su K2, a completare la sua formazione. Non è questo che hai raccontato ad Arles? — ribatté Scorpio in tono velenoso. — Dovresti sapere che non avrei mai lasciato passare indenne un intruso qualsiasi. Ne ho percepito il cosmo, l'ho riconosciuto e soltanto per un riguardo a te ho permesso che superasse il mio Tempio. Adesso puoi smettere di trattarmi da imbecille? —

Camus annaspò, alla disperata ricerca di qualcosa di sensato da dire. Per quella volta, non trovò nulla di meglio della verità. — Voleva… solo parlarmi… — mormorò.

Milo non sapeva più se congratularsi con se stesso per essere riuscito a metterlo alle corde per la prima volta, oppure prenderlo a pugni. Avrebbe quasi preferito che continuasse ad arrampicarsi sugli specchi. Perché quelle tre parole avevano il suono del tradimento. — E questo basta a spiegare la sua presenza qui? Maledizione! — imprecò, afferrandolo per una spalla. — Le hai detto dov'è il Grande Tempio, contravvenendo ad un ordine preciso del Gran Sacerdote. —

"Già, lo stronzo è stato previdente." Il regno del mentecatto aveva introdotto numerose novità nelle secolari consuetudini di quel luogo sacro. Le investiture dei Dodici, avvenute prima della morte di Sion, e quelle dei Silver che abitavano il Tempio erano state le ultime celebrate all'interno delle Mura Sacre. Non volevi rischiare di essere ritrovato da chi non doveva, Saga?

— Il Sacerdote non ha motivo di mettere in dubbio la mia fedeltà al Santuario — scandì Camus, divincolandosi. "Almeno per il momento…"

Milo si piegò in avanti, una mano tra i capelli, chiedendosi per quanto ancora avrebbe sopportato quella situazione che lo bollava come il principe delle cause perse. "È evidente che sto sprecando il fiato… ma tanto vale arrivare in fondo."

— Amico mio, io ho paura per te. Non m'interessa perché quella ragazza si sia spinta fin qui, sono affari tuoi. Ma non deve più ripetersi. —

Un lampo d'irritazione attraversò, veloce, gli occhi blu di Aquarius. — E da quando sei tu a dirmi quello che devo o non devo fare? —

"Come volevasi dimostrare…" Milo lo fissò ancora. Era vero timore, quello che si poteva leggere ora nei suoi occhi. — Da quando mi dai motivo di temere che un giorno mi chiedano di farti la pelle! — sbottò con rabbia.

Camus si accigliò pericolosamente. — Non capisco di cosa tu stia parlando. Forse dovresti essere più chiaro, amico… —

— Quindi, tu non sai nulla di quello che stanno combinando a Tokyo i nuovi Bronze Saints? Quelle ridicole Galaxian Wars? —

Certo che lo sapeva. Perfettamente. La descrizione che gliene avevano fatto Kelly e sua sorella era stata impagabile. Ma in quel momento non riusciva più a trovarla divertente, tanto era ovvio, dall'espressione del suo amico, che Sua Santità non doveva aver gradito. — Solo quello che ne dice la voce pubblica… — concesse, di malavoglia. "L'avevo detto, a quel vecchio testardo, che era un'idea pessima…"

— Quello che la tua 'voce pubblica' forse non ha calcolato è che il Santuario potrebbe pensare che la tua allieva sia con loro — replicò Milo. — Non è stata vista di fronte alle telecamere, per ora. Ma una donna mascherata non passa inosservata, anche se non indossa armatura e non partecipa alla competizione. Il Gran Sacerdote è molto scontento di tutto ciò. Quegli stupidi bambocci non sono degni d'essere chiamati Sacri Guerrieri d'Athena. Stanno coprendo di ridicolo tutto ciò in cui crediamo e minacciano di rivelare al mondo l'esistenza del Santuario. Penso che Arles li cancellerà presto dalla faccia della terra. Non voglio che tu sia sfiorato, neppure per sbaglio, dalla loro vergogna. E se tieni a quella ragazzina, falle sapere che non deve avere nulla a che fare con loro. —

A Camus si mozzò il respiro, ma lo nascose bene. "Non perde tempo, il bastardo…" — Ha chiesto a te di farli fuori? —

Il Santo d'Oro di Scorpio lo guardò fisso, in preda ad un fremito di ostentato orrore. In tempi non sospetti, Camus l'avrebbe trovato divertente. E l'avrebbe punto con una forchetta per farlo smettere. — Sei impazzito, vecchio mio? Dovrebbe scendere Athena in persona a chiedermelo… come potrei impegnarmi contro quelle nullità? Dove andrebbe a finire il mio onore guerriero? —

"A fare compagnia, all'ingenuità, all'integrità e al rispetto di te stesso che hai perso il giorno in cui Saga ha fatto di te il suo sicario per le uccisioni discrete, mio povero amico…"

— Tanto più che per quei ragazzini pare si sia già offerto qualcuno di… più appropriato. —

— Davvero? — Camus si affrettò a mascherare un moto di rabbia sotto un'apparente indifferenza. "Tutto questo non mi piace per niente…" — E… di chi si tratterebbe? —

~.~


Kelly irruppe nel Colosseo Grado di pessimo umore, appena in tempo per esibirsi in un'incerta imitazione di un ingresso trionfale e troppo in ritardo per protestare. Molto più splendidamente, e per alcuni inaspettatamente, fece polpette di Geki dell'Orsa in un'amichevole fatto apposta per aumentare l'audience e rimpolpare il palinsesto. E anche per far venire un colpo apoplettico a Camus, che se solo l'avesse vista le avrebbe probabilmente torto il collo con le sue stesse mani. Aveva speso quasi un'ora per sabotare l'impianto in modo che andasse in tilt al momento giusto. "Questa me la paghi, milady…" Si, gliel'avrebbe pagata, per la bastardata e per la sensazione di disgusto che le aveva procurato indossare la sua Veste — era solo la seconda volta — soltanto per appagare gli occhi di un pubblico di invasati. Scese dal ring, prontamente intercettata da suo fratello.

— Si può sapere dov'eri sparita? — inquisì, dopo averla tratta in disparte. — Un'altra ora e avrei sfondato la porta del tuo appartamento. —

Lei ignorò deliberatamente la domanda. Il pensiero di Steve nella sua tana, impegnato nel tentativo di non affogare in un oceano di polaroid che non poteva capire, le aveva dato i brividi. — Hai notizie di Seiya e Shiryu? —

— Ho sentito dire che stamattina erano già in piedi tutti e due. Figuriamoci. Quando Seiya si batterà con me, non se la caverà soltanto con una notte in ospedale… — rispose presuntuoso il cosiddetto Sacro Guerriero di Cygnus.

La sorella lo fulminò con lo sguardo. "È arrivato da tre giorni e già non lo sopporto…"

— E come conti di ammazzare il tempo nell'attesa? — lo canzonò platealmente, notando con sconforto che l'ironia non era una delle qualità che suo fratello aveva mantenuto. "E comunque non ne ha mai posseduta granché. Era lui l'allievo per te, Camus. Pensaci, la prossima volta."

— Tra poco devo combattere con quell'imbecille là… — Hyoga annuì disgustato in direzione di un personaggio di non comune bruttezza, con un paio d'occhietti piccoli e capelli allestiti in una ridicola cresta spelacchiata. "Impazza il rigurgito punk, a quanto pare." Come se l'avesse chiamato, il Saint di Hydra si volse con un sogghigno. Buongiorno a te, Ichi, Ultimo dei Mohicani…2

— Ehi, Altair — la chiamò. — peccato che debba fare il culo a tuo fratello, altrimenti un giretto con te non me lo sarei perso di certo! —

"Ah, davvero? Io l'avrei saltato volentieri." Kelly sentì Steve ruggire accanto a lei. Sollevò una mano ammonitrice per impedire a quell'impiccione di guastarle tutto il divertimento.

Un sorrisetto perfido le incurvò le labbra sotto la maschera. Immediatamente la sua energia sfavillò, circondandole il corpo di abbacinante biancore e facendole svolazzare attorno i capelli mentre si dirigeva verso l'impudente.
Hyoga la seguì con lo sguardo, stupito. Non si aspettava un cosmo così potente. Sua sorella avrebbe potuto dargli filo da torcere, in duello, e non se lo aspettava. Ma dopotutto, gli aveva detto che era stato il mentore del suo maestro Crystal ad addestrare anche lei. Da quel poco che ricordava, doveva essere uno con cui non si scherzava.

— Ichi, tesoro — cinguettò la ragazza, con voce flautata — Io farei volentieri un giretto con te subito, perché non mi accompagni fuori? —

'Tesoro' si era ridotto ad una tremolante gelatina punk. Avrebbe dato qualunque cosa per mettere un bel po' di chilometri fra sé e quella strega. Kelly n'ebbe pietà e, oltrepassandolo, lo gratificò soltanto di un'ultima frecciatina.

— A pensarci bene, Hydra, non credo che reggeresti il ritmo… —

Al diavolo tutti voi!" imprecò in silenzio, andando a sedersi in un angolo. In quel momento veniva annunciato l'incontro successivo. Suo fratello si sbarazzò in fretta dello scorfano di terraferma, che scese dal ring in barella. Il vincitore sorrideva soddisfatto.

"Davvero questo gelido stronzo non è mio parente… e neanche quei mentecatti sono i miei amici… non saranno mai nessuno senza i loro ricordi…"
Kelly chiuse gli occhi sentendo le lacrime iniziare a pungere sotto la maschera rituale. "E neppure io sono niente senza di loro…" Le ricacciò indietro come meglio poté, raggomitolata in un angolo, sperando con tutte le forze di svegliarsi presto da quell'incubo.

~.~


— Alla buon'ora! — ghignò Martin, non appena vide la porta del suo ufficio spalancarsi, con un tale fragore da far credere che in mano al suo furioso visitatore sarebbero rimasti soltanto dei trucioli di legno.

— Che diavolo ti è saltato in mente, si può sapere? — Max Herrmann non perse tempo in convenevoli, lo sguardo assassino e i palmi piantati sulla scrivania.

— Benvenuti anche voi due, laggiù. — sorrise l'altro, lo sguardo insistentemente puntato oltre la spalla del ragazzo, in una chiara manifestazione di noncuranza.

— Martin… dannazione! — imprecò ancora quello, sul punto di mettergli le mani attorno al collo.

— Devi controllare meglio la tua rabbia, Max. Te lo dico sempre. —

"Controllare la rabbia?" Stava esagerando, lo sapeva, ma non gliene importava niente. "Maledizione, Chris e gli altri non ti sono bastati?"

— Mi prendi per i fondelli? — sibilò, pronto alla guerra.

Martin sorrise. — Non più di quanto meriti, ragazzino. Ora chiudete la porta, e cominciamo la riunione, finalmente. —

Alessandro Barzini e Catherine McArthur si scostarono dalla porta dov'erano rimasti, con uno sguardo d'intesa. Max si lasciò cadere con malagrazia su una sedia, continuando a fissare malamente il loro caposquadra.

— Per rispondere alla tua domanda, Max… non è a me, che è saltata in mente questa idea. —

Il ragazzo si voltò a guardare i suoi due amici, con l'aria di chi è appena stato colpito alla testa.
"No, ditemi che non avete…"

— Non mi hai fatto gli auguri, per il mio compleanno. — interloquì Katie, con un sorriso furbo.

— Neanche per il mio, veramente… — aggiunse Alex, con aria d'accusa.

"Merda…" — L'avete fatto davvero, non è così? —

E lui che sperava di averli convinti a desistere, mesi prima. Ricordava Katie, sconvolta, disperata. Il suo ragazzo era svanito nel nulla, e a nulla erano valsi i tentativi di calmarla. Aveva quasi cavato gli occhi a Wood, quando si era materializzato sul luogo de rapimento, con la sua boria e la sua teoria delle fuga di massa.
E Alex, che aveva battuto le strade di Atene in perfetto silenzio per un mese, tutto solo, arrivando a conoscere a memoria perfino i vicoli più fetidi.
Poi, avevano blaterato quell'assurda sciocchezza sul rientrare nel programma di addestramento. Per rendersi utili, avevano detto.
Una follia, almeno loro avrebbero dovuto starne fuori, dopo che i loro parenti avevano lottato con le unghie e con i denti per tirarli fuori da quell'incubo, dare loro una vita normale.
Ognuno di loro aveva desiderato disperatamente qualcuno in grado di farlo.

— Tutti per uno, uno per tutti — gli rispose laconico Alex, obbligandolo ad uscire da quella fantasticheria ad occhi aperti. E sventolando una carta d'identità che attestava, senza ombra di dubbio, la sua maggiore età da una settimana.

Max non aveva bisogno di altre spiegazioni, già se li vedeva, i due cretini, offrirsi in sacrificio per aiutare lui e Martin con le ricerche. E stringersi di nuovo il cappio al collo, di loro spontanea volontà.
Ma non aveva intenzione di perdonare tanto facilmente a Martin di aver teso loro corda e sapone.

— Ora basta, Max. — La voce di Katie lo aveva colto di sorpresa, lei s'intrometteva di rado e quando lo faceva con quel tono era sempre il caso di chiudere il becco. "Palle d'acciaio", ghignava sempre il suo ragazzo, quell'altro pazzo, pieno d'orgoglio. — Non ho intenzione di stare qui a girarmi i pollici un minuto di più, mentre Dave è disperso chissà dove. E se dovrò servirmi di Wood e della sua organizzazione, e sopportare Martin che ha ripreso a fumare, lo farò. — concluse, con uno sguardo incendiario al pacchetto di sigarette abbandonato sul ripiano della scrivania.

Martin cercò di soffocare un sorrisetto, con poco successo. E se ne accese un'altra. I tre lo guardarono, le dita puntate sul divieto di fumare appeso alla sua destra. E l'uomo, a malincuore, la spense appena iniziata.

— Se avete tante energie in corpo, vi consiglio una seduta in palestra. Questi due devono riprendere la forma al più presto, e Max deve sfogare i suoi bollenti spiriti. Direi che un quattro ore, dopo questa riunione, potranno essere sufficienti — un sogghigno, alla vista delle tre paia d'occhi, che d'un tratto erano diventati vitrei. — E adesso, passiamo alle buone notizie. Ieri ho incontrato Jack Allen. —

— Sarebbe questa la buona notizia? —

Martin gli porse una busta in formato A4. Max l'aprì, e ne estrasse la copia di una fotografia. — Che carini — commentò, asciutto — Questo sarebbe il suo nuovo ganzo? —

— Come sei maligno, amico mio — interloquì Alex, convinto. — lo sai che Wood preferisce le ragazzine. —

— Allora non vedo come questa fotografia possa interessarci — Max fece per restituire il plico a Martin, che non lo prese. Ma sorrise in un modo che metteva i brividi.

— Quell'immagine è stata scattata a New York, una settimana prima che i nostri amici scomparissero. E il 'ganzo' è stato ripreso da una telecamera di sicurezza ad Atene, la notte del rapimento. —

Katie prese la fotografia in bianco e nero, per esaminarla meglio. Il vecchiaccio sembrava tutto tranne che a proprio agio, e lo sconosciuto… alto, bello alto, e non poteva arrivare alla trentina. Con una faccia da calendario e lunghi capelli al vento. Spalle larghe, fisico da sportivo. A prima vista sembrava davvero un gigolò, se non fosse stato per quello sguardo… lo sguardo di chi è pronto a tutto. "Come me, del resto…"

— Lo cercheremo in tutti i modi possibili, Martin. Dovrà rifugiarsi su un altro pianeta, per riuscire a nascondersi. —

~.~


Al Colosseo Grado la giornata si prospettava lunga e Kelly incominciava a risentire della notte in bianco, sommata a tutte quelle che l'avevano preceduta, e ormai riusciva a scorgere soltanto letti morbidi e guanciali di piume. Maledetto jet — lag… Avrebbe considerato volentieri l'idea di un pisolino ristoratore, se quella sensazione di disagio le avesse concesso un po' di tregua. Invece, ad ogni minuto che passava, la ragazza sentiva crescere in sé l'ansia e una sottile smania di essere in qualunque altro posto all'infuori di quello. L'ultima volta che aveva provato una sensazione simile era stata stordita, gettata un un'altra realtà e iniziata al culto di una Divinità che avrebbe dovuto essere estinta da secoli.
Lo sentiva. Un grosso, enorme guaio stava per abbattersi sulle Galaxian Wars. Un pensiero che non le avrebbe certo procurato un gran dispiacere, se solo i suoi amici, e lei stessa, fossero stati il più lontano possibile da lì. E dal disastro incombente.
Sul ring, intanto, l'irritante sosia di Michael stava pestando tra un piagnisteo e l'altro quel borioso Saint dell'Unicorno. All'improvviso, la Catena di Andromeda cominciò ad andare per i fatti suoi. Kelly saltò in piedi come una molla. Corse verso il ring, ma non riuscì a distinguere nulla. Il proprietario dell'oggetto spiritato aveva un'espressione terrorizzata, e se solo quell'idiota del suo avversario avesse mollato la presa… che diavolo stava tentando di comunicare, prima che Jabu s'intromettesse?
Nel giro di un attimo si trovò a brancolare nel buio, mentre la sottile sensazione di disagio cresceva e cresceva fino a serrarle la gola in una morsa d'acciaio. Il cielo di plexiglas del Colosseo Grado pareva scosso dai lampi.
Si accorse che erano arrivati anche Mark e Jason, senza dubbio appena evasi dall'ospedale. Si scambiarono un'occhiata nervosa.
In quel momento lo scrigno dell'Armatura Sacra si aprì con un colpo secco.
— Mio Dio… — le parole le morirono in gola. Un cosmo potente, pulsante di malvagità, prese ad aleggiare su tutti loro, mentre una forma umana emergeva dal contenitore dorato. Kelly cadde in ginocchio portandosi le mani al volto, l'orrore di quanto stava accadendo che cominciava a farsi strada nella sua mente.

~.~


Il sole stava sorgendo, di nuovo, e ancora una volta Camus dell'Acquario si trovava a contemplarlo dopo una notte in cui aveva pensato e ripensato, mentre il sonno lo snobbava per qualcuno più disponibile.
Neanche lei dorme un granché, si ritrovò a considerare, quasi con tenerezza, ricordando come era crollata sul suo materasso, non appena si era sentita al sicuro.
"Sei un vero cretino, Camus."
Quei pensieri non poteva permetterseli. Proteggerla era un'idea che negli ultimi giorni gli era balzato in testa un po' troppo spesso, ed era sicuro che non avrebbe portato niente di buono. Anche se vederla sorridere scaldava il cuore, e avrebbe voluto poterle dire che sarebbe andato tutto bene, che gli ultimi sei anni avrebbe potuto riavvolgerli e dedicarsi al ricamo, se avesse voluto. Che nessuno di loro sarebbe andato in Guerra per difendere la Dea.
Ma come avrebbe potuto mentirle ancora?


— Il Bronze Saint di Phoenix? — aveva ripetuto, sperando con tutte le sue forze di aver sentito male. Per tutti gli Dèi, gli affini e i collaterali…

— Proprio così — gli aveva spiegato Milo, piuttosto divertito. — Non che se ne sappia molto, ma pare voglia farla pagare agli organizzatori di quella buffonata televisiva. È diventato il padrone dell'isola di Death Queen dove è stato addestrato e ha giurato fedeltà al Grande Tempio a patto che non lo ostacolasse nel suo progetto di vendetta. Pensa che sacrificio sarà stato accontentarlo… —

Milo si era interrotto, fissandolo con aperta curiosità, doveva essersi accorto che forse gliene importava un po' troppo. Ma lui non aveva trovato la forza di pronunciare la battuta che il suo amico si aspettava.
Non era riuscito a pensare a nulla, nulla che non fosse…



— Kelly non combatterà contro di lui… piuttosto si lascerà uccidere. —

~.~


La Catena di Andromeda scattò verso l'intruso, che la lasciò avvolgersi attorno al polso con sovrana noncuranza. Ikki di Phoenix rimase immobile, godendosi lo scompiglio che la sua apparizione aveva procurato. All'improvviso scattò, colpendo in un lampo uno Shun ignaro che stava piangendo tutte le sue lacrime di gioia.

— *Fratello, sei rimasto il solito frignone…* — sollevò la mascherina che teneva sugli occhi, rivelando uno sguardo carico d'odio. — *Il solo vederti mi disgusta. Avrai l'onore di essere la mia prima vittima, Shun* — sibilò prima di colpirlo di nuovo, con forza ancora maggiore.

Kelly rimase nel suo angolo, immobile e ignorata, guardando la scena senza in realtà vederla. Le passarono davanti agli occhi Unicorno e Wolf stesi in un battito di ciglia, suo fratello e gli altri colpiti con rapidità quasi stupefacente.

— *Mi sono divertito molto vedendovi combattere tra voi, ma non ho visto nessuno degno di me!* — il rinnegato si voltò verso Kelly. La considerò con un'occhiata sprezzante. — Resti solo tu… — La ragazza fu immediatamente in piedi, tremante. "Cosa ti hanno fatto in quell'isola maledetta, Dave?"

— Come osi? — scattò Seiya. — Ti metti contro una donna? Non hai dunque neanche una briciola d'onore? —

— Chiudi il becco, imbecille! — sibilò lei, inviperita.

— Al tuo posto le darei retta. — Sul ring si udì una risata sferzante, simile al ringhio di una bestia feroce. — Sei rimasto il solito cavalleresco idiota, Pegasus. E sì che ne hai prese, da una 'donna' come questa — sghignazzò, indicando la giovane imprenditrice alle proprie spalle. Si volse di nuovo verso la ragazza mascherata. "Bella, la tua corazza d'argento. Non vedo l'ora di farla a pezzi." — Allora, Altair della Gru, vuoi provare a fare una fine migliore del lupetto che ho spelacchiato? —

Kelly sentì quella voce rimbombarle direttamente nel cervello. Si morse le labbra a sangue per contenere una fitta improvvisa tra le tempie. Ikki la fissava con un'espressione attenta, mentre senza alcuna fatica apparente tentava di prendere possesso della sua mente.

— Non combatterò contro di te — gli rispose, tentando di non lasciar trasparire lo sforzo.

Phoenix le puntò contro uno sguardo velenoso. Era indispettito, e certamente non c'era cascato. — E perché mai? — s'informò, sarcastico.

Kelly lottò per mantenere ferma la voce. Il dolore alla testa stava diventando insopportabile, e non desiderava altro che urlare. — Perché siamo amici. — Con la coda dell'occhio vide suo fratello scuotere la testa come se la ritenesse impazzita. In qualche modo, avrebbe potuto anche dargli ragione.

Ikki si morse le labbra a sangue. — Io non ho amici. Se non vuoi combattere, dovrai fare la fine degli altri. — Si avventò su di lei, il pugno alzato. La ragazza si scansò velocemente, bloccando il colpo con il palmo aperto tra i fischi d'ammirazione del pubblico. Nulla d'eccezionale, l'attacco era stato sin troppo lento. Un avvertimento, nulla più. Si fronteggiarono con lo sguardo.

— Rassegnati, non lotterò con te. — La voce di Kelly era atona, come se ogni sillaba le costasse una fatica immane.

Phoenix intuì che la sua decisione era irrevocabile. E lui non aveva certo tempo da perdere. Fissò sfacciatamente la piccola miliardaria viziata, e il suo lacchè. Aveva una sorpresa in serbo, per tutti loro. — Pazienza. Vuol dire che per questa sera vi siete divertiti abbastanza. *E ora, il ricordino da portare a Death Queen!* —

Dalle tenebre erano comparse decine di cloni vestiti di un'armatura nera, sin troppo simile a quella della Fenice. Tra lo stupore generale, il buio calò su tutto l'edificio. L'Armatura di Aioros si sollevò dal suo scrigno, dividendosi. Quando tornò la luce, Kelly riuscì a distinguere a malapena le schiene dei suoi amici, partiti all'inseguimento dei ladri. Tentò di seguirli, ma dovette appoggiarsi alla parete del corridoio, sfinita dalla tensione. Fuori dal Colosseo di Plastica, Mark, Steve, Jason e Michael inseguivano un David deciso a distruggere tutti loro.

~.~










Angolo della vergogna™


Alcune piccole considerazioni aggiornate al 26/12/2011:
So che il duello tra Hyoga e Ichi avviene prima, e non dopo, quello tra Seiya e Shiryu. Ho preso una licenza poetica, se così vogliamo definirla, perché mi serviva allungare il brodo di questa giornata di torneo. Stessa cosa per l'amichevole, ovviamente inventato, tra Kelly e Geki dell'Orsa.

Un'altra considerazione riguarda il pezzo in cui appare Ikki, di cui alcune battute (che ho racchiuso tra asterischi) provengono dalla traccia dei sottotitoli fedeli all'originale dell'edizione DVD dell'anime. Quindi, quelle battute non sono del tutto mie, ma le ho parafrasate per calare la storia ancora di più nel contesto ufficiale. Può darsi che ci saranno altre scene così in futuro, ma certamente in numero limitato e sempre segnalate.

Solito, ma non scontato, ringraziamento a Barakei, che legge, consiglia, corregge quando deve. E che sprona e spinge a migliorare e a farsi meno pippe mentali, quando serve. Ce ne vorrebbe una per tutti, ma se volete la mia, in coda e numeretto.

And last, but not least:

Buon Natale a tutti!

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Capitolo 6
*** Track #05: The Spirit Carries On ***


Track #05: the Spirit Carries On TRACK # 05

THE SPIRIT CARRIES ON

…I may never find all the answers
I may never understand why
I may never prove
What I know to be true
But I know that I still have to try[…]
If I die tomorrow
I'd be alright
Because I believe
That after we're gone
The spirit carries on…


(Dream Theater)

Una leggera brezza spirava nell'immenso parco che circondava Villa Kido, portando con sé il profumo dei fiori preferiti di Saori. L'alba tersa e luminosa pareva fatta apposta per distendersi sull'erba verde e godere del leggero tepore del sole sorgente. Tepore che riscaldava anche la piccola costruzione di marmo bianco in fondo al giardino, nell'angolo più sicuro e riposto della proprietà.
Il cancello di ferro battuto della cappella di famiglia dei Kido cigolò leggermente. Due mazzi di splendide rose bianche furono deposti con delicatezza su due tombe già chiuse. Una figura ammantata di nero si lasciò scivolare sul pavimento, la schiena contro il muro, la memoria smarrita in un tempo che non sarebbe più tornato. Voleva parlare, come sempre. E come sempre, non trovava nulla da dire.
"Tregua…"
Aria. Fresco, il cappuccio che scivolava sulle spalle. E profumo d'incenso, misto a quello dei fiori. Saori Kido faceva in modo che non mancassero mai. "Anche se i più belli li porto sempre io…" Quante volte si era chiesto che senso avessero quelle visite furtive? Che cosa sperava di ottenere? Ogni tanto la lingua gli si scioglieva, certo. Ma soltanto per farlo sentire più stupido. E, qualche volta, perfino più sereno.
Un brivido di freddo gli corse su per la schiena, dalle natiche alla base del collo. Che pensieri ridicoli, dentro un mausoleo. Lui stesso, che patetico imbecille. Voleva capire, chiedere… cosa? E soprattutto, a chi?
I morti non parlano, alla mia età dovrei saperlo."
Eppure tornava sempre lì, a cercare riposo nell'unico posto in cui non era con le domande che otteneva l'unica risposta che valesse la pena ricevere.

"Davvero credi che per ogni interrogativo esista una risposta razionale, mio giovane Acquario?"
Un tempo ne era convinto, e rispondeva a quelle divertite domande di Shion con una sicumera incredibile per la sua età. Con l'arroganza del ragazzino investito di una responsabilità e di un potere troppo grandi per lui. "Ciò che ero, niente di più e niente di meno."
Si guardò i piedi, poi le mani. Da quei pomeriggi trascorsi in biblioteca con il Sommo Sacerdote era trascorso troppo tempo. E con un po' di volontà riusciva anche a intravedere i ricordi che gli sfuggivano tra le dita, senza che potesse fermarli. E dopo…
Mitsumasa Kido, l'imprenditore. Un vecchio scapolone che mai e poi mai aveva desiderato una famiglia, tanto da essere sempre rimasto alla larga da tutti i mocciosi che, negli anni, le sue amanti avevano cercato di attribuirgli. Di tutti gli uomini, il meno adatto a prendersi cura di una neonata. E, per uno strano scherzo di Ananke, il tutore migliore che la piccola Dea potesse desiderare.
Non aveva mostrato alcuno stupore, la sera in cui l'aveva visto comparire sulla soglia del suo studio. Eppure erano trascorsi mesi, da quel loro incontro surreale per le strade di Atene. Al vecchio era bastata un'occhiata, prima di mormorare qualche parola nell'interfono. Pochi minuti dopo, Camus era impegnato nella complicata impresa di impedire ad una marmocchia straordinariamente vispa di renderlo calvo anzitempo.
L'unica volta in cui aveva tenuto tra le braccia la piccola Athena… Saori, la dea inconsapevole. E quel cosmo avvolgente, così caldo, così familiare. Quasi impossibile credere che appartenesse ad una neonata.
Lo sguardo andò a cadere, d'istinto, sulla lapide di chi aveva rinunciato a tutto pur di salvare quella bambina, che forse non avrebbe mai realizzato quanto gli doveva. "Eri certo che ne valesse la pena, vero?"
Deglutì più volte, tentando di far scendere quel ridicolo nodo in gola. Non era quello, il momento di fare il sentimentale. Non con il pensiero del ragazzo che Saga aveva reso un assassino perfetto, approfittando della sua distratta stupidità.
Si udì un rumore di passi leggeri. Il custode dell'Undicesima Casa scomparve silenziosamente, un attimo prima che Saori Kido entrasse nella fresca e silenziosa cappella. I suoi occhi corsero alle lapidi coperte dalle rose. Ne annusò il delicato profumo, chiedendosi ancora una volta chi fosse il misterioso visitatore che le lasciava dietro di sé. Accarezzò il freddo marmo che custodiva le spoglie mortali del suo salvatore.
"Dopotutto, pensò, ci sono cose che non c'è bisogno di sapere…" Sorrise, come sempre recarsi in quel luogo di riposo l'aveva rasserenata. Sfogliò un bocciolo nel palmo della mano, socchiudendo gli occhi e perdendosi nella fresca fragranza.
"Chissà chi è il suo fioraio…"


…a diverse migliaia di chilometri di distanza, Aphrodite di Pisces scagliava l'ennesima serqua di maledizioni sul ladro che da anni continuava imperterrito a mutilare i suoi preziosissimi fiori.

~.~


Nello stesso momento, in una caletta nascosta dell'inospitale Isola di Andromeda, due ragazze sedevano in silenzio sugli scogli. Insensibili agli spruzzi salmastri che talvolta frustavano i loro visi assorti, gli sguardi perduti lungo l'indefinita linea dell'orizzonte. Due maschere di metallo erano posate accanto a loro. Appena qualche metro più in basso, si era consumato l'ennesimo rituale di elezione del saint che prendeva nome, titolo e armatura di dubbio gusto dalla principessa salvata per il rotto della cuffia dal mitologico Perseo.
Christine meditava, tra i segni evidenti di una favolosa emicrania a venire. Sapere d'essere l'unica persona cui la sua sorellina potesse rivolgersi non contribuiva certo a rendere più serene le sue riflessioni.
Erano passati due giorni da quando una Kelly sconvolta le aveva raccontato il ritorno di Dave a Tokyo come guerriero della Fenice. "Me lo sono perso, per fortuna…"
Era molto, molto preoccupata. Se neppure lei riusciva ancora a mettere ordine nelle proprie emozioni, cosa stava provando in quel momento sua sorella, che aveva sopportato lo sguardo d'odio di quello che per loro era un altro fratello?
E Shun, che di Michael sembrava avere conservato soltanto l'acuta sensibilità, priva però della proverbiale forza di carattere che lo rendeva l'ancora di tutti loro, come riusciva ad andare avanti sapendo che la persona cui teneva di più lo voleva morto?
Kelly l'aveva guardata come se da lei si aspettasse la soluzione, proprio come quando, da piccola, era sempre in grado di tirare fuori se stessa e i suoi fratelli da ogni guaio. Christine sapeva di dover dire, di dover fare qualcosa, ma non le veniva in mente nulla.

— Perché il triangolo si è spezzato — le sfuggì in un mormorio triste, mentre la prima fitta le colpiva la tempia, e il respiro diventava d'un tratto più difficoltoso. Sbirciò sua sorella, stupita da quella mancanza di reazione. Non l'aveva neanche sentita. Continuava a fissare il mare, le onde che si rincorrevano e si abbattevano parecchi metri sotto di loro, come se non desiderasse altro che rimanere lì per sempre.

Non si somigliavano poi tanto, loro due. Kelly era più alta, più sottile. Per il resto, la copia al femminile di quel padre che ricordavano a stento. Per quei capelli, biondi ma più scuri dei suoi, per quei lineamenti decisi e per quella pelle chiara da elfo. Perfino gli stessi occhi, blu scuro, venati di viola, un colore tanto insolito che era difficile credere non si trattasse di lenti a contatto.
Christine sorrise appena. I suoi stessi occhi. Quel marchio di fabbrica le identificava come sorelle in ogni angolo della base militare, persino di fronte a chi non le aveva mai incontrate prima. "Così come riconoscevano nostro padre…"
Max le diceva sempre che quello che più gli piaceva, a fine giornata, era perdersi in quei laghi profondi. Era in quel momento che tutto riacquistava senso, e loro due si ricordavano perché stavano insieme, nonostante il dolore e la fatica insopportabile di vivere le loro vite strampalate come se fossero le più normali del mondo. Quanto le mancavano le sue mani forti, il suo accento terribile e quello strambo taglio di capelli…
E più ancora le mancava Steve, con quell'aria sempre incazzata e quello sguardo talmente trasparente da mettere a disagio chi non c'era abituato. Christine non riusciva a guardarlo senza pensare a sua madre, ai suoi occhi d'argento e a quel sorriso che non sprecava mai.
Steve, che non era mai riuscito a nascondere niente, a nessuna delle sue sorelle, perché loro tre si conoscevano nel profondo dell'anima.

— E ora il triangolo si è spezzato… — ripeté, ancora più sommessamente.

Rabbrividì, e si alzò in piedi. Quello non era il momento di commiserarsi: doveva raccogliersi, piuttosto, affrettarsi a rimettere insieme i cocci della sua precaria stabilità. Kelly e Steve avevano bisogno di lei, della sua capacità di prendere la decisione giusta al momento giusto.
Teneva ancora stretto tra le dita il biglietto che sua sorella era venuta a mostrarle. Il guanto di sfida che Ikki di Phoenix, una volta il loro amico David, aveva lanciato ai guerrieri di Saori Kido perché combattessero contro lui e i suoi Black Four per il possesso della dannata armatura del Sagittario. La missiva, intercettata per pura fortuna, conteneva un post scriptum tutto per Kelly, e nessuna delle due era tanto stupida da fraintendere il significato di quel gesto.
Ikki le aveva messo gli occhi addosso e non l'avrebbe lasciata in pace finché non si fosse misurato in duello con Altair della Gru. Era inutile cercare di temporeggiare. Restava soltanto una cosa da fare, anche se rischiosa per tutti coloro cui volevano bene.
Appena sentì la sua mano sulla spalla, Kelly tornò a rivolgerle la sua attenzione.

— Devi mostrare il messaggio a Saori. Dovete raccogliere la sfida. Sarà un'impresa disperata, ma non ti resta che tentare di tenere a bada Dave mentre gli altri se la vedono con i suoi lacchè. —

"Già, e dopo?" Dopo, nessuna strada sarebbe stata sicura.

La sorella annuì. — Mi dispiace averti portato queste belle notizie proprio oggi, ma… —

"Ma non sapevi dove altro andare…" L'indomani avrebbe affrontato la sua ultima prova. Albion di Cepheus glielo aveva annunciato con un sorriso, qualche giorno prima. Il momento della verità era giunto anche per lei.
Arricciò il naso in un gesto stizzito, un altro tratto in comune con la sua sorellina. Come spiegare al suo maestro che da un paio di mesi a quella parte la Veste del Camaleonte era scesa bruscamente di posto nella scala dei suoi valori? "Povero Albion, se sapessi di che razza di beffa ti hanno reso complice…"

— Me la caverò, vedrai. Nel frattempo, tu devi occuparti di un'altra cosa — replicò tranquilla. — Dobbiamo scoprire cosa ci è successo davvero quella notte, perché solo noi due ricordiamo chi siamo davvero. E c'è una sola persona che può rispondere alle nostre domande. Devi parlare con lui. —

Kelly alzò gli occhi al cielo, tutta la stanchezza del mondo in quello sguardo. — Basterebbe così poco… Ma non ho voglia di vederlo adesso — rispose con voce atona. — Non sono certa di potermelo trovare davanti senza… senza gesti violenti. —

Malgrado la situazione, a Christine scappò un risolino incredulo. — Pensavo avessi superato quella fase. —

La sorella la guardò male, quindi scosse lentamente la testa. — In fondo anche questo è… merito suo — sottolineò, sorpresa da quella obiezione.

Chris le sorrise con affetto: anche in quella gabbia di matti, c'erano cose che non cambiavano mai. E prima di quel giorno non si era resa conto di quanto il suo ruolo di perenne mediatrice le fosse mancato.

— Ne sei davvero sicura? Io invece penso che in tutta questa storia Camus sia stato poco più che una pedina… e che la scacchiera sia molto più grande di lui — disse amaramente, con un'occhiata attenta. — Esattamente come per noi. — "E cosa non darei per vedere in volto chi sta giocando…"

Kelly stava evidentemente pensando che la solitudine di quell'isola avesse avuto effetti deleteri su di lei. — Non ci posso credere — esalò con aria drammatica, riportandola bruscamente a terra.

Christine esitò. Nonostante quanto aveva fatto loro, non riusciva a pensare al maestro di sua sorella come ad un nemico da distruggere, non più. Non dopo averlo visto a casa loro, confuso e mortificato di fronte alle loro occhiate di biasimo. La tristezza rassegnata che aveva colto in fondo a quello sguardo, tanto sicuro in apparenza, l'aveva colpita più di quanto le sarebbe piaciuto ammettere. E il modo in cui quello stesso sguardo era corso verso Kelly in una muta richiesta di perdono, la premura che senza accorgersene riservava soltanto a lei, le avevano suggerito che potesse esserci qualcosa di più del dovere dietro la maschera di Camus. Senso di colpa, attrazione, affetto? Qualunque cosa provasse per lei, quel ragazzo l'avrebbe protetta da ogni rischio. O almeno, avrebbe tentato.
Immediatamente la sua attenzione si rivolse a Albion, che nello stesso momento, dall'altra parte dell'isola, probabilmente non riusciva a smettere di pensarci neppure lui. Sapeva quanto gli stava costando proteggere i suoi allievi. Arles, il nuovo Gran Sacerdote, non gli avrebbe mai perdonato di il rifiuto di schierarsi apertamente con lui contro i ribelli di Tokyo. Quanto tempo, prima che mandasse qualcuno per fargliela pagare?
"Ma quando succederà, anch'io sarò qui." L'istinto le diceva che anche Camus avrebbe lottato con tutte le sue forze, e avrebbe pagato di persona, piuttosto che piegarsi alla volontà di chi aveva ucciso e infangato la memoria del suo più caro amico.
Già per questi suoi sentimenti, il saint di Aquarius meritava il suo rispetto. Ma spiegarlo a sua sorella, quello era tutto un altro paio di maniche.

— Kelly… — la chiamò, rassegnata ad una lunga discussione. E si rese conto che il loro riluttante secondino cominciava a farle un po' pena. — Lui ci serve. Non sappiamo ancora perché ci abbia offerto il suo aiuto, ma non possiamo farne a meno. —

Comprese con un secondo di ritardo di aver toccato un nervo scoperto, non trovò un modo per fare marcia indietro. Sua sorella si era coperta il viso con le mani, e aveva cominciato a tremare. Era evidente che stava lottando con se stessa per non scoppiare in singhiozzi.

— Ma non capisci? È per questo che non ci riesco… —

Christine l'abbracciò teneramente. Sapeva che alla fine sua sorella avrebbe ceduto. Aveva sofferto troppo, negli ultimi tempi. E sempre da sola. — Che vuoi dire? —

— Io gli volevo bene, Chris. Lo ammiravo. Non desideravo che essere come lui — mormorò Kelly in un soffio.

— Finché non hai ricordato chi sei davvero. — Christine riusciva a percepire i suoi sentimenti, quasi avessero una consistenza tangibile. E aveva sentito a pelle, molto prima che lei riuscisse a parlarne, la rabbia cieca che sua sorella teneva a bada in un angolo ben riposto, invisibile agli occhi di chi non la conosceva abbastanza.

Kelly annuì, passandosi una mano sulle guance umide. — Non sopporto di aver bisogno di lui, o di dovergli qualcosa. Pensavo di poterlo perdonare, ma quando ho visto Dave ridotto in quello stato ho desiderato soltanto… —

— …di non aver mai incontrato né lui né i Kido — concluse per lei la sorella, rubandole le parole.

Era questo, dunque. Poteva capirlo perfettamente. Lei stessa non avrebbe reagito allo stesso modo, se al posto di Camus ci fosse stato Albion? Eppure, per quanto comprensibile, quel rancore doveva estinguersi. Oppure avrebbe aiutato Arles a divorare tutti loro, a cominciare da lei. E dal loro amico temporaneamente impazzito.

— Kelly, ti prego. Se non riesci a trovare altre ragioni, fallo per me. Camus non ha colpa di quello che hanno fatto a Dave a Death Queen. —

— Ma di certo ne ha altre — insisté sua sorella.

— Già… — sospirò Christine. "Mi tocca persino fargli pubblicità…" — e da quando l'ho conosciuto mi chiedo come ce la saremmo cavata noi al suo posto. Mi prometti che ci rifletterai? —

Kelly rimase in silenzio per qualche minuto, poi la guardò, finalmente più serena. — Penso che Camus ti debba almeno una cena per quello che stai facendo per lui — scherzò. — E comunque, non ti ho promesso nulla. —

— Uhm, cucina francese, giusto? Devo pensarci… — Christine corrugò la fronte, fingendo di soppesare la possibilità. Strinse forte la sorella, ridendo, mentre il groppo alla gola finalmente si allentava, e le permetteva di respirare a pieni polmoni. O quasi. Si alzò, insieme a lei. — Faglielo presente, quando lo vedi! — gridò, mentre Kelly già svaniva nella nebbia. Si avviò con passo stanco verso la sua baracca. Se solo ci fosse stato anche Steve con loro…

~.~


Era di nuovo sola. Aveva parlato con Saori e con gli altri. Jason non aveva dato nessuna notizia di sé, segno che con ogni probabilità stava ancora saltabeccando come una capra sulle rocce dello Jamir alla ricerca del fantomatico carrozziere delle armature, e la situazione, privi di un cavaliere e di due Vesti Sacre, si presentava tutt'altro che allegra. Persino Mark si era astenuto dalle sue solite spacconate. Suo fratello era rimasto zitto, ma sul suo viso aveva potuto chiaramente leggere la preoccupazione e anche una certa irritazione. Il suo ego doveva essere rimasto piuttosto provato dallo scontro con il suo doppio, quel Black Swan, o come diavolo si chiamava.
Il peggio, comunque, era stato affrontare lo sguardo di Michael, percepire sulla pelle il dolore e il senso di colpa che non riusciva a dominare né tanto meno a nascondere.
Per fortuna, anche questa era fatta, e Kelly aveva imparato che se voleva sopravvivere doveva affrontare un momento dopo l'altro. Un giorno dopo l'altro.
Lanciò uno sguardo circolare alla sua soffitta con vista sul canale. Che strano. Stava cominciando a considerare quel posto come un rifugio. Come la sua casa.
"Male, molto male. Pensa invece che non ci resterai a lungo."
"Sì, come no. Sai già come si fa a tornare a casa tua, vero?

Camus. Ancora lui, la fonte di tutti i guai e la soluzione a qualcuno dei loro problemi. Magari le avrebbe insegnato quello che aveva bisogno di sapere, se solo glielo avesse permesso. E in fondo Chris aveva ragione, avrebbe dovuto concedergli almeno il beneficio del dubbio, prima o poi.
"Non oggi, però. Non ne ho la forza. Né la pazienza. Né…"
Toc toc.
Non poteva trattarsi che di uno dei suoi compagni, o di suo fratello. "Magari uno dei becchini della Fondazione…" Kelly andò ad aprire dopo aver controllato di indossare la maschera. Fosse dipeso da lei, l'avrebbe già incenerita da tempo, e forse era per quel motivo che ultimamente aveva rischiato un paio di splendide figuracce con Saori, Tatsumi, e tutti quelli di fronte ai quali era prudente continuare a portarla.
Aprì la porta come un automa. La richiuse con uno scatto felino, le gambe tremanti. La puntellò con la schiena, lasciandosi scivolare sul pavimento. Passarono diversi minuti mentre cercava di calmarsi. Quando la respirazione riprese un ritmo accettabile si alzò e riaprì la porta con circospezione, con la speranza che lo sgradito visitatore fosse realmente andato via.
Sullo zerbino colorato, che augurava il benvenuto in sette lingue, un paio di stivali. "Non ti arrendi mai?" Jeans molto scuri, maglietta bianca, un giubbotto di pelle perfettamente adagiato su due spalle scultoree e lunghi capelli scuri che incorniciavano un viso dai tratti eleganti. Un paio di occhiali da sole si sollevarono sulla testa del losco figuro, e occhi troppo penetranti si piantarono nei suoi attraverso la maschera, fulminando sul nascere ogni ulteriore tentativo di fuga. "Ti hanno vestito gli Hell's Angels?"

— Possiamo parlare adesso, o ripasso quando sarai cresciuta? —

Kelly scattò come una molla di fronte a quel mirabile esempio di spudoratezza. — Io sarei infantile, ma il cosiddetto adulto — gli puntò contro un dito con sommo disgusto — non riesce ad accettare che non gli si voglia parlare! —

— Non avrei certo violato la tua privacy, se non mi avessi ignorato quando ho cercato di contattarti attraverso il cosmo… — Quella risposta, e quel tono compassato, erano sufficienti a farla sentire in difetto. E questo le mandava il sangue alla testa. "Adesso sono anche obbligata a vedere la tua faccia ogni volta che ti aggrada? Dopo quello che hai fatto?"

— E questo non ti ha suggerito nulla? — sibilò. — Che so, che ti volessi fuori dai piedi fino alla fine dei miei giorni? — La voce di Kelly stava pericolosamente virando verso lo stridulo. Lo fissò infuriata. "Tu non sei il mio padrone, fotoghiacciolo da quattro soldi. È ora che te ne faccia una ragione."

— Ho passato l'età per giocare a nascondino, ragazzina, e non sono l'unico. Questa storia va avanti da tre giorni: quando avresti intenzione di farla finita? — s'informò freddamente il suo ospite, senza darle la soddisfazione di mostrare la voglia che aveva di metterle le mani addosso.

— Di sicuro non quando lo decidi tu, Grande Capo dei miei stivali! — strillò lei, inviperita. — E levati dal mio zerbino! — aggiunse, voltandogli le spalle.

Stava per piantarlo lì sulla soglia, ma lui la precedette. — Come desidera, mademoiselle — sibilò, afferrandola come un fuscello e gettandosela su una spalla. Si richiuse la porta alle spalle con la mano libera e la scaricò poco gentilmente sul divano.

Kelly si mise a sedere, rossa in viso, tastandosi la schiena. La maschera, fissata alla meno peggio, già era volata chissà dove. — Come visitatore sei un vero zotico, Camus di Aquarius. —

— Oh, magari Sua Altezza preferiva continuare a dare spettacolo per i vicini… — ribatté l'altro, sardonico, sovrastandola dall'alto.

— Non prendermi in giro! Se ti importasse un accidenti di quello che preferisco saresti già sparito dalla mia vista! — sbraitò lei col naso all'insù, tanto per dimostrargli quanto le importava della forma e del rischio degli spettatori non paganti.

Camus le si avvicinò fin quasi a sfiorarla e rimase a fissarla, le mani piantate sullo schienale del divano. I suoi occhi mandavano lampi sinistri e Kelly si ritrovò a pensare, del tutto incongruamente, a quanto l'abbronzatura da alta montagna ne valorizzasse il colore. "Fantastico. Sono ammattita del tutto." Contrariamente alle aspettative, il suo maestro si mosse, ma non per ridurla ad un cristallo di ghiaccio. La oltrepassò rigido, intenzionato a sigillare almeno la finestra. Dopo aver tirato le tende con cura, si girò e aprì la bocca. Alzò gli occhi su di lei per un attimo, e parve ripensarci. Tutta la sua baldanza pareva svanita, mentre si appoggiava al muro, le mani strette a pugno con tanta forza che le nocche erano sbiancate.

— Non riuscirai mai a guardare oltre, non è così? —

Kelly sobbalzò al suono di quella voce sommessa, che suonava ancora più triste nel silenzio teso che era calato nella stanza. Improvvisamente, si sentì calare sulle spalle una stanchezza che non aveva niente a che fare con i suoi sonni agitati. Si voltò a guardare Camus, che era scivolato a terra, la schiena contro il muro, senza smettere neppure per un attimo di fissare il vuoto.

— Non posso dimenticare… non di nuovo — mormorò, più che altro a se stessa.

Non sapeva per quanto tempo erano rimasti in quella posizione, lui sul pavimento sotto la finestra e lei seduta sul divano, le mani sulle ginocchia. La luce pomeridiana filtrava calda e ovattata attraverso le tendine colorate. Lo vedeva seduto sul parquet senza sapere che fare, mentre quel ridicolo sentimento di comprensione, travolto e quasi cancellato dagli ultimi avvenimenti, trovava nuovamente strada in lei, come qualche notte prima, nel Tempio dell'Acquario.

— In tutta questa storia Camus è stato poco più di una pedina su una scacchiera più grande di lui —

"Lo pensi davvero, Christine?"

— Mi chiedo come ce la saremmo cavata noi al suo posto… —


La voce di sua sorella era chiara e sonora, nel ricordo di quel pomeriggio. Kelly ci pensò su per un po'.

"Non lo faccio per lui. Ma di te mi fido, Chris…"

~.~


— Forse un modo c'è. —

Camus alzò la testa, sorpreso. Kelly era china su di lui. Deglutì a vuoto. Quella posizione offriva una veduta sin troppo interessante, ma quella piccola stordita non se ne accorgeva. Invece, lo costrinse delicatamente ad allargare le ginocchia quel tanto che le bastava per accovacciarsi a terra e spingere i piedi tra i suoi. Il cuore prese inspiegabilmente a martellare.
Camus pensò che era davvero bella dietro la maschera, e che ormai era grande. Era diventata una piccola guerriera coraggiosa, di cui non poteva non essere orgoglioso. E sì, quella camicia aperta gli ricordava anche che aveva appena gettato via un'altra scatola di preservativi che non aveva avuto l'occasione di usare.

— Che… che hai detto? — riuscì ad articolare, diviso tra la sorpresa di non ricevere una padella sulla testa e l'insano desiderio (si rese conto con orrore) di sbirciare oltre quei bottoni. "Datti una calmata, adocchiatore di minorenni…"

Kelly lo scrutò a lungo. Dannati, dannatissimi occhi, luminosi come l'aurora boreale. — Forse… c'è un modo per farti perdonare… — sussurrò.

"Uno solo? Ne ho giusto in mente un paio…" Camus non aveva il coraggio di proferire verbo. In compenso, i suoi ormoni stavano tenendo una conferenza. Ci volle uno sforzo immane per metterli più o meno a tacere.

— Di cosa stai parlando? — le chiese, per prendere tempo. Non era sicuro di aver ben afferrato la sostanza del discorso. "Una bella doccia fredda, ecco cosa ti ci vuole…"

La ragazza tornò a fissarlo, come se volesse strappargli l'anima. Era evidente quanto le pesasse tendergli quel ramo d'ulivo.

— Camus, io mi fidavo di te. Sei stato il mio maestro, il mio modello. Per sei anni ti ho seguito… e creduto. Credevo davvero di essere una predestinata, che il senso della mia esistenza fosse uno scopo più alto. Ma ora… dovrei attraversare la fossa dei leoni mano nella mano con te, senza ricordare in ogni maledetto istante che sei stato proprio tu a gettarmici? — strinse le labbra, come se volesse dire altro, quindi scosse la testa. — Hai una vaga idea di quanto possa far male scoprire che gran parte della tua vita è stata nulla più che una menzogna? —

Camus si sistemò meglio contro la parete, tentando di assimilare quel colpo basso. I suoi bollenti spiriti erano stati chetati da qualcosa di più efficace dell'acqua gelata. — Tu lo saprai molto meglio di me — fu costretto a concederle.

— E tu non saprai mai più di così, non è qualcosa che si possa raccontare. Ma forse conosci altri tipi di dolore. E forse potresti restare al nostro fianco per te stesso, per il tuo amico Aioros, per la dignità profanata del tuo venerato Santuario. — Rimase un attimo in silenzio, cogliendo un moto di sorpresa mista a disagio. — O almeno, è quello che spero. Vorrebbe dire che c'è ancora qualcosa che possiamo fare. —

— Dove stai cercando di arrivare, ragazzina? — Lui non era mai stato un emotivo. Detestava dal fondo del cuore i discorsi che mettevano in piazza i sentimenti. Lo facevano sentire vulnerabile e rendevano ridicolo chi ne parlava. Eppure quella marmocchia sapeva maledettamente bene dove colpire. "Forse sono io, quello che non ti ha mai conosciuto…"

Lei scosse la testa, quasi se lo fosse aspettato, gli prese entrambe le mani e le tenne tra le sue. Un'ondata di calore lo investì, mentre si dava dell'idiota: ci sarebbe mancato solo di arrossire come un ragazzino.
E intanto non riusciva a trovare la voglia di scostare le mani.


— Adesso ascoltami bene, Camus. Se vuoi, da oggi possiamo ricominciare da capo. Ma basta con i segreti, basta con le menzogne. Tu ti fidi di me, e col tempo io tornerò a fidarmi di te. — La sua voce si ridusse ad un sussurro. — Se mi aiuti a proteggere i miei amici, potremo combattere Arles. Dovrà pentirsi del dolore che ha causato. — Gli strinse le mani con più forza. — A tutti noi. —

Camus cominciava quasi a sentirsi commosso. Rimase in silenzio, ricambiando la stretta per un istante, mentre tentava di rimettere in ordine le idee. C'era qualcosa che doveva dire, e non sapeva se avrebbe avuto un'altra occasione. "Ma come posso?"

— Non … — Respirò profondamente, prima di proseguire in tono amaro. — Non posso cambiare il passato, Kelly. — "Ma se potessi, lo farei". A occhi bassi si domandò se avesse compreso. O se gli avrebbe almeno risposto. Non vide il viso di lei allargarsi nel sorriso più caloroso che gli avesse mai rivolto. Il suono della sua voce lo sorprese, così come la dolcezza del suo tono.

— Credimi, lo so. Per esempio, non sai come mi pento di non averti rotto qualche osso, il giorno della mia investitura… mi sarei sentita meglio — replicò la ragazzina con serietà. — Ora è troppo tardi… —

Camus rialzò la testa di scatto. La fissò, incredulo di fronte a tanta spudoratezza. Ma capiva che c'erano nuove regole, in quel gioco. Non avrebbe mai visto ammirazione e rispetto incondizionati in quegli occhi, ma forse… avrebbe contato su di lui. Era quello, l'importante. "L'unica cosa davvero importante…"

— Non tirare troppo la corda, piccola strega — si limitò a commentare. — E non dovresti illuderti che battere il proprio maestro sia un'impresa facile. —

Lei scoppiò a ridere allegramente. — Lo so, Camus dell'Acquario, lo so. Sarà per sempre uno dei grandi rimpianti della mia vita — lo canzonò, a pochi centimetri dal suo viso. I loro sguardi s'incontrarono. Le sembrò di vederlo per la prima volta, ed era davvero un bel vedere. Accidenti a lui, se lo era. E ora la stava valutando con uno strano lampo negli occhi.

— Forse potresti riuscirci, prima o poi. — Prima che Kelly potesse pronunciare una sola altra parola, era scattato in piedi sollevando anche lei. Cercò di ignorare il desiderio irrazionale di stringerla tra le braccia, forte, e non lasciarla andare mai più. "La solitudine ti fa male", pensò, irritato. — Dovrai ricominciare ad allenarti come prima, signorina. Non mi accontenterò di niente di meno della perfezione. — Guadagnò il divano fingendo una noncuranza da primato. "Distanza di sicurezza, prego…"

Kelly prese una sedia, la rivoltò e sedette al contrario, incrociando le braccia sulla spalliera. "Non mi prendi in giro. Non più."

— Neanche tra mille anni riuscirei ad eguagliarti, Camus. Perché vorresti perder tempo a migliorare le mie capacità? —

— È il desiderio di ogni maestro che si rispetti… — recitò lui, prendendo un tono ispirato. Era qualcosa di completamente nuovo, scherzare in quel modo con lei. E forse gli piaceva un po' troppo.

