Side story: la saga di Asgard - Il cuore tra i ghiacci -

di Evelyn
(/viewuser.php?uid=20)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Uno ***
Capitolo 3: *** Due ***
Capitolo 4: *** Tre ***
Capitolo 5: *** Quattro ***
Capitolo 6: *** Cinque ***
Capitolo 7: *** Sei ***
Capitolo 8: *** Sette ***
Capitolo 9: *** Otto ***
Capitolo 10: *** Nove ***
Capitolo 11: *** Dieci ***
Capitolo 12: *** Undici ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo




Hilda non era mai stata tanto distante ed algida come si era rivelata in quei giorni. Aveva preso a vestirsi sempre di scuro, quasi fosse un’inconsolabile vedova vestita a lutto, lei che detestava i colori cupi, che indossava sempre candidi abiti scollati, fin troppo leggeri per l’impietoso clima di Asgard. Hilda era bella, dolce, intelligente, saggia. Un raggio di sole caldo e traslucido che infrangeva la barriera del gelo delle loro terre. Una donna di classe. Una regnante di classe. E Sigfrid aveva riposto in lei tutta la sua fiducia ancor prima di ricevere la divina armatura e giurare di difenderla a costo della sua miserevole vita. Perché in confronto a quella di Hilda, la sua, di vita, era ben poca cosa. Questo aveva pensato quando lei, lasciando ricadere sulle spalle i lunghi capelli biondissimi, talmente biondi da sembrare argento liquido, aveva affondato gli occhi d’ametista nei suoi, azzurri e ricolmi di devozione, sottomissione ed amore. Sei il mio cavaliere più fedele, Sigfrid, quello che stimo di più, di cui mi fido di più, a cui tengo di più. E al suono di quelle parole, lui aveva sentito il suo cuore ingigantirsi, farsi grande come un pianeta, e per un istante aveva realizzato che Hilda avrebbe potuto chiedergli qualunque cosa, fargli fare qualsiasi cosa.

“Le genti del Nord sono rimaste nell’ombra fino ad ora. Adesso, è giunto il momento di prenderci l’onore che ci spetta!” aveva pontificato dal suo scranno, alzando un calice di cristallo ricolmo di vino scarlatto in onore di Asgard. L’aveva mandato giù tutto d’un fiato e si era ripulita le labbra con il lembo della manica.
“Per troppo tempo siamo rimasti nell’ombra a guardare le terre del Sud arricchirsi alle nostre spalle, per troppo tempo abbiamo tenuto la testa bassa, noi che discendiamo da Odino, noi che garantiamo l’antico equilibrio dei poli, senza che nessuno ci dica grazie.” Hilda si alzò, poggiando il calice vuoto tra le mani di sua sorella, la principessa Flare, che le sedeva accanto e che la scrutava di sottecchi, mordendosi nervosamente le labbra. Tenendosi la lunga veste, scese i tre gradini che la separavano dai suoi cavalieri, e passò di fronte ad uno ad uno, finché tutti non ebbero chinato il capo in segno di rispetto. Sigfrid, che s’inchinò per ultimo, rimase abbagliato dalla bellezza eterea della sua regina e come sempre la desiderò, sorvolando sull’ombra cupa che aveva intravisto passarle rapida nello sguardo, ignorando lo strano disagio che gli si agitava in petto.
“Da voi mi aspetto grandi cose. Sono certa che, insieme, realizzeremo i nostri sogni.” concluse sfiorando con la mano la spalla di Sigfrid.

“Sorella…ti prego…ascoltami…”

Flare si era alzata a sua volta, suscitando la curiosità di tutti i presenti e l’evidente fastidio di Hilda.

“Cosa c’è Flare, non sei d’accordo con quanto sostiene la tua regina?”

Flare per un attimo era parsa arretrare. Hilda non le si era mai rivolta in quel modo e questo l’aveva molto turbata. Anche i nobili membri del consiglio sembravano a disagio, ma non dissero una parola.

“Mia cara sorella” si decise alla fine, dopo essersi lasciata sfuggire un profondo sospiro “ io non credo che la gente di Asgard sia pronta ad affrontare una guerra.”
“Nessuno è mai pronto ad una guerra, ma è necessario e sono io a comandarlo.”
“Il punto è che non credo neppure sia necessario.”
Un mormorio di dissenso si era rapidamente diffuso nella calda sala delle assemblee. Nessuno, in realtà, era favorevole ad una simile mossa, ma nessuno era di certo pronto a contestarlo così apertamente. Hilda si irrigidì in una posa innaturale, con la testa voltata ad osservare Flare ed il busto ancora rivolto verso i suoi cavalieri. Sigfrid si agitò a sua volta, sistemandosi meglio sul ginocchio e chinando ancor di più la testa, quasi a volersi scusare al posto della principessa.
“Non credi sia necessario.” ripeté Hilda con voce metallica.
“No, mia regina. Io credo che il regno di Asgard deve vivere in pace, come ha sempre fatto, in armonia. Inoltre Atena è la dea della giustizia, i suoi cavalieri sono valenti, le loro imprese”
“FROTTOLE!”
Hilda abbandonò la sua innaturale posizione e si mosse a fronteggiare Flare, che indietreggiò visibilmente scossa.
“Ma non te ne do colpa, Flare.” Il tono della sua voce si era abbassato nuovamente. Avanzò pochi passi in direzione del suo trono. Quando fu vicina alla principessa abbastanza da toccarla, tutta la sala si tese nel timore che la regina potesse fare un gesto di cui poi se ne sarebbe certamente pentita. Tutti erano a conoscenza dell’amore profondo che legava le due sorelle, un amore reso ancora più forte dalla prematura scomparsa dei genitori. Ma Hilda in quei giorni non sembrava più lei.
“La colpa è della tua giovane età. La colpa è di tutti quegli stupidi ideali inconsistenti che i tuoi precettori ti infilano a forza nella testa. Ma tu devi fidarti di me. Devi fidarti di tua sorella. Della tua regina.” disse Hilda con un filo di voce, sfiorando con il dorso della mano il viso di porcellana di Flare.

Sigfrid alzò appena la testa. Hilda aveva ragione. Lei era la regina di Asgard ed aveva sempre fatto il bene del popolo. Non c’era ragione di credere che anche questa volta non fosse così. Flare era ancora troppo piccola per capire certe cose.
Spostò lo sguardo a scrutare le espressioni dei suoi compagni, e con piacere gli parve di riconoscere nei loro occhi la stessa fiducia incrollabile e determinazione che animavano il suo cuore. Rivolse un ultimo sguardo ad Hilda, alla donna che amava, mentre il suo cuore perdeva un battito come ogni volta che poteva ammirarla. Sulle sue labbra tirate e pallide si stendeva un cupo sorriso, privo di calore. Come di trionfo.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Uno ***


Capitolo Uno




“Perché non lo capisci!”
Flare si era lasciata cadere sul divano con un’espressione affranta e desolata. Hagen, il suo migliore amico, compagno d’infanzia, ormai caro come un fratello, sembrava perdere completamente le fila del discorso ogni volta che lei gli enumerava pazientemente tutte le buone ragioni per non muovere guerra ad Atena, come se non fosse in grado di afferrarle pienamente. O forse semplicemente non voleva. Lui era così sicuro che tutto quello che usciva dalla bocca di Hilda fosse verbo divino, che si sarebbe lasciato staccare la testa a morsi, piuttosto che mettersi apertamente contro di lei.

“Sei tu a non capire Flare!” le aveva urlato lui contro, avvicinandosi nervosamente al caminetto acceso. Era rimasto qualche minuto così, in silenzio, a fissare i lembi azzurri delle fiamme avvolgere la legna che crepitava piano.
“Hilda è la nostra regina, sacerdotessa di Odino, sua discendente legittima, sa bene cosa è giusto e cosa non è giusto per Asgard..” aggiunse quasi con rabbia, ignorando la spiacevole sensazione di disagio che aveva provato quando l’aveva vista per la prima volta abbigliata come un soldato.

Si voltò a scrutare Flare, cercando di carpire quali pensieri si agitassero sotto quel volto perfetto, levigato come una preziosa porcellana inglese, con le labbra piene e rosse, il profilo delicato, gli occhi verdi e brillanti, liquidi, confusi. Lei lo fissò con sgomento.
“Non vi riconosco più..” aveva sussurrato poi, tremando di impotenza e rabbia.

Non li riconosceva più. Non riconosceva più nessuno. Hilda, Hagen, Sigfried, erano tutti come avvolti in un panno di incoscienza, consapevoli soltanto dei propri sogni personali, dei loro bisogni, della gloria, potere, ricchezza. Come se Asgard non fosse più sufficiente. Come se non bastassero più le interminabili lande ricoperte di neve, che in primavera splendevano rigogliose di fiori variopinti, di ruscelli freschi e limpidi, con l’acqua buona e dolce.  Flare non avrebbe mai potuto desiderare nulla di diverso invece. Amava la sua terra, la sua gente. Amava persino il freddo che durante l’inverno la costringeva ad accoccolarsi davanti al camino accesso nel tentativo di trovare un po’ di sollievo.

“Atena è la dea della giustizia. I suoi cavalieri sono potenti e valorosi, le loro gesta sono conosciute ovunque.”
“Stai cercando di sminuirci, Flare?”
Hagen era scattato, piccato nell’orgoglio e nei sentimenti.
“Pensi che noi cavalieri divini siamo forse da meno dei tirapiedi di lady Isabel?!”
“Non volevo dire questo, Hagen, volevo solo dire che sono nobili e giusti almeno quanto voi. Hanno salvato il mondo dalla malvagità di un uomo terribile.”

La corsa alle dodici case, aveva ricordato Hagen alle parole di Flare. E Atena era la dea della giustizia. Il cavaliere di Artax scosse la testa, come a cercare di fare chiarezza nei suoi pensieri aggrovigliati.
“Io non vi capisco…non capisco più mia sorella…” aveva mormorato lei debolmente, incapace di accogliere senza smarrimento le motivazioni che spingevano Hilda a cercare il conflitto. C’era qualcosa di stonato in tutto questo. Sua sorella aveva fatto di tutto per mantenere la pace fino ad ora, imponendo la propria autorità su tutti i nobili che, alla morte dei loro genitori, avevano tentato di persuaderla ad estendere i confini del regno per ragioni di potere. Ma allora perché è tanto cambiata? Cosa la spingeva ora a chiedere di muovere guerra addirittura ad Atena, la dea della giustizia?

Sentì Hagen avvicinarsi piano, il passo incerto, prudente, quasi leggero come quello di un gatto. Lei gli sfiorò la spalla con la sua piccola mano bianca non appena fu abbastanza vicino. Hagen la strinse a sé, costringendola a guardarlo negli occhi.

Lui amava la bionda principessa di Asgard. L'amava fin da quando le aveva insegnato a fare un pupazzo di neve che non si scioglieva, da quando era stata Flare, e forse l’amava da prima ancora. Sapeva che lei gli voleva bene. Ma non osava sperare che al di là di quel sentimento che avrebbe benissimo potuto essere fraterno, potesse esserci qualcosa di più.

“Non voglio una guerra, Hagen. Che ne sarebbe di tutte le persone deboli che non possono difendersi, che loro malgrado si troverebbero a subire un nemico indesiderato, di noi, che ne sarà di noi?” disse in un fiato, sciogliendosi un poco dalla presa decisa del cavaliere di Odino.
“Io non ho mai vissuto una guerra per fortuna, ma l’ho letta in tanti libri, sentita in tanti racconti…ed ho paura che sia peggio di come la dipingono. Ho paura che non potrò sopportare la morte delle persone che mi sono care, se dovesse accadere…”
“Ma noi non moriremo Flare, noi vinceremo e vivremo in un mondo migliore.”
“Migliore della pace che abbiamo ora? Non ti piace Asgard?”

Hagen rimase in silenzio, abbagliato dalle lunghe ciglia di Flare che sbattevano ritmicamente e per pochi istanti celavano il verde opalescente dei suoi occhi. Pensò che mai avrebbe incontrato una ragazza più bella di lei, più dolce. Lei è migliore di tutti noi, pensò, ma non glielo disse.
“Asgard è nel mio cuore, ed è per questo che combatteremo.”
“Non è vero! Mia sorella non vuole combattere per Asgard ma per l’Europa, forse per il mondo intero! Una follia!” gridò fissando Hagen ancora più intensamente di quanto lui potesse crederla capace. Una piccola lacrima rotolò via sulla sua guancia arrossata. Hagen ne seguì il percorso con gli occhi, lungo il profilo delicato di lei, affascinato.

“Una follia…” ripeté lei in un soffio.
Hagen non disse niente. Senza pensare si chinò su di lei, depositando un bacio leggero sulla scia umida che la lacrima aveva lasciato. Poi strinse di nuovo la principessa a sé e con un gesto deciso la baciò sulle labbra.

Flare rimase di sasso. Sentì le labbra calde del cavaliere schiudersi un poco e muoversi delicatamente sulla sua bocca. Hagen le piaceva, ma non sapeva se ne era innamorata. Ma le piaceva. E i suoi baci erano così dolci e appassionati, che Flare non pensò più a niente. Non pensò più alla guerra, non pensò più ad Atena, ai suoi cavalieri, ad Hilda, alla paura, al futuro. Il suo mondo si era racchiuso improvvisamente in una piccola bolla, all’interno di una delle innumerevoli stanze del castello di Asgard.

***

Isabel si era passata le mani tra i capelli prima di afferrare una lunga ciocca ed arricciarsela nervosamente sulle dita. Non era un suo gesto abituale, per questo Hyoga l’aveva notato. Di solito lei era sempre così composta, quasi imperturbabile, di un contegno fiero ed aristocratico. Persino quando, mesi prima, in Grecia, la velenosa freccia di Betelgeuse aveva rischiato di passarle il cuore da parte a parte, s’era mostrata più calma e sicura di sé. Hyoga ricordava ancora quei momenti con ansia, come se non avesse avuto sufficiente tempo per elaborare quella disperata corsa, i colpi ricevuti, le umiliazioni, i lutti.

Dopo interminabili giorni trascorsi in ospedale nel tentativo di riprendersi, il cavaliere di Cygnus non aveva esitato a rifugiarsi nell’unico posto in cui sperava di trovare quiete, e a cui alla fine ritornava sempre e comunque. Ma questa volta non era bastata la sconvolgente bellezza dell’aurora boreale a placare il turbamento che gli si agitava dentro. Questa volta la vista delle montagne ghiacciate della Siberia, della vecchia casa austera in cui era cresciuto durante il suo addestramento, della lastra traslucida da cui si intravedeva la tomba di sua madre, era servita solo a farlo sentire più meschino ed impotente.

“Io andrò dal mio maestro a chiedere qualcosa di più su questa storia.” aveva proposto Sirio accavallando elegantemente le lunghe gambe.
Isabel aveva smesso di tormentarsi i capelli e l’aveva guardato a lungo prima di annuire impercettibilmente. Poi era tornata a fissare il vuoto al di là della finestra, persa in chissà quali mille pensieri. Seiya aveva stretto i pugni, le sue nocche erano diventate bianchissime. Non aveva voglia di combattere ancora. Voleva godersi un po’ della sua adolescenza che scivolava via rapida dai suoi giorni, voleva andare a passeggiare lungo il molo con Miho, fantasticare su Shaina.

“Va bene Sirio, ma qualcuno di voi dovrà andare ad Asgard, in perlustrazione.” disse Isabel sfiorando malinconica i tasti del suo pianoforte.

Guardò Hyoga con timore, come a volersi scusare di aver pensato a lui per quella missione. In cuor suo, Isabel avrebbe voluto che i suoi cavalieri riprendessero la scuola, che uscissero il sabato sera a divertirsi con gli amici, con le amiche, con le fidanzate, che cominciassero a temere le interrogazioni anziché i colpi micidiali degli avversari, che pensassero ad andare al cinema, a corteggiare le ragazze, a fare l’amore. Ma adesso si rendeva conto che non era possibile, non ancora. E questo non solo la feriva più di quanto avesse potuto fare Betelgeuse, ma le dava anche l’esatta dimensione dell’affetto e la riconoscenza che sentiva nei confronti dei suoi cavalieri migliori.
“Andrò io ad Asgard.” si offrì Hyoga, evitando ad Isabel lo strazio di doverglielo chiedere. Cambiare aria per un po’ in fondo gli avrebbe fatto bene. Forse smetterò di pensarci ancora.

Erii non era stata affatto contenta di apprendere che Hyoga se ne sarebbe andato un’altra volta. Da che si erano conosciuti, non avevano avuto mai occasione di trascorrere troppo tempo insieme, e lei temeva che la loro relazione si arenasse così, nel punto di vuoti in cui finivano sempre col cadere. Da che lui era rientrato dalla Grecia erano riusciti ad uscire solo un paio di volte. Era stato in ospedale per quasi un mese, inizialmente in rianimazione e poi in riabilitazione. Era occorso parecchio prima che si riprendesse del tutto, provato nel corpo e soprattutto nello spirito dalla spietata battaglia con i cavalieri d’oro del grande tempio. Lei sapeva cosa era successo all’undicesima casa. Ma non era stato Hyoga a dirglielo. A Miho l’aveva raccontato Seiya, preoccupato per come avrebbe affrontato la questione il suo amico e compagno di guerra una volta uscito dall’atmosfera ovattata e irreale dell’ospedale.  
“Non lo so Hyoga…a volte penso che non è giusto…insomma….rischiare la vita…”

Rischiare la vita per cosa in fondo? avrebbe voluto dirgli guardandolo negli occhi, trovando quel coraggio che tante volte aveva cercato dentro di sé e che si dissipava rapidamente ogni volta che stava lì per afferrarlo. Avrebbe voluto fare tante cose con lui, tante cose ‘normali’, pateticamente e meravigliosamente adolescenziali. Se Hyoga fosse partito ancora, chissà quando avrebbero avuto di nuovo l’occasione di passare una serata assieme.

