La ragazza che volava

di Nannynnina
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ritorneremo a volare insieme. ***
Capitolo 2: *** Tutto ha inizio. ***
Capitolo 3: *** Non si può dimenticare. ***
Capitolo 4: *** Straordinari poteri. ***
Capitolo 5: *** Correre. ***
Capitolo 6: *** Il Pianoforte. ***
Capitolo 7: *** Sofia, la ragazza del pianoforte. ***



Capitolo 1
*** Ritorneremo a volare insieme. ***


La battaglia era conclusa. Aveva vinto lei. Ma a quale prezzo? Lui le aveva detto che erano morti.
Tutti quelli che amava. Coloro che non le era stato permesso di vedere per anni. Coloro per i quali aveva lottato, aveva sofferto e alla fine aveva vinto.
Le aveva detto che anche lei morta.
Lei.
Quella che l’aveva salvata nel momento più buio della sua vita. Quella che l’aveva fatta sorridere di nuovo. Quella che l’aveva accettata nonostante tutti i problemi che aveva e che avrebbe avuto, nonostante il pericolo costante al quale si sottoponeva standole accanto.
Lei.
Quella che l’aveva confusa e mandato il cervello in pappa. Quella che l’amava. Quella che aveva promesso di sposare, un giorno.
Un giorno che probabilmente, adesso, non sarebbe mai più arrivato. Un giorno che adesso vedeva prendere forma pian piano nella sua mente. Un giorno che adesso le faceva male pensare.
Doveva alzarsi, correre, se non riusciva a correre doveva camminare, zoppicare o strisciare se fosse stato necessario; l’importante era muoversi e raggiungerla. Non poteva essere morta. Non dopo tutto quello che avevano sopportato in quegli anni.
Il problema era che non riusciva a muoversi, si sentiva così pesante, così debole, così dolorante. E tutto attorno era così buio. Perché era così buio? Era giorno quando tutto era finito. Possibile che fosse passato così tanto tempo senza che lei se ne accorgesse? No, non era trascorso molto tempo. Doveva essere ancora giorno, dietro tutto quel buio doveva ancora esserci il sole.
Voleva sentire il calore del sole, magari le avrebbe ridato un po’ di forza.
Il sole però non ricompariva e lei aveva freddo … e paura. Eccola che arrivava e la soffocava, la paura. La peggior nemica. “Via, vai via. Non posso permettermi di avere paura proprio adesso. Non ora! Non prima di averla trovata.”
Il segreto, dicevano, era fare respiri profondi. Facile a dirsi. Aveva un bel po’ di ossa rotte lei, ne era sicura, ed era difficile persino fare brevi sospiri figurarsi respirare profondamente!
Sentì un frastuono improvviso e questo certo non migliorò i suoi già scarsi tentativi di non avere paura. L’attimo successivo però desiderò ardentemente tornare ai quei futili tentativi di stare calma. Il frastuono era causato dal muro che crollava proprio di fronte lei, proprio sopra le sue gambe che, si rese conto con orrore, non sentiva più.
E al diavolo i tentativi di non avere paura! Si sentiva persa ormai; era tutto finito. Ad essere ottimisti sarebbe morta di lì a qualche ora, forse prima. Sarebbe morta senza sapere cosa era accaduto a loro; senza sapere cosa era accaduto a lei.
Svenne. O si addormentò. O forse morì.
 
Ora il buio la circondava completamente, quel buio che ti schiaccia e ti soffoca.
Alla sua destra comparve un raggio di luce. No, non era un raggio di luce. Era lei.
Ah beh, allora erano davvero morte perché non è possibile che adesso, oltre alle gambe, non sentisse neanche tutto il resto del corpo.
Lei corse ad abbracciarla, a stringerla, a chiamarla. Le braccia attorno a se non le sentì, ma la sua voce si e fu il suono più dolce e triste del mondo. Piangeva lei. Era sconvolta, tutta scarmigliata e ferita.
La chiamò ancora e lei tentò di risponderle. Gli uscì un sospiro incomprensibile.
E di colpo tornò a sentire tutto il dolore di prima. Tornò a vedere di nuovo tutto quello che la circondava.
Dicono che la morte non è dolorosa, ma in fondo, come fanno a saperlo? I morti non parlano, non possono dirti se hanno sofferto.
E lei stava soffrendo parecchio.
Voleva solo che tutto quello finisse, voleva solo abbracciare lei, stringerla e dirle che l’amava sopra tutto e tutti.
Voleva solo tornare a volare stretta nel suo abbraccio. Lo avevano fatto molte volte, volare.
Sopra gli oceani, sopra i monti, tra le nuvole bianche e spumose, tanto in su da sentire la forza di gravità spingerti nuovamente giù. Erano alcuni dei ricordi più belli che conservava stretti stretti nel suo cuore.
Forse furono proprio quei ricordi a darle la forza di stringersi a lei e di sussurrarle tutto il proprio amore.
- Ti prometto che ritorneremo a volare insieme, lassù nel cielo, vive o morte che siamo.
Vide appena il sorriso sulle sue labbra e nuove lacrime sgorgarle dagli occhi prima di ricadere per l’ennesima volta nell’oblio.  