Lei non si lasciò abbindolare. Interruppe la litania prima che lui cominciasse a prenderci gusto. — Maestro… un po' di serietà, se non ti è di troppo disturbo! —

— Ti hanno mai detto che sei troppo sospettosa, ragazzina? — la rimbeccò, divertito. Lei continuò a fissarlo diritto negli occhi. "D'accordo, Kelly. Basta giocare…" — Voglio che tu sia pronta. Il Gran Sacerdote presto vorrà le teste dei tuoi amici, e forse anche la tua. Un giorno ti troverai ad affrontarlo. —

"Tu e quegli altri squilibrati che si esibiscono in mondovisione…"

Lei sorrise con una dolcezza inaspettata. — Quel giorno ti renderò orgoglioso — cinguettò, la voce tutta miele. — Quanto ho sognato di poterti restituire tutte le sberle che ho preso in questi anni… —

— Era della mia serietà che ti lamentavi? —

Lei lo squadrò come l'avesse accusata di ordire la strage degli innocenti. — Ma io non stavo scherzando… —

"Questa ragazza mi porterà al manicomio molto presto…" Camus rinunciò a ribattere, scuotendo la testa con comico sconforto. Un silenzio denso cadde tra loro, intimo e inopportuno. Troppe parole non dette. Che non potevano essere dette. Kelly si chiese se fosse normale avere un ragazzo e trovare qualcun altro così… affascinante.

— A proposito, devi una cena a Christine — gli annunciò, tanto per non restare là a fissarlo come una stupida. — Vorrebbe che le preparassi qualcosa di francese. —

"Christine?"

— Tua sorella? — La faccia di Camus era il ritratto vivente della perplessità. Oltre che di una giustificabile diffidenza. — E perché? — "Ci manca solo una morte per avvelenamento, adesso…"

Kelly ebbe un piccolo sogghigno, ripensando alle ingenue aspettative della sua povera sorella. — Dopotutto, ha perso un'intera mattinata per convincermi a rivolgerti la parola. —

"E io che m'illudevo sulle mie capacità persuasive…" — Pensavo le volessi bene. —

La ragazza sorrise. Christine non sapeva, non poteva sapere che rischio si corresse a lasciar cucinare quel flagello domestico. Ma questo rendeva la faccenda ancora più divertente. — E io penso che sarai tu a spiegarle la triste verità… —

— Durante l'addestramento non sembravi tanto schizzinosa — Camus si alzò e si diresse verso la cucina. Si sentiva snervato, e aveva bisogno di un pretesto qualsiasi per sciogliere la tensione. — Forse potrei rinfrescarti la memoria… — le propose, senza pensarci troppo. Troppo tardi si rese conto di quanto era stato invadente. E di averle mostrato quanto poco desiderasse andarsene.

Kelly gli si parò di fronte, ostruendo il passaggio. Sembrava la caricatura del terrore.

— Vade retro, Satana! Alla larga dai miei fornelli. — Ci pensò su per un momento, poi si appoggiò allo stipite con uno sguardo da gattina. — Se proprio tieni alla cena, puoi sempre occuparti dei piatti… — miagolò, defilandosi dietro la porta prima che potesse obiettare.

Camus sospirò, sconfitto. E tornò sul divano. "Era meglio cenare con Milo…" Eppure, sapeva già che di quella serata, qualunque cosa riservasse il futuro, non si sarebbe mai pentito.

~.~










Angolo della vergogna™


Niente vergogna, questa volta, ma solo l'usuale, sentito ringraziamento a Madama Barakei, donna del LOL, e tanti, tanti auguri per un 2012 esattamente come tutti voi lo vorreste!

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Capitolo 7
*** Track #06: Hammer To Fall ***


Track #06: Hammer To Fall TRACK # 06:

HAMMER TO FALL

Here we stand or here we fall
History won't care at all
Make the bed, light the light
Lady mercy won't be home tonight
Yeah, you don't waste no time at all
Don't hear the bell but you answer the call
It comes to you as to us all
Hey, we're just waiting
For the hammer to fall

(Queen)

L'elicottero della Fondazione Grado stava sorvolando le pendici del Monte Fuji, in vana ricerca di un punto d'atterraggio adatto. A bordo, oltre il pilota, alcuni giovanissimi guerrieri, un insolitamente taciturno Takumaru Tatsumi e, incredibile ma vero… Saori Kido.

— Non era necessario che ci accompagnassi, Saori. — Kelly era stata la prima a interrompere il pesante silenzio che era caduto tra loro sei non appena avevano visto comparire all'eliporto quella che era considerata quasi all'unanimità la loro somma aguzzina e persecutrice.

Saori sollevò uno sguardo pensoso sulla sua vecchia compagna di giochi. — Perché non avrei dovuto? —

“Già, perché? Perché nessuno di loro ti vorrebbe qui, Saori. Perché ti considerano soltanto una ricca e viziata figlia di papà, e chissà che non abbiano ragione. E perché, se adesso stanno rischiando la vita per recuperare quella maledetta armatura, non lo fanno certo per te. Lo fanno per se stessi, per il proprio orgoglio, per non dare una soddisfazione al loro nemico. Quasi tutti…” L'attenzione di Kelly si spostò su Michael. Sedeva in perfetto silenzio ormai da più di un'ora, stringendo convulsamente tra le mani la sua Catena di Difesa. “Mi gioco la ferraglia che porto addosso che ha intenzioni simili alle mie… più o meno…”

Saori la stava fissando ancora, in attesa di una risposta. Una risposta che trascendeva il momento, ed entrambe lo sapevano. Kelly sentiva chiaramente la sua delusione per la freddezza che le aveva dimostrato da quando era tornata a Tokyo, come se in fondo l'avesse considerata qualcosa di più di una dama di compagnia provvisoria. Ma neanche una volta, in tutti quei giorni, Saori le si era avvicinata, parlandole come se contasse qualcosa. Forse si aspettava una complicità da vecchie amiche, che lei proprio non trovava motivo per concederle. E, quasi a ribadire quella distanza, aveva sempre tenuto ostinatamente la maschera sul viso anche quando si erano trovate da sole. Il vuoto di quei sei lunghi anni di attesa, speranza e dolore le aveva cambiate, pensava. E allontanate senza speranza.

— Questa gita è molto pericolosa — si decise a rispondere Kelly, secca ma non scortese, o almeno ci sperava. — Potrebbero attaccarci da un momento all'altro. Almeno tu che non eri obbligata a venire potevi restare a casa. —

La verità era che non si era mai sentita tanto nervosa in vita sua. Gli ultimi cinque giorni passati sul K2 le avevano regalato una forma smagliante, che non avrebbe mai pensato di poter raggiungere. Ma che cosa avrebbe fatto di cotanta potenza di fronte a un nemico cui non poteva e non voleva far del male, questo era tutto da vedersi.

Per fortuna, Saori interruppe le sue riflessioni prima che toccassero corde troppo dolenti. — È proprio questo che mi preoccupa. Non riesco a capire dov'è che Ikki vuole incontrarvi. Temo una trappola. —

— Già. Ha scelto proprio un bel posticino per farci la festa… — si intromise Seiya, incrociando le braccia dietro la testa con il fare impertinente che lo caratterizzava.

L'erede dei Kido guardava lui, ora. — Lo sai, vero, che non voglio che tu muoia? Piuttosto vorrei che tu recuperassi tutti i pezzi della Veste Sacra. —

— Tanto per saperlo, Milady… — Seiya sottolineò la parola con un'ironia che a Kelly ricordò all'improvviso le sue memorabili discussioni con il Colonnello Wood. — È più importante riportare a casa la nostra pelle o tutti i pezzi di quell'armatura? —

Saori parve esitare per un attimo di troppo. — Bè, veramente… —

— Naturalmente è la Veste Sacra la cosa più importante! — si risentì Tatsumi con saccente superiorità.

— Tutte e due… — sussurrò in fretta Saori, cogliendo tutti alla sprovvista. Kelly la guardò sorpresa, ma tutto sommato sollevata. Nonostante la maschera, Saori comprese, e tentò di abbozzare un sorriso che, data la situazione, non le riuscì bene come aveva sperato.

Kelly incrociò le braccia, e stese le gambe nel tentativo di sgranchirsi. Ripassò mentalmente il da farsi. Doveva trovare Dave prima che potesse fare del male agli altri. Possibilmente sbarazzarsi di quei quattro buffoni che si era portato da Death Queen. E poi? Intrattenere un'amichevole conversazione sul tempo nelle zone tropicali? Spiegargli i vantaggi di un trasloco a Villa Kido?
Anche senza ripeterlo ad alta voce, le sembrava un piano ridicolo.

"Devi mantenere la calma, se non vuoi che ti uccida.” Camus, novello Cavaliere del Disco Rotto, glielo aveva ripetuto sino allo sfinimento.

— Per te è facile parlare… non è amico tuo! — sibilò la ragazza a bassa voce.

— Altair, hai detto qualcosa? — Hyoga guardava sua sorella incuriosito e preoccupato. Ora cominciava anche a parlare da sola? La osservò distogliere lo sguardo, imbarazzata. Da quando era tornata dal Karakorum la sentiva estranea, persa in un mondo suo, in cui lui non era gradito.
Non la riconosceva più.
“Perché, tu ti riconosci? Hai visto il luogo in cui riposa tua madre, l'unico vero motivo per cui aspiravi all'armatura, ma non ti ha portato il sollievo che avevi sperato. E forse hai perso così tanto tempo a rincorrere i morti da non sapere più trattare con i vivi.” Erano cambiati, tutti loro. “I bambini di sei anni fa sono andati, per sempre. E non credo sia stato un bene.” Pensò ad Ikki. Per qualcuno non lo era stato di sicuro.

— No, nulla. — Kelly gli aveva risposto sentendosi vagamente ridicola. E sempre più agitata. Quanto avrebbe avuto bisogno, ora, di una buona risata…



— Ragazzina, se non la smetti penso che ti surgelerò… —

Lo sguardo di Camus non prometteva niente di buono mentre sollevava con grazia il palmo sinistro, sul quale si stava materializzando una piccola sfera di ghiaccio. Aveva indosso l'espressione più truce del suo repertorio.
Un vero peccato che l'effetto generale fosse vanificato dal sapone che gli colava giù per il braccio, sposandosi alla perfezione con il grembiule a cuori rossi e bianchi che gli cingeva delicatamente i fianchi inequivocabilmente maschili.
Kelly aveva fatto capolino dalla porta della cucina soltanto qualche secondo prima, in tempo per assistere al più comico spettacolo dei suoi ultimi sei anni. Un convulso di riso ne era stato l'inevitabile risultato. E adesso il prode Signore dei Ghiacci la stava fissando, pericoloso come non mai, attraverso le migliaia di bollicine sollevate in aria dalla sua incurabile inettitudine nelle faccende domestiche.
E lei ci stava provando, davvero, ma non poteva farne a meno, non riusciva a smettere, come se quella risata avesse aspettato troppo tempo per uscire.

— Il tuo senso dell'umorismo è già surgelato, però. Se avessi la decenza di guardarti allo specchio, forse mi faresti compagnia… — era riuscita a soffiare, tra un singulto e l'altro.

Camus aveva spostato lo sguardo sul proprio girovita. L'aveva colto a rabbrividire. — La mia decenza ringrazia, ma si sente abbastanza ridicola così. —

Aveva approfittato di quell'attimo di distrazione per asciugarsi discretamente gli occhi con il dorso della mano. Era un spasso provocarlo, e non se lo era mai potuto permettere. — Via, maestro, non sottovalutarti. Gli uomini che lavano i piatti rimorchiano di più, non lo sapevi? —

Camus l'aveva fissata come se si stesse chiedendo dove fosse la miccia per farla saltare in aria. — Se mai il Sacerdote dovesse chiedermi di addestrare un'altra marmocchia come te — aveva lasciato cadere, funereo — Credo che mi toglierò la soddisfazione di mandarlo al diavolo, finalmente. —

A quello sguardo, capace come nessun altro di ghiacciarle la risata in gola, Kelly non aveva impiegato molto a farla finita. Aveva sorriso appena, con circospezione, slacciandogli il dannato arnese. — Comunque, ero venuta a darti il cambio. Se vuoi, c'è della birra irlandese in frigorifero. —




La voce del pilota la fece sobbalzare. — Ci siamo quasi. — lo sentì gridare, al di sopra del frastuono della cabina di pilotaggio. — Ci abbassiamo quanto più possibile. Non c'è modo di atterrare, ma potrete lanciarvi sulla neve fresca. —

“Fantastico, ci mancava lo snowboard in armatura…” Come se l'avesse sentita, Saori rialzò la testa, rivolgendole un'occhiata colma d'ansia. Kelly le prese la mano e gliela strinse con calore, sperando che in qualche modo percepisse il suo sorriso celato dalla maschera. “Forse ho sbagliato tutto con te…” Rimasero in silenzio. Senza neppure accorgersene, Kelly si era nuovamente immersa nei suoi pensieri. Saori rimase a lungo a guardarla, mentre cominciava a capire che, per qualche strano presentimento, temeva più per la sua vita che per quella di tutti gli altri.

— Altair, ti prego, sta' molto attenta… —

La sua vecchia amica la prese per mano, guidandola verso il fondo dell'elicottero. Si fermò, le spalle rivolte agli altri passeggeri. Sollevò la maschera con un sorriso birichino, strizzandole l'occhio.
Saori si sentì come se un enorme peso le fosse appena caduto dal cuore.


~.~


Dannato cervello, drogato di preoccupazione, proprio non voleva saperne di lasciarlo in pace. Se non fosse stato per quello, non sarebbe stato di nuovo sveglio, nel letto comodo e fresco di bucato dell'Undicesima Casa.
Qualcuno era entrato per pulire, durante la sua assenza. Gli abiti erano stati ripiegati, la polvere debellata fino all'ultimo granello, le lenzuola sostituite. Anche se aveva più volte ribadito di non aver bisogno che nessuno rimettesse a posto la sua piccionaia rotonda sul tetto del Tempio dell'Acquario, sembrava che ci fosse sempre qualche servitore sommamente lieto di ignorare le sue disposizioni. Spuntavano come funghi, ne era sicuro, non appena fiutavano la sua assenza. La cosa l'aveva infastidito, ma non preoccupato, finché non si era chiesto se il numero spropositato di ancelle e servitori che infestavano il Santuario non fosse altro che un elaborato piano di Saga per tenerli tutti d'occhio.
Da quando ci aveva pensato, non era riuscito più a trovare pace neppure nella sua camera.
Era in tutt'altro posto che era riuscito a sentirsi a casa, dopo tanto. E no, non aveva proprio voglia di riflettere su cosa potesse significare.



— Birra irlandese? — s'era sciacquato le mani alla velocità del suono, tentando di non mostrare troppo sollievo. E neanche le chiazze d'acqua sulla maglietta poco meno che fradicia, la ragazzina s'era divertita abbastanza per una sola serata.

— È un bel posto, Dublino — aveva lasciato cadere lei, vaga, canticchiando appena tra spugne e detersivi. Mentre si voltava a sistemarsi il grembiule, Camus si era ritrovato a pensare a quanto quella serata fosse stata simile, e diversa, dalle tante che avevano vissuto insieme in quella baita piena di spifferi, non appena lei era diventata abbastanza grande da divorare i suoi libri, quasi tutti, e discuterne la sera davanti al fuoco. Era un passatempo di cui non si stancava mai, neppure quando la testa le ciondolava e gli occhi le si chiudevano. Lo faceva per educarla, si diceva, perché un Cavaliere doveva essere pronto tanto al combattimento quanto alla strategia, avere conoscenze ampie e una mente aperta…
“Quante scuse.”
Si sentiva solo, punto e basta. E lei lo ascoltava, era sveglia e le sue domande lo riempivano di un giustificato e ben celato orgoglio. Stava bene con lei, con quella ragazzina che, ogni giorno, gli ricordava tutto ciò che era stato lui, quando Shion era vivo e lui stesso soltanto un apprendista con la testa piena di sogni cavallereschi. Al punto che il buco che lei aveva aperto quando se n'era andata gli aveva fatto così male da non permettergli più di restare in quella baita che gli ricordava la sua sconfitta più grande. Quando aveva abbandonato il K2, convocato dal mentecatto dopo mesi di silenzio, era convinto di aver perso su tutta la linea. Era rimasto al Santuario, in attesa di un segno che lui per primo non credeva sarebbe arrivato davvero.
E poi la sua allieva era tornata, proprio quando non aveva più trovato scuse con se stesso per aspettarla. Ma era diversa, adesso che ricordava chi era, e chi era stata. Tutto era diverso, ora, con quella piccola donna, divertente e allarmante al tempo stesso.
“Tutto diverso, ora.”
Una volta, lei non si sarebbe lasciata sorprendere a fissarlo in quel modo irritante, con la cucina che riluceva alle sue spalle.
“Ha già finito?”

— Non ti ricordavo tanto veloce nelle faccende di casa — aveva tirato fuori in fretta, tanto per togliersi d'imbarazzo.

Lei s'era asciugata le mani nel grembiule si era avvicinata, la destra sollevata scherzosamente a tastargli la fronte. — Ti senti bene, maestro? I complimenti non sono mai stati il tuo forte… —

— E ora ricordo anche perché… — aveva borbottato, schivandola e puntando al divano.

Kelly stava ancora ridacchiando, mentre lanciava il grembiule nel cesto dei panni sporchi. Poi, aveva esaminato il frigorifero con aria critica. — Perché non hai preso niente? —

Si era stretto nelle spalle. Dopotutto, quella non era casa sua. — Ti stavo aspettando. —

— Un vero gentiluomo… — Aveva scorto un sorrisetto, mentre gli porgeva la lattina nera. La ragazzina ne aveva aperta un'altra per sé, accoccolata dall'altro lato del divano.

Quella birra era davvero buona. Camus si era rilassato, gli occhi socchiusi, intento a gustarsi quel sapore corposo e un po' amaro. Gli ricordava un po' l'avere a che fare con lei, che gli teneva testa, lo punzecchiava e lo sfidava sempre, gli ricordava in cosa aveva sbagliato e in cosa poteva ancora vincere con le parole, i gesti e gli sguardi. Come in quel momento, con quello sguardo in tralice, dietro una lattina che non aveva ancora l'età per vuotare.

— Non pensi di essere un po' troppo giovane per darti all'alcool? —

Era quasi rassicurante sentire la sua stessa voce sostenere quell'ovvietà… Ma in fondo non era vero, neanche un po'.
“Se sapesse che avevo dodici anni la prima volta che ci siamo sbronzati, io e Aioros…”
Kelly aveva piegato appena gli angoli della bocca, un sorso buttato giù quasi per sfida.

— A nessuno di noi è stato permesso di essere troppo giovane. Né qui, né… altrove. Tanto vale approfittarne — aveva replicato, l'amarezza velata appena dal tono pratico.

Altrove… ripensando agli anni trascorsi sul K2, o, molto più indietro, al suo stesso addestramento, Camus non aveva potuto che darle ragione. Aveva pensato alle interminabili giornate trascorse tra sudore e sangue, senza la certezza di sopravvivere fino al tramonto, o alle prove, dolorose e infinite, a cui soltanto i più dotati e cocciuti sopravvivevano. Il suo stesso calvario, che quasi aveva dimenticato, ricompensato dalla soddisfazione di servire la Dea per cui era nato, e da quella corazza che viveva e respirava con lui, come una seconda pelle. E guidare il suo primo allievo era stato soprendentemente facile. Ma Alëša Pàvlovic, in fondo, era già grande quando aveva reclamato l'armatura, e con lui era stato più un compagno più abile che un Maestro. La vera prova era stata sottoporre a quella tortura una bambina, com'era stato lui, scommettere il suo ruolo sulla sua capacità di sopravvivere. Quella stessa scommessa che non aveva alcuna intenzione di perdere, ora che la prova più dura si stava avvicinando.
Ma forse lei aveva inteso altro… magari quell'altra vita al di là del Portale. Qualcosa che lui non conosceva, che probabilmente avrebbe fatto bene a non approfondire mai.
Erano rimasti a sorseggiare la birra in silenzio, senza scambiarsi un'altra sola parola. Entrambi alle prese con qualche piccolo demone privato.
Rialzando la testa, il ragazzo si era accorto che lei lo stava scrutando attentamente. Kelly aveva tutta l'aria di aver soppesato per diverso tempo i pro e i contro di quella domanda che le bruciava sulla punta della lingua. Alla fine, come al solito, non era riuscita ad indursi a star zitta.

— Perché mi hai cercato con tanta insistenza, Camus? —


~.~


Kelly si aggirava tra le rocce taglienti della Valle della Morte già da parecchi minuti, circondata da nient'altro che uno stagnante, insopportabile puzzo di morte. Sentiva l'aura del suo amico di una volta, un cosmo carico d'odio, ostilità… e dolore. Un dolore accecante, insopportabile. Lei riusciva a percepirlo, e l'aveva letto nei suoi occhi la sera della sua plateale esibizione al Colosseo Grado.
Negli occhi dell'assassino furibondo che aveva preso possesso del corpo di Dave.
Si era divisa dagli altri appena dopo il lancio dall'elicottero, al polso una piccola campanella di lucido ottone identica a quella dei suoi amici. Aveva sorriso, intenerita, a quella trovata di Michael, ma non aveva potuto impedirsi di pensare che stavano andando incontro ad un carneficina e che il massimo della fortuna cui potevano aspirare era non finire tra i cadaveri.
E non poteva certo lamentarsi di non essere stata avvertita.
A pensarci bene, se l'era proprio andata a cercare.




"Perché mi hai cercato?"

A quella domanda, Camus non si era certo precipitato a risponderle, piuttosto aveva vuotato la sua lattina con estrema calma. Kelly aveva percepito una certa esitazione, come se il suo maestro si stesse chiedendo da che parte cominciare ad abbordare l'argomento. E che proprio lui si stesse abbassando a mostrare un po' di diplomazia la impensieriva più di quanto le facesse piacere ammettere.

— So che il tuo amico… David… è tornato — s'era deciso, gli occhi che la fissavano, attenti alle sue reazioni.

Crack.
Eccola, l'armonia della serata, che andava a farsi benedire. Kelly aveva tirato un lungo sospiro, tamburellando con le dita sulla lattina che teneva ancora in mano. Prendere tempo non era mai stato il suo forte. — Chi te lo ha detto? —

— Le notizie viaggiano veloci, anche al Santuario — le aveva risposto, senza smettere di guardarla, ma con l'aria di non aver gradito di non averlo saputo da lei. —Tu come stai? —

"Ora non vorrai farmi credere che ti importa davvero… E non mi fissare così, non lo sopporto.”

— Non mi ha fatto niente, come vedi. Era troppo impegnato a rapinare Saori Kido delle preziosa reliquia di famiglia. — Sapeva che parlare con così poco rispetto della Veste del suo amico avrebbe fatto andare Camus su tutte le furie, e la cosa cominciava a procurarle un certo qual piacere.

Ma lui non aveva raccolto la provocazione. — Non era della tua salute che mi preoccupavo, sono stato io a metterti l'armatura sulle spalle. Non credo che Phoenix riuscirebbe neanche a torcerti un capello senza il tuo consenso — aveva commentato con indifferenza. Apparente indifferenza. Il realtà, la stava guardando di sottecchi, con tutta l'aria di voler sapere se quel permesso lei fosse disposta a concederglielo. Doveva aver capito fin troppo bene, il bastardo, che non riusciva neanche a concepire l'idea di fargli del male.
Diavolo, lei ci teneva alla pelle, non era così stupida. Ma lo spettacolo di quel mentecatto avvolto nella scorza del suo amico Dave l'aveva scossa tanto che non era riuscita neppure a dargli la caccia insieme agli altri. Niente aveva avuto importanza, da quando aveva compreso che l'avevano spezzato e riplasmato, c'erano riusciti in qualche modo e tutto ciò che era rimasto era…

— Kelly? — Perché non la lasciava in pace?

“Camus, ti prego. Voglio solo bere una birra, fingere di credere ancora che la giustizia si spanda da ogni tuo orifizio e che un tuo consiglio risolverà tutto. Me lo devi, dopo quello che mi hai fatto.”

— Lui non si chiama 'Phoenix' — aveva soffiato, in ritardo.

Camus l'aveva fissata interdetto, ma poi aveva capito. E sospirato. — Non sarà negando l'evidenza che questa cosa si risolverà, Kelly. —

— Lui non si chiama 'Phoenix' — aveva ripetuto, testarda.

"Lo so, ragazzina. Ma non è questo l'importante.”" —Comunque tu voglia chiamarlo, il suo ritorno è un pericolo. E tu… —

— Pericolo? Pericolo? — Kelly balzò in piedi all'improvviso, rossa in viso. — Lui non è 'Phoenix', dannazione! Il suo nome non è Ikki! È David, uno dei miei amici più cari, mi ha salvato la vita così tante volte che non riesco a contarle! E ora è irriconoscibile, ne hanno fatto un malvagio, un bastardo, uno stronzo figlio di puttana! Ha quasi ucciso suo fratello! — stava blaterando, lo sapeva, e neanche credeva che lui potesse capirle, quelle parole insensate. — e tu sei piombato qui solo per dirmi che è diventato una minaccia? — Il sangue le stava colando dalla mano destra, che si era stretta al punto da stritolare all'istante la lattina. Una piccola pozzanghera di birra appena striata di rosso si era formata sul pavimento.
Ma chissene…
Lui. Ecco a chi importava. Quando era sparito? E quando ritornato con la cassetta del pronto soccorso che aveva trovato in bagno il giorno del suo arrivo a Tokyo?
Una sola occhiata, e aveva richiuso il becco. Lui l'aveva forzata a sedere di nuovo, e le aveva esaminato la mano con quella sollecitudine senza fronzoli che una volta la riempiva di ammirazione. Non si era mai perso in chiacchiere, Sua Ragione. E mentre le disinfettava il taglio netto sul palmo lei non aveva potuto evitare di perdersi in quei ricordi agrodolci in cui era ancora una bimbetta con una maschera troppo grande e il suo maestro tutte le sere le medicava le ferite con attenzione e le spiegava dove aveva sbagliato.

— Forse vorresti sentirti dire che andrà tutto bene, ragazzina — aveva detto, con la calma delle occasioni importanti — ma sai bene quanto me che tutti noi viviamo delle vite che non ci appartengono davvero. E David ha scelto una strada che porta alla distruzione. —

— Non è stato Dave a sceglierla, ma Ikki — aveva ringhiato lei, sottraendo la mano alla sua stretta. — Tanto vale che tu lo sappia subito, maestro. Non lo abbandonerò. —

Camus la prese di nuovo per un polso, senza scomporsi. Aveva sempre avuto mani calde, un aspetto di lui che sorprendeva sempre chi conosceva il suo contegno freddo e i posti in cui aveva vissuto. La garza era stata posata con delicatezza insolita sul suo palmo ferito, e il cerotto medico si era appena materializzato a fissarla quando lui aveva replicato, forse in parte divertito:

— Ora ti contraddici, ragazzina. David o Ikki che sia… —

— Già, mi contraddico davvero. Avevo giurato che non mi sarei più fatta infinocchiare dalle belle parole, e ora eccomi qui, a far piani di battaglia con la persona che mi ha tradito più di qualunque altra. —

Camus non aveva mostrato segni di impazienza. Si era alzato con calma, allontanandosi da lei. Kelly l'aveva guardato andare alla finestra, controllare che non ci fosse nessuno. Aveva riposto i disinfettanti, infilato la giacca di pelle. Quando la porta si era richiusa, con un rumore quasi impercettibile, s'era sentita di nuovo sola. Sola, e con la certezza di aver appena spezzato qualcosa di fragile e importante.


~.~


Se n'era rimasto seduto in cima alla scalinata che conduceva al suo Tempio per parecchie ore, immobile come una statua. Perché lo sapeva, dentro non avrebbe resistito. La notte del Santuario, tiepida e profumata, alla fine era scesa a confortarlo, ed era l'unica cosa che gli sembrava di poter sopportare. Se l'era sempre cavata così, di fronte alle ferite, piccole o grandi che fossero, Camus dell'Acquario. Soffocando il dolore nel profondo, fingendo che non esistesse, aspettando il momento in cui si sarebbe estinto da solo, nel tempo, senza alcuna lotta.
Tranne quella che sosteneva ogni giorno per continuare a mostrare una facciata imperturbabile agli occhi del mondo.
Ma stasera mi è andata male…
Aveva fallito miseramente, con quell'uscita teatrale, da animale ferito.
Tutto quello che avrebbe voluto sarebbe stato svegliare Milo, portargli da bere, soltanto per vedere una faccia amica e aspettare l'alba parlando di idiozie come avevano fatto tante e tante volte. No, non poteva, non sarebbe mai riuscito a tenergli nascosto che qualcosa non andava. E Milo, lo sapeva, era già preoccupato per lui. Senza contare il rischio di trovarlo in dolce compagnia. E se non Milo, chi, o cos'altro?
La verità era che non sapeva dove andare.
Per quanto provasse ad impedirselo, non riusciva a smettere di pensarci. Le immagini della bambina e poi della ragazzina in Kashmir si confondevano e si sovrapponevano al viso della giovane donna che lo aveva costretto a guardarla in faccia, a ricordare chi era e cosa aveva fatto. Che per un attimo gli aveva sorriso, uno dei sorrisi più belli che avesse mai visto.
E che lo detestava. Senza possibilità di redenzione. Senza che lui stesso fosse in grado di capire perché era importante che quel sorriso non si estinguesse.
Non c'era alcun senso, in quel peso che sentiva lì, un po' più in alto dello stomaco. Tutto ciò che sapeva in quel momento era che lo stava soffocando, e avrebbe pagato oro per un po' di sollievo.

— Nobile Cavaliere… —

A quella voce incerta, Aquarius era scattato in piedi, tanto rapidamente che il povero ragazzo che l'aveva interpellato era stato sul punto di sciogliersi per il terrore. — No-nobile Cavaliere, il Gran Sacerdote richiede la sua presenza domattina. Al più presto possibile, ha-ha detto. — aveva farfugliato, prima di defilarsi.

Ci mancava solo lui, certo. Camus si era passato una mano tra i capelli, massaggiandosi gli occhi e la fronte.
"Devo andarmene di qua…"

~.~


Era quasi mattina, quando Kelly finalmente era riuscita a scollarsi da quel divano. Destinazione, il cassetto in cui aveva nascosto le foto e gli oggetti che appartenevano alla sua vita precedente. Tutte quelle cose da cui non riusciva a separarsi, ma che per la sua sanità mentale (e per evitare imbarazzanti spiegazioni) era meglio non si trovassero troppo in vista. Aveva agguantato il solito pacchetto di polaroid, scorrendole rapidamente, fino a trovarne alcune che facevano male, quasi da spezzare il cuore. Lei e Mark. Abbracciati, a Mykonos, il giorno prima di prendere il traghetto per Atene. Il giorno prima che la loro tanto attesa vacanza 'tutti insieme appassionatamente' si concludesse con un rapimento… Sembravano così felici, in quegli scatti… avevano appena finito di litigare. Lo sapevano tutti e due che qualcosa non andava, e presto o tardi avrebbero dovuto ammettere che era finita. Che, qualunque cosa fosse, l'amore doveva essere tutt'altro. Dopotutto, ne sapevano ancora così poco…
E, nonostante tutto, l'apparenza era quella di due ragazzini innamorati e felici.
Neanche adesso, sapeva andare oltre la superficie.
I suoi bei propositi, la sua calma maturità erano durati soltanto un paio d'ore. E sua sorella non avrebbe potuto darle della stupida più di quanto non stesse già facendo da sola.
Si sarebbe fatta scorticare piuttosto che ammetterlo, ma Camus aveva ragione a trattarla da poppante. Era ancora una ragazzina, a dispetto di tutte le arie che si dava. E da ragazzina si comportava, come aveva fatto quella sera. Proprio con l'unica persona, in tutta la sua vita, che avesse provato a rimediare al male che le aveva fatto, prima ancora di sentirselo chiedere.
Perché le faceva male ammetterlo, ma Camus aveva sempre e solo agito secondo il suo dovere. Anzi, riflettendoci meglio, era stupefacente anche solo che non l'avesse uccisa su due piedi, non appena lei aveva gettato a terra la maschera, pestando i piedi e ostentando vuote minacce di morte. Così come aveva sottovalutato a bella posta la sua offerta di aiuto, senza pensare che così avrebbe potuto salvare altre vite, oltre la sua.
Lui, che non era tenuto a renderle le cose più facili, l'aveva fatto per lei. Il pensiero di lui che la stringeva e la lasciava sfogare, qualche giorno prima, l'aveva colpita come una mazzata. Era quell'abbraccio che nessuno gli aveva chiesto, il suo modo di chiederle perdono, e lei non aveva voluto capire.
"Devo andare via di qua… mi sento soffocare…"

Spostarsi con la rapidità di un Santo aveva i suoi vantaggi, ma per quell'ultimo tratto del viaggio aveva deciso di prendersela comoda, per pensare con calma. Aveva noleggiato una moto, per percorrere senza fretta la Karakorum Highway, e quando la strada aveva cominciato a diventare impraticabile l'aveva affidata ad una stazione di servizio e aveva proseguito a piedi. La quiete della montagna l'aveva accolta, il freddo familiare delle nevi perenni le aveva dato il benvenuto. Kelly aveva ricominciato a respirare a fondo, tornando nei posti in cui era stata bambina, ragazzina e poi Sacerdotessa di Atena. Aveva superato il campo base, sul lato nord della montagna, badando a non farsi vedere. Aveva superato l'ultimo, sparuto villaggio, un agglomerato di casette che ricordava con i tetti coperti dall'arancione delle albicocche poste a seccare al sole, il cibo per l'inverno che spesso aveva salvato la vita anche a lei e al suo maestro. Aveva sempre creduto che non sarebbe riuscita a rimettere piede in quella catapecchia che l'aveva vista ingannata, e invece aveva scoperto che soltanto scorgerla da lontano le allargava il cuore.
Aveva posato lo zaino sul suo letto, scosso le coperte. Tornando indietro, era stata attirata da una porta socchiusa. Quella porta, che non aveva mai superato, per sei anni. Si era affacciata, restando sulla soglia anche quella volta.
Una tazza vuota era posata sul comodino, e una borsa malconcia sul pavimento.
“Non posso crederci…”
Era uscita di corsa, facendo saettare gli occhi in tutte le direzioni. Il pugno era arrivato con una forza che lei neppure immaginava possibile, facendola ricadere, dolorante, a parecchi metri di distanza.
Non l'aveva neppure sentito arrivare.

— Sono davvero colpito. Se è questo che hai imparato in sei anni, forse dovrei cambiare mestiere. — la sua voce era un capolavoro di fredda ironia.

Kelly si era rialzata, frastornata dall'impatto e quasi accecata dal sangue che le colava sugli occhi. Si sentiva come trafitta da mille aghi ghiacciati.
Aveva raccolto una manciata di neve e se l'era passata sul viso, riuscendo a mettere a fuoco una mano tesa. L'aveva afferrata senza riflettere, e un secondo dopo era stata scaraventata contro una sporgenza rocciosa. Non era riuscita a soffocare un urlo di dolore. Attraverso una fitta cortina di nebbia aveva percepito un nuovo pericolo, e raccogliendo le forze residue si era concentrata, espandendo il proprio cosmo con la forza della disperazione. Aveva bloccato appena in tempo un diretto contro il viso, quando ogni energia l'aveva abbandonata. Si era accasciata al suolo senza un lamento, le ginocchia piegate, i palmi a terra, i polsi che tremavano e minacciavano di cedere.
Sollevando la testa l'aveva visto, calzoni di cuoio, protezioni di pelliccia sulle caviglie, la solita maglietta con le maniche tagliate via, le polsiere che avevano visto tempi migliori. Il suo maestro, uscito dai suoi ricordi di dodicenne. Bello come un'apparizione, affabile come un mal di denti al terzo giorno senza antidolorifici.
E, nonostante tutto, aveva voglia di sorridergli.

— Sei penosamente fuori forma, ragazzina. Cinque giorni sono troppo pochi per quello che ho in mente per te. —

Era rimasta a guardarlo a bocca aperta, mentre non le tendeva la mano, le voltava le spalle e non la aspettava, incamminandosi verso il sentiero che partiva qualche centinaio di metri al di là della loro baracca. Quello per la vetta, dove l'ossigeno era un lusso e la polvere di Diamanti più bella e tagliente ancora.
Kelly si era alzata, la schiena a pezzi e uno strano calore alla bocca dello stomaco.

— Che diavolo sei venuto a fare qui, Camus? — Gli aveva gridato dietro, rendendosi conto un po' in ritardo che una bella valanga sarebbe stata il giusto premio alla sua imprudenza.

Sua Signorilità non si era voltato. E non aveva neanche alzato la voce. — La stessa cosa che sei venuta a fare tu. Ora cerca di non farmi perdere tempo, e forse avrai qualche speranza di non diventare becchime per Fenici. —




“Devo smetterla con le fantasie…”

Kelly scosse il capo, scostando con una mano i lunghi capelli che danzavano al vento, cercando di vincere la nausea che le provocavano le esalazioni mefitiche di quel posto infernale.

— Hai proprio ragione, Camus. Rischio di fare la fine del topo, in questa fogna a cielo aperto. Ma se il prezzo da pagare per la salvezza sarà il sangue di Dave, temo proprio che non mi rivedrai più. —

La ragazza proseguì per la sua strada, allontanandosi dalle aure dei suoi amici, fingendo di non aver percepito la presenza dell'ombra feroce che si trovava appena una decina di metri al di sopra della sua testa. Ikki di Phoenix stirò le labbra in quello che era soltanto un pallido ricordo di sorriso, uscendo dall'ombra. Furba davvero, la piccola Altair. Stava davvero cercando di distogliere la sua attenzione da quegli incapaci? Precauzione inutile. Non sarebbe stato certo lui a perdere il suo tempo con quegli idioti.
"No, mia cara, per adesso ho intenzione di dedicarmi soltanto a te…"
Sentiva che la loro sarebbe stata una partita alla pari. E non vedeva l'ora di incominciare a divertirsi.
Seguì con lo sguardo la figuretta fiera della sua prossima avversaria, un ghigno di pura perfidia stampato in volto.
"Sto arrivando, dolcezza…"

~.~


— Ti devo parlare. —

Camus riaprì gli occhi piuttosto irritato. Il suo buonumore, già seriamente compromesso dalle svariate ore trascorse nel vano tentativo di percepire ciò che stava accadendo sul monte Fuji, subì all'istante un brusco tracollo.

— Quando ti ci metti sai essere davvero opportuno, Milo… — rispose senza voltarsi, una punta d'acido nella voce.

Il Saint di Scorpio non gli badò più di tanto. Aveva messo in conto una reazione del genere. — Ti prego di scusarmi. — replicò, con un tono che dichiarava guerra. — Ma avevo bisogno di parlare con te con la massima urgenza. —

Camus l'incenerì con lo sguardo, ancora più spazientito. L'oro lucente dell'armatura dell'Acquario scintillò al sole incendiario di quella calda mattinata, nascosto a tratti dal candido mantello svolazzante al vento. Diamine, era sgattaiolato sulla cima di quel colle, al confine Est del Santuario, proprio per evitare tutte le seccature evitabili. Invece, ecco che si materializzavano tutte insieme, in compagnia della testa dura di Milo. Non era necessario il settimo senso per indovinare che rischiava di incominciare una lunga e sfiancante discussione. "La mia buona stella mi tiene sempre più compagnia…" E intanto i ragazzini sotto la sua protezione cominciavano a massacrarsi tra di loro. Si lasciò cadere su un grosso masso.

— Sono tutto orecchi… — replicò, con pesante ironia.

Milo lo scrutò a disagio. All'improvviso si sentiva inopportuno e invadente. Ma se il suo amico si era cacciato nel guai non poteva far finta di non accorgersene. Tanto più che non lo avrebbe mai ammesso apertamente.

— Se t'interessa saperlo, ero preoccupato per te. Sei sparito una settimana fa, sei tornato e ripartito all'alba, subito dopo un'udienza con il Gran Sacerdote. Nessuno sapeva dov'eri. Si può sapere che fine hai fatto? —

Camus scrollò le spalle con aria noncurante, liberando le braccia dal mantello. — È per questo che mi hai rincorso per tutto il Santuario? Stai diventando una suocera, Milo. Direi che è ora di trovarti una ragazza. —

Per quanto indispettito da quella sufficienza, il suo amico non poté evitare di sorridere — Non ti conviene aprire questo discorso, e lo sai. Almeno io so ancora com'è fatta una donna… —

— Veramente io speravo in una poveretta capace di sopportarti mezza giornata con i vestiti addosso… — puntualizzò Camus, divertito malgrado tutto. Non era mai stato capace di restare irritato con lui per più di cinque minuti.

Milo sedette al suo fianco. — Come si dice nella tua lingua? Touché… — si passò una mano tra i capelli, incontrando il diadema dell'armatura. Se lo tolse con una smorfia. — Camus, non hai nulla da temere da me. Spero tu lo sappia. —

— Lo so, infatti. — replicò Aquarius, sulla difensiva. — Perché me lo stai ricordando? —

Trenta gradi, come minimo. E quaranta libbre d'oro massiccio addosso. Non era la situazione ideale per discutere; Milo cominciava a pentirsi di aver intavolato quell'argomento. Di fronte alla tranquillità del suo amico cominciava anche lui a trovare i propri timori piuttosto infondati. Dopotutto Camus era adulto e perfettamente in grado di badare a se stesso. Oltre che piuttosto sensibile alle invasioni del suo territorio.

— Sembra che tu stia cercando di nascondermi qualcosa… — riprese, senza grande convinzione.

Camus divenne il ritratto della compassione — Sei paranoico, lo sai? La sera in cui sono andato via avrei voluto avvisarti, ma sapevo che… ehm, avevi ospiti. Sono stato in Siberia. —

— In Siberia. — ripeté l'altro perplesso, rabbrividendo al solo pensiero. Non aveva mai tollerato le temperature inferiori ai venti gradi.

— Il Sacerdote mi ha chiesto di recare una convocazione ufficiale al Silver Saint della Corona Boreale. Pare che gli emissari che ha inviato non siano riusciti a trovarlo. Vive in un posto piuttosto fuori mano, lo sai. E quelle nullità di cui Arles si serve come messaggeri diventano ghiaccioli assai prima di arrivarci. — gli spiegò l'amico.

Milo incrociò le braccia nervosamente. "Le nullità di cui si serve Arles, già." Si chiedeva sempre più spesso, ormai, come avesse fatto il loro Santuario a diventare un luogo frequentato da personaggi senza alcuna qualità. Come quel Primo Ministro Gigars, ad esempio, spuntato da chissà dove per impartire ordini a destra e a manca.
Sorrise spontaneamente. Ricordava ogni particolare della gustosa scenetta che si era goduto tempo prima, al ritorno 'ufficiale' di Camus al Santuario dopo più di sei anni. Chiunque al Grande Tempio, tranne quel povero sciocco, sapeva che l'Acquario non era esattamente un prodigio di tolleranza, soprattutto di fronte alla maleducazione berciante. C'erano volute diverse ore perché la boccaccia del nanerottolo si liberasse dalla morsa del ghiaccio.
Camus nel frattempo lo sbirciava, incredulo di essersela cavata con così poca fatica. Ma, dopotutto, la sua non era una vera menzogna. Era andato davvero a trovare Crystal Saint, come chiamavano adesso il suo primo allievo, ma ciò che né Milo né Saga potevano sapere era che la visita era durata soltanto il tempo di un tè bollente. Voleva approfittare di quella scappatoia per passare un paio di giorni nell'unico posto in cui pensava di poter trovare tranquillità. Per scoprire che, in fondo, la sua idea non era poi così originale.

"Impara a non sottovalutare i segni, Camus di Aquarius. Potrebbe tornarti più utile di quanto pensi…" la voce di Shion, così come le sue parole, pronunciate pochi giorni prima di morire, lo avevano accompagnato in quegli anni difficili. Come la mano che proprio allora si posò sulla sua spalla.
Milo lo stava guardando con un sorriso colpevole. "Non sei tu quello che dovrebbe scusarsi…"

— Ti va un salto ad Atene, stasera? — propose Scorpio, con aria complice.

Atene. Una proposta interessante. Nel loro personalissimo codice, significava carne alla brace, cicchetti di ouzo con Lario Papadopoulos e biscotti al finocchio di sua moglie Ippolita. Da quanto tempo mancava? — Non hai nessuna sulla tua agenda da importunare oggi? — s'informò, già certo della risposta.

Milo sogghignò. Si erano capiti perfettamente. — Oggi preferisco importunare te. — Si alzò, scuotendo via la polvere dal mantello. — Ti lascio ai tuoi profondi pensieri, Signore dei Ghiacci. —

Camus stette al gioco, salutandolo con un regale cenno del capo. Chiuse gli occhi, un po' più sereno, gettando indietro la testa per sentire meglio il vento sul viso. Si concentrò ancora una volta, tentando di capire almeno se la battaglia era incominciata. Prese a badilate in testa l'insana idea di andare a verificare di persona. "Non sei la sua balia…"
Inspirò profondamente, permettendo al suo cosmo di espandersi fin quasi al suo limite. Lo sentì fluire fuori di sé, espandersi verso est, attraversare deserti e montagne. "Dove siete, ragazzini?"
In quel momento lo sentì, come una scarica elettrica. Direttamente al suo cervello, che non era più lì, non era più lui. Paura, rabbia, rammarico e dolore che si arrendevano, spegnevano, dentro un corpo che non era il suo. Scattò in piedi, ma sapeva che era già troppo tardi. Per un attimo eterno restò immobile, senza riuscire ad articolare un solo pensiero, mentre il terrore si diffondeva a ondate lungo tutto il corpo, seguendo il ritmo impazzito del cuore.
Poi, fu come se tutto si fermasse per sempre.

— Non… è… possibile… non… — biascicò, Camus dell'Acquario, le ginocchia che cedevano sotto il peso di quelle sensazioni estranee. Ma non se ne accorse neppure.

Nello stesso momento, sul monte Fuji, una delle spie incaricate di pedinare Ikki di Phoenix partiva di gran carriera per il Santuario, portando ottime notizie per il Gran Sacerdote.
La prima dei cinque traditori era caduta in combattimento.





~.~


Angolo della vergogna ™

Caspita, ieri è stato il compleanno del francese di carta. Nonostante l'apparenza, anche io gli voglio un po' di bene, poveretto. Ha ricevuto un sacco di regali, di sicuro, ma credo nessuno peggiore di questo. Auguri, Camus, e sorridi. Col prossimo capitolo sarai ancora più nei guai.^^
Aggiungo solo un saluto a tutti, a chi ha recensito, a chi magari lo farà in futuro, a chi legge ma non si esprime. I pareri fanno piacere, ma la regina dei sederi piombati sa che a volte penna pesa anche ai più valorosi. A voi, quindi, e se io,il francese di carta e il corteo dell'Eirienverse vi annoiamo... credete, non lo facciamo apposta. :P
P.S. Anche se ha ritenuto opportuno prendersi una pausa da mondo delle fyccine, sappiate che la correttrice di bozze è sempre la stessa, la cara Philos. Con tutto il mio affettto... continuate pure a prendervela con lei :)

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Capitolo 8
*** Track #07: Something To Believe In ***


Track #07: Something To Believe In TRACK # 07

SOMETHING TO BELIEVE IN

I lost all faith in my God,
in his religion too
I told the angels
they could sing their songs to someone new
I lost all trust in my friends
I watched my heart turn to stone
I thought that I was left to walk this wicked world alone…

(Bon Jovi)



— Avevi chiesto di noi, Capo? —

Martin Rothstein sollevò la testa dal fascicolo che stava leggendo. Tempi moderni, quelli, e quindi era diventato d'obbligo, per il loro dipartimento, dannarsi occhi e pazienza su un maledetto palmare ultimo grido con l'equivoco hobby di riavviarsi giusto al momento di salvare le annotazioni. Colse al volo l'occasione per mettere da parte l'oggetto spiritato, soffocando una bestemmia poco edificante e ripromettendosi di farlo ingoiare al responsabile della logistica quanto prima.

— Siete soli? —

Alex si guardò alle spalle, teatrale e provocatorio. — L'unica cosa che vedo qui, oltre a me, sono le chiappe di McArthur — ghignò, guadagnandosi una gomitata nelle costole, precisa e letale. Seguì la sua collega all'interno dell'ufficio, chiudendo la porta con attenzione. "Ma quanto siamo irritabili, ragazza mia…"

Katie lanciò un'occhiata preoccupata a Martin, che in quel momento era scomparso sotto la poltrona girevole che occupava. Stava armeggiando sotto la seduta, e la ragazza lo osservò, con curiosità e una certa apprensione, estrarre un lungo strumento a forma di antenna.

— Non mi dirai che ci eri seduto so… — Una mano fulminea tappò la bocca ad Alex, mentre l'aggeggio veniva fatto scorrere lungo tutto, ma proprio tutto, il suo perimetro. — Mollami, pervertito, o ti… — tentò di ringhiare il ragazzo, afferrando la mano. Si ritrovò in fretta sul pavimento, con il fiato bloccato da un cazzotto alla bocca dello stomaco.

Martin puntò l'affare verso Katie, che si limitò ad un lungo, inquietante sguardo di avvertimento. L'uomo esaminò anche lei con rapida efficienza, quindi ripose l'arma dove l'aveva trovata. Lui e Alex emersero al di sopra della scrivania nello stesso, preciso istante, il largo sorriso del padrone di casa che fronteggiava beffardo l'espressione funerea del suo ospite.

— Bene — concluse Martin —adesso possiamo parlare. —

— Quell'… attrezzo, da dove diavolo viene? — li interruppe la ragazza, con l'aria di immaginare già la risposta.

Martin si rilassò sulla poltrona, un sorriso ancora più vistoso sul volto. — Quello, ragazzi miei, è il più avanzato sistema di rilevamento di microspie che sia mai stato concepito da mente umana. Purché non ne abbiate mangiata una, su di voi non c'è l'ombra di una cimice. —

— Non sottovalutarti, capo. Credo che l'avresti trovata anche se ce l'avessi avuta nell'intestino — sibilò Alex, massaggiandosi in punto il cui era stato colpito. — E comunque avresti potuto avvertirci. —

— Ecco perché non sei tu a dare gli ordini, bamboccio. Non si sbraita come ossessi prima di scoprire se si è sorvegliati. E comunque quella tua paura del contatto maschile si chiama omofobia, Alex. Al tuo posto rifletterei sul tuo atteggiamento di rifiuto… — con la coda dell'occhio, ed estremo divertimento, vide il suo giovane amico gonfiarsi come un tacchino, pronto a rispondere qualcosa di davvero feroce.

—Oh, per l'amor del Cielo! — Sbottò Katie, attirando l'attenzione si di sé —Vuoi spiegarci che ci facciamo qui, se non è di troppo disturbo? Prima che Wood ci sorprenda, possibilmente. —

— D'accordo — acconsentì il loro capo, di nuovo serio, come se non si fosse appena comportato come un ragazzino pestifero. —Max? —

— Abbiamo aspettato che fosse piazzato davanti al "David Lettermann Show", come ci avevi ordinato. Non ha nessuna intenzione di muoversi per la prossima ora. Anzi, mezz'ora, ormai — puntualizzò la ragazza, con poca cordialità.

— Bene. — Martin aprì un cassetto, traendone fuori due tesserini di riconoscimento nuovi di zecca. — Questi sono per voi. Benvenuti a bordo, di nuovo. Voglio che, da questo momento in poi, stiate alle costole del crucco come se si trattasse dell'amore della vostra vita. E tu falla finita, Alex, è troppo facile provocarti.—

Il ragazzo, il cui colorito era divenuto verdastro, sembrava davvero sul punto di vomitare. Katie gli dedicò una breve occhiata, quindi decise di ignorarlo. —E lo scopo di tutta questa manovra? —

— Si tratta di qualcosa che mi ha detto Jack Allen. A proposito dell'inchiesta, sapete. —

Alex tornò in salute con una rapidità sorprendente. —Che cosa? Di che inchiesta stai…? —

Martin sorrise, scambiando un'occhiata con Katie, che era rimasta in silenzio, in paziente attesa del seguito. — Non dovremmo saperne nulla, in via ufficiale. Ma Jack è stato così buono da informarmi che sta conducendo un'indagine su di me. Sapete, riguardo alla scomparsa dei vostri commilitoni. E sembra anche che le prove indiziarie… come dire… quasi spuntino come funghi. —

— Quindi, ora temi che il fabbricante di prove passi alla fase due, diciamo. —

Martin doveva ammetterlo: quella ragazza, e soprattutto il suo cervello, promettevano di diventare il suo orgoglio. E quanto bene poteva farle proseguire l'addestramento… — Esatto, McArthur. Se l'intenzione dietro tutta la montatura è screditarmi, e insabbiare la faccenda del rapimento, dopo aver accidentalmente fatto cadere le prove sotto il naso della Disciplinare… —

— Dovrà eliminare tutti gli elementi a favore della tua… della nostra tesi. — concluse Alex, senza allegria.

Martin prese a fissarlo con rinnovato rispetto. "Sta' a vedere che Casanova in erba non pensa unicamente alle sottane…" — Già. Non c'è bisogno che vi ricordi che il più importante di questi è la testimonianza di Max su quella notte, vero? —

— Oh, no, certo che no. Ed è per questo motivo che non ti hanno ancora arrestato? Per merito di Allen? —

— Sì… — annuì l'uomo, incoraggiante. — Va' avanti… —

—Beh, prima di tutto io e Katie dovremmo spiegare meglio a Jack cosa intendiamo per "farci un favore"… — ghignò il ragazzo, guadagnandosi un fulmineo scappellotto dietro la nuca. — Ed è per questo che hai voluto vederci senza di lui? Temi che Max non accetti di nascondersi dietro i suoi compagni? —

— Diciamo che è meglio che il suo tenero cuoricino non sappia che vi state esponendo ad un pericolo per causa sua. Ulteriori scenate, come quella dell'altra sera, sarebbero controproducenti. Ma ciò non toglie che io sia del tutto d'accordo con il vecchio Jack. Il nostro amato crucco è in pericolo, ed io vorrei evitare che Christine mi metta le mani attorno al collo, quando l'avremo ritrovata. —

~.~


A volte il cosiddetto Cosmo Ultimo poteva rivelarsi una maledizione. Settimo Senso, lo chiamavano. Un potere che soltanto pochissimi eletti padroneggiavano. Attingere all'essenza stessa della vita, al caos primordiale che era alla fonte di ogni forza. Coloro che erano capaci di sfruttarla appieno erano guerrieri la cui capacità in battaglia non conosceva limiti, perché nei loro fragili corpi di uomini albergava il ricordo dell'esplosione che aveva dato vita all'universo.
Ma non si trattava soltanto di questo. Come per ogni altra cosa, anche per quel potere esisteva un rovescio della medaglia. E il giovane Gold Saint piegato su se stesso su quel piccolo altipiano spazzato dal vento lo sapeva da tempo. Il controllo del Cosmo era anche la possibilità di percepire l'energia vitale di un altro, come fosse la propria.
E sentire nella propria carne, sotto la pelle, quando si spegneva.
Avrebbe voluto urlare. Sì, urlare, e al diavolo la prudenza, le precauzioni e tutti i maledetti segreti che era suo dovere custodire. Ma le corde vocali non rispondevano. Ogni singolo muscolo del suo corpo sembra paralizzato. Sentiva il cuore pulsare, un suono estraneo, come l'ansimare sommesso che giungeva alle sue orecchie sfiorandole appena nel silenzio. Si rese conto a malapena che si trattava del suo. E, soprattutto, si dava dell'imbecille per averle dato ascolto, per non aver capito.
Perché, forse, lei sapeva già come sarebbe andata a finire.


— Camus, la faresti una cosa per me? —

Eccola alla carica. Qualcosa che non era cambiato, in qualunque modo la chiamasse ora e da quali ricordi lei avesse ricominciato. Quell'aria da santarellina sapeva di fasullo lontano un miglio. Aveva sempre avuto quel modo di fare, ogni volta che stava per dire qualcosa che lui non avrebbe mandato giù volentieri.
"Ma una volta mi avresti confessato di aver barato sugli esercizi…"
Bei tempi, quelli, ed erano finiti. Si era voltato lentamente, cercando i suoi occhi, e Kelly aveva sostenuto il suo sguardo. Cattivo segno, anche quello.

— Domani, quando ce ne andremo di qui… resta al Santuario. — aveva continuato lei, sorseggiando con calma il suo infuso di erbe.

Era stata l'unica parentesi di tranquillità che le aveva concesso in quella settimana di allenamenti sfiancanti cui l'aveva sottoposta, ma ne era valsa la pena. La ragazzina poteva davvero diventare più veloce, e più abile. Doveva diventarlo, senza possibilità d'errore, superare i limiti, trascenderne sempre di nuovi. Alla resa dei conti, il suo cosmo d'Argento non sarebbe bastato, né sarebbero bastati quelli dei suoi amici. E lui invece, desiderava follemente che fosse soltanto Saga a pregare.
Non aveva mostrato segni di nervosismo, seduto a terra su quel tappeto di lana che sapeva ancora di selvatico, lo stesso delle loro improvvisate lezioni di letteratura. Non si era innervosito,no, anche se aveva compreso immediatamente dove quell'ineffabile fanciulla sarebbe andata a parare. Si era limitato a posare la sua tazza sul pavimento, propria accanto a quella di Kelly.

— Non ti frullerà per la testa l'idea che verrei ad aiutarti, spero… —

Lei aveva accennato un sorriso timido, lo sguardo perso tra le fiamme del caminetto e le ginocchia raccolte, come faceva sempre quando tentava di dominare l'ansia.