Osservò di sottecchi il suo profilo disegnato, soffermandosi sulla curva attraente delle labbra, laddove erano solite schiudersi dolcemente sulle sue. Sospirò.
Era strana la sua relazione con il bellissimo cavaliere di Atena. Da quanto tempo stavano insieme ormai? Mesi. Sei per l’esattezza. Ma forse, se ci pensava bene, le volte che avevano trascorso del tempo insieme, come una coppia normale, erano miserevolmente poche.
“Devi partire per forza, vero Hyoga?” gli domandò, baciandogli la clavicola. Fece scivolare la mano sul suo petto levigato e tornito, indugiando su delle strane cicatrici appena visibili che non aveva mai notato fino ad ora.
“Sì.” rispose lui secco, sgusciando via dal suo abbraccio e mettendosi a sedere sul letto.
Le cicatrici di Scorpio, pensò lui dentro di sé mentre tentava disperatamente di allontanare il ricordo del grande tempio, della sua infinita scalinata e delle dodici case che lo custodivano. Non voleva pensare a Camus, non adesso, non di nuovo.
“Vuoi già andare via?” gli chiese Erii non senza una certa nota d’apprensione nella voce. Hyoga si voltò a guardarla.
“Sono un pessimo fidanzato, Erii, scusami…” le sorrise con un po’ di malinconia.

Il fatto è che mi fai sentire una poco di buono, Hyoga. Ci vediamo poco, e quando ci vediamo ci chiudiamo qui, nella mia stanza, a scopare tutto il pomeriggio senza raccontarci niente, senza parlarci di noi, come fanno due persone innamorate. Forse avrebbe dovuto dirglielo in faccia, pensò Erii distogliendo lo sguardo dall’azzurro di ghiaccio degli occhi di lui, forse avrebbe dovuto essere onesta su questo punto. Ma aveva paura. Aveva paura di cosa Hyoga le avrebbe risposto.

“Io lo capisco…lo capisco che sei un cavaliere di Atena.” disse soltanto, maledicendosi per la sua insicurezza.
Hyoga le accarezzò una guancia e quando lei si ritrasse l’afferrò per le spalle, costringendola a guardarlo. La strinse a sé, allacciando gli occhi a suoi. Fece scorrere un dito sulle sue labbra morbide e sottili prima di baciarla a lungo, lentamente.
“Mi dispiace di non essere la persona che pensavi…” disse poi quasi bisbigliando.
“Non è questo…è che non ci sei mai…” rispose lei ugualmente piano, senza muoversi dalla sua stretta.
“Lo so…anche se non lo vorrei…”
“Lo so…”

Per qualche minuto nessuno dei due parlò più. Un silenzio inadeguato si strinse su di loro come in un abbraccio, facendo vorticare i loro pensieri in mille direzioni.
“È meglio che vada…” disse lui facendo per rivestirsi. Erii lo imitò, raccattando le sue cose a testa bassa, senza la giusta dose di coraggio per tornare a guardarlo negli occhi.

Hyoga la salutò con un bacio leggero, quasi impercettibile. “Domani partirò presto…” disse sulla soglia, con un piede già nel corridoio deserto dell’orfanotrofio. Erii non rispose, limitandosi a ricambiare il suo sguardo malinconico. Gli sfiorò le labbra con il dorso delle dita, posando infine una veloce carezza sul suo braccio.
“Sarò qui ad aspettarti…”
Il cavaliere di Atena annuì. Erii l’osservò attraversare l’androne fino a raggiungere l’uscita, imboccarla rapidamente e sparire dietro il portone d’alluminio, con in bocca l’amara sensazione della perdita.

_______________________________________________________________________________

A tutti i lettori: Che gioia vedere che, anche se di storie in giro non ce ne sono tante, Asgard affascini ancora! Hyoga è tra i miei personaggi preferiti, e questa parte della sua storia rimane sempre troppo vaga. Poi ci sono i cavalieri di Odino, personaggi a mio parere a tutto tondo e terribilmente interessanti. Purtroppo anche io non ho trovato molto in rete, in genere qualche one-shot. Sto seguendo "Il ricordo è un traditore che ferisce alle spalle" di lady Aquaria e ho apprezzato molto "Il sole ti sorprende a mezzanotte, inatteso" di Eclettic-doll. Per il resto, attendo anche io suggerimenti! Buona lettura!

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Due ***


Capitolo 2




Sigfried guardava la foresta al di là del vetro spesso della sua stanza, ma non vedeva niente. Ripensava ad Hilda, al suo amore per lei, alla sua devozione per lei. Ripensava agli occhi gelidi, quasi privi di umanità, che avevano sfiorato taglienti la pelle delicata della giovane principessa Flare. Si passò stancamente le mani sul volto, come a voler cancellare quell’immagine irrealistica, sospirando pesantemente. Stentava a riconoscere nella regnante distante dallo sguardo metallico che aveva incontrato a consiglio quella mattina la dolce e nobile fanciulla di cui si era innamorato da tempo. Hilda era sempre stata una donna inquieta, infaticabile e rigorosa, ma non aveva mai permesso che la sua speciale posizione le impedisse di mostrare amore e dolcezza alle persone a cui voleva bene, prime tra tutte Flare. Una volta anzi lei gli aveva confessato che, se solo avesse voluto, sua sorella avrebbe potuto rigirarsela come un calzino, tanto era l’affetto che le legava. Ma non era stato così durante il loro ultimo dialogo.

Bussarono alla porta.
“Sì?” si limitò a dire senza distogliere lo sguardo dalla finestra.
Un ometto di statura molto bassa entrò goffamente nella stanza, profondendosi in un inchino esagerato di fronte al leggendario cavaliere di Odino.
“Signore…” disse richiudendosi la porta alle spalle.
“Ah, sei tu Vagal. È successo qualcosa?”

Vagal era l’officiante del culto di Idun, Guaritore di corte. Aveva appreso le sue arti dal padre, guaritore di corte prima di lui, ereditando la conoscenza dell’antico popolo di Kandalh, che si diceva discendere direttamente dalla stirpe della divinità che veneravano. Il suo aspetto tozzo e misterioso lo rendeva un personaggio assai bizzarro, quasi inquietante, ma il suo modo di aggirasi per i lunghi corridoi di palazzo, saltellando come uno gnomo, e la sua risata sguaiata avevano il potere di suscitare nella gente una naturale simpatia. E questo naturalmente era un bene per un guaritore.

“Mi rivolgo a te, nobile Sigfried, poiché Hilda nostra sovrana ride di me e sottovaluta il pericolo dei fumi.” sentenziò l’ometto avvicinandosi ondeggiando e parandosi di fronte al cavaliere del Drago.
Sigfried aggrottò un sopracciglio, senza capire in alcun modo che cosa volessero significare quelle oscure parole.
“Stai cercando un parere oracolare Vagal? Sai che non ce l’ho più quel dono…”
“Non si tratta di questo, ovviamente.” si sbrigò a chiarire il guaritore. Senza essere invitato si accomodò sulla poltrona davanti al camino acceso. Congiunse le mani e scrutò a lungo le lingue di fuoco che divampavano verso l’alto.
“Il popolo di Kandalh sa leggere i fumi. O almeno lo sapeva fare. Quello che ho letto nei fumi di Hilda non è certo rassicurante…” disse rivolgendo la sua attenzione al cavaliere di fronte a sé.

Sigfried non replicò. Si sedette a sua volta accanto al fuoco ed attese che il suo visitatore proseguisse.
“Nostra sovrana si è ferita con la spada dopo pranzo.”
“Che cosa??” scattò Sigfried a quella rivelazione. Vagal gli lanciò un’occhiataccia in tralice.
“Roba da poco. Lei ha detto che stava ripulendo la sua arma. Comunque, l’ho curata subito, utilizzando un’efficace pomata a base di iperico, Nimh e draconia. All’inizio ho pensato di usare anche una mistura di”
“Vagal! Va avanti!”
“Scusami, deformazione professionale. Dicevo, dopo il bendaggio, come al solito ho bruciato le garze utilizzate per medicarla. È stato allora che ho visto i fumi.”

Il giovane cavaliere stette a guardare l’ometto buffo che aveva di fronte come imbambolato, allo stesso tempo attratto da quelle antiche tradizioni e capacità aruspicine e ugualmente incapace di credere pienamente alle parole del guaritore. Sigfried sapeva essere molto razionale. Specialmente dopo la perdita del dono della veggenza, ricevuta dal cuore rosso di Fafnir.  Un tempo forse sarebbe stato disposto a fidarsi, o almeno a prendere in considerazione la possibilità di leggere qualcosa nei fumi o nel volo degli uccelli. Ma ora no, non più.
“E cosa avresti letto nei fumi?” chiese lo stesso, per cortesia.

Vagal lo guardò intensamente, socchiudendo gli occhietti piccoli e scuri come pece. Quello sguardo indagatore ebbe il potere di metterlo a disagio.
“Si tratta di un rito di sangue, normalmente proibito al nostro popolo, ma diciamo che sono giustificato perché non era mia intenzione farlo.” Fece una pausa, si schiarì la voce e proseguì. “Leggere i fumi non significa vedere il futuro, come stai sicuramente pensando, ma leggere il cuore della persona a cui il sangue dato alle fiamme appartiene. Quello che ho visto è odio, rancore e la volontà distruttrice di qualcuno che non è la nostra regina.” concluse senza smettere di fissarlo.

Sigfried istintivamente ripensò alle parole di Flare, a quando, dopo il consiglio, lei gli aveva chiesto se non trovasse sua sorella strana, come se fosse un’altra persona. Per un attimo riconsiderò la mattinata, a quello che Hilda aveva detto, ai suoi gesti freddi e distanti, ai suoi occhi di ghiaccio. Qualcosa era cambiato dall’ultima volta che si erano visti, la settimana prima, quando lei gli aveva depositato piccoli baci sul petto e l’aveva amato con passione tutta la notte. Distolse lo sguardo da Vagal, come temendo che il guaritore potesse carpirgli i pensieri.
“Non so…è assurdo questo…te ne rendi conto?”

Vagal non rispose subito. Il suo piccolo mento appuntito, appena velato di una sottile barbetta scura, sembrò tremare come d’indignazione. Voltò lo sguardo verso la finestra, offrendo a Sigfried il suo profilo spigoloso.
“I fumi non mentono…” disse infine sibillino. In quel momento, un’ondata gelida sfiorò le finestre chiuse, facendone oscillare i vetri. Sigfried rabbrividì, cercando di ignorare con tutte le sue forze il fastidioso senso di preoccupazione che aveva iniziato a prendere forma nella sua mente.

***

Hyoga era arrivato alla locanda di Grönnik solo verso sera, quando sulla strada ricoperta da fitta brina non circolava già più nessuno. Sebbene non fosse ancora nella terra di Asgard, l’atmosfera era cambiata sensibilmente dall’ultimo paese nelle immediate vicinanze in cui il jet della Fondazione aveva fatto scalo. Il gelo si poteva annusare nell’aria, un po’ come in Siberia, dove gli odori portavano con sé piccoli cristalli di ghiaccio quasi impalpabile.

La porta della locanda si aprì con uno scampanellio. Fu come scivolare sotto le coperte. Dentro il caldo della stufa avvolgeva ogni cosa in un abbraccio confortante e la stanza, ampia a sufficienza da contenere una ventina di persone, era accogliente e pulita. Hyoga si avvicinò al bancone, sfilandosi i guanti di pelo. Una giovane donna sulla trentina lo salutò garbatamente, col sorriso ospitale tipico di quelle terre.
“Salve, c’è una prenotazione a nome Kido.” disse solamente, tirando fuori un documento di riconoscimento.
La donna controllò con rapidità su un registro cartaceo, sfogliando poche pagine annotate a penna.
“Qui mi risulta un piano intero…” rispose indecisa se ci fosse un errore.
“Corretto, ma i miei amici mi raggiungeranno tra qualche giorno. È forse un problema?”
“No, certo che no. Deve solo compilare questo.” sorrise lei porgendogli un foglio precompilato.

Quando ebbe finito di riempire ogni spazio, Hyoga afferrò il suo leggero bagaglio e si diresse al primo piano. Scelse una stanza a caso, lasciando quella più grande e confortevole ad Isabel per quando sarebbe arrivata assieme agli altri cavalieri. Fuori una modesta tempesta di neve aveva iniziato a imperversare, producendo al suo contatto con le finestre un sibilo prolungato, quasi infinito. A Hyoga quel sibilo ricordò la Siberia, di quando le prime volte si stringeva ad Isaac istintivamente, anche se poi finiva sempre col vergognarsi di quell’atteggiamento che pensava fosse inadatto a un aspirante cavaliere di Atena.

Si gettò sul letto senza togliersi nemmeno i vestiti. Lentamente si sfilò le scarpe con i piedi, facendole cadere a terra con un tonfo. L’indomani avrebbe iniziato la sua missione, andando in avanscoperta ad Asgard. Il piccolo regno autonomo non era raggiungibile con mezzi convenzionali, la neve era troppo alta e fitta per permettere ai normali automezzi di procedere senza affondarvi completamente. La gente si spostava solitamente su piccole motoslitte, preferendo il cavallo nelle splendide stagioni primaverili ed estive, quando il clima diveniva appena appena più mite. Hyoga aveva già provveduto ad affittare una motoslitta che l’avrebbe condotto sul limitare della foresta, da dove aveva deciso di proseguire a piedi. In questo modo sarebbe passato più facilmente inosservato.

Chiuse gli occhi. Senza quasi accorgersene sprofondò nel sonno, la stanchezza delle ore di volo che piombavano all’improvviso addosso. Sognò della Siberia. Camus in cucina preparava un brodo leggero, per lui che aveva di nuovo la febbre. Piccole fastidiose vescicole gli ricoprivano la faccia e il torace e probabilmente il resto del corpo, anche se aveva paura di verificarlo. Isaac l’aveva avuta due settimane prima. Neppure un cavaliere può sfuggire alla varicella, aveva detto Camus sovrappensiero, più rivolto a se stesso che non a loro due. Il suo volto si era allora ricoperto di pustole, grosse e ripugnanti, fino a che non l’avevano divorato tutto. Brandelli di carne cadevano a pezzi nel suo brodo. Devi mangiare se vuoi rimetterti, bisbigliò lo scheletro del suo maestro, fissandolo intensamente con le orbite vuote.

Hyoga si svegliò di scatto, annaspando nel letto come in cerca di aria. Con un balzo fu in bagno, le orbite vuote del suo maestro che continuavano a fissarlo. Vomitò la cena leggera che aveva sbocconcellato in aereo prima di atterrare, aggrappandosi con entrambe le braccia alla tazza come se non avesse la forza di sostenersi. Merda, imprecò mentalmente sciacquandosi la bocca. Era stato un sogno terribile quello, molto più dei tanti che l’avevano perseguitato negli ultimi mesi. L’afflizione per la morte di Camus popolava in strane visioni tutte le sue notti, attanagliandogli il petto come un cancro. Passerà, gli aveva detto Milo in ospedale, quando era andato di persona a dirgli che era stato un stupido a non capire subito da che parte fosse la giustizia e che non poteva biasimarlo per la morte di Camus. Hyoga avrebbe voluto piangere allora. Ma s’era trattenuto, per rispetto nei confronti del suo maestro e dello stesso Milo che doveva sentirsi in colpa quasi quanto lui.

Si fece una doccia rapida e preparò tutto il necessario per la missione. L’armatura l’avrebbe lasciata lì, per non destare sospetti qualora qualcuno l’avesse sorpreso a curiosare. Per la battaglia che si profilava all’orizzonte, Hyoga voleva essere fresco e riposato, con la mente sgombra da ogni triste pensiero e concentrata solo sui nuovi temibili nemici. Fu così che giustificò la sua scelta: dallo zaino tirò fuori una piccola boccetta, da cui afferrò con le dita un paio di compresse bianche. Le ingoiò così, senza neppure un po’ d’acqua.

Quella notte il cavaliere del Cigno dormì a lungo, una benedetta notte buia, del tutto priva di sogni.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Tre ***


Documento senza titolo




Il mattino si affacciò nella stanza con una luce pallida e accecante, molto simile a quella dell’aurora boreale al suo terminare, ma più intensa. Hyoga si svegliò senza pensieri, con la testa piena di un buio confortante. Si alzò con pigrizia, mettendosi a sedere sulla sponda del letto e strofinandosi piano la faccia con entrambe le mani. Per la prima volta dopo mesi il suo sonno non era stato tormentato da incubi angoscianti, le sue membra parevano essersi riposate davvero solo ora.

Bevve un po’ dell’acqua che aveva messo sul comodino la sera avanti con avidità, pulendosi la bocca con il dorso della mano. Si vestì rapidamente, raccogliendo le poche cose che aveva preparato in anticipo. Prima di abbandonare la stanza controllò di nuovo di avere tutti i documenti necessari per l’affitto della motoslitta, poi scese le scale di corsa, raggiungendo l’androne in pochi secondi.

Nella locanda non c’era molta gente a quell’ora del mattino. Fuori il freddo, nonostante i raggi luminosi fossero già alti, doveva essere insopportabile per una persona non addestrata, non era strano quindi non trovare nessuno a fare colazione. Al banco della reception, un modesto tavolone di legno d’abete, c’era ancora la donna della sera prima, con il volto stanco e i capelli un po’ in disordine. Quando la giovane si accorse della presenza del cavaliere del Cigno lo salutò garbatamente, sorridendo appena e domandandogli se desiderasse accomodarsi per mangiare.