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Capitolo 2
*** Tutto ha inizio. ***


Era una delle notti più buie che Ariah avesse mai visto. Buia in tutti i sensi.
Lassù, nel cielo, la luna e le stelle giocavano a nascondino con le nuvole. Laggiù, invece, lei giocava a nascondino con il nemico, un gioco ben più pericoloso. Nel bel mezzo della notte era stata svegliata di soprassalto dalla porta della sua camera che veniva sbattuta con forza contro il muro. Erano entrati, le avevano dato dei leggeri buffetti sulle guance per farla svegliare e l’avevano quasi trascinata per tutto il palazzo, fino alla stanza delle riunioni. Li aveva trovato i suoi genitori sconvolti.
Cosa diavolo stava succedendo? Solo ora si rendeva conto del frastuono che proveniva da fuori. Rumore di scoppi, sibili strani, mura fracassate e grida, tante grida. Era tutto orribile, e assurdo anche. Chi poteva volere la distruzione del palazzo reale?
La sua famiglia, la Famiglia Reale, aveva un ottimo rapporto sia con il popolo che governava, sia con gli altri Paesi. Da molti anni ormai, da prima ancora che i suoi nonni nascessero, non c’erano state rivolte interne né guerre esterne. Ora, tutt’un tratto, sembrava essere scoppiata una guerra in piena regola.
Ma se era scoppiata davvero una guerra, pur assurda che fosse quest’idea, perché tutte le persone più importanti si erano rintanate li dentro, sconvolte, impaurite e con tutta l’aria di non avere la minima idea di quello che stesse accadendo e di quello che avrebbero dovuto fare?
Corse verso i suoi genitori, loro sicuramente sapevano cosa stesse accadendo.
Appena vide le loro facce però, Ariah si rese conto che forse, dopotutto, non era così curiosa di saperlo.
Non li aveva mai visti così: non erano impauriti, erano terrificati, sconvolti e tremendamente tristi.
La madre piangeva ed era scossa da singhiozzi interminabili; il padre piangeva e, anche se stringeva la moglie tra le braccia per consolarla, sembrava lui stesso cercare forza e coraggio da quel contatto.
Quando incontrarono il suo sguardo le sembrò che il mondo stesse crollando e portando via con se tutte le sue sicurezze.
Era si una guerra, ma una guerra che nessuno di loro avrebbe mai osato pensare.
La strinse forte, la consolarono, le dissero cose che lei non capì. Doveva scappare, dicevano, andare lontano, in un Paese che nemmeno aveva mai sentito, non doveva tornare per nessun motivo, non prima di quella data. Quella data … la data del suo compleanno certo. Ma il suo compleanno era già passato da un mese ormai.
“Oh no! Non vorranno dire l’anno prossimo vero? Perché? Cosa sta succedendo e perché solo io devo scappare? “
In verità, non intendevano l’anno prossimo, ma cinque anni dopo. Non poteva tornare prima di aver compiuto diciotto anni. Il perché non riuscì a capirlo, ma le dissero che ci sarebbe stato tempo per le spiegazioni, non sarebbe stata sola, c’erano delle persone ad aspettarla e l’avrebbero protetta ed aiutata.
L’abbracciarono ancora e le dissero addio.
Le dissero anche che, se dopo avesse preferito dimenticare e lasciar perdere, lo avrebbero capito e l’avrebbero perdonata.
Ma dopo, lei, non riuscì mai a dimenticare e a lasciar perdere.
 