— Oh, certo che no. — Aveva preso la tazza, ma senza portarla alle labbra. — Sarebbe come riconoscere che hai fatto un pessimo lavoro. Ma non avevi forse in mente di ficcare il naso con discrezione? —

Ora si sentiva nudo, dannazione. "Te ne sei accorta? Sono così trasparente?"

— Dovresti rimetterti la maschera — le aveva fatto notare, atono, sapendo già di combattere una battaglia persa. Non avrebbero mai potuto tornare indietro, neanche se l'avessero tentato. Tutto era cambiato da quando lei l'aveva gettata via in sua presenza: i muri di menzogne erano caduti e non sarebbe stato un po' d'argento a rimetterli in piedi. Ma guardarla in viso gli rendeva sempre più difficile fingere un distacco che da tempo immemore non gli apparteneva più. E, forse, era soltanto ai suoi occhi che non riusciva più a nascondersi. Oppure, non ci metteva più il giusto impegno.

Kelly aveva preso un lungo sorso dalla sua tazza. La maschera, già.
"Altair ci credeva, Camus, la portava con orgoglio. O forse lo faceva soltanto per te, perché tutto quello che ti usciva di bocca era assolutamente buono e giusto."

— Bel tentativo di cambiare discorso… — si era limitata a borbottare, stupita dal desiderio furioso che stava provando. Una voglia quasi irrefrenabile di strappargli la sua, di maschera, e scoprire una buona volta cosa provasse davvero. — E comunque dovresti smetterla di trattarmi come una bambina. —

"Non c'è bisogno che tu lo ripeta tutti i giorni…" Lo sapeva, che non lo era più, certo che lo sapeva. Era impossibile non accorgersene, quando si viveva per anni con una novizia adolescente il cui bustino ti raccontava tutte le mattine quanto le sue grazie stessero diventando adulte.

— Proprio perché non lo sei, non dovrei neppure ricordarti i tuoi doveri — l'aveva rimbrottata, già convinto che non l'avrebbe spuntata neppure armato di una robusta stalattite.

— Maestro… — lei gli aveva sfiorato un braccio, sistemandosi meglio sul tappeto.
"Davvero vorresti che mi nascondessi ancora? Anche da te?" — Credimi, non tenterò di ucciderti… o di incastrarti. —

Lui l'aveva guardata molto, molto male.
"Riuscirò mai a farla star seria per cinque stramaledetti minuti?"

— E comunque non mi hai ancora risposto. — aveva rincarato lei, dall'orlo di una tazza che spandeva tutt'attorno il suo aroma di tè di montagna, aspro e aromatico.

"E tu non molli mai la presa?" — Mi hai preso per tua madre, ragazzina? — aveva risposto, con il tono più freddo che era riuscito a trovare.

— Camus, ti prego — lei sembrava ad un passo dalla supplica, o da una sfuriata. Non l'aveva bevuta, proprio no. — Dì quello che ti pare, ma dammi ascolto, per una volta. So come la pensi, che mi ritieni troppo coinvolta, e che rischio di diventare "becchime per Fenici", ma ormai non ha più importanza. — Il suo sguardo si era incupito — Dave, mio fratello, i miei amici… La battaglia che combatteremo domani… posso soltanto affrontarla a modo mio. —

"Ora sì che sono convinto. Che se fossi sano di mente dovrei legarti ad una sedia e impedirti di andare. Ma è troppo tardi per questi sistemi, ormai."

— E so anche che hai capito. Lo devo a lui, il mio amico Dave. O almeno a quanto ne resta… —



Camus aveva appena scoperto qualcosa di interessante. Il problema non era tirarsi su. Il vero problema era restare in piedi. Il mondo danzava follemente attorno a lui. "Tra poco darò di stomaco… le mie viscere ballano e la mia colazione ha voglia di rivedere la luce del sole." Un pensiero che lo faceva assurdamente sorridere. Ma del suo sorriso più amaro. "Non ci devo pensare, non ora. Non finché c'è ancora qualcosa da fare."

~.~


Non credeva sarebbe stato così facile portare a termine il suo lavoro. Eppure era lì, in piedi, ad osservare senza potersene staccare il corpo della sua prima avversaria, fredda e rigida, gli occhi ancora sbarrati dall'orrore del suo Genmaken. Il colpo che il Sacerdote gli aveva regalato in cambio della promessa di portargli le teste degli altri Buffoni di Bronzo stava fruttando bene. Ma, con u certo stupore, si rendeva conto di non trarne il perverso piacere che aveva immaginato. Per la prima volta dal giorno della sua investitura Ikki di Phoenix non riusciva a dare senso ad un dubbio, e sapeva quanto il dubbio potesse essere fatale per qualcuno come lui. La perdita del controllo… non poteva più permettere che accadesse. Nulla, aveva giurato quel giorno maledetto, più nulla avrebbe turbato il suo spirito. Sapeva, doveva continuare a credere che nulla l'avrebbe fermato prima di raggiungere il suo scopo. Si voltò con un gesto brusco, serrando i pugni. "Povera piccola Altair, mi hai quasi commosso. Riposa in pace ora, te lo sei meritato… anche se non hai ottenuto la vittoria che speravi. Perché ora farò polpette anche di coloro per cui ti sei sacrificata." Eppure non riusciva ad allontanarsi. "Un assurdo senso di rispetto", pensò. "Da quando sono così sentimentale?" Non aveva tempo né voglia di fermarsi a pensare. "Ho altro da fare che rimanere qua a cantare l'elogio funebre di questa sciocca." E intanto l'aveva già presa in braccio, mettendola al riparo in una piccola grotta. Per quanto si ripetesse che se la potevano pure mangiare gli avvoltoi non era riuscito ad abbandonarla lì. "Non è la prima che ho visto crepare…"


Le era arrivato alle spalle senza curarsi del rumore che faceva, assecondando il suo ridicolo desiderio di allontanarlo dal campo di battaglia. Non aveva senso tentare di sorprenderla. Non aveva dubitato neanche per un attimo che lei sapesse perfettamente dove fosse.

— Non saresti dovuta venire qui, marmocchia. A meno che tu non abbia cambiato idea sul nostro piccolo confronto. —

— Tu, chiami me marmocchia? Quanti anni credi di avere? Te lo ricordi, almeno? — stava ridacchiando, ne era sicuro. Poi si era voltata. Ikki era sicuro che sotto quella maschera aleggiasse un insopportabile sorrisetto di scherno.

Kelly lo stava fissando con sicurezza. Non appena si erano incontrati i dubbi e la paura si erano volatilizzati, scomparsi come ombre notturne dalla sua mente.
"Io lo so, quando sei nato. Conosco i tuoi incubi, e i tuoi sogni. So tutto della tua vita, perché l'abbiamo vissuta insieme. Siamo una famiglia, Dave. Ed io non ti abbandonerò proprio ora."
Ikki era rimasto ad osservarla, curioso di capire se intendesse giocare la parte dell'assassina o dell'agnello sacrificale. Una cosa era certa, nella sua mente non riusciva a leggere. Altair della Gru era capace di respingere i suoi attacchi mentali. Possedeva un potere ampio e pericoloso, se n'era già reso conto anche se quella demente rifiutava di usarlo contro di lui. Un contrattempo seccante, che lo innervosiva, come tutto ciò che non riusciva a dominare. Voleva affrontarla. Fremeva dal desiderio di misurare le proprie forze con le sue. E non solo per riconfermare a se stesso una supremazia su tutto e tutti che da tempo era il suo unico credo. Voleva anche scoprire perché non aveva paura di lui. Un atteggiamento inconcepibile. Quella ragazzina, ne era convinto, sapeva che lui possedeva forza sufficiente per distruggerla, ma pareva convinta che alla resa dei conti non ne avrebbe avuto il coraggio.
"Quanto ti sbagli, piccola illusa. Tu non mi conosci affatto. Io sono capace di tutto. E te ne accorgerai a tue spese."

— Oh, la piccola Altair ha la risposta pronta. Peccato che non ti servirà a vincere. Sei pronta alla lotta? —

— Non sono qui per darti una soddisfazione, Ikki. Se sei sveglio dovresti essertene accorto. — aveva replicato lei, tagliente.

— Quello che non vuoi lo so, Saint della Gru. — il ghigno del suo presunto amico aveva qualcosa di demoniaco. — Quello che non mi è chiaro è cos'è che vuoi. —

"Farti rinsavire, Dave. Ma non credo che al momento tu sia molto interessato." — intanto qualche risposta, Saint di Phoenix —aveva ritorto lei, con lo stesso sarcasmo. — Non credo che tu sia qui per rapinare i nostri odiati benefattori. A cosa stai puntando davvero? — "E risparmiami la frottola sulla conquista del mondo, non ci crederebbe neanche tuo fratello."

Ikki aveva preso a girarle attorno. Si stava stancando rapidamente di quella schermaglia. — Sei davvero così illusa, Altair? Pensi che vincerai recitando la parte dell'amica solerte? Ti sembro il tipo che si lascia piantare un coltello fra le costole? — La ragazza era perfettamente in grado di tenere d'occhio i suoi movimenti.
"D'accordo, bellezza. Niente giochetti con te."

— E tu credi davvero che il furto di quell'armatura ti frutterà qualcosa? A meno che tu non la fonda e ti rivenda la materia prima… — Pareva piuttosto divertita dalla trovata, quella puttanella. Ancora un po' e gli avrebbe proposto di dividere gli utili.

Al pensiero Ikki era scoppiato a ridere. Una di quelle risate senza gioia che davano i brividi a lui innanzitutto. — Per lo meno lo spirito non ti manca… —

Un attimo. Si era avventato sulla preda con una rapidità degna di uno rapace. Il soffio infuocato della Fenice si era alzato in volo verso Altair della Gru, incenerendo qualunque cosa al suo passaggio, scavando una voragine là dove avrebbe dovuto trovarsi la sua avversaria. Ma il sorriso soddisfatto di Ikki si era spento rapidamente non appena il fumo si era diradato.
"Dove sei, maledetta?"

— Dietro di te… —

Eccola lì. Neppure un graffio sulla pelle, nessuna crepa nell'armatura candida.
"Quello che dicevano dei Santi d'Argento era vero, allora." Una maschera sul volto… "Non hai paura, Altair? Non senti il puzzo di morte che mi porto addosso? Cos'è che credi di vedere in me? Non c'è niente, più niente!"
Il secondo attacco si era infranto contro una barriera invisibile.
"Ora ho capito… sei in grado di creare uno scudo di energia… ma cos'è questo freddo… ghiaccio… un muro di ghiaccio…" Ikki aveva ritirato lentamente il pugno gelato, osservandolo con genuino interesse. "E così, anche tu governi le energie fredde. Ma ti abbatterò, puoi giurarci."

— Sei veloce, ragazzina, ma non attacchi. — aveva ringhiato, portando un'altra serie di attacchi ravvicinati. Feroci, carichi di cattiveria.
"Devo distruggerla, prima che distrugga me." La barriera di ghiaccio si era liquefatta ai suoi piedi, quindi era scattato ancora. Il desiderio di uccidere stava prendendo il sopravvento. Ancora colpi su colpi, con una rabbia che aveva provato soltanto poche volte nella vita.

— Hai paura di farti male? — l'aveva schernita, ancora. Altair aveva parati tutti i suoi colpi, muovendosi con una agilità che l'aveva sorpreso.

"Tu non stai cercando di battermi, Dave. Tu vuoi che io…" — Dovresti essere tu, ad averne. O forse… non ti dispiacerebbe? — "Non mi presterò al tuo gioco. Perché ora più che mai ho bisogno di sapere."

Ikki ormai era furibondo.
"Cosa vuoi saperne, tu? Nessuno si preoccupa per me. Nessuno deve preoccuparsi per me."

— Va' all'inferno, maledetta! — aveva urlato, scagliando il suo colpo con una forza che non credeva neanche di possedere.

La ragazza aveva sollevato entrambe le mani nel tentativo di arginare quella mostruosa esplosione di energia. Il contraccolpo era stato tremendo, ma quando le fiamme si erano dissipate era ancora lì, immobile, il capo chino, i palmi ustionati dal calore. Non aveva fatto in tempo a proteggersi con il suo ghiaccio, non quella volta. Ma non era stato l'impeto dell'attacco a sopraffarla, quanto la sua furia.
"Sei davvero un mostro, ora?"

Ikki si era bloccato, guatando la sua preda con un sguardo intriso d'odio. Poi, un ghigno perfido e divertito gli si era disegnato sul volto — Oh, la piccola sacerdotessa ha perso la maschera. Temo che ora sarai costretta a sbattermi al muro per il tuo onore… —

"Cos'è, una fissazione?" Il suo caro maestro, Dave, il mondo intero, a quanto pareva. La regola, certo. Ucciderlo, oppure… Senza la fede che l'aveva abbandonata il giorno in cui era tornata se stessa, non riusciva più a vederla se non come l'astuto piano di un qualche antico Sacerdote profondamente misogino. E poi... "Non scherziamo, per favore. Sarebbe come farmela con mio fratello."
La realtà era sempre molto più complicata. Aveva gettato un'occhiata vacua a quel simulacro pieno di crepe, che da solo non poteva indicarle la via da percorrere, quindi aveva fissato il suo avversario, con la fierezza che anni di apprendistato con Camus dell'Acquario le avevano insegnato.

— Lasciamo perdere le formalità, Ikki… —
"Devo sapere cosa gli hanno fatto. Solo questo importa."

Phoenix era rimasto ad osservarla, per un momento a corto di parole. Ora che la vedeva, sentiva che non l'avrebbe mai immaginata diversa. Quei lineamenti erano familiari, in un modo strano e rassicurante. Per un attimo, si sentì come se avesse corso a perdifiato. A undici anni, con un'amica dalla treccia bionda, per nascondersi da un istruttore troppo severo. E dopo aveva diviso con lei una birra doppio malto, che li aveva fatti tossire come pazzi e tornare indietro brilli. E tornando con i piedi per terra, fu come se l'avessero colpito ancora. Perché l'ultima volta che non aveva corso da solo, un'altra ragazzina innocente era morta in un campo di fiori, e lui aveva perso l'anima.
E quando era caduto in ginocchio?

Altair si era precipitata su di lui.
"È tutta colpa tua…" — Che ti prende, Ikki? — Lo stava scuotendo per le spalle, freneticamente, come se le importasse davvero. Per un istante la mente del Saint della Fenice era stata soverchiata dal dolore, da ricordi senza senso. Rosso. Sangue. "Ne sono coperto. Non puoi ripulirmi. Stammi lontano."

— Non toccarmi… — aveva ringhiato, feroce. Kelly aveva reagito con un brusco sobbalzo e in silenzio era rimasta immobile, a subire il bruciante rimprovero di quello sguardo. Ma non aveva potuto evitare di continuare a fissarlo, occhi limpidi e puliti, che scandagliavano in profondità. Troppo in profondità perché lui potesse sopportarlo, ma prima che riuscisse ad allontanarsi, la ragazza lo aveva bloccato, posando le mani sulle sue tempie.
"Perdonami, Dave, ma ho bisogno di capire…"
E aveva visto. In un lampo carico di immagini aveva visto l'Isola di Death Queen, il suo maestro Guilty e sua figlia Esmeralda, aveva sentito il calore insopportabile del sole a picco e la puzza di zolfo. Aveva provato freddo nei sotterranei umidi e mille volte voglia di morire dal dolore.
"Mio Dio, questa è l'anticamera dell'inferno…" Era stata presente il giorno dell'investitura. Il giorno in cui Ikki era diventato Saint di Phoenix di fronte al cadavere ancora caldo dell'assassino senza rimorsi che lo aveva privato dell'umanità.
Aveva alzato due occhi colmi di lacrime sul viso del suo amico, dimentica di tutto.
Ma tutto ciò che Kelly aveva trovato erano state due pupille vuote. Vuote di qualunque espressione, di calore, di sentimenti. E allora aveva provato davvero paura. Di lui, e di ciò che era diventato, di non rivedere mai più il suo amico dietro quel ghigno da demonio. E il malvagio Saint di Phoenix aveva fiutato il suo terrore, l'aveva assaporato, con l'avidità di chi non ne è mai sazio. Aveva serrato il pugno e colpito con l'arma più crudele che possedeva. Perché tutto ciò che stava desiderando era distruggere, dilaniare quella mente che aveva osato ficcare il naso nei suoi ricordi peggiori.

— PHOENIX GENMAKEN! —aveva fatto in tempo a percepire la sorpresa della sua avversaria e il vano tentativo di fermarlo. L'aveva vista irrigidirsi, le pupille rovesciate e vitree. Con un sorriso. Era quasi riuscito a sentirla, la sua anima, gridare e torcersi nel tentativo di combattere gli incubi che le avevano affollato la mente, che ben presto l'avrebbero resa nulla più di una misera larva priva di qualunque parvenza umana. Eppure, benché ridotta allo stremo, ancora gli stava impedendo di entrare nella sua mente. Aveva steso il braccio per finirla, inviperito.
"Non crepi mai, maledetta?"

— Ma che diavolo… —

Con uno sforzo sovrumano la ragazza gli aveva afferrato il pugno, bloccando il colpo. — Fosse l'ultima cosa che faccio… — aveva ansimato, posandogli l'altra sulla fronte. Ikki non era riuscito ad opporsi. Il cosmo del Saint della Gru aveva incominciato ad avvolgerli entrambi, limpido e freddo, impedendogli ogni movimento, sfruttando la falla nelle sue difese che le aveva permesso di spiare i suoi ricordi. Un lungo brivido gli aveva attraversato la spina dorsale.

"C'è altro, dentro di te". La sua voce… la sua voce nella testa. "Dave. David Ruser. Ricorda questo nome e un giorno ricorderai chi sei. Ritroverai te stesso…"

Ikki era stato preso dal panico. Aveva reagito con un violento strattone, liberandosi della sua mano. Aveva pensato di colpirla per liberarsi di quella strana malìa, ma… ormai non ne aveva più bisogno. Altair della Gru era scivolata a terra senza emettere alcun suono, le braccia aperte, gli occhi vacui, il pallore della morte sul volto. Phoenix si era alzato, un dolore sordo che gli pulsava tra le tempie. Per un istante il suo viso si era incupito ancora di più. Ormai ne era certo. Se solo avesse voluto…
"Perché non hai combattuto?" Avrebbe vinto lei… Se solo l'avesse voluto.


Ikki si scosse a fatica, tornando al presente con un doloroso sforzo di volontà. — Dannata Altair! — ruggì ancora, allontanandosi a lunghi passi. "Ti farò vedere, maledetta. Li massacrerò tutti. Ti mostrerò che non c'è nulla al mondo che valga un simile sacrificio…" Qualcosa gli cadde ai piedi, come piovuto dal cielo. Aggrottò le sopracciglia, chinandosi a raccoglierlo. Il cigno di bronzo che ornava il diadema di Black Swan. Impiegò appena un secondo a capire cosa doveva essere accaduto al suo accolito, e il motivo di quell'ultimo regalo. Sorrise con cattiveria, rimirando l'oggetto sul palmo della mano. "Sei contenta, Altair? Comincerò dal tuo adorato fratellino…"

~.~


Il fragore del colpo che aveva sferrato non si era ancora dissolto. Ikki di Phoenix ritirò lentamente il braccio insanguinato dal pettorale dell'armatura di Cygnus, il dolore dell'assideramento che cominciava a farsi strada nel groviglio confuso della sue sensazioni. Ciò che restava di Hyoga ricadde all'indietro. Strano, molto strano, non era da lui farsi sorprendere con tanta facilità. Eppure non era riuscito ad impedire che il suo avversario tentasse di portarsi all'inferno uno dei suoi arti, come un grazioso souvenir. Il braccio gli faceva così male che a stento riusciva a trattenersi dall'urlare. "Sai mammone, forse mi hai davvero fatto un po' male... non ci avrei scommesso."
Quel combattimento non era stato granché divertente, né aveva solleticato la sua vanità. C'era forse da vantarsi di aver battuto un fastidioso pappamolle con l'equivoco hobby della necrofilia sottozero? "Pezzo di rammollito…" Però la sua tecnica era piuttosto buona. Somigliava a quella del Saint della Gru. Se le informazioni di Black Swan non lo avessero aiutato, forse sarebbe riuscito a impegnarlo sul serio. "Con sua sorella mi sono divertito di più, comunque." Si affrettò a cancellare quel pensiero. Altair lo irritava persino da morta.

"Un giorno ricorderai chi sei. Ritroverai te stesso…"

Che accidente le era saltato in testa? Di che diavolo parlava? Delirava, non c'era dubbio. Chissà per chi lo aveva scambiato. Eppure… Inutile negarlo a se stesso. Quella frase l'aveva inquietato, e quasi rimpiangeva di averla uccisa. Si era portata nella tomba tutti i suoi segreti. E dalla tomba continuava a metterlo a disagio, con il suo volto troppo familiare e il suo modo pietoso di guardarlo.
Scrollò le spalle con noncuranza. Cazzate. Altair della Croce Rossa aveva fallito con lui, pace all'anima sua. E all'inferno tutte la altre stupide fantasie. Tutto ciò che doveva fare, adesso, era portare a termine il suo progetto. E dopo forse… Strinse i denti. "Non farti illusioni. Non cambierà nulla. Non sei altro che un morto che cammina."

~.~


Dlin… Dlin… il suono del campanellino. Lontano, ovattato. Shun si sporse a destra e a sinistra, tentando di capire da dove provenisse. La sua geniale idea non aveva prodotto più di tanti frutti. A parte procurargli l'insolita sensazione di aver già vissuto momenti simili. Ma questa è pura follia. Per sei interminabili anni di addestramento all'isola di Andromeda non aveva saputo nulla di nessuno degli altri orfani accolti dalla Fondazione. "Eppure… sento di potermi fidare di loro… come se fossimo amici da sempre…"
Il Santo di Andromeda continuò per la sua strada, perdendosi ancora nei suoi pensieri. Non poteva sapere che il suono che poco prima aveva creduto di udire proveniva dal crepaccio che si apriva alla sua sinistra. E che se si fosse sporto di poco avrebbe potuto scorgere quanto restava del suo amico Seiya di Pegasus, vittima del colpo del suo avversario, che pure era riuscito a sconfiggere. Era troppo nervoso per servirsi dei suoi poteri nel modo appropriato.
Nella sua mente, un solo pensiero ricorrente. Ikki. Che di certo stava combattendo. Contro Chi? Poco prima aveva percepito vagamente il cosmo della Gru esplodere e svanire. "L'hai uccisa, vero?" Altair, l'unica che non aveva guardato suo fratello come un nemico da distruggere. Che si era rifiutata di battersi con lui. Che la sera dell'assalto al Colosseo Grado l'aveva tirato in disparte per assicurargli che prima o poi Ikki sarebbe rinsavito.


— Asciugati quelle lacrime, Shun, davvero. —

La guerriera si era fermata di fronte a lui, in uno dei molteplici e infiniti corridoi di Villa Kido. Dietro quella maschera, gli era piaciuto immaginare che si nascondesse un sorriso non troppo sprezzante.

— Gli uomini non piangono, vero? — aveva annuito lui, pronto all'ennesima ramanzina.

— Beh, sarebbe una novità — aveva replicato Altair, porgendogli un fazzoletto di carta. — Fa' un po' di male a qualcuno di quei "veri maschi" che lo blaterano, e dopo guarda se non frignano come ragazzine. —

Shun aveva sorriso, un sorriso spontaneo e grato. E lei gli aveva preso le mani. — La verità è che non hai motivo di piangere. Vedrai, lui non resterà così per sempre — aveva bisbigliato, prima di allontanarsi verso la porta d'ingresso.



Altair e quelle idee, assurde quasi quanto le sue.
"Coraggio" si disse il guerriero di Andomeda. "Qualunque cosa ti aspetti, non ti darai per vinto prima di aver pagato il tuo debito. E questa è l'unica cosa che conta."

~.~


"Stanno arrivando…" Ikki richiamò a sé il potere delle sue stelle, concentrandosi. Quei piccoli bastardi lo avevano sorpreso. Avevano sistemato tutti e quattro i suoi Black Four. Il primo era stato Black Pegasus, che era riuscito a farsi battere in poco meno di dieci minuti da Seiya. Quello stupido non aveva mai mostrato troppe doti, ma almeno era riuscito a rendere la sua dipartita più produttiva di quanto non fosse stata la sua intera vita. Il Saint di Pegasus era spacciato, ormai. Questione di minuti.
Black Swan era caduto vittima del ridicolo, sentimentale Hyoga, ma la sua fedeltà gli aveva permesso di distruggere il Saint di Cygnus in un battito di ciglia. Ancora doveva capire cosa fosse successo a Black Andromeda, che era riuscito a farsi stendere dal suo diafano fratello, Shun della Lacrima Facile.
In più, quel bastardo di Shiryu era tornato con le armature riparate. Doveva essergli costato parecchio sconfiggere il più furbo dei suoi uomini, e il più potente. Black Dragon… Aveva recitato un beffardo requiem mentale per la sua anima. Era stato un buon braccio destro, ma anche lui nulla più di una pedina.
Tutti i suoi soldati erano morti. Ma restava lui. Sentiva i cosmi dei suoi nemici con una precisione che lo stupiva. Dovevano essere davvero vicini.
Uno era il Dragone, dissanguato e ormai ridotto allo stremo. Una preda sin troppo facile.
L'altro, il suo cosiddetto fratello. La prova vivente dell'inutilità del suo sacrificio, sei anni prima. "Dannata ameba senza spina dorsale…" Aveva smesso di credere da tempo che nelle loro vene scorresse lo stesso sangue. E la vista di quell'idiota sortiva su di lui il solo effetto di risvegliare i suoi peggiori istinti distruttivi. "Non resta che decidere di che morte debba morire, allora…"
Si diresse a lunghi passi incontro ai suoi avversari. "Finiamola. Una volta per tutte."

La sua voce risuonò sonora e beffarda, alle spalle dei due guerrieri — Salve, buffoni. Se siete venuti qui per aiutare i vostri amichetti a recuperare l'elmo siete in ritardo. — Ikki mostrò i denti in un sorriso terribilmente simile ad un ringhio. — se invece siete venuti a portarmi gli ultimi pezzi dell'armatura siete ancora in tempo. —

"I nostri… amichetti?" — Hyoga, Altair… cosa gli hai fatto, Ikki? — Shun fissava suo fratello, incredulo di fronte a tanta fredda crudeltà. "È colpa mia, è colpa mia, è colpa mia…"

Il sorrisetto di Ikki si allargò ancora — Niente che tra poco non potrai provare anche tu, fratellino…. — sghignazzò. Sulla sua bocca quell'ultima parola prendeva il sapore aspro di un insulto.

Shiryu alternava occhiate fugaci dall'uno all'altro, preoccupato. Se poteva comprendere che al dunque Shun non sarebbe stato capace di causare anche solo un graffio al suo adorato, perfido fratello, era anche del tutto certo che Ikki avrebbe ricambiato la cortesia tentando di ridurli in poltiglia, come probabilmente aveva già fatto con Hyoga e Altair. Incrociò le braccia e soffocò nelle profondità la rabbia che già stava per prendere il sopravvento. "Calmati… ragiona con freddezza." La lezione del suo maestro… gli era quasi costato la vita non averla imparata. Non desiderava dargli un'ulteriore prova della sua debolezza di carattere.

I suoi occhi tornarono a posarsi sul suo amico — Cosa intendi fare ora, Shun? per quanto malvagio, Ikki è pur sempre tuo fratello… —

Shun lo guardò, addolorato. — Perdonami, amico mio… — sussurrò.

— Ma di cosa stai… — il Dragone non fece in tempo a rispondere. La Catena di Andromeda l'aveva attaccato, colpendolo duramente alla testa. Si afflosciò senza una parola, l'incredulità ancora dipinta in viso.

Shun sorrise tristemente, richiamando a sé la sua arma. "Mi dispiace, Shiryu. Ma soltanto io posso mettere il punto a questa storia. Da solo con mio fratello. E tu me lo avresti impedito."

Ikki lo stava osservando con rinnovata attenzione. — Oh, non mi dire che il mio caro fratellino ha finalmente deciso di schierarsi dalla parte giusta… — insinuò, mellifluo.

L'altro si limitò a fissarlo in silenzio. Quando parlò, la sua voce suonò rassegnata, ma sicura. — Sono qui per porre fine a questa inutile battaglia, Ikki. E a pagare il mio debito. Sono sicuro che in qualche modo tu non sia davvero cambiato. Non puoi volere davvero questa carneficina. — Ikki sussultò vedendolo cadere in ginocchio — Vuoi davvero sfogare la tua rabbia? Allora fallo su di me. Qualunque cosa tu abbia sopportato… è stata solo colpa mia. E dopo torna quello che eri un tempo, fratello. —

Ikki non era sicuro di aver capito bene. "Maledetto bastardo! Cosa credi di fare ora? È troppo tardi. I tuoi piagnistei non cambieranno il passato." — Smettila di fare il sentimentale con me, rammollito! — Ora poteva sentirlo. L'odio. Vivo, pulsante. Lo bruciava dentro. Ma forse l'avrebbe lasciato libero se… — D'accordo, Shun. Se è il sacrificio che desideri più di ogni altra cosa, vedrò di accontentarti… —

Con un agile balzo si portò di fronte a suo fratello, che non cercò di sottrarsi. E Ikki sentì un lungo brivido gelido percorrergli la schiena. Per un attimo si vide come da una grande distanza, un pazzo con gli occhi fuori dalle orbite e le mani tese a ferire il suo stesso sangue. "Che diavolo sto facendo?" Shun lo fissava, del tutto immobile. In attesa di qualcosa, forse di un verdetto. "Anche lui, come Altair… perché non scappi? È davvero la morte che cercate tutti?" Quello sguardo lo faceva sentire in torto, piccolo e insignificante con la sua rabbia e la sua inutile crudeltà. E quella sensazione non la poteva tollerare. "Perché non hai paura?"

— Allora muori per me, fratello! — sibilò, alzando il braccio per colpire. "Muori e portati all'inferno i tuoi buoni sentimenti…"

Si fermò con una bestemmia. Qualcosa, o qualcuno, lo aveva colpito. Sollevando lo sguardo, Ikki si ritrovò a contemplare stupito la sagoma di qualcuno di cui credeva di essersi ormai liberato.

— Seiya, maledetto… — ringhiò. — Sei più coriaceo di quanto credessi. — "Non importa. Ti spazzerò via personalmente."

~.~


Tornare alla vita può non essere granché divertente. Senso di soffocamento, i polmoni che bruciano per la mancanza di ossigeno. Una sgradevole sensazione di bagnato e tutte le ossa peste. "È questo che si prova di ritorno dall'aldilà? Non posso saperlo, non ci sono ancora stata."
La schiena urlava di dolore. "Ma questa volta c'è mancato davvero poco." Il Genmaken della Fenice… Le aveva bloccato tutti i centri nervosi, rendendola simile ad una grottesca bambola di carne e sangue. L'aveva costretta a rivivere i suoi ricordi peggiori, ancora e ancora, in un'incessante sarabanda splatter che pensava non si sarebbe mai conclusa.
"Ma non potevi uccidermi così, Dave. Quegli incubi erano gli stessi che mi fanno compagnia ogni notte. E ora… quanto tempo sarà passato?"
Riaprì gli occhi con la sgradevole sensazione di uno sguardo furioso puntato in faccia. Appena ebbe messo a fuoco la mano che le aveva spruzzato l'acqua fredda sul viso si sentì molto ben disposta a richiuderli e tornare a dormire per qualche altra ora.

— Ti… ti avevo chiesto di non venire… — gracchiò. A quanto pareva anche la sua voce tornava da un giro sulla barca di Caronte.

Una pezza bagnata le cadde sul naso e la bocca, costringendola a tossire follemente. — Se è per questo, anch'io ti avevo chiesto di non consegnarti mani e piedi al tuo carnefice. — La voce del suo interlocutore, invece, era ben presente a se stessa. L'unica voce che conoscesse capace di biasimarla senza perdere un grammo della sua abituale compostezza, attraverso il cappuccio che il suo infermiere portava calato sul volto.

"È arrivato Halloween e non me ne sono accorta." — È proprio da te infierire mentre sono in fin di vita, maestro — squittì, mentre cominciava a sentirsi seccata. La innervosiva quel tono saccente. Almeno quanto constatare che non aveva argomenti per ribattere.

La risposta non si fece attendere. E le suonò come un pugno nello stomaco. — Se pensassi a proteggere i tuoi amici con la stessa dedizione che dedichi a provocarmi avresti già risolto metà dei tuoi problemi — osservò lui, alzandosi in piedi. Il mantello nero si ricompose, nascondendone del tutto la figura.

Kelly sbatté le palpebre, frastornata, cercando di scacciare dalla mente il gelo che aveva colto nella sua voce. Non ci era mai andato leggero, mentre l'addestrava, avrebbe dovuto esserci abituata. — Meglio che colga l'occasione adesso. Potrei davvero restarci secca, in fondo — provò a scherzare, senza sentirsene in grado.

Lui la fissava dall'alto, impassibile. Non era mai riuscita a prenderlo in giro. — Se la pensi così è un vero peccato che non abbia portato carta e penna. Forse dovrei raccogliere le tue ultime parole per l'orazione funebre. Mandi a dire qualcosa al tuo caro amico? — Le tese una mano. — Avanti, prova a tirarti su e stavolta sii meno sentimentale, se ci riesci. —

Cosa si era aspettata, una pacca sulla spalla e un paio lacrimucce di contentezza? Afferrò la mano, ma riuscì a malapena a lasciarsi sollevare. — Sei davvero un animale a sangue freddo… — borbottò la ragazza, delusa, senza sapere molto bene da cosa. Le gambe non volevano sapere di rimanere diritte. Sarebbe ricaduta come un sacco di patate, se Camus non l'avesse afferrata per la vita, tenendola in piedi a forza. — E comunque, perché sei venuto? —

Camus non rispose, ma allargò lentamente, con intenzione, le braccia che la reggevano. Kelly barcollò e ricadde in ginocchio, respiro affannoso e vertigini galoppanti. Quanto doveva sembrare ridicola, un'altra volta ai suoi piedi, e gli effetti del Genmaken erano molto peggio di quanto avesse immaginato prima. "Chi penso di aiutare, in queste condizioni?"

— Non sarebbe male se cominciassi ad usare più forza e meno chiacchiere, a questo punto… O forse a mancarti è il carattere? Ci vuole anche quello, sul campo di battaglia… — Un vero bastardo, fatto e finito. Che probabilmente le aveva salvato la vita.

— Grazie dell'aiuto, maestro, immagino che adesso vorrai tornare alle tue faccende — soffiò Kelly, provando a tirarsi su con uno sforzo erculeo. Ci riuscì, e barcollò verso la parete. Mosse qualche altro passo incerto, sostenendosi. Il sangue riprendeva a circolare nel verso giusto, e lo spazio riacquistava profondità. "Ma sì, dopotutto posso provarci…" Si voltò soltanto per un attimo. Il suo salvatore improvvisato non si era mosso, continuava ad incombere su di lei con il suo mantello scuro, la sua espressione tetra e i suoi argomenti schiaccianti. Gli voltò le spalle, fingendosi molto più salda di quanto si sentisse. "Se solo non avessi ragione ti torcerei il collo. E non me ne pentirei neanche un po'."

— E, se non ti spiace, il mio caro amico vorrà finire il lavoro — completò, uscendo di scena con tutta la dignità che riuscì a mettere insieme, a far compagnia alla vergogna cocente e meritata.

Camus rimase a guardarla allontanarsi, per sparire oltre l'apertura della caverna. Solo allora, quando fu certo che lei non potesse vederlo né sentirlo, si concesse un lungo, monumentale sospiro di sollievo. "Buona fortuna, ragazzina."
Le augurò di vincere, di riuscire a non morire e a non uccidere il suo amico. Lo desiderò per lei, per le sue speranze sul futuro, per quella sorella che non meritava di saperla morta per mano di un altro fratello.
E soprattutto, sperò per se stesso che quel fragile legame non s'interrompesse proprio quel giorno. Che lei tornasse e la sua battaglia non la cambiasse troppo. Perché ci sarebbero state tante, troppe cose da dire, quando fosse arrivato il momento.
E, si rese conto di colpo, era proprio a lei che voleva dirle.

~.~










Angolo della vergogna™


E così, eccoci qui, e se il povero francese di carta forse ha davvero sperato di liberarsi di Kelly, direi che gli è andata proprio male. In fondo, ho un vero talento per procurargli dei guai. :)
A parte questo, credo avrete notato che anche in questo capitolo (e per la verità anche nel precedente) sono presenti dialoghi presi direttamente dall'anime, che ritenevo avrebbero calato meglio la storia nel contesto della sinossi ufficiale. Non ho intenzione di farne un'abitudine, naturalmente, solo di usarli per creare l'atmosfera. Ci sarà qualcosa del genere, non molto, anche nel prossimo capitolo.
Per il resto, che dire... grazie a Philos per la solita, spassosa correzione di bozze, e a voi che leggete. Un grazie ancora più grande a chi ha deciso di condividere le sue impressioni con me, in pubblico e in privato.

Alla prossima!

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Capitolo 9
*** Track #08: On The Turning Away ***


Track #08: On The Turning Away TRACK # 08

ON THE TURNING AWAY

It's a sin that somehow
Light is changing to shadow
And casting it's shroud
Over all we have known
Unaware how the ranks have grown
Driven on by a heart of stone
We could find that we're all alone
In the dream of the proud

(Pink Floyd)

Seiya crollò sulle ginocchia, sfiancato dal peso della sua stessa armatura. Quella Veste Sacra, di cui era stato tanto fiero il giorno della sua investitura, gli si stava crudelmente rivoltando contro. Il suo respiro era affannato, aveva chiesto troppo alle sue forze. Sbirciò di sottecchi Shiryu, riverso a terra. Il suo amico, il suo salvatore. Che lo aveva sottratto alla maledizione di Black Pegasus, ma che non aveva certo il potere di restituirgli le energie perdute. "Sono stato un pazzo a volerlo affrontare da solo… e ora mi finirà."
Il suo avversario stava evidentemente pensando la stessa cosa. Ikki si avvicinò, un ghigno soddisfatto stampato sul viso, l'aura del suo potere che si allargava attorno al suo corpo, luminosa e terribile.

— Sembra che la tua buona stella ti abbia abbandonato, Pegasus… —

Seiya percepì chiaramente che il colpo stava per essere sferrato. Poteva indovinarne la direzione, prevederne la potenza. Ma non aveva la forza di scansarsi. E allora, certo che fosse finita, sollevò la testa in un moto d'orgoglio. Non sarebbe certo morto come un coniglio, con gli occhi a terra. Ma Ikki si bloccò improvvisamente con una smorfia d'esasperazione. Il tintinnio di un campanello guidò i loro sguardi verso una figura che si stagliava in controluce, in piedi sulla roccia dove poco prima si trovava il Santo della Fenice.

— Hyoga… bastardo, dovresti essere morto… il mio colpo aveva sfondato il tuo cloth. — mormorò, stupito.

Illuso… Il ghiacciolo umano sorrise con sarcasmo. — La prossima volta prova a prendere meglio la mira, Ikki… non è così facile uccidermi. —

— E neanche mettere fuori gioco me… — Il Dragone si stava rialzando in quello stesso momento, sotto gli occhi increduli di Shun.

— Shiryu… — bisbigliò, sentendosi in colpa come mai in vita sua.

Il ragazzo lanciò uno sguardo indecifrabile al suo amico, scostando dal viso i lunghi capelli neri. — Smettila di cercare un martirio che non meriti, Cavaliere di Andromeda… — lo rimproverò seccamente; quindi si volse verso Ikki. — Sei rimasto solo, e noi siamo in quattro. Neanche il tuo smisurato orgoglio può farti credere di avere ancora speranze di vittoria. Non ci sconfiggerai mai tutti. E nessuno qui desidera combattere contro un avversario in condizioni di inferiorità così netta. Deponi le armi, Ikki. Ormai hai perso. —

"Calma olimpica e saggezza zen, vero, cinesino? Ma io non sono affatto finito…" Ikki rise di gusto a quell'assurdo sproloquio. Se la situazione l'avesse permesso, avrebbe continuato a sghignazzare fino all'indomani. Perché le facce di quei quattro inetti erano impagabili. Pensavano sul serio di poterlo battere? "Ti sbagli, damerino senza nerbo. Presto andrete a raggiungere la vostra compagna di merende. E io brinderò sui vostri cadaveri."

— Ci credi sul serio Shiryu? Sapete bene che sono in grado di distruggere senza problemi ognuno di voi. Attaccatemi anche tutti insieme, non vi temo affatto. — Con la coda dell'occhio vide il russo fremere d'indignazione. "Ne vuoi ancora, mammone?"

— Non crederti onnipotente, Ikki. Non lo sei affatto… — ribatté quello, freddamente. Da dove diavolo la prendeva quella sicurezza? Era stato lui a ricevere il suo colpo. Lui a frignare come una femminuccia. Lui a cadere ai suoi piedi, alla fine del duello.

— Allora che aspetti a farti avanti, biondina? Ti farò assaggiare ancora il Genmaken… Spero tu non l'abbia dimenticato… — ghignò perfidamente. "E stavolta ti strapperò il cuore"…

Ancora quell'irritante sorrisetto, sulla faccia da calendario del russo mezzosangue. — Attento, perché questa volta il tuo magnifico colpo potrebbe ritorcersi contro di te… Non vedo l'ora di godermi lo spettacolo. —

— Questa è bella davvero… — ridacchiò Ikki, assumendo la sua espressione più strafottente. — Accomodati, pivello. Ti manderò dalla mammina a piangere per la bua. —

"Ti pentirai di aver profanato il ricordo di mia madre, stronzo…" La temperatura attorno al Santo di Cygnus precipitò immediatamente. Shun, osservandolo, si sentì rabbrividire sin nelle ossa. C'era qualcosa di profondamente sbagliato in quella scena. Quel duello, tutta quella farsa, non avevano ragione d'essere. Non l'aveva mai percepito con maggiore chiarezza.

— Diamond Dust! —

L'aura gelida, che per un momento era sembrata crescere fino a prendere possesso di tutta la vallata, cominciò ad arretrare, sospinta indietro dall'irruenza di un cosmo incandescente come il fuoco. Ikki aveva tutte le intenzioni di fare sul serio, mentre si slanciava sul suo avversario con fredda precisione di movimenti. Hyoga arretrò d'istinto, preparandosi all'impatto. Con una risata perfida Phoenix lanciò il suo Genmaken. La consistenza della Polvere di Diamanti cambiò di colpo. Sembrò che all'improvviso un muro di ghiaccio si ergesse tra il Cigno e il suo avversario. Un muro in grado di respingere qualunque attacco. Ikki comprese troppo tardi di essere stato giocato. Il suo colpo s'infranse contro quella barriera invalicabile, per poi ritornare indietro, verso colui che lo aveva lanciato.

~.~

— Tutta… colpa… vostra… — stava sibilando Katie, con il poco fiato che le restava. Fin dal primo mattino si erano ritrovati a correre come per partecipare alla maratona di New York, sotto lo sguardo attento di quella maledetta ciminiera che li aveva allevati. "Non vi ho messo al mondo io, certo. Ma come vi ci ho mantenuti, così vi ci posso togliere" soleva blaterare, melodrammatico, e nessuno di loro aveva mai messo in dubbio la sincerità di quelle esternazioni, neanche quel prodigio di allegra insubordinazione che era sempre stato Mark.
Quel giorno, dopo averli pescato tutti e tre nel database più criptato ed esclusivo raggiungibile da pirata informatico, sembrava davvero che Martin Rothstein intendesse attuare il suo piano B, sbarazzarsi finalmente della sua squadra, e magari partire per Acapulco a sorseggiare cocktail con l'ombrellino e godersi una meritata vacanza.

— Risparmia il fiato, McArthur, se crolli non ti raccolgo — l'aveva rimbeccata Alex, con poca simpatia. Tutta quella che aveva in corpo, l'aveva sputata qualche chilometro indietro. Insieme a quanto restava del suo polmone destro. "O si trattava del sinistro?"

Katie rinunciò a rispondere, l'asfissia non era esattamente un obiettivo che si poneva per il prossimo futuro, e probabilmente anche Max doveva condividere la sua opinione, dal momento che non aveva ancora aperto bocca. Escludendo l'ipotesi che volesse davvero far rendere loro l'anima, Martin doveva avere un ottimo motivo per averli rinchusi in quella sala. Un motivo che magari poteva avere a che fare con l'improvvisata poco piacevole che aveva fatto loro nel bugigattolo del nerd.

— Rothstein, dovunque tu sia, molla i tuoi ragazzini e vola a rapporto nel mio ufficio! —

"Abbiamo aspettato meno di quanto pensassimo." I tre ragazzi ne approfittarono per fermarsi, trafelati. Martin si girò a fissarli, un'occhiata feroce all'interfono. E si accese il sigaro delle occasioni importanti.

— Voi restate qui dentro, non mettete il naso fuori per alcun motivo. E continuate a esercitarvi come se fosse il vostro unico pensiero. Non ho intenzione di dover partire per cercare anche voi. —

Katie rimase a fissare il filo di denso fumo grigio, che si interrompeva giusto dietro la porta di metallo che si era chiusa alle spalle del loro capo. E inspiegabilmente, si sentì stringere il cuore. "Ho un pessimo, pessimo presentimento."

~.~

Hyoga di Cygnus era piuttosto soddisfatto di se stesso. Era riuscito a rendere pan per focaccia al bastardo che lo aveva umiliato e aveva calpestato i suoi sentimenti più preziosi. Che ora era di fronte a lui, inerme. Ma lui sarebbe stato clemente, avrebbe posto termine alle sue sofferenze. Agliincubi terrificanti che altrimenti l'avrebbero distrutto lentamente. "Anche se non lo meriteresti, lurido verme…"

— No! — Il grido di Shun lo aveva fatto trasalire, e quell'istante di sorpresa aveva permesso alla Catena di Andromeda di stringersi saldamente attorno al suo polso, impedendogli di sferrare il colpo. Fissò incredulo il suo amico.

— Mi dispiace, ma non posso permetterti di uccidere mio fratello. — aveva mormorato l'altro con voce tremante.

— Sei pazzo, Shun? Questo non è più tuo fratello! Ci ha attaccati, non ha esitato a colpirti. Ci avrebbe ucciso tutti! — ringhiò l'amico.

Andromeda lo fissò con gli occhi lucidi di lacrime. — Tu lasceresti fare del male a tua sorella? — sussurrò, spiazzandolo. Ma solo per un attimo. Hyoga sentì crescere in sé un rancore mai provato prima. "Questo non dovevi dirlo…"

— Grazie al tuo affettuoso fratellino, forse mia sorella è già morta! — sbraitò. Strattonò il braccio ripetutamente, cercando di liberarsi. — Lasciami andare, idiota! —

Quell'attimo di distrazione si rivelò fatale. Ikki si scosse improvvisamente, affondando nuovamente il braccio nel pettorale dell'armatura, mirando al torace indifeso. Hyoga s'irrigidì e urlò di dolore, sotto lo sguardo attonito degli altri.
Ma l'espressione di trionfo del suo avversario si era rapidamente trasformata in una di perplessità.

— Cos'è questo? — estrasse il braccio dalla Veste ormai in pezzi, fissando stupito l'oggetto che s'era attorcigliato attorno al polso. Un sottile laccio d'oro e perle, alla cui estremità pendeva… — Un crocifisso? Non sapevo di queste tue velleità monastiche… Ma almeno ti hanno salvato la vita… Fino ad ora. —

Il Cigno lo fissò con durezza. — Uno come te non potrebbe mai apprezzarlo, ma quell'oggetto è tutto ciò mia madre mi ha lasciato in eredità. —

— Sono commosso, il regalino della mamma… — lo schernì Phoenix, stringendo a pugno la mano. La sottile catenella si spezzò, e il monile finì a terra in un tintinnio di perline.

Hyoga non mostrò emozione a quell'ennesimo segno di disprezzo. — C'è una sola cosa che non mi aspettavo… perché il Genmaken non ha avuto effetto su di te? —

Ikki sogghignò. — Nel mio passato non ci sono bei ricordi da distruggere, mammoletta… — sibilò con quella che a suo fratello parve in tutto e per tutto una smorfia di dolore. — E ora sono stufo di voi. Preparatevi, perché sto per spazzarvi via dalla faccia della terra. —

I quattro Santi non ebbero neppure il tempo si prepararsi all'impatto. Il tornado di fuoco scatenato da Phoenix li investì tutti in pieno, sollevandoli come fuscelli, scaraventandoli contro le pareti rocciose, una, dieci, cento volte. O così almeno parve loro, mentre realizzavano loro malgrado quanto fossero ancora lontano dalla fine di quella battaglia.
Non si accorsero della forte emanazione cosmica che lo aveva distratto, estinguendo le Ali della Fenice. Erano troppo storditi per udire la fantasiosa bestemmia del loro avversario. Ricaddero come bambole rotte ai lati del campo di battaglia, del tutto privi di conoscenza.

Ikki era rimasto immobile, gli occhi fissi sulla figura che avanzava a gran passi verso di lui. Non poteva dire di non esserselo aspettato, in fondo. "Sei tornata, piccola strega?"
Kelly si avvicinò con tutta calma, fermandosi a pochi metri dai lui. Si studiarono al lungo. E il rinnegato sorrise con sarcasmo: sapeva che la resa dei conti era arrivata.

~.~

Il sole era ancora alto, su quell'isoletta insignificante al largo della costa etiope, ignorata da chiunque non appartenesse alla casta dei santi d'Athena. Quell'isola abitata soltanto dagli allievi di Albion di Cepheus. Tra loro, una ragazza che custodiva il segreto di un'esistenza passata e segreta. In quel fazzoletto di terra tutti la conoscevano come June, novella custode della Veste del Camaleonte, ma, lontano da lì, e almeno per alcune, poche persone, non era altri che Christine. Christine, sorella, amica, amante di un crucco dagli occhi verdi che le mancava disperatamente. Intrappolata tra le memorie del passato e un presente più grande di lei, spaventata da quel futuro che non riusciva intravedere. Divisa tra il desiderio di aiutare una sorella in pericolo, una sorella tanto più forte e più fragile di lei, e l'intenzione di restare al fianco del maestro al quale, durante quegli anni, si era trovata più volte a dovere la vita.
Quella giornata sembrava non finire più.
Christine sapeva che a migliaia di chilometri di distanza i suoi fratelli e i suoi amici stavano combattendo un'assurda battaglia fratricida. E sapeva perfettamente di non poter essere loro d'aiuto. Ciò nonostante, o forse soprattutto per questo, sentiva che l'attesa avrebbe finito con l'ucciderla.
Era sola. Fin dal giorno precedente aveva fuggito qualunque contatto umano. Si era rifugiata nel luogo dei suoi incontri segreti con Kelly, speranzosa. Sapeva, credeva che presto l'avrebbe vista arrivare. Sarebbe apparsa dal nulla e l'avrebbe abbracciata forte. E lei avrebbe saputo che era andato tutto bene, che anche David era salvo, che quell'orribile senso di disagio non aveva avuto ragione di esistere. "Andrà così. Deve andare così…"
Stringeva ancora tra le mani la macchina fotografica, quella polaroid con cui aveva immortalato tutti i momenti più importanti di quella vacanza finita con un incubo. Sospirò, per l'ennesima volta in quella giornata. "I ricordi, le trappole che scegliamo per continuare a farci male…"



— Toglila di lì, impiastro! La romperà, e allora sarai contenta. —

— Torna a fare da palo, piuttosto. E chiudi il becco. —

— Rovinerai tutto, dopo la fatica che ci è costato! —

Christine aveva sospirato, aprendo gli occhi. Portare a termine un addestramento che aveva ucciso decine di ragazzini prima di loro, sopportare la boria del loro caro Colonnello, aspirare ogni giorno il fumo di quegli orrendi sigari cubani che piacevano tanto al loro responsabile… niente di tutto questo poteva paragonarsi al fastidio di svegliarsi al suono delle strida dei suoi due fratelli in vena di giocare al cane e al gatto.
Li poteva sentire anche a dieci metri di distanza, incapaci come sempre di dividere lo spazio comune, come di ignorarsi per più di un'ora.
"E dire che hanno avuto nove mesi per imparare a convivere. Ma forse sono ricordi troppo lontani."
Il suo primo ricordo, da che avesse memoria, era stato il monumentale pancione di sua madre, Natassia, la più bella spia che l'Unione Sovietica avesse prestato alla Società delle Nazioni. E la risata, tanto più preziosa perché rara, con cui scherzava sui due delinquenti che l'abitavano e non stavano fermi un momento.
E dal momento in cui suo padre, quel padre irlandese dai capelli neri e dall'allegria contagiosa, glieli aveva presentati in latte e pannolini, lei aveva capito, e quel legame indissolubile si era annodato. Li avrebbe aiutati e protetti. E guidati.
Per tutta la vita.
Così, nella mattina del suo diciottesimo compleanno, Christine era emersa dalla sua camera, pronta ad infrangere i vetri a forza di urla e pestare i suoi fratelli come zampogne, se necessario. Perché lei era la Sorella Maggiore.
Non aveva fatto niente di tutto questo.
Davanti ai suoi occhi stupefatti, aveva trovato un pacchetto, deposto con attenzione davanti alla sua porta, in modo che lei potesse vederlo, ma non investirlo.
Il biglietto che l'accompagnava le aveva chiarito definitivamente che non avrebbe mai, mai potuto fare a meno di quei due.
Max l'aveva trovata dopo un'ora, ancora su quella soglia, con la sua nuova e preziosissima macchina fotografica da professionista in mano. E quando si era avvicinato per baciarla, lei l'aveva accecato con il primo di una lunga serie di scatti di vita vissuta.




Quella polaroid era diventata una parte di lei, silenziosa e fedele testimone di tutto ciò che valesse la pena di ricordare, fino al giorno in cui erano stati rapiti. E ora la stringeva convulsamente, preda di quel senso di straniamento che la coglieva ogni volta che pensava a quella che una volta era la sua vita. Quando non sapeva nulla di Dei, né di Sacri Guerrieri, la sua vita era tutta concentrata all'interno di una base sotterranea e una decina persone speciali rappresentavano tutto il suo mondo. E a pensarci bene, anche dopo anni di addestramento, non era importante che Albion avesse ragione, che la Dea che aveva venerato per anni esistesse davvero e stesse soltanto aspettando il momento giusto per tornare fra loro. Non quel giorno. Quel giorno tutto ciò che desiderava, era che loro tornassero sani e salvi. Tutti. E che i suoi fratelli litigassero ancora per i motivi più insignificanti, che Dave potesse ancora dileguarsi come un fulmine ogni volta che tentava di inquadrarlo. "Ti prego, Kelly. Torna presto. E porta buone notizie con te…"

~.~

— Così, sei ancora viva… — esordì il Santo di Phoenix lanciando una rapida occhiata attorno, fino a fermarsi sui suoi avversari con una smorfia disgustata. — Quel buono a nulla di tuo fratello ha ragione. La mia mira ha fatto davvero pena ultimamente. Ma posso sempre rimediare sistemandoti adesso. —

"Piantala con le frasi fatte, Dave…" Kelly scosse la testa, sprezzante. — Non credo proprio. Se avessi voluto uccidermi lo avresti fatto qualche ora fa. O almeno ti saresti assicurato di esserci riuscito. —

"Tira fuori le unghie, la ragazzina…" — Le tue risposte, Altair della Gru, dovrai venire a prendertele. — rispose Ikki in un ringhio. Con un rapido scarto si portò di fronte alla sua avversaria. Ma nel preciso istante in cui tentò di scagliarsi contro di lei si rese conto che non sarebbe più stato tanto facile. La ragazza respinse l'attacco con la semplice forza del suo cosmo, creando un'invisibile calotta gelata attorno al suo corpo. — Hai deciso di fare sul serio, allora? —

— Qualcosa in contrario? — ritorse lei, bloccando il suo braccio senza che lui riuscisse a capire come. Con una mossa fulminea glielo torse dietro la schiena. Ikki gridò di dolore quando la mano libera della ragazza lo raggiunse. Perché il dolore dei colpi di Hyoga non era stato nulla, quando l'aveva affrontato, sicuro del suo vantaggio. Altair combatteva con attacchi veloci e difficili da prevedere, questa volta, e le loro forze si equivalevano. Quando lei lo spinse in avanti, facendolo rotolare per diversi metri, si stupì che la spina dorsale non gli si frantumasse. Alzò la testa. E la vide fredda come non era mai stata. "Ma non mi impressioni, Altair. Sarà solo più divertente…"

Si rialzò dolorante, ma senza mostrare alcuno sforzo. E improvvisamente di buon umore. — Complimenti, puttanella. Ma ancora non affondi i colpi. — Un ghigno apparve sul suo volto. — Forse temi di rovinarti di più quelle manine delicate? —

La ragazza scrollò le spalle. Ikki mandò a tutti i diavoli quella lastra di metallo cesellato che gli impediva di studiare la sua espressione. La voce giungeva ovattata e inespressiva attraverso la superficie lucida. — Hai così tanta fretta di farla finita, dunque… —

Non era una domanda, solo una semplice constatazione. Ma gli sembrò che gli piombasse addosso con un peso insostenibile. "Maledetta…" Ikki strinse con forza i pugni, preparandosi a lanciare ancora il Genmaken. — Hai indovinato, bellezza. E l'unico che non morirà oggi sono proprio io. — "Credi di aver capito tutto, vero? Tu non sai niente, non puoi sapere niente."