“No, la ringrazio, vado di fretta. Ho solo bisogno di noleggiare una di quelle…” disse Hyoga indicando le motoslitta che s’intravedevano allineate dalla finestra dietro il bancone. La donna si voltò, annuendo distrattamente.
“Per quelle c’è bisogno della prenotazione anticipata…” rispose lei con un’espressione quasi affranta “E poi con questo freddo sarebbe una pazzia uscire a quest’ora…”
“Qui c’è tutto.”

Hyoga depositò sul banco una cartellina che conteneva tutti i documenti che la Fondazione gli aveva fornito, compresa la prenotazione fatta qualche giorno prima. La donna rimase per un istante interdetta, poi controllò tutto con meticolosità.
“Quando esci devi chiedere di Algot, si occupa di lui di queste cose…” sorrise lei affabile. Poi si riscosse all’improvviso, come se avesse dimenticato qualcosa di essenziale.
“Mi perdoni se le ho dato del tu, ma lei sembra così giovane…”
“Non c’è problema.” replicò Hyoga asciutto. La salutò ed uscì dalla locanda con lo stesso scampanellio con cui vi era entrato.

Algot era stato di poche parole per sua fortuna. Gli aveva preparato la motoslitta con rapidità ed efficienza, senza neppure domandargli se fosse al corrente del gelo mattutino di quei luoghi. Hyoga era montato con una strana sensazione di gioia e tristezza assieme, ricordando istintivamente i giorni in Siberia in cui spesso con Isaac avevano utilizzato quel mezzo come diversivo dagli allenamenti. Accese il motore e partì, lasciando dietro di sé una fitta scia di nevischio.

***
Sigfried trovò Hilda nella sala della musica, completamente immersa nelle note malinconiche della sconosciuta melodia che stava suonando al pianoforte. Aveva gli occhi chiusi, i capelli sciolti. Addosso solo un misero vestitino di lana grezza. Sembrava una sacerdotessa di Fulla, con la stessa aria trasognata e l’abbigliamento povero, incurante del freddo e del resto dell’umanità. Era bellissima.

Il cavaliere del Drago si mosse verso di lei con passo incerto, timoroso di disturbarla, di come avrebbe reagito se le avesse manifestato la sua titubanza a riguardo del piano di conquista. Quello che Vagal gli aveva rivelato l’aveva certamente scosso, anche se a lui non l’aveva dato a vedere. Per un istante considerò la figura tormentata che aveva davanti e la confrontò con la dura regina che aveva trattato con freddezza i suoi sudditi al consiglio e la donna dolce e responsabile che la notte popolava i suoi sogni. Era strano. Hilda non era né l’una né l’altra, eppure tutte e tre le donne insieme. Per questo non aveva dato troppo peso alle parole di Flare quando gli aveva confidato i suoi timori. La determinazione, in fondo, faceva parte integrante del carattere forte della sua compagna.

Con una mano sfiorò delicatamente la spalla scoperta di lei. Si sorprese di quanto la pelle fosse morbida e setosa, calda nonostante il clima. Hilda parve non avvedersene, e continuò a suonare come in preda a un’ispirazione straziata.
“Mia regina…” disse allora lui cercando di sovrastare con il tono della voce il chiasso del pianoforte. La melodia s’interruppe bruscamente, facendo sussultare Sigfried sul posto.
“Mio re…” lo chiamò lei voltandosi piano e guardandolo con occhi da gatta.

Il cavaliere avvertì qualcosa sciogliersi nelle viscere. Hilda era la creatura più stupenda e incredibile che avesse mai incontrato o raffigurato nei suoi sogni. La grana del suo volto era fine e delicata come quella delle porcellane, liscia e setosa al tatto, con i lineamenti affilati. Le sue labbra piccole erano un morbido bottone attraente su cui posare costantemente le sue.

Per qualche secondo dimenticò il motivo per cui era venuto. L’abito leggero della regina le lasciava lievemente scoperti i seni, di cui ne intravedeva il solco, suscitandogli il desiderio di inabissarvisi dentro. D’istinto si accucciò davanti a lei, afferrandola alla vita e stringendola forte a sé. Respirò a fondo il profumo speziato che emanava la sua pelle, perdendo insieme la cognizione del tempo e dello spazio.
“Il mio re…” continuava a ripetere lei, accarezzandogli teneramente la testa, come se fosse un bambino.

Si baciarono, a lungo, con voluttà. Hilda muoveva le sue piccole mani lungo tutto il corpo muscoloso e teso del compagno, soffermandosi sulla schiena ampia, per poi affondare nei capelli. Sigfried sentiva la lucidità abbandonarlo a poco a poco, sostituita dal desiderio fortissimo di prenderla lì, senza curarsi di chi sarebbe potuto entrare in quel momento. Presto i loro indumenti caddero a terra, sul freddo pavimento della sala, senza emettere alcun suono. Fecero l’amore con foga, sullo stesso pianoforte dove la regina aveva suonato dimenandosi come una menade fino a prima, le gambe di lei avvinghiate alla sua vita come una tenaglia.

“Mio re…presto il nostro popolo avrà la sua rivincita…”

A Sigfried quelle parole giunsero alle orecchie come ovattate. Annuì senza pensare, convincendosi che Flare si sbagliava e che Vagal era troppo superstizioso. La sua Hilda era sempre lei, dolce e passionale e responsabile del suo popolo, che desiderava solo vedere in auge come nel mitico passato.

Sarò sempre al tuo fianco, mia regina, pensò prima di abbandonarsi completamente al piacere.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Quattro ***


Capitolo 4




Quando la notizia che un prigioniero era stato rinchiuso nelle segrete di palazzo era giunta alle sue orecchie, Flare stava riformulando per l’ennesima volta le esatte parole con cui avrebbe rimesso Hagen al suo posto. Mio caro Hagen, ti voglio troppo bene per rovinare tutto quello che abbiamo con una relazione. Sei il mio più caro amico. Sei come un fratello per me. Tutte espressioni che suonavano vuote, banali. Si era lasciata baciare, in fondo. Questo le avrebbe risposto Hagen. Lei, la candida e pura principessa di Asgard, l’aveva illuso, gli aveva lasciato credere che provasse anche lei qualcosa che andasse oltre al semplice affetto per lui.

Ma non appena seppe che uno straniero giaceva confinato in una delle umide celle del castello, Flare lasciò cadere tutti questi pensieri come dentro ad un cassetto, e lì li chiuse. Si aggiustò le vesti per il nervosismo e, percorrendo le scale in direzione dei sotterranei, sperò ardentemente che il prigioniero non fosse un cavaliere di Atena.

Flare non voleva una guerra per Asgard. Non condivideva le ambiziose mire espansionistiche della sorella maggiore, per questo aveva chiesto ausilio ad Atena stessa. Isabel era stata comprensiva ed aveva immediatamente concordato con lei un incontro, che avrebbero avuto a giorni. Era ancora troppo presto, ma non era affatto escluso che i cavalieri volessero perlustrare il territorio prima di vedersi. In fondo avrebbe potuto benissimo essere una trappola, pensò appiattendosi contro la parete nel tentativo di non dare nell’occhio.

Un soldato passò nel corridoio adiacente, a pochi centimetri da dove si trovava. Flare trattenne il respiro e si sforzò di congelare ogni movimento possibile.
“Boren!” disse un altro soldato che andava incontro al primo “lo straniero chi è?”
“Veramente non sono ancora riusciti a farlo parlare. Lui si ostina a dire che è un turista, ma a chi vuole darla a bere? Persino Thor non è riuscito a cavargli nulla…ma vedrai che cederà…se Thor non lo ammazza prima!”

Le nocche di Flare divennero bianche come il latte nel momento in cui udì le risate grasse dei due soldati. Come si poteva essere tanto cinici e spietati? E se fosse stato davvero un turista? Scivolò via in silenzio, nella direzione da cui aveva visto arrivare il primo soldato. Accelerò il passo fino a che non si trovò davanti ad una cella sprangata dal di fuori, ma senza serratura. Si avvicinò cauta, facendo attenzione a non inciampare sui lembi delle sue lunghe vesti, lattiginose come la neve che fuori cadeva a frotte.

Odino…fa che non sia..

Aprì la porta, che emise un suono stridulo. Sussultò ed ebbe paura che qualcuno l’avesse sentita.

Al centro della stanza, un ragazzo ricoperto solo di pochi laceri abiti giaceva riverso al duro pavimento di pietra, le catene ai polsi, il volto tumefatto e sporco di sangue. Flare si sentì gelare, e per un attimo non trovò il coraggio necessario a muovere un passo. Sembrava una scena da film, di quelli del terrore, in cui il maniaco sadico sequestra una povera vittima ignara e la tortura fino a che non muore. Al cinema la situazione, almeno per lei, era rivoltante, ma nella realtà, era davvero indescrivibile.

“Sono la principessa Flare…” disse piano, come se temesse che anche le sole parole potessero far male a quella carne gettata lì come un fagotto. Si avvicinò lentamente, mettendosi in ginocchio accanto al prigioniero. Ora che poteva vederlo meglio, Flare notò che il giovane non doveva avere più di diciotto anni, o forse anche meno, non riusciva a dirlo, e che i suoi lineamenti erano senza dubbio nordici, anche se la sua carnagione era troppo scura. “Sono la principessa Flare…” ripeté prendendo le mani del ragazzo tra le sue, mani forti e nodose, osservò. Come quelle di Hagen. Come quelle di un cavaliere.

“Sei un cavaliere di Atena…vero?”

Hyoga, all’udire quelle parole, trovò la forza di alzare la testa. La sua vista era appannata e la testa gli faceva un male incredibile. Era stato imprudente ad addentrarsi così nelle mura del palazzo, doveva immaginare che, ora che Asgard era ufficialmente in guerra con Atena, le sentinelle fossero moltiplicate e sempre all’erta. Inoltre Hyoga non conosceva quelle terre, e stupidamente si era lasciato ingannare dalle distese nevose che parevano tanto simile a quelle siberiane. Ma Asgard non era la Siberia. Asgard era piena di luoghi invisibili, nascosti dietro le rocce e la fitta vegetazione, perfetti nascondigli per soldati. Per loro era stato facile avvistarlo, nonostante fosse stato attento a scivolare silenzioso come un gatto. E quando l’avevano catturato non aveva opposto resistenza, per non svelare la sua identità, per non mandare a rotoli i piani.

Aveva abbandonato la motoslitta nella coltre ombrosa della vegetazione, il più vicino possibile alle mura di cinta che proteggevano la città, qualora, per necessità, si fosse trovato nella condizione di andarsene di fretta, ma, quando alfine era successo davvero, il cavaliere del Cigno non aveva avuto il tempo di tornare indietro. L’avevano intercettato proprio al di fuori della cinta più esterna, tre ne aveva contate in totale, un ammasso terrificante di ruvide pietre grezze, disposte l’una sull’alta in maniera scomposta e disordinata. A Hyoga quelle mura avevano ricordato gli strapiombi di ghiaccio, scoscesi e irregolari, che di tanto in tanto si aprivano sulla banchisa, creando un ponte naturale col profondo abisso. Vista così, Asgard sembrava impenetrabile.

Il giovane scrutò di sottecchi la figura minuta inginocchiata al suo fianco, i lunghi capelli biondi incurantemente a toccare il pavimento sporco. Era una ragazza che ad occhio e croce doveva avere non più della sue età, con la pelle chiara e i lineamenti aristocratici. In lei c’era un qualcosa di preraffaellita, forse la pienezza delle guance, il loro colorito roseo. Lo fissava visibilmente scossa, in qualche misura disgustata dal sangue che doveva ricoprire alcune parti del suo volto in croste rapprese.

“Chi sei?” ebbe la forza di chiedere, ignorando lo sfregare delle catene sui polsi.
“Sono la principessa Flare…” ripeté lei come se non si aspettasse che il prigioniero fosse davvero in grado di parlare.

Hyoga non replicò. Non sapeva se potersi fidare di lei.

Flare rimase interdetta. Era certa che fosse un cavaliere di Atena, ne aveva l’aspetto. La maglia lacera lasciava intravedere muscoli tesi e disegnati sotto la pelle, duri e allenati. Inoltre un uomo comune non sarebbe mai sopravvissuto alle brutalità che Thor non s’era certamente risparmiato di riservare al prigioniero. E poi c’era qualcosa nei suoi occhi. Qualcosa che altre volte aveva visto in quelli di Hagen e di Sigfried, ma che non avrebbe saputo ben identificare.

La principessa si guardò intorno, in cerca di un po’ d’acqua. Trovò una bacinella poco distante, ricolma di un liquido limpido e trasparente. Senza pensarci su troppo si strappò un lembo della sottoveste e lo immerse completamente nella vaschetta. L’acqua era gelida, come le temperature che la sera precedente ad Asgard avevano toccato i minimi storici.

“Dio, come ti hanno ridotto…” disse con un filo di voce accingendosi a ripulire le ferite del prigioniero. Hyoga sussultò al suo tocco delicato.
“Scusami, mi dispiace se ti ho fatto male…”
“Non mi hai fatto male…”
“…”
“…”
“Qualche settimana fa, un sacro guerriero di Odino è stato inviato da mia sorella per giustiziare Atena…” continuò dopo pochi secondi di silenzio. Spiò con la coda dell’occhio la reazione del ragazzo, ma lui continuava a tacere ostinatamente. “Allora ho pensato di chiedere aiuto ad Atena stessa, perché Hilda non è in sé e le nostre terre e la nostra gente sono in pericolo…dobbiamo vederci a Grönnik, una località poco distante da Asgard, ma indipendente dal regno. Spesso ci vado a fare compre, per questo l’ho suggerito a Lady Isabel, perché nessuno sospetterebbe niente se chiedessi di essere accompagnata lì…”
“E chi ti avrebbe accompagnata?” chiese lui solamente.
Flare si accigliò, colta impreparata dalla strana domanda. Nella sua mente prese corpo l’immagine di Alfhild, la giovane donna delle pulizie assunta recentemente. Alfhild era muta e analfabeta, e se anche avesse mai dovuto sospettare qualcosa, non avrebbe certamente avuto l’opportunità di rivelare le sue titubanze a nessuno.
“Una persona fidata…” rispose immergendo di nuovo la pezza nella bacinella.

Il cavaliere del Cigno percepiva la sincerità nelle parole della bellissima ragazza che aveva davanti, ma egualmente non era ancora del tutto certo di potersi fidare ciecamente di lei. In fondo era quello il motivo per cui era stato inviato in perlustrazione ad Asgard, per verificare la bontà della missiva ricevuta tempo addietro da Isabel e farsi un’idea del territorio per meglio prepararsi allo scontro. Ora però era tutto diverso. Anche se liberarsi dalle catene non sarebbe stato un problema, non era affatto improbabile che, nella fuga si sarebbe trovato metà palazzo alle calcagna.

“Va bene…” la guardò negli occhi dopo i pochi secondi in cui i suoi pensieri erano corsi rapidi “Ma dobbiamo fare in fretta…”
Gli anelli metallici che lo tenevano prigioniero si ruppero in un secco scrocchio. Flare arretrò sorpresa.
“Sapreste arrivare fino a Grönnik a piedi?”
La principessa di Asgard annuì con decisione, felice di non essersi sbagliata sul conto del cavaliere di Atena. Sulle labbra, la rinnovata speranza di mettere in salvo il suo popolo assunse l’aspetto di un ampio sorriso.

***
Asgard era una terra vasta e dispersiva. Le sue lande erano circondate da fitte foreste innevate, che si allungavano di tanto in tanto in direzione del suo ventre, dove interminabili distese di neve la separavano dal resto del mondo. Alla sua sinistra l’oceano, profondo e scuro come pece, ghiacciato per la maggior parte dell’anno. Quando furono fuori le mura, Hyoga si sentì abbracciare dall’immensa distesa di neve che si trovò di fronte. Da quella parte, la città-fortezza a capo del regno sembrava come un piccolo granello in un infinito deserto bianco, insignificante in tutto quel bagliore che aveva riflesso negli occhi. Si voltò a cercare la principessa, rendendosi conto solo ora che si era precipitata all’esterno senza l’abbigliamento opportuno. Per lui non sarebbe stato di certo un problema, ma per lei, che pure doveva essere abituata a quel clima impietoso, c’era la grossa probabilità che lo fosse.
“Dobbiamo fare in fretta.” le disse squadrandola per valutare quanto avrebbe potuto resistere in quelle condizioni.
“Presto farà buio…” replicò lei stringendosi negli omeri. Rabbrividì. Hyoga se ne accorse e desiderò di avere qualcosa da poterle dare per scaldarsi.
“Andiamo.” disse porgendole istintivamente la mano, come se Flare fosse una bambina indifesa incapace di muoversi con le sue stesse gambe. Lei l’afferrò timidamente e si godette la sensazione di calore di quel contatto. 

Percorsero così qualche chilometro, andando a rilento e cercando di confondere le proprie tracce seguendo percorsi non lineari. Il cielo cominciava già a incupirsi, mutando il candore della neve in azzurro brillante. Erano diretti verso uno dei tanti rifugi che i cacciatori usavano durante le loro battute, disseminati in luoghi strategici di modo che non venissero mai colti impreparati dalle feroci turbine che si manifestavano di tanto in tanto. O dalla notte. Flare gli aveva raccontato che qualcuno spesso non ce la faceva, soccombendo al gelo nel giro di poco tempo.
“Avete freddo principessa?” domandò lui dopo aver notato che il colore delle sue labbra era divenuto più scuro, quasi violaceo.
“Dammi del tu, cavaliere di Atena.” rispose lei rabbrividendo ancora.
Hyoga l’attirò a sé, avvolgendola col calore delle sue braccia.
“Perdonami, ma ho paura che non resisterai a lungo altrimenti…” si giustificò sorridendole.
Flare si lasciò cullare da quel dolce tepore. Il corpo alto e solido di lui emanava un calore rassicurante, a cui si abbandonò volentieri.