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Capitolo 3
*** Non si può dimenticare. ***


Dimenticare. Come avrebbe mai potuto dimenticare? L’orrore, il dolore … la paura!
No, non ce l’avrebbe fatta neanche se avesse voluto … e lei non voleva dimenticare.
Quella era stata una delle notti più lunghe della sua vita, una di quelle notti che sembra non finire mai, una di quelle notti che si prolunga tanto quanto aumenta la tua paura. E la sua paura quella notte aveva raggiunto livelli incontrollabili portandola quasi alla pazzia. Qualsiasi bambina di tredici anni avrebbe avuto una paura cieca quella notte.
Una bambina, è questo che era allora; a tredici anni non si è niente di più e niente di meno che bambini.
Non ricordava neanche più la strada che avevano percorso scappando … in realtà, una volta fuggiti dal Palazzo, non fu in grado di ricordare nient’altro che le parole dette dai suoi genitori. Le sentiva ripetersi continuamente nella sua mente e riusciva a capirci sempre meno.
“Devi scappare … dopo aver compiuto diciotto anni … capirai … non sarai sola … non sarai sola!”
In effetti, non era sola. Con lei erano fuggiti anche due uomini fidati del padre. Con lei era fuggito anche Marcoh.
Marcoh.  
Un’altra cosa che non capiva. Perché era andato anche lui? Certo, lo conosceva praticamente da quando era nata, ma questo non spiegava comunque le cose. Era più grande di tre anni e, da quando ne aveva memoria, non era passato un giorno durante il quale non avessero trascorso del tempo insieme. Marcoh era il figlio del più fidato consigliere dei suoi genitori. Tra le due famiglie c’era da sempre una grandissima amicizia che andava al di la del fatto che i suoi genitori fossero il Re e la Regina. Questo non aveva mai pesato a nessuno. Tutti dicevano sempre che la Famiglia Reale non era presuntuosa, altezzosa, superba o cose del genere. Tutti dicevano che il Re e la Regina erano persone come tutte le altre e di questo loro erano contenti.
Marcoh era da sempre il suo migliore amico, quasi come un fratello. Non rifiutava mai la sua compagnia, e non perché lei era la Principessa o perché era più piccola. Marcoh era molto legato a lei e una volta, quando erano piccoli, le aveva detto che un giorno l’avrebbe sposata e sarebbe diventato il suo principe, lei gli aveva risposto che lui era già il suo principe ma l’avrebbe sposato comunque. Poi erano cresciuti e lei aveva temuto di perdere il suo amico-fratello-principe.
Così non era stato poiché lui non l’aveva mai abbandonata.
Forse, dopotutto, era per questo che era scappato anche lui, forse non voleva lasciarla sola neanche questa volta, forse voleva continuare ad essere il suo principe.
Qualunque fosse il motivo lei gliene era grata perché in tutta quella confusione fu l’unica persona alla quale aggrapparsi per non perdere se stessa.
 
In seguito lei capì. Proprio come le avevano detto i suoi genitori. Alla fine glielo avevano spiegato e la situazione non poté far altro che peggiorare. Era una storia talmente inverosimile che all’inizio pensò di star sognando, ma poi fu messa alla prova e tutta la verità fu evidente. E pensare che bisognava solo dare ascolto alla storia per rendersene conto.
 
Da quando era stato fondato, il Regno di Paladin aveva affrontato anni di luce e anni di ombre.
Ogni qualvolta arrivava l’Oscurità un Paladino nasceva per affrontarla. Un Paladino capace di straordinari poteri che si manifestavano poco alla volta e che esplodevano al compimento dei diciotto anni. Un Paladino in grado persino di volare.
Un Paladino in grado si riportare la Luce.
Così era stato per secoli, fin quando era sembrato che l’Oscurità fosse stata sconfitta per sempre.
Non erano nati più Paladini, gli anni erano passati, la Luce non era più svanita e la storia era stata dimenticata.
Le Famiglie Reali che si erano susseguite però avevano continuato a tramandarsi queste storie, avevano continuato a ricordare, non si erano permesse di dimenticare.
 
“E avevano ragione a non voler dimenticare. Niente si può dimenticare, neanche le cose più orribili!”
Ariah ora sapeva che l’Oscurità era tornata e che toccava a lei fronteggiarla.
Ariah ora sapeva di essere la nuova Paladina.
Ariah sapeva e non avrebbe dimenticato.
 