Ma non ebbe il tempo di mettere in atto le sue minacce. Le mani della ragazza si erano chiuse a pugno attorno alle sue. — Non provarci, Ikki. Mi hai stancato, e non è più il momento di giocare. — sussurrò. "Devo proteggerti. Anche da te stesso."

Lui le rispose con un mezzo sorriso ironico, espandendo ancora il suo cosmo. Il calore raggiunse i palmi ustionati della sua avversaria, facendola fremere dal dolore. — Allora fammi vedere di cosa sei capace, se ne hai il coraggio. —

Kelly decise di accettare quel ridicolo confronto. Le sue mani si coprirono dapprima di brina, quindi di ghiaccio. Riuscì a prevalere, anche se di poco, e Ikki dovette allontanarsi con uno scatto per sottrarsi alla morsa che altrimenti gli avrebbe congelato entrambe le braccia.

— Sei così sicuro di essere l'unico ad aver sofferto, grande Phoenix? — riprese lei, impietosa. Gettò una rapida occhiata ai suoi amici e a suo fratello, che giacevano ancora a terra, storditi e doloranti. Sentiva che stava per perdere il controllo. E dimenticare chi ci fosse in realtà dietro quel ghigno malevolo. — Credi davvero di essere l'unico ad aver perso ciò che conta, ad aver visto il suo mondo andare in pezzi? Non ti darò il sollievo che cerchi. Non così. —

Ikki non le rispose subito. La vista gli si era annebbiata, e le gambe vacillavano. Lottò con la nausea che gli era salita improvvisa alla gola. Respirò forte, cercando di recuperare il controllo. Gli stava accadendo troppo spesso, ultimamente, quella sensazione di malessere, il dolore forte alla testa, come se qualcuno cercasse, o avesse già cercato, di aprigliela in due. Sorrise, un lieve sorriso maligno, mentre gli occhi rimettevano lentamente a fuoco le immagini. Se la sua avversaria non fosse stata un'emerita sciocca avrebbe davvero rischiato la vita, invece lei era lì, che lo fissava indecisa. Forse stava persino ponderando di aiutarlo. Una fitta terribile tra le tempie mutò il sorriso in un ringhio. E la vide, in un lampo carico di luce, senza la maschera. "Io ti conosco… ti conosco da tanto… perché non riesco ad afferrarti?"

Barcollò, e dovette far forza su entrambe le gambe per restare in piedi. Il dolore alla schiena lo aveva colto di sorpresa. Non era stata Altair. Volgendosi di scatto per scoprire chi avesse osato colpirlo rimase basito. — Pegasus… — sussurrò, con tutto il disprezzo di cui era capace. — Allora vuoi proprio che ti faccia a pezzi… —

Kelly guardò David, rabbrividendo al suono di quella voce gelida, e ancora di più di fronte a quell'espressione assai poco rassicurante. "Signore e signori, ecco a voi Jack Torrance senza l'ascia…"
E intanto, il suo presunto fidanzato le si era parato davanti, con un'aria protettiva degna di una farsa sciovinista. "Gli vengono ora, le manie di protezione…"

— Non t'immischiare, Seiya… — gl'intimò, innervosita.

— Cosa? Sei impazzita, Altair? — Quella ragazza doveva essere del tutto fuori di testa. Pretendeva che le lasciasse affrontare Ikki senza aiuto?

— Non è il momento della cavalleria a buon mercato, forse non l'hai notato… — sibilò lei, come se gli avesse letto nel pensiero. "Se proprio vuoi farmi cosa gradita, tieni le zampe a posto quando ti vedi con quella Miho…"

— Non ti lascio sola, punto e basta. —

Il buffone era animato dalle migliori intenzioni, a quanto pareva. E Ikki cominciava a trovarlo quanto mai divertente. Fissò sfacciatamente la sua avversaria finché non fu certo che fosse arrossita sotto la maschera. "Per tutti i diavoli, Altair, sul serio ti faresti ammazzare per questo tizio?" Si sforzò di rimanere concentrato. Il novello Romeo lo stava attaccando ancora, come se poco prima non ne avesse avuto abbastanza. Parò senza problemi tutti i suoi colpi, sotto il naso della guerriera della Gru. Si sentiva assurdamente al sicuro. "Non mi attaccheresti mai mentre ti do le spalle, vero?"



— Certo che starò attenta! — aveva riso la sua amica, tentando di nascondere l'agitazione dietro una lotta senza esclusione di colpi con l'elastico per i capelli. Ma sapeva che era un tentativo inutile: lui la conosceva troppo bene. Sempre insieme, come fratelli. In prima fila per ogni marachella, sempre i primi a buttarsi nelle gare di destrezza fisica… finalmente erano degli agenti a tutti gli effetti. La loro prima missione senza la balia non avrebbe avuto lo stesso gusto con qualcun altro. — E tu, mi guarderai le spalle? —

— Proprio le spalle? C'è di meglio da guardare… — aveva sogghignato lui, occhieggiando sfacciatamente la tuta nera che lasciava molto poco all'immaginazione. Sapeva che lei lo stava seguendo attentamente, attraverso lo specchio dello spogliatoio. E che gli stava mostrando apposta il suo lato migliore, china in avanti a tentare ancora quella coda di cavallo che le sfuggiva. — Sul serio, davvero andrai in giro vestita da Catwoman? —

La ragazza si era concessa il lusso di un sorriso sardonico, a testa in giù. E la trappola era scattata. — Ora mi devi una colazione completa dei tuoi meravigliosi pancakes, caro il mio pervertito… O preferisci che racconti a Katie come ci provi spudoratamente con me? —

Un dito sollevato con studiata lentezza, mentre lei trionfava sui suoi lunghi capelli biondi e si rialzava con uno scatto flessuoso. Sul suo viso, un sorriso complice. — Sempre la solita arpia… —



"…Kelly. È questo il tuo nome. Ora lo ricordo… Cos'altro dovrei ricordare?"
Un colpo feroce nello stomaco gli ricordò improvvisamente che non era il momento adatto per abbandonarsi alle divagazioni. Seiya continuava ad attaccarlo. — Idiota! — ringhiò. — Non vuoi proprio capire che il tuo ridicolo colpo non ha alcun effetto su di me? —

"Questo lo credi tu…" Lentamente il Santo di Pegasus riuscì a concentrare i suoi colpi entro un'unica, potente sfera luminosa. Ikki venne sbalzato indietro, ammutolito dallo stupore. Perché la forza dei suoi colpi era diversa, ora? Provò a contrattaccare, ma la sua mente era altrove. E davanti a suoi occhi increduli lo Scudo del Dragone si era posto in difesa del suo avversario, quindi la Catena di Andromeda. Quando il pugno di Pegasus lo raggiunse, gelido come solo la Polvere di Diamanti sapeva essere, non si stupì affatto. Seppe che quel giorno avrebbe conosciuto la sua prima sconfitta, con la stessa certezza con cui aveva sentito la sua armatura appartenergli per la prima volta.

Gli altri si stavano riprendendo. Mentre cadeva sulle ginocchia sentì un paio di mani calde afferrarlo per le spalle. "Togliti quella maschera. Dimmi che non sono impazzito." Ma il dolore ebbe il sopravvento e non riuscì a pronunciare una parola.

~.~

L'aveva incontrato sulla porta della piccola baracca che occupava da sola, unica gloriosa concessione ai suoi bisogni femminili, in quel luogo di maschio sacrificio e virile sofferenza. La stava aspettando, e Christine non era riuscita neppure a fingersi sorpresa. "Mi mancherai, quando tornerò a casa" si era ritrovata a pensare, con un moto di affetto del tutto spontaneo.
Tornare a casa, che ottimismo. E quanto ne aveva bisogno.

— Maestro Albion… — l'aveva salutato, sorridendo.

L'uomo l'aveva ricambiata, le spalle contro il sole che si stava abbassando, quasi riuscisse a vedere lo scintillio allegro negli occhi della sua allieva, sotto il metallo inespressivo. E forse, in qualche modo, era davvero così, e dietro quell'espressione pacata si nascondevano gli occhi di Clark Kent. Christine lo sapeva, se un giorno avesse scoperto il mantello di Superman sotto l'armatura del suo maestro, non se ne sarebbe stata affatto sorpresa.

— Ti ho portato la cena, June. Che hai saltato, anche stasera. —

Christine aveva abbassato lo sguardo sulla ciotola che le aveva portato, piena di quel favoloso cuscus speziato che riuscivano a mettere insieme quando qualche mercante provvisto di nave aveva la buona grazia di ricordarsi di loro. L'aveva guardato con gratitudine, prima di coprirlo con un panno che l'avrebbe tenuto caldo e lontano dalle mosche. Anche il suo Maestro era un libro aperto per lei, a volte. Ed era evidente che la loro conversazione non avrebbe riguardato la bontà dei suoi piatti o l'inventario delle derrate che Albion era riuscito a comprare senza farsi spennare. Quelle faccende di poco conto non l'avrebbero spinto a cercarla in una giornata in cui era stato tanto chiaro il suo bisogno di solitudine.

— Non ho molta fame in questi giorni, Maestro. Ma grazie. —

L'uomo l'aveva valutata, un esame attento e comprensivo. — Le notizie che abbiamo ricevuto a proposito di Tokyo… e di Shun, non sono una buona scusa per non pensare a se stessi. —

"Se mi preoccupassi soltanto per lui, sarebbe già un bel passo avanti…" Christine aveva indicato una sedia sgangherata, di fronte al tavolo di legno su cui aveva posato la sua cena. — Maestro, se le voci si rivelassero fondate… —

Albion la fissò, attento, quasi sorpreso. E parlò soltanto quando fu certo che lei non avrebbe terminato quel pensiero, non ad alta voce. — Tu ritieni davvero che Shun sia cambiato a tal punto, June? Al punto da tradire la Dea e tutto ciò in cui crediamo? —

La ragazza scosse la testa, artigliando la spalliera della sedia, per una volta lieta che lui non potesse vederla in viso — Non era a quelle voci che stavo pensando, Maestro… —

— Suvvia, June, basta con questa reverenza. Sei una compagna d'armi, adesso. Non farmi sentire vecchio come il Venerabile di Goro-Ho — la interruppe, sedendo a tavola e facendole segno di imitarlo. Dalla bisaccia che portava a tracolla, estrasse delle posate e una borraccia d'acqua.

Christine lo guardò per qualche istante, indecisa, mentre lui cominciava a dividere le porzioni. Doveva aver capito che se l'avesse lasciata sola avrebbe finito per non mangiare. — D'accordo, Albion. È per te che temo, e per tutti quelli che abitano quest'isola. Shun non ha mai tradito i nostri ideali, io l'ho visto. E tu… mi hai creduto. — "E ora quasi vorrei che non l'avessi fatto." L'unico piatto venne posato davanti a lei, con noncuranza, mentre Albion teneva per sé la ciotola. La ragazza si arrese, e prese anche la forchetta che l'uomo le porgeva. — Ma il Santuario non è disposto alla tolleranza, non è così? —

Albion si limitò ad annuire. Non le avrebbe mentito, non l'aveva mai fatto. Era il suo modo di guadagnarsi il rispetto dei suoi allievi, e una fedeltà a tutta prova. Le voltò le spalle con un sorrisetto ironico, e prese a mangiare dalla sua ciotola. Lei si tolse la maschera, sorpresa. Era, quella, esattamente la stessa tattica che aveva sperimentato mille volte per cenare con Michael. Non si era sbagliata, il suo maestro aveva occhi anche dietro la testa.

— Ho inviato una lettera al Gran Sacerdote — lasciò cadere l'uomo, a sorpresa, tra un boccone e l'altro. — Sono in attesa di una risposta. —

Una lettera. Al Gran Sacerdote. — La ragazza scostò il piatto, la fame già dimenticata. — Non ne verrà nulla di buono, lo sai — sbottò, pentendosi all'istante di quella critica intempestiva. Albion non era certo uno stupido, e, compagna d'armi o no, l'avrebbe potuto trovare davvero inopportuno.

— Riprendi a mangiare, June. — Lo aveva detto con pacatezza, ma Christine poteva percepire il comando appena celato dal tono cortese. Forse era vero, aveva travalicato un po' troppo i giusti confini. — Devi mangiare, tenerti in forze, anche se non ti va. Alle volte va fatto quanto è necessario. —

La ragazza riprese in mano la sua cena, affondandovi la forchetta di malavoglia. Albion si permise un sorriso, un sorriso tanto più affettuoso e triste, perché lei non poteva vederlo. Aveva capito, lo sapeva. Lei capiva sempre. Tacque, finché non fu certo che lei avesse posato il piatto, e indossato ancora la maschera. Allora si voltò.

— Alle volte, June, ciò che è necessario è sopravvivere. Ricordalo, quando verrà il momento. —

~.~

"Sto per morire?" Le sensazioni gli giungevano distorte, come attraverso lo spessore di un muro. Dolore… Era stato battuto dall'unico che credeva non ci sarebbe mai riuscito. Sotto gli occhi di colei che sin dall'inizio non aveva cercato che di proteggerlo, in nome dell'affetto, di quel patto che aveva stretto con lei tanto tempo prima. Ora la ricordava, quella promessa quasi infantile. "Mi guarderai le spalle?" La testa gli faceva così male che si torceva a terra, dietro quelle rocce dove suo fratello l'aveva posto dopo averlo salvato. Immagini di un'altra vita… rientravano nella sua testa come uno sciame impazzito. Ma non aveva tempo per pensarci. Anche se all'improvviso tutto gli appariva lampante, anche le domande alle quali avrebbe voluto pretendere una risposta. Era tardi per tornare indietro. E ora gli sgherri che il Sacerdote gli aveva messo alle costole per spiarlo avevano preso il controllo della situazione. Alle dipendenze di quel Docrates, un imbecille incontrato al Santuario, che aveva come unica dote una terrificante forza fisica.

Stava sempre peggio. La fatica, la perdita di sangue, la nausea e quel secco pulsare delle tempie… Si stupì quando riuscì a distinguere quella sensazione lieve di fresco sul viso… Nevicava. "Come vorrei che mi restituisse l'innocenza…" gli ricordava lei, fresca e pulita come quella neve. "Esmeralda…"
La ragazzina conosciuta a Death Queen, la ragazzina che aveva amato, a Death Queen. Aveva dato la vita per salvare la sua. Un sacrificio che lui aveva ricambiato con il tradimento. Perché ora sapeva, solo ora riusciva a capire. Gli aveva chiesto di non arrendersi, di preservare la propria umanità anche a fronte di quella prova, l'ultima, la più aberrante.

"Conquista le ali, Ikki, e vola via di qui…"

E lui… cos'aveva fatto dopo aver conquistato le sue ali? "Dovunque sia Guilty sarà fiero di me…" Aveva scelto la strada del reietto, dell'incompreso. Quante vite aveva distrutto per dare sfogo alla sua rabbia? Quante innocenti come lei? Tutta per sfogare quella collera, che provava verso se stesso, e nessun altro. Perché non aveva salvato chi si fidava di lui. "Ho perso." Come il giorno dell'investitura a Death Queen, di fronte alla maschera piena di crepe del suo maestro. "Ma non sarai fiero ancora a lungo, maledetto…"
Non avrebbe mai saputo chi o cosa gli avesse dato la forza per quella decisione folle. Ma per la prima volta dopo tutti quegli anni sapeva di essere nel giusto. Di essere tornato in sé. Sarebbe stato Ikki il rinnegato, il distruttore. E allo stesso tempo sarebbe stato David, e come David avrebbe protetto quelli che amava. "Stavolta lo faccio per voi…" Si sollevò su un ginocchio col fiato mozzo.

Docrates lo fissò, come colpito da una nuova idea. "Come ho fatto a non pensarci prima?" — Phoenix, dov'è l'elmo? — ruggì il gigante, la voce che echeggiava tra le pareti della gola.

— Sei rincitrullito, Docrates? Sarei ancora qui, se lo sapessi? — Rapido, si guardò attorno finché non la trovò. Con un mezzo sorriso la osservò stendere un aggressore con la stessa facilità con cui si allacciava le scarpe. Raccolse le forze. Doveva essere il più rapido possibile, per l'ultima volta, e affidarsi a lei per il resto.
"Non vorrei farti questo, amica mia… ma spero che non ce l'avrai con me."

— Kelly! — urlò. La ragazza si girò di scatto. "Avrei voluto guardarti negli occhi mentre ti salutavo…"

— Dave… Tu… — Perfino a distanza poteva vederla tremare. "Non avvicinarti…"

— Prendi l'elmo e falli scappare! — continuò, lanciando l'oggetto tra le sue mani. "Questo affare non vale la vostra vita…"

Kelly l'afferrò al volo, muovendo alcuni passi verso di lui. Ma il suo sguardo la raggelò. Con un brivido di terrore lo vide alzarsi in piedi, e senza apparente fatica. "Che diavolo vuoi fare?"

David le sorrise tristemente. — Non ti muovere! — Non badò all'esclamazione furibonda di Docrates. Non lo guardò nemmeno. Doveva essere il più veloce. "Ci rivedremo all'inferno, bestione…" Scatenò le Ali della Fenice con tutta la forza che gli rimaneva in corpo. Il gigante urlò e cadde nella voragine apertasi improvvisamente sotto i suoi piedi. Il fragore della frana presto coprì ogni altro rumore. E poi urlò, ancora, con la speranza che lei comprendesse, e gli desse ascolto.

— Maledizione, Kelly, portali via! —

Ricadde sulle ginocchia, ansimando. A malapena poteva udire suo fratello gridare, trascinato al sicuro da Mark. E Kelly… lo sentiva, stava tentando di aiutarlo, di infondergli un po' di forza… ma anche lei era troppo stanca. E lui non era più in grado di muovere un muscolo. "Non è colpa vostra, ragazzi. Ma se devo scegliere, questa è l'uscita di scena che preferisco."
Il rombo alle sue spalle era sempre più vicino. "Ecco, è finita. Non c'è niente di eroico, sapete. Me la sto facendo sotto dalla paura…" Chiuse gli occhi.
Non vide più nulla.

~.~










Angolo della vergogna™


E rieccomi qui. È passato un bel po' di tempo, e chiedo scusa a tutti i miei 4 lettori. Spero che il risultato vi piaccia, ecco.
Grazie a Philos, ancora cacciatrice di svarioni nonostante in questo periodo abbia parecchio da fare, e una strizzata d'occhio a Sagitta, che forse aveva un po' perso le speranze. Grazie, ragazze. È divertente lollare con voi.^^

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Capitolo 10
*** Track #09: Half A World Away ***


Track #09: Half A World Away TRACK # 09

HALF A WORLD AWAY

This could be the saddest dusk
I've ever seen
Turn to a miracle
High alive
My mind is racing
As it always will
My hands tired, my heart aches
I'm half a world away here
My head sworn
To go it alone […]
And hold it along
Haul it along
And hold it
Blackbirds, backwards, forwards and fall and hold, hold…

(R.E.M.)

Freddo. Non riusciva a pensare ad altro. "È arrivato l'inverno? Le penetrava nelle ossa, le soffocava i polmoni. "Non sentirò che questo freddo, per tutta la vita." Le sembravano soltanto pochi giorni da quando era arrivata in quella soffitta, con lo scrigno della sua armatura sulle spalle e lo zaino che le ricordava l'infelice vacanza in Grecia con tutti i suoi amici. Quasi stordita dal caldo estivo, lei che da sei anni non sapeva cosa volesse dire una giornata di primavera. E poi erano trascorsi mesi, durante i quali aveva cercato i suoi cari nel luoghi di addestramento in cui erano stati inviati. Soltanto per scoprire che di tutti loro soltanto sua sorella era di nuovo se stessa.
Kelly rabbrividì e richiuse la finestra. Non voleva girarsi. Girarsi voleva dire incontrare gli occhi di Christine, lucidi come i suoi. Girarsi significava continuare a vivere, tentare di venire a patti con la consapevolezza bruciante di quel dolore troppo crudele. Perché Dave non c'era più. Un pezzo della loro vita se ne andava via con lui.


"Pensa a loro, Kelly. Portali via da qui…"

La ragazza si portò una mano al viso. Non si era neppure accorta che fosse rigato di lacrime. Le scoppiava la testa. Soltanto sei ore prima lui era vivo. Le aveva gettato in mano lo stramaledetto elmo del Sagittario e le aveva urlato di non pensare a lui, di salvare i loro amici. Tipico di Dave. Un sorriso indisponente, un pessimo carattere e una generosità senza eguali. Anche se faceva sempre del suo meglio per nasconderlo. "Perché? Perché proprio tu?" Senza parlare, Christine si portò davanti a lei e l'abbracciò. Le parole erano superflue, e dolorose. Ognuna rischiava di aprire un'altra ferita.
Kelly sentiva le ultime energie abbandonarla. I singhiozzi la investirono, le tolsero il fiato e la forza nelle gambe. In ginocchio e con la mano ancora aggrappata al davanzale non riusciva a pronunciare una parola, ma sperava con tutto il cuore che le sue lacrime non scorressero invano. "Ti prego, dammi la forza. Se sei davvero Giustizia allora fa' che questo dolore non sia stato inutile…"
Christine continuava a stringerla, aggrappandosi alle sue spalle, alla sensazione della sua presenza viva e tangibile. Com'era tutto irreale… "Almeno tu non sparirai. Giurami che a te non succederà niente…" Un incubo, ecco cos'era. Un orribile incubo che la sua mente faticava ad accettare. Non riusciva neppure a piangere. Si sentiva ancora stordita, come nel momento in cui la tragedia di quel pomeriggio le era piombata addosso, lasciandole sulle spalle soltanto incredulità e un dolore così acuto da farle credere che nulla si sarebbe potuto ricomporre. Ma forse poteva ancora fare qualcosa, considerò, accarezzando i capelli di sua sorella. "Se non fosse stato per lui ora Kelly sarebbe qui da sola… e non l'ho neppure ringraziato."

"Un momento…" Un pensiero fugace le attraversò la mente: la percezione di una presenza familiare a pochi metri di distanza. "Non sarà…" — È ancora qui? — mormorò, sovrappensiero. Ma non aveva voglia di pensarci. Non aveva voglia di pensare a niente. Quando Kelly si sciolse dall'abbraccio con riluttanza, s'irrigidì d'istinto.

— Vado a prenderlo… — la sentì bisbigliare, a mo' di scusa. Chris abbozzò un sorriso stentato, mentre la guardava gettarsi una giacca a vento sulle spalle e uscire, lasciando la porta socchiusa.

Kelly si era diretta verso il lungomare, fulminando con un'occhiata inceneritrice il solito impasticcato che tentava di palpeggiarla ogni volta che usciva di casa dopo il tramonto; sapeva esattamente dove andare e sperava di fare in fretta. Con attenzione scavalcò la ringhiera di protezione e si inoltrò sulla barriera di scogli artificiali. Una figura accovacciata su una sporgenza si confondeva quasi perfettamente con l'oscurità. "Eccolo, il testadura…" nonostante la sua tristezza, il buio e un vago senso di colpa, avrebbe riconosciuto dovunque quelle spalle da urlo. "È ridicolo che non ne approfitti, o che le donne non si approfittino di lui. Ma forse c'entra qualcosa quella sua affascinante personalità…"

— Posso chiederti cosa diamine fai qui? —

Camus si scosse con un brivido, accorgendosi all'improvviso di aver freddo. Un tipo di freddo che non conosceva, che non veniva dall'esterno. C'era odore di neve, neve sul mare. Sarebbe stata una notte magica se da qualche parte fuori città non giacesse il cadavere di uno dei ragazzini di cui avrebbe dovuto essere l'angelo custode. — Christine non riuscirà a tornare da sola all'Isola di Andromeda… — rispose senza voltarsi.

Kelly preferì non rammentargli che anche lei avrebbe potuto aiutare sua sorella a tornare indietro, anche se non con la stessa rapidità. Si avvicinò, sfiorandogli la spalla con una mano. Era gelata. "Con questo tempo te ne vai in giro in maniche di camicia…" — Non ti ho chiesto perché sei rimasto a Tokyo. Vorrei sapere perché ti stai congelando su questi sassi. —

Nessuna risposta. La ragazza gli si inginocchiò davanti. Lo scrutò a lungo, senza riuscire a incrociare i suoi occhi. — Mi farai restare qui tutta la notte, maestro? — lo rimproverò dolcemente. Lui finalmente la guardò. Nessuna espressione. Soltanto stanchezza, e forse una muta preghiera di lasciarlo solo. Ma lei non poteva. Mai come in quella sera di lutto aveva distinto chiaramente ciò che era importante da ciò che non lo era. E non aveva mai compreso meglio le emozioni di quel giovane uomo troppo orgoglioso per chiedere aiuto. "Perfino tu hai bisogno di un po' di calore umano…" — Non pensare che sia colpa tua, Camus… —

— Dovrei saperlo… — mormorò lui, come svegliandosi da un sogno. Ma si riprese in fretta. — Non dovresti essere qui, Kelly. È stata una pessima giornata per te. —

"Ma sì, cambiamo discorso…" Era proprio come pensava. Il rimorso lo stava divorando. Per mesi se l'era augurato, aveva sognato che accadesse, povera sciocca che non era altro. Aveva sperato follemente che lui sapesse, che arrivasse a capire e provare un briciolo della sua pena. E adesso che una leggera crepa nella corazza d'oro le lasciva sbirciare all'interno, finalmente imparava quelle poche verità elementari: lui aveva sempre saputo quel che faceva, saperlo non gli aveva impedito di soffrirne e il suo dolore non riusciva in alcun modo a farla sentire meglio. Gli tese una mano. — Vieni via di qua… non vorrai ammalarti. — lo pregò.

— Sai che il freddo non mi tocca… — Camus guardò il palmo, debolmente illuminato dal lampione, poi lei. — Che hai fatto alle mani? — Gliele prese entrambe tra le sue e le esaminò attentamente, socchiudendo gli occhi. — Dovevi bendarle. Per quanto possano guarire in fretta, restano delle brutte ustioni. — Il terribile potere del cosmo della Fenice… Un'altra stilettata nel cuore della ragazza. "Dave… non ti vedrò più volare…"

— E non le hai ancora viste bene… — tentò di scherzare.

Ma a Camus non sfuggì la leggera incrinatura nella sua voce. — Come te le sei procurate? — di fronte al silenzio rattristato di lei, distolse lo sguardo. Le lasciò andare le mani. — Hai ragione, non sono affari miei. —

— Non era questo che intendevo… — Kelly si raddrizzò tremando. I primi fiocchi incominciavano a cadere.

Camus continuava a guardare altrove, indeciso sul da farsi. Improvvisamente si alzò in piedi, scrollando le spalle. Aveva voglia di fuggire. Da lei, dal suo compito, dal quell'insopportabile senso di fallimento che provava. E anche da quel sollievo crudele che gli riempiva il cuore di orrore. Kelly era salva. Solo questo importava, anche se soffriva terribilmente. Anche se uno dei suoi amici era morto al suo posto, lui non poteva fare a meno di ringraziare la Sorte di averla risparmiata. — Forse è meglio che torni al Santuario, intanto… Sai come chiamarmi, in caso di necessità. — Era desolata, non c'era altro termine per definirla. Ed era tutto merito suo. — Va' a casa e cerca di riposarti, ragazzina. Ne hai davvero bisogno.—
Sollevò una mano, appena, come per accarezzarle la testa, ma la riabbassò scuotendo il capo. Le diede le spalle, incamminandosi senza aggiungere altro. Non le avrebbe imposto ancora una volta la sua presenza, almeno questo glielo doveva. Anche se il desiderio di stringerla tra le braccia e consolarla stava diventando quasi doloroso.

"Non andare via…"

— Cos'hai detto? — Camus si era voltato di scatto, e la guardava come se si stesse chiedendo chi tra loro due fosse impazzito.

La ragazza arrossì vistosamente, distogliendo gli occhi. "Allora…non l'ho solo pensato…" Cos'era quella vergogna? In fondo era lì per quello… — Non te ne andare… Vieni a casa con me. —

Lo sguardo del suo maestro si addolcì appena mentre si avvicinava tanto da sfiorarla. La fissava in un modo che l'aveva sempre ipnotizzata. — Perché? — un sussurro, scuotendo la testa. Sembrava stanco quasi quanto lei.

"E tu, come sei sopravvissuto a questa giornata?" Voleva saperlo, realizzò all'improvviso, fissando il collo della sua camicia, il muscolo che gli si contraeva sulla guancia, unico, muto testimone della sua agitazione. Sollevò la testa per guardarlo in faccia. Non si era mai sentita tanto piccola e insignificante di fronte a lui. La sovrastava, sebbene non fosse tanto bassa per la sua età. Ma tutto sommato non le dispiaceva. Al contrario, le dava un senso di protezione. L'unica protezione di cui sentiva di avere bisogno quella sera. L'unica che avesse bisogno di offrire, per non sentirsi del tutto inutile. "Sei la mia boa di salvataggio…" — Hai promesso di aiutarmi… — bisbigliò. — Se c'è un momento in cui puoi farlo è questo. Non lasciarci sole… —

Lui non le rispose. Senza una parola, le circondò le spalle con un braccio e la pilotò verso la luce. Il ritorno fu tanto breve da non ricordare nulla del tragitto dalla banchina all'ingresso della sua casa. La porta si aprì con un leggero cigolio. Il volto di Camus era impenetrabile. Ma una sua mano continuava a stringerle la spalla.

~.~


L'elmo dorato venne posto su un piedistallo di marmo, sotto gli occhi attenti di Saori Kido. L'eredità di suo nonno. Il simbolo del suo sogno di dare il via ad una nuova stirpe di guerrieri devoti alla giustizia. "Il tuo sogno valeva tanti sacrifici, nonno?" Dopo quella giornata non se ne sentiva più tanto sicura. "Non è come giocare ai soldatini, nonno. E poi avevi ragione, non sono giochi adatti ad una signorina come me. Non se si tratta di soldatini in carne e ossa."

'Sarai tu la loro guida…' le aveva detto quella sera nella lussuosa camera d'ospedale. Lei non sapeva, non poteva immaginare che non l'avrebbe più rivisto. 'Ricordalo sempre, Saori…'

La loro guida. Lei aveva provato ad essere un capo. "Per ottenere cosa, in fondo?" Quella sera ne aveva avuto la prova.
Le occhiate, gli sguardi di disapprovazione di Shiryu e Hyoga. Gli occhi colmi di lacrime di Shun. Il silenzio teso di Altair, che se n'era andata per prima, senza che lei avesse il coraggio di trattenerla. Un'accusa muta, la loro, e in quanto tale, senza possibilità di giustificazione. A nulla erano valse le sue parole, che volevano essere di conforto. L'avevano guardata sì, con pazienza, come se lei non potesse capire davvero.
E poi c'era Seiya. Il modo in cui le aveva lasciato cadere sulla scrivania quello che avrebbe dovuto essere il trofeo di una vittoria, ritirandosi in fretta nell'angolo più lontano della stanza, come se la sua vicinanza la disgustasse, l'aveva ferita più di ogni altra cosa. Sapeva di non avere alcuna possibilità di fargli cambiare idea. Non ancora. "Credete che non abbia sentimenti, non è così?" Saori portò le mani al viso, lo coprì, desiderando immensamente che qualcun altro, oltre lei, le fosse lì ad elargirle un'identica carezza. Sospirò, di tristezza, paura e solitudine.
Non l'avevano abbandonata, non ancora, era quello l'importante. Erano rimasti al suo fianco, l'avevano vista rimproverare Tatsumi per amor loro, un gesto forse ineducato, che non aveva potuto evitare. E, lentamente, erano persino arrivati a sorridere.
Si lasciò cadere sull'enorme poltrona, quella che, da quando ne aveva memoria, troneggiava dietro la scrivania del fu Mitsumasa Kido. E inspiegabilmente il suo pensiero non riusciva a staccarsi da Ikki. Provava dolore per lui, rimorso per la sua sorte, come non avrebbe mai creduto possibile. La morte era improvvisa, ingenerosa. Immeritata. "Dov'è la giustizia in tutto questo, nonno? Se solo tu potessi ancora rispondermi…"

~.~


Kelly apparve sulla porta del cucinino, una tazza di caffè lungo in ciascuna mano. Sedette sulla poltrona gonfiabile, porgendone una al suo ospite seduto rigido sul divano. Camus ne vuotò metà in un sorso solo, producendosi nel suo miglior tentativo di dissimulare una smorfia da ustione. Lei sorrise appena. "L'uomo dei ghiacci non ha mai freddo, vero? Per questo ti stai mandando a fuoco le tonsille…" Lui intercettò il suo sguardo e le rivolse una delle sue occhiatacce di gelida irritazione. "Dave ti avrebbe trovato simpatico… e ti avrebbe preso in giro senza pietà."
Christine aveva sorriso a Camus, lo aveva ringraziato ancora e li aveva salutati. Un cenno a lui e una carezza tutta per lei ed era andata a prendere possesso del suo letto, proclamandosi distrutta dalla stanchezza. "Inventatene una migliore, sorellona…" Ma non aveva avuto tutti i torti, pensò, osservando Camus riprendere a sorseggiare la sua bevanda con la stessa circospezione di un artificiere. Avevano bisogno di parlare, loro due. E se dubitava fortemente che Camus si sarebbe degnato di mettere a tacere il suo orgoglio di fronte a lei, era del tutto convinta che di fronte ad una presenza estranea non gli avrebbe cavato di bocca una parola.

— Non ti ho ancora ringraziato per essere andato a… a prendere Christine… — lasciò cadere con falsa tranquillità.

Lui tuffò il naso nella tazza. — Non ho fatto niente di speciale… — sentenziò, con l'aria più distaccata possibile.

La ragazza lo ignorò. — …ma ancora non ho capito perché non sei venuto a casa insieme a lei. — Perché poi tenesse tanto a fargli vuotare il sacco, non era ancora riuscita a capirlo. Forse perché qualche angolo masochista e contorto del suo cervello tendeva ancora a considerarlo come un punto di riferimento. E la sua roccia non doveva e non poteva permettersi di franare. "Posso aspettare anche tutta la notte, sai?"

Lui l'aveva compreso perfettamente. "Ma come faccio a spiegarti? Se le cose tra noi fossero diverse…" Diverse, come? Quale ridicolo pensiero gli si era materializzato nel cervello? "Non esiste, un noi", pensò, "e non esisterà mai."

Lei continuava a fissarlo. Era certa di aver finalmente trovato il bandolo della matassa. — Pensavi che ti avrei sbattuto fuori? — insinuò, melliflua.

"Touché…" Aquarius si irrigidì visibilmente. — Non ne sei in grado… e te ne sei già accorta, ragazzina. —

"Lo so. E so anche che ci sono andata vicina." — Come se fosse questo, il punto… —

Camus scattò come se l'avesse morso una vipera. — E quale sarebbe, allora? — sibilò, posando con malgarbo la tazza sul tavolino basso di fronte al divano. Non era da lui reagire così. Ma niente come quella ragazzina era in grado di farlo saltare con una sola parola, rifletté. Di mandarlo in bestia o in paradiso nel giro di pochi attimi.

Lei si era raggomitolata a distanza di sicurezza, ma non aveva intenzione di mollare — Potresti rispondere chiaramente sì o no, per una volta. — insisté.

"Nega! Nega! Nega!" — È la tua domanda che non merita risposta, ragazzina. Non c'è una sola ragione sulla Terra per cui dovrei temere che tu mi sbatta la porta in faccia — ritorse immediatamente, nel modo più sprezzante possibile. Diamine, quella… quella marmocchia! Come si permetteva di… di… "…di prenderti alla spalle e mandare a monte tutte le tue difese?"

Kelly stava rapidamente perdendo le staffe. Balzò in piedi, e il dolore di quel gesto avventato sui suoi muscoli martoriati fu troppo per la sua pazienza. "Ok, ci ho provato. Ma la mia riserva di autocontrollo è a secco da un pezzo." — Me? Qui non si parla di me, non se n'è mai parlato. Si tratta di te! — sbottò, furiosa — L'avrai capito anche tu, che questo è soltanto l'inizio. E non è forse una magnifica sensazione di dejà-vù? Oggi io ho perso David, come quel giorno tu hai perso il tuo amico Aioros! E come te allora io non l'ho potuto impedire! — gridò quasi, trattenuta soltanto dalla preoccupazione di non svegliare sua sorella.

"Maledizione, non dirlo…" — Kelly… — provò a interromperla, nel tono più deciso che riuscì a trovare.

Lei non gli badò affatto. Sembrava parlare soprattutto per se stessa. — E tu… Dio, sei… sei… — riprese, sottovoce. — Cosa credevi, che ti avremmo fatto pesare ciò che è successo? Che te ne avremmo addossato la colpa? Non ti è passato per la testa che io sia già abbastanza impegnata con il mio rimorso per pensare di crocifiggere qualcun altro? Io, io ero lì, non tu. Io sono rimasta impalata con quel maledetto elmo tra le mani. Io… non sono riuscita ad impedire che Dave… — la voce le si strozzò in gola. — Non sono riuscita a impedirglielo. Se solo il tuo Gran Sacerdote si stancherà di giocare li perderò tutti. — Deglutì un paio di volte. — Chi di noi due ha diritto di sentirsi in colpa, adesso? — sussurrò.

Colpito e affondato. Stentava a riconoscerla, la ragazzetta immatura che si era quasi lasciata uccidere per mero sentimentalismo. Il suo sguardo era molto più duro adesso, come se quella giornata l'avesse invecchiata di anni. E il tono di voce era quello di chi aveva visto troppo, per una sola vita. "Povero sciocco. Le rispondi ancora come si fa con una bambina, ma lei ha capito, molto più di quanto avresti creduto." Camus si guardò le punte dei piedi, poi alzò lo sguardo sulla finestra. "Ha capito che non c'è ritorno." — Kelly… ora che ci penso non ti ho neanche detto grazie per questo ottimo caffè… —

Lei si allungò di nuovo sulla poltrona. "Questo sarebbe il tuo ramoscello d'ulivo? È un po' misero… ma posso accontentarmi." — Non ho fatto niente di speciale… — lo scimmiottò.

La regina delle pessime battute. Che forse, almeno in quello, non sarebbe cambiata troppo. — Chiudi il becco, piccola strega… Non hai nessuna idea di cosa sia il rispetto… —

— Proprio come te della fiducia, a quanto pare… — commentò la ragazzina, per nulla impressionata.

Camus si limitò a guardarla di traverso, tanto per darsi un contegno. Sarebbe mai riuscito da avere ragione di lei? Ma non aveva nessuna voglia di ribattere. Kelly rispose con una smorfia, alzandosi e dirigendosi in bagno rigidamente. Lui rimase seduto, a riflettere. Sapeva che la ragazzina aveva ragione. E che forse anche lei aveva capito che la solitudine interiore di quegli anni gli aveva fatto più male di quanto avesse creduto. La consapevolezza l'aveva attraversato in pochi attimi, respirando l'aria di quella casa, cogliendo l'intesa tra Kelly e sua sorella. Era quella, la fonte della loro resistenza alle avversità. La stessa sensazione, lo capiva ora, che aveva provato davanti a quel pacco di polaroid scolorite che raccontavano la loro storia. Quello, forse, poteva essere il calore di una famiglia. "Ma cosa voglio saperne io… a parte Milo, sono stato sempre solo… " Un tonfo sordo, seguito da una imprecazione soffocata, lo riportò con i piedi per terra. Camus scosse il capo, divertito suo malgrado. "Slanciata, pallida e delicata… una bambola, se solo tenesse la bocca chiusa" pensò, alzandosi per andarle incontro.

Kelly riemerse in quel momento, le mani bendate alla bell'e meglio. Strano, ma soltanto allora si accorgeva che indossava ancora la tuta nera e gli scaldamuscoli che portava sotto l'armatura. Si era raccolta i capelli chiazzati qua e là di sangue e di polvere con un fermaglio piuttosto male in arnese. Zoppicava, il viso graffiato e gli occhi cerchiati di nero. "Non ti eleggeranno di certo Miss Santuario stasera…" Eppure, non gli aveva mai ispirato tanta tenerezza. "Dovresti dormire. Ma tanto se te lo dicessi non mi daresti retta." — Ragazzina, sbaglio o non ti reggi più in piedi? —

— Però, che occhio… diciamo che ho visto giorni migliori. — borbottò lei, artigliando lo stipite della porta, il viso contratto nel tentativo di arginare il dolore. La gamba destra che Docrates aveva colpito aveva cominciato a pulsare in maniera insopportabile non appena si era scontrata con il cesto della biancheria sporca. "Non credevo di essere ridotta così male…"

— Che fanciulla dolce e gentile — commentò lui. — Sarebbe un peccato non aiutarla. — Kelly. L'unica che avesse avuto il coraggio di cantargliene quattro. Che fosse dalla sua parte e lo facesse sentire ancora vivo. "Da quando sei tornata la vita ha cambiato colore…"

Kelly non fece in tempo a rispondere che si sentì sollevare e deporre sul divano con attenzione. "Prendimi pure in giro… Ma sorridi… Diventi un'altro, quando sorridi." — Hai davvero una gran faccia tosta, lo sai? — "Una bellissima faccia tosta, accidenti a te…"

Lui la guardò intensamente. "Quanto vorrei poterti portar via…"
— Kelly, vedrai altri giorni migliori di questo. Puoi esserne certa — disse con dolcezza insolita, chinandosi a sciogliere le sue bende. Sentiva che era il momento di cambiare discorso — Potevi anche chiedermi aiuto per queste bruciature, comunque. Non mi sembra che tu sia in grado di occupartene. —

La ragazza si abbandonò contro la spalliera con un piccolo sorriso stanco. Lui e il suo atteggiamento scostante, falso fino al midollo. Provava un strano senso di benessere, misto ad un sottile disagio. Sapeva che anche lui stava ricordando l'ultima volta che le sue mani avevano avuto bisogno di cure. — Vuoi ancora sapere com'è andata? —

Lui si fermò, le dita che per un istante solo sfioravano le sue, come se avesse voluto stringerle. — Ragazzina, non sei obbligata a farlo. Forse… è meglio che ci pensi il meno possibile. —

— Tu credi davvero che smetterò di pensarci? — sussurrò lei, scettica.

Camus passò le dita sui suoi palmi in fiamme. Kelly si era limitata a disinfettarli, a spalmare una pomata per le ustioni. Il dolore doveva essere insopportabile. Pensò che sarebbe bastato poco per rinfrescarli, per darle sollievo col suo potere. "Perché non l'hai fatto tu?" Constatati i danni, cominciò a bendarle daccapo le mani, senza tentare nulla di più. Forse aveva capito. — No. Non succederà — disse piano, senza osare guardarla. "Ti stai punendo, vero?" — Ma scoprirai di essere più forte di quanto tu creda. E col tempo troverai la forza di conviverci. —

"A te è andata così?" — Dai, siedi qui… — lo invitò. Tentò di spostarsi di lato, ma una fitta terribile le strappò un'esclamazione soffocata. — Maestro, sii gentile. — ansimò, indicando la sua sinistra — Prendimi la scatola gialla che trovi sul terzo ripiano di quella libreria. Non credo di poterci arrivare da sola. —

Lui eseguì, piuttosto preoccupato. — Kelly, questo non è il Santuario e io non ho il talento del guaritore. Non sarebbe meglio che ti portassi in un ospedale qualsiasi? —

La ragazza scosse la testa. — L'unico dove non mi farebbero domande imbarazzanti sarebbe quello della Fondazione. No, grazie. — aprì la scatoletta e prese qualcosa che somigliava ad una fiala lunga un dito — E poi è meglio che nessuno che graviti attorno a Saori Kido mi veda insieme a te. Abbiamo già abbastanza da fare con i sorveglianti che mi mette alle costole credendo che non me ne accorga. — Si scambiarono uno sguardo e lei sorrise, al pensiero del numero impressionante di teste ammaccate che dovevano far ritorno a Villa Kido, intontite e senza alcun ricordo di cosa le avesse colpite. E Camus, doveva rendergliene atto, era persino meno delicato di lei.
Quella storia doveva finire, in ogni caso. "Dev'essere una brillante idea di Zuccapelata. Sarà meglio fargli presente che per il suo branco di gorilla hanno aperto un magnifico zoo…" Svitò quello che sembrava un grosso tappo, rivelando un ago da iniezione.

— Sì, ma… — Camus si zittì di colpo quando la vide conficcarsi la punta sottile nella coscia, attraverso i vestiti, e stringere la fiala. — E quello che sarebbe? —

— Un antidolorifico potente… e rapido, per fortuna. Non credevo ai miei occhi, quando l'ho trovato da questo lato del Portale, ma sembra che il mercato nero sia uguale dappertutto. È molto utile durante le missioni. Chissà perché, avevo il sinistro presentimento che uno di questi giorni sarebbe servito. — gli sorrise, tentando di cancellare quell'espressione tetra dal suo viso. — Non fare quella faccia dubbiosa, maestro. Dimentichi troppo spesso che so badare a me stessa. Sono una tua allieva, questo conterà pur qualcosa. E sono anche una spia al servizio di una ereditiera, in attesa della Dea della Giustizia. — "Già. E per quelli come noi una vita vera non è prevista."

— D'accordo, ma ora restatene calma almeno per qualche minuto… — replicò lui deciso, chinandosi a terminare la fasciatura.

La ragazza scosse la testa, cominciava a sentirla incredibilmente leggera. Con un po' di fortuna, entro un'ora avrebbe visto i Rosa Elefanti. O sarebbe crollata come un sasso. — Incredibile… sei lo stesso che per sei anni mi ha quasi pestato a morte? — lo prese in giro. — Oppure tieni che nessuno ti privi del piacere di sopprimermi con le tue mani? —

"Questo è un colpo basso…" — Stavo pensando di cogliere l'occasione favorevole stasera stessa, infatti — ringhiò il suo maestro, un dito ammonitore che danzava ipnotico sotto il suo nasino delicato.

"Gentile da parte tua cercare di distrarmi… ma non crederai davvero di riuscirci…" — Sai, Dave era perfino più forte di quanto che mi aspettassi. Il suo potere aveva qualcosa di spaventoso — cominciò all'improvviso, cogliendo Camus di sorpresa. — Ma non è stato per questo che è quasi riuscito ad uccidermi. Non solo. Era come impazzito. Era… un demone, un mostro assetato di sangue. Eppure, in alcuni momenti riuscivo quasi a riconoscerlo. C'era qualcosa di lui che era sopravvissuto a Death Queen Island. David non era scomparso del tutto. — sussurrò, gli occhi bassi. — Allora ho fatto qualcosa che non avrei mai creduto… Aveva abbassato la guardia per un attimo, volevo solo tentare di calmarlo… e ho visto il suo passato. — Chinò il capo ancora di più.

"Posso vederle lo stesso, quelle lacrime…" Camus si rialzò. Aveva finito di bendarle le mani. — Sei riuscita ad entrare in contatto con la sua mente? — le chiese, sentendosi a metà tra il compiaciuto e l'incredulo.

— Non so come sia successo… — Kelly si prese la testa tra le mani, le tempie le pulsavano quasi quanto i palmi bruciati. — Credevo di aver visto tutto. Che niente potesse essere peggio dell'essere costretti a diventare assassini a comando, o finire in casa di un vecchio rimbambito che ti spedisce sulla cima del mondo alla ricerca di un'armatura mitologica da esibire in uno spettacolo da circo. Ma quello… era l'inferno in terra. E non faccio che chiedermelo… perché proprio lui? Ma so che non troverò mai una risposta. —

— È per questo motivo che ti ha colto di sorpresa, vero? — Forse parlarne poteva davvero aiutarla. Svuotarsi e ricominciare da zero. Lui neppure ricordava se c'era mai riuscito.

Kelly annuì in silenzio. Caldi rivoli cominciarono a solcarle le guance, senza che ci facesse più caso. Ma sua voce era ferma come se stesse parlando del tempo. — Non sono stata capace di proteggerlo. Non sono stata capace di proteggere nessuno di loro. Avrebbe potuto ucciderli tutti, mentre io recitavo la bella addormentata dentro quella graziosa grotta calcarea… — Il dolore si era affievolito parecchio, e la ragazza era riuscita a mettersi seduta, la gamba ferita distesa con prudenza su uno sgabello che lui aveva prontamente posto di fronte a lei.

Camus si lasciò cadere alla sua destra. "Lacrime silenziose… Qualcosa sta morendo dentro di te. Ed io non posso impedirlo." — L'ho sentito. Per un momento — si lasciò sfuggire. "Un altro tiro come questo e ti strangolo con le mie mani…"

Lei scosse la testa tristemente. — Ecco perché sei venuto a vedere… — Chiuse gli occhi. — Ti ho deluso, vero? Non ho voluto ascoltarti, ed è andata esattamente come avevi previsto. —

"No, questo no…" Il santo di Aquarius la prese per le spalle, scuotendola con una durezza che non riusciva a spiegarsi. — Smetti di piangerti addosso, Kelly. Hai fatto tutto il possibile. E nessuno ti biasimerà per ciò che è successo oggi. Né tua sorella, né i tuoi amici. — Solo alla fine si rese conto della smorfia di dolore sul viso della ragazzina. La lasciò andare di colpo, vergognandosi. "Vuoi darle il colpo di grazia, genio?"

Lei stava sorridendo. Ma era un sorriso amaro, da stringergli il cuore. — E tu, allora? —

Quella sì che era una sorpresa. — Da quando t'interessa tanto ciò che penso io? — le rispose, piano, le parole che quasi gli si fermavano in gola. Gliene importava troppo, ma ne era solo vagamente consapevole. Tutto ciò che riusciva a mettere a fuoco erano quei dannati occhi viola che lo fissavano, increduli e tristi. Era così maledettamente difficile ricordarsi di cosa stava parlando… "Quanto, prima di fare qualcosa di irreparabile?"

Ma la ragazzina già non badava più a lui. Gli occhi le si velarono ancora, mentre li distoglieva pudicamente. Ma ormai non avrebbe pianto più. Sembrava non esserne più capace. — Sai perché siamo ancora vivi? — sussurrò, spezzando l'incantesimo. — È successo in un istante… Dave… aveva ricordato. Mi ha chiamata per nome. Mi ha lanciato in mano l'elmo e ha fatto crollare il fianco della montagna sui nostri aggressori. Lui non è riuscito a scappare, era ferito troppo gravemente. L'ho visto un attimo prima che la frana lo travolgesse. E in quel momento… nell'attimo in cui forse avrei potuto salvarlo… i miei poteri sembravano scomparsi. Ho fallito. Qualunque cosa possiate dirmi adesso, io so che è stata colpa mia. —

"Colpa tua…" Continuava a ripetere quelle parole, come una litania. E Camus seppe con assoluta chiarezza che d'ora in poi un nuovo muro si sarebbe innalzato a dividerla da tutto e tutti. Compreso lui. — Kelly, per favore, ascoltami… —

— Sono rimasta immobile per non so quanto, con quel maledetto pezzo di ferraglia dorata in mano. Riuscivo soltanto a pensare… Se solo… se solo… — "Nessuno di voi mi avesse mai incontrato, vero?" Eccola, la stilettata era in arrivo. Non poteva dire di non essersela aspettata. "Fatti avanti, se ti fa stare meglio. Non mi opporrò. In fondo hai ragione…"

Credeva di essere preparato a qualunque cosa lei avrebbe detto, o fatto, da quel momento in poi. Ma non era pronto a sentire il braccio sinistro sollevarsi da solo. Né a sentirsi cingere dolcemente la schiena. E neppure a ritrovarsi nelle narici l'inaspettato profumo di una testa bionda che si posava delicata sulla sua spalla. — Credi che ci sentiremmo meglio se… se potessimo tornare indietro? —

"Athena, se è vero che sei in città, tirami fuori da questa situazione…" — Non lo sapremo mai… Non vale la pena di chiedercelo, Kelly. — mormorò.

Lei si divincolò appena. — Pensavo… Cos'è che mi hai insegnato? Prendi ad esempio la freddezza del ghiaccio. In battaglia lasciati tutto alle spalle. Persegui l'obiettivo senza lasciarti distogliere da nulla. È questo che mi hai ripetuto per anni. Quando sono andata via dal K2 non avrei mai pensato di potertelo dire, ma avevi ragione tu. — Chiuse gli occhi con aria sfinita — Oggi Dave è morto perché io non ho mai capito nulla. — "E non merito neanche di stare qua a lamentarmene…" pensò, cercando di alzarsi.

"No…" Camus serrò d'istinto le braccia, come ad impedirle di allontanarsi ancora. "Ma che diavolo sto facendo?" Lei ricadde indietro e lo fissò, stupita. — Ora smetti di commiserarti… — scandì con chiarezza. Gentilmente la costrinse ad appoggiarsi di nuovo contro di lui. "Resta qui e aiutami a sentirmi meno inutile…"

— Grazie… maestro. — bisbigliò Kelly con tono deferente. Lui si chiese se nella confusione della battaglia non l'avesse colpita un masso particolarmente pesante. Ma solo per un momento. — Non ti sembra vero che ti abbia dato ragione, o sbaglio? — la sentì aggiungere.

"Ecco, ora ti riconosco…" Non si degnò di rispondere. Faceva parte del gioco. Rimase sul quel divano, in silenzio, cercando di riconoscere gli intricati disegni di delle costellazioni che intravedeva appena, attraverso il vetro della finestra.

~.~


"Non è vero, non è vero, non è vero…" Shun fissava il vuoto, sprofondato nell'enorme, funereo letto che da solo occupava quasi metà della camera assegnatagli a Villa Kido. "Mi sveglierò domattina e scoprirò di aver sognato tutto." Eppure lo sapeva. L'aveva visto con i suoi occhi. Suo fratello inghiottito dalla montagna, cancellato dalla faccia della terra davanti ai suoi occhi. "Voglio dormire…" tutto ciò cui riusciva a pensare. "Per sempre." Dormire e non pensare più a nulla. "Come se fosse facile… E per quanto non abbia nessuna voglia di svegliarmi domani so che lo farò. Perché te lo giuro, fratello. La tua morte non sarà vana. Anche se…"
Gli occhi verdi del Cavaliere di Andromeda in un attimo furono colmi di lacrime amare, ancora una volta. "…niente ti riporterà indietro…" concluse tristemente, sprofondando in un sonno senza sogni.

~.~










Angolo della vergogna™


Beh, che dire... Il francese di carta è tornato, signore et signori... e Sagitta cara. Forse troppo morbido, in questa occasione, ma perdonate lui e i suoi giustificabili sensi di colpa se questa volta ha ceduto e ha lasciato che la ragazzina si permettesse perfino di abbracciarlo. Lui non l'ha presa bene, posso assicurarlo. Come al solito, minaccia la mia integrità fisica per la pessima figura che gli ho fatto fare. Ha una dignità, dice lui... ho tentato di fargli capire che dopo essersi fatto piallare dal Saint dell'Anitra WC ha perso qualunque diritto a fare la predica a me, ma ha colto l'occasione per augurarmi la castità vita natural durante (lui ne sa qualcosa, pare. E come sempre, non ritiene sia colpa sua) ed è andato a farsi consolare. Da chi, non me l'ha detto. Finirà davvero per scriverla, la one shot che Philos mi chiede da mesi, su lui e la moglie sdentata e allupata del capovillaggio di Askole...
Deliri domestici a parte, voglio cogliere l'occasione di ringraziare ancora tutti, lettori, recensori, amici e cacciatrice di svarioni (Philos, ti voglio bene, sappilo!): senza di voi, scrivere queste fesserie sarebbe bello meno della metà.
Al prossimo capitolo!

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Capitolo 11
*** Track #10: Time Of Your Life ***


Track #10:Time Of Your Life TRACK # 10

TIME OF YOUR LIFE

Another turning point;
a fork stuck in the road.
Time grabs you by the wrist;
directs you where to go.
So make the best of this test
and don't ask why.
It's not a question
but a lesson learned in time [...]
So take the photographs
and still frames in your mind.
Hang it on a shelf
In good health and good time.
Tattoos of memories
and dead skin on trial.
For what it's worth,
it was worth all the while...

(Green Day)




"Non è possibile…" Camus aprì gli occhi come se fosse la cosa più faticosa del mondo. Il minuscolo soggiorno si stava colorando appena, di quella luce tiepida e rosata che precede l’alba. Si chiese se parte non provenisse dal sorriso della ragazza bionda che l'aveva svegliato con un tocco leggero sulla spalla. Si era addormentato in una scomoda posizione tra il seduto e lo sdraiato. Provò a muoversi, le sue ossa protestavano tutte a gran voce e un mugolio indistinto proveniva dal peso che ora avvertiva sul petto. Abbassò lo sguardo. E quando riuscì a mettere a fuoco chi gli stava dormendo addosso il suo colorito divenne scarlatto.

Christine stava ridacchiando discretamente. — Non so perché, ma quasi me l'aspettavo. Chi è crollato per primo? — "Tu di certo. Altrimenti ti saresti volatilizzato prima che qualcuno potesse avvistarti." Gli strizzò un occhio. — Cerca di alzarti senza svegliarla. Il caffè è pronto— bisbigliò.