“Manca ancora molto?” Hyoga si guardò attorno, senza però riuscire a scorgere nulla. Flare percepì la nota di preoccupazione nella sua voce. Erano ore che camminavano nella neve, senza avere riferimenti da alcuna parte. A palazzo la notizia della sua fuga doveva già essersi diffusa, il pericolo che le guardie di Asgard fossero già sulle loro tracce era un’ipotesi tutt’altro che inverosimile.
“No. I rifugi si trovano tutti a distanze non troppo ampie. Dovremmo arrivare presto.”
“Staremo al sicuro lì?”
“Non verranno a cercarci di notte se è questo che ti turba.” indovinò lei. Asgard era invivibile di notte. Qualsiasi essere umano sarebbe morto congelato in pochi istanti alle temperature che si raggiungevano col buio. Compresi loro, se non avessero trovato presto il rifugio. Dentro di sè, la giovane principessa si rimproverò per l’avventatezza con cui aveva liberato il cavaliere di Atena e l’aveva convinto a portarla dalla sua dea.
Odino, fa che non sia tutto perduto!

Finalmente intravidero una casetta di legno sul limitare della foresta. Dentro non c’era nessuno, del resto quella non era certo stagione di caccia, ma per fortuna c’era tutto l’occorrente per rifocillarsi.
“Accendo subito il fuoco, così potrai riscaldarti…” disse Hyoga coprendo le spalle di Flare con una coperta che aveva trovato sul divano. “Sei gelata…” aggiunse dopo averle preso le mani tra le sue e percepito il gelo sprigionarsi da quelle dita sottile e diafane.
“Io…vedo se c’è qualcosa da mangiare…” farfugliò lei arrossendo impercettibilmente.

Era paradossale quella situazione. Sola, in un freddo rifugio di legno, la principessa di Asgard stava giocando all’allegra famiglia con un uomo sconosciuto. Certo, era un cavaliere di Atena, un guerriero che era disposto a rischiare la propria vita per una buona causa e che la stava salvando dalla guerra. Eppure si sentiva lo stesso a disagio.
“Per fortuna la legna era secca…” sentì lui dire come in lontananza. Si riscosse e si affrettò a cercare nell’unico armadio qualcosa di commestibile. C’erano fagioli in scatola, arringhe affumicate sott’olio e vodka.  Fece a voce alta un breve elenco del contenuto e scherzò con Hyoga su cosa desiderasse degustare quella sera.
“Qualsiasi cosa andrà bene…” rispose lui accoccolandosi davanti al fuoco.

Mangiarono in silenzio, ognuno perso nei propri pensieri e nei propri timori. Flare continuava a sentirsi a disagio, e anziché affievolirsi, quella spiacevole sensazione sembrava ingigantirsi ogni momento in più che passavano insieme. Guardò il biondo cavaliere di sottecchi. Sul suo volto erano ancora evidenti i segni del trattamento che aveva subito. Ecchimosi violacee gli ricoprivano il labbro spaccato, il contorno dell’occhio e lo zigomo. Nonostante questo, Hyoga era davvero un bel ragazzo, con i lineamenti regolari, il naso dritto e gli occhi di un azzurro intenso e brillante.
“Sei molto giovane per essere un cavaliere…quanti anni hai?” gli chiese mettendo in bocca l’ultimo cucchiaio di fagioli.
“Sedici…anche tu sembri molto giovane…”
“Già…ne ho quindici…anche se da quando mamma e papà sono morti me ne sento addosso molti di più…”
Hyoga la fissò con una strana intensità nello sguardo. “Lo stesso vale per me…le dure battaglie e la mancanza di una famiglia a volte mi fanno sentire un centenario…” scherzò malinconico. Flare, senza sapere bene perché, arrossì.
“Come sei diventato un cavaliere di Atena?” gli chiese curiosa.
Hyoga le raccontò ogni cosa. Di sua madre, dell’orfanotrofio, dei suoi amici, di Camus, della Siberia. Non aveva mai detto queste cose a nessuno e mai avrebbe ritenuto possibile farlo. Ma ne fu felice, perché ogni parola che pronunciava equivaleva ad una pietra che si toglieva dallo stomaco.
Alla fine della serata, Flare sapeva molte cose di lui, molte più di quanto potesse pensare. E lei gli raccontò a sua volta di quando era rimasta sola con Hilda a governare su Asgard, dei cavalieri di Odino, dei loro rituali, delle loro tradizioni.
“Deve essere stata dura per voi due…un regno sulle spalle…”
“Non immagini quanto…due ragazzine, sole, senza una guida, un uomo…” disse lei pensando ad Hagen. L’immagine del suo bacio appassionato le tornò alla mente, procurandole una sensazione di imbarazzo.
“Faremo meglio a riposare…” sentenziò Hyoga dopo qualche minuto di silenzio. “Domani ci aspetta un lungo cammino.”
Flare annuì, indecisa se rimanere lì accanto al fuoco o sistemarsi sul divano.
“Stenditi un po’.” la invitò lui gentilmente. Flare era troppo stanca per mettersi a discutere, così si alzò con fatica, le membra stanche e spossate, e si raggomitolò sul giaciglio raffazzonato. Avrebbe voluto dirgli ancora tante cose, ringraziarlo per tutto quello che stava facendo e auguragli la buonanotte. Ma i suoi occhi si chiusero senza preavviso, avvinti dalla fatica e dal sonno.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Cinque ***


capitolo 5




Il mattino seguente si mossero con maggiore rapidità. Hyoga non aveva intenzione di rischiare di essere intercettati prima di arrivare alla locanda dove Isabel e gli altri cavalieri avevano trovato alloggio. Prima di partire, Atena gli aveva raccomandato di fare attenzione e soprattutto di non giocare a fare l’eroe da solo, ma se avessero continuato di quel passo, probabilmente non avrebbe avuto altra scelta.

Si soffermò ad osservare di sottecchi la sua compagna, meravigliandosi per la forza di volontà e la straordinaria resistenza che stava dimostrando di possedere. Ripensò per un istante ai giorni dell’addestramento in Siberia, quando Camus lo aveva condotto attraverso distese di neve non troppo dissimili da quelle, camminando per ore intere, quasi senza meta. All’inizio non capiva perché il maestro lo sottoponesse a quelle estenuanti sedute di walking, non ne vedeva il senso. Prima di giungere lì si era aspettato di doversi allenare a combattere, a potenziare la sua forza e la sua abilità. Ma Camus non gli aveva proposto nulla di tutto questo. Solo alla sera, quando erano rientrati nella modesta baita dove avrebbe trascorso il resto della sua breve infanzia, Hyoga aveva colto il significato del loro noioso peregrinare: i suoi muscoli erano a pezzi e la sua mente spossata dal disorientamento che sovente procuravano quelle terre a chi non vi era abituato. La notte l’aveva passata in preda alla febbre e ai brividi. Resistere a quel clima allora gli era sembrata un’impresa impossibile.

“Siamo quasi vicini, non temere. Ce la fai ad accelerare il passo?” le chiese mettendole una mano sulla spalla, in un gesto quasi cameratesco. Flare si scosse come punta da una lama. Si strinse addosso la pesante coperta con cui aveva dormito nel rifugio, incerta se si stesse proteggendo dal freddo o dal turbamento che le procurava il contatto con il cavaliere di Atena. Annuì, sforzandosi di camminare più spedita. Anche se non voleva darlo a vedere, i suoi piedi erano congelati e sentiva che stava perdendo la sensibilità alle mani. La punta del naso bruciava come trapassata da tanti piccoli spilli, le sue labbra avevano ormai acquistato il colore delle contusioni di Hyoga. Era stanca, affamata ed assetata. Quasi si pentiva di non essere rimasta a palazzo ad aspettare lì, al caldo, l’aiuto di Atena. Ora era troppo tardi per tornare indietro.
“Dove ha trovato alloggio lady Isabel? Qui non ci sono molte locande, di solito sono solo i commercianti che”

Hyoga la zittì con un gesto della mano. C’era qualcosa che non andava, come un rumore di passi in lontananza. Su quei tappeti di soffice neve era in realtà piuttosto difficile individuare un qualche rumore che non fosse il silenzio stesso, ma i suoi sensi acuiti dalle battaglie gli stavano comunicando il sentore del pericolo. Non avvertiva nessun cosmo, tuttavia non era certo da escludere che le guardie di Agard che stavano dando loro la caccia fossero dei semplici soldati, privi di forza spirituale e d’addestramento. In fondo chi sapeva che la principessa si era data alla fuga assieme ad un cavaliere di Atena?
“Corriamo.” ordinò perentorio, afferrando la sua compagna per un braccio senza troppe cerimonie.
Flare si lasciò trascinare, ignorando la stanchezza e il fiatone che l’avevano assalita già da un pezzo.

Corsero a lungo, infaticabilmente, aggrappandosi alla speranza di essere vicini alla locanda, vicini al calore e alla salvezza. Presto attraversarono il breve spazio che li divideva dal mare, che non immaginavano fosse proprio lì, a pochi passo dai loro piedi. I riflessi cangianti che lo scuro specchio d’acqua emanava li bloccò per un istante, lasciandoli quasi senza fiato. Era uno spettacolo bellissimo. Mille colori sembravano danzare insieme tra i raggi di sole, conferendo alla neve un aspetto irreale. Flare si lasciò commuovere da quella visione inaspettata, e una lacrima scivolò silenziosa sulle sue guance fredde.
“Io…è meraviglioso…non trovi?”

Hyoga la guardò staccandosi a fatica da quel caleidoscopio. Notò le lacrime che ora scendevano copiose sul suo volto di porcellana ed ebbe il desiderio di confortarla. Le afferrò le mani. La coperta le cadde dalle spalle.
“Farò di tutto per proteggere Asgard” le disse d’un fiato “Tutto pur di proteggere te, tua sorella e le tue amate terre.”
Hyoga sentì che quanto stava dicendo era vero. Avrebbe dato la vita affinché quelle parole si realizzassero, non solo perché era il suo dovere di cavaliere, ma perché ciò avrebbe fatto felice Flare. I loro sguardi si allacciarono; fu come afferrare la consapevolezza che stavano condividendo lo stesso destino.

“Eccoli laggiù!”

Avevano rallentato troppo ed erano stati subito raggiunti. Il cavaliere di Cygnus si diede mentalmente dello stupido e si rammaricò di non avere con sé l’armatura. Non si era arrischiato a portarla durante la sua perlustrazione delle mura e a conti fatti era stato un bene. Ma ora ne avrebbe davvero avuto bisogno. Rapidamente contò il numero dei loro inseguitori. Erano in sette. Avrebbe potuto sconfiggerli con estrema facilità, il loro cosmo era così debole da essere avvertito solo con estrema concentrazione, ma con lui c’era Flare e questo che gli rendeva le cose più complicate.
“Stai dietro di me.” le impose.

“Chi sei ragazzino?! Consegnaci la principessa e non ti faremo del male!”
“No, voi lasciateci subito il passo ed io non vi torcerò un capello!”

Flare percepì uno strano calore provenire dal corpo del cavaliere che le stava facendo da scudo. Sta espandendo il cosmo, pensò ricordando le volte che l’aveva sentito fare ad Hagen. All’improvviso lo vide scattare fulmineo contro gli avversari che, sbalorditi da tanta rapidità e dalla risposta inattesa, non ebbero il tempo né di pensare né di reagire. La principessa si tirò indietro, spaventata dalla brutalità del combattimento.

Hyoga colpì con un calcio potente il torace del soldato più grosso, rompendogli qualche costola e facendolo rovinare a terra. Subito lo afferrò per una gamba, scaraventando quel corpo quasi inerte addosso agli altri che nel frattempo erano rimasti in disparte come paralizzati. Schivò facilmente un debole attacco di un soldato più coraggioso, assestandogli immediatamente un ginocchio sullo stomaco. Sentì le sue ossa scricchiolare sotto la carne, come se gli fosse penetrato così in profondità. Si abbassò indovinando l’assalto che gli stavano preparando in due alle spalle, si volse agilmente, sgusciando via dalla presa incerta di uno dei due come un’anguilla e, afferrateli per le caviglie, li scagliò via come fossero fatti di carta.
Senza attendere oltre prese Flare tra le braccia per correre più agevolmente.
“Scusami, ma così faremo prima.” si giustificò notando l’acceso rossore che a quel gesto inaspettato si era diffuso sulle gote pallide di lei.

I minuti che impiegarono per raggiungere finalmente la locanda parvero interminabili. Era come in un sogno, quando ogni suono perde la sua consistenza e gli odori e i colori si confondono assieme. Forse era la stanchezza. O il freddo. Flare appoggiò la fronte sulla spalla forte di Hyoga, desiderando di potervi sprofondare senza dover affrontare mai la battaglia che presto avrebbe macchiato le sue terre. Anche se era inevitabile. Pensò ad Hagen e al suo sguardo convinto di ciò che stavano facendo, nutrito dalla devozione che aveva sempre portato a sua sorella Hilda. Pensò pure allo sguardo intenso che aveva Hyoga, al modo penetrante che aveva di scrutarla, come se fosse in grado di scavarle nell’anima. Una strana sensazione si diffuse nel suo stomaco, un preoccupante sfarfallio che non sapeva giustificare.

“Eccoci…” sospirò lui depositandola a terra con attenzione. “Scusami ancora per…insomma…era una situazione di emergenza…” arrossì senza riuscire a guardarla negli occhi.
“Hai fatto il tuo dovere di cavaliere…” rispose lei guardandolo da sotto le ciglia.

“Hyoga! Sei qui!”

Un ragazzotto non troppo alto di statura s’era fiondato fuori dalla locanda con entusiasmo, col sorriso aperto e gli occhi scuri e profondi. Aveva abbracciato Hyoga che dopo un attimo di esitazione aveva ricambiato la stretta. Presto un altro ragazzo dall’aspetto minuto e fragile li aveva raggiunti, accompagnato da una donna bellissima, delicata, che emanava un’aura di pace e potenza dal suo esile corpo. Atena, dedusse Flare di fronte all’esplosione di serenità che la sua presenza le procurò. Sentì una lacrima morirle nella bocca, ma la asciugò in fretta, sentendosi ora sicura che per Asgard c’era ancora qualche speranza.

***
A Flare non parve vero di poter nuovamente mettere in bocca qualcosa di caldo e gustoso. La zuppa della locanda era stata preparata con le erbe selvatiche che crescevano nella foresta, insensibili alla neve e al gelo, unite a grasso di maiale, uova di anatra, salsicce di cinghiale e formaggio piccante. Nella sua rusticità era davvero deliziosa. Anche Seiya era dello stesso parere e non si preoccupava affatto di dimostrarlo divorando la scodella come se non avesse mai mangiato niente fino a quel momento. Di tanto in tanto si fermava per tracannare il vino rosso ai frutti di bosco che l’oste aveva gentilmente offerto loro, emettendo sospiri che volevano essere di soddisfazione.

Isabel invece non aveva mangiato nulla. Non aveva mai smesso di sorridere ed abbracciare tutti con il suo sguardo colmo d’amore e serenità, lo sguardo di una dea, pensò Flare guardandola di sottecchi. Un tempo anche lo sguardo di Hilda era stato così, dolce e limpido, capace di tranquillizzarla nei momenti bui che avevano dovuto attraversare insieme dopo la morte dei loro genitori. Atena la guardò, indirizzandole un mesto sorriso, come d’intesa. La principessa di Asgard annuì, sebbene avesse voluto piangere piuttosto, abbandonarsi allo sconforto, desiderosa che fosse qualcun altro a rassicurarla e a fare il lavoro sporco al posto suo. Devo essere forte, cercò di convincersi, devo essere forte per Hilda e per Asgard.

“Il palazzo è protetto da tre cinte murarie, ognuna difesa da moltissimi uomini. Non li ho contati tutti, ma suppongo che insieme raggiungano un numero che supera di gran lunga il centinaio.”
Hyoga stava raccontando ad Isabel e agli altri cavalieri quanto aveva scoperto dalla sua perlustrazione. Descrisse nel dettaglio i sotterranei, le segrete, le scale a chiocciola senza fine che occupavano gli angoli dei lunghi corridoi. Raccontò di Thor e di quanto fosse bestiale la sua forza. Nei suoi occhi c’era la determinazione del guerriero che sta andando in battaglia, sicuro della propria forza e pronto a morire per la sua causa.

“E i cavalieri di Odino invece?”
A parlare era stato il ragazzo dall’aspetto gracile, Shun le sembrava di ricordare, il cavaliere della costellazione di Andromeda. Flare stentava a credere che da quel corpo sottile potesse provenire una qualsiasi forma di violenza, seppure per il bene dell’umanità. Ma l’aspetto spesso ingannava, come aveva lei stessa imparato a sue spese quando tempo addietro si era dovuta ricredere sulla docile ancella della madre, che scoprirono aver tramato assieme al sacerdote Dhor per il possesso del trono.
“Immagino che Thor sia uno di loro…dico bene principessa?” le chiese Hyoga guardandola negli occhi per la prima volta da che erano tornati. Flare si sentì avvampare.
“Sì. Thor è il cavaliere custode di Mjöllnir, il martello divino…” rivelò in un soffio.