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Capitolo 4
*** Straordinari poteri. ***


Straordinari poteri.
Era davvero così. Ormai non si poteva più negare la verità: lei erala nuova Paladina, quei poteri li aveva davvero.
Dopo aver saputo la verità, dopo aver saputo tutto la storia, si era rintanata nella sua stanza e non ne era uscita per una settimana intera. Non aveva il coraggio di mettersi alla prova, di vedere se effettivamente aveva o no questi poteri. Aveva paura, era terrorizzata. Non le si poteva certo dar torto. Ma terrorizzata o no, doveva provare, doveva sapere.
Una sera chiuse la porta e le finestre della sua stanza e si stese sul pavimento. Non sapeva esattamente in cosa consistevano questi poteri che avrebbe dovuto avere, così chiuse gli occhi e cercò di concentrarsi suoi suoni e sui rumori che sentiva attorno a se. All’inizio non sentì altro che il mormorio in sottofondo degli altri in salone. Cercò di escluderlo dalla mente.
Dopo qualche minuto le sembrò quasi di stare li lì per addormentarsi, ma poi, così inaspettatamente che la fece gridare, udì un’automobile schiantarsi contro un muro.
Marcoh irruppe all’improvviso nella sua stanza, allarmato dalle sue grida. Accese la luce e la trovò stesa a terra, ansimante e sull’orlo delle lacrime; le si avvicinò e l’abbracciò, domandandole cosa fosse successo.
Si sentì quasi una cretina a dire che aveva sentito un’auto schiantarsi contro un muro, perché la strada distava un chilometro dalla loro casa e perché lei era stata l’unica a sentire l’incidente.
Cercò di calmarsi, di riflettere ed essere lucida. No, non lo aveva immaginato. E si, era sicura che non stesse dormendo.
Disse a Marcoh che aveva tentato di scoprire quali fossero i suoi poteri concentrandosi su quello che sentiva attorno a lei.
Ora era convinta di averne scoperto uno.
Gli altri non sapevano cosa pensare e di certo non li biasimava. Era stata chiusa tutta la settimana nella sua camera, rifiutandosi di parlare con chiunque di tutta quella storia, a volte rifiutandosi persino di mangiare. Lei sapeva che erano preoccupati, lei stessa era preoccupata, ma ora … ora credeva davvero di avere qualcosa in più rispetto agli altri.
Doveva scoprire se davvero un’auto si era schiantata. Doveva arrivare fino alla strada e controllare.
Decisero di andare tutti insieme. Fu il chilometro più lungo di tutta la sua vita. Sembrava non avere mai fine. C’era sempre un’altra curva da superare, una buca da evitare.
Quando finalmente arrivarono si sentì mancare il fiato. Proprio all’imbocco della strada che portava a casa loro c’era una piccola abitazione abitata da una giovane coppia di sposi. A quell’abitazione ora mancava la porta d’entrata e una buona parte di veranda, distrutte da un’auto uscita fuori strada.
C’era un frastuono insopportabile, gente che gridava, sirene di ambulanza, un clacson che non la smetteva di suonare.
Ariah non riuscì a sopportare tutto quello e corse via, indietro, di nuovo verso casa. Corse a perdifiato, inciampò un paio di volte, finì gambe all’aria e per poco non si ruppe l’osso del collo. Arrivata a casa si precipitò nella sua stanza e lì pianse tutte le lacrime che aveva represso in quelle ultime settimane.
“Ho davvero dei poteri. Sono davvero la Paladina! I miei genitori, tutto il Regno, aspettano me, pregano che io non dimentichi e che un giorno torni a salvarli. Io! Tutto questo è assurdo!”
Pianse e pianse ancora. Probabilmente dovette addormentarsi perché quando finalmente riaprì gli occhi era giorno e dalle tapparelle della finestra un raggio di sole asciugava le ultime lacrime sul suo viso.
Gli altri erano svegli e sentì perfettamente di cosa stavano parlando. Ormai era chiaro anche a loro.
Uscì dalla sua stanza e si diresse in salone. Erano tutti e tre seduti lì. Si zittirono immediatamente quando entrò e la guardarono.
-Mi dispiace di essermi comportata da stupida in queste ultime settimane. Avevo paura … ho ancora paura … ma ho un compito da svolgere, so che se voglio posso mettere tutto da parte, cercare di dimenticare e andare avanti … ma non posso, non voglio! Ormai sappiamo che ho davvero dei poteri speciali, posso sapere quali e quanti siano solo se conosco davvero bene me stessa. Devo concentrarmi, allenarmi … non so di preciso cosa devo fare, ma la farò, qualsiasi cosa sia io la farò!
-Finalmente hai capito Ariah. Ti hanno buttato la verità in faccia, senza preoccuparsi del fatto che eri ancora una bambina, ma tu l’hai affrontata. Si è vero, ci è voluto del tempo, ma alla fine l’hai affrontata e, lasciatelo dire: credo che in queste ultime settimane tu sia cresciuta davvero molto, non fisicamente ma mentalmente. Un po’ sei stata costretta a farlo, anche se come tu stessa hai detto, non sei obbligata a fare tutto ciò. Il fatto che tu l’abbia accettato fa di te una persona adulta, non sei più una bambina. E per quanto riguarda le cose da fare per scoprire quali siano i tuoi poteri, beh non ti devi preoccupare, siamo stati istruiti sul percorso da farti seguire per arrivare alla piena consapevolezza delle tue capacità; è tutto pronto da molto tempo ormai, attendavamo solo una tua decisione.
 