Pareva piuttosto divertita dal suo imbarazzo. A lui ricordò distintamente sua sorella al Tempio dell'Acquario. "Almeno questa volta sono vestito…" Scosse la testa, ancora frastornato. In un soprassalto di lucidità si ricordò delle buone maniere — Uhmm... grazie, Christine… —
Lei si voltò a metà, un sorriso di sbieco. — Vieni a far colazione… hai l'aria di chi non dorme da settimane. —

Camus si sollevò lentamente fino a mettersi del tutto seduto, reggendo contro la spalla la testa arruffata di Kelly. "Sei bella, ragazzina…" La sentì mormorare qualcosa, senza svegliarsi. Provò un istintivo e ridicolo fastidio, al solo pensiero dell'uomo che prima o poi avrebbe diviso le notti con lei. Che si sarebbe svegliato con i suoi capelli sul viso. Strinse i denti. "Forse qualcuno l'ha già fatto." Qualcuno che lei chiamava 'amore’ e che le portava il caffè a letto. Magari lo stesso insulso ragazzetto che l'abbracciava in quella fotografia… Qualcuno cui non doveva dedicare un solo pensiero, in effetti. "Non sono affari tuoi…"
Scivolò via, adagiandola con delicatezza sui cuscini. Diede un'occhiata all'orologio colorato sulla parete. Le cinque e mezzo del mattino. Che ore potevano essere in Grecia? "Fantastico. Milo mi aspetta da un’ora."
Si decise a raggiungere Christine in cucina, la mano tesa ad afferrare la tazzina piena di pozione del risveglio. Espresso, ristretto e mortale, che Zeus benedicesse quella ragazza. Esattamente ciò di cui aveva bisogno. "Una pentola intera, per favore."

 — Latte, zucchero, o entrambi? —

Si abbatté su una sedia. "Ci vorrebbe altro che un sonnellino fuori programma…" — Ne-nessuno dei due, grazie — rispose, strascicando le parole. "Un anno sabbatico, ecco cosa mi ci vuole. Posto che qualcuno di noi ne esca vivo."

 — Torno tra un momento... — Christine andò a prendere qualcosa con cui coprire sua sorella. Kelly sorrise nel sonno e si avvolse nella coperta, acciambellandosi come una gatta.
Camus non poté impedirsi di fissare quella ragazza con un rinnovato rispetto. Luminosa, ecco come si poteva definirla. E rassicurante. Non era nulla che avesse a che fare con l'età, no, era piuttosto una questione di animo, di predisposizione. Christine era una persona materna, forse la prima che avesse mai conosciuto. La sua voce bassa e morbida aveva qualcosa che invitava alla confidenza. La guardò riempire di latte e cereali al cioccolato una tazza adatta a servire un reggimento. — Mi spiace, credo che siano rimasti soltanto questi. —

"Mai amato il cibo per galline…" — Non preoccuparti, Christine, davvero. Anzi, è ora che me ne vada. —

Lei scosse la testa con disapprovazione — Se non fosse stato per te ieri non avrei saputo niente. Non posso permettere che tu muoia di fame — lo redarguì, con un tono che non ammetteva repliche. Brandiva un cucchiaio di legno, comicamente minacciosa. — Oppure preferisci combattere? Non sono male con la frusta… —

"Ce n’è uno che non sia svitato, in questa famiglia?"

 — È un piacere discutere con te… — Non aveva mai mangiato cereali in vita sua. Se Milo lo avesse visto in quel momento si sarebbe divertito come un matto, gli avrebbe rubato la tazza e avrebbe ribadito ancora la sua teoria sulle donne e sulla sua totale incapacità a trattare con loro.
"Milo."
Più probabilmente lo avrebbe ridotto ad un colabrodo per aver fraternizzato con il nemico. Tenerlo all'oscuro di tutto gli stava costando troppo. Per quanto ancora avrebbe potuto nascondergli le trame che stava tessendo contro il Sacerdote? Presto il momento della scelta sarebbe giunto per tutti loro, e il loro legame così come era cresciuto negli anni si sarebbe inevitabilmente spezzato. E chissà se sarebbe rimasto qualcosa che valesse la pena ricostruire. O, per lo meno, qualcuno con cui farlo.

Senza neanche accorgersene, si ritrovò a guardare oltre la soglia della cucina. Kelly era ancora addormentata su quel divano, le ginocchia raccolte e le mani abbandonate vicino al viso. Doveva ammetterlo, la situazione gli stava sfuggendo di mano. Ma non per i motivi che la ragazzina aveva creduto di indovinare, non solo. Quella notte era riuscita a spiazzarlo, completamente. Non l'aveva accusato, non aveva recriminato, non aveva fatto niente di quanto lui si sarebbe aspettato, e in una certa misura riteneva di meritare. Non gli era rimasto altro che accettare senza domande quella fragile fiducia che lei sembrava decisa a concedergli, cosa che gli era risultata fin troppo… sì, era stato sin troppo facile assecondarla, e tenerla stretta mentre parlava, un gesto che lei sembrava apprezzare, finché le sue frasi erano diventate più rare e incoerenti, un mormorio spezzato che non riusciva a decifrare. Un improvviso silenzio, il suo respiro più fondo, gli occhi chiusi… aveva compreso che era ora di andarsene. Ma non ce l'aveva fatta. Invece l'aveva sistemata meglio contro il torace per farla stare comoda. Lei aveva sospirato di soddisfazione, accoccolandosi. "Un attimo solo… voglio guardarti ancora…" non gli sembravano trascorsi che pochi minuti, quando sua sorella lo aveva svegliato. Con la schiena incordata e il suo respiro che gli solleticava il collo.

 — Ti è molto affezionata, lo sai? — Christine stava guardando lui. E con molta attenzione. Si sentì del tutto inerme, e molto poco disposto a permetterlo. "Oh, al diavolo…"

 — Christine… — incominciò. Si accorse di non trovare le parole giuste. Perché a lei non aveva voglia di mentire. Aveva mentito troppo sino ad allora.

La ragazza gli porse la tazza che aveva preparato. Era molto seria, e probabilmente non si aspettava una risposta. Almeno, non a parole.
 — Non deluderla più. È la prima volta che vedo mai sorella concedere una seconda opportunità. Forse in un'altra situazione non mi sarei intromessa, ma l'ho spinta io a farlo… e finora non me ne sono pentita. Ma tu non mettermi i bastoni tra le ruote. — Gli sorrise, di quello stesso sorriso con cui, lui ne era certo, avrebbe potuto ucciderlo, se lo avesse pescato a mettere a repentaglio la sua famiglia. — Non trattarla più come se non potesse capire, e dille sempre la verità, per quanto scomoda. Non è molto divertente lottare fianco a fianco con qualcuno di cui non ci si può fidare. Noi sappiamo che può costare la vita. —

In altri tempi si sarebbe risentito per quella intromissione: nessuno aveva mai potuto permettersi di dirgli cosa fare. Ma quella ragazza possedeva una rara capacità di farsi ascoltare.
 — Lo farò ogni volta che mi sarà possibile, Christine — le promise. Era quella, l'unica risposta che poteva darle. L'unica che valesse la pena darle.

Lei sorrise, questa volta con autentico calore. Qualunque prezzo le costasse mantenere quella parvenza di tranquillità era in grado di nasconderlo bene.
 — Gli amici, di solito, mi chiamano Chris… — "I miei amici…" La ragazza si passò una mano tra i capelli. Quella piccola parentesi era finita. Era ora di tornare al mondo reale. Ma quanto poteva essere reale un mondo fatto di sangue versato in nome di ideali di cui al loro non poteva importare nulla, di assurdi doveri verso una divinità sconosciuta, che si era portato via il loro David? E quanto senso poteva avere lasciare sua sorella in pasto ai leoni?
 — Tra poco dovrò andare via. Potresti aiutarmi? — Muoversi alla velocità della luce. Sembrava una follia, anche per lei che pure era una Prescelta di Athena. Ma il mistero della luce che circondava i Dodici era qualcosa che sarebbe sempre rimasto al di là della sua portata. Christine lo sentiva, a livello di puro istinto, percepiva l’immenso e letale potere che Camus teneva celato, appena sotto la pelle, assopito eppure pronto a scattare. "Tu sei fatto di un’altra pasta, come un lupo in un branco di pecore. Forse non dovremmo dimenticarlo."
Eppure, in quel momento tutto ciò che riusciva ad intravedere era soltanto un ragazzo assonnato, che quella notte aveva fatto per loro molto più di quanto sarebbe stato suo dovere. Gli sorrise, prima ancora di rendersene conto.

Camus si sforzò di ricambiarla, senza riuscirci. Avrebbe preferito tenerla il più lontano possibile dalla sua isola. Aveva un pessimo presentimento a riguardo. — Sono qui per questo, in fondo… —

La ragazza lo fissò, affrettandosi a mascherare lo scetticismo che le si stava dipingendo in volto. "Lo sappiamo entrambi, perché sei rimasto. E io non c'entro granché." — Davvero? — gli rispose, forse più beffarda di quanto avrebbe dovuto.

Il guerriero lanciò un'occhiata oltre la porta. Kelly continuava a dormire pacificamente. — Lei sa perché resti ancora all'Isola di Andromeda? — ritorse con aria innocente. "Neanche tu sei del tutto sincera…"

 — Si — rispose Christine in fretta. "Troppo in fretta, ragazza." — Più o meno. —

 — Più o meno… significa che non le hai detto proprio tutto, vero? — Camus sospirò. — Sarebbe molto meglio che tu ti tenessi alla larga da quel posto. Albion ultimamente non è molto popolare al Santuario. E lo conosco abbastanza da ritenere che te ne abbia parlato. Si preparano grossi guai, per lui e per tutti quelli che gli sono vicini. — si fissarono per alcuni minuti. L'unico suono a rompere il silenzio era il ticchettio dell'orologio a muro. — Ma è proprio per questo che non te ne andrai… —

La vide stringere le labbra. — Non posso fuggire soltanto perché il gioco si fa pericoloso — replicò decisa, ma senza acrimonia. — Non mi tirerò indietro. Anche se conosco perfettamente il pericolo che stiamo correndo

"Io non credo che tu lo sappia davvero…" Camus rigirò a lungo il cucchiaio nella tazza ormai vuota. — Christine, questa è la tua vita, e non cercherò di convincerti a fuggire. Non l'ho insegnato a tua sorella e non lo predicherò di certo a te. Ma presta attenzione al mio avvertimento. Al Santuario esistono forze di cui non sospettate neppure l'esistenza. Cavalieri potenti abbastanza da spazzare via la tua isola dalle carte nautiche facendo ricorso alla metà delle proprie forze. Sii prudente, per lo meno. —

La ragazza si rilassò — Lo farò — replicò dolcemente — Come si può ignorare tanta saggezza? — concluse con un sorrisetto divertito.

Camus si alzò. — Per me è davvero tempo di andare, Christine. Ma tu resta ancora qualche ora. — Abbracciò con un'ultima occhiata la figura distesa sul divano. — Quando tua sorella si sveglierà avrà bisogno di te. —

 — Lo vorrei, ma… — tentò di ribattere lei, con scarsa convinzione.

Il ragazzo più grande la zittì con un gesto. — Fidati di me, Chris. Qualunque iniziativa Arles possa prendere, non credo partirà oggi. — La bassa manovalanza non avrebbe potuto tenere testa ad Albion, l'aveva già considerato, e Arles non avrebbe sprecato tempo ad inviarne. Era troppo accorto per mettere la sua vittima sul chi vive. E quanto agli altri, ben più pericolosi… avrebbe avuto bisogno di un buon motivo per scomodare un sicario d'oro. "Chissà se Cepheus lo sa…" — Ma terrò gli occhi aperti, in modo da essere preparati. — "Non morirai anche tu. Non se posso impedirlo."

Christine rimase a guardarlo con le mani sui fianchi, divertita e incuriosita insieme. Camus reagì con una scrollata di spalle, un cenno di saluto che voleva ristabilire le distanze, ma che probabilmente era riuscito soltanto a farlo sembrare timido. Raggiunse la porta simulando una noncuranza da primato. "E ora cosa racconto a Milo?" Ma la voce della ragazza lo richiamò indietro.

 — Kelly ha bisogno anche di te… cerca di tenerlo a mente. —

"Ti sbagli, Christine. Il meglio, per te e tua sorella, sarebbe non avermi mai conosciuto."


~.~


Lo stava aspettando in cima alle scale che portavano all'Undicesima Casa, con il bavero del suo impermeabile di pelle sollevato per difendersi da quei primissimi freddi, in verità davvero miti. Per il Padrone delle Energie Fredde, e per chi era stato suo allievo, quel cambio di temperatura non aveva alcuna importanza. Ma il 'temibile Gold Saint dello Scorpioné’ soffriva il freddo in un modo quasi patologico.

Camus ebbe un sorrisetto assolutamente involontario, al riaffiorare di uno dei suoi ricordi più divertenti. Il mentecatto della Tredicesima gli aveva appena affidato la responsabilità di una bambina che gli era stata segnalata dai 'suoi' contatti giapponesi. Milo, e il suo dito medio sollevato con un sorriso amabile quando l’aveva invitato sul K2… Quella notte, l'aveva passata all'Ottavo Tempio. Ad impedire al suo occupante ebbro di retsina di fare il giro del Santuario vestito solo di un paio di boxer con la scritta: 'Chiuso per lutto'. Quell'oggetto di fine buongusto si trovava ancora in qualcuno dei suoi cassetti, ci scommetteva una mano, così come scommetteva sulla sua poco edificante provenienza. E ricordava ancora quanta fatica gli era costato riuscire a mettere a letto l'esibizionista. "Un po’ di sobrietà mi avrebbe giovato, però…"

Camus aveva ancora un'ombra di sorriso sul volto, mentre si fermava di fronte al suo amico. "Che la Dea me la mandi buona, adesso." — Buonasera — esordì.

 — Spero tu abbia un'ottima scusa… — sibilò l'altro in risposta, fulminandolo con gli occhi.

Camus si stupì per l'ennesima volta di quanto quelle iridi azzurre potessero rivelarsi inquisitorie. "Non oggi Athena, non oggi. Non sono nelle condizioni di sopportarlo." — Tipo una donna? — asserì in tono leggero. — Vorresti che ti raccontassi di essermi infilato nel letto di una bella ancella e di aver perso la nozione del tempo? —

"E da quando in qua tu fai battute così cretine?" — Cambia tattica, Aquarius. Quella scusa di solito la uso io… — "Perché, maledizione, perché mi stai trattando come uno stupido?"

 — E io non tenterei mai di portartela via, non temere — replicò lui, con una breve risata. Una risata forzata: non era allegro, per niente. Come avrebbe potuto esserlo? Aveva sbagliato tutto, dannazione. E in quel momento non gli importava un bel niente di Saga, né riusciva a dare la giusta importanza alla rediviva Athena, dovunque fosse. Vedeva solo gli occhi colmi di lacrime di Kelly e la foto di quel ragazzo morto perché i suoi amici vivessero. Non riusciva a toglierseli dalla testa neppure per un attimo.

 — Allora pensi che sarebbe troppo disturbo per te spiegarmi come mai ho passato quasi due ore all’addiaccio, rischiando il congelamento? —

La voce risentita di Milo lo riportò bruscamente alla realtà. "Non te lo meriti, amico mio. Ma non posso fare altro che continuare come ho sempre fatto. Non c'è solo la mia vita in ballo. C'è la tua, per esempio."
 — Addiaccio… che parola grossa. Non è certo colpa mia se tu saresti capace di congelare all’Equatore. E poi nessuno ti ha chiesto di aspettarmi qui. — "Nessuno tranne il tuo intuito… E vorrei tanto che sbagliasse." — Dai, andiamo. — Gli tese una mano, che l’amico parve accettare malvolentieri. — È tardi e ho davvero voglia di uscire stasera. — "E di non pensare a lei. Almeno per un po’."

 — Camus… — Era più tranquillo, ora. — Bah, lascia perdere. — O forse soltanto più stanco di lui. Negli anni Milo aveva imparato a non sprecare il fiato con domande cui non avrebbe ricevuto risposta.

 — Ne parliamo dopo, ora andiamo… — "e forse mi verrà qualcosa di intelligente da dirti."



~.~


"E adesso?" Camus sorseggiava lentamente la seconda pinta di birra scura, gli occhi fissi su qualcuno che, invece, si ostinava a non guardarlo. La solita osteria. I soliti saluti e le solite battute dell'oste che li conosceva da quando erano soltanto due poppanti, senza mai un pur minimo sospetto che loro due fossero qualcosa di diverso da ciò che apparivano. Com'era giusto, del resto. L'esistenza del loro Ordine era e doveva restare un segreto. Il sottile velo che separava l'esistenza della gente comune dalla loro non doveva essere sollevato. Un peso, a volte, altre una benedizione. Senza quel segreto, non avrebbero potuto godere di quelle serate senza pensieri che erano state sempre il loro modo per venire a patti con un dovere che troppo spesso reclamava sangue. Sangue altrui, fino a quel momento. Ma… presto o tardi anche il loro. "Sarà mai esistito un Santo morto di banale vecchiaia?"

Milo non gli parlava da più di mezz'ora. Forse era soltanto immerso nei propri pensieri. Forse lo stava semplicemente studiando. O forse stava tentando, come lui, di godersi quella serata e ignorare la sensazione che qualcosa si stesse irrimediabilmente incrinando tra loro. — Mi stai ancora tenendo il muso? — lo stuzzicò, tanto per tastare il terreno.
 — Avrebbe senso? — aveva borbottato il Santo di Scorpio, senza alzare gli occhi dal tavolo.

Anche un stupido avrebbe compreso che quello non era il modo più opportuno di rompere il silenzio. Ma all'improvviso, e senza una ragione, Camus scoprì di aver infantilmente bisogno del suo più caro amico. Aveva una domanda che non avrebbe desiderato porre a nessun altro. — Milo? —

L'altro finalmente accettò di guardarlo. Il tono di quella invocazione era quello delle grandi occasioni. — Spara. — accondiscese. "Ma sai che non è finita qui, vero?"

 — La vita non ha alcun senso, te ne sei mai reso conto? —

Milo quasi si strangolò con l'ultimo sorso del suo boccale di sidro. — Co-cosa? — "E questa, in quale cioccolatino l'hai trovata?"

Camus abbassò la testa. Quel pensiero gli ronzava per la testa, e non voleva andarsene. Inutile. Era tutto inutile. Lottare, opporsi, sanguinare… morire, come David. Anche se sapeva. Anche se aveva provato sulla pelle, come Aioros e Saga, come Sion prima di tutti loro, il benefico potere della vera Athena. Ma quel giorno era lontano, ormai, come il sentore del cosmo della Dea. E il peso della finzione, invece, fin troppo vicino e concreto. E allora, cosa restava?
 — Pensi mai a cosa vorresti lasciarti indietro, se dovessi morire domani? —

"Eh, no, vecchio mio, questi discorsi non sono proprio da te…" — Che vuol dire, se dovessi morire domani? — gli rispose Milo, scrutandolo attentamente. Che diavolo hai in mente, Camus? Un omicidio? Un suicidio rituale?

Il suo amico lo guardò come se fosse completamente trasparente. — Lo sai da sempre anche tu, Scorpio Gold Saint. Le nostre vite sono costantemente appese ad un filo — recitò con voce incolore.

Questo era un argomento cui Milo non avrebbe saputo come ribattere. Tanto più che Camus aveva ragione. Ma perché gliene parlava proprio in quel momento? E con quel tono? Come se quel giorno avesse perso qualcosa d'importante… Si incupì. — Come se la passa la tua allieva? —

Fu il turno di Aquarius di scuotersi violentemente, e di fissare il suo amico come se gli fossero spuntate due teste. — Che… e lei che diavolo c'entra, ora? —

"Nulla. Assolutamente nulla. Infatti il tuo famigerato 'aplomb' non fa una piega." — Credo che qualcuno qui stia perdendo il senno. E non si tratta certo di me. — Replicò Milo con calma. La stessa calma che precede la tempesta perfetta.

 — Non essere ridicolo… — sibilò Camus sottovoce, per nulla intimidito. Il tono era di quelli che non lasciavano prevedere nulla di buono.

Milo lo osservò con un sorriso sardonico. Ci voleva ben altro per impressionarlo. E finalmente ne aveva la certezza. Se solo non si fosse trattato di una traditrice, l'avrebbe trovato un ottimo motivo per festeggiare. Dopo tanti anni in cui sembrava aver perso ogni legame col mondo, il suo amico sembrava di nuovo vivo. E di fronte a questo, la sua rabbia svaniva. Ma non la preoccupazione. — Per quanto tu possa trovarlo ridicolo, dovrai inventarti di meglio per prendermi in giro. — Doveva esserci dell’altro, lo sapeva. Se Solo fosse riuscito a… a…

 — Pensavo avessimo chiarito la questione, Milo. — ribatté Aquarius, con un punta d'acido. — Non sto cercando di nascondere nulla, soltanto di salvaguardare la mia privacy. Ti ricordi ancora cosa significa questa parola? — Se ne pentì immediatamente, ma ormai la frittata era fatta. Il sorriso del suo amico si era spento, e tutto nel suo aspetto ora ricordava una statua. Persino gli occhi azzurri erano perfettamente immobili. Camus conosceva bene quell'espressione, l’aveva vista parecchie volte nel corso degli anni: Milo stava conducendo una dura lotta con se stesso per non spaccargli la faccia.
Prese a fissare la ragazza che serviva ai tavoli, anche lei una vecchia conoscenza. La figlia di Papadopoulos lo salutò con un cenno allegro, prima di tornare al suo lavoro. Lui la seguì con lo sguardo, registrando tutto quello che accadeva, ma senza vederlo davvero.


 — Non son, non son io quel che paio in viso
quel ch'era Orlando è morto et é sotterra —



Camus si voltò di scatto, e guardò ad occhi sgranati Milo, braccia levate ed un'espressione tragica dipinta in volto. "Che diavolo c'era in quel sidro?"

 — la sua donna ingratissima l'ha ucciso:
sì, mancando di fé, gli ha fatto guerra —


Li ricordava, quei versi, e a quanto pareva anche Milo. Sapevano di pomeriggi in biblioteca, del vecchio Shion e del suo amore viscerale per il cinquecento italiano, di lezioni soporifere e pomeriggi luminosi, di un tempo lontano e perduto. Come il sorrisetto di sfida con cui Scorpio lo invitava a proseguire. "Forza, pupazzo di neve."

 — Io… —

Milo, dannato. Milo, indispensabile. Milo e le sue uscite impossibili, e quel suo modo di capire al volo, sempre. Camus si arrese, lasciando che i buoni ricordi lo sommergessero, gli ricordassero per cosa valesse la pena andare avanti, e ritirandosi, lo lasciassero più pulito. Il loro retaggio, il periodo migliore della loro vita, non si sarebbe mai allontanato del tutto, finché fossero rimasti insieme per ricordarlo. E prima che la ragione potesse opporsi, la sua stessa voce cominciò a far eco a quella del suo amico, e per un attimo, folle e magnifico, tornarono ad essere due mocciosi appena consacrati, sicuri che la loro strada sarebbe stata lastricata di mattoni d'oro.

 — io son lo spirto suo da lui diviso
ch'in questo inferno tormentandosi erra
acciò con l'ombra sia, che sola avanza
esempio a chi in Amor pone speranza.* —



Appena terminata l'esibizione, il novello attore si allontanò senza una parola, ma con una espressione degna del gatto del Cheshire. Lo vide pagare e tornare indietro. Posò altri due boccali sul tavolo di legno malconcio, usurato dal tempo e fitto di iscrizioni partorite da generazioni e generazioni di coppiette. Il suo sorriso aveva qualcosa di inquietante.

 — Visto che hai buona memoria, tieni a mente anche questo, Orlando. Io ti tengo d'occhio. Ed ho già pronti i bagagli per un viaggio sulla luna. —

~.~


Erano passate due settimane da quella serata. Due settimane in cui gli eventi avevano incominciato a precipitare, tanto rapidi da riuscire a coglierne soltanto voci e dicerie. Quelle settimane, Camus le aveva trascorse seppellito nel familiare freddo del Tempio del Coppiere Divino, uscendone solo per allenarsi e tentando di non pensare alla caccia all'uomo che Saga aveva scatenato contro i presunti ribelli di Tokyo, impedendosi di contattare Kelly o sua sorella. Due settimane in cui il geniale Primo Ministro le aveva tentate tutte per riuscire a riportare al Santuario il Tesoro e spedire in Ade le cosiddette pecorelle smarrite.
Per primo, il corpulento Docrates, che era stato la causa della morte di David, aveva tentato di portare a termine il lavoro con un proditorio assalto alla residenza dei Kido. Nulla di fatto, a parte la seccatura un gigantesco cadavere da seppellire.
Tempo pochi giorni, e la vulcanica mente del nano dall'occhio fasullo aveva partorito la brillante idea di richiamare dall'esilio un quartetto di reietti, confinati da Saga nei Caraibi in uno dei suoi rari momenti di buonsenso. Geist, sembrava si chiamasse il loro capo, una Sacerdotessa che per i suoi trascorsi avrebbe visto bene a far compagnia allo psicotico della Quarta Casa. Un altro buco nell'acqua, aveva sentito dire, con una certa soddisfazione.
Pegasus e i suoi amici si stavano rivelando molto più coriacei di quanto Gigars si aspettasse. E a peggiorare lo stato delle sue coronarie finalmente Saori si era convinta a lasciare la città in compagnia dell'elmo di Aioros.
Almeno, questo era quanto Kelly gli aveva riferito la notte precedente, quando, preoccupata dal suo silenzio prolungato, si era intrufolata nel Santuario con molta più grazia della volta precedente. Era diventata davvero brava ad annullare il suo cosmo, rifletté. Forse le bastava pensare di essere tornata a casa, lontano da quella che lei chiamava follia e che lui sperava, prima o poi, avrebbe chiamato dovere. Persino Milo non si era accorto di nulla, o forse aveva semplicemente chiuso entrambi gli occhi. Dopo quella serata agrodolce ad Atene non avevano più abbordato l'argomento. E non sarebbe stato lui, di certo, ad interrompere la tregua.
Anche se, lo sentiva, avrebbe finito col pentirsene.
Camus si alzò in piedi di scatto, quando gli parve di percepire un cosmo familiare all'interno del Tempio. Un'aura gentile, che con educazione chiedeva il permesso di entrare. Camus sorrise nella semioscurità del tramonto, e scese rapidamente le scale, ad aprire la porta che dal piano inferiore conduceva all'abbaino che occupava. La luce del sole morente illuminava le spalle del visitatore, la leggera corrente d'aria giocava con il mantello candido. Dal giorno della sua investitura, non ricordava di averlo più visto senza la sua Armatura d'Argento. L'orgoglio di essere un Sacro Guerriero, e la dedizione alla giustizia… Il Santo perfetto. Forse ci credi più di me…

 — È un vero piacere rivederla in buona salute, Maestro. — fu il saluto del suo antico discepolo.

 — Il piacere è reciproco, Crystal, Santo dei Ghiacci. — rispose Camus, con serietà. — Immagino tu sia qui per via della lettera che ho avuto il compito di recapitarti giorni fa… — "E noto con piacere che neanche tu scatti sull'attenti ai capricci di Saga…"

Il Silver Saint chinò il capo in segno di rispetto. — Lei mi fa troppo onore. Mi sentirei più a mio agio se continuasse a chiamarmi per nome, come usava una volta. — disse con un sorriso cordiale.

"Ho capito, mi stai prendendo in giro…" — Se è così temo che la richiesta sia reciproca, Alëkšey Pàvlovic. I tempi della Siberia non sono poi così lontani. —

Il sorriso sul volto del giovane si allargò ancora di più, fino a renderlo identico al ragazzo che gli si era presentato davanti a gambe larghe, il giorno del suo arrivo a Kobotek, chiedendo con quella voce profonda se era lui quello che l’avrebbe aiutato a diventare un Eroe. — Non ritenevo certi… atteggiamenti adatti alla solennità del Santuario, Maestro… — ad accompagnare quella chiosa deferente, una bottiglia piena di liqiudo trasparente emerse dalle profondità della sua borsa da viaggio.

Camus ricambiò il sorriso, non poteva farne a meno. — Non sei più soltanto un mio allievo, Alëša. E comunque, mai cerimonie tra vecchi amici. Soprattutto se portano da bere. — Gli fece cenno di accomodarsi di sopra. — A proposito, hai già un posto per la notte? —
Quello era un incontro che andava festeggiato.



~.~


Kelly si guardava attorno. Conosceva quel posto. Non era il tetto del mondo, ma ci si poteva arrivare vicino. Il panorama era meraviglioso, anche se lei ancora non riusciva a non soffrire la rarefazione dell'ossigeno. Per quasi sei anni la montagna era stata la sua casa. Se si poteva chiamare 'casa' un luogo in cui aveva sofferto una fatica inimmaginabile e aveva sputato sangue, in cui aveva pensato mille volte che sarebbe morta prima di aver raggiunto il suo scopo. "Non proprio. Non era esattamente il mio scopo." Ma ce l'aveva fatta. E senza dubbio lo doveva a lui. L'uomo che l'aveva portata lassù per la prima volta. "Ogni volta che stavo per lasciarmi andare, c'era la tua mano pronta ad afferrarmi." Camus si chinò a raccogliere una manciata di neve da una bassa sporgenza piana. L'assaggiò, come faceva ogni volta che conquistavano la vetta, quindi si voltò a metà, lanciandole la solita occhiata in tralice. Un segnale tra loro due. Una volta lei annuiva, a quel gesto, sicura che lui intuisse il suo sorriso nascosto dal metallo. E una volta quel posto meraviglioso le avrebbe restituito la serenità. Ma da quando Dave non c'era più le sembrava che nulla avesse più molto senso.

 — Non mi stai ascoltando… —

Si scosse. Lui la stava scrutando, forse era da un pezzo che tentava di attirare la sua attenzione. "Sei preoccupato? Non ho intenzione di volare dalla finestra… non ce ne sono a portata di mano." Altro che calma sovrana e forza di carattere. Non riusciva neppure a guardarlo negli occhi. Per non leggervi gli stessi sentimenti che stava provando lei stessa. "Sono una delusione, vero?"
E ora cos'era quel calore attorno alle spalle?
L'odore familiare della lana grezza mista al fumo di una cappa che non aveva mai tirato granché bene. Le aveva messo addosso il suo maglione. Strinse i denti. Trovava così sciocco che si arrabattasse a fingere che nulla fosse cambiato e allo stesso tempo la trattasse con tanta circospezione… Avrebbe voluto urlargli che lei non era una bambola di porcellana. Ma senza quella premura era certa che la porcellana sarebbe andata in pezzi.
Continuò a guardarlo. Senza una parola si era allontanato, sedendo a gambe incrociate sulla neve. Non si sarebbe mai abituata del tutto a vederlo andare in giro sul cocuzzolo del K2 vestito soltanto dei suoi vecchi di pantaloni di cuoio e di quella maglietta sdrucita, con le maniche arrotolate. La stessa maglietta che tanto spesso lo aveva visto rammendarsi da solo, la sera davanti al fuoco. Non era l'unica che avesse, no, ma per qualche motivo tutto suo doveva tenerci parecchio.
Non aveva mai avuto il coraggio di scoprire se si fosse accorto di quante volte, dopo i tredici anni, s'era alzata nel mezzo della notte per spiarlo attraverso la porta socchiusa. Una ragazzina in piena pubertà che si era appena accorta di vivere con uno di quei fusti che di norma si incontrano solo nei sogni… "Lo sapevi, vero? Lo sapevi e non hai mai detto niente." Lo guardava leggere su una rozza sedia di legno intagliato, con i piedi allungati verso il camino quasi spento, finché non sbadigliava, spesso poco prima dell'alba, e spariva nell'altra stanza. Quella in cui lei non aveva mai avuto il coraggio di curiosare, fino al giorno in cui aveva recuperato i suoi ricordi. "Che spettacolo mi sono persa, però…" Col tempo aveva capito che le notti in cui restava sveglio erano molte di più di quelle che passava nel suo letto. Per anni si era chiesta perché. E avrebbe preferito continuare a non capirlo. "Quante volte ti sei sentito come me oggi?"

 — Stasera te la rimetto a posto io, quella maglietta — sussurrò, avvicinandosi. — Tu sei un disastro come uomo di casa… —

Si era seduta accanto a lui, ma Camus non si voltò neppure. — Neanche tu sei una gran sarta — considerò. "Non riesco a vederti così. Fa troppo male." Gli occhi spenti, lo sguardo assente. L'espressione di chi preferirebbe un coma irreversibile. Quanto era diversa dalla ragazzina che gli era saltata al collo, con l'intento di torcerglielo. Solo pochi mesi. "Ma lunghi come secoli."

Lei arrossì, imbarazzata. Non credeva di aver parlato a voce così alta. — Allora, cosa ci facciamo qui? — disse con un sorriso forzato. — Un bel pupazzo di neve perenne? —

"Lo devi fare. È la cosa più giusta." — Non proprio. Ti insegno il viaggio attraverso il Portale. — le annunciò, cercando di apparire il più naturale possibile. — Non sarà semplice, né immediato. Potrebbero volerci anni. Ma è un motivo in più per cominciare subito. — "Presto, finché abbiamo ancora del tempo…"

Lo fissò in silenzio, finché lui non si arrese e si decise a guardarla a sua volta. — Perché proprio ora? —

"Perché la vita va avanti, Kelly." — Perché non ora, piuttosto? Io mantengo le promesse. —

 — Non vedi l'ora di liberarti di me, vero? — disse la ragazzina, triste.

Camus rimase di sasso. "Piccola malfidata. Sapessi quanta voglia ho di liberarmi di te." — Eri tu quella che lo desiderava con tutte le forze… non mi dirai che ora hai cambiato idea — la punzecchiò, tanto per ottenere una reazione. "Va bene tutto. Ma ora torna in te, per favore."

 — Forse non importa più cosa voglio io, Camus… — bisbigliò lei, giocherellando svogliatamente con la neve. Alzò gli occhi contro il sole, luminoso e indifferente come sempre, così lontano dalle loro insignificanti questioni. La luce li faceva lacrimare, ma almeno si sentiva un pochino più viva. — Volevo tornare a casa con tutte le mie forze. Volevo ritrovare la mia vita intatta com’era, viverla insieme ai miei amici. Ma io non… sono più quella persona. E sono giorni che penso a come potrei affrontarli, a come farò a dire a Katie che non ho impedito al suo ragazzo di sacrificarsi. Posto che sopravviva abbastanza da rivederla, è chiaro. —

"Katie?" Nella mente del Cavaliere dell'Acquario si materializzarono all'improvviso un viso impertinente, capelli corti e un sorriso vicino, vicinissimo a quello di David, in un’altra di quelle dannate polaroid. Altro dolore, altre perdite da mettere in conto, e stavano diventando troppe. E questo gli faceva più male di quanto avesse previsto il giorno in cui Mitsumasa gli aveva messo la piccola Athena tra le braccia. Quando ancora non sapeva quale condanna sarebbe stata il suo ruolo di protettore nascosto. Ma Kelly non capiva, ancora non si rendeva davvero conto di cosa ci fosse in gioco. "Credi che non avrei voglia anch’io di nascondermi in un angolo, e farmi compiangere?"
Aveva paura per lei. Non ne aveva mai avuta tanta. Era come se dalla morte del suo amico Kelly avesse deciso che dopotutto non sarebbe stato un gran male seguirlo.

 — Di sicuro non è con questo atteggiamento che ci riuscirai. — Camus si alzò in piedi, puntandole contro il suo sguardo più inespressivo. — Se ti sembra che la tua vita non abbia senso, degnati di pensare anche a chi ha bisogno di te. Non hai scelto tu di combattere, è vero, ma ora devi. Per la tua vita, e per quella dei tuoi compagni. — "E per la Dea, anche se non siete ancora nella posizione di capirlo." Si allontanò di qualche passo. — Tirati su, adesso. —

Kelly gli ubbidì quasi contro la sua volontà, sorpresa da quel tono secco, che non sentiva da tanto tempo. Camus aveva cominciato ad espandere il suo cosmo. L'aura del suo potere si allargava attorno alla sua figura, dorata eppure mortalmente glaciale. Si sentì percorrere da un brivido del tutto involontario, che non avrebbe mai ammesso con anima viva: paura e ammirazione insieme.
Il suo maestro si allontanò di diversi metri. C'era qualcosa che la ipnotizzava in quel portamento determinato. "Il carisma dei Prediletti di Athena…" In quell'attimo fu certa che il Gold Saint di Aquarius possedesse la capacità, e la decisione, per abbattere qualunque ostacolo si parasse sul suo cammino. "È questa forza dunque, a distinguere quelli come te?" Tentò di prepararsi all'attacco che, ne era certa, sarebbe calato su di lei in brevissimo tempo. Le braccia sollevate, le mani che si intrecciavano. Come in sogno lo vide preparare il colpo, quello più potente, che le aveva mostrato soltanto una volta. "Saprò mai chi sei davvero?"

All'improvviso, tutto cessò com'era cominciato. Le braccia ricaddero lungo i fianchi, senza farle del male. Camus socchiuse gli occhi, lasciando che la sua energia si affievolisse e si disperdesse. In pochi attimi Kelly si ritrovò davanti nulla più che la solita, imperturbabile faccia di bronzo del suo maestro. "Non bronzo… oro. Diamo a Cesare quel che è di Cesare…" Lui le si parò davanti, le accomodò meglio sulle spalle il pesante maglione e incrociò le braccia con un’espressione assolutamente divertita.

 — Riposo, ragazzina. Se solo avessi saputo che bastava dare un po’ spettacolo per ammutolirti, l’avrei fatto più spesso — lasciò cadere quella canaglia in ghiaccio e ossa.

 — Tu… tu… — balbettò Kelly, presa in contropiede.

Camus sedette di nuovo sulla neve, con un movimento fluido ed elegante. Lei seguì il suo esempio con sospiro spazientito. Qualunque cosa facesse, non sarebbe mai stata altrettanto sicura di sé, altrettanto padrona della situazione. Lui era perfettamente serio mentre le parlava di nuovo. — Adesso che ho finalmente dirottato la tua attenzione su pensieri più produttivi… ti ho mai parlato del Settimo Senso? —

"Bastardo…" Fu in quell'attimo che Kelly comprese chiaramente un particolare di una certa importanza. Qualunque cosa fosse il fantomatico Settimo Senso, se ne sarebbe servita volentieri per strangolarlo.


~.~


Occhi neri, profondi e luminosi. Linee sottili e curve appena accennate sotto una divisa nera come la pece. Non era un esempio di femminilità classica. L'aspetto di un ragazzino, accentuato da quei capelli infuocati, corti e disordinati. Un'altezza di tutto rispetto e una magrezza eccessiva. Per lo meno da quasi quattro mesi a quella parte. Henry Wood, Generale in congedo dell'Esercito degli Stati Uniti d'America, direttore di uno dei programmi di spionaggio più incoscienti e segreti dai tempi della Guerra Mondiale, fissava dal basso della poltrona del suo ufficio quella che restava pur sempre una cavia piuttosto attraente. "Ah, bambina, se soltanto avessi trent'anni in meno…"

La cavia intercettò lo sguardo, ricambiandolo con sommo disgusto. "Non ci pensare neanche, vecchio porco…" Era furibonda. Uno degli effetti collaterali dell'esperimento. Il ridicolo attaccamento che i dieci ragazzini che avevano retto al meglio il pesante addestramento avevano sviluppato gli uni nei confronti degli altri. E nei confronti del loro istruttore.

 — Te lo ripeto ancora una volta, McArthur. Se in quella tua bella testolina color raperonzolo dovesse ancora farsi strada l'idea balzana di usare le risorse del Comando per continuare con le tue assurde indagini private, provvederò di persona a far sì che tu te ne penta amaramente. — sibilò l'uomo, fissandola intensamente — Non è tuo interesse sapere se e quando il tuo caposquadra tornerà. Qui si lavora, e duro, per la tua preparazione. Sei stata tu a voler rientrare nel programma di addestramento. Tutto ciò che ti è richiesto, pertanto, è eseguire gli ordini. Come iniziativa personale, al massimo, ti posso concedere delle flessioni supplementari. —

Gli occhi neri lampeggiarono. Le mani si strinsero convulsamente dietro la schiena, dove si erano poste già da tempo in una derisoria posizione di attenti. L'uomo si irritò ancora di più. — Puoi andare, soldato. E riferisci pure ai tuoi amichetti la nostra discussione. Non farà male neanche a loro una piccola rinfrescata alla memoria — sottolineò, col suo solito, borioso sarcasmo.

Katie scomparve in fretta dall'ufficio, soffocando il desiderio di urlare con tutto il fiato che aveva nei polmoni cosa pensava di quel viscido, arrogante burocrate. Una smorfia impertinente le sollevò il nasino all'insù. La ragazza raggiunse in fretta gli spogliatoi, e si sfogò pigiando con tutta la forza che aveva nelle mani su tastierino numerico del suo armadietto personale. Lo sportello si aprì con un cigolio familiare. Alla sola vista della foto che aveva incollato nella parte interna tutta la sua baldanza scomparve di colpo. "Dave…" Katie si cambiò in tutta fretta, ignorando il pesante involto posato sul suo monospalla arancione. Se ne accorse quando, strattonando con forza lo zaino che sembrava incastrato, questo cadde con tutto il suo peso e si aprì proprio sul suo piede sinistro, protetto soltanto dal calzino di spugna. Grugnendo di dolore, si chinò ad esaminare quello sfacelo, augurando in cuor suo mille disgrazie al buontempone che le aveva giocato quello scherzetto spiritoso. Si trattava di parecchio materiale: appunti battuti al computer, fotocopie e qualche cartina topografica.
La ragazza esaminò febbrilmente la carta da pacchi che era stata usata per confezionare quell'insolito regalo fuori stagione. Sul lato strappato, lettere tracciate da una mano elegante. Accostando i lembi lacerati, poté leggere il messaggio del suo benefattore misterioso: CREDO CHE TU E I TUOI LO TROVERETE INTERESSANTE.
Conosceva quella grafia. E per un periodo era stata certa di non rivederla più.



~.~


* Orlando furioso, canto 23








Angolo della vergogna™

L'ho fatto davvero.
Ludovico Ariosto.
No, dico, dopo Mel Brooks, Leroy Jethro Gibbs e Freddie Mercury, me la sono presa anche con Ariosto.
Il problema è che non me ne pento neppure un po'. Il suggerimento, tanti anni fa, me l'aveva dato un'amica di allora, che non sento più, ma che, ovviamente, merita che le si riconosca di aver partorito questa idea bislacca da cui non riesco a staccarmi. Sarà che l'immagine di Milo che recita versi rinascimentali con istrionica drammaticità mi scalda il cuore, oppure sarà colpa di questa immagine che mi balla nel cervello, in cui Shion ammorba i suoi allievi con tomi più pesanti di loro, non so davvero dirvelo, ma questa scena ha il potere di farmi ridere da morire. E quindi, viva Ariosto, il merito a chi di dovere, la colpa sempre a me. O a Philos, quando sono in vena di scaricare il barile, quindi sempre.
Cara amica, che continua imperterrita a cacciare svarioni, che si trovi al nord o al sud, è sempre pronta a partecipare al LOL. Oltre che a scovare il refuso lì dove la mia correzione non è mai stata prima.
A parte questo, spero che questo capitolo dalla sofferta gestazione piaccia almeno un pochino. Grazie a chi ha recensito, e a cui risponderò subito, promesso!, grazie anche per chi passa e legge soltanto o a chi lascia un commentino ogni tanto. L'importante è divertirci. Io mi diverto, e finché avrò l'idea che uno solo di voi si diverta, saprò che ne vale la pena.
Io, per lo meno. Per il povero francese di carta, credo che sia tutta un'altra storia…

 

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Capitolo 12
*** Track #11: Losing My Religion ***


Track 11 - Losing My Religion TRACK # 11

LOSING MY RELIGION

Life is bigger
It's bigger than you
And you are not me
The lengths that I will go to
The distance in your eyes
Oh no, I've said too much
I set it up
That's me in the corner
That's me in the spotlight
Losing my religion
Trying to keep up with you
And I don't know if I can do it
Oh no, I've said too much
I haven't said enough
I thought that I heard you laughing
I thought that I heard you sing
I think I thought I saw you try

(R.E.M.)

Erano trascorsi tre giorni, dal pomeriggio in cui Camus aveva accennato al miracoloso Settimo Senso. Kelly spalancò la porta della baita con un gemito strozzato, senza curarsi di chiudersela alle spalle. Mosse appena qualche passo all'interno, stramazzando sul tappeto di pelliccia. Se c’era qualche speranza di salvarsi dall’assideramento, il camino era l’unica possibilità. — Lo sapevo. Tu stai cercando di uccidermi... — esalò, con un tono degno della migliore attrice drammatica.

 — Vado a cercarti una graticola? Ti potrebbe servire, se decidessi di risparmiare tempo e sederti sulla fiamma viva. — La risposta era stata fulminea. E sin troppo divertita per i suoi gusti già per metà surgelati.

 — Spudorato… e senza… cuore… — cominciò a inveire, rotolando sulla schiena per restare poi immobile in posizione supina.

 — Se hai fiato per blaterare vuol dire che la morte è ancora lontana, ragazzina — tagliò corto Camus, chiudendo il pesante volume che stava leggendo con un rumore secco. La sedia scricchiolò rumorosamente mentre si alzava per richiudere la porta.
Passò in rassegna le condizioni della sua allieva con una rapida occhiata. Qualche escoriazione, probabilmente dei lividi sotto la malridotta tuta di felpa che indossava. Nulla di più. "Perfetto." Quella mattina l’aveva spedita ad allenarsi da sola sulla vetta, prima di scendere al villaggio più vicino per rimediare qualcosa da mangiare. Aveva bisogno di starle alla larga. Era sempre più difficile ricordare che quella giovane donna era la stessa bimbetta che un giorno lontano di sei anni prima gli era comparsa davanti al tramonto, con il visetto già nascosto dalla maschera rituale e una sacca da viaggio troppo grande per lei. Soprattutto la mattina, quando la vedeva spuntare dalla sua stanzetta con i capelli arruffati e gli occhi pesti. Sapeva che non riusciva a prender sonno. E in quelle tre lunghe notti trascorse lì era sicuro di averla sentita piangere almeno un paio di volte.

 — Ero sul punto di dimenticare che razza di aguzzino insensibile fossi, grazie… — biascicò lei senza aprire gli occhi.

Camus l’osservava, e provava una pena infinita. Era quasi peggio che rivivere i giorni della morte di Aioros. Perché si sentiva ancora più impotente. Stare a guardarla mentre cercava di sostenere quella commedia della normalità faceva male. Aveva perfino ricominciato a prenderlo in giro con la solita dedizione, anche se era evidente per entrambi che lui non si lasciava ingannare. Eppure in quei giorni pareva appena più tranquilla, più disposta a scendere a patti con il suo dolore. E magari la fatica fisica le faceva bene. Anzi, senz’altro le faceva bene. Forse le ricordava che era ancora viva. Anche quella sensazione era ben viva nei suoi ricordi, come se gli ultimi tredici anni non fossero mai passati. — Se hai esaurito i complimenti, potremmo anche cenare, che ne dici? —

 — Davvero? Allora puoi rilassarti… penso che per stasera i complimenti siano terminati — motteggiò lei, senza muovere un solo muscolo.

Lui incrociò le braccia, divertito suo malgrado. — Basta così poco a renderti felice? — indagò, incauto.

Kelly aprì un occhio solo. — Tutt’altro. Ma se hai cucinato tu non credo che arriverò a domattina — sentenziò con voce lugubre.

"Dovevo aspettarmelo." — Petite sorcière… — borbottò, dandole le spalle per nascondere un sorrisetto.

 — Camus… — lo richiamò indietro lei. — Non te l’ho mai chiesto prima… Ma come te la cavi con il Santuario? —

 — I Cavalieri d'Oro non sono tenuti a restare in pianta stabile al Tempio, Kelly, solo a rispondere al richiamo del Gran Sacerdote. Neppure quella parodia di Primo Ministro può avere da ridire — le rispose, forse in modo troppo sostenuto. — A meno che Arles non proclami lo stato d'assedio. —

Lei strinse gli occhi, dubbiosa. "Orgoglio o no, tu ti stai cacciando in un vicolo cieco." — Possibile che a nessuno interessi come passi il tuo tempo? — insisté, ignorando l’occhiata risentita del suo maestro.

Camus s’irrigidì visibilmente. Milo l’aveva guardato come si guarda una zanzara fastidiosa, quando gli aveva annunciato che sarebbe stato via per qualche giorno. Infine aveva commentato con noncuranza che i suoi spostamenti non lo riguardavano. E lui ancora non riusciva a spiegarsi perché quella sovrana indifferenza, invece che sollevarlo, l’avesse in qualche modo indispettito. — Non credo siano affari tuoi, ragazzina — scandì, irritato.

Kelly si sollevò a sedere, scuotendo la testa, rassegnata. — Sempre il solito… — replicò, tra il serio e il faceto.

Camus s’innervosì ancora di più. "Già, sempre il solito. Perenne preda dei dubbi e divorato dalla preoccupazione. Per te, signorina. Per la tua salvezza e per quella di quegli altri cinque esaltati che non riescono a restare lontani dai guai. Dopotutto, mi sembra di aver fatto abbastanza. Hai la tua investitura, potresti cavartela da sola. Invece io, imbecille, mi sto trasformando nel tuo cicisbeo."
— Che vorresti insinuare? — s’informò freddamente. "È ora che ti rimetta al tuo posto. Non sono il tuo fantoccio."

La ragazzina non rispose subito. Sembrava essersi intristita di colpo. "Affezionato pubblico, torna in scena per voi il Maestro Tutto D'Un Pezzo" — Possibile che tu non riesca a capirlo? — mormorò senza guardarlo.

 — Cos’è che dovrei capire? — brontolò lui, affettando disinteresse.

 — Ti avevo soltanto chiesto di essere sincero, maledizione… — replicò la ragazza, con una voce così fievole che lui poteva udirla a stento. Ma si riprese in fretta. Prese a fissarlo in un modo che lui era convinto di aver dimenticato. — Credevo ci fosse un patto tra noi — disse seccamente. — Invece tu continui a trattarmi come una stupida. E ci sono momenti come questo, in cui mi pare sia evidente che non ci poniamo sullo stesso piano. —

"Aspetta un momento…" — Kelly… — bisbigliò Camus, toccato suo malgrado. "Come sempre, del resto… Accidenti a te, ragazzina." — Ma che razza di discorsi fai? — proseguì, inginocchiandosi vicino a lei.

 — Io?! — Quei dannati occhi cangianti non si scollavano dai suoi, e nella modesta luce di quella stanza, con il riverbero del fuoco ad investirli, apparivano molto più scuri, incredibilmente lucenti eppure cupi. Camus era convinto che avrebbe potuto passarci giornate intere, ma non ne avrebbe mai colto tutte le sfumature. — E se per una volta lasciassi da parte quella tua dannata tutina d’oro massiccio e parlassimo da pari a pari? — aggiunse lei, con una punta di amarezza.

 — E di cosa vorresti parlare, di grazia? — replicò, con un tono condiscendente che non avrebbe usato neppure quando lei aveva dieci anni.

Kelly scosse la testa, fissandolo con tristezza. Camus si sentì assurdamente in colpa, senza riuscire a coglierne il motivo. — Lascia stare. Davvero, tu non cambierai mai. —

La porta della stanzetta si aprì e si richiuse, e soltanto dopo parecchi minuti lui si riprese dalla sorpresa. L’unico suono che riusciva a percepire, era il silenzio di tomba che gli rimbombava nelle orecchie.

~.~

 — Come va? —

Una sedia da ufficio roteò in silenzio. La ragazza che l’occupava sollevò lentamente lo sguardo sulla persona che le aveva posto quella domanda tanto furba. Incontrò un paio d’attenti occhi verdi, circondati da un alone scuro, proprio come i suoi. Una cicatrice sottile divideva in due il sopracciglio sinistro. Un’unica, lunga ciocca di capelli chiari gli ricadeva su uno zigomo. "Neppure la tua ragazza ha potuto fare qualcosa, con quell’orrendo look anni Ottanta…"

 — Come l’ultima volta che me l’hai chiesto, Max — sillabò con voce stanca. Si voltò, i gomiti sul piano della scrivania, e riprese a fissare il monitor del computer come se da quel gesto dipendesse la sua vita.

Il crucco si portò dietro di lei senza ribattere. Prese a massaggiarle lentamente le spalle. Sì, essere amici da tanti anni prevedeva anche quello. Sapere esattamente cosa fare quando il mondo intero sembra remarti contro. — Non hai ancora finito di esaminare le scartoffie che hai trovato nel tuo armadietto? —
 
 — No — ammise Katie in un soffio. — Sembra soltanto un scherzo idiota. Eppure… è lo scherzo di qualcuno che sa esattamente cosa stiamo cercando. Non possiamo lasciar perdere. —

Max si accigliò. — A proposito di scherzi… ho esaminato in tutti i modi il tuo armadietto. È incredibile, ma… —

 — Nessun segno di effrazione, neanche a pagarlo — completò per lui un ragazzo alto e abbronzato, i capelli e gli occhi neri come il carbone.

 — Esatto — il crucco annuì, mentre Alex entrava nel ridotto ufficio situato nei piani sotterranei della base, in cui conducevano le loro piccole indagini private all’oscuro del Grande Capo. "Beccati questa, stronzo vestito a festa…"
Sorrise, e depose una breve carezza sulla spalla della sua amica.

Katie si passò una mano tra i capelli. Quel mistero pareva senza soluzione. Un rapimento, durante una banale vacanza in Europa, un caso che non avrebbe mai avuto interesse per loro, se non li avesse toccati da vicino. Perché erano i loro migliori amici ad essere scomparsi nel nulla, sette giovani spie addestrate per le situazioni peggiori. Il fiore all'occhiello di quel Dipartimento di sociopatici altamente specializzati… come avevano fatto a sorprenderli? Quattro mesi di ricerche infruttuose, un improvviso incarico sul campo per Martin, e poi quel misterioso regalo. Davvero troppo tempestivo, e da parte di qualcuno che doveva conoscerli un po' troppo bene.
"Conosce i codici dei nostri armadietti. Ci sorveglia a distanza. E forse vuole indurci a seguire una falsa pista."
Ma chi? E soprattutto, cosa sapeva? Katie aveva soltanto una certezza. Prima o poi avrebbe scoperto come tirare fuori i suoi amici da quel guaio. E anche cos’era capitato al suo ragazzo. "E se… non avessi più qualcuno da aspettare?"
Non doveva pensarci.
Non voleva pensarci.
…non riusciva a smettere di pensarci.

"Ma come… come??" Le mani sulle sue spalle si fermarono all’improvviso. Con un’ultima carezza sulla guancia, Max tornò a sedere di fronte alla sua scrivania. — So che è difficile, Kat — provò a blandirla, con quella cadenza da barzelletta che era soltanto sua. Dieci anni di distanza dalla madrepatria non erano riusciti ad intaccare quel tremendo accento. — Ma struggerti nell’attesa e non riposare non servirà a niente. —
Una fitta di nostalgia. Christine, che rideva a crepapelle ogni volta che il suo ragazzo seviziava la lingua di Shakespeare. Lei, che a volte provava a fare la russa soltanto per mitigare la nostalgia di sua madre, e leggeva indigesti tomi dell'Ottocento soltanto per non dimenticare quella voce commossa e sonora che l'accompagnava nel suo sonno di bambina. Katie torno a guardare il suo amico, stringendosi nelle spalle.

 — Anche tu muori dalla voglia di sapere almeno se lei sta bene — gli fece notare, senza asprezza.

Sentì una mano posarsi sul dorso della sua. Alex la guardò con un affetto dal quale, per una volta, non traspariva alcun secondo fine. Doveva essere una delle tre donne al mondo che avesse mai guardato così, con una tenerezza che non aveva nulla a che vedere con il desiderio di toglier loro le mutande. Le altre, probabilmente, erano state sua madre e sua nonna. — Non tormentarti, è inutile. Dopotutto, una traccia l’abbiamo trovata. I pochi indizi che abbiamo ci portano tutti nella stessa direzione… —

Katie annuì, pensierosa. Troppo facile. E troppo complicato insieme. Perché si trattava di rinnegare tutte le loro più radicate convinzioni. Di accettare che in quel plico potesse celarsi la soluzione di quel rebus che li beffava da mesi.
"Oppure, stiamo lasciando che le le nostre vite vengano manipolate, una volta di più."
Scacciò quel pensiero come una mosca fastidiosa. "Non siamo tanto sprovveduti… E allora perché siamo ancora al punto di partenza?" Ci doveva essere un modo per venirne a capo, lo sapevano. Ma non potevano accettare che la salvezza dei loro amici dipendesse da quel pacco di fesserie esoteriche, che riguardavano tutte uno dei segreti meglio custoditi dal Basso Medioevo in poi. La chiave, per concludere in bellezza, sembrava un uomo la cui esistenza non era neppure un dato certo.

 — Christian Rosenkreutz. —

~.~

Toc toc…
Kelly si mosse leggermente, senza riuscire a capire se quel lieve rumore fosse reale o se l’avesse semplicemente sognato. "Mi sono addormentata…" Niente di strano, dopotutto. La fatica e la tensione nervosa le avevano giocato un tiro mancino. "Bella serata davvero…"
La porta si aprì con un lungo cigolio. "E ora che vuoi?" pensò, irritata. "Sei venuto a farmi una paternale sul rispetto che bisogna portare ai superiori?"
Rimase immobile sul suo letto, continuando imperterrita a mostrargli la schiena. Lo sentì entrare con il suo passo leggero, e sedere sul bordo. E prima che Kelly decidesse se e in che modo protestare una mano circospetta le aveva già sfiorato i capelli.

 — Sei sveglia, allora… — esordì Camus, all’improvviso.