A quella inaspettata confessione, uno strano silenzio calò su di loro, insinuandosi nel fitto chiacchiericcio che riempiva ogni angolo della locanda di Grönnik. Con la coda dell’occhio, Flare notò Shun cercare con lo sguardo la sua dea, le sopracciglia piegate in un’espressione angosciata. Isabel però non si mosse, rimanendo composta al suo posto apparentemente imperturbabile. Mjöllnir, si ripeté la principessa nella mente, trovando lugubre il suono che quella parola provocava infrangendosi sui denti. Tutti sapevano della potenza impareggiabile del martello divino, un’arma mitologica le cui origini si perdevano nella leggenda.

“Potete dirci qualcosa degli altri?” le chiese Seiya dopo essersi pulito la bocca col tovagliolo, spezzando la tensione che era divenuta palpabile come la brina fuori dalla porta.
Flare per un istante non seppe cosa fare. Le dispiaceva complottare alle spalle dei guerrieri protettori della sua terra, si sentiva quasi di tradirli, come se fosse lei dalla parte sbagliata. Ma Hilda era soggiogata da qualcosa più grande di lei, ne era certa, la conosceva troppo bene. Sospirò ed iniziò ad arrotolarsi i capelli sulle dita nervosamente, un gesto che pensava ormai di aver lasciato ai giorni della sua infanzia.
“Sigfrid è il più forte. Lui è il cavaliere del Drago, il guerriero che sconfisse Fafnir.”

Raccontò ad Isabel e ai cavalieri tutto ciò che sapeva attorno ai guerrieri di Odino. La loro forza straordinaria, l’addestramento ai limiti del possibile, l’aura leggendaria che ammantava le loro figure. Quando parlò di Hagen sentì qualcosa rompersi dentro. Era come se stesse parlando di se stessa adesso, perché Hagen per lei era quasi un pezzo del suo corpo. Non sapeva se quello che provava per lui fosse amore, anche se si era lasciata baciare, anche se quel contatto inatteso le era sembrato dolce. Tuttavia, se ci pensava, se considerava i suoi occhi verdi come lo smeraldo e il suo fisico possente, Flare percepiva solo un’immensa tenerezza sgorgare dal suo cuore, mentre invece era bastato un solo sguardo del cavaliere di Cygnus per farglielo vibrare come una corda tesa.

“Sarà dura sconfiggerli…” disse Seiya a voce bassa, incrociando le braccia al petto.
“Presto ci raggiungeranno anche Sirio e i cavalieri d’oro del Grande Tempio, dobbiamo solo avere pazienza.”
Hyoga dall’esterno appariva più calmo del cavaliere di Pegasus, e meno ansioso di Shun. Forse sapeva solo controllare bene le sue emozioni, ma Flare avrebbe scommesso che fosse preoccupato quanto gli altri due.
“Il destino ancora una volta è stato ingeneroso...” disse improvvisamente Isabel, quasi la sua presenza fosse stata celata dietro ad un velo invisibile fino a quel momento, e solo ora avesse ritenuto opportuno scansarlo. “Ma se saremo uniti e fiduciosi, riusciremo ad affrontare di nuovo una triste situazione che avremmo volentieri scongiurato…”
I suoi occhi ametista si abbassarono sul piatto intatto, ancora fumante. I cavalieri si scambiarono uno sguardo  inquieto.
“Credo faremmo tutti meglio ad andare a riposare adesso” fece per alzarsi “Ci attende una difficile battaglia.”

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Sei ***


Capitolo 6




“Hai visto Flare?!”
Hilda aveva fatto irruzione nella stanza di Sigfried abbigliata come se fosse pronta ad andare in battaglia. Il suo torace minuto era fasciato da un corpetto nero allacciato sul davanti e, al posto delle lunghe vesti che era solita portare, le sue gambe erano avvolte da pantaloni molto stretti, neri anch’essi, che ne evidenziavano generosamente le forme attraenti. Il cavaliere del Drago si sentì avvampare di gelosia, immaginando fin troppo vividamente quali potessero essere stati i pensieri lascivi degli uomini che avevano avuto già l’occasione di ammirarla così.
“Ma sei impazzita??” le gridò quasi trascinandola dentro per un braccio e chiudendo la porta con un calcio.
“Ti sembra il modo di vestirsi??”

Hilda lo fissò incredula, la bocca un poco schiusa, come per dire qualcosa. Si divincolò prontamente, indirizzandogli un’occhiata piena di livore.
“Non ti permettere mai più di trattarmi in questo modo” sibilò tra i denti “Non dimenticare mai chi sono io…e chi sei tu.” sputò infine, affilando le parole come tanti piccoli coltelli.

Sigfried si paralizzò, puntando i piedi sul morbido tappeto di pelo che decorava la sua camera. Mai in tanti anni che si conoscevano Hilda gli aveva fatto pesare la differenza di rango che li separava come aveva appena fatto, guardandolo quasi con disprezzo. Per lei, il fatto che in fondo fosse un suo sottoposto, un semplice soldato a cui impartire ordini per il bene di Asgard, non era mai stato un motivo valido per mettersi al di sopra dell’amore e del rispetto che li teneva uniti. Quell’aperta manifestazione di status, per Sigfried era equivalsa ad una dolorosa offesa. 

D’istinto riconsiderò le preoccupazioni che Flare gli aveva manifestato più di una volta, l’espressione angosciata con cui l’aveva guardato, gli occhi verdissimi velati di sconforto. C’era qualcosa di profondamente sbagliato in tutto questo. Qualcosa che gli ricordava i tempi di complotti e intricate macchinazioni bisbigliate di sfuggita dietro agli angoli bui del palazzo. Allora Dhor, il celebrante di Odino, fratello del re, aveva tentato di scavalcare i regnanti per ottenere il governo di Asgard, facendo affidamento su una fitta rete di traditori che era stato capace di mettere insieme con la promessa di straordinarie ricchezze. Ricordava ancora l’atmosfera tesa che impregnava le mura del castello come un gas, espandendosi rapidamente senza lasciare tracce tangibili, odori. 

“Hai visto mia sorella?” domandò lei di nuovo come se niente fosse, studiandolo con i suoi occhi da gatta, chiarissimi.
“No.” rispose lui secco.
Quando Dhor aveva messo in pericolo il regno, Sigfried era troppo giovane e ingenuo per vedere da solo il cancro della cospirazione proliferare incontrollato, ma aveva il dono, la preveggenza che Fafnir gli aveva concesso scivolandogli nelle viscere attraverso la gola, insieme alle carni dolci del suo cuore. Strinse i pugni, ferendosi involontariamente i palmi. La perdita di quella virtù era stata per lui come la morte di una persona cara, di cui ancora portava il lutto.

“Sigfried, ti prego di perdonarmi se sono stata troppo brusca…” sospirò la regina massaggiandosi l’attaccatura del naso tra l’indice e il pollice. Alla luce del fuoco il suo volto appariva pallido ed emaciato, come afflitto da gravi tormenti.
“Flare non si trova da nessuna parte…”
“Tua sorella è abbastanza grande da sapere da sola cosa fare del suo tempo, forse è andata a Grönnik per fare compre…” propose lui non  vedendo il motivo di tanta agitazione.
Hilda piegò appena le labbra, come se volesse dire qualcosa ma avesse il timore di farlo. Per un istante, al giovane guerriero apparve proprio come un tempo, bellissima, forte e fragile insieme, troppo acerba per sostenere da sola il peso del regno. Forse era stato troppo precipitoso a giudicarla male. L’abbracciò d’istinto, percependo sotto di sé la fragilità di quel corpo sottile come un giunco, che si sarebbe potuto spezzare in un sol colpo. Avrebbe dovuto proteggerla, pensò con un po’ d’amarezza, non prendermela perché è nervosa in una situazione che palesemente non sa gestire. Lei gli si aggrappò alle spalle, ricambiando con intensità la sua stretta.

“Il prigioniero è scappato…” disse all’improvviso in un soffio.
Sigfried si staccò bruscamente da lei, per guardarla negli occhi.
“Quale prigioniero?”
Hilda non rispose subito. “Le guardie hanno trovato un ragazzo al di fuori delle mura che spiava il palazzo. Forse è un nemico…se ne è occupato Thor.” rivelò infine riluttante.
“E perché io non ne sapevo niente?”
“Perché non era importante…”
“Un nemico rischia di penetrare a palazzo e tu mi vieni a dire che non è importante??”
La giovane regina parve arretrare di fronte all’improvviso innalzamento di tono del compagno. Sigfried odiava essere tenuto in disparte, lei lo sapeva bene, in una certa misura era come infilare il dito nella piaga della perdita del dono di Fafnir. Il dono che lui aveva perso per lei.

“Convoco gli altri cavalieri.” disse il cavaliere del Drago facendo per uscire dalla stanza. Indugiò qualche secondo sullo stipite, come se attendesse un segnale. Hilda non replicò, rimanendo inchiodata al posto. Sigfried, senza aggiungere altro, imboccò il corridoio, percorrendo ad ampie falcate la strada verso la sala grande.

***
“Possibile che in tre non siate stati capaci di fare la guardia a un solo uomo??”
“Signore, noi crediamo che…”
“Sta zitto! Non voglio vedere le vostre stupide facce un secondo di più! Fuori!”

Sigfried aveva perso il senno. I soldati addetti alla custodia delle prigioni sotterranee non erano stati in grado di sorvegliare il solo ospite delle segrete di palazzo, sebbene con molta probabilità si trattasse di uno dei cavalieri di Atena, guerrieri di straordinaria forza a cui senza dubbio non avrebbero saputo far fronte. Non poteva credere che il nemico fosse riuscito a penetrare indisturbato le spesse mura del castello, arrivando persino al di sotto della cinta fortificata esterna. Forse avevano sottovalutato la difficoltà dell’impresa che avevano iniziato, un’impresa che ora, alla luce dei nuovi fatti, gli appariva non troppo dissimile da una follia.

Si passò stancamente una mano sul volto, stropicciando con forza gli occhi chiusi. Era in momenti come questi che sentiva il peso della perdita del dono di Fafnir, un dono prezioso di cui aveva apprezzato il valore solo nel momento in cui gli era stato sottratto. Con la dote della preveggenza, Sigfried a quest’ora avrebbe saputo come affrontare la battaglia, dove fosse finita Flare e cosa dovesse realmente pensare di Hilda. Nonostante i suoi occhi liquidi riuscissero sempre a riportarlo dalla sua parte, qualcosa nel suo atteggiamento, assieme alle preoccupazioni manifestate dalla principessa e i fumi di Vagal, continuava a tormentarlo e non convincerlo del tutto.

“Chiedo il permesso di andare io stesso a cercare la principessa, mia regina.”

Hagen, il cavaliere di Artax, già vestito con la sua scintillante armatura divina, si era rivolto direttamente ad Hilda. La regina però non rispose, l’attenzione concentrata sui grossi fiocchi di neve che cadevano fitti fuori dalla finestra.
“Ho già mandato dei soldati a cercarla fuori. Se è stato il prigioniero a rapirla, non possono essere andati troppo lontani nelle condizioni in cui era. E poi tra poco farà sera…” rispose Thor avvicinandosi al camino. Lunghe lingue brillanti lambivano la legna facendola crepitare, riscaldando appena il vasto ambiente in cui si trovavano.

Sigfried rabbrividì al pensiero di cosa sarebbe accaduto a Flare se avesse trascorso fuori la notte. Forse il rapitore avrebbe avuto qualche chance di sopravvivenza se avesse fatto affidamento al calore del cosmo, ma per la giovane fanciulla non ci sarebbe stata alcuna possibilità. Il clima di Asgard era insopportabile dopo una certa ora del pomeriggio, costringendo ogni essere vivente che vi abitava a rifugiarsi nella propria casa o nella propria tana.
“Da quanto sono fuori i tuoi soldati?” chiese Hagen a Thor, la voce incrinata dalla preoccupazione.
“Da un paio d’ore…”
“Dovrebbero essere già qui…”

Le parole del cavaliere di Artax furono profetiche. Annunciati dall’inserviente personale della regina, sette uomini piuttosto malconci fecero il loro ingresso a testa bassa, nascondendo il timore di una punizione dietro un’espressione affranta e mortificata.
“Mia regina…” dissero quasi in coro. Due di loro erano sorretti dagli altri, le gambe trascinate sul pavimento come due pezzi inerti di carne. Il naso di uno perdeva ancora sangue, un fiotto continuo di liquido denso e scuro che il soldato cercava timidamente di tamponare con il dorso del braccio.
Sigfried sospirò, sempre più convinto che tutta quella storia fosse pura pazzia.

Hilda si voltò piano, con occhi innaturalmente sgranati. Nel suo sguardo c’era qualcosa d’insano, alienato, come se un flash le avesse colpito le pupille a tradimento.
“Dov’è mia sorella?”
“Mia regina…abbiamo tentato, lo giuro, ma quello era fortissimo…è stato un miracolo che siamo ancora vivi…”
Un pensiero comune attraversò la mente di tutti: si trattava di un cavaliere di Atena, ormai non c’era più alcun dubbio.
“Dov’è mia sorella?” ripeté lentamente la regina, avvicinandosi piano verso i suoi interlocutori, costringendoli ad arretrare.

“Ci sono sfuggiti, mia Signora…” s’affrettò a rispondere quello più ardito, evidentemente il loro capo, battendo i denti come un bambino infreddolito.
“Ma sappiamo per certo dove erano diretti…”

***
Hyoga non riusciva a prendere sonno. Accanto a lui, Seiya russava come una tramoggia, facendo alzare ed abbassare le pesanti coperte che lo tenevano al caldo a ritmo cadenzato. Pure Shun sembrava addormentato, anche se il suo respiro regolare aveva davvero poco in comune con quello del cavaliere di Pegasus. Un bagliore sottile catturò la sua attenzione all’angolo della stanza. L’armatura del Cigno giaceva assieme alle altre pronta per essere indossata. La sentiva quasi fremere al di sotto dello scrigno che la custodiva, pronta alla lotta e al sangue.

“Non lo so …a volte penso che non è giusto…insomma….rischiare la vita…”
Per un istante gli tornarono alla mente le parole di Erii, il suo sguardo accorato mentre lui si rivestiva e la lasciava con un bacio sulla fronte, pregandola di non stare in pena per lui. Si rese conto che in tutto quel tempo non aveva pensato a lei neppure un secondo. Allora gli risuonarono nelle orecchie le tacite accuse che gli aveva rivolto prima che partisse.

Con un gesto secco scostò le coperte e si alzò. Il pavimento di legno scricchiolava sotto ai suoi piedi, facendolo sussultare ad ogni passo. Passò davanti alla stanza di Isabel e si chiese se Flare stesse dormendo. Flare. Quanto gli era bastato per chiamarla semplicemente Flare? Si erano conosciuti solo qualche giorno prima, ma a Hyoga sembrava di condividere con lei molto più di quanto avesse mai condiviso con nessun’altra. La ricordò come l’aveva vista al rifugio, con gli occhi che le si chiudevano per la stanchezza e le mani infreddolite per il gelo. In quell’occasione, lui le aveva raccontato molte cose di sé, molte cose che non avrebbe mai ritenuto davvero possibile rivelare a qualcuno, nemmeno ad Erii, nonostante lei avesse più volte tentato di cavargli una parola, un dettaglio, un pezzettino di sé che mai aveva voluto spartire con lei.  

Si fermò alla fine del corridoio, dove una piccola finestra lasciava intravedere l’inquietante profilo notturno di Asgard: vento talmente gelido da apparire solido scuoteva con prepotenza le alte chiome dei numerosi pini che circondavano Grönnik, proiettando sulla neve lunghe ombre, inquiete. Viste così, le terre tanto amate dalla principessa Flare non si presentavano affatto incantevoli e poetiche come gli erano apparse di giorno. La notte conferiva loro un aspetto minaccioso, angusto. Uno scenario molto diverso da quello della Siberia. Lì, l’oscurità si rifletteva sui ghiacci in bagliori azzurrini, facendo apparire l’infinita distesa del pack quasi un oceano sereno, un’immagine familiare che era in grado di rassicurarlo come una carezza leggera sulla guancia.

“Non riesci a dormire?”
Shun si materializzò alle sue spalle silenzioso come un gatto, cogliendolo distratto e impreparato.
“Neppure tu…” constatò squadrandolo preoccupato. Il cavaliere di Andromeda sembrava persino più fragile di come era avvezzo a vederlo, così addobbato nel pigiama di pile con i pinguini disegnati. Lui, tra tutti, era forse quello che aveva maggiormente conservato un qualcosa della loro infanzia che gli altri avevano dismesso ormai da molto tempo. Faceva quasi tenerezza così.
“Ho paura Hyoga…” rivelò d’un soffio avvicinandosi per guardare anche lui fuori.
Hyoga gli fece posto, permettendogli di appoggiarsi con i gomiti sulla soglia della finestra. Anche io, pensò osservandolo di sottecchi, ma non glielo disse.

“Questa battaglia è strana…”
“Quale non lo è?”
Shun lo guardò con occhi liquidi e tristi.
“Sarà che stavolta non ho proprio voglia di combattere…ad ogni scontro mi sembra sempre di perdere qualcosa…”
Hyoga non replicò. I lineamenti del suo viso si erano fatti improvvisamente duri, come contratti da angosciosi pensieri.
“Tutti perdiamo qualcosa in guerra…anche quando vinciamo, alla fine ne usciamo sempre sconfitti…” disse infine con voce spezzata, pensando a Camus, al modo stupido e atroce in cui era voluto morire, alla voragine buia che gli aveva lasciato dentro.