Era già tutto pronto. Avrebbe dovuto saperlo. Attendevano solo una sua decisione.
Bene, lei aveva deciso.
Avrebbe affrontato tutto, si sarebbe impegnata e un giorno sarebbe tornata a casa!

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Capitolo 5
*** Correre. ***


Allenamenti. Ogni giorno doveva allenarsi per ore ed ore. Allenamenti di ogni genere. Correva, saltava, prendeva a calci e a pugni, correva di nuovo e correva ancora. Era faticosissimo, non lo si poteva negare, ma dopo la prima settimana il tutto cominciò a dare i suoi frutti. I suoi poteri venivano alla luce giorno dopo giorno.
La seconda settimana aveva scoperto di poter correre veloce come la luce. Era stato stranissimo all’inizio perché quasi non riusciva a controllare la velocità e si ritrovava continuamente scaraventata da una parte all’altra senza neanche volerlo. 
La terza settimana capì come funzionava e da allora divenne una cosa bellissima. Contemporaneamente però l’allenamento crebbe di difficoltà.
La quinta settimana diede un pugno al muro per la frustrazione e ci lasciò un bel calco della sua mano. Così scoprì di avere una forza fuori dal normale. Da allora non prese più a pugni sacchi da box ma blocchi di granito.
Cominciò ad allenarsi contemporaneamente sulla velocità e sulla forza.
La sera era così stanca che quasi si addormentava con la testa sul piatto.
Tutto questo in un certo senso l’aiutava, l’aiutava a non pensare troppo; si svegliava, faceva colazione e poi andava a fare l’allenamento mattutino, leggermente più leggero; poi pranzava, studiava e andava a fare l’allenamento pomeridiano, quello che la metteva davvero K.O. Tornata da questo allenamento cenava, non sempre, e poi andava filata a dormire e non faceva in tempo a poggiare la testa sul cuscino che già dormiva profondamente.
L’aiutava … altroché se l’aiutava.
Era da tanto che non si soffermava a pensare a tutta la storia, a tutto quello che era successo.
Aveva un solo obiettivo e non importava arrivare sfinita la sera se questo sarebbe servito.
E questo sembrava davvero servire. Senza ombra di dubbio serviva.
 
Gli allenamenti si svolgevano in una super palestra super attrezzata costruita sotto la loro casa. Era stato sconvolgente vederla la prima volta. Semplicemente era una cosa troppo grande, immensa.
Ancora più sconvolgente era stato scoprire che aveva tutto il necessario che le occorreva per svolgere i suoi allenamenti speciali.
Avevano pensato proprio a tutto.
I primi giorni avevano lavorato tutti insieme. Quando poi avevano scoperto la sua forza soprannaturale gli altri si erano limitati ad osservarla da dietro un vetro infrangibile per non rischiare di farsi male. Era stato triste scoprire che finché non avesse avuto il pieno controllo dei suoi poteri doveva stare da sola nell’enorme palestra per evitare di procurare danni fisici agli altri.
Quando però si allenava solo sulla velocità tutti volevano starle intorno e, a dire il vero, questo le faceva piacere, perché non si sentiva sola.
 
Per tutto il mese successivo non vennero alla luce altri poteri, e più trascorreva il tempo, più Ariah diventava di nuovo tormentata e triste. Gli allenamenti ormai erano monotoni, ogni volta che crescevano d’intensità lei impiegava meno di una settimana per abituarsi al nuovo ritmo. Certo i miglioramenti si vedevano e di questo ne era contenta, ma ora non aveva più la testa troppo impegnata e poteva di nuovo pensare, pensare e pensare ancora.
Pensava ai suoi genitori, si chiedeva se stessero bene, se fossero ancora vivi.
Pensava a tutto quello che era successo qualche mese prima.
Pensava a tutto quello che sarebbe successo nei prossimi mesi, nei prossimi anni.
Pensava … pensava troppo e questo non l’aiutava affatto.
 