 — Come puoi vedere — replicò lei stancamente. — Se non fosse stato per te, starei dormendo ancora. — Non lo faceva apposta, no. Soltanto, non riusciva a non avercela con lui. Ed era troppo faticoso spiegarsene le ragioni. Per colmo di sfortuna, il suo stomaco decise di farsi vivo proprio allora, interrompendo un silenzio che minacciava di diventare troppo difficile da gestire.

 — Non mangi da stamattina — considerò il suo maestro, come se fosse stato necessario.

"Vattene." — Sopravvivrò — sibilò, asciutta. "E toglimi quella mano di dosso, prima che te la spezzi."

 — Kelly… di cosa volevi parlare? — incalzò lui.

 — Niente d’importante. Puoi andare a letto tranquillo. — "E crepare, magari."

Aquarius ritirò la mano. "No che non posso. Non so spiegarmelo, ma non tollero che tu ce l’abbia con me. Non più." — Dovresti guardare in faccia chi ti sta parlando, per lo meno — la rimbeccò a sua volta, con più animosità di quanta avrebbe desiderato.

"Comandi, Padron Camus…" — Farà una gran differenza, al buio… — Kelly si sollevò a sedere. Riusciva a malapena a scorgere la sua sagoma, e soltanto grazie alla lampada che era rimasta accesa nella stanza principale. Lui non doveva distinguere molto di più. Ciononostante, la seccava sapersi ancora una volta sotto l’attenta valutazione di quello sguardo indagatore.

 — Cosa c’è che non va, ragazzina? — si sentì chiedere, più gentilmente di quanto si sarebbe aspettata. Ma quel tono alle sue orecchie suonava come un insulto.

"Mi hai stufato, paparino. È la mia pelle, quella con cui stai ti stai trastullando. Ma suppongo che ai fini della tua partita a Risiko con Arles non abbia molta importanza." — Hai anche il coraggio di chiedermelo? Mi stai trattando come un giocattolo. Vieni qui, corri là, raggiungi lo zero assoluto, allenati sulla vetta, così magari crepi per la scarsità di ossigeno — lo scimmiottò amaramente.

Camus incrociò le braccia con un vago sorrisetto — Tu… pensi che voglia farti la pelle? — le chiese, incredulo.

 — Ma no — ribatté la ragazza in tono acido. — Ti servo viva per vendicarti di Arles. Conta solo questo per te, vero? La tua vendetta… è per questo che hai promesso di aiutarmi. —

 — Dovresti sapere che non lo faccio per vendetta… — replicò lui a bassa voce. — La Dea… — "Se solo sapessi quanto ti è vicina…"

 — No. — Lei lo fissò con uno strano, inquietante sorriso. — Non è la sera adatta per le favole. Quali che siano le tue ragioni, non avrò mai il bene di conoscerle… —

 — Kelly… —

 — …e in me tu non vedrai mai nient’altro che una scimmietta da ammaestrare — concluse con amarezza. Si alzò, badando bene a non sfiorarlo neanche.

L’uomo si irrigidì, senza mostrare quanto quelle parole l'avessero colpito. — Dove pensi di andare, ora? —

La risposta fu raggelante. — Lasciami stare ora, Camus. Torna a baloccarti con il Piccolo Stratega — sibilò lei, a denti stretti. — Trovati un altro soldatino di piombo, però. Io me ne vado. —

 — Cosa?! — Kelly sapeva di averlo ferito nell'unico modo possibile. E non aveva la minima importanza. Anzi, questo le faceva venir voglia di rincarare la dose.

 — Puoi fermarmi con la forza, se vuoi, ma io ho deciso — incalzò, furibonda e triste in egual misura. — Me ne torno a Tokyo, a tentare di fare qualcosa di utile per i miei amici e mio fratello. Comincio a credere che persino Saori sia una compagnia migliore di questa. Almeno, lei sa di aver bisogno di qualcuno, a parte se stessa.

~.~

Le disgrazie non vengono mai sole. Ne era sempre stata convinta. Avrebbe soltanto desiderato che qualcuno la smentisse, per una volta. E che, sempre per una volta in vita sua, non si dovesse pentire di una decisione presa nell’impulso del momento. O sull’onda della furia che soltanto Camus di Aquarius era capace di suscitare in lei.
Kelly era rimasta a lungo a guardarsi le unghie, mentre l’energumeno tuttofare dei Kido le rovesciava addosso con dovizia di particolari l’ampio repertorio di insulti che conservava in uno speciale cassetto mentale per i piccoli parassiti ingrati che quel sant’uomo del suo defunto padrone si era preso in casa. Era passata a fissarsi le punte delle scarpe, attendendo con pazienza, e inutilmente, il momento in cui il gorilla avrebbe finalmente tirato il fiato e permesso anche a lei di prendere parte alla conversazione.
"Fantastico. Suppongo che quando riuscirò a estorcerti qualcosa di utile sarà già arrivato l’Armageddon."
Colpa sua e del suo sgradevole vizio di andare e venire come le pareva. Saori sembrava essersi ormai rassegnata ai bigliettini frettolosi o ai messaggi in segreteria che le lasciava ogni volta che si allontanava dalla città, ma di sicuro non li apprezzava. E se aveva colto l’occasione per renderle la pariglia, scomparendo senza quasi lasciar traccia, neppure riusciva a biasimarla.
Nel frattempo, però, eccola a mendicare un indirizzo nello sconfinato atrio di Villa Kido, indecisa se convenisse più strangolare o surgelare un Tatsumi ancora più collerico e sputacchiante del solito.

 — Adesso puoi anche chiudere il becco — soffiò, al colmo della sopportazione, accompagnando le parole con un ampio gesto della mano. Zuccapelata ammutolì di colpo, gli insulti soffocati in gola, e si limitò ad occhieggiarla con terrore.

Kelly si sentì di colpo più serena. Per sua fortuna, non sapeva di aver ereditato certi comportamenti proprio dal suo tanto vituperato maestro. Si avvicinò all’uomo con un sorriso beffardo, che sotto la maschera andò del tutto sprecato. — Se vuoi che ti scongeli la ciabatta, ti conviene darti una calmata. Non sono più la mocciosa che pestavi come una mandorla tostata non appena il vecchio voltava le spalle. —

Tatsumi aveva una gran voglia di farle ingoiare la sua villania, ma preferì saggiamente annuire. Pochi attimi dopo, era di nuovo in grado di muovere le mascelle. Non aveva il coraggio, e forse neanche la possibilità, di proferire verbo. Ma con lo sguardo le stava augurando uno scontro frontale.

 — Per la sensibilità dovrai aspettare ancora un po’. Spero non ti dispiaccia — rincarò la ragazza in tono mondano. — Nel frattempo, che ne dici di indicarmi su una graziosa piantina l’esatta ubicazione dello residenza di campagna dei Kido? O meglio ancora, di trovarmi un mezzo per raggiungerlo? — "Perché rendersi rintracciabili bruciando il cosmo, quando c’è un’intera flotta di velivoli del Benefattore, tutti smaniosi di prendermi a bordo?"

Dopo averla fatta accomodare in un piccolo studio, il maggiordomo scomparve in tutta fretta, di certo a caccia di un lanciafiamme. Mentre l’attendeva, Kelly si lasciò cadere pesantemente su un divanetto dal design ultramoderno. Accarezzò con piacere il morbido, raffinato rivestimento d’alcantara, ma le sfuggì comunque un sospiro rattristato. Inutile mentire a se stessa. I suoi pensieri erano rimasti tutti dentro una baita d’alta montagna. A far compagnia a due occhi troppo blu e troppo seri che ricordava tanto amareggiati soltanto il giorno della sua investitura.
"Camus…"
La ragazza sospirò. "Non riesco proprio ad essere paziente con te…"
Chiuse gli occhi. "Non devo pensarci adesso. Certo che anche lui potrebbe facilitarmi le cose, ogni tanto… "
Accadde in quel momento, senza preavviso. Kelly si piegò in due, con un movimento del tutto indipendente dalla sua volontà. Scivolò a terra senza emettere alcun suono. Per istante non vide più nulla. Nausea. Dolore intenso alla bocca dello stomaco. E un freddo spietato, che ghiacciava i nervi e le ossa. "Respira, accidenti, respira…"
A malapena riuscì a sollevarsi fino al divano. Il dolore era scomparso, rapido com’era arrivato, eppure non si sentiva meglio. Sapeva chi lo stava provando davvero, a migliaia di chilometri di distanza.

 — Steve… — mormorò. Suo fratello. L’altra metà di sé. Che in quel momento…

Ogni altro pensiero svanì dalla sua mente, mentre cercava di riannodare quel debole contatto. Non aveva senso. Steve era andato a Kobotek, il minuscolo villaggio siberiano nei cui dintorni era stato addestrato. Lo stesso in cui ancora abitava il Crystal Saint, il suo maestro. L’altro allievo di Camus, cui voleva chiedere un consiglio.
"Con chi stai combattendo? E perché?"
Uno scintilliò simile al cristallo, e il lembo di un mantello candido… Kelly sapeva a chi apparteneva quell’armatura. Gliela aveva descritta Camus, una volta, con un impercettibile sorriso d'orgoglio appena celato.
"Dio, no. Non questo."
Non perse tempo in altre congetture. Aprì la finestra e saltò di sotto, semplicemente, nello stesso istante in cui un allibito Tatsumi faceva capolino dalla porta, per annunciarle che l’elicottero era pronto.

~.~

Il Santuario in quei giorni aveva un aspetto magnifico. Milo percorreva lentamente il sentiero polveroso che conduceva ai vecchi campi d’addestramento maschili, godendosi lo spettacolo offerto dalle foglie rosse e dorate che danzavano al vento, regalo di quell’autunno mite. Avrebbe potuto percorrere quella strada ad occhi chiusi. Lì, tanti anni prima, Sion aveva curato la parte finale del suo addestramento, come degli altri futuri Guerrieri d'Oro. Lì per primi aveva incontrati Saga, il misterioso scomparso. Aioros, il futuro Gran Ricercato. E Camus, il fratello di una vita.
Scosse il capo. Quasi quindici anni da quel giorno. Aioros e Camus. Il cocco del Sacerdote e il suo amico dallo strano accento erano di nuovo davanti ai suoi occhi. Nessuno avrebbe sospettato che metà dei tiri mancini giocati a Shion dai suoi allievi fossero opera loro. Né che quei due incoscienti avessero festeggiato l’investitura di Camus con una solenne bevuta al Pireo, la prima della loro vita. Li aveva osservati a debita distanza, e aveva invidiato la loro complicità, quando ancora era convinto che non avrebbe mai avuto amici così.
Faceva uno strano effetto pensare a loro in quel modo. Chissà se qualcun altro ricordava il ragazzino pestifero che era stato il Signore dei Ghiacci prima della fuga di Aioros.
Aioros.
Il tutore della piccola Athena. Il Cavaliere del Sagittario… Prima che il disonore calasse su di lui, non era altro che uno di loro, un giovanissimo guerriero dalle capacità straordinarie, con un forte senso dell’onore e un fratellino biondo perennemente avvinghiato alle gambe.

Ora, quell’ampio piazzale ad anfiteatro era vuoto. Da almeno dieci anni gli allenamenti dei novizi si svolgevano a valle, fuori dalla vera e propria cinta del Santuario. L'ubicazione del Sacro Tempio e delle Dodici Case era divenuta un mistero per la maggior parte dei Santi delle cerchie inferiori, ormai sbandati e alla mercé di emissari privi di autorità. Come quei ragazzini di Tokyo, attirati come falene dall’inganno di una celebrità di celluloide.
Milo non si era mai sentito granché misericordioso verso i traditori del Santuario. Quei piccoli stupidi avevano messo in ridicolo le fondamenta stesse della loro fede, e litigato come cani rabbiosi attorno ad una reliquia sacra, alla quale non erano neppure degni di avvicinarsi. Eppure la condanna a morte che Arles aveva emesso senza neppure tentare un richiamo all’ordine gli risultava difficile da comprendere. L'aveva trovata troppo frettolosa, e per questo, forse ingiusta.
Era giunto a destinazione. Per un attimo la luce, non più schermata dal fogliame, lo accecò, poi lo vide. Non ci voleva un genio ad immaginare quanto poco la stesse prendendo bene, lui che in qualche modo indiretto era responsabile di uno dei traditori. O forse il legame era molto più profondo, e lo coinvolgeva in un modo fin troppo personale. Forse era quello il motivo per cui sempre più spesso lo trovava in quel posto abbandonato, sotto la grande quercia che li aveva visti crescere.

 — Camus — lo chiamò sottovoce.

L’amico non alzò neppure lo sguardo. — Ti avevo sentito arrivare — gli rispose, con voce incolore.

Milo lo esaminò con attenzione, prima di lasciarsi cadere al suo fianco sul terreno erboso. — Che brutta cera — considerò, battendogli una mano sul braccio. L’altro si limitò a scrollare le spalle. — Una guardia mi ha detto di averti visto venire qui. Non credevo che saresti tornato così presto — proseguì, scrutandolo attentamente.

Capì di aver conficcato il dito diritto nella piaga. Gli occhi di Camus saettarono su di lui, furiosi, ma durò poco. Si sistemò meglio contro il tronco e riacquistò il suo solito atteggiamento. — Non lo prevedevo neanch’io — confermò, rigido.

Milo alzò discretamente gli occhi al cielo. "Lite coniugale, dunque. E io che speravo che se la sbattesse e basta." Aveva una battuta appropriata già sulla punta della lingua; riuscì a mordersela appena in tempo. Non era il momento adatto agli scherzi, non con le notizie che portava. — Camus, devo parlarti. Si tratta di Crystal Saint.

~.~

Bicchiere, zucchero, cucchiaino. Brodaglia liofilizzata che, sapientemente mescolata ad acqua bollente, compiva la sua magica metamorfosi e trasfigurava nella ributtante pozione in grado di tenerlo in piedi per una notte intera. "In termini scientifici, il caffè peggiore che abbia mai bevuto."
Quella sera sarebbe toccato a lui restare sveglio, rifletteva Alessandro Barzini, sorseggiando la sua bevanda, e scottandosi la lingua con noncuranza. "Meglio non sentirlo, il sapore…"
Era stanco, come tutti loro. E preoccupato. Anche se la debolezza non gli avrebbe certo impedito di svolgere il suo ‘turno di notte’. Le chiamavano così, quelle serate clandestine a passeggio nei database più segreti del mondo, alla ricerca di un indizio qualsiasi che indicasse la strada per raggiungere i loro amici scomparsi.

Gli mancavano. Gli mancavano tutti, terribilmente. Le freddure in francese di Mark quando riusciva a mettere le mani sullo champagne di Wood, le risate cristalline e rasserenanti di Michael. Le occhiate di riprovazione di Jason ogni volta che lo beccava a destreggiarsi tra quattro ragazze diverse. I mezzi sorrisi di David, gli unici che conoscesse più eloquenti di mille discorsi. Le litigate feroci di Kelly e Steve, quasi quotidiane, e la casa invasa di cuscini sventrati quando decidevano di pestarsi di prima mattina. E le urla di Christine, che tentava di ristabilire l’ordine.
Quelli erano i suoi amici, la famiglia che non aveva avuto, e non poteva cancellarli dalla memoria con un colpo di spugna, fingere che non avessero diviso quasi tutti i momenti importanti, che non fossero stati tutti vittime della stessa truffa.
"Non volete imparare questo nuovo gioco? Vedrete, vi divertirete un mondo tutti quanti…"
Bersaglio, occhiali per le schegge e paraorecchi per non spaccarsi i timpani. E in mano una Smith&Wesson dal poderoso rinculo, che li aveva mandati tutti gambe all’aria almeno una volta. Un nuovo gioco, come no. Già allora sapevano, senza comprendere davvero, che un giorno sarebbe stato vero. Unica regola, chi perde muore…
"Quanti anni avevo? Non più di otto…"
Su quante menzogne aveva poggiato la loro vita? Quante balle avevano ascoltato, a quante avevano creduto? Piccoli stupidi, certo. Ma quanto era stata colpa loro? Mai nessuno si era preso la briga di mostrare loro cosa fosse una vita diversa.
Tentò di distendere i muscoli del collo e delle spalle, irrigiditi dalla fatica e dalla tensione di quella giornata. Per lui e Katie era ancora più difficile tenere dietro alle ricerche e proseguire il loro addestramento di recupero senza dare troppo nell’occhio, ma non avrebbero mai e poi mai rinunciato a fare la loro parte.
"Katie…" dietro quell’apparenza dimessa, si nascondeva un carattere che non si piegava. Aveva già affrontato le furie del caro Generale, e a cambiare era stata soltanto la qualità del suo sorriso, sempre più affilato e pericoloso. Era preziosa per lui e per Max, ora che loro tre erano gli unici del gruppo ad essere rimasti alla base, privi della loro guida.
"Sei un bastardo fortunato, Dave"
E ritornava la sensazione di essere osservati dall’ombra. Un fottutissimo Dungeon Master che giocava con loro come in una partita a D&D.
Alex detestava i giochi di ruolo dal profondo del cuore, lui non era fatto per la strategia e non era mai stato granché paziente. Preferiva lo scontro diretto, l’adrenalina che scorreva nelle vene, i muscoli che si rilassavano una volta scampato il pericolo. Per colmo di raffinatezza, eccolo costretto dietro una scrivania, senza possibilità di affrontare il suo nemico a viso aperto.
"Odio sentirmi tanto impotente…"

Passi veloci nel corridoio, mormorii divertiti. Alex tese le orecchie, ma non riuscì a distinguere che poche parole sconnesse. Fissò il bicchierino che aveva in mano, chiedendosi se, freddo, quell’intruglio avrebbe fatto ancora più schifo.
La porta della saletta si aprì all’improvviso. Uno spilungone allampanato e molto afro irruppe nella sala, fermandosi di colpo. Non si aspettava di trovare qualcuno lì, ne era certo. — Alex… — mormorò, infatti. La mano corse rapida alla tasca anteriore della giacca, come per un riflesso condizionato.

"Neanche avessi incontrato Martin e il suo gatto antidroga." — Ned — ricambiò lui con voce asciutta; lo conosceva appena, soprattutto per la fama di bello che le poche ragazze della base gli avevano cucito addosso. E qualcosa di interessante doveva averlo, fosse la pettinatura da Bob Marley, la pelle color zucchero bruciato, il fisico prestante o gli occhioni verdi, retaggio di qualche antenato arabo nel suo albero genealogico di senegalese. Lui, come tutti i maschi eterosessuali, si trovava a subirne la costante concorrenza, più che il fascino esotico, e lo apprezzava soltanto per lo stupefacente talento di coltivare marijuana idroponica di prima qualità all'interno del suo armadio da recluta. In più, non aveva voglia per nulla voglia di chiacchierare, quella sera. Sperò che il suo collega afferrasse subito il concetto e pensasse ai suoi dubbi affari. "Certo che, se non dovessi restare lucido, una cannetta l’accetterei volentieri."
Doveva avere quel pensiero scritto in faccia, perché il collega si lasciò cadere sul divano, immensamente sollevato. E prima che potesse dire una sola parola, aveva introdotto una mano nella tasca famosa, e ne aveva tratto…

 — Un set di dadi? — "Cos’è, mi legge nel pensiero?"

 — Sì… stasera c’è la sessione di Cthulhu* con i ragazzi del dipartimento informatico. La giochiamo sempre qui, non lo sapevi? — s’infervorò Rastaman, traendo dei fogli da una cartelletta. Poco ma sicuro, si trattava della scheda del suo personaggio. Come facesse quel ridicolo nerd a rimorchiare più di lui sarebbe sempre rimasto un mistero.

"E così, sfumano tutti i miei bei progetti sui paradisi artificiali…"

 — I membri di tutte le divisioni sono convocati immediatamente in sala conferenze per una riunione straordinaria. Ripeto, i membri di tutte le divisioni sono convocati immediatamente in sala conferenze per una riunione straordinaria. —

La voce dell’uomo più adorato della base rimbombò nell’altoparlante collegato direttamente all’interfono del suo ufficio. "E adesso che diavolo vuole?" Wood adorava abbattersi in quel modo sulla giornata dei suoi sottoposti, con la stessa grazia di un biplano della Grande Guerra. Gratificava il suo ego, già piuttosto sviluppato. Tuttavia, quel giorno c'era qualcosa di strano, nel tono di voce, come se quella riunione improvvisa seccasse anche lui. Alex fissò il compagno con aria interrogativa. — Ne sai nulla? —

 — Lo sapremo fra poco. Hai sentito? Dobbiamo andare tutti. —

Il ragazzo lanciò nel cestino quel che restava del suo caffè, mancando l’obiettivo per un pelo. — Io non sono in servizio stasera, penso di potermi risparmiare un altro delirio di Wood. Mi farò aggiornare. — "E se non mi vede ho ancora speranze di sgusciare inosservato al mio posto di lavoro notturno."

Ned contemplò per qualche secondo la piccola pozzanghera nera che s’era allargata sotto il bicchiere rovesciato, quindi si voltò con un sorriso da cospiratore. — Poco fa ho incrociato Wood nel corridoio del piano di sopra e se fossi in te verrei, Alex. Il vecchiaccio aveva la faccia di uno che si è accorto della bomba nel cesso solo dopo aver calato le braghe. Secondo me, è la volta buona che gli prende un colpo. —

~.~

Seiya non aveva mai amato il freddo intenso. Perfino da bambino, quando giocare con la neve era un passatempo che lo entusiasmava giusto per dieci minuti. Che si potesse vivere in luoghi come quelli, ricoperti da una coltre ghiacciata per dodici mesi l’anno, e chiamarli casa, era un concetto che sfuggiva alla sua comprensione. Tutto gli sarebbe potuto capitare, aveva sempre pensato, tranne che una gita attorno al circolo polare artico. Se era corso in quello sperduto angolo di mondo, era stato soltanto per portare soccorso ad un compagno d’armi. Ma il viaggio si era rivelato inutile, Hyoga non aveva avuto bisogno del suo aiuto. Era riuscito a sconfiggere il suo avversario, ma come accadeva spesso a tutti loro, nel farlo aveva perso un altro brandello d'innocenza.

La porta della casetta di legno si aprì. Ne emerse una figura familiare. Altair della Gru, la sorella di Hyoga, la sua vecchia amica. I suoi pensieri erano un'incognita perenne, tanto quanto il suo volto, nascosto come voleva la regola. Il suo contegno troppo riservato, le sue improvvise sparizioni, il modo in cui spesso lo colpiva la sensazione che gli nascondesse qualcosa… tutto questo lo incuriosiva e lo pungolava, e allo stesso modo lo teneva a distanza. Ma ci si poteva nascondere solo fino ad un certo punto, come Marin gli aveva insegnato a suo tempo, a suon di manrovesci, spronandolo a distinguere nella postura e nei gesti le intenzioni dell’avversario. La maschera non era un problema, non più. Buffo come quell’affare di metallo obbligasse a diventare perfetti interpreti del linguaggio del corpo: lui, dopo sei anni di convivenza con una Sacerdotessa ben poco tollerante, poteva definirsi un vero esperto.
Era fin troppo banale notare quanto Altair fosse triste, e preoccupata. Suo fratello aveva combattuto contro il proprio maestro, e salvarsi la vita gli aveva richiesto un prezzo troppo duro da pagare.

 — Come sta? — chiese, offrendo il volto al vento gelido.

Altair gli porse un mantello di pelliccia. — Dorme, ora — fu la laconica risposta.

Dopo la rapida sepoltura aveva ricondotto il fratello alla sua vecchia abitazione e aveva tentato di improvvisare qualcosa di caldo per tutti. Ma Hyoga non aveva toccato cibo, eclissandosi nella sua stanzetta di un tempo senza una parola. Loro due erano rimasti in silenzio, e Seiya aveva cercato disperatamente qualcosa da dirle. Aveva fissato la sua maschera, confuso e imbarazzato, finché lei si era alzata e aveva seguito il fratello nella sua tana. Dopo due ore, eccola ricomparire con le spalle curve. "Hai preso su di te metà del suo male, vero?"

 — E tu? — continuò, premuroso. "Che domanda stupida. Non ha certo l’aria allegra."
La ragazza tremò violentemente. Per un attimo Seiya pensò che volesse colpirlo. Ma poi si limitò a scrollare le spalle, come di fronte ad una battuta di dubbio gusto. — Andrà tutto per il meglio — continuò, sfiorandole un polso. — Hyoga si riprenderà, e riuscirà a dimenticare. —

Lei rise, un suono freddo e metallico. E scostò la sua mano. — Pensa se si trattasse della tua Marin — gli ricordò, pungente, come se desiderasse punirlo per qualcosa. — E poi chiediti quanto ti ci vorrebbe per dimenticare. —

Lui rimase in silenzio, soppesando le sue parole a occhi bassi. Si sentiva in colpa nei confronti di quella ragazza, senza sapere perché. Era come se, in qualche modo, sentisse di doverle più che quelle parole vuote. Non capiva da quale parte di sé provenisse quell’emozione, ma quel giorno era più forte di lui.
Kelly scrutò a lungo quel profilo tanto familiare, cercando di ravvisare in lui ciò che era rimasto del ragazzo che era certa di aver amato. "Dovrei desiderare un tuo abbraccio più di ogni altra cosa. Ma quel tempo… non lo ricordo quasi più."

 — Ascoltami, Seiya — riprese, con molta più gentilezza. "Non è colpa sua, cerca di ricordartene." — Se hanno provato a fare del male a Hyoga, vuol dire che il Santuario sta cercando di colpire mentre siamo separati. Neanche Saori e Shun sono al sicuro al cottage. Appena mio fratello si riprenderà dovrete dargli man forte. —

Lui la fissò dubbioso — Dovrete? — ripeté.

Lei toccò le sue mani, questa volta con intenzione, provando il tremendo desiderio di mostrargli un vero sorriso. — Io verrò con voi, ma non posso restare a lungo. C’è un posto in cui devo andare. —

"E qualcuno cui devo quanto meno delle scuse."

~.~



* Famoso gioco di ruolo da tavolo, The Call of Cthulhu








Angolo della vergogna™

Camus mi sta fissando, gente. E lo sta facendo molto, molto peggio del solito. Dopo tutti questi anni, finalmente si rende conto della fesseria che ha fatto venendo ad abitare nel mio armadio. sta alzando le braccia, che spero abbia opportunamente deodorato. Che dire, quindi, nei miei presumibilmente ultimi istanti di vita? Beh, intanto, chiedete a Philos di vendicarmi -_^

Sagitta, sono felice di averti conosciuto prima della mia dipartita. Quel gelato al cioccolato fondente e quelle chiacchiere su quella panchina non hanno prezzo. Voglio bene a te, ai tuoi parenti e alla tua piccola Alyssa. Che, ai miei occhi, d'ora in poi avrà il grande difetto di stare col mio assassino, ecco. Ti dedico tutte le parti in cui il francese di carta fa la figura dell figo. E anche quelle in cui non la fa, se no non ti lascerei quasi niente.

Sara, Saretta mia, muoio felice: sei tornata a scrivere di questo fandom, mi ha dato in pasto alcune tra le più belle pagine che abbia letto su questi personaggi, e soprattutto, dopo anni di (mia) latitanza da msn, sei sempre l'amica che eri. È un piacere ritrovarti e spero di mangiare altri McChicken in tua compagnia. A te le parti con le spie, che so non ti dispiacciono. E già che ci sei, ti regalo Ned che l'è un bel topone.

_Camus_, che sarebbe certo una gioia incontrare ( ma da come si mettono le cose, ne dubito), colgo l'occasione per ribadirti il piacere di ricevere i tuoi commenti interessati e pieni di note intelligenti. Meglio dire certe cose prima che sia troppo tardi, qui la temperatura incomincia già a calare. A te lascio Kelly, che se vuoi potrai strozzare. Sono come i faraoni dell'antichità: morta io, morti tutti.

Insomma, se dovessi sopravvivere all'Aurora Execution (sì, Camus, insomma, è un colpo un po' pacco, ammettilo, se non sei riuscito ad accoppare neppure un misero bronze… urca che freddo!), mi ritroverete presto su questi schermi. Altrimenti…

… arghhh!

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Capitolo 13
*** Track #12: Sometimes You Can't Make It On Your Own ***


Track #12: Sometimes You Can't Make It On Your Own TRACK 12

SOMETIMES YOU CAN’T MAKE IT ON YOUR OWN

Tough, you think you've got the stuff
You're telling me and anyone
You're hard enough...
You don't have to put up a fight
You don't have to always be right
Let me take some of the punches
For you tonight...
Listen to me now
I need to let you know
You don't have to go it alone […]
And it's you when I look in the mirror
And it's you that makes it hard to let go
Sometimes you can't make it on your own…

(U2)

La sala conferenze era gremita di gente. Alex aveva appoggiato la schiena contro la parete accanto alla porta, fissando con disincanto la folla di cornacchie in total black. Quello spettacolo non lo impressionava più. Le facce torve, le divise tutte uguali… nessun grado visibile, niente segni di riconoscimento. Precauzione indispensabile, quella, per i membri di un esercito segreto, della cui esistenza erano al corrente soltanto il Segretario Generale dell’ONU, e alcuni, selezionati capi di stato. Se li avessero catturati, nessuno sarebbe stato in grado di determinare a quale corpo appartenessero, nessuno li avrebbe cercati, nessuno avrebbe riconosciuto i loro cadaveri.
E, se fossero stati fortunati, a tempo debito qualcuno avrebbe aperto il loro testamento, e dato la notizia a quei pochi cui poteva interessare.
Sì, era proprio quello, il motivo del suo accanimento. Non voleva essere l'ultimo ad andarsene, non voleva morire solo. E quando suo zio l'aveva portato via dalla base il sollievo era durato soltanto per ventiquattro ore. La vita da civile non faceva più per lui, ragazzino e già segnato per sempre. Quando, un mese prima, aveva sollevato il telefono e dall'altra parte l'aveva raggiunto la voce piena d'ansiosa speranza di Katie, aveva sorriso senza neppure stupirsi.
Sapeva che prima o poi avrebbero trovato una scusa per tornare a casa. 

 — Always look on the bright side of life…*— prese a canticchiare, quasi senza rendersene conto. Poi sorrise appena. Per darsi per vinti c'era sempre tempo, ma ora…
Doveva credere che Mark e gli altri fossero ancora vivi, che non fossero fuggiti di loro volontà, che non l'avessero lasciato indietro come una vecchia scarpa. Aveva bisogno di pensare che, quando quel giorno fosse arrivato, qualcuno avrebbe aperto quella busta custodita in una remota cassaforte, e avrebbe sprecato una risata e una lacrima sui suoi saluti.
I coordinatori stavano già prendendo posto, in rigoroso ordine d'importanza. Alex avvertì la solita, familiare fitta di disagio, notando che Martin non era presente. Lo sguardo del giovane saettò fino all'estremità del lungo tavolo già ingombro di fascicoli, raccolti in ordinate scatole di cartone impilate da un energico inserviente. E accanto a lui…

"Eccolo…" Ned aveva ragione. Un Wood del tutto ostile sedeva al di là delle scatole, facendo rimbalzare occhiate malevole a destra e sinistra. Non lo aveva mai visto tanto furibondo e intimidito insieme. Accanto a lui, simili a bizzarri angeli della morte, stavano due figure piuttosto inconsuete: un Jack Allen dall'aria ancora più arcigna del solito e una ragazza di qualche anno più grande di loro, una rossa perfettamente a suo agio che aveva snobbalo la sedia in favore di una  pila di fascicoli, su cui si reggeva in un prodigio di equilibrio instabile.

"Dipartimento disciplinare…" dedusse immediatamente il ragazzo, fissandola con aperta ammirazione. Aria sicura, belle gambe, chioma ramata naturale. Senza contare il tailleur da lady di ferro. "Un frustino e sarebbe perfetta." La sua immaginazione di diciottenne in piena tempesta ormonale non esitò un attimo a lanciarsi in fantasie condite di candele nere e aderenti completini in pelle. Molto aderenti. E molto in pelle.
In quel momento i suoi amici gli si accostarono, trafelati. Rispose al saluto di entrambi, senza staccare gli occhi da quella visione celestiale. — Max, pensi che avrò abbastanza tempo per ripassarmela? —

 — Cosa? — Il tedesco lanciò un’occhiata distratta sul palco. In quel momento, la ragazza seduta si volse nella loro direzione. Sorrise maliziosa, lanciando un bacio con la punta delle dita. Max divenne pallido come un cadavere.

 — Scheiße… — mormorò. La ragazza riprese a sfogliare un dossier, come nulla fosse, lo stesso sorriso appena accennato sulle labbra.
Jack Allen sorbì un ultimo sorso dalla sua eterna tazza di caffè, quindi si schiarì rumorosamente la voce nel microfono.
La riunione era iniziata.



~.~


 — Non puoi piombare qui, agitare un foglio di carta e pretendere la nostra istantanea collaborazione, Allen. Perfino un seccatore megalomane come te dovrebbe rendersene conto. — Wood non era per niente credibile. Non con quel tremito nella voce, e quel tamburellare nervoso delle dita sulla superficie della scrivania.

 — È stato il Dipartimento della Difesa di questo grande Paese che vi ospita ad autorizzarmi. Il nostro grande Paese, Wood. Voglio tutto il materiale che ti ho chiesto, entro domattina, su questo tavolo. Non credo che ci sposteremo da questa sala. —

"No che non lo farai" stavano saettando gli occhi del Generalissimo, come lo chiamavano i suoi più affezionati detrattori. "Brucerò vivo, prima di permetterti di andare in giro a ficcanasare per la MIA base". L'uomo si costrinse ad un sorriso piuttosto untuoso, che non ingannò nessuno, ma scatenò un'ondata anomala di sogghigni.

Tutti avevano potuto seguire quel breve dialogo, nonostante il microfono fosse coperto. Del resto, quella sala non era poi così ampia, ed era dotata di un'ottima acustica. Alcuni già stavano per ridere apertamente, ma una severa occhiata circolare, dispensata dagli occhi di ghiaccio di Jack, era bastata per ridurre tutti nuovamente al silenzio.
Poi, l'ex marine aveva ripreso a parlare, pretendendo la reperibilità di tutti gli impiegati. L'indagine in corso avrebbe richiesto interrogatori separati, da cui nessuno (l'uomo sottolineò accuratamente la parola) avrebbe potuto esimersi.
Ma l'attenzione di Max era da un'altra parte.
Rivedere quella donna dopo tanto tempo gli procurava una strana sensazione. C’era qualcosa di familiare, e al contempo, l’esatta percezione che la vita continui il suo viaggio, che il mondo attorno cambi troppo in fretta per poterlo fotografare appieno nel ricordo. Il ragazzo si trovò catapultato ai primi giorni del loro addestramento, per rivederla com'era allora, una ragazzetta di pochi anni più grande di loro, che i loro occhi di bambini sembrava tanto adulta, in piedi accanto a Martin, ad aiutarlo, e ad imparare.
Imparare, come Martin, a crescere altre spie come loro. Aveva avuto occhi che ridevano anche allora, e una bocca che non aveva mai aveva timore di imitarli.
Come se l'avesse sentito, la ragazza dai capelli rossi lanciò ancora uno sguardo sbieco, un mezzo sorriso pronto ad allargarsi all’angolo delle labbra. Max ricambiò appena, colpito da un ricordo incongruo: l’allegro festino clandestino che avevano organizzato nei sotterranei della base, il giorno in cui il suo apprendistato era finito. Non c’erano state cerimonie, diplomi con il bordo dorato, nessuna di quelle pacchianate in stile telefilm. Soltanto una pacca sulla spalla, e il sogghigno di Martin non appena Wood si era voltato. Della notte che era seguita, aveva conservato soltanto pochi ricordi: il sapore di ciliegia del lucidalabbra della sua Chris, il suo primo White Russian e la ferma intenzione di non sbronzarsi mai più.
E anche lei, la sua mano pestifera a scompigliargli la zazzera, e quel sorriso malandrino che la mattina dopo non avrebbe ritrovato all'appello. Svanita nel nulla, partita per il suo primo vero incarico. A cavallo di una scopa, aveva aggiunto David, caustico più del solito. Il perché, tra le risate di Mark, l'avrebbe scoperto soltanto settimane più tardi.
Si guardò attorno. Accanto a lui, i due amici, annoiati e divertiti. E inconsapevoli.
"Già, loro erano già lontani, quando lei andava in missione con Martin. E lo aiutava ad addestrarci."
Tre anni. Ed eccola ricomparire al fianco del responsabile della sezione Disciplinare, famoso misantropo con la scopa nel deretano e notoriamente contrario alle collaborazioni con altri dipartimenti. L'uomo che dopo mesi li aveva indirizzati su una pista promettente, fornendo loro la fotografia di Wood con il 'ganzo' senza nome. Troppa grazia, che fosse ricomparso proprio mentre esaminavano gli incartamenti del misterioso benefattore.
In quale compagnia, poi. Clara Galesi, la donna che lui ricordava, era adatta per le indagini disciplinari tanto quanto un ladro di elemosine a far questua per un convento.
"Se fossi maligno mi chiederei cosa c'è sotto… e potrei mandare Alex ad indagare. Dopotutto, pare già ben disposto."

 — Potrei punirla per questa disattenzione, sottotenente Herrmann —  Per un attimo eterno, Max fu sul punto di mettersi sull’attenti e urlare ‘signorsì, sergente istruttore’. E di rendersi sommamente ridicolo. — La riunione è terminata, e lei non ne ha seguita neppure la metà. —

"Dannazione…" l’aveva fatto fesso imitando quasi alla perfezione l’accento del sadico bastardo irlandese che li torturava a sette anni con le sue interminabili sedute di ginnastica.

 — Non hai perso il talento né il gusto per gli scherzi da prete, Galesi —  ribatté, con tono poco divertito. Per tutta risposta, una risata scrosciante.

 —La gente non cambia mai del tutto, Max. Tant'è vero che tu sei ancora il piccolo crucco troppo serio che ricordavo — sorrise lei, una mano tesa verso i suoi capelli.

"Diavolo, non sono più un bambino." Il ragazzo la schivò con uno scatto maldestro, che lo mandò a schiantarsi diritto tra le braccia di Alex, giunto proprio in quel momento. "Come un cane da tartufo, in effetti…"

 — Max, te l'ho detto mille volte, sei un bel ragazzo, ma proprio no — commentò il suo amico, togliendoselo di dosso con quello che indubbiamente riteneva un sorriso affascinante. Un sorriso tutto per lei.

"Farà la fine di Dave, me lo sento…" — Alex, ti presento… —

Un sorriso malandrino, a gamba tesa. — Sono Claire, Alex Barzini. La tua fama ti precede. —

"Ma davvero?" Max la guardò molto, molto male. Lei ricambiò con una scrollata di spalle. E intanto Little Casanova partiva all'attacco, ignaro di essere diventato, agli occhi del suo amico, del tutto identico ad un ignaro crotalo nelle grinfie di una esperta mangusta.

 — È un onore essere nel radar di una donna tanto affascinante — sbatté le palpebre un paio di volte, accattivante. Max si ritrovò a fissarlo con gli occhi fuori dalle orbite. "E questa da dove l'hai presa? Dal manuale per la verginità perpetua?"

Claire scoppiò a ridere. E scostò con eleganza la mano che già aveva tentato di planare nell'incavo della schiena. — Vola basso, giovanotto. Ci sono piaceri difficili da guadagnare. —

 — Già, vola basso, Alex. — la voce di Allen, secca e vagamente risentita come sempre. Li fissò, tutti, anche Katie ancora addossata alla parete, reclamando la loro attenzione senza sprecare una parola. — Voi tutti, con me. Dobbiamo parlare, subito.—

~.~


Il sottotetto dell’Undicesimo Tempio era diventato una sorta di rifugio, quella sera. Dopo la difficile conversazione del pomeriggio Milo aveva accompagnato Camus a casa sua, ottima scusa per non lasciarlo. E l’altruismo c’entrava poco. Scorpio si sentiva confuso, e smarrito, come da tempo non gli accadeva. Si faceva presto, fin troppo presto, ad imparare a chiudere gli occhi di fronte alle ingiustizie, se non ti riguardavano da vicino, e dopotutto non aveva mai prestato più di tanta attenzione anche allo spropositato numero di novizi rinunciatari che lasciavano il Santuario in una bara di legno, quando non andavano a deliziare i corvi all'interno di una qualche fossa comune. Difficilmente aveva battuto ciglio, anche di fronte inevitabili vittime collaterali degli incarichi che Arles gli affidava ormai da tempo. Questa volta era diverso, e non soltanto a causa del dolore composto che filtrava, come umidità, dagli occhi troppo asciutti del suo amico di sempre. No, c'era qualcosa di nuovo, come la sensazione irrimediabile che nel mondo qualcosa avesse preso a girare nel verso sbagliato. Non riusciva scuotersi dalla mente il disgusto per ciò che il Sacerdote aveva portato a compimento, per la crudeltà immotivata di quel gesto. Con tutti i guerrieri al sul servizio, aveva ordinato proprio al Maestro dei Ghiacci di portargli la testa del suo allievo. Preferiva non immaginare quali metodi potesse aver usato per convincerlo.
Si rigirò la bottiglia di birra ormai vuota tra le mani. Camus non aveva toccato la sua. Come se l’avesse chiamato, l’amico alzò gli occhi su di lui.

 — Grazie di tutto Milo, davvero. Ma ora… credo di aver bisogno di riflettere. —

Scorpio non poté che annuire, semplicemente. La porta si richiuse con uno strano rumore ovattato.
Camus si prese la testa tra le mani, cercando un modo di dare sollievo a quel martellio che sembrava volergliela spaccare, ma si rialzò quasi subito, colto da un’idea improvvisa.
"Bagno."
Si strappò di dosso la maglietta, aprì il rubinetto della doccia e immerse la testa nella corrente d’acqua gelida, finché la morsa del dolore non si allentò, e poté respirare più agevolmente. Prese a tamponarsi i capelli con gesti lenti, svogliati.
Tutto, pur di non pensare.
Era così abbattuto che neppure si accorse del leggero bussare alla porta del suo appartamento. Tornò nella sua camera da letto, senza preoccuparsi di rivestirsi, senza provare nulla oltre quello spaventoso senso di vuoto. Sentiva, sapeva che si stava aggrappando a quei gesti meccanici, allo sfregare ripetitivo dell'asciugamano sulla pelle, come se si trattasse di un sortilegio che l'avrebbe strappato a quella realtà. Pensò a Kelly, ai suoi occhi spenti la sera in cui aveva dato l’addio al suo amico scomparso. "La solitudine di chi resta…" In quel momento desiderò di non aver chiesto a Milo di lasciarlo, di non avergli mai mentito, di non essere così… ostinatamente solo.
Era questo che lei aveva cercato di dirgli, prima di sbattere la porta e tornare da Saori Kido? Che presto o tardi avrebbe dovuto fidarsi ancora?
"Non posso, ragazzina. Soprattutto non con te. Fa già abbastanza male così."
Alzò gli occhi sullo specchio. In momenti come quello lo detestava. Rifletteva sempre lo stesso viso. La sua solita espressione seria, composta, impassibile. L’aspetto di chi sembra aver raggiunto un nirvana tutto suo.
Il riflesso di un mostro. Un essere che non era neppure capace di piangere la morte di un amico. "Ci dev'essere un momento, un interruttore, che spegne la capacità di farlo… e allora perché…"
Si girò verso la porta, e all’improvviso si accorse di lei. Una mano sulla maniglia, la maschera rituale nell’altra. Si dondolava sui piedi, incerta. Si sentì soffocare da un’ira così violenta e improvvisa che non riuscì a trattenersi.

 — Che ci fai tu qui? — sibilò.

Kelly aprì bocca, ma non rispose. Camus osservò con bieca soddisfazione la testa chinata, e la stretta convulsa della mano attorno alla maschera. "Che dolce… Sei venuta a fare da bersaglio perché ti senti in colpa?"

 — Credevo che la signorina Kido fosse una compagnia migliore della mia — sogghignò con fredda ironia. Lei prese a fissarlo, incredula. "So perché sei venuta. Ma non voglio il tuo aiuto. Non riuscirei a farne più a meno." — Magari ti ha innervosito e hai piantato in asso anche lei? Cattiva, cattiva Saori. Bisogna avere più rispetto dei nervi di Sua Signoria… —

La ragazzina trasalì, gli occhi che cercavano di posarsi dovunque, tranne che su di lui. "Vattene prima che continui." In quel momento si sentiva ben disposto a demolire l’intero Santuario, Palladio compreso. Tutto pur di non pensare. Alëša era morto per la sua stupida disattenzione. Anche lui, come David. E come Aioros. "Quanto mi fai pena, ragazzina. Come pensi di rimediare a ciò che è successo?"

 — Sono… sono venuta… per te — balbettò lei, confusamente. L'aveva spiazzata, per una volta. E doveva ammettere che lo trovava piacevole.

 — Per me? — ribatté velenoso. Incrociò le braccia e prese a fissarla con cattiveria. — Allora ripassa tra qualche giorno. Non sono in vena di scenate infantili, per oggi. — Secco, tagliente. E crudele. Si sentiva un verme e allo stesso tempo non riusciva a smettere di offenderla. — Oppure sei qui per assicurarti che non mi venga in mente di ridurre tuo fratello ad un pupazzetto di neve? —

"Ma sì, che idea fantastica. Smettiamo per una volta i panni dell’eterno perdente. Sarebbe  divertente trasformarsi in Mr. Hyde."

 — Lascia stare Steve… lui non c’entra — soffiò la biondina, come se volesse saltargli al collo.

"Fare la carogna è più gustoso del previsto…" — Pensavo che l’assassino c’entrasse sempre… —

Lei sembrava sul punto di scoppiare a piangere. O di chiamare uno strizzacervelli. — Smettila, Camus. Mio fratello non è un assassino. Non più di quanto lo sia tu. —

 — Io? Allora sì che il povero Steve può dormire tranquillo… — insinuò, mellifluo.

Kelly non rispose subito. Chinò il capo, e la maschera le sfuggì di mano. Chissà, forse era diventata troppo pesante. — Questo non sei tu… — bisbigliò.

"Deponi le armi? Bisogna festeggiare, allora". — E cosa ne sai, tu, di come sono io? — ribatté, beffardo. "Cos'è che credi di aver indovinato, ragazzina? E perché ora sei triste?"

 — Hai ragione, una volta credevo di saperlo. E ti consideravo il miglior esempio — ammise lei, tormentandosi i palmi con le unghie. — Ma sbagliavo anche allora. —

"Questa dovrebbe farmi male?" — Tutto sommato, credo che sopravvivrò anche senza la tua approvazione — motteggiò, con pesante sarcasmo. "Benvenuta nel mondo vero, piccola Kelly."

 — Buon per te. — Tre parole soltanto, pronunciate con tutta calma. Diamine, il gioco era già finito? Camus represse a stento l’impulso di crollare a sedere sulla sponda del letto. Sarebbe stato un segno di debolezza e non aveva alcun desiderio di mostrarsi vulnerabile di fronte a lei. Rimase in piedi, voltandole le spalle e tentando di ignorare la sua presenza. "Un bambino. Mi sto comportando come un bambino che pesta i piedi e offende chiunque capiti a tiro. Davvero sono dieci anni più vecchio di lei?"

Kelly si mosse con circospezione, fino a trovarsi di fronte a lui. Quanta pena nei suoi occhi… In un’altra occasione se ne sarebbe offeso, invece… ne era quasi commosso. Distolse lo sguardo. "Perché t’importa tanto?"

 — Penso che dovresti occuparti di tuo fratello — le fece notare. "Ecco, vattene da lui. Io preferisco cuocere nel mio brodo."

 — Non c’è nient’altro che possa fare per lui oggi… — Steve. Il suo Steve che aveva intravisto, per la prima volta da quando erano piombati un quell’incubo, proprio quel giorno, mentre seppelliva sotto il ghiaccio eterno il corpo del suo maestro, morto con un tenue sorriso. Steve che aveva allungato una mano, fino a stringerle le dita tra le sue, una, due, tre volte, con un ringraziamento appena celato negli occhi. Il loro gesto della buonanotte, da bambini. Forse c’era qualche speranza per tutti loro…  — Sei tu che mi preoccupi, adesso — continuò, riportando la sua attenzione su Camus, afferrandogli un braccio per costringerlo a voltarsi.

Un’occhiata fu sufficiente. Prima lei. Poi la sua mano. La ragazzina lo lasciò andare come se scottasse. Con un pesante sospiro, sedette sul bordo del letto. Si raggomitolò con le ginocchia al petto, e prese a dondolarsi lentamente. Camus si voltò a guardarla, perplesso. La spavalda guerriera della Gru era intimidita da lui. Da non crederci, proprio lei che qualche tempo prima avrebbe potuto tentare di cavargli gli occhi con un cucchiaino.

 — Sai, a volte mi chiedo perché nessuno abbia mai inventato un farmaco contro questo tipo di dolore. Ma forse è meglio così. Tu ed io ne diverremmo dipendenti. —

Camus si sentì mancare il terreno sotto i piedi. E tutta la sua rabbia infantile stava andando in fumo. "Tu ed io…" La comprensione racchiusa in quelle poche parole lo stupiva e lo confondeva. "Come se ne avessi bisogno, ragazzina."

 — Io sono a posto — scandì, in un ridicolo tentativo di apparire convincente. "E comunque non ti ho chiesto di occuparti di me. Anzi, smetti di guardarmi come una cerbiatta spaurita. Mi sento in vena di follie stasera."

Come se l'avesse sentito, Kelly prese a fissare il vuoto di fronte a lei. — Credi di prendermi in giro, maestro? Sei anni passati a decifrare i tuoi segnali in codice parlano contro di te. —

Camus scrollò le spalle, di nuovo seccato. Si chiese per quanto ancora potesse sopportare quel bombardamento di buoni sentimenti abilmente camuffati da impertinenza. — E che cosa ne avresti concluso, ragazzina? —

"Che sei un idiota, sig. Adulto&Inacidito." — Camus, tanto per citare un saggio di origini franco-siberiane, la vita è tua. — Lei aveva scelto con cura le parole, e le aveva pronunciate scandendo ogni sillaba. — Quello stesso saggio una volta si è vantato di insegnare ai suoi allievi a non fuggire di fronte alle difficoltà, di qualunque natura esse siano. — Lo fissò a lungo, godendosi il suo muto stupore. —Ma forse parlava solo di combattimenti, chi sono io per dirlo? — concluse, trasudando malafede.

 — Tu… hai ascoltato tutto, quella mattina? — Camus serrò le nocche per smorzare la tensione. Quello era esattamente il genere di sorpresa che non gradiva ricevere.

 — Se con ‘tutto’ intendi l’ingenuo tentativo della mia povera sorella di inculcarti un briciolo di spirito di squadra, allora penso di sì. — La ragazza sorrise. — Mi dispiace, maestro. Se fossi stata appena un po’ più sveglia le avrei impedito di sprecare il fiato. —

 — Come sempre la tua bontà è stupefacente. — Camus incrociò le braccia con un gesto plateale. — E immagino che la tua presenza qui stasera abbia una ragione precisa. —

Kelly batté una mano sul copriletto in un muto invito. Le sfuggì un sorrisetto sardonico, nel riconoscere lo stesso abito improvvisato che aveva protetto la dignità del suo maestro una notte di qualche tempo prima, quando era piombata in quella stessa camera a notte fonda e l’aveva trovato in condizioni ben poco presentabili. Incrociò i suoi occhi appena in tempo per vederlo irrigidirsi lievemente, colto dallo stesso pensiero. Borbottando qualcosa, Camus aprì l'armadio e ne trasse una camicia con la zip.

Kelly aspettò pazientemente che la vestizione fosse terminata, poi scoppiò in una breve risata. — Sei sempre convinto che la vista di un uomo a torso nudo possa procurare un trauma ad una mente giovane, non è vero? —

"E chi può pretendere di impressionare Miss Sono-Una-Donna-Navigata?" Camus le scoccò un’occhiataccia, le mani ancora sulla cerniera, ma l’espressione serena sul viso della ragazzina riusciva a spegnergli qualunque desiderio di litigare ancora.

 — Sto aspettando — le fece notare, girando attorno al letto per andare a sedersi sulla poltrona, le braccia incrociate al petto, il più lontano possibile da lei.

Kelly si lasciò sfuggire un sogghigno. Non c’era bisogno di tante parole. Camus restava sempre fedele a se stesso ed era quello il suo modo contorto di chiederle scusa. Si allungò sul materasso, senza curarsi di chiedere permesso. — Nella mia ingenuità, ho creduto che la presenza di qualcuno che sa esattamente come ti senti avrebbe potuto farti piacere. —

La lampada ad olio che troneggiava sulla cassettiera cominciò dapprima a fumigare, infine si spense senza che il padrone di casa se ne preoccupasse. Aveva ben altro per la testa. — Kelly… non sei obbligata a farlo. Non sei obbligata a restare. — disse, in tono contrito.

 — Lo so, ma voglio farlo. Neanche io devo essere stata un granché amabile, in questo periodo. — Sospirò lei, con una dolcezza che lo stupì. — Ogni volta che mi sono sfogata su di te sapevo di non meritare altro che un paio di schiaffi. Anzi, di una bella pedata, giù dalla vetta. Ma tu non mi hai abbandonato al mio destino. Perché l’hai fatto, Camus? —

"Non credo che vorresti saperlo davvero." — Dove vuoi andare a parare? — replicò lui, a disagio. Era davvero il caso di dirottare altrove la sua attenzione. Quella conversazione rischiava di rivoltarsi contro di lui.

 — È così difficile accettare un po' d'aiuto da chi si preoccupa per te? — la voce di Kelly era percorsa da una traccia inconfondibile d’ironia. Dopotutto, lo conosceva bene.

 — Non è difficile. Ma non dovresti sprecare tempo con chi non ne ha bisogno — sentenziò Camus, nella speranza di chiudere quello sgradevole discorso una volta per tutte. "Tu non puoi capire. Vorrei essere abbastanza ottuso da prendermela con tuo fratello. Ma non posso. Perché è soltanto colpa mia. Sembra che la morte mi corteggi in continuazione, ma decida sempre di preferire qualcuno che mi è caro." Un pensiero doloroso, fin troppo realistico. "Potresti essere tu la prossima…"
Lei scese da letto e si avvicinò. Per un attimo il suo profumo lo stordì, una nuvola delicata ed allusiva. "Come un fiore che sta sbocciando. O un pasticcino che aspetta solo di essere assaggiato. Dannata bambina, davvero non capisci o stai solo giocando?"
E intanto non riusciva a smettere di guardarla, nonostante quelle contrazioni sospette sotto la cintura e l'improvviso desiderio di emigrare in un posto molto freddo.

 — Sai che non arriverai da nessuna parte se continuerai a pensare che sia sempre colpa tua? — Gli si era piazzata davanti, e torreggiava su di lui, le mani sui fianchi, con un cipiglio da maestrina che abbia appena colto in fallo il suo allievo più discolo.

"Per le mutande da donna di Saga, ecco che ci risiamo." Braccato, ecco come lo faceva sentire. Quella marmocchia non possedeva soltanto il potere di rimescolargli il sangue, riusciva anche a mettere a nudo sentimenti che si sarebbe scordato volentieri di provare. "Ho passato metà della mia vita convinto di aver rimosso ogni emozione pericolosa. E ora arrivi tu, piccola impicciona, a ricordarmi chi ero allora."
Allora. Prima che Kido lo trovasse. Prima che si trasformasse nella statua di se stesso. Prima che…

 — Tu non sai nulla di ciò che penso — sibilò, pericolosamente vicino ad esplodere di nuovo.

Kelly se n’era accorta. Si allontanò senza una parola. Quando Camus si decise a guardare cosa stava facendo, la vide appollaiata sul davanzale della finestra. "Brava, fatti vedere. Serviamo a Saga il cospiratore e la sua emula maldestra su un piatto d’argento."

 — Ragazzina, togliti di là — ammonì a bassa voce. Lei lo ignorò. Aveva lo sguardo fisso sulla volta stellata. — Non so se per te farà differenza saperlo. Io… io c’ero. Posso raccontarti com’è andata. —

"No, grazie…" Poteva anche immaginarselo da solo. Avrebbe preferito piuttosto chiudere gli occhi e dormire, dormire fino alla fine dei tempi. Ma adesso che quella rabbia benevola l'aveva abbandonato in modo così poco opportuno non riusciva più a togliersi dalla testa l’immagine di Alëša, dalle orecchie le sue ultime parole. Soltanto pochi giorni prima.



 — Sono davvero preoccupato, Camus. —

Sì era limitato ad uno sguardo interrogativo, e divertito. Per Alëša, alle volte, farsi carico degli altri era naturale come respirare, e Aquarius era già convinto che stesse per lanciarsi nella lunga e ben poco appassionante cronaca delle disavventure di qualche abitante della steppa, suo grande amico, di cui lui si sarebbe ricordato a malapena. L'armatura di Corona Borealis  era composta in un angolo della camera da letto, e loro due si erano avventurati fuori, sul tetto di marmo candido e perfettamente liscio dell’Undicesima Casa. "Un vero miracolo che se la sia tolta…" aveva pensato.

Il suo amico aveva sollevato a malincuore lo sguardo dal bicchiere di tè alla menta che stava sorseggiando, e aveva puntato gli occhi trasparenti nei suoi. — Il Sommo Pontefice non mi ha convocato. Sono venuto di mia iniziativa. — Gli aveva teso la lettera che lui stesso gli aveva recapitato di persona qualche tempo prima, e Camus si era un po' vergognato di quella condiscendenza che, per fortuna, aveva tenuto per sé. — Ordina che gli costruisca una piramide di ghiaccio. Un monumento al suo potere — l’aveva informato con voce tremante. Stava fremendo di sdegno, e non era mai stato bravo a dissimularlo; non lo aveva mai ritenuto importante.