Shun si mosse a disagio, indeciso se portare a compimento il gesto di conforto che gli si era profilato nella testa. Sebbene si conoscessero da tanto e per lui fosse come un fratello, Hyoga aveva un che di scostante e distaccato che lo disorientava, costringendolo sempre a pensarci bene prima di fare o dire qualcosa di troppo diretto. Delicatamente posò una mano sulla spalla dell’amico, premendo un poco come per far sentire la sua comprensione, la sua presenza.
“Scusami, Hyoga. Sono uno scemo…”
“Scusa per cosa?” chiese lui cercando di liquidare lì la discussione, spaventato all’idea di toccare quel tasto che tanto faticava a celare nell’oblio.
“Per non aver pensato che tu hai perso molto più di tutti noi…” spiegò Shun timidamente, gesticolando nervoso con le mani. “Però vorrei dirti che, per quanto possa valere, io ci sono, per qualsiasi cosa, sul serio…”

Hyoga non rispose, continuando a guardare distrattamente fuori dalla finestra. Il vento sembrava essersi placato, le cime degli alberi ben salde sui loro spessi tronchi, la neve soffice ovunque, persa tra la fitta coltre della foresta. Dentro di lui la tempesta era invece appena cominciata, portandogli furiosamente davanti agli occhi immagini dolorose che non poteva dimenticare.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Sette ***


Capitolo 7




Flare fu svegliata dal rumore assordante del silenzio. A palazzo la vita iniziava già attorno alle cinque del mattino, annunciata dal ciabattare delle domestiche su e giù dalle scale. Per prima cosa veniva acceso il fuoco in ogni stanza, per permettere a chi riposava ancora di alzarsi con il tepore del camino. Veniva accesa anche la fornace centrale, un’enorme bocca di cemento armato in cui gli inservienti gettavano quintali di legna al giorno, per riscaldare costantemente i numerosi ambienti del castello. Un sistema a gas mandava inoltre i molti termosifoni piazzati strategicamente ad ogni angolo, emettendo lugubri scricchiolii già attorno le sei. L’atmosfera ovattata e pacifica di Grönnik, paradossalmente, le aveva impedito di dormire ancora, così distante com’era dalla realtà a cui era abituata.

Si sciacquò rapidamente il viso, pizzicandosi le guance per darsi un po’ di colore. La doccia l’aveva fatta la sera prima, nel piccolo bagno della modesta stanza di legno che condivideva con Isabel, una lunga sessione d’acqua bollente che aveva lasciato cadere sulla schiena e i capelli, che erano divenuti più ricci del solito. Infilò lo stesso abito per il terzo giorno consecutivo, sentendosi un po’ a disagio per non avere sulla pelle un capo fresco di bucato, e considerò allo specchio la sua figura per intero: il vestito attillato, di velluto bianco, la faceva apparire più in carne di quanto fosse in realtà, mettendole in evidenza un seno florido che solitamente non aveva.

“Buongiorno principessa…”
Isabel era in piedi dietro di lei, con addosso un pesante pigiama di flanella rosa confetto. Vista così, la potente divinità appariva in tutta la sua fragilità terrena, quasi smarrita con gli occhi gonfi di sonno e i capelli ancora scompigliati. Flare si sentì confortare da quella presenza minuta e silenziosa, una presenza che, nella sua delicatezza, aveva sempre il potere di rassicurarla. 
“Atena…” disse allontanandosi dallo specchio.
“Solo Isabel, te ne prego…” la interruppe lei facendo per aprire il suo bagaglio. Ne tirò fuori un pesante maglione di cachemire scuro, con il collo alto e le maniche bordate di pelliccia.
“Grazie per tutto quello che stai facendo…”
“Non devi ringraziarmi, Flare. Sono io che ti ringrazio per l’aiuto che ci stai dando.”
Le sorrise, socchiudendo un po’ gli occhi per schermarsi dal riverbero che il sole accecante del mattino produceva specchiandosi sulla neve. Fuori la giornata appariva calma e serena, coi raggi alti che illuminavano le cime spioventi dei pini, brillanti di brina e rugiada. Ecco la mia bellissima terra, pensò Flare ammirando quel romantico spettacolo, la terra che amo e che farò di tutto per proteggere.

Scesero nell’atrio accompagnate dallo scricchiolio del pavimento di legno. Isabel aveva prestato alla principessa un lungo cappotto, morbido e caldo, che lei sistemò sul braccio per indossarlo fuori dalla locanda. Trovarono Seiya a fare colazione insieme a Shun, seduti in un piccolo tavolo rotondo vicino al camino della sala centrale. Ad eccezione di loro due, la stanza non ospitava molte persone. Due uomini sulla quarantina sorseggiavano in disparte una tazza fumante, chiacchierando a voce bassa in una lingua dura, ricca di consonanti. Forse erano commercianti, pensò Isabel prendendo posto accanto a Seiya, o comunque persone che viaggiavano per motivi di lavoro.

“In questo periodo non abbiamo molti ospiti…” disse all’improvviso una donna piuttosto anziana alle loro spalle, offrendo loro un sorriso cordiale e sdentato. “Cosa posso portarvi belle fanciulle?” chiese poi, pronta con un vecchio taccuino in mano. Per un istante i suoi occhi piccoli e un po’ ravvicinati si posarono fissi sui biondi ricci di Flare, sgranando all’istante quando compresero chi avessero davanti. La donna si mosse a disagio, ma non disse nulla.

“Una tazza di tè andrà benissimo, grazie.” fece Isabel affabile.
“Solo del tè? Dovremo raccoglierti col cucchiaino se non ti cibi come si deve! Può portarci altra torta e cioccolata calda per favore?” domandò Seiya prima di spazzolare in un boccone l’ultima fetta di dolce rimasta. Shun gli mollò una gomitata al fianco.
“Che ho detto di male questa volta??”
Flare rise educatamente, coprendosi la bocca con le dita come le avevano insegnato a palazzo.
“Anche per me cioccolato caldo, grazie.” disse rivolta all’anziana signora.

“Ma dov’è finito Hyoga?”
Seiya si guardò attorno curioso, mentre si versava nella tazza dell’altro cioccolato. Ne fece cadere qualche goccia sul tavolo, che Shun si affrettò subito a pulire con un tovagliolo di carta. Flare si sentì intenerire da quel quadretto familiare che inconsapevolmente i guerrieri al servizio di Atena le stavano regalando. Sembravano molto legati quei due, come se fossero fratelli. Come lei e Hilda, un tempo.

“Buongiorno…”
Il cavaliere del Cigno si presentò con indosso solo una maglia leggera al di sopra di vecchi jeans scoloriti. Aveva i capelli in disordine, come se si fosse appena alzato dal letto, e gli occhi lievemente cerchiati di scuro. In compenso i segni delle ecchimosi stavano già acquisendo un aspetto migliore, di un colore tenue che quasi si poteva confondere con quello della pelle sana.
Flare sentì il suo cuore perdere di un battito alla sua vista. Hyoga le piaceva, considerò voltando ostinatamente lo sguardo verso il centro della tavola, dove la signora della locanda stava disponendo l’ordinazione, le piaceva così tanto che ogni volta doveva sforzarsi di non fissarlo.

“Ehi amico, credi forse di essere alle Hawai vestito a quel modo?? Ma non lo senti questo freddo impossibile??”
“Ma se qui dentro faranno trenta gradi! Si muore di caldo!” si difese Hyoga alla provocazione di Seiya, piccato.
“Tu non sei umano…” concluse il cavaliere di Pegasus scuotendo la testa con finta costernazione, prima di avventarsi con rinnovato appetito su un pezzo di torta al cacao.
“Neppure tu, mi sembra. Al posto dello stomaco devi avere una fogna a cielo aperto…”
“In effetti…a mala pena sono riuscito ad accaparrarmi tre briciole Seiya, la prossima volta mi assicurerò di essere da solo a fare colazione…” si unì Shun mettendo su il broncio come un bambino.

“Non ti preoccupare Flare. Anche se non sembra sono ottimi guerrieri…”
Isabel porse alla principessa la brocca della cioccolata, strizzandole l’occhio con fare complice. Flare sorrise, di nuovo grata ad Atena ed i suoi cavalieri per tutto l’aiuto che le stavano offrendo. Hyoga la salutò come se la vedesse solo ora, augurandole il buongiorno.
“Buongiorno anche a te, Hyoga…” e il suono del suo nome sulle labbra le procurò una strana sensazione di scompiglio. Da quanto lo conosceva?, si chiese la bionda principessa mentre portava alla bocca la tazza piena di cioccolato bollente. Non erano passati nemmeno tre giorni da che gli aveva passato una pezza bagnata sul viso per ripulirgli le profonde ferite che Thor gli aveva procurato colpendolo. Tre insignificanti giorni e già le faceva quell’effetto. Che accidenti mi sta succedendo?

“Flare.” la chiamò Isabel facendosi improvvisamente seria. Erano al nocciolo della questione dunque. Ormai era giunto il momento di pianificare la strategia con cui assieme avrebbero tentato di distogliere Hilda dai suoi folli piani di conquista.
“Evitare lo scontro sarebbe la soluzione più auspicabile…”
“E anche meno probabile.” la interruppe Seiya finalmente sazio. La sua espressione era grave e concentrata. “Non dimentichiamo le minacce del tipo arrogante che ha messo Aldebaran al tappeto…su questo punto è stato chiaro: sconfiggerci tutti e conquistare l’Europa.”
“Già, ma se la principessa ci svelasse la chiave per arrivare alla regina, forse potremmo troncare ogni azione sul nascere…” intervenne Shun, anche se non particolarmente convinto.

Flare prese a tormentarsi i capelli, arricciandoli nervosamente attorno alle dita sottili. Per un attimo riconsiderò la figura di Hilda così come l’aveva vista l’ultima volta, con l’abito nero del cerimoniale di guerra, lo stesso abito che le famiglie regnanti di Asgard si tramandavano di generazione in generazione solo per ricordare quanto fosse importante il mantenimento della pace.
“Mia sorella è molto cambiata negli ultimi tempi. Non so cosa le sia accaduto, non riesco più a riconoscerla…” si morse le labbra, cambiando posizione sulla sedia.
“Pensi che accetterebbe se le chiedessi un colloquio?” le chiese Isabel guardandola intensamente al di sotto delle lunghe ciglia.
Flare ci pensò qualche secondo prima di rispondere. “Forse. Le leggi di Asgard in fondo le imporrebbero di accogliere le ambasciate ufficiali degli stati fuori dai confini, ma non so fino a che punto queste leggi abbiano ancora un qualche valore per lei…”

“Tentare non nuoce. Se ci rechiamo a palazzo in tua presenza, non potrà rifiutarci un incontro…” suggerì il cavaliere di Andromeda, le braccia incrociate a stringersi gli omeri.
“Io non ne sarei così sicuro…”
Seiya smise di giocherellare con gli avanzi della colazione, l’espressione incupita e lo sguardo fisso a terra, sul consumato pavimento in legno scuro disposto in diagonale su grossi listoni. Per un po’ sembrò come seguirne la trama, arrivando con gli occhi fino alla finestra da cui entrava una luce pallida e accecante. “Ma ormai credo che non abbiamo più tante alternative…”

All’ingresso, un uomo bardato di pesanti pellicce si fece largo nello squillante scampanellio della porta, attutito solo in parte dai rumori che Algot produceva fuori mentre preparava meticolosamente le motoslitte da noleggiare quel giorno. Si guardò attorno, inquieto. Quando la individuò nella sala, seduta a un ampio tavolo accanto al camino acceso, Hagen si sentì pervadere da sentimenti contrastanti: una parte di lui era felice di averla ritrovata, sana e salva, bella e luminosa come la ricordava. D’istinto si sarebbe gettato ad abbracciarla, affondando la faccia nei suoi capelli morbidi e profumati, fino a quasi farla sparire nella sua stretta. Dall’altra però, senza che lui potesse davvero farci niente, uno spiacevole senso di collera e delusione aveva iniziato a farsi strada nelle sue viscere, irradiandosi verso ogni fibra del suo corpo. Aveva ragione Hilda: Flare aveva tradito.

Si voltò rapido come era venuto, sbattendo la porta dietro di sé. I cardini si spezzarono con un secco scrocchio, lasciando il pesante legno di pino con cui era stata costruita pendere inerte come un braccio rotto. La brezza gelida del mattino lo investì in pieno, sferzandogli il volto, tanti piccoli aghi di brina che penetravano nella sua pelle. Con un balzo montò sul cavallo che lo aspettava nervoso legato ad uno spesso tronco, sciolse le briglie e partì di corsa.

Già, sotto l’armatura che indossava coperta dalle pellicce, il cavaliere di Artax poteva percepire i muscoli vibrare di tensione, pronti ad un nuovo feroce scontro.

***
Quando Sigfried li vide profilarsi in lontananza, una schiera compatta di persone che procedevano al trotto di modesti cavalli dal pelo scuro, ripensò rapidamente a tutta la serie di strani eventi che erano accaduti da che Hilda aveva imposto loro il miraggio di una guerra di conquista. Gli occhi obliqui e taglienti, le labbra strette come una ferita, parole dure, abiti neri e attillati, la fuga della principessa con un prigioniero nemico. Atena, Odino e ancora Atena, i ghiacci che si sciolgono. Hilda aveva smesso di celebrare il sacro rituale giù al Picco della Preghiera. La lunga scalinata scavata nella dura roccia si era ormai ricoperta di uno spesso strato di neve candida, dura anch’essa, come il cuore della regina negli ultimi tempi, solido e impenetrabile come un diamante.

Si voltò di scorcio per contemplarne il profilo affilato. In groppa del suo candido purosangue, Hilda appariva bellissima e inarrivabile, tutta tesa in avanti ad attendere il momento in cui avrebbe disconosciuto pubblicamente sua sorella, come aveva giurato di fare prima di partire se Flare non fosse passata dalla parte giusta. Al suo fianco i sacri guerrieri di Odino al completo: Hagen, Thor, Fenrir, Alberich, Mime e Mizar, tutti sulla difensiva, già in posizione di combattimento. Solo lui si era tenuto in disparte, un poco più avanti a scrutare l’orizzonte in attesa del nemico.

L’ondata potente del suo cosmo vibrò inaspettata, lasciando sul terreno una scia dai contorni nerastri. Sigfried vi sentì come una macchia dentro, un’ombra oscura che ne opacizzava la forza calda che l’aveva caratterizzato fino a quel momento. Atena lo respinse, tenendo alto lo scettro di Nike, simbolo di forza e stabilità.
“Flare!” gridò Hilda con una voce adirata che il cavaliere del Drago non riconobbe “Non è al fianco del nemico che dovresti trovarti! Riprendi qui il tuo posto, o mi vedrò costretta a fare qualcosa di cui mi pentirei sicuramente!”

La principessa di Asgard si strinse al braccio del giovane guerriero che le era accanto, un ragazzo dai colori del Nord e col volto segnato da segni di colpi potenti. Il prigioniero, pensò subito Sigfried indirizzando una rapida occhiata in direzione di Thor.
“Hilda, ti prego, smettiamola con questa follia! Atena non è il nemico! Siamo qui per chiederti udienza, così come previsto dalle leggi del Regno!”
La regina non rispose. I suoi occhi erano roventi, accesi di collera, le mani strette convulsamente alle briglie dorate del suo cavallo.
“Come ti permetti, tu, vile traditrice, dire a me quali leggi applicare per il bene della mia terra??”
Dalle sue labbra tese uscì come un sibilo, fastidioso e prolungato, le guance rosse per il freddo e la rabbia. Flare arretrò davanti a tanto astio. Sigfried strinse i pugni, incapace di fare altro che assistere impotente allo sgretolarsi violento di un legame che aveva sempre ritenuto inattaccabile.
“Tu non sei più mia sorella, per me ora sei un nemico al pari di quelli che ho davanti!” sputò infine, scagliando di nuovo il suo cosmo su Atena.

Per un istante tutto parve immobile. L’aria era gelida e sferzante, il silenzio assoluto. I cavalieri di Atena si schierarono a difesa della propria dea, espandendo a poco a poco il loro cosmo. Sigfried ne poteva intuire i contorni, l’intensità, la potenza. Anche i sacri guerrieri di Odino non fecero attendere il proprio turno: un’esplosione di energia si allungò sopra di loro come una lama, trafiggendo in un sol colpo il blu intenso del cielo a quell’ora del giorno, combattendo una virtuale battaglia di forza, cosmo contro cosmo.

“Hilda, ti prego, ascoltami! Non vedi che i ghiacci si stanno sciogliendo? Presto Asgard sarà un regno sommerso se continui ad ostinarti a non compiere i tuoi doveri!” riprese Flare dopo un attimo di esitazione, avvicinandosi avvolta in un lungo cappotto troppo stretto.
“Sta zitta! So benissimo quali sono i miei doveri sciocca ragazzina!”
Un blocco di banchisa, squadrato e irregolare, si staccò con uno schiocco dalla roccia, scuotendo la terra sotto ai loro piedi. La principessa fu costretta ad aggrapparsi ad Isabel, immobile davanti a lei come una statua di pietra.
“Da quando tua sorella porta quell’anello?” le chiese con gli occhi fissi sul piccolo cerchio di metallo che coronava l’anulare di Hilda.
“Non saprei…non lo ricordo…”

-Da dove salta fuori quell’anello?
-Dal mio cassetto…non ti piace?
-Non è che non mi piace…è solo che l’oro non ti si addice…
Una risata profonda, gorgogliante dall’interno, denti bianchi e regolari scoperti su un sorriso tirato di malizia.
-L’oro si addice sempre a una regina…

“Tua sorella è sotto il giogo di un Dio, Flare. Quello è l’anello del Nibelungo.”