Quelli successivi furono mesi spenti, in lei non c’era più l’euforia dell’aver scoperto nuovi poteri.
L’unica cosa che la sollevava un po’ di morale era correre, correre più veloce che poteva, correre più lontano che poteva … correre e non sentire più niente.
Ma poteva correre solo in posti isolati, dove non rischiava di essere vista da altre persone.
Ma poteva correre, e questo era abbastanza, lo avrebbe fatto bastare per andare avanti e non cadere nel buio.
 
Correre … correre …  e quando si fermò si rese conto che un anno era passato.
Arrivò il giorno del suo compleanno e con esso l’ennesima dose di corsa.
Non aveva voglia di festeggiare, non se quello non era il suo diciottesimo compleanno, e quello non era il suo diciottesimo compleanno.
Così semplicemente corse per tutto il giorno, finché non scatto la mezzanotte e il suo compleanno finì.
Gli altri sapevano che quello sarebbe stato un giorno difficile per lei così non le dissero niente, non fecero pressioni, si limitarono solo a darle un abbraccio per farle gli auguri e poi la lasciarono in pace e di questo lei gliene fu grata.
Il giorno dopo tutto tornò normale e ricominciò la sua routine giornaliera.
 
Correre era ancora la sua unica ancora di salvezza.

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Capitolo 6
*** Il Pianoforte. ***


Volare.
Voleva volare. Secondo le storie i Paladini avrebbero dovuto anche volare. Ma lei non volava.
Le continuavano a dire di concentrarsi su se stessa, su quello che era, su quello che sentiva … solo allora sarebbe riuscita a volare.
Era così maledettamente difficile. Aveva sempre creduto di sapere chi lei fosse ma ora, riflettendoci su, si rendeva conto che in realtà sapeva di essere solo una ragazzina con troppa rabbia e risentimenti, una ragazzina che aveva giurato di portare a termine qualcosa di cui non conosceva le reali proporzioni, qualcosa di così grande da non poter essere spiegato solo con quattro chiacchiere.
Aveva così tanta rabbia dentro di se che a momenti le sembrava di perdere il controllo su tutto, di non essere più lei a controllare il suo corpo e le sue emozioni.
C’erano momenti durante i quali tutto quello che avrebbe voluto fare era spaccare tutto quello che le capitasse a tiro.
Altre volte invece avrebbe voluto potersi nascondere in un posto dove nessuno l’avrebbe mai più trovata.
Era facile dire a se stessa di controllare la rabbia, di non lasciarsi sopraffare così facilmente, di combattere … ma metterlo in pratica era tutta un’altra storia.
Non faceva che combattere, sempre, ogni giorno, eppure i suoi piedi non ne volevano sapere di staccarsi dalla terraferma. Erano incollati al suolo e ogni giorno che passava lei si sentiva sempre più pesante.
“Voglio volare. Se solo potessi volare e sovrastare questo mondo pieno di ingiustizie.”
 
Era ormai settembre, l’estate stava per finire. Non che ad Ariah dispiacesse. Odiava l’estate, era tutto così caldo, umido e appiccicoso. L’autunno probabilmente era la sua stagione preferita. Probabilmente era il periodo più malinconico di tutto l’anno, quando le foglie cominciano ad ingiallirsi e poi a cadere. Era un periodo malinconico si, ma ai suoi occhi era anche un periodo magico. Nell’aria c’era odore di cambiamenti e di attesa. Tutto si dipingeva di rosso e arancione. Era romantico anche.
Certo, non le interessava neanche questo però. Non conosceva tante persone, un po’ perché conoscere tante persone avrebbe comportato più rischi di essere scoperti o di mettere a repentaglio la vita di innocenti, un po’ perché lei aveva sempre timore ad affezionarsi. Aveva sofferto tanto negli ultimi due anni e probabilmente avrebbe continuato a soffrire ancora per i prossimi tre.
Non ci teneva per niente ad affezionarsi a qualcuno per poi magari soffrire se qualcosa fosse andato storto.
Marcoh non la pensava come lei … e infatti si era scottato e aveva sofferto e quando lui era stato male lei gli era stata vicino e l’aveva consolato. Gli aveva detto che si erano permesse di scaricarlo solo perché erano delle stupide che non lo conoscevano per niente altrimenti non se lo sarebbero fatte scappare per niente al mondo.
In realtà davvero non capiva perché lo avessero lasciato. Marcoh era il ragazzo più tenero, gentile, premuroso, protettivo e rispettoso di tutto il mondo. Nessuna con un po’ di cervello l’avrebbe mai lasciato. Lei di certo non lo avrebbe mai fatto.
Ci aveva pensato molte volte …  a loro due. Sapeva che a legarli c’era qualcosa di molto più forte dell’amicizia. Non credeva però si trattasse neanche di amore. Certo non poteva esserne certa.
C’erano sempre l’uno per l’altra. Se uno dei due stava male l’altro correva a tirarlo su di morale e viceversa. Si capivano alla perfezione, a volte non c’era neanche bisogno delle parole, bastava uno sguardo per capirsi.
Era questo l’amore? 
No, davvero, non era sicura.
Non si immaginava a passeggiare con lui, mano nella mano, in giro per la città. E ogni volta che provava a immaginare come sarebbe stato baciarlo scoppiava a ridere e scuoteva la testa.
“No, decisamente non è amore. Non quel genere di amore.”
 