"Alëša…"


Camus aveva faticato per mantenere una patina di distacco. In un post scriptum Sua Santità l’Impostore suggeriva di utilizzare come lavoranti gli abitanti di Kobotek. Con la forza, se si fosse reso necessario.

Gli aveva restituito il plico in fretta, come se scottasse. — Hai intenzione di chiedere udienza ad Arles, domattina? —

 — Non vedo cos’altro potrei fare — aveva risposto Alëša, alzandosi. —Domattina presto contatterò quel Primo Ministro, e presenterò la mia richiesta. Il Sacerdote non può negarmi una spiegazione.  —

— Se quel Gigars dovesse ritenere il preavviso troppo breve, prova a congelargli qualche parte poco importante. Sarà un utile promemoria  — aveva lasciato cadere Camus, con una punta di divertimento. Divertimento che era svanito di colpo, al pensiero delle possibili conseguenze di quella udienza. Saga avrebbe riso degli argomenti del suo amico, ne era certo. Ma, d'altra parte, conservava ancora sufficiente buonsenso da cercare di tenersi buoni i Santi d'Argento, se solo non avessero alzato troppo la cresta. — E sii prudente, con Arles, ci sono diversi modi per mettere al sicuro quella gente e non è necessario che lui li venga a sapere — aveva aggiunto, come quei padri ansiosi con figli adulti, che sanno di non avere più altre cartucce, a parte delle vuote esortazioni.

L'altro aveva annuito, rilassandosi. Camus aveva compreso di colpo che era quella, la vera ragione della sua visita. Alëša aveva temuto che lui potesse approvare quella vergogna, o quantomeno consigliargli di eseguire quell'ordine, dal momento che proveniva dalla massima autorità. Ed ora sorrideva, sollevato di aver scoperto di avere ancora un maestro da stimare. E un amico. Era rimasto in piedi, contro il sole che moriva, lui che era un figlio di quei ghiacci e che mai li avrebbe profanati. — Non andrò in cerca di una rissa, lo sai. Ad ogni modo, ti ringrazio per l’ospitalità. Penso che ci rivedremo non appena avrò chiarito questa faccenda. —


"Invece non ci rivedremo affatto. Che beffa la vita. Un mattino ti svegli, e qualcuno che ne ha fatto parte di colpo non c’è più. E il vuoto che lascia non si colma."
Non aveva più visto Alëša, prima che una sentinella della Tredicesima l’informasse con un sogghigno che aveva lasciato il Santuario in tutta fretta. Se n’era stupito, ma non troppo preoccupato. Aveva pensato che dopotutto il provato buonsenso del suo amico lo avrebbe tenuto fuori dai guai. Sarebbe andato a verificare di persona, se non fosse stato già in partenza per il  K2. Una leggerezza imperdonabile.
Solo ora, dopo aver sentito il racconto di Milo, e aver collegato i vari pettegolezzi a bassa voce dei soldati, riusciva a capire come Alëša fosse stato astutamente messo alla prova, e quindi attirato al Santuario, per costringerlo ad eseguire l'ordine che al mentecatto premeva davvero.
"Nessuno può dirsi al sicuro dal potere manipolatore di Saga. E tu dovresti saperlo meglio di molti altri."
Ma le cose non erano andate come il fine stratega di Gemini aveva sperato. Il piccolo Cigno ce l'aveva fatta. 
Avrebbe avuto di che sorridere, se un altro dei suoi amici non fosse morto.

Sobbalzò, gli occhi di nuovo aperti. Kelly si era avvicinata ancora, e gli aveva sfiorato una mano con delicatezza. — Sei ancora su questo pianeta? —

"Io sì, maledizione. Io sono sempre qui, mentre attorno a me tutto il resto va in malora." La respinse malamente. "Vattene. Chi ti ha chiesto di farmi da fata madrina?"

 — Come vuoi tu… — lei gli voltò le spalle, senza cogliere il suo sguardo già pentito. L’osservò raccogliere con indifferenza la maschera dimenticata sul pavimento. Un oggetto inutile e fastidioso, come lui. E Kelly, che si accaniva a tentare di salvare quel po’ d’umanità che gli era rimasta, forse sapeva già di combattere una battaglia persa.
La sentì imboccare le scale che portavano al piano inferiore. Pochi attimi, e se ne sarebbe andata. "E se domani si portasse via anche lei?"

 — Aspetta, ragazzina, non puoi andartene proprio ora… — La raggiunse in quattro falcate. Lei si fermò presso il colonnato, senza apparente interesse. Si voltò con aria stanca e prese a tamburellare con le dita tra le scanalature di una delle tante colonne.

 — Cos’è esattamente che dovrei aspettare? Sei stato abbastanza chiaro. Ripetutamente chiaro. Ed io… non capisco neanche perché mi preoccupo tanto per uno come te. Sai che ti dico, maestro? Resta solo, se è questo che preferisci. Costruisciti una solida bara mentre sei ancora in vita. — "E dopo seppellisciti."

"Che diavolo puoi inventarti, quando sai di non avere scuse?" — ci sono ancora troppe guardie in giro perché tu te ne vada senza rischio. E poi non mi hai ancora raccontato cos’è successo a Kobotek — abbozzò.

Kelly si tolse la maschera. Di colpo gli sembrava molto più adulta della sua età. Bambini senza infanzia, guerrieri addestrati troppo presto per aver mai saputo cos’era la pace, tutti loro. Perché proprio lei avrebbe dovuto far eccezione? Era grande ormai, anche per merito suo. O forse suo malgrado.

 — Davvero vuoi saperlo? —

"No, ma è sempre meglio che lasciarti andare." — E tu hai sempre voglia di spiegarmi che ci fai qui? —

La ragazza gli dedicò un piccolo sorriso, prima di abbracciarlo di slancio. Camus s’irrigidì, sorpreso, ma soltanto per un istante. "È inutile tentare di tenerti alla larga. Riesci sempre a stanarmi." E quello era l’unico gesto di cui avesse davvero bisogno. "Non voglio restare solo…"
Chiuse gli occhi. Sentiva la tensione sciogliersi, liquefarsi ai suoi piedi. Non poteva cambiare il passato. Doveva tentare di accettarlo, ancora una volta. "E finché ci sarai tu saprò di non aver fallito del tutto…", pensò, tuffando una mano tra i suoi capelli. L’altra rimase abbandonata lungo il fianco, a ricordargli che era meglio non sfidare troppo la sorte. E neanche quelle emozioni davvero troppo confuse.

 — Ci voleva tanto? — lo prese in giro lei, con una voce piena di dolcezza. — Non puoi portare il peso del mondo da solo, maestro. — Scosse la testa contro la sua spalla. — Nessuno di noi può. —

 — Kelly… — Perché non riusciva a parlarle? Cos’era che gli seccava la gola?

 — Ti prego, non farmi sentire altre assurdità. Sei stato esasperante. E mi hai fatto dimenticare la cosa più importante che dovevo dirti oggi. —

Lui la scostò abbastanza da guardarla negli occhi. Brillavano. All'improvviso, sembrava che non potesse più contenersi. — Attenta a te, piccola serpe — la minacciò con un sorrisetto, contagiato da quell’allegria.

Kelly si guardò attorno, quindi si sollevò sulle punte, fino ad arrivargli all'orecchio. — Camus… Dave è tornato. —



~.~










Angolo della vergogna™


Lo giuro, miei 4 lettori. Quando ho scritto la battuta su Camus che si costruisce la bara da vivo era il lontano 2005, e Death Toll, il Cassamortaro dello Zodiaco, non era ancora uscito a far danno al sole di Next Dimension. Forse, se l'avessi saputo prima, me la sarei risparmiata. O forse no, perché messa così sembra quasi una battuta alla Mel Brooks. Forse. Se siete orbi e leggete con l'occhio miope.
Quanto al resto… beh, sono ancora viva, per la gioia del francese di carta. Glielo avevo detto che il suo colpo in realtà è un pacco.
E vi prometto anche che i capitoli sfrangicosi stanno per finire. Ora sta per succedere qualcosa. Devo pur ringraziare Camus per tutte le sue premure, no?
Il ringraziamento vero, come al solito, va a tutto voi che leggete, a chi, tanto carinamente, mi lascia un commentino, a Philos che legge, ghigna e segnala i refusi. In bocca al lupo a te, amica. Tu sai per cosa.

*THE BRIGHT SIDE OF LIFE, da LIFE OF BRIAN, geniale film dei Monty Python per il quale, nonostante il rischio lapidazione, non potrò mai smettere di rendere lode a Geova. O Allah, o Buddha, o chi per loro. Ouch!

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Capitolo 14
*** Track #13: Friends Will Be Friends ***


Modello per Gates of Gods - Da inserire qui il titolo volta per volta TRACK # 13

FRIENDS WILL BE FRIENDS

It's so easy now, 'cos you got friends you can trust
Friends will be friends
When you're in need of love they give you care and attention
Friends will be friends
When you're through with life and all hope is lost
Hold out your hand 'cos friends will be friends - right till the end

(Queen)

Non riusciva a credere ai suoi occhi. Per un attimo si era chiesta se non avesse preso un colpo di calore, o sviluppato inaspettati poteri da medium. Gli alberi attorno allo chalet del Sant’Uomo ancora fumavano in ricordo della battaglia appena terminata, riempiendole i polmoni dell’odore acre della legna bruciata, ricordandole che non stava sognando. Tatsumi blaterava delle scuse lacrimose cui nessuno badava, legato come un salame in un angolo. Il cadavere dell’aggressore, quasi del tutto carbonizzato, giaceva in un angolo, dimenticato. Questa volta ci aveva provato il Nano Ministro in persona, accompagnato da uno dei suoi più fedeli leccapiedi. Un guerriero che manipolava il fuoco con una facilità impressionante, veloce e privo di scrupoli. Avrebbe anche potuto farcela contro Michael, ma non contro il Cavaliere capace di rinascere dalle sue stesse ceneri. E lei, giunta quando la festa era appena finita, non era riuscita che a restare impietrita, incapace di articolare una frase qualsiasi, il labbro tremulo e le gambe ridotte a gelatina. E tutto per colpa sua.
Non riusciva a formulare un pensiero coerente. Tutto ciò che riusciva a rimuginare erano invocazioni sconnesse. "Dave… sei vivo. Dio santo, tu sei vivo…"
Sorrideva, quel gran bastardo. Sorrideva e teneva sollevata la testa di suo fratello, ancora stordito dal calore e dal fumo. Attorno a loro due, una Saori inaspettatamente commossa, suo fratello e il suo… beh, Mark. La reliquia del Sagittario riluceva al sole, forse in segno di ringraziamento per lo scampato pericolo. Nessuno era riuscito a trovare le parole. Occhi lucidi, sguardi da estasi mistica. Ne avevano ben donde: avevano appena assistito ad un’autentica resurrezione."Se non è un’entrata ad effetto non ne vale la pena, eh?"

Il Santo di Phoenix si era voltato dalla sua parte, sempre con quel sorriso sornione stampato in faccia. — Ti trovo bene — aveva sillabato, senza voce.

"‘Ti trovo bene…’ Ti trovo bene?! Dannato stronzo, bastardo egocentrico! Non hai altro da dire?"

Non aveva fatto altro che piangere, la notte in cui aveva creduto di averlo perso. Ora moriva dal desiderio di stringere le dita attorno al suo collo. Sì, torcerglielo. Ucciderlo con le sue mani perché non andasse più a morire altrove. E forse non le sarebbe bastato.

In quello stato di confusione avevano tutti accettato la proposta di restare allo chalet per la notte. Lei aveva partecipato, ancora frastornata, al brindisi alla salute di Lazzaro; si era commossa, aveva riso di nuovo con loro. Mark le aveva dedicato un sorriso complice, destandole nello stomaco un'ombra della vecchia emozione. Si era persino sentita a suo agio.
Era stato tutto così… irreale. Saori non l’aveva rimproverata per le sue sparizioni continue, non le aveva ricordato le sue perenni assenze nei momenti di pericolo. Aveva addirittura proposto qualche giorno di libertà per tutti.
Kelly incominciava a realizzare che qualcosa stava cambiando, nella ragazzetta viziata di cui credeva di aver capito tutto. Il suo portamento si era fatto solenne, colmo di una dignità distaccata, e al contempo amorevole. Lei, più giovane e più immatura di tutti loro, aveva per i suoi svogliati protettori delle premure del tutto materne. Con un sorriso cordiale, la piccola Kido l’aveva semplicemente accompagnata in una cameretta sobria e confortevole, dove aveva potuto finalmente rilassarsi. Le aveva stretto la mano, colma di gratitudine come non era mai stata.
Era di tempo che aveva bisogno, ora.
Di tempo e di meditare. Il ricordo del pomeriggio in cui aveva visto il suo migliore amico inghiottito dalla frana era ancora troppo vivido. Le ritornava alla mente in continuazione, una volta, due, tre, sempre. Una parte importante di lei ancora si rifiutava di credere che il dolore atroce di quelle settimane potesse venire cancellato con un solo, misero colpo di spugna. E al contempo, l’idea di riaprire gli occhi all’improvviso e realizzare di avere soltanto immaginato quella serata la feriva tanto che preferiva non pensarci. Meglio tentare di dormire. "Fosse facile…"

 — Quell’aria incazzata non ti dona, sai? —

Kelly era scattata a sedere, saettando gli occhi in lungo e in largo per la stanza. Lui era lì, inquadrato nel vano della finestra, appollaiato come un uccellaccio. Quel dannato sorrisetto beffardo le aveva tolto il lume della ragione.

 — Tu maledetto… sciagurato… tu… — aveva incominciato, ma le erano mancate le parole. Gliele aveva ricacciate indietro il sollievo. E si era sentita una perfetta stupida, perché quelle nei suoi occhi erano lacrime di gioia. Se le era asciugate in fretta, una risata irragionevole che incominciava a grattarle la gola senza chiedere permesso.

 — Pare che il tuo raffinato vocabolario sia rimasto lo stesso — aveva scherzato lo sciagurato, scavalcando il davanzale con uno scatto felino.

Kelly era balzata in piedi, vagamente consapevole del pigiama rosa con i volant che le aveva prestato Saori, e dell’effetto che poteva fare. — Dovevo immaginarlo. Dave Ruser non crepa tanto facilmente — aveva soffiato, scuotendo la testa.

Il risorto aveva guardato altrove, tentando disperatamente di restare serio. — E' un onore accontentare una signora tanto elegante. — Aveva allargato le braccia, e lei ci si era tuffata di slancio, ridendo come non ricordava neppure di poter fare. Dave l'aveva afferrata per la vita e fatta roteare su se stessa come in una ridicola danza di guerra, la stessa che aveva eseguito una sola volta, quando erano tornati indietro dalla prima missione.

 — Lasciami andare, pezzo d’idiota — aveva squittito, senza fiato. — Sveglierai tutta la casa, accidenti a te. — Le girava la testa, si sentiva ubriaca. Era ricaduta sul materasso come un sacco di patate, la faccia sprofondata nel cuscino, la carogna installata comodamente sul suo fondoschiena.

 — Bene, Chiappe Secche — aveva motteggiato, con l'ineffabile soprannome che le aveva appioppato a dodici anni. — Ora che abbiamo esaurito i convenevoli, raccontami tutto. — Aveva fatto schioccare le nocche in modo plateale. — Chi è il bastardo che dobbiamo ringraziare? —

~.~


 — Vedi, maestro? Alla fine, conviene sempre sperare nei miracoli. —

Kelly aveva concluso il suo resoconto con un risolino represso a metà. Camus distolse lo sguardo dal tetto del Tempio del Capricorno, riconducendolo all’interno della stanza. La piccola peste si era appropriata del suo letto, come se aver incassato senza proteste una sua caduta di stile le avesse conferito chissà quali diritti sulle sue proprietà.
Sapeva che l’avrebbe fatto. Come sapeva che sarebbe rimasta. Forse non ne avrebbe mai compreso la ragione, ma Kelly aveva deciso di non abbandonarlo al suo destino, e tanto gli bastava.
E quella ragazzina, da parte sua, non avrebbe mai saputo quanto la sua sola presenza potesse spingerlo a non arrendersi. Ancora poco…
Si rilassò contro lo stipite della finestra, la fronte poggiata sul vetro freddo.
Pochi minuti, e i suoi sensi acuti registrarono un leggero sibilo proveniente dalle sue spalle. Afferrò al volo l’oggetto, che roteava a pochi centimetri dal suo naso, prima ancora di capire cosa fosse. Se lo rigirò in mano con circospezione. Lungo, piatto e dall’odore appetitoso. "È matta, del tutto. Ed io che l’assecondo sto anche peggio."

Si voltò lentamente. — Che dovrei farmene, di questa roba? —

La matta sollevò il sopracciglio dell’ovvietà. E divenne lirica. — Dei dell’Olimpo — invocò, falsa come Giuda — perché mi punite così? — piagnucolò, con un sospiro sconsolato. — Soltanto tu potevi chiedere a cosa serva una tavoletta di cioccolato. Prova ad usarla per scrivere, chissà che non lanci una nuova moda. —

Un’occhiata omicida doveva essere una risposta esauriente. La ragazzina frugò in una borsa sportiva che lui non aveva ancora notato, e si accoccolò sul pavimento sotto il davanzale. In mano aveva una tavoletta del tutto identica alla sua. — Sai, questo è l’antidepressivo migliore che esista. Perché non ti fidi… e taci, per una volta? —

Camus ribadì a se stesso la sua antica convinzione che strangolare certi allievi non fosse un grave peccato. Con un gesto nervoso spezzò la tavoletta e si cacciò in bocca un pezzo del dolce. Fondente con le mandorle. "Niente male davvero. Per questa volta l’hai scampata, signorina…"

Era calato il silenzio. Con la coda dell’occhio riusciva a scorgere il profilo delicato di Kelly, intenta a masticare con aria assorta. La ragazza riavvolse nella stagnola ciò che restava del suo cioccolato, e si leccò le dita come una bambina.
Camus si sentì come se gli avessero triturato lo stomaco. Si schiarì leggermente la voce.

Lei lo sentì, e rialzò la testa con una piccola smorfia. — Cosa c’è? —

 — Ti sei sporcata — le fece notare, indicando una piccola traccia di cacao all’angolo della bocca.

La ragazza si portò una mano al viso, imbarazzata. Se la passò sulle labbra con un gesto frettoloso. Camus scosse il capo. — Non ancora… —

L’operazione fu ripetuta ancora. — Adesso? —

Lui non rispose. S’inginocchiò accanto a lei e la ripulì con due dita. Aveva pronta una frase sprezzante sulle ragazzine che non sapevano neanche mangiare da sole, ma gli restò strozzata in gola senza poterne uscire. Rimase lì, il braccio paralizzato in quella carezza che non avrebbe dovuto lasciarsi scappare. "Perché non le regali anche un anello, allocco?"

Kelly lo fissò, confusa. Tanta familiarità non era da lui. Anche se… “Potresti ripeterlo più spesso?”  — Grazie — bisbigliò, con un vago senso di disagio.

Camus ritirò la mano. Distolse lo sguardo, si rialzò. Le fece segno di seguirlo. Sedettero in cucina, alla luce di una lampadina agonizzante che non trovava mai tempo di cambiare. Come tante altre cose, in quella casa che sapeva di vecchio. Ci aveva abitato per periodi talmente brevi, che gli era sempre sembrata una fatica inutile sforzarsi di renderla più accogliente. Il risultato di quella decisione era di uno squallore disarmante. Milo glielo aveva ripetuto spesso, e altrettanto spesso si era offerto di aiutarlo con i lavori. Al solo pensiero di offrirgli una simile opportunità di divertirsi alle sue spalle Camus si sentiva accapponare la pelle. "No, grazie. Potrei trovarmi a dormire tra lenzuola tigrate…"
Kelly si era accomodata di fronte a lui. Sembrava pensierosa anche lei, un dito che tracciava disegni senza senso sulla superficie del tavolo.

 — Hai voglia di un caffè? — le chiese. — Turco, però. L’altra caffettiera si è rotta. — Trafficare ai fornelli era una buona scusa per darle le spalle. Avrebbe dovuto usarla più spesso.

"Nessun attrezzo da cucina ti resiste…" — Se non mi avveleni, volentieri — replicò lei. — A cosa devo tanta cortesia? —

"Quella linguaccia non riposa mai?" Camus si voltò con le mani alzate. — Tregua, ragazzina, o puoi prendere la porta. Hai dato abbastanza spettacolo, per stasera. —

Lei abbassò lo sguardo e sorrise, dolce. Era passata a giocherellare con la maschera rituale. I minuti scorrevano lenti, tra brevi rumori di stoviglie. — A volte mi chiedo come hai fatto a sopportarmi per tutto questo tempo. — Una pausa, alla ricerca delle parole più adatte. — Maestro, io… mi dispiace, davvero. —

Aquarius tornò al tavolo, in mano due tazzine di metallo smaltato che avevano conosciuto tempi migliori. — Detto da te è sempre un insolito onore. Per cosa ti stai scusando, esattamente? —

Kelly si rigirò la tazza tra le mani, mentre attendeva che la polvere di caffè si posasse. — Non mi stavo scusando… non proprio. Vorrei solo che tu sapessi… che mi dispiace per quello che è successo… per Crystal Saint. —

Camus si morse un labbro. Non rispose subito. Portò la sua tazza alla bocca, come se stessero parlando del tempo. "Per tutti gli Dei, è più disgustoso del solito…" — Alëša… — la corresse, con una voce a malapena udibile. Faceva male, troppo. E pensare che appena un paio d’ore prima si era proclamato signore dell’insensibilità. "Di nuovo, mi sbagliavo…"

La ragazza ebbe un sorrisetto incerto. — Scusa? —

"C’è ancora qualcosa che posso insegnarti, allora…" — Crystal Saint era un appellativo, una specie di titolo onorifico che toccava per tradizione al custode della corazza di Corona Borealis. — Chinò lo sguardo sulla sua tazza, e a Kelly quasi sembrava di vedere i ricordi ballare sulla superficie liquida e opaca, attraverso i suoi occhi concentrati. — Lo ha sempre portato con orgoglio, era diventato parte di lui. Ma teneva che almeno io continuassi a chiamarlo con il suo vero nome. Forse perché ero l’ultimo a ricordare che l'uomo che aveva reclamato quell’armatura una volta era figlio di quella stessa Siberia e si chiamava Alëkšey Pàvlovič Zarečnov. —

Kelly inghiottì con noncuranza una nuova dose di veleno. "Non credevo d’essere un’attrice tanto brava…" — Alëkšey Pàvlovič … — Lo sbirciò senza parere, chiedendosi se valesse la pena di rischiare. — Hai voglia di parlarmene? — bisbigliò.

 — Quanta voglia hai tu di finire quella porcheria — rispose Camus in tono sbrigativo, togliendole la tazza di mano. — Dalla a me. Ti sei sacrificata abbastanza. — Non riusciva a superare il senso di ridicolo. "Quando sono arrivato a questo punto?" La bambina era cresciuta, e lui aveva tentato in tutti i modi di non accorgersene. Ora si ritrovava a fare i conti con un ingombrante angelo custode, convinto di poterlo salvare da se stesso.

Kelly si sentì come sotto una doccia gelata. E in collera con se stessa. Per un attimo si vide, con imbarazzo, come lui stesso doveva vederla, invadente e inopportuna. Un peso imbarazzante, e un tantino ridicolo.
"Cosa credevo di poter cambiare?"
Sciocca lei, mille volte, ad essere corsa là convinta di poter dividere quel momento con lui. "Non siamo amici, tanto meno confidenti. Non siamo, non saremo mai nulla."
Lanciò un’occhiata all’orologio sportivo che portava al polso. Se il gelo della sua ultima, piacevole gita non l’aveva mandato in tilt, doveva convenire ch’era davvero tardi. — Penso sia ora di andarmene — sussurrò, alzandosi.

Lui annuì in silenzio, ma la trattenne con un gesto. C’era qualcosa che doveva fare al più presto. — Solo un momento, Kelly. Quando pensi che potrei incontrare David? —

Sapeva che glielo avrebbe chiesto. Quello che non aveva previsto era quanto una richiesta tanto semplice avrebbe potuto irritarla. Tentò di nasconderlo, con ben poco successo. — E perché vuoi vederlo? —

Che domanda inutile. Non aveva bisogno di una sfera di cristallo per indovinare che cosa gli stava passando per la testa. Aquarius, il grande guerriero, aveva rispolverato il Piccolo Stratega.
 — Vuoi porgergli i tuoi omaggi? …o forse delle scuse? — indagò, tanto per provocarlo.

Lui la fissò come se volesse passarla da parte a parte, e per una volta fu lei ad abbassare gli occhi. Camus aprì bocca dopo un silenzio che le parve infinito. — Non ho intenzione di chiedere scusa fino alla morte — sibilò, secco. "Ti basterebbe, Kelly? Ne sei sicura?"

Kelly girò attorno al tavolo. Troppo facile rispondere una cattiveria, dare sfogo a quel rancore che ancora sentiva bruciare, in un punto indefinito del suo cuore cui aveva deciso di non dare ascolto.
Facile e ingiusto. Forse perché lui non si era mai difeso, o perché ormai intuiva quanto gli fosse costato, l'unico risultato, era che non se la sentiva più di tormentarlo su quella notte. — Non te l'ho chiesto, maestro — replicò a bassa voce. — Tu non chiedermi di fingere su una cosa tanto importante. Non con lui. —

Lui le voltò le spalle, posando le tazze nel lavandino di porcellana. Restò immobile, stringendo le dita contro il bordo del lavandino. — Kelly… — Sembrava non sapesse da dove cominciare, e la ragazza si sentì di nuovo furiosa e intenerita in ugual misura. Non avrebbe dovuto lasciarsi trasportare, ma era fin troppo facile dimenticare che Camus non era fatto di marmo: dopotutto, lasciarlo credere era il suo sport preferito. "Ottuso malfidato. Quand’è che comincerai ad abbassare la guardia?"

 — C'è qualcosa che vorresti dirmi, maestro? —

 — Niente. Non mi devi spiegazioni. Troveremo il momento adatto — tagliò corto lui. Il tono era educato, ma non c’era da illudersi sul modo in cui stava occhieggiando la porta. Non la voleva lì. Non più. Non per quella sera.

 — Buonanotte, Kelly. E grazie per essere venuta qui a dirmi di David. —

"Mi dispiace…" la ragazza si fermò solo un istante, già sulla porta. Si volse a metà. — A proposito, Camus. Giusto perché tu lo sappia… non ho mai pensato che avresti fatto del male a mio fratello. Neppure per un istante. —

~.~


Mal di testa. Era circondata, accerchiata da mal di testa, accompagnato da tutto gli altri sintomi del dopo sbronza. Katie sapeva riconoscerli tutti, per quanto avesse sempre evitato accuratamente di provarli in prima persona. Ah, era stato prima. Quella squallida sala mensa aveva avuto un altro aspetto, durante la notte passata a festeggiare il nuovo tesserino di Max. Agente operativo, ad appena sedici anni, autorizzato ad uccidere prima ancora che a votare. Che cosa tenera doveva essere stata, anche se loro non avevano potuto vederlo. No, lei e Alex erano scivolati attraverso un finestrino compiacente, dopo che Wood si era allontanato a caccia di un single malt e di una sottana non troppo schizzinosa.
Dopo di lui, si era scatenato il delirio, qualcuno le aveva messo in mano un bicchiere, e l'ultimo ricordo cosciente di Katie era stato un confuso miscuglio tra la risata contagiosa di Mark, il sapore fruttato del tremendo cocktail ammazzagambe di Steve, la chitarra tra le mani di Jason e la sua voce piena e intonata, solo appena velata dalla sbornia.
E così quella mattina, tra le facce tragicamente pallide e sfatte a quel tavolo a malapena illuminato dalla luce dell'alba, la cosa peggiore era lo sguardo da serial killer che Dave faceva saettare ogni tanto, sollevando la testa dalla tazza di caffè quel tanto che bastava a dichiarare guerra all'universo conosciuto. Katie l'aveva perso di vista a metà serata, dopo essere riuscita a salutarlo a malapena. Le aveva gettato giusto un'occhiata e si era volatilizzato alla velocità della luce borbottando qualcosa di indistinto, e lei era rimasta impalata nel suo angolo, sentendosi sommamente stupida per quel trucco che aveva azzardato soltanto per lui, e per quella gonna corta che la faceva morire di freddo.
Kelly, accanto a lei, aveva scosso la testa con disperazione, allontanandosi prima che potesse chiederle il perché.
E ora l'oggetto dei suoi desideri la stava fissando in modo assai poco rassicurante, le pupille dilatate, l'occhio lucido e la maglietta tutta slabbrata. E quel segno sul collo…

La ragazza aveva sospirato, con un tragico sospetto e la discreta speranza che si fosse almeno procurato una malattia venerea. — Tutto quel caffè non ti farà bene, Dave. —

Lui aveva distolto lo sguardo. Tutta la tavolata aveva trattenuto il fiato, in attesa della deflagrazione. E invece, dopo qualche istante, il maniaco si era limitato a servirsi una nuova tazza di veleno, senza degnarla di una risposta.

"Ah, ma perché ci perdo ancora tempo?" Un sospiro, teso e piuttosto rassegnato. — Credo che tornerò a casa, adesso. — si era alzata, sistemandosi la maglietta stropicciata su quel davanzale che proprio non voleva saperne di raggiungere dimensioni rispettabili. Persino Kelly, ad appena tredici anni, sembrava messa meglio di lei. E aveva da tempo smesso di guardare Christine al di sotto delle spalle, almeno quanto bastava per eludere un travaso di bile.
Li aveva passati tutti in rassegna, da Michael con l'aria dell'uccellino caduto dal nido, incredulo di aver fatto una cosa tanto stupida come accettare una birra da Mark per finire a suonare il basso in mutande, ad Alex che, stravaccato su una poltrona da ufficio, era ancora intento a fumare l'ultimo esemplare di qualcosa che certamente non era tabacco. Ed era a lui che si era rivolta, stanca come mai si era sentita prima. — Tu non vieni? —

Una nuvoletta di fumo e un mugugno indistinto, niente altro, ad indicare che no, Alex non se la sentiva ancora di azzardare la posizione eretta. Il morale di Katie era scivolato talmente in basso da farle credere che, provvisti di pala e piccone, persino gli stati d'animo potessero mettersi a scavare.

Si era chiusa la porta della sala alle spalle, incrociando nel corridoio la sagoma ghignante di Martin, avvolto come sempre nella sua nuvola pestilenziale. Accidenti a lui e alle sue nuove, adorate Black Vanilla. Se c'era una cosa di cui non aveva certo sentito la mancanza, erano le sue improbabili sperimentazioni da tabagista incallito. "Al diavolo anche tu."
Si era inoltrata nel reticolo di corridoi che ancora conosceva come le sue tasche, fino a trovare il condotto dell'areazione che l'avrebbe portata al piccolo bagno al piano terra, da cui avrebbe potuto evadere all'esterno.
Bastava stare molto attenti, e Wood non l'avrebbe mai scoperto.
La ragazza si era issata dentro il passaggio, ripercorrendo a ritroso lo stesso cammino dell'andata. Qualche minuto ancora, e si sarebbe trovata di nuovo all'aria aperta, e poi a casa. Sì, a casa, a lavarsi via dal viso quelle stupide speranze deluse e a rimettersi addosso i suoi calzoni di felpa più sformati e ributtanti.

Eccolo lì, il bagno. La finestra della libertà era a pochi passi da lei. Pochi passi pericolosi, allo scoperto.
Katie si era rivoltata come una furia, a quella mano che l'aveva toccata, pronta a lottare e fuggire. "Stupida, stupida, stupida! Ecco cosa succede a non pensare a quello che fai."
Il destro già pronto a colpire si era bloccato a metà, ricadendo mollemente su un fianco. Di fronte a lei, Dave la fissava con un sorrisetto triste.

 — Non hai dimenticato i vecchi trucchi, allora… —

 — Non solo stata io a volermene andare, lo sai. — "Sarei rimasta qui, con voi. E con te."

Lui si era messo le mani in tasca, distogliendo lo sguardo. — Fidati, è stato meglio così. — aveva ribattuto, cupo.

"Va bene. Continuate pure a credere che io ed Alex siamo più felici così, che le nostre esistenze non siano segnate quanto le vostre. Immagino che crederlo vi permetta di dormire meglio." Katie era rimasta ferma, a fissare il piede del suo amico che prendeva a calci un fazzoletto dimenticato da chissà chi. — Perché mi hai seguito, Dave? Sono stanca, e anche tu. —

Lui aveva estratto le mani dalle tasche, rialzando lo sguardo per un solo attimo, sufficiente a farle cogliere un ferreo imbarazzo. — Volevo… chiederti scusa per come mi sono comportato prima. Non ce l'ho con te, Katie. — "Non credo che potrei mai avercela con te."

"Questo mi consola, credimi." —Dave, ti è caduto qualcosa dalla tasca — la ragazza aveva cambiato discorso, rapida. Per non fermarsi a pensare, a ricamare sul fatto che lui l'avesse rincorsa soltanto per chiederle scusa.

Lui si era chinato, afferrando rapido il pezzo di carta. Stava per infilarlo nuovamente in tasca, ma poi aveva cambiato idea. E glielo aveva teso, con un sguardo indecifrabile.
Katie aveva scorso rapidamente le poche righe del messaggio, scritte in un corsivo pretenzioso e svolazzante. Ed era diventata rossa come un peperone.

 — Non. Una. Parola. Con nessuno — aveva sussurrato lui, con un tono supplichevole che faceva a pugni con quelle parole autoritarie. Certo, se quelle iene dei loro amici ci avessero messo sopra gli artigli, sarebbe diventato lo zimbello della base in meno di un nanosecondo. — Niente compassione, capito. È stato… uno scambio di favori, ecco. E non ne parleremo più. —

"E ti ha mollato nudo e addormentato in uno sgabuzzino, in compagnia di una bottiglia vuota e un pezzo di carta. Bel debutto, non c'è che dire." Si costrinse a dominarsi, a non strangolarlo con le sue stesse mani perché il suo bel sogno segreto di essere i primi, l'uno per l'altra, era andato miseramente in fumo. — Almeno si complimenta per… Ecco, dice che non se l'aspettava — aveva commentato lei, senza credere di riuscire davvero a sollevargli il morale.

 — Non ce l'avevo con te, Katie. Spero che tu mi creda — aveva insistito lui, come se fosse quella, la cosa importante.

 — Ti avrei creduto comunque. — "Ti crederei anche se mi dicessi che vuoi cambiare sesso e trasferirti a Rio vestito di piume di pappagallo, idiota con i paraocchi." — Perché me l'hai mostrato? —

 Lui si era ripreso il biglietto, chiaramente riproponendosi di incenerirlo al più presto. — Perché… di te ci si può fidare. Non c'è nessuna… come te. —

 

 — Ehi, McArthur, sei ancora viva? — La voce di Alex, viva e presente. Katie si scosse da quelle fantasticherie troppo lontane, riportando l'attenzione all'interno della stanza. Allen stava aspettando in perfetto silenzio che la tipa dai capelli rossi tornasse con altri documenti che loro avrebbero dovuto assolutamente vedere, bevendo caffè a più non posso e gettando occhiate incendiarie sulla porta.
E i suoi amici, accanto a lei, si stavano chiaramente chiedendo se non si fosse addormentata.

 — Si può sapere a cosa stavi pensando? — sussurrò Max, assottigliando gli occhi ansioso.

 — Penso di conoscere la grafia sul quel pacco di documenti che ho trovato nel mio armadietto… — lasciò cadere, con noncuranza. Poco ma sicuro, Jack non si stava perdendo una sillaba.

 I suoi due amici la fissarono come se si fosse appena spogliata e messa a ballare la macarena, ma prima che potessero dire nulla, la porta si aprì e Claire rientrò nella sala. Katie guardò i suoi amici, poi accennò alla donna con un cenno espressivo.

 

 — Non c'è nessuna come te — aveva bisbigliato Dave, allargando le braccia. Lei si era prontamente accoccolata contro di lui, sotto le lenzuola, godendosi i residui di quel calore che avevano appena condiviso, e quella dolce sensazione di stanchezza felice. Il tempo era passato, e le aveva portato sorprese che neppure avrebbe immaginato, in quell’alba di un paio d'anni prima.

 — Sì, me l'hai già detto un'altra volta — aveva sottolineato, maliziosa.

 — Non dimenticherai mai quella festa e quel biglietto, vero? — si stava fingendo esasperato, ma continuava ad accarezzarle i capelli con quella tenerezza che era come un raggio di sole, tutto per lei.

 — Oh no, caro. Penso proprio che ti ricorderò per tutta la vita che te ne sei andato con una sgallettata qualunque, e vecchia per giunta, quando avresti potuto avere me. —

 — Allora non lo sapevo ancora… posso rimediare? — aveva bisbigliato lui, contrito e falso, lo sguardo pieno di divertimento e di quella cosa che le rimescolava sempre il sangue nelle vene.

 — Ad una sola condizione, però — aveva ridacchiato, sicura di capitolare entro trenta secondi.

David si era rigirato con un colpo di reni, spingendola sotto. E il semplice contatto con tanta della sua pelle nuda le aveva fatto venire di nuovo caldo. Tremendo, adorabile caldo.

 — D'accordo. Tu non abbandonarmi, e non vedrai mai più l'ombra di un'altra donna — le aveva bisbigliato, prima di tapparle di nuovo la bocca.

 

"Non hai rispettato la tua parte del patto, Dave. Tu sei lontano da me, e la sgallettata è proprio qui davanti ai miei occhi."
Katie sorrise, un sorriso poco rassicurante. Quella donna avrebbe fatto meglio a smettere di giocare con le loro vite. A partire da subito.



~.~


Un fazzoletto di terra arida, acqua salata tutt’attorno. Temperature tropicali di giorno e da circolo polare artico di notte. Pioggia neanche a pagarla, se si escludeva la stagione dei monsoni, durante la quale avresti pagato volentieri per non vederne più. L’isola di Andromeda. "Su quale depliant turistico la pubblicizzavano? Probabilmente su qualcuno della Fondazione Grado…"

 — Che bel posticino… mi sento quasi a casa. —

Voce bassa, sguardo vacuo e un’espressione che tentava di somigliare ad un sogghigno. Dave non aveva aperto bocca per cinque minuti, quando avevano messo piede sulla famigerata Isola di Andromeda. Aveva soltanto incrociato le braccia, stretto le mani attorno ai bicipiti con tanta forza che Kelly aveva quasi temuto che si spezzasse le ossa.
Si era guardato attorno, il volto già imperlato di sudore, la schiena insolitamente curva. Era stata quella, la destinazione di Michael. Aveva creduto di proteggerlo, nel suo periodo di follia aveva preteso di fargli pagare il suo destino infame con gli interessi.
Soltanto per scoprire che a nessuno di loro era stata risparmiata la stessa sorte.
Non era stato un povero martire sacrificato alla felicità di un fratello ingrato. Era stato semplicemente un burattino nelle mani di un altro burattino. Dall’altro capo del filo, un essere che aveva fatto dell’odio dei suoi sottoposti la sua arma più potente e subdola. “Il vero nemico è altrove, e ci tiene tutti in pugno.”
Altrove. Dove aveva imparato a non provare nulla. Dove aveva rinnegato tutto ciò in cui aveva creduto. E in cambio aveva ricevuto… niente.
Dave ritornò a fatica con i piedi per terra. Non aveva senso pensarci troppo. Non s’illudeva. Il momento dei conti col suo passato sarebbe arrivato, e forse non sarebbe mai stato davvero pronto. Non aveva il potere d’impedirlo, né di accelerarlo. Ma al momento sentiva di avere cose più importanti cui pensare. Ad esempio, pensò con una fitta di preoccupazione, come impedire alla sua sorella d’elezione di farsi uccidere prima di trovare un modo per tornare a casa.
 
Ruotò su se stesso con uno scatto nervoso, attirato dal rumore di una pietra che veniva scalciata con impazienza. Guardò Kelly, ma lei non si era mossa. Poco più a sinistra, ancora nascosta dai resti di una piccola frana, una presenza familiare si avvicinava.
Dave sogghignò, quando gli parve di riconoscere quell’aura, e ghignò ancora di più sentendola affrettarsi. L’aveva riconosciuto anche lei, ne era certo. Si mosse per andarle incontro.
Christine si portò una mano alla bocca, confusa, talmente sollevata da non riuscire neppure a respirare. Fissò sua sorella, seduta su un masso, impegnata a nascondere l’emozione che le arrossava il viso. Kelly accennò un timido sì, senza una parola.
L'attimo successivo, la maschera del Cavaliere del Camaleonte era volata in aria, David si stava concedendo un vero sorriso, e l'altra sua amica di una vita gli stringeva il collo con la stessa forza che ci avrebbe messo per spezzarglielo, blaterando frasi incoerenti sugli amici bastardi che permettono che li si creda morti.

 — Pancakes — proclamò infine la ragazza, decisa. — Un migliaio di pancakes. Ci devi la colazione per almeno un anno, dopo quello che ci hai fatto. —

E Kelly seppe che sarebbe stata in grado di piangere di gioia. Se qualcun altro di importante fosse stato lì, a dividere quel momento con loro.
Se avessero ritrovato ciò che avevano perduto.
Se solo nessun altro lutto li avesse spezzati, prima della fine.



~.~


Tre giorni erano scivolati via, da quando aveva avuto l'idea balzana di chiedere a Kelly di organizzare quell'incontro, e Camus dell'Acquario si sentiva piuttosto incline all'autoironia. Sacro Guerriero del Santuario della Dea Atena, Custode di una delle Dodici Vesti Dorate, Signore indiscusso delle energie fredde. E da quel giorno, nuovo divertimento di un ragazzino sfacciato. "La mia carriera è ad un punto di svolta, non c'è che dire."
David Ruser, per il Santuario Ikki di Phoenix, lo stava fissando attento, con l’aria del gatto deciso a giocare con un topo più grosso di lui.

 — Tu sei Iceman, allora. — Il marmocchio aveva rotto il silenzio, mano tesa e ghigno che istigava all'omicidio. — Quale onore, conoscere l’uomo cui devo tante delle mie fortune! —

La padrona di casa, sprofondata nel divano, esplose in una risata malamente trattenuta. Camus si girò dalla sua parte. ‘Sto per farti fuori, ragazzina…’ le sibilò con il pensiero.

La risposta, chiara come la luce del giorno, gli diede i brividi. Kelly accennò al suo amico con un’occhiata espressiva. ‘Accomodati, maestro. E auguri. Vedrai, sarà divertente spupazzarti quell’angioletto tutto da solo…’

Camus le voltò di nuovo le spalle, rassegnato ad affrontare l’incontro ravvicinato con quel bamboccio. “Ti metto in conto anche questa, Gran Sacerdote dei miei gambali…”
Sapeva come farsi rispettare, quando voleva. E anche come far pentire uno sbarbato di aver tentato una prova di forza con lui.

 — Mi piacciono le strette calorose — commentò quell’impunito, scuotendo le dita assiderate. Era impallidito leggermente.

Camus si limitò a fissarlo con superiorità. Meglio che almeno ‘quel’ pivello sapesse da subito con chi aveva a che fare. “Uno a zero, poppante”. Non avrebbe ammesso con anima viva di essere stato sul punto di mugolare di dolore. “Finito l’esame o ne vuoi ancora?”

 — Se voi due maschetti avete finito di far sfoggio di testosterone, forse possiamo parlare di cose più serie… — interloquì Kelly in tono divertito.

Camus la guardò di traverso. Lei aggrottò le sopracciglia, fissando un punto oltre la sua spalla. Non si era neanche accorta di lui, tutta la sua attenzione era concentrata su David, che con un gesto poco elegante la stava invitando a farsi gli affari suoi.
La ragazzina strinse gli occhi minacciosamente.
Il suo amico rispose con una scrollata di spalle.
Lei non si scompose. Continuò semplicemente a fissarlo. Pochi attimi dopo, David crollava sulla poltrona gonfiabile con un sospiro melodrammatico.

Kelly sorrise. Un sorriso complice, realizzò Camus, che non lo riguardava. Si diresse verso la cucina. — Qualcuno ha voglia di Irish Coffee? — propose, fissando il suo ospite di riguardo in cerca d’approvazione.

 — Il whisky è irlandese, almeno? — sogghignò quello, con l'aria di tenere pochissimo alla propria vita.

Lei lo fissò come uno chef a cinque stelle cui avessero chiesto se quello nel piatto fosse pesce congelato. — Ora mi offendi, Mio Signore degli Alcolizzati. —

David incrociò le braccia. — Stai cercando di tenermi buono con la lusinga, Chiappe Secche? — Il modo in cui la prendeva in giro era incredibile. E ancora più folle era il sorriso con cui lei accoglieva quelle stoccate che, se fossero venute da lui, sarebbero state ricompensate con un caffè alla cicuta.

 — Ora che mi ci fai pensare, potrei drogarti cibo e bevande… forse diventeresti più digeribile. — Kelly rideva, rilassata e contenta. Irriconoscibile. Scomparve dietro la porta scuotendo la testa.
 
 — Non contarci troppo… — le gridò dietro Phoenix.

Camus non si era mai sentito tanto fuori posto in tutta la sua vita. Avrebbe dovuto sentirsi sollevato: presto Kelly non avrebbe avuto più bisogno di lui. Il suo mondo si stava lentamente ricomponendo, com’era giusto, come doveva accadere. E allora perché quel peso di cui credeva di essersi liberato era tornato ad acciambellarsi sul suo petto? Perché quel senso di… di inutilità? Il solo pensiero di ingerire brodaglia nera con panna gli stava dando il voltastomaco.
Si dimenò sul divano, a disagio, e infine alzò lo sguardo. Trovò un paio d’occhi, grigi e insolitamente seri, ad attenderlo al varco. Lo osservavano con una curiosità sospetta che, nonostante tutto, non aveva nulla di ostile. Piuttosto… sembravano valutarlo. Si chiese se l’esibizione d’imbecillità di poco prima non fosse altro che un tentativo di mascherare il suo reale interesse.

 — Spero tu sappia cosa stai facendo — disse il ragazzo, semplicemente. Camus lo fissò, a metà tra il seccato e l’incredulo. Dave ebbe un sorriso amaro. — Conoscere il nostro beneamato Sacerdote è sempre un’esperienza illuminante… e da lui ho imparato molto — continuò, rispondendo alla domanda che non aveva avuto il coraggio di porgli. — Kelly non ha avuto la stessa ‘fortuna’, ma questo non significa che sia del tutto stupida. Spera soltanto di trovarti il più lontano possibile quando lo scoprirà. —

Saputo e arrogante. Quanto di più irritante ci fosse al mondo. Quasi come realizzare di averlo sottovalutato. — Scoprirà cosa? — brontolò a bassa voce.

Phoenix si piegò verso di lui. Indossava un’espressione da perfetto cospiratore. La sua voce era appena udibile. — Che le stai mentendo ancora, Iceman. —

E Camus avvertì distintamente il sangue ghiacciarsi nelle vene.

~.~










Angolo della vergogna™


Oooh, jingle bombs, jingle bombs…
Oh, siete già qui? *fa sparire il video di Achmed The Dead Terrorist*
Questo capitolo è un traguardo importante. Sono le prime fesserie che non avevo mai pubblicato con la prima stesura, e spero davvero che sia valsa la pena di proseguire con questa cosa folle e infarcita di situazioni da manicomio. Ma anche di Arma Letale, NCIS, Chuck, Scubs, una spolverata di Big Bang Theory e sicuramente qualcos’altro che non ricordo. Ma, alla fine di tutto, conta il fatto che mi diverto a scriverla, sempre nella speranza che un po’ di quel divertimento contagi anche chi legge.
Non l’avevo detto prima, ma, se il disclaimer del sito non dovesse bastare, ribadisco che il merito di aver creato i Saint, il Santuario, Athena di lilla chiomata e tutto il cucuzzaro va a Masami Kurumada, mentre a me dovrete senz’altro riconoscere la colpa di aver partorito la specifica situazione, Kelly e l’allegra banda di pazzoidi che popola l’altro lato del Portale.
E poi chissà, magari questa volta Iceman ce la farà ad accopparmi, sempre se non dovesse optare per un harakiri. Dopo l’incontro con Ikki-David, sta seriamente considerando l’idea di infilare la testa nel forno.
Per il resto, oggi è un’ottima notte per pubblicare, prima che Sagitta mi linci e soprattutto ancora un pochino in tempo per augurare Buone Feste a tutti voi.
Che il capitone vi accompagni, i doni vi esaltino e il pandoro vi sollazzi. Tanti auguri e a presto!

PS: anime sante che mi avete recensito… vi rispondo appena riuscirò a digerire, giuro!

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Capitolo 15
*** Track #14: In The Shadows ***


Track #14: In the Shadows TRACK # 14

IN THE SHADOWS

They say
That I must learn to kill before I can feel safe
But I
I rather kill myself then turn into their slave
Sometimes
I feel that I should go and play with the thunder
Somehow
I just don't wanna stay and wait for a wonder.

(The Rasmus)

Il cucchiaino da tè roteò lento nella tazza, delicato, quindi venne posato educatamente sul piattino. La porcellana d’epoca si lasciò scappare un solo, timido tintinnio, quindi tornò placidamente silenziosa. Saori Kido portò la sua bevanda alla bocca con evidente piacere. Quella miscela era la sua preferita, e in giornate come quelle trovava indispensabile aggrapparsi per lo meno ai suoi piccoli, segreti rituali. Che comprendevano il tè con i biscotti, la lettura di un paio di rivistine per teenagers, e chiudere il suo braccio destro fuori dalla porta per almeno mezz'ora. Di solito la faccenda si presentava più semplice: lei si faceva venire in mente qualche assurda incombenza che l'avrebbe tenuto lontano dall'altra parte della villa per un po', quindi si chiudeva in camera con l'ordine assoluto di non disturbarla.
Da quando avevano attaccato lo chalet per una sua infelice iniziativa, però, Tatsumi e il suo senso di colpa erano diventati segugi a prova di scusa. Quell'uomo insisteva per accompagnarla dovunque, non le dava pace e le lasciava a malapena il tempo necessario alle abluzioni quotidiane: di quel passo, sarebbe diventata la prima quattordicenne ad avere sulla coscienza il proprio tutore.
E lei aveva bisogno di fuggire, anche solo per pochi minuti al giorno. Da se stessa, da quel ruolo che le era piombato sulle spalle il giorno in cui il nonno le aveva raccontato della sua nascita, dal senso di colpa che la trapassava come un dardo avvelenato ogni volta che i suoi cavalieri tornavano da un combattimento, sempre più cupi, sempre più malmessi.
E lei sapeva già, con l'intuito di quella coscienza millenaria che aveva cominciato a ridestarsi in lei, che le difficoltà erano appena agli inizi.
Avrebbe dovuto rivelare la verità, prima o poi. Non sapeva cosa la stesse ancora trattenendo, se non forse l'infantile paura di perdere se stessa, di non essere più Saori dall'istante esatto in cui avesse confessato loro le sue vere origini, reclamato davvero il destino che le spettava. Loro avrebbero chinato il ginocchio a terra, colmi di rispetto, perché era quello il loro compito, la loro parte nella storia. E la sua sarebbe stata quella della sovrana, per sempre, senza più alcuna speranza di diventare altro che un’icona.
Anche se le sarebbe stato utile scoprire esattamente in che modo avrebbe preferito essere conosciuta. E, un domani forse non troppo lontano, ricordata.
Non era più la bambina che scambiava gli aspiranti Santi per cavalier serventi raccattati dal nonno in qualche squallido buco per il suo esclusivo divertimento, no. L'aveva imparato tanti anni prima, di fronte allo sguardo severo di Mitsumasa, alla sua mano che indicava, mostrandole davvero, e per la prima volta, le ferite che poteva infliggere la sua cattiveria acerba. Seiya con la bocca piena di sangue e gli occhi colmi d’odio. Jabu, le ginocchia scorticate fino all'osso, pronto ad immolarsi ancora per un malriposto senso di gratitudine. Chissà quanto le era grato adesso, dopotutto.
Era una bambina, allora, e di fronte al rimprovero inatteso del suo nonnino, aveva provato per la prima volta una vergogna ancora acerba ma tenace, di quelle che non si dimenticano mai.
Quella stessa vergogna, accuratamente nascosta, era ricomparsa il giorno in cui aveva dato inizio a quel torneo voluto fino all’ultimo da Mitsumasa, di fronte al primo sangue scorso in mondovisione. L'arena, il ring esagonale, le telecamere… e lei stessa, patetica imitazione della Divinità di cui era simulacro. Eppure aveva funzionato, proprio come aveva previsto suo nonno. In Grecia, qualcuno era stato pungolato, aveva iniziato a dubitare. Ed aveva reagito. In maniera guardinga, testando le loro forze, non osando mettere a parte dei suoi timori le sue risorse più forti. Il potere dell’usurpatore doveva posare su basi davvero fragili, se una minaccia risibile come la loro lo costringeva a quel minuetto.
Ma anche le loro vite, ora erano appese al filo della prudenza di Arles. Come quelle dei milioni di esseri umani cui il Santuario continuava a fare la guerra.
La Conferenza della Pace interrotta in un bagno di sangue, gli attacchi terroristici, l’accanimento all’apparenza privo di senso contro Stati ormai in ginocchio…
Milioni di vite senza speranza di aiuto.
Saori sospirò, di dedicarsi alla sua mezz'ora d'aria non c'era tempo neppure quel giorno. Premette un tasto sul piccolo interfono accanto alla sua tazza, sorbita appena a metà.