_______________________________________________________________________________

Un grazie di cuore a tutti i lettori che seguono questa storia e un grazie speciale per le recensioni sempre puntuali di Diana924 e quelle poetiche di Barakei che mi fanno sempre tanto felice ^^! Buona lettura!

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Otto ***


Capitolo 8




Sigfried aveva ricevuto l’armatura divina forgiata sotto la protezione della cintura celeste di Orione. Era una costellazione potente, la sua, un fascio di luminose stelle che gli conferivano poteri sorprendenti e spaventosi. Suo padre Reginn era stato chiaro su questo punto: un sacro guerriero di Odino ha in dono la forza del cosmo per difendere il Regno e le famiglie che vi abitano, non certo per sciocchi scopi personali. E quando gliel’aveva detto i suoi occhi chiari e profondi avevano brillato lucidi, di un orgoglio acceso e vibrante.

Assieme a lui erano stati investiti altri giovani cavalieri, perlopiù di nobile famiglia come la sua, ma di questi Sigfried conosceva discretamente solo Alberich, il rampollo di una delle casate più in vista di Asgard. Lo ricordava una persona cortese, dai modi affabili, anche se forse troppo melliflui, con la voce sottile e suadente, dall’aspetto perbene che spesso gli esponenti di un certo rango tenevano più di tutto ad avere. Una persona poco dissimile da quella che adesso aveva di fronte. Alberich dell’antico lignaggio di Ek Strömvik, oggi cavaliere di Megrez, non era affatto cambiato dai tempi in cui, bambini, si scambiavano feroci palle di neve nel bosco.

“Buongiorno, sacro guerriero di Orion.” lo salutò con un sorriso gentile, appena accennato.
“Buongiorno a te, cavaliere di Megrez. Anche tu qui per i festeggiamenti?”
Alberich per un istante parve abbassare nervosamente lo sguardo, ma fu solo nel breve spazio di un battito di ciglia.
“La mia famiglia è la custode di Beslöja, come potremmo mancare proprio noi?” osservò apparentemente senza malizia, ma Sigfried colse in quelle parole dall’accento molto duro come una strana nota di risentimento. Curioso quel ragazzo, pensò stringendosi negli omeri. Un corvo nero sorvolò le loro teste, scivolando silenzioso nell’aria fredda e densa di brina.
“Deve essere un’emozione grandissima per voi…mio padre mi ha detto che era più di un secolo che non si assisteva all’ordinazione di una sacerdotessa…
“Esattamente. Per ben tre generazioni il nostro regno ha visto nascere solo primogeniti maschi, futuri re di Asgard, e per tutto questo tempo la stirpe di Ek Strömvik ha conservato Beslöja con la massima cura…fino a questo giorno.”

Quante parole altisonanti, così rigonfie di magnificenza da sembrare quasi parte di un rituale sacro, mistico. Gli occhi verdissimi di Alberich mandavano sinistri bagliori lucenti, riflettendo fastidiosamente la luce azzurrina del mattino. Sigfried sorrise, senza sapere bene perché.
“Allora ci vedremo durante la cerimonia.” lo salutò, porgendogli la mano per congedarsi. Alberich esitò. Fece trascorrere qualche secondo prima di ricambiare la stretta. Le sue dita erano lunghe ed esili, ben più adatte al ricamo che alla battaglia, piccolo stronzetto, considerò il cavaliere di Orion mentalmente, rivolgendogli un ultimo sorriso di circostanza.

Asgard era in pieno fermento. Migliaia di partecipanti erano giunti a flotte per assistere al grande evento, persone di tutte le età raggruppate come macchie ad ogni angolo della piccola città fortezza. Il palazzo dei regnanti, da circa un ventennio Jan-Åke Olle Ragnvald del casato di Polaris e Sinikka Rosa del casato di Sjöberg, si ergeva maestoso su un pendio affusolato, circondato da una foresta fitta e scura, disposta quasi ad anello tutt’attorno. Spesse mura sorvegliate lo difendevano, impedendo a chiunque di entrarvi senza permesso. Dentro vi abitavano il re e la regina, le loro figlie, la servitù e l’intero esercito. Le famiglie più in vista avevano il privilegio di costruire le proprie dimore poco appena fuori dalla seconda cinta muraria, in tutto ve ne erano tre, ma la restante popolazione viveva a qualche miglio da lì, vicina alle città più moderne e confortevoli.

Sigfried percorse il poco spazio che lo dividevano da suo padre ad ampie falcate, lasciando sulla neve profonde impronte avvallate. Reginn quando lo vide lo afferrò saldamente per le spalle e lo spinse con un colpo bonario dentro la cerchia accalcata di amici con cui stava discutendo gli ultimi dettagli della cerimonia.
“Ecco un sacro guerriero di Odino tra noi!” esclamò, mostrando una chiostra di denti opacizzata dal fumo della pipa che teneva costantemente sulle labbra. Fece due piccoli sbuffi di fumo, guardando il figlio che adorava con commossa intensità.
“Padre e amici di mio padre, salve a voi tutti!”
“Un boccale di birra Sig?” gli fece Otto, attendente di Reginn da numerosi anni ormai.
“No, grazie, non vado pazzo per la birra…”
“Già, dimenticavo, tu vai pazzo per la principessa!” scherzò quello ingollando una grossa sorsata direttamente dalla brocca.

Sigfried vide il padre incupirsi. La sua bocca era serrata sulla scura pipa di legno, che emetteva ad intermittenza tanti piccoli nervosi sbuffi di fumo biancastro.
“Vengo appena da un interessante incontro con un Ek Strömvik…” rivelò strofinandosi le mani per il freddo.
“Alberich?”
“Già, proprio lui…”
“Ha più puzza sotto il naso quel presuntuoso che le latrine dei mie cessi!” rumoreggiò un soldato prima di ruttare con soddisfazione.
“Stai parlando di un sacro guerriero di Odino, stupido cafone!”
Reginn gli mollò un manrovescio sulla nuca, serio. Per lui, la carica che suo figlio occupava con tanta disinvoltura era un onore senza eguali.
“Ha parlato di una certa Beslöja…io non sapevo cosa volesse dire, ma ho finto di sì per non fare la figura dello scemo…non so, sembrava così importante…”

Gli uomini di suo padre azzittirono di colpo. C’era un qualcosa di profondamente sacrale negli antichi cerimoniali di Asgard, qualcosa che proveniva direttamente dall’alto, solenne e delicato come una goccia di cristallo.
“Beslöja…” ripeté Otto, lo sguardo concentrato sulla punta degli stivali.
“Così ha detto.”
“Il velo della sposa.”
Reginn si era tolto la pipa dalle labbra. I suoi occhi azzurri si erano fatti più scuri.
“Beslöja è il velo con cui la principessa Hilda verrà ordinata Suprema Vestale, da cui trarrà il potere per connettersi con le forze della natura, promettendo in cambio la sua devozione.” spiegò infine riprendendo a fumare convulsamente.
“E la sua verginità…” aggiunse Otto rivolto a Sigfried. Il cavaliere di Orion arrossì.

“Ma Asgard ha già un sacerdote…” chiese poi, ancora rosso di imbarazzo. Non erano state poche le volte che aveva plasmato nella sua mente pensieri cupidi nei confronti di Hilda di Polaris, involontarie immagini del suo corpo ben fatto, del seno generoso, delle curve morbide delle natiche. Forse era l’adolescenza che gli faceva questi brutti scherzi, ma la principessa era divenuta ormai protagonista di tutti i suoi sogni più licenziosi.
“Una vestale non è un semplice sacerdote. Un sacerdote è qualcuno che ha studiato a fondo i testi sacri, imparando a connettersi con la natura per pregare Odino di mantenere inalterato l’equilibrio dei ghiacci. La Vestale è invece colei che, grazie a Beslöja, donato ai primi regnanti dal Dio stesso, può parlare direttamente con lui, in un legame assolutamente privilegiato.”

Quando la cerimonia iniziò, a Sigfried risuonavano ancora nella testa le parole solenni con cui il padre gli aveva spiegato del velo della sposa, di cosa stava per diventare la ragazza di cui si era ciecamente invaghito. Il suo era un amore senza speranze, lo sapeva bene. Hilda era la principessa di Asgard, una regnante, una fanciulla bellissima che avrebbe potuto avere chiunque ai suoi piedi in virtù delle sue splendide grazie. Lui invece era solo un modesto guerriero, certamente dalla lucida e potente armatura, forte, quasi invincibile, ma pur sempre solo un soldato.

Dhor, il Sacerdote celebrante del culto di Odino, era apparso tra la folla nella sua lunga veste d’argento, con i bordi color porpora e il mantello di pelliccia scura. Alla mano sinistra stringeva un bastone dorato, intarsiato di pietre preziose. Il suo volto rugoso sembrava ancora più vecchio, con profondi solchi scavati nella pelle smagrita, il naso adunco e folte sopracciglia inquiete.
Dietro di lui, accompagnata da delicate fanciulle vestite di bianco, veniva lei, bellissima, con lo sguardo pudico a terra, si muoveva con piccoli passi quasi impercettibili. Per un istante i suoi occhi chiarissimi incrociarono la sua attenzione, cogliendolo di sorpresa. Sigfried sentì la bocca asciugarsi ed uno strano turbamento scuotergli le viscere.

“Io, umile servitore indegno di questo privilegio, prego te, sommo Odino, protettore di Asgard, custode dei ghiacci eterni, colonna delle terre del Nord…”
Parole. Parole grandiose scivolavano rapide dalle labbra del vecchio sacerdote, srotolandosi come un tappeto erboso sui nudi piedi della principessa, immobile come una statua, pronta a ricevere Beslöja sul capo e chiudere per sempre al mondo occhi spalancati di timore. Canti, lacrime di regina, Sinikka Rosa socchiudeva le palpebre e soffocava il pianto nella gola, lei che era stata costretta a sposare un uomo che non amava, ad andare incontro ad un destino che non era stata lei a scegliere. Come Hilda. Che avrebbe rinunciato all’amore per diventare fedele prigioniera dei ghiacci. Sinikka Rosa aveva fallito, lo sapeva bene, perché quando sua figlia era nata si era giurata che avrebbe fatto di tutto purché fosse salvaguardata da una sorte imposta. Al suo fianco il Re non batteva ciglio. Dritto e rigido, col volto severo, quasi si confondeva col simulacro di Odino che si ergeva terrificante alle sue spalle.

Un velo pesante, ricco di innumerevoli lustrini brillanti, cadde come una scure sul collo bianco della principessa. La folla sussultò, liberando un mormorio continuo che dal suolo si innalzò presto verso l’alto, verso il cielo accecante che li guardava dal di sopra inespressivo e muto, come sempre.
Una lacrima sfuggì silenziosa dai suoi occhi languidi e assieme alla sua quella grossa e rotonda di Sigfried, che, commosso, si affrettò a ripulirla via col dorso della sua mano forte. C’era un qualcosa di vibrante e potente in quello che stava accadendo, qualcosa capace di togliere il fiato a chiunque quel giorno avesse avuto il privilegio di assistervi. Il palmo di Odino era sceso sulle loro teste, imprimendovi il segno della sua presenza.

Hilda si voltò verso il popolo, candida come un fiocco di neve, pallida e stremata, Beslöja sui lunghi capelli biondissimi. La sua figura aggraziata sembrava quasi appartenere ad un altro mondo, ad un'altra dimensione. Gli occhi, le labbra, le guance tornite, il ventre. Ogni cosa era ormai inviolabile proprietà della divinità insensibile che li proteggeva.

Sigfried si portò la mano destra al petto, la mano della spada, la mano dei giuramenti. Avrebbe servito Asgard per sempre, fedele al Regno e ai regnanti, condividendo con lei, se non altro, l’amore per quelle gelide terre.

***

Erii sfogliava un vecchio album di fotografie, un po’ logoro sulle bordature, consunto. Gliel’aveva regalato suor Celeste quando aveva messo piede nell’orfanotrofio la prima volta, quando abbigliata come un ragazzo, i capelli cortissimi e i pantaloni della tuta scuri, aveva calcato con disperazione il lucido linoleum del bianco edificio, imponente.

Ormai troppo grande per essere adottata, sola al mondo dopo la morte improvvisa dei suoi genitori, la bella fanciulla dagli occhi di cerbiatto, così la chiamava Miho prendendola in giro per gli sguardi liquidi e trasognati che indirizzava sempre a Hyoga ogni volta che aveva il privilegio di vederlo, aveva trascorso quasi un terzo della sua esistenza a contare i giorni che la separavano dalla sua condizione di orfana a quella di adulta emancipata. Nubile, avrebbe avuto scritto sul suo documento d’identità. Professione…chissà. Lei avrebbe voluto fare la psicologa.

A scuola adesso stavano facendo Freud, il padre della scienza da cui tanto era affascinata, un uomo geniale e innovativo ossessionato dal sesso e dai sogni. Un po’ come tutti i maschi, in fondo, pensò visualizzando nella testa il corpo solido e asciutto del suo fidanzato, i muscoli tesi che sulla pancia disegnavano sensuali dune dai netti confini. Chiuse l’album con uno schiocco, facendo volare via una vecchia foto di lei, mamma e papà al mare. La raccolse, fissandola attenta senza nessuna particolare emozione.

Ancora oggi non sapeva che pensare di Hyoga. Non ne capiva i gesti, i pensieri, i sentimenti. A volte con lui si sentiva leggera come l’aria, al di sopra della consistenza terrena del suolo, gli occhi sgranati su un mondo che si mostrava al suo sguardo con colori accesi e nuovi. Si erano conosciuti proprio lì, all’orfanotrofio, un giorno che il capriccio di una divinità dolorosamente sciocca e invidiosa aveva approfittato della vuotezza che popolava il suo animo in quei tempi tristi, nel mese di marzo, in cui ricorreva la scomparsa della sua famiglia.

Lui l’aveva guardata con i suoi incredibili occhi azzurri, così brillanti e intensi da ferire, dopo averla salvata dalle ruote di una macchina scura, di lusso. Le aveva sorriso di quel sorriso caldo e fascinoso che tirava fuori solo quando se ne ricordava, messo in risalto da una dentatura bianca e regolare,  le fossette scavate sui lati. Il tocco di un angelo, le aveva detto Miho spettegolando quella sera stessa sotto le coperte, nel suo letto, come due bambine discole al campeggio. Se erano il tocco di un angelo, Erii davvero non poteva dirlo, ma Hyoga dell’angelo aveva proprio l’aspetto.

Solo l’aspetto però. Ripose l’album, registrando distrattamente il fatto che lei, del suo ragazzo, non aveva nemmeno una foto. Sì, certo, sapeva essere galante e cavaliere da fare un baffo persino ai protagonisti dei romanzetti rosa che Miho divorava la notte prima di addormentarsi. La prima volta che erano usciti insieme per esempio le aveva aperto la porta del locale in cui avevano trascorso un meraviglioso pomeriggio, scortandola dentro come una principessa. Lei si era quasi sentita sprofondare nel calore delle sue attenzioni. Se avesse avuto bisogno di lui, ne era certa, Hyoga sarebbe stato pronto a sostenerla in ogni indesiderata evenienza in cui potesse mai inciampare.

Ma poi si perdeva così, stupidamente, in cose sceme e basilari che la sconcertavano e la costringevano a rimuginare sul loro rapporto sdraiata sul letto, con gli occhi pieni di lacrime rivolti al soffitto. Miho ne era ormai stufa. Neanche l’ascoltava più quando lei impiegava metà del suo tempo libero a stilare un minuzioso profilo psicologico del cavaliere del Cigno, sottoponendoglielo munito di note e accurate postille. Incapace di esternare i propri sentimenti. Ma sei sicura che ce li abbia?, le aveva domandato la sua migliore amica, l’unica che avesse mai avuto, mentre affettava grosse fette di prosciutto cotto, irregolari e troppo spesse, da mettere nel panino di Hiroshi. Erii aveva sospirato, rivelandole in un soffio che se l’era chiesto spesso pure lei, senza mai arrivare a conclusione sicura.

La prima volta che ci siamo baciati, io ho sentito che c’era, che era coinvolto. Aveva la pelle d’oca sulle braccia. Era stato quando erano usciti a cena fuori, come una coppia adulta, in un posticino delizioso che aveva scovato chissà come in un quartiere periferico di Nuova Luxor. Avevano riso e scherzato, mangiato poco, spettegolato molto. Lui era stato così carino, così perfetto, così umano. Sulle sue guance erano comparse molte volte quelle adorabili fossette che Erii amava tanto.

Lui l’aveva accompagnata a casa non troppo tardi, per non turbare la superiora che come minimo si sarebbe fatta uscire uno sfogo eczematoso alla vista di loro due insieme a quell’ora della sera. I corpi vicini, braccio contro braccio, le mani in tasca.

Un po’ prima dell’entrata posteriore dell’orfanotrofio Erii si era fermata, inchiodando sul posto ed alzando lo sguardo sul volto di lui, perfetto e bellissimo come un sogno. Grazie per la splendida serata, gli aveva detto sorridendo ampiamente, gli occhi brillanti per l’emozione ed il vino, che non beveva mai e che le aveva dato il giusto ardimento per issarsi sulle punte come una bambina e schioccargli un bacio timido sulla guancia, molto vicino alle labbra. Lui l’aveva afferrata per il gomito, gentilmente, per non farla andare via di corsa, come aveva in mente di fare perché troppo su di giri per ricevere altre emozioni quel giorno. Senza aggiungere altro le aveva sfiorato la bocca con la sua, morbida, che sapeva delle caramelle che si era infilata nelle tasche a manciate, da portare ai bambini più piccoli dell’orfanotrofio.