Un pomeriggio di settembre inoltrato stava  rientrando a casa quando sentì una dolce melodia provenire proprio da lì.
Si apprestò ad entrare, curiosa di sapere come mai qualcuno stesse ascoltando musica classica. Nessuno lo faceva mai.
In realtà nessuno stava ascoltando musica classica, non alla radio almeno. Bensì c’era una graziosa ragazza che suonava appassionatamente un pianoforte nuovo di zecca.
Un pianoforte.
Nel loro salotto c’era un pianoforte. Uno splendido, lucente pianoforte nero.
Doveva ammetterlo, la ragazza era molto brava.
Da quanto tempo non suonava lei? Quando erano ancora al Palazzo, quando era ancora a casa sua, suonava ogni giorno per ore intere. Le piaceva tantissimo e spesso si riunivano diverse persone ad ascoltarla.
Suonava da quando era nata. Aveva cominciato col pianoforte e poi aveva studiato anche la chitarra. Tutti dicevano che era un piccolo prodigio della musica. Non le servivano a molto gli spartiti, suonava quello che il cuore le diceva in quel momento, inventandosi istantaneamente melodie indimenticabili. O almeno questo era quello che gli altri dicevano.
Lei semplicemente si sedeva a poi il suo cuore faceva tutto il resto.
Marcoh alzò lo sguardo e la vide. Le sorrise. E allora lei capì che quel pianoforte era un suo ennesimo dono per lei.
Sentì gli occhi pizzicarle fastidiosamente e il naso bruciarle. Sintomi che prevenivano il pianto.
Corse ad abbracciarlo e lo strinse così forte da fargli scricchiolare le ossa. Aveva sempre qualche problema a controllare forza e sentimenti nello stesso momento.
La ragazza che stava suonando allora si fermò e si alzò sorridendo.
-Lei è Sofia. Il padre costruisce strumenti musicali e come puoi vedere è venuta gentilmente a consegnarci il tuo nuovo pianoforte.
-Mio!? Davvero?
-Davvero … è troppo tempo che non suoni e so che ti farà bene. Suonavi sempre quando eri a casa ed eri bravissima!
A quel punto non trattenne più le lacrime e scoppiò in un pianto a metà tra gioia e disperazione.
Le era mancato, eccome se le era mancato suonare.
Quando si fu ripresa non si fece pregare due volte e si sedette al piano.
Era un po’ come tornare finalmente a casa dopo tanto tempo.
Sfiorò con estrema delicatezza tutti i tasti, come se potessero sgretolarsi sotto il tocco delle sue dita tremanti.
Cominciò a suonare, prima lentamente, una melodia dolce si diffuse nell’aria e nuove lacrime sgorgarono dai suoi occhi.
Sapeva che tutti la stavano guardando, sapeva che tutti stavano ascoltando e con uno sguardo fugace si accorse che tutti avevano gli occhi lucidi, persino la ragazza di cui sapeva solo il nome.
Doveva avere più o meno la sua età. La guardava suonare meravigliata, rapita e ammirata.
La melodia cominciò pian piano a cambiare, divenne sempre più alta, più forte e più incalzante.
Le sue dita cominciarono a muoversi così velocemente da far pensare che i tasti fossero carboni ardenti.
La melodia arrivò all’apice della tristezza e di colpo si fermò.
Ariah era scossa dai singhiozzi e tremava come una foglia.
Gli altri si riscossero e Marcoh le si accostò ma non le disse niente. Sapeva che effetto le avrebbe fatto suonare di nuovo.
L’aveva scombussolata sia in senso buono che in senso cattivo.
Ora aveva qualcos’altro a cui potersi aggrappare, col quale potersi sfogare. Ma aveva anche qualcosa che le avrebbe ricordato casa sua e i suoi genitori.
Tutti rimasero in silenzio per quelli che parvero giorni interi. Poi le lacrime smisero di uscire e il respiro si calmò.
Ariah si guardò intorno e si accorse che erano tutti un po’ sconvolti e persi in pensieri e ricordi lontani.
Guardò la ragazza appena conosciuta. Il suo sguardo traboccava di ammirazione e stupore. La mise un po’ in imbarazzo, non le piaceva molto attirare l’attenzione delle persone che non conosceva.
Ma guardandola negli occhi si rese conto che nell’attimo in cui aveva cominciato a suonare aveva stabilito una sorta di legame anche con lei. L’aveva ascoltata suonare … suonare di nuovo dopo due anni, suonare tutta la sua malinconia, la sua tristezza e la sua disperazione. Le aveva inavvertitamente aperto le porte della sua anima … della parte tormentata della sua anima.
Una parte di quel tormento ancora fluttuava nei suoi occhi. Occhi celesti, come il cielo … un colore freddo si direbbe, eppure quegli occhi trasmettevano calore e sicurezza. Ariah non aveva mai visto occhi così belli e profondi, ci si perdeva dentro.
Sofia.
Capelli scuri, leggermente mossi.
Occhi celesti.
 