 — Tatsumi? Tatsumi, contatta Altair, per favore. Ho bisogno di parlare con lei, il prima possibile. —


~.~


Quel maledetto sole non si ammorbidiva mai? Cuoceva i cervelli e rimbalzava sui marmi, impietoso, ferendo gli occhi nonostante ormai fosse autunno inoltrato.
Phaeton, novello Primo Ministro, si ritrovava a pensare sempre più spesso che il clima non fosse esattamente uno dei vantaggi della vita al Santuario di Atene. Anche se sì, poteva ritenersi sodisfatto di se stesso. La seconda poltrona più importante del Tempio era sua, ex-soldato semplice, ex-capitano di ronda, ex-consigliere del nobile Gigars, e poco importava quanto la misteriosa scomparsa del suo predecessore testimoniasse la transitorietà di quella carica. Lui si considerava ben più intelligente, e spietato, e sapeva bene come badare a se stesso.
Lui non avrebbe commesso gli stessi sciocchi errori, non avrebbe mai perduto la stima del Sommo Arles. Lui, che aveva lottato tutta la vita per questo obiettivo.
Si concesse una rapida analisi delle ultime ore, soddisfatto. I punti della sua personale lista si stavano completando con estrema rapidità: Misty della Lucertola, seppure di malavoglia, già si stava preparando a partire per la missione che gli aveva assegnato.
Il primo, il più importante compito da portare a termine era la morte di quei cinque miserabili di Tokyo, proprio quello che Gigars non era riuscito a completare, e farlo con efficiente rapidità: niente sarebbe servito meglio a consolidare la sua posizione. E un passo altrettanto importante  sarebbe stato sottomettere  tutti quei Santi boriosi che altrimenti l’avrebbero sempre guardato dall’alto in basso, e ribadire una volta per tutte il suo ruolo di potere. Phaeton sorrise appena, tra sé, e si diresse verso la sagoma dai capelli fulvi che intravedeva, come una macchia di colore, tra l’abbacinante biancore delle colonne di marmo.
Una donna che Phaeton conosceva bene, il cui orgoglio avrebbe sgonfiato con estremo piacere.
Un monito per tutti gli altri.
“Sì, tu farai proprio al caso mio…”

 — Marin dell’Aquila, fermati — l’apostrofò, costringendola a voltarsi. — Ho un compito per te. Andrai in Giappone con Misty della Lucertola, e mi porterai indietro la testa di Seiya. —



~.~


Si stava facendo tardi. Quel sole pallido e sbiadito sarebbe calato presto, sfumando verso quella che prometteva di diventare in una serata ventosa e umida. Kelly si sentì pervadere da una inspiegabile sensazione di malinconia. Non che temesse il freddo, quello no… ma il buio della notte stava giungendo troppo in fretta per i suoi gusti. Dave era scappato come se avesse avuto il diavolo alle calcagna, appena s’era ricordato di un appuntamento con suo fratello, e li aveva piantati in asso senza ritegno, lei e l’altro ospite.
Sorrise appena, chiedendosi quanto tempo avrebbe resistito stavolta, prima di mandare Michael all’inferno con una scrollata di spalle. Accadeva anche a lei. Era tanto preoccupata per il suo Steve che non avrebbe mai voluto allontanarsi da lui per più di tre metri. Ma questo non escludeva che l’idiota borioso in cui si era trasformato la irritasse quanto neppure il Camus più ispirato riuscisse ad ottenere.
Lanciò un’occhiata in tralice alle proprie spalle. "A proposito di te…"
Strano fenomeno. Il Gran Maestro era diventato uno zombie. Non che fosse mai stato particolarmente vivace, ma due ore di mutismo assoluto erano sospette perfino per lui. E da quando Dave se n’era andato era rimasto immobile, nella stessa posizione, lo sguardo fisso sul nulla. Non ascoltava e non rispondeva, come perso in un piccolo mondo privato. Kelly si torceva dal desiderio di spedirlo a fare il prezioso a casa propria, ma la curiosità che quell’assurdo contegno le suscitava era troppa.
Sentiva puzza di bruciato: di Fenice appena risorta, per la precisione. Appena ne avesse avuto l’occasione, avrebbe messo sotto torchio quell’idiota vestito di piume di bronzo. Tanto dal sig. Iceberg non avrebbe ricavato nulla, e tutto sommato cominciava a farci l’abitudine. "Io so aspettare, maestro. Prenderti per fame, perché no?"
A quel punto si chiedeva se non le sarebbe convenuto farsi ibernare, per non rischiare che le venissero i capelli bianchi. "Potrei chiederlo a te. Scommetto che ti riprenderesti al volo…"

Riprese a guardare fuori. E si rabbuiò di colpo. Avrebbe riconosciuto ovunque quel nido di capelli castani perennemente arruffati. Di certo non se li era neppure pettinati, quella mattina, se non con le dita, tanto per mettere a posto la coscienza. E poi, quel passo inconfondibile. La camminata elastica di Tony Manero, lo stesso modo di ancheggiare come se il mondo gli appartenesse di diritto. E anche se non poteva vederlo, sapeva che aveva sulle labbra lo stesso sorriso a metà tra l’ingenuo e lo sfrontato.
"Mark…"
Non era solo. Non lo era mai, quando lo spiava mentre passeggiava sulla spiaggia. Rideva, lo vedeva chiaramente, e poggiava un braccio sulle spalle di quella Miho. Lei gli camminava accanto tutta rigida, emozionata. Kelly era convinta di sapere cosa stesse aspettando. "Non davanti ai miei occhi, per favore…"
Si diede della sciocca. "Che te ne importa? È finita. Non sarà mai come prima…"
Lo sapeva, lo sapeva eccome. "Solo che…"
La loro prima vacanza, e l’ultima lite. Mykonos – Atene, passando per la disabitata Kèa. Una spiaggia candida, un mare troppo azzurro e loro due soli, per una volta. Un consiglio di sua sorella, approvato da Jason con una strizzata d'occhio complice e da Dave con un ghigno significativo. Steve, quel maledetto che la conosceva meglio di chiunque altro, si era limitato a scrollare le spalle ed era andato a bersi una birra illegale in spiaggia, sicuro che si sarebbe trattato di tempo perso.
Troppo poco tempo. Troppe parole non dette, troppi sentimenti inespressi. Era stata davvero innamorata di lui?
Kelly si coprì il viso con le mani. Quei pensieri saltavano fuori nei momenti meno opportuni, ed era stanca di ricacciarli indietro. Dimenticò dov’era, dimenticò di non essere sola, per vedere soltanto lui. Quella mano che sfiorava la guancia di una ragazza che non era lei, che scostava una ciocca dal viso arrossato, che le sfiorava il naso quasi per caso, era la stessa che aveva stretto la sua per un tempo troppo breve.
“Non ho avuto il tempo di dirti addio…”
Erano passato così tanto tempo, dall’ultima volta che aveva pensato davvero a loro due.
A quando giocavano a nascondersi nei corridoi della base, a quei baci rubati e alle sue mani che la facevano sentire l'unica al mondo. Al cuore che batteva forte, e al desiderio di averne sempre un po' di più.
A quelle sveglie che le rendevano più sopportabili gli allenamenti quotidiani, a quelle dita che stringevano le sue a fine giornata.
Alle discussioni sugli argomenti più stupidi, che le lasciavano sul cuore grumi sempre più grandi, da non potersi più sciogliere con un sorriso.
E a quella sera, in cui lui era venuto ad augurarle la buonanotte, e lei gli aveva chiesto di non andare, emozionata e con indosso quella sottoveste bianca che la faceva sentire più grande.
Non era andata come aveva sperato.
Avevano litigato furiosamente. Per cosa, poi? Di giorno in giorno Kelly scopriva di ricordarlo sempre meno. Ricordava bene soltanto com’era finita.
Il suo piumone colorato. Un groviglio di braccia e di gambe. Le mani che curiosavano in tutte le direzioni, guidate solo dall’istinto. Nessuno dei due l’aveva mai fatto prima.
La prima volta non è un tappeto di rose, non è la sinfonia degli angeli. È imbarazzo, ignoranza, brividi che colgono di sorpresa, perché nelle tue fantasie non l’avresti mai immaginata così.
No, non era come nei romanzi d’amore. Nei film non capita mai che il tuo amante focoso ti strappi una ciocca di capelli tentando di abbracciarti. Non gli viene un crampo alla gamba proprio quando sembra che abbiate capito come si fa.
Sorrise della se stessa di allora, come se fosse diventata molto più saggia, come se da quel giorno fosse passata una vita. “In un certo senso è vero…” Aveva creduto davvero che stare insieme ‘da grandi’ li avrebbe messi al riparo dall’incomprensione e dal distacco? Nulla cambia il destino di un rapporto destinato a morire. Era stata ingenua e infantile, ma ci aveva sperato davvero.
Lo aveva pensato anche Mark, ne era sicura. Sapeva quel che gli passava per la testa e riusciva sempre a gestire le sue reazioni. Era rassicurante come un film di cui si conosce già il finale. Come suonare lo stesso giro di Do per tutta la vita.

 — Ragazzina… —

Kelly non riuscì a reagire, pur riconoscendo la voce che tentava di riportarla indietro. Si massaggiò le tempie con la punta delle dita. Faceva male pensarci. Ogni volta che metteva da parte quei ricordi si sentiva un poco più stanca. Cos’era che aveva creduto di provare, quel giorno? E perché soltanto adesso intuiva che nessuno dei loro sforzi avrebbe funzionato, che niente avrebbe allontanato la fine? “La solita musica alla lunga viene a noia… e in fondo lo sapevamo entrambi.”

 — Kelly, si può sapere cos’hai? —

Si riprese. “Toh, l’orso polare è uscito dal letargo.” — Niente… — si decise a rispondere, con una vocetta sottile. Aveva voglia di piangere, e neppure sapeva perché.

Camus aveva gettato un’occhiata oltre la finestra. Se pure era riuscito a indovinare il motivo del suo malumore, non pareva intenzionato a commentare, né a propinarle consigli non richiesti. Sembrava contrariato, però, ed era facile immaginare perché, lui che probabilmente non aveva mai preso in considerazione una distrazione in vita sua. “Ti prego, graziami. Non sono in grado di sorbirmi un’altra ramanzina sulle mie gravi responsabilità.”

 — Sto andando via — lo sentì proferire, e non riuscì a capire se fosse seccato o soltanto stanco quanto lei. Certo non l’aiutava se restava impalato, senza muovere un passo.

 — Di già? — Se era rimasto con lei per tutto quel tempo, un motivo doveva pur esserci. — C’era qualcosa di cui avremmo dovuto parlare, maestro? — tentò, senza troppa speranza. “Commediante da strapazzo. Avrò mai il bene di sapere cosa pensi davvero?”

Camus scrollò le spalle, come se quella domanda avesse un’importanza minima. — No, non credo. Personaggio… interessante, il tuo amico David. —

Lei sorrise appena. “Non hai ancora visto niente, maestro.” — Pensavo restassi a cena. — Un’idea dell’ultimo minuto. Non voleva che andasse via anche lui. “Non lasciatemi tutti stasera…”

Lui incrociò le braccia stancamente. Le scoccò un’occhiata indagatrice. — Ragazzina… —

Kelly lo interruppe, con poca grazia e uno sbuffo spazientito. — Ti avverto, un altro ‘ragazzina’ con quel tono e potrei aggredirti. —

L’ombra di un sorriso sul quel viso tanto bello quanto serio. — Potrei farlo proprio per allenare la tua scarsa pazienza… —

Gli voltò le spalle, tentando di dominare l’improvviso desiderio di mettergli le mani addosso. — Alle volte penso di detestarti, maestro… —

“Alle volte? Sei di buonumore, dopotutto.” — Potrei accettare l’invito, ma dipende da quello che offri. Sono molto esigente, riguardo al servizio… —

“Che razza di faccia tosta…” Kelly si voltò a passo di carica, ritrovandosi a sbattere contro qualcosa. Camus, o meglio, la maglietta di Camus con sotto quel tonico ben di dio che le faceva male alla vista e alle coronarie. E quello sguardo profondo, che faceva venire voglia di avvicinarsi di più, abbastanza da strappargliela via e scoprire il puro e semplice odore della sua pelle. Indietreggiò di un passo, arrossendo di vergogna. Camus intimidiva e attraeva come quella montagna su cui l’aveva cresciuta, ed era troppo impegnativo fingere in continuazione di non accorgersene.

 — Tu… tu… tu… —

Lui sollevò un solo, singolo sopracciglio, quello della condiscendenza divertita. Quello che, se solo fosse stata in possesso delle sue facoltà mentali, l’avrebbe mandata su tutte le furie. In quella circostanza… la ragazza deglutì, nervosa. Faceva troppo caldo, in quella stanza. Sissignore, troppo caldo.

 — Io cosa, ragazzina? —

 — Tu… non conosci la vergogna, lo sai? — lo rimbeccò, schiarendosi la voce e agitandogli un dito sotto il naso.

 — Sei stata tu ad invitarmi… — le fece notare lui, senza scomporsi. Di colpo, le sembrava quasi divertito. La seguì in cucina, in mano le tazze del pomeriggio, e incominciò a lavarle senza che glielo avesse chiesto. Gliele avrebbe incrinate, come minimo, e forse avrebbe fatto cadere tutti i piatti tentando di metterle a posto, ma lei non avrebbe mai avuto il coraggio di farglielo notare, non finché lui avesse conservato quell’accenno di sorriso. Da quando gli bastava scroccare una cena per sentirsi soddisfatto?

“Non ti capirò mai…”



~.~


Pel di Carota Sexy era tornata, finalmente. Alex osservò con curiosità e disagio crescenti le occhiate roventi che la loro improvvisata relatrice scambiava con la sua amica. Katie, d’altro canto, pareva furiosa e circospetta insieme, e lui e Max non potevano fare altro che fissarle entrambe, pregando che il mezzo sorriso beffardo della dama in tailleur non stesse per segnare l’inizio della catastrofe.
Jack Allen si schiarì la voce, rumorosamente, scoccando un’occhiata feroce alla sua accompagnatrice. Una di quelle occhiate incredibilmente espressive che l’avevano reso famoso, o meglio… orribilmente famigerato. Clara Galesi si ricompose, non era tipo da ignorare certi segnali. E diede fuoco alle polveri.

 — Immagino che tutti voi abbiate appreso del nuovo incarico del vostro supervisore — esordì, con un’espressione che trasudava malafede. Espressione traducibile in molti modi, e nessuno particolarmente benevolo. — E che abbiate studiato con attenzione il materiale che vi è stato inviato. — Claire si soffermò un istante, giusto il tempo di valutare la reazione dei suoi astanti. Un secco cenno del capo, da parte della ragazzina. Occhi spalancati come padelle, da parte dei due maschietti. “E se questi sono i tuoi migliori, Martin…”
Sorrise di se stessa, prima ancora di aver finito di formulare quel pensiero. Le sue considerazioni non avevano importanza. Non importava se e quanto quei ragazzini fossero bravi sul campo, o quanto somigliassero a quello che lei stessa era stata alla loro età. Lei sapeva, sapeva sul loro conto molto più di quanto chiunque altro potesse supporre. Era rimasta in contatto con il suo amico, il suo mentore, in tutti quegli anni, senza che alcun estraneo lo venisse a sapere. Una sola telefonata, tutti i sabati, con qualunque fuso orario, a Washington, a Singapore, sotto copertura o su un campo di battaglia sperduto nel deserto.
Martin, il suo migliore amico. Sempre presente, nella buona e nella cattiva sorte.
E attraverso i racconti di Martin li aveva seguiti a distanza, tutti quei ragazzini, appassionandosi come ad una telenovela di dubbio gusto. Aveva riso come una pazza quando, da un accenno svogliato, aveva compreso che David ce l’aveva ancora con lei per quello scherzetto vecchio di tre anni buoni. Claire sapeva che Max era un hacker esperto, che Alex sperimentava la cannabis con lo stesso rigore scientifico che Sherlock Holmes riservava alla cocaina, e che quando Katie ti guardava in quel modo con un AK-47 in mano era meglio fuggire.
E sapeva anche quanto pesasse il vuoto degli assenti, quelle tazze abbandonate e quei letti vuoti nel cuore del suo amico. Martin era un soldato, e i soldati certe cose non le dicono. Ma lei sapeva. E non avrebbe mai lasciato perdere, proprio perché per lui era così importante. Avrebbe fatto quello che avrebbe dovuto fare lui, se Wood non lo avesse confinato chissà dove. E li avrebbe condotti al sicuro.
 — Avanti, a cosa ritenete che portino, quelle cartine? — li pungolò.
 
 — Oltre che a te, intendi? — sottolineò la ragazzina, con pesante sarcasmo.

“L’hai capito tutto da sola? Direi che ti ho sottovalutata.” — Forse dovrei scusarmi per la violazione del tuo armadietto — convenne Claire, con un sorriso che significava tutto tranne che delle scuse.

 — Non è con me che dovresti — ritorse Katie, tagliente. — Quanto a quel codice, sono stata io a trascurare alcuni protocolli di sicurezza, quindi… —

“Concreta e velenosa. Ruser ha scelto bene, per una volta.” — Bene. Se l’incidente è chiuso, possiamo arrivare al dunque. Ma forse dovrei cominciare dall’inizio. —

 — Non troppo dall’inizio, Galesi. Non abbiamo tutto il giorno — borbottò Allen, un’altra tazza di caffè già pronta e un’occhiata quantomai nervosa alla porta.

La donna scosse la testa, come se avesse assistito a quella scena troppe volte per replicare, o anche solo per prestarvi attenzione. — Sono circa quattro mesi che conduco indagini autonome sulla scomparsa dei vostri compagni di squadra. Non tanto sul come, quanto sul perché. Martin non lo sapeva. — Certo, lei non gliene aveva mai parlato, quindi lui doveva averlo scoperto quasi subito. — Nessuno dei miei tentativi ha avuto successo. Finché, un paio di settimane fa, ho avuto un colpo di fortuna. Il dipartimento a cui mi hanno assegnato quando ho lasciato Washington fa parte di un progetto molto particolare, sapete. —

 — Ma cosa mi dici mai… — interloquì Alex, pungente.

La donna decise per una sana indifferenza, e Allen si complimentò con se stesso per l’abilità con cui aveva sempre svicolato, alla larga da qualunque incarico da addestratore. Si chiese anche, distrattamente, come avesse fatto Rothstein a non diventare matto del tutto. Non più di quanto non fosse in origine, comunque.

 — Davvero molto particolare — riprese la donna, come se nessuno l’avesse interrotta — dal momento che svolge indagini su casi… speciali. Casi che vanno al di là dell’ordinaria comprensione umana. —

Una mano si sollevò, beffarda, attaccata al braccio di un aspirante suicida. — Dobbiamo chiamarti Agente Scully, adesso? —

 — No, se tenete alla pelle. E prima che tu me lo chieda, Alex — sbuffò, prima che le rubasse ancora la parola — l’Area 51 esiste. —

 — L’alieno che dovrebbero sottoporre ai più crudeli esperimenti? —

 — Ti avverto, Barzini, un’altra battuta e finirai a cantare da soprano ai Bar Mitzvah — si immischiò Jack Allen, con un’espressione peggiore di quella di Martin il giorno in cui avevano deciso di farlo smettere con le sigarette.

Il ragazzo alzò le mani in segno di resa, mentre i suoi compari alzavano gli occhi al cielo. — Il tuo.. reparto… conduce indagini su fenomeni paranormali? — chiese Katie, con interesse.

Claire esitò, poi la guardò diritto negli occhi. — Ti conviene non saperne troppo, McArthur, ma sappi che mi hanno associato ad un progetto innovativo e sperimentale quanto il vostro, anche se in… termini diversi. —

 — Insomma — riprese Alex, con un’occhiata guardinga ad Allen — Lavori con i men in black.

“È incredibile quanto il cinema di terz’ordine contribuisca alla formazione dei nostri agenti migliori…” La donna spiegò sul tavolo un’enorme mappa ad infrarossi, annuendo. — Una scelta di lessico davvero appropriata, non c’è che dire. Ma penso che sì, potresti spiegarlo così. Ora, se osservate questa cartina della penisola ellenica — indicò, aggiungendo un’altra foto satellitare — e questo ingrandimento della zona di Atene, forse osserverete due cose —

 — Cosa mi rappresenta questa sorta di “tornado” sulla destra? — Max, quello che Claire aveva sempre ritenuto il più sensato di tutti, aveva posto finalmente l’unica domanda intelligente di quella malaugurata conversazione, indicando con il dito una zona montuosa a est di Argiroupoli. Una zona che, almeno in teoria, avrebbe dovuto far parte di un sito archeologico pericolate, e dunque recintato e protetto. Fin troppo protetto, aveva scoperto. La donna annuì, un’occhiata a Jack.

 — Quello è il motivo per cui le vostre indagini, almeno fino ad ora, non hanno mai avuto successo. Ed è il motivo per cui forse, da oggi, le cose cambieranno. —

 — In che modo? —

 — Come sapete bene, i vostri amici sono scomparsi quattro mesi fa, ad Atene, durante la notte tra il tre e il quattro giugno, attorno alle due del mattino. Eravate usciti insieme, ma vi siete divisi presto. A piccoli gruppi, siete stati attirati fuori dalla folla, storditi con rapidità, e quando avete ripreso il controllo di voi stessi… era tardi. Sette di voi erano svaniti nel nulla. Soltanto Max ha potuto fornire un resoconto, seppure frammentario e a tratti contraddittorio. —

Annuirono, tutti, a capo chino, ciascuno perso per un istante in quel flusso di ricordi scomodi. Max ripensò, furente, ai resti della camicia di jason, al viso coperto di sangue di Kelly, un attimo prima di perdere i sensi, all’angoscia di non trovare traccia della sua Chris… e a quell’uomo imponente, avvolto in un mantello tanto fuori luogo in quella notte mite… alto, con i capelli lunghi… lanciò una lunga, colorita imprecazione in tedesco stretto, prima di ricordare che tutti i presenti erano in grado di capirlo perfettamente.
Come aveva potuto dimenticarlo?

 — L’uomo della foto — annunciò, funereo. Allen sollevò lo sguardo dai suoi documenti, fissandolo come se volesse espiantargli le informazioni direttamente dal cervello. — Il ‘ganzo’ di Wood … credo che quella sera fosse presente. Era uno dei rapitori. — Ripensò, con maggiore attenzione di quanto non avesse mai fatto, all’aspetto di quell’uomo, allo sguardo freddo del killer addestrato, all’atteggiamento di chi è abituato a prendere il controllo della situazione. “Quell’uomo è come noi.” — Probabilmente il capo — concluse, con un’occhiata di scuse.

 — Sì, lo sospettavamo anche noi. Come sospettavamo che fosse quello, il motivo per cui a qualcuno piacerebbe tappare la bocca al nostro Max. Ma alcuni di voi ne erano già informati, non è così? —

Max roteò gli occhi a destra e sinistra, fino ad incontrare gli sguardi colpevoli e sfuggenti dei suoi due amici — E voi, quando pensavate di farmene partecipe? — sbottò, irato.

Claire sorrise, sardonica. — Martin sembrava convinto che non avresti apprezzato che i tuoi amici si trasformassero in angeli custodi, pare. —

“E aveva ragione.” Il ragazzo tornò a guardare la cartina. — Qualunque assurdo piano abbiate messo in opera, piantatela immediatamente. Non rischierò di perdere altri di voi, neppure se ve lo ordinasse il Segretario Generale in persona. —

“Non credo che tu abbia molta voce in capitolo, Max”. Claire gli dedicò uno sguardo colmo di ammirata compassione, cambiando discorso con agilità. — Ora, ragazzi… la ragione di quella perturbazione che potete intravedere nell’ingrandimento satellitare è un’insolita e persistente attività elettromagnetica nella zona interessata. — La donna proseguì, più concitata. Doveva arrivare al punto, finalmente. Tanto più che qualcosa le diceva che non avevano più molto tempo. — C’è un motivo, che interessa il mio dipartimento molto da vicino. —

Jack Allen ebbe un moto di nervosismo. —Questa parte me la risparmio, grazie. L’ho sentita una volta e mi è bastata. Prenderò un altro caffè — borbottò, uscendo nel corridoio, ma lasciando la porta socchiusa.

“Caffè, come no…” Katie era certa che tutti avessero notato un certo tramestio sotto il tavolo dell’ufficio che avevano preso in prestito. Un gesto familiare, che tutti loro associavano istintivamente ad armi da fuoco e sicure che venivano rimosse. La ragazza incrociò lo sguardo di Claire, che le restituì un’occhiata solidale e preoccupata. Per quanto la seccasse ammetterlo, c’era davvero molto da imparare da quella donna, agente esperto e amica di Martin prima di loro.

 — È ora di dare un senso a questa lezione. — Claire trasse da una borsa un libro dall’aria antica, e dalla copertina piuttosto rovinata. — Miei giovani padawan, spero che il vostro latino medievale sia buono quanto basta, perché non credo che avrò tempo di tradurvi quello che ho letto in questo volume. —

Katie tese una mano, e socchiuse gli occhi, tentando di decifrare i caratteri sbaditi sulla copertina. Poi comprese, e il volume quasi le sfuggì di mano. — Dove l’hai preso? — bisbigliò, colpita.

La donna le sorrise ancora, un sorriso aperto e compiaciuto. — Questo, al momento, non è importante. —

 — Ma di che diavolo si tratta? — intervenne Max, sorpreso.

Fu Katie a rispondere, scorrendo le dita sulla pelle lisa e consunta dal tempo. Il Santo Graal dei bibliofili, il volume che avrebbe fatto impazzire suo nonno, che le aveva trasmesso la sua passione, se fosse stato ancora lì per vederlo. Era prezioso, perché decorato d’oro. Ed era stato un amanuense a miniarla, perché aveva visto la luce molto, molto lontano dal torchio di Gutenberg. — Questo… questo è un volume che si credeva perduto da secoli. Se non si tratta di un falso… — e non lo era, almeno a giudicare dallo sguardo di Claire — questa è l’unica copia ancora in circolazione del Liber Mundi. —

Max fissò prima lei, poi il volume, tentando di attribuire un senso a quell’ultima rivelazione. “Rosencreutz… i suoi segreti sono davvero la chiave” — Il Liber Mundi? —

 — Il Libro del Mondo — sottolineò Alex, come se ce ne fosse stato bisogno.



~.~


Kelly prese un’altra molletta dal cesto, quindi provvide a fermare l’ultimo calzino. Rimase per qualche istante alla finestra, a godersi la quiete della notte. Le piaceva sbrigare certe faccende mentre tutto il resto del mondo pareva dormire, o essere in procinto di farlo: il silenzio l’aiutava a pensare. E qualche volta, persino a rilassarsi.
Certo, se la sarebbe cavata meglio se il vicino maniaco avesse smesso di tentare di spiarla con quel ridicolo binocolo, ma in fondo la vita poteva essere peggiore, da quando aveva ritrovato un altro dei compagni che aveva perso.
Camus se n’era andato da tempo, dopo essersi offerto di lavare i piatti, per la verità senza troppo entusiasmo. Lei aveva soppesato l’offerta per meno di un nanosecondo, quindi gli aveva offerto il bicchiere della staffa, scongiurandolo di stare alla larga dal suo lavandino. “Un’altra delle sue cortesie, e mi ritroverò a corto di stoviglie.”
Certo, era stato facile averlo attorno, serio come sempre, ma forse un po’ meno sostenuto del solito. E lei ancora non riusciva a capire come avesse fatto a sciogliersi tanto, a dimenticare finalmente per un paio d’ore il male e il ricordo del rapimento. Aveva incominciato a parlare senza quasi rendersene conto, versando il whisky made in Ireland in due bicchieri di vetro spesso e pesante, fingendo di non notare il suo sguardo di ferrea disapprovazione. Gli aveva raccontato della loro infanzia alla base, della morte dei genitori, dell’addestramento crudele, degli scherzi e delle risate, di come Dave le avesse rifilato quel ridicolo soprannome e del giorno in cui era finalmente riuscita a lanciarlo diritto tra le braccia di Katie.
Di suo fratello e sua sorella, di Martin e delle sue sigarette, di come avrebbe voluto almeno potergli dire di non preoccuparsi troppo.
Camus aveva parlato poco, ascoltato molto, e accennato un paio di sorrisi. Sembrava davvero interessato, a lei, al suo racconto, a tutti loro. Forse anche il suo maestro di ghiaccio stava cambiando, un pezzetto per volta. Chissà, forse un giorno sarebbe diventato qualcuno di cui potersi davvero fidare. Forse un giorno sarebbe riuscita a superare anche quello scoglio, e gli avrebbe chiesto di raccontarle di quella notte che aveva cambiato loro la vita. E forse lui le avrebbe risposto. Forse.
Un giorno.
Chissà.
Si voltò.

 — Resterai impalato ancora per molto, o verrai a sederti? —

David le dedicò il suo ghigno più amabile, uscendo dal cono d’ombra accanto alla porta, e accese la luce principale. Lei chiuse la finestra con attenzione, si tolse la maschera. E attese.

 — Come hai fatto a sentirmi? — si decise a chiedere lui, traendo due secchielli di gelato da un sacchetto di carta.

 — Hai fatto scattare la serratura — sorrise la ragazza, le mani nel cassetto delle posate.

 — Non insinuerai che sia arrugginito — David finse di indignarsi, lanciandole in mano il secchiello al cioccolato fondente.

Si scambiarono un’occhiata complice, un cucchiaio enorme lanciato con precisione nelle mani del suo amico. Kelly aprì la confezione, ridacchiando. — Non tu, la porta. Bisognerebbe oliarla da quando sono arrivata. Ma sai, credo proprio di preferirla com’è. —

 — Furba e malfidata — approvò Dave, prima di brandire il cucchiaio e sprofondare nella poltrona gonfiabile. Sì, tornare da lei era stata una buona idea. Quel posto, in qualche modo, sapeva di casa. Lo faceva sentire come se potesse ignorare la loro vita rivoltata come un calzino almeno per cinque minuti al giorno.

 — Allora, con tuo fratello è andata tanto male? — la ragazza si stese sul divano, la stanchezza della giornata appena trascorsa che cominciava a scioglierle i muscoli.

Dave lasciò andare il cucchiaio con stizza. — È convinto che i nostri genitori siano sepolti nel cimitero di Aoyama —

Lei quasi si strangolò, incredula. — Sul serio? E quando andate a trovarli? — tentò di scherzare.
Lunga, lunga pausa. “Non dirmi che…”

 —Domani — brontolò lui, irritato. — Domani andiamo a porgere i nostri omaggi all’ossessione di mio fratello. L’amnesia non bastava, evidentemente. —

Kelly annuì, comprensiva. Il cervello ottenebrato, la sensazione di impotenza e di non avere memoria di se stessi… E la tua stessa mente che ti tradiva, e generava dei ricordi che riempissero il vuoto di quello che ti avevano strappato. — Lo so. Steve… anche lui… — si interruppe. Stava per toccare un tasto troppo doloroso, e per quella sera non se ne sentiva in grado.

Il ragazzo chinò lo sguardo, vergognandosi. Certo che la conosceva, la storia della mamma morta e intatta nelle acque gelide del mare siberiano. Gliel’aveva strappata dalla mente per distruggergliela, un giorno di non troppo tempo prima. E non è che ne andasse esattamente fiero. — Ancora non ricorda nulla di Christine, vero? —

 — No. — Kelly scosse la testa brevemente, quindi appoggiò il gelato sul pavimento. — E lei fa finta che non importi, dà il buon esempio, come sempre. —

David alzò al cielo il cucchiaio, in un silenzioso gesto d’onore. “Cambiamo discorso…” — Tua sorella è sempre stata una roccia. Ricordo… —

 — Ricordi anche cosa hai blaterato, oggi pomeriggio, quando sei rimasto solo con Camus? — lei lasciò cadere la bamba, un sorrisetto pestifero e colmo d’ironia.

Colpito e affondato, quando meno se lo aspettava. Se solo fosse stato meno stanco di essere sempre in guardia se la sarebbe cavata meglio, ma, in quelle condizioni, David annaspò per qualche fragile, incerto secondo. Che bastò per ritrovarsela addosso.

 — Su, dimmi la verità, vecchio mio — sussurrò lei, da un punto imprecisato dietro la sua nuca, le mani saldamente aggrappate alle sue spalle. Nel giro di un solo istante Ikki di Phoenix tornò a galla, furioso e letale, facendogli provare l’istintivo desiderio di spezzarle. — Vedrai che dopo ti sentirai meglio. —

“Ne sono certo.” L’istinto feroce e testardo tentò di prendere il sopravvento, di stringere le dita attorno a quei polsi sottili e sentire gridare. Un paio di secondi, non di più, che lo lasciarono spossato e triste. Il demone si arrese con un ultimo ringhio, e con esso anche la voglia di spiattellarle la verità. La verità, come no. Sapeva cosa avrebbe dovuto raccontarle, senza dubbio. Era quello che la sua parte più razionale, pressoché inascoltata, urlava a gran voce che si dovesse fare. Era il desiderio della sua amica, che non meritava quella reticenza. Era evidente. Com’era evidente, e il suo istinto raramente sbagliava, che quel particolare segreto non suo era ancora necessario, in qualche modo. E lui sapeva quanto danno potesse derivare da parole intempestive. “Non farmene pentire, Camus dell’Acquario.”

 — Gli ho detto che spero sappia cosa sta facendo — si decise a rispondere, augurandosi di suonare sincero quanto bastava per chiudere quella porta una volta per tutte. Lei lo lasciò andare, girando attorno alla poltrona. Strinse gli occhi, dubbiosa. — E gli ho anche ricordato che la Terra non è un posto abbastanza grande per nascondersi da una spia inferocita. —

 — Tu l’hai… l’hai minacciato? — insistette lei, le mani incrociate sul petto e un’espressione assolutamente incredula.

 — Se vuoi vederla così… —

La ragazza gli diede le spalle, le mani fra i capelli. Solo quando il tremolio si diffuse su tutto il corpo, Dave comprese che stava ridendo. “Ti diverti con poco…”

 —L’hai minacciato. — Lei si lasciò cadere di nuovo sul divano, riprendendo in mano il suo gelato. — Tu, pazzo spaccone, hai promesso ad un Cavaliere d’Oro di fargli la pelle. Dave… sei davvero tornato. E sei completamente fuori di testa. —

“Non proprio. Sarai tu ad inseguirlo fino in capo al mondo, Kelly, se è vero che ti conosco. E io ti conosco bene.” — Perché, credi che non ne sarei capace? — ribatté lui, affettando la faccia tosta d’ordinanza.

Lei lo guardò con il cucchiaio ancora stretto tra le labbra, sorrise ancora. — Se c’è qualcuno capace di fare cose folli, David Ruser, quello sei tu. — “Sei la Fenice. Lo sei sempre stato.”

 — Io? Ne sei certa? — David ci mise tutto il sarcasmo di cui era capace, e anche quello che non credeva di possedere. “Sei quasi morta per me, Chiappe Secche.”

 — Oh, chiudi il becco — tagliò corto lei. Doveva averlo capito alla perfezione. — Sei tu quello dei numeri da circo, non cercare di tirar dentro anche me. —

 — Già. — David si interruppe, distolse lo sguardo. “Incoscienti e testardi, è questo che siamo stati io e te. Senza mai riflettere su quanto poco tempo potessimo avere a disposizione.”

 — Lei ti manca, vero? —

Katie. Nessun dubbio che si riferisse a lei. Non che gli mancasse, non precisamente. Era piuttosto la sensazione che l’aria contenesse la metà dell’ossigeno, come un perenne mal di montagna, constante ma sopportabile. Tranne quando un dettaglio gliela riportava alla mente, e allora la sensazione di vago malessere si tramutava in una martellata alla bocca dello stomaco. Quanto tempo era passato, dall’altra parte? E lei, lei cosa stava pensando? — E di Mark, cosa mi dici? — ritorse, affettando un’aria innocente e falsa come poche.

 — Mark? — Kelly lo guardò incerta, come se la terra le stesse franando sotto i piedi. — Che diavolo c’entra lui, adesso? —

“Un bel niente, ovvio.” — Sembra che quella istitutrice gli piaccia parecchio —

“Lo spii anche tu, adesso?” — Se stai tentando di rendermi la pariglia, Ruser, non lo trovo divertente. —

 — Ovvio… e non sembra neanche che la cosa ti tocchi più di tanto. —

La ragazza scrollò le spalle, di fronte a quella osservazione fuori luogo. — Non avrebbe senso, non ricorda. — Nulla, non ricordava nulla, né i giochi da bambini, né i rossori né i primi baci. E niente di quello che era seguito. Seiya di Pegasus aveva seguito un’altra strada, e di loro due rimaneva un ricordo che non potevano neppure condividere.

 — Non credo che questo farebbe differenza, dal tuo punto di vista — le fece notare David, lasciando andare il cucchiaio nel contenitore ormai vuoto. — A meno che… —

 — Eri tu a sostenere che non eravamo fatti l’uno per l'altra — lo interruppe lei, atona, come se parlasse da un luogo molto distante.

L’amico le dedicò un sorrisetto colmo di sarcasmo. Non l’avrebbe messo nel sacco, proprio no. — Già, e tu di solito mi minacciavi di evirazione solo a sentirmelo dire. Cos'è cambiato? —

"Io.. e anche lui, Dave. Ma immagino che sia superfluo sottolinearlo." Sarebbe stato molto più facile elencare quei pochi, pochissimi punti fermi che erano rimasti, nella loro nuova vita oltre quel maledetto portale. Peccato che in quel momento non gliene venisse in mente nessuno. La ragazza scrollò le spalle, senza degnarlo di un risposta.

 — Forse… hai visto qualcosa che ti piace di più —azzardò lui, con un’occhiata maliziosa. — Magari più vicino di quanto si possa credere. —

Lei scoppiò a ridere, un po’ forzatamente. — Ma davvero? — lo prese in giro. —Dave, per quanto possa solleticarti l'idea di un harem, la mia risposta è esattamente quella che ti aspetti. Neanche morta. —

“Certo, stiamo proprio parlando di me...” Il ragazzo chinò appena la testa, quindi decise di lasciar perdere. Anche se da qualche ora aveva l'impressione di aver afferrato il bandolo della matassa. Anche se sarebbe stato divertente sbatterle in faccia quello che pensava davvero. “Non solo a lei, in effetti.” No, non era il momento giusto, forse non lo sarebbe mai stato. Se solo avessero avuto abbastanza tempo… pensò, osservando distrattamente la sua amica che si alzava, pensosa quanto lui, e spariva dietro la porta della camera da letto.

 — Chiappe Secche? — la chiamò, incuriosito dal tramestio che avvertiva dietro la porta chiusa. — che diavolo stai facendo lì dentro? —

Kelly riemerse in quel momento, le braccia straripanti di lenzuola e coperte. — Non pretenderai di rubarmi il mio letto, spero — lo canzonò, gli occhi che ridevano, spingendogli la biancheria tra le mani. — Quel divano si apre — bisbigliò con aria complice.

David si sentì stringere il petto, una morsa improvvisa e velenosa. La schivò con una mossa rapida. Troppo rapida. Le lenzuola caddero a terra, senza quasi far rumore, in un mucchio scomposto. — Non… non sono qui per restare — replicò in fretta, alzandosi per riportare le posate in cucina.

 — No? E allora dove vuoi andare? — replicò lei, colta alla sprovvista.

“Dove nessuno sappia chi sono.” — Non sei la mia balia, Kelly — riemerse dal cucinino con un’espressione feroce, afferrando dalla spalliera della poltrona il giubbotto che portava più per convenzione che per effettiva necessità. Fissò gli occhi confusi della sua amica, non sapeva bene cosa dirle, ma il solo pensiero di fermarsi in un posto, quella notte, gli rivoltava lo stomaco.

 — Dimmi cosa c’è, David. Qualunque… —

 — Non posso restare — la fermò lui, tra irritazione e un vago senso di colpa. “Non riesco, tutto questo è ancora troppo. E tu dovresti saperlo.” Un’occhiata all’angolo cui era appoggiata la Fender bianca, un sorriso appena accennato. — Ma sono contento di vedere che le vecchie abitudini non sono morte. —
 
 — Dimmi solo come hai intenzione di passare la notte… —

 — So badare a me stesso, mammina — la beffeggiò lui, di nuovo simile al suo amico di sempre.

La vide sorridere e gettare sul divano lenzuola e coperte. — Almeno non scappare come un ladro — la sentì sussurrare. David rimase in piedi, appoggiato alla porta chiusa, in attesa.

La sua amica sedette a terra a gambe incrociate, con la chitarra tra le braccia, per un istante identica a quei ricordi in cui trascorreva interi pomeriggi cantando con suo fratello Michael. La morsa furiosa di Ikki di Phoenix cedette il passo di frontea quel pensiero felice, ritirandosi in un angolo profondo dell’animo di David Ruser. Forse aveva solo chinato il capo per un po’, forse era sceso a patti, accettando di divenire parte di quello che sarebbe stato il suo nuovo io. Non era stato domato, no, e lui lo sapeva. Ma, almeno per quella notte, desiderò che non avesse più importanza.

If you're lost you can look and you will find me
Time after time
If you fall I will catch you I'll be waiting
Time after time…

Pensò a Christine, sola sulla sua isola, ma sempre presente tra loro, come un fantasma benevolo. Pensò a suo fratello, e agli altri, ignari ma vivi, raggiungibili. “Poteva andare molto peggio.” Dave scivolò piano fuori dalla porta, appena più sereno, accompagnato da quelle note delicate e dalla voce non proprio all’altezza della sua amica d’infanzia. Forse, anche lui avrebbe trovato un posto in cui riposare, ora che c’era di nuovo qualcuno da cui tornare.



~.~


Altra occasione, altra miscela. Per la conversazione che l’attendeva, Saori aveva chiesto che venisse servito darjeeling pregiato e pasticcini al burro bavarese. Il nonno glielo aveva insegnato, nei lunghi pomeriggi in cui le permetteva  assistere mentre lui presiedeva le sue riunioni d’affari: atteggiamento cordiale, contatto visivo e logica stringente erano il succo della sua strategia di vittoria. E anche, perché no, profumata e fragrante corruzione culinaria. L’aveva dimenticato per lungo tempo, tratta in inganno dalla costante e gratuità fedeltà di Tatsumi, dalla compiacenza mercenaria della servitù e degli impiegati della Fondazione, ma adesso comprendeva che non tutto le era dovuto, e la fedeltà dei suoi guerrieri avrebbe dovuto guadagnarla. Solo ora iniziava a comprendere che è l’amore, e non la paura, a spingere gli uomini verso le imprese impossibili, e tutti loro avrebbero dovuto imparare a compiere miracoli, prima della fine. E davvero, non sapeva se questi pensieri glieli avesse instillati la saggezza imprenditoriale di nonno Mitsumasa, oppure l’anima onnisciente e immortale che si stava impossessando di lei, ma dopotutto non era importante.
Saori guardò l’orologio, lisciando inesistenti pieghe nella tovaglia candida ricamata ad intaglio. Sentì bussare alla porta proprio quando si stava chiedendo se la sua visitatrice avrebbe tardato, e trattenne a stento una risata di fronte all’espressione funerea del suo braccio destro che l’annunciava con circospezione e vaga minaccia nella voce. Lo congedò con un cenno, salutando la sua ospite.
Altair chinò il capo, avanzando nella stanza, abiti informali e maschera d’ordinanza. E sedette di fronte a lei.

 — Mi hai mandato a chiamare — esordì, la voce studiatamente compita. — Sarà importante… —

Saori sorrise brevemente, allungando le dita verso la teiera. Kelly notò con una punta di curiosità che la piccola, impeccabile tavola era apparecchiata per due.

 — Accomodati, ti prego. Latte? Zucchero? —

“D’accordo, facciamo a modo tuo…” Kelly sedette con grazia, scoprendo di ricordare finanche le noiose lezioni di galateo che le avevano impartito alla Base. In omnia paratus, era il motto dei loro addestratori. Che dopo il tè con i biscotti, di solito, impartivano lezioni di resistenza alla tortura.

 — Altair? —

Doveva smettere di pensarci. Anche se in quel periodo i ricordi, i buoni, i cattivi e i peggiori, sembravano tornare alla carica con entusiasmo raddoppiato, lasciandola a volte confusa e stordita. Si mescolavano, e a volte non ricordava più chi le avesse insegnato e cosa, persino che differenza ci fosse, in fondo, tra Martin e Camus. A parte quella più ovvia.
Martin non le aveva mai fatto salire la pressione ai livelli di guardia, dopotutto.

 — Saori, non che non apprezzi la cortesia, ma questa maschera non ha aperture per sorbire le bevande. —

 — Il nonno aveva una regola. Mai lasciare un invitato a stomaco vuoto. — “Soprattutto se stai per chiedergli un favore importante.” — Siamo sole, e nessuno ci disturberà. —

 — Non si tratta di questo, Saori-san… —

Saori si chinò elegantemente di lato, traendo da una tasca un foulard di seta. Lo piegò alcune volte, fissandola con uno sguardo penetrante e un sorrisetto furbo. — Sono pronta anche a bendarmi, se necessario —

“Potrei lasciarglielo fare. Anche così, sarebbe capace di sorbire elegantemente il suo tè e sbranare una di quelle millefoglie senza rovesciarsi addosso neppure un briciola” rifletté pigramente la guerriera, lasciandosi andare ad una sorrisetto nervoso. “Ma la Dea non vorrebbe che la prendessi con tanta leggerezza” concluse, stupefatta di se stessa.
In fondo, c’era altro in quella richiesta, che la mettesse a disagio. La prima cosa che le era stata insegnata era che, di fronte al nemico, la maschera era freddezza e vantaggio tattico. Scegliere di non accontentare Saori significava chiarirle che non sarebbe stata lei a dettare i termini di quell’incontro, e la logica suggeriva che fosse la scelta migliore. Nessuno che non conoscesse il suo segreto l’aveva mai vista toglierla, e a lei stava bene così. Ripensandoci, c’era una sola persona davanti alla quale avrebbe scelto volontariamente di stare a viso scoperto, a parte Chris e Dave. Qualcuno cui stava dedicando un po’ troppi pensieri, concluse, mentre Saori incalzava con quello sguardo quasi affettuoso e una teiera dal celestiale profumo in mano.

 — Niente latte e niente zucchero, grazie — decise, rimuovendo la sua prigione portatile e rivelando due occhi stanchi e provati dall’ennesima notte agitata.

 Saori approvò la scelta con un grazioso cenno del capo. — Hai ragione, le aggiunte rovinano un buon tè. Posso offrirti anche un biscotto? —

“Oh cielo, vuole giocare alle signore…” Kelly sorrise, scoprendo i denti un attimo più del necessario. “Ma dovrai arrivare al dunque.” In effetti, non sapeva se augurarselo davvero. I Kido non erano esattamente noti come latori di buone notizie.

 — Prendi uno di questi, Altair. Sono deliziosi. — Saori era calata perfettamente nella parte, ma la occhieggiava con un interesse che non aveva nulla a che fare con i suoi doveri di padrona di casa. La soppesava educatamente, guatandola come un elegante cane da caccia, e lei moriva dalla voglia di scoprire il perché. Oltre che la ricetta di quei favolosi macarons al limone.

 — Saori… —

 — Ti starai chiedendo perché ti ho invitata, oltre che per offrirti la merenda e dei frivoli convenevoli. — la interruppe la Piccola Lady.

Kelly ne doveva convenire. — Beh, apprezzo l’invito e soprattutto i dolci, ma tu sei una persona molto occupata. — “E anche io, cosa di cui forse qualcuno dei tuoi ti ha messo al corrente.”

 — In effetti non abbiamo avuto un istante di respiro, tra l’annullamento del Torneo, il mio rapimento, l’incendio della villa e dello chalet, il crollo delle azioni della Fondazione e la ricerca costante del nostro misterioso nemico. — E qui la piccola Kido la fissò con intenzione, quasi potesse leggerle in volto l’informazione che, per il bene di tutti, continuava a nascondere accuratamente. Ce lo vedeva, Mark, partire lancia in resta alla volta delle Dodici Case, e finire in polpette. “No, grazie.”

 — Comunque — riprese Saori, dopo aver sorbito un sorso di tè. — Sì, ho chiesto di te per un motivo. Che io sappia, tu sei l’unica dei miei Cavalieri a non essere apparsa in video. —
 
“Sull’essere tua avrei qualcosa da ridire.” — A onor del vero, non è che tu non ci abbia provato… —  

— Il solo fatto che i nostri nemici non siano al corrente del tuo aspetto, e forse neppure della tua identità, ci conferisce un grande vantaggio. — Saori le riempì nuovamente la tazza, senza raccogliere la provocazione. — Vedi, ho intenzione di affidarti un compito, se acconsenti. Posso chiederlo soltanto a te, perché vedi… è necessario che sia portato a termine nel più totale segreto. —

“Bene, se quello che cercavi era la mia attenzione, ora ce l’hai.” Kelly portò la tazza alle labbra, fissandola attentamente. Le fece cenno di proseguire.

Saori si schiarì educatamente la voce, un sorrisetto furbo all’angolo delle labbra. Glielo disse.
E la sua fedele guerriera dovette chiederle di ripeterlo.



~.~


 — Tu non stai parlando sul serio, vero? —

Claire sospirò, forse per la centesima volta. Radunò le mappe, la foto del ‘ganzo’ ripreso insieme al caro Generale Wood, e si dispose a controbattere ancora al fuoco di fila di obiezioni.
C’era già passata, oh sì. Anche le sue convinzioni erano state messe a dura prova, benché il suo lavoro l’avesse da tempo abituata a considerare l’improbabile come parte integrante dell’esistenza. Aveva discusso anche con Allen, quando l’aveva cercata dopo il misterioso incarico di Martin. Neppure lui ci aveva creduto, non subito e certo non del tutto. Con ogni probabilità stava dando credito soltanto a quella parte  della storia che faceva comodo alla sua indagine sul criminale che aveva dato il la a quella incredibile catena di eventi.

 — D’accordo, cerchiamo di riassumere la situazione. — Max la fissava con gli occhi fuori dalle orbite, forse ripromettendosi di non bere mai più nulla sopra i cinque gradi alcolici. — Tu lavori all’interno dell’Area 51, o una struttura simile, non c’interessa. — Claire annuì, una gomitata ad Alex, materializzatosi accanto a lei, che tentava di interrompere. — Hai sentito puzza di bruciato già quattro mesi fa, quando Martin ti ha raccontato che la sua squadra era stata decimata, quindi hai deciso di sfruttare il tuo accesso privilegiato ad informazioni altamente classificate. Non sei approdata a nulla, esattamente come noi, ma poi, qualche settimana fa, ti è stato chiesto di indagare su una misteriosa attività elettromagnetica che si è verificata fuori Atene la scorsa estate. Guarda caso, la stessa sera della scomparsa dei nostri amici. —

 — Corretto — approvò la donna.

 — Quindi — intervenne Katie — hai messo in relazione la loro scomparsa con l’evento misterioso, e hai scoperto che la zona coincide con quella di un tempio greco in rovina, dove da secoli girano voci di eventi inesplicabili, sparizioni, e tutto il campionario di una sbornia collettiva ben riuscita. —

“Signore, salvami dal materialismo degli adolescenti…” — Ancora esatto. —

 — Così, piuttosto che pensare che il luogo sia soltanto il teatro perfetto per un rave periodico, hai cercato informazioni sulla zona, il culto di Athena Parthenos e alla fine hai ripescato un libro datato diverse migliaia di anni, tradotto da Rosekreutz nel quindicesimo secolo… dove l’hai trovato, a proposito? —

 — Questa informazione, se non vi spiace, procurerebbe a tutti noi un biglietto di sola andata per il penitenziario di massima sicurezza più vicino, quindi ve la risparmierò. Sappiate soltanto che, tanto per restare nella metafora cinematografica, gli sceneggiatori di Indiana Jones non hanno mentito proprio su tutto — sorrise Claire, con intenzione.

 — Detto questo, il Liber Mundi, almeno nella versione ‘riveduta e corretta’ dai Rosacruciani, parla di una misteriosa ‘porta’ che condurrebbe ad un mondo parallelo, fornendo anche istruzioni per il viaggio, purtroppo comprensibili quanto i deliri del nostro Alex quando ha fumato troppo — riprese Max, ricambiando il sogghigno.

 — Ehi… —

 — Chiudi il becco, Barzini, la virilità oltraggiata la vendichiamo dopo — sibilò Katie, minacciosa.

 — E per finire, una settimana fa Jack mi ha contattato, sapendo quanto l’argomento mi stesse a cuore. Uno dei suoi ha bucato il firewall della postazione di Wood durante una indagine di natura amministrativa, e insieme a misteriose donazioni ad un non meglio specificato ente di carità, ha scoperto dove è stato destinato Martin. Abbiamo anche scoperto che da ieri non fa rapporto — concluse Claire, occhieggiando la porta con preoccupazione. Allen non tornava ancora, e le possibilità che avesse semplicemente rimorchiato alla macchinetta del caffè erano le stesse  che aveva lei di trovare la pace dei sensi in un convento di clausura. — Adesso sapete anche perché sono qui: sono venuta a prendervi. È ora che anche voi facciate la vostra parte, prima che Martin finisca davanti ad un plotone d’esecuzione in qualche buco sperduto nella giungla, dove la Convenzione di Ginevra non sia altro che una favola per vecchie comari. —

Uno scalpiccio sospetto, il familiare suono del silenziatore, troppo vicino, che scattava a ripetizione. Jack Allen irruppe nella stanza, la camicia schizzata di sangue, l’arma d’ordinanza stretta in pugno.

 — Sono già qui — ringhiò, rivolgendo a Claire uno sguardo eloquente  — e voi, preparatevi. Sembra che dovremo verificare se Rothstein sapesse fare il suo lavoro. —

 



~.~


 — É come ti dico, Pegasus. Fa’ un favore a tutti, e completa il lavoro da solo. Suicidati. Non ho alcuna intenzione di sporcarmi le mani con te, e se mi costringerai ti garantisco che non sarà altrettanto piacevole. —

Seiya ascoltava attonito, stupito, irritato e tutto sommato più intimidito di quanto ritenesse giusto. Il suo avversario, uno spilungone dalla chioma dorata e dall’armatura talmente lucida da potercisi specchiare, tutto mossette vezzose e virile autocelebrazione, era comparso soltanto qualche istante prima, giusto in tempo per mandare zampe all’aria il suo appuntamento con Miho. Oltre che la sua speranza di andare prima o poi in buca, naturalmente.
Lasciò scorrere lo sguardo dall’uomo alla ragazza che l’accompagnava, resistendo all’impulso di strofinarsi gli occhi con le mani per mandare via quella visione certamente ingannevole. Marin dell’Aquila era qualche anno più vecchia di lui, ed era stata la sua maestra, la sua aguzzina, la donna cui doveva tutto e che, lo sapeva, aveva sempre tenuto a lui con quel genere di affetto ruvido e tenace che si nega innanzitutto a se stessi. Su ordine del Gran Sacerdote Marin lo aveva accolto, gli aveva insegnato il greco e il potere delle stelle, l’aveva quasi ucciso perché sopravvivesse, e alla fine aveva fatto di lui il custode dell’armatura di Pegasus. E infine, e questo non glielo aveva ordinato nessuno, l’aveva salvato da Shaina dell’Ofiuco, quella pazza decisa ad ucciderlo, per ben due volte.
Ed ora si presentava a Tokyo, rivestita della sua corazza rituale, in compagnia di un baldo effeminato incaricato di fargli la pelle. Per conto di chi? A quali ordini stava ubbidendo?
Il mondo era impazzito, senza dubbio.
Il travestito socchiuse gli occhi,  l’aura argentea del suo potere che si allargava ancora attorno alla sua figura ammantata di bianco, una prova di forza che estingueva in un attimo qualsiasi desiderio di prenderlo in giro. E Seiya sentì il timore salire dalla punta dei piedi, senza permettergli di muovere un passo: era come avere le estremità affondate nella melassa. Nessun dubbio che quel Misty non scherzasse sulle sue intenzioni.

 — Marin, com’è possibile? —

La risposta, indifferente e perciò tanto più crudele, lo lasciò impietrito. E lo strappò al suo stato ipnotico. — Ciò che hai fatto della tua investitura non è affar mio, Seiya, e chi tradisce il Santuario paga. Misty della Lucertola è qui per riscuoterne il prezzo. —

Seiya si obbligò ad assumere la posizione di guardia, occhieggiando preoccupato le scale che dal lungomare portavano alla battigia e sperando che Miho fosse già riuscita ad allontanarsi abbastanza da sfuggire allo scontro.

Misty sorrise, un sorriso spietato che rendeva grotteschi quei lineamenti da ragazzina. — Oh, per Athena, hai davvero intenzione di resistere? — lo canzonò. — Povero bamboccio, se davvero conoscessi la differenza tra noi ti passerebbe la voglia di provarci. —

“Questo pomposo megalomane comincia a darmi sui nervi…” — E forse quando tu avrai preso un pugno sul quel faccino depilato ricorderai che è da sciocchi sottovalutare il nemico — Rispondergli a tono, tanto per cominciare. E forse quella fastidiosa tremarella l’avrebbe lasciato in pace.

Misty socchiuse gli occhi, apparentemente più divertito che innervosito dalla sua uscita. E attaccò, quasi svogliato,  con un’espressione crudele e la chiara intenzione di giocare al gatto e al topo. Ciononostante, Seiya lo evitò per miracolo.
Alla periferia del suo campo visivo, Marin seguiva i loro scambi senza che nulla, nella sua postura, lasciasse trasparire una pur minima emozione. Per quella donna, lui era già morto. “Misty della Lucertola è qui per riscuoterne il prezzo… E tu, tu cosa sei venuta a fare, Marin?”

Quasi a leggergli nel pensiero, la donna si portò alle sue spalle con una rapidità che non le aveva mai visto, bloccandolo senza sforzo, la candida maschera spietata come non mai.

 — Non è necessario che sia tu a sporcarti le mani, Misty. Metterò fine io alla sua vita. —

E dopo, tutto si fece dolore.



~.~










Angolo della vergogna™



Vergogna ce n'è davvero, questa volta, considerato quanto ho trascurato questa storia, le storie che seguivo e anche alcune persone. A mia discolpa, l'aver vissuto, e in parte stare vivendo ancora, un periodo davvero orrendo. Forse, questo capitolo nuovo, di cui tanto per cambiare NON sono per nulla soddisfatta, è un po' il modo più semplice di sentirmi di nouvo in pista, padrona della mia vita e degli hobby che amo.

Ciononostante, porgo scuse ufficiali ed ufficiose a tutti coloro che ho trascurato, compresa la cara Melantò che mi ha scritto recensioni spassosissime cui non ho ancora risposto, la fantastica Sara che mi avrà data un po' per morta, ed i miei quattro lettori, che probabilmente avranno pensato che intendessi mollare questa storia per la seconda volta.
Non ne ho alcuna intenzione, e, anche se a passo di lumaca zoppa, vedrete la conclusione di questa follia. So che non riavrò il mio armadio finché tutto questo non sarà finito, ecco. E sì, Camus, parlo con te, dovresti farti una vita tua e smetterla di fare il fantasma di Eirienville.

E ho anche altre notizie, avendo da (troppo) tempo in cantiere alcune one-shot, tendenzialmente demenziali, che raccontano alcuni missing moments della mia storia. Quella che è quasi pronta, ad esempio, farà finalmente luce sugli anni di Camus e Kelly sul K2 e sulla misteriosa orticaria che affligge il nostro eroe ogni volta che deve recarsi a far spese al villaggio più vicino. Non ha torto, poveretto, spesso le insidie peggiori hanno l'aria più inoffensiva. E vestono lana di capra.


Ultima considerazione, non meno importante: condoglianze alla povera Iri, novella coinquilina e, per forza di cose, ghignante beta reader delle mie idee più dementi. Se c'è qualcosa di buono, in questo capitolo, è anche merito suo.


E ora un paio di note, che non fanno mai male:

Aoyama: Il nome di un quartiere e del più antico cimitero di Tokyo. Anche se ignoro assolutamente se sia ancora possibile essere sepolti lì.

Cuompagno AK-47: il fucile d’assalto più popolare tra i guerrafondai non poteva mancare nell’arsenale delle mie spie. Devo ammettere che l'idea di un kalashnikov nelle tenere manine della cara Katie non mi rassicura del tutto. Ma non importa, male che vada chiuderò anche lei nell'armadio.

Liber Mundi, Christian Rosencreutz e i Rosacroce: Ho fatto un piccolo salto nella tradizione dei Rosacroce per il mio esclusivo vantaggio, lo ammetto. Il libro misterioso, che conterrebbe tutte le verità sul mondo e sul senso della vita, molto probabilmente è soltanto una metafora, per ammissione stessa dei praticanti del movimento. Ho però approfittato biecamente del passo del “Fama Fraternitatis”, uno dei testi liberamente reperibili in rete, in cui si racconta che Rosencreutz a Damcar “Imparò lì ancora meglio la lingua araba, così che l'anno seguente tradusse il Libro M. in un buon latino, e poi lo portò con sé” per  dare per buona l’ipotesi che il Liber Mundi esistesse sul serio.

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