Presto Ariah avrebbe scoperto cosa realmente quel pianoforte aveva portato nella sua vita.
Forse l’avrebbe aiutata persino a volare …

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Capitolo 7
*** Sofia, la ragazza del pianoforte. ***


Suonare.
Suonare era diventata la sua seconda ancora di salvezza dopo il correre.
Suonava, e allora il mondo le sembrava un po’ meno crudele, la vita un po’ più bella.
Era sempre stato così: lei suonava e una nuova gioia le nasceva nel cuore e nell’anima.
Lei suonava e Sofia le tornava alla mente, coi suoi capelli scuri e gli occhi chiari, così freddi ma così caldi, col suo sorriso di incoraggiamento, col suo sguardo pieno di comprensione, stupore e ammirazione. Le tornava alla mente e lei non poteva far altro che assecondare il suo cuore, la sua anima e le sue dita e suonare per lei.
 
Marcoh la sentiva suonare, suonare come non aveva mai fatto.
Quelle note esprimevano tanto, forse troppo, ed era per questo che quando Ariah suonava Marcoh se ne stava in disparte e non la disturbava perché si sentiva di troppo, quei sentimenti non gli appartenevano, non aveva il diritto di ascoltarli perché non potevano essere ascoltati da chiunque … nonostante lui, dopotutto, non fosse chiunque.
La sentiva suonare … e la sentiva piangere.
Avrebbe tanto voluto far qualcosa, trovare parole di conforto, ma sapeva di non poter fare e dire niente ormai che l’avrebbe potuta aiutare.
La sentiva suonare, la sentiva piangere … e la sentiva chiamare un nome quando dormiva.
A sorprenderlo più di tutto fu scoprire che chiamava Sofia, la ragazza del pianoforte.
 
Una mattina Ariah si svegliò e decise che doveva rivederla.
Non sapeva spiegarselo ma quella ragazza le aveva già rubato un pezzetto di se stessa e lei glielo aveva ceduto senza replicare. Era bastato uno sguardo ed Ariah si era inspiegabilmente sentita leggere dentro, nel profondo della sua anima, dove ormai non lasciava entrare più nessuno, forse per paura di soffrire ancora.
Così si alzò e decise che sarebbe andata al negozio del padre di Sofia quello stesso giorno, nella speranza di trovarla lì.
 
Appena entrata nel negozio rimase affascinata dall’enorme quantità e varietà di strumenti; ma più di tutto, ancora una volta, rimase affascinata dalla melodia che si spargeva nell’aria come trasportata dal vento … rimase affascinata da quei capelli scuri e da quegli occhi chiari.
Si avvicinò lentamente al pianoforte al quale stava suonando Sofia e rimase a fissarla in silenzio, senza quasi respirare, rapita dai suoi movimenti e da quella melodia, senza avere ne il coraggio ne l’intenzione di interromperla.
Sofia la osservò e le sorrise, un sorriso pieno di tante cose.
Un sorriso che col tempo cominciò ad amare più di ogni altra cosa.

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