-Hyoga è un tipo strano, Erii, non lo so, non lo capisco.
-Nemmeno io se è per questo.
-Sarà bello e tutto quello che ti pare, ma io piuttosto preferirei uno un po’ bruttino ma -amorevole…o almeno psicologicamente stabile.
-Pensi che non lo sia?
-Non lo penso, ne sono sicura…

Una volta aveva perso il lume della ragione. Erano tre giorni che era partito per la Siberia orientale, in quell’angolo di pianeta dimenticato dagli dei e dal resto dell’umanità, freddo e desertico come aveva iniziato a credere fosse pure il suo cuore, e nemmeno una telefonata. Silenzio. Non un “sono arrivato”, tutto bene, il tempo qui fa schifo, sono vivo! Su un mi manchi non ci avrebbe di certo sperato, ma almeno su un respiro ancora…Dobbiamo parlare, gli aveva soffiato minacciosa come un gatto, gli artigli sfoderati e affilati sulla pietra focaia, quando lui era tornato e le aveva fatto una telefonata chiedendole di vedersi come se niente fosse, come se fosse sempre stato lì e si fossero sentiti appena il giorno prima.

Ti rendi conto di come mi hai fatto stare, brutto porco maniaco insensibile stronzo malato di mente??, si era profilato nella sua testa mentre si infilava il cappotto per uscire, i capelli tenuti alla bell’e meglio in una crocchia scomposta, un velo di rossetto sulle labbra, il mascara, l’ombretto. Miho non capiva perché Erii fosse tanto in collera con lui. In fondo, nel villaggio in cui Hyoga era stato addestrato e divenuto cavaliere, per quel che ne sapeva, ad eccezione di qualche impavida abitazione, non c’era presenza umana a sufficienza da garantire comunicazioni efficienti e puntuali come nel resto del mondo. E poi ormai doveva conoscerlo bene, il pollo.

-Abbiamo fatto l’amore, Miho, abbiamo fatto sesso e lui il giorno dopo è partito senza dire una parola, una, cristo, un cazzo di come stai, com’è stato, come ti senti dopo aver perso la tua immacolata verginità per uno che non ti merita??
-…
-Non che si debba parlare di certe cose, è successo e basta, ma, che ne so, almeno a farmi sentire che ci sei, che senti un qualcosa per me, un qualsiasi cosa, ma fammi capire che c’è!! Cos’è, timidezza la sua? Eppure quando si trattava di farsi una scopata non mi è sembrato tanto timido!
-…
-Cosa sono io per lui?? Questo, niente di più. Un’amica di letto? Bene, non c’è problema, basta saperlo. Che ne sai che non volessi anche io solo quello??
-Erii, stai sclerando…
-Io non posso andare avanti così, con uno che non ti dice niente, che quando IO, io, gli dico che mi sono innamorata di lui ammutolisce e guarda dall’altra parte, fa finta di niente per non dovermi rispondere!

Ma poi, quando si erano rivisti, Erii non era stata capace di dirgli tutto questo. Il volto di lui le era apparso così smagrito e sofferente che quasi si era sentita una terribile stronza per aver anche solo pensato tutte quelle cattiverie sul suo conto. Hyoga era una brava persona, su questo non ci pioveva. Non le avrebbe mai fatto del male, non avrebbe mai fatto qualcosa che potesse andare contro i suoi altissimi principi morali di cavaliere votato ad Atena. Scusami, Erii…perdonami se sono sparito per tutto questo tempo…avevo solo bisogno di pensare…

Le aveva sorriso, un poco, osservandola di sottecchi e stringendole forte la mano. In quel gesto c’erano più di mille parole, una muta richiesta di sostegno e appoggio che apertamente non le avrebbe mai rivolto. La battaglia alle dodici case, aveva pensato ricambiando la stretta, con la stessa intensità. C’entrava qualcosa il suo maestro. C’entrava qualcosa il senso di profonda sofferenza che gli aveva visto come un’impronta nella pelle i giorni trascorsi in ospedale. Ti amo Hyoga, gli aveva detto allora costringendolo a non abbassare lo sguardo, anche se questo lo avrebbe messo a disagio; non le importava. Lei era così, una ragazza semplice e spontanea, che amava dire in faccia quello che sentiva, che sognava un amore totalizzante e sincero e appassionato. Anche se forse aveva sbagliato persona per quello.

“Allora lumacona? Sei pronta?”
Miho era apparsa sulla soglia, borsone da piscina sulle spalle e sorriso giovane e spensierato sulle labbra. Erii sfiorò con le dita il dorso consunto del suo album, valutando di chiedere a Hyoga di fare delle foto insieme al suo ritorno. O forse non gliel’avrebbe chiesto nemmeno. L’avrebbe fatto e basta.
“Arrivo!”
Prese la borsa e cellulare, chiudendo nel cassetto la foto dei suoi genitori che avrebbe sistemato più tardi, insieme alla profonda nostalgia che sentiva per il ragazzo di cui, chissà perché, si era innamorata.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Nove ***


Capitolo Nove




Hyoga sfiorò la sua armatura con la punta delle dita, appena. Non riusciva a non pensare che l’ultima volta che l’aveva indossata, era stato per porre fine alla vita di chi, in fondo, aveva dato un senso alla sua. Ad ogni gambale infilato ed ogni sperone stretto, i ricordi sbiaditi di un santuario immacolato e di un uomo steso a terra nel suo sangue gli risalivano attraverso i nervi agli occhi, desiderando divenire lacrima, trattenuta. I mesi passati erano stati per lui una lunga guerra interiore, costellata di punti bui. Non era servito a niente indugiare razionalmente sugli eventi al di sopra delle loro volontà personali che li avevano costretti, maestro e allievo, a confrontarsi così duramente, fino alla morte stessa, e a niente era servito il calore della sua dea, Atena, che con le braccia spalancate li aveva ringraziati tutti innalzandoli sul palmo della sua mano. Camus dell’Acquario non esisteva più ormai, e non c’era ragione o divinità in grado di far cambiare le cose.

Il cavaliere del Cigno si osservò distrattamente allo specchio oblungo disposto nella sua stanza, contemplando con distacco la lucentezza del potente metallo, la fattura cangiante, l’aspetto più deciso. Era stato Milo, Milo di Scorpio, a donare il suo sangue per la sua riparazione. Lo stesso uomo che gli aveva concesso di oltrepassare indenne le spesse mura della casa che custodiva, convinto dalla sua forza di volontà, dalla sua tenacia da neocavaliere.
“Noi siamo pronti.” l’aveva avvertito Shun senza entrare, la testa che faceva capolino dallo stipite. Il suo aspetto gracile strideva con la durezza dell’armatura di Andromeda, con le catene pesanti che si trascinava dietro come fili di seta leggeri.
“Arrivo…” disse sistemando all’altezza del suo cuore, sotto la corazza, la croce dorata che sua madre gli aveva donato da bambino, prima di scomparire sommersa dai ghiacci eterni della Siberia.

Fuori l’aria era freddissima, ma priva di vento. Il sole era stato offuscato da una nube molto scura, densa di nevischio, e l’aspetto che la terra circostante aveva presto assunto incuteva quasi timore.
“Io mi recherò subito al picco della preghiera, in vece di Hilda, sperando che possa servire a qualcosa…”
Isabel aveva sospirato, guardando negli occhi i suoi cavalieri uno ad uno.
“Voi affrettatevi a palazzo e recuperate gli zaffiri…”

Flare si era stretta addosso il cappotto di Isabel, al fianco della divinità per la quale sarebbero andati di nuovo in battaglia, per la quale, chissà, forse non sarebbero nemmeno più tornati.
“Buona fortuna, cavalieri di Atena…” aveva sussurrato tesa e triste e in colpa perché aveva pensato che era stata Hilda la causa di tutto questo, non una volontà superiore che la stava rendendo schiava. Si avvicinò per ultimo al cavaliere del Cigno, trattenendosi un po’ davanti alla sua figura marziale. Osservò i contorni decisi della sua armatura, assieme a quelli regolari del suo volto giovane e pulito, contratto d’ansia. La sua mano si mosse da sola, risoluta, a sfiorandogli la guancia gelida per il freddo.
“Ti prego, Hyoga…fa attenzione…”

Erii gli aveva rivolto parole simili a quelle, l’ultima volta. Lui aveva evitato il suo sguardo supplice e colmo d’amore, che ormai aveva imparato a indirizzargli ogni volta che avevano una discussione. Sempre più spesso di recente.

Da quando le cose erano iniziate a precipitare? Hyoga non avrebbe saputo dirlo con certezza, perché all’inizio la presenza di quella ragazza allegra e spontanea aveva avuto il potere di mitigare come un unguento miracoloso il dolore ardente che sentiva dentro, che lentamente gli divorava le viscere. Lei lo amava, comunque, anche quando, in più di un’occasione, i suoi sentimenti non si erano dimostrati all’altezza dei suoi.

Guardò negli occhi la giovane donna che aveva di fronte, bellissima, con i lunghi boccoli disordinati che le scendevano sulle spalle, e le incorniciavano il volto. Da che l’aveva conosciuta, il biondo cavaliere di Atena non era stato affatto indifferente alla sua bellezza: le iridi verdissime, profonde, il naso piccolo, le guance tornite. Flare se ne stava lì ferma, con le spalle dritte, lo sguardo avvilito. C’era una compostezza regale in quell’immagine, un misterioso decoro che la faceva apparire come il punto esatto da cui ogni cosa aveva inizio e fine. Hyoga avvertì il suo cuore stringersi, e si sorprese, perché non era come quando pensava a Camus e la sofferenza che sentiva nel petto aveva il potere di togliergli il fiato.

“Farò attenzione…te lo prometto…”

***
Quando erano arrivati i draghi, Hilda aveva appena ricevuto Beslöja. Era poco più che una ragazzina, allora, con la testa piena di sogni e di ambizioni di armonia per il suo popolo. Non sapeva ancora che la pace era solo una bolla di fragile immobilità pronta a spezzarsi da un momento all’altro, una falla temporale del corso degli eventi, una stasi innaturale in cui la vita è un sottile nastro di illusioni che si distende lentamente su un piano di menzogne. O almeno questo era stato quello che Fafnir le aveva sputato contro con alito caldo e putrescente, che odorava delle carni cotte dei soldati sfortunati che aveva smembrato con le fauci.

Era un pomeriggio stranamente assolato quello. La primavera ad Asgard sapeva essere clemente a volte, rendendo il clima di quelle gelide terre molto simile ai paesi europei delle montagne centrali, secco e sereno, sopportabile e persino gradevole anche fino a tardi. Hilda, infagottata del lungo abito sacerdotale, una veste bianca e sottile soverchiata da un ingombrante pastrano d’argento, si era concessa qualche minuto di riposo dagli esercizi spirituali a cui Dhor aveva iniziato a sottoporla da che aveva preso il velo. Alla fine, ricevere Beslöja era equivalso né più né meno ad abbracciare un’esistenza monacale fatta di solitudine e preghiera, come una qualsiasi suora cristiana.

I raggi tiepidi del mattino avevano sfiorato le sue guance impercettibilmente, fin giù le labbra. Lei aveva steso le lunghe gambe davanti a sé, seduta sul bordo della grande fontana al centro del cortile, con acqua fredda zampillante che con le temperature più basse ghiacciava in intrigati sculture affusolate.
“Buongiorno Sacra Vestale…”
Alberich aveva abbassato il capo, a fondo, inchinandosi sulle gambe forti.
“Buongiorno a te, cavaliere di Megrez. Come mai da queste parti?”
Il nobile guerriero sorrise, schermandosi gli occhi dal sole accecante con la mano guantata. Indossava l’armatura, come se fosse pronto ad andare in battaglia o attendesse una qualche cerimonia ufficiale.
“Torno da una riunione…” erano state le sue uniche parole. Hilda si strinse negli omeri, senza chiedere altro.

In lontananza, dietro l’angolo che le mura del palazzo creavano con la costruzione adiacente delle cucine apparve un’altra figura armata, alta e slanciata, che si bloccò sul posto non appena visualizzò chiaramente la scena che aveva di fronte. Il cavaliere di Orion parve fare una smorfia, come di disappunto, prima di procedere verso di loro ad ampie falcate, l’andatura consueta con cui era solito farsi strada nel mondo.
“Sacra Vestale…”
“Sigfried!” aveva esclamato lei contenta, gli occhi grandi e limpidi dei suoi sedici anni che scintillavano di sincera gioia.

Alberich aveva saputo contenere il rammarico con l’aplomb che si confaceva al suo rango e alla sua antica casata. Già da tempo il cavaliere di Megrez aveva notato la confidenza che c’era tra i due, una confidenza che né approvava né reputava degna della custode di Beslöja. Con un rigido inchino si congedò, salutando con devozione la principessa di Asgard, senza lasciar cadere neppure un rapido sguardo sul cavaliere che gli stava severamente accanto.

“Cosa voleva?” le aveva chiesto subito Sigfried, con voce dura.
“Passava di qui…mi ha detto che avete avuto una riunione…”
Sigfried sospirò, vergognandosi per la ruvidezza con cui si era rivolto ad Hilda. Si sedette accanto a lei, con un impercettibile clangore di metallo.
“Si tratta di mio zio…” rivelò in un soffio, fissando intensamente l’azzurro del cielo terso, all’orizzonte. La spiò di sottecchi, indeciso se svelarle le sue preoccupazioni.
“Tuo zio? Fafnir?”

Sigfried annuì, muovendosi a disagio sul posto. Non gli faceva piacere parlare troppo di suo zio, il fratello riuscito male di Reginn, così come molti tra i commilitoni paterni bisbigliavano con malignità al passaggio del nano dalla lingua lunga come una serpe. Fafnir non aveva ereditato nulla della bellezza che la sua famiglia si tramandava come un tesoro di generazione in generazione: piccolo, tozzo, con la testa troppo grande e gli occhi piccoli e vicini, solo la sua spavalderia era stata capace di offrire un ruolo a quell’ometto respinto brutalmente dalla fortuna. Le sue labbra carnose, eccessivamente grandi nel complesso, si muovevano rapide come una spada quando voleva, affondando terribili stilettate a chiunque avesse avuto l’ardire di non prenderlo sul serio.

“Le spie di Dhor sostengono che stia tramando una congiura…”
Hilda rimase immobile, senza sapere bene cosa dire.
“Il fatto è che…in realtà è molto probabile…nessuno trarrebbe vantaggio dal denigrare uno come Fafnir…”
La principessa poggiò una mano sul braccio di Sigfried, delicatamente, con calore.
“Mi dispiace…”
“Anche a me.”
“E cosa pensate di fare?”

Il cavaliere di Orion si prese qualche secondo per rispondere. Dhor aveva proposto le forche, un’esecuzione esemplare al picco della preghiera come monito feroce per chiunque stesse confabulando con lui, che ovviamente non poteva essere da solo. Il traditore sarebbe stato sottoposto al giudizio di Odino, un antico rituale che il sacerdote aveva imparato segretamente a compiere e che gli avrebbe permesso di sapere con certezza se il fratello deforme di Reginn fosse davvero colpevole. Anche Hilda un giorno avrebbe appreso a fare lo stesso, non ora però. Beslöja era stata calata sul suo capo troppo di recente per conferirle la giusta connessione con la natura necessaria a compiere senza pericolo il rituale.

“Ancora non lo sappiamo…” mentì, per non turbare la principessa “Dobbiamo prima saperne di più su tutta questa storia…non credi?”
“Giusto. E poi ti dirò, tuo zio mi sta simpatico…anche se è imperdonabilmente irriverente, ha mente acuta e spirito pronto.”
Fin troppo, pensò senza replicare.

Sigfried avrebbe voluto aggiungere qualcosa, per prolungare ancora quella conversazione, per avere di nuovo il piacere di ascoltare la sua voce calda, di vedere le sue labbra morbide muoversi piano, come era solita fare, fantasticando di poterne percepire la consistenza sotto le sue. Anche se Hilda ormai era solo un sogno, irrealizzabile.

Qualcosa, però, in quell’atmosfera serena e ovattata all’improvviso si ruppe. Entrambi alzarono lo sguardo al cielo, che un attimo prima appariva terso e brillante ai loro occhi, luminoso. Un’ombra scura e oblunga attraversò i raggi luminosi del sole, trafiggendo con rapidità le scarse nuvole bianche, soffici, che decoravano la volta al di sopra delle loro teste. Un urlo disumano risuonò nello spazio circostante, scuotendo le cime innevate degli alti pini, stridulo, minaccioso. Dietro altre figure scure e dall’aspetto viscido scivolavano come serpenti.

“Non è possibile…” farfugliò il cavaliere di Orion alzandosi di scatto, inaspettatamente catapultato in uno spiacevole incubo.

***

Hagen aspettava il suo avversario dall’alto di una rupe rivestita di ghiaccio impenetrabile, vicino la caverna del fuoco. Non sapeva chi fosse, che aspetto avesse e quanto fosse forte, ma poteva avvertire nitidamente un cosmo gelido molto simile al suo. A mano a mano che lo sentiva avvicinare, il cavaliere di Artax lottava per trattenersi dall’andargli incontro, smanioso di sconfiggere il nemico. Nel corso delle ultime ore, Hagen aveva percepito nelle stelle la vita dei propri compagni spegnersi, come se una ventata inarrestabile e improvvisa le avesse spazzate via in un solo colpo. Era una sconfitta che gli bruciava dentro quella. Una sconfitta che avrebbe vendicato assieme al rapimento della principessa Flare.

Si spostò dal suo avamposto, scivolando elegantemente sugli speroni. La sua armatura riverberava dei bagliori che la neve dipingeva sul pregiato metallo, foderandolo di un innaturale candore. Ancora non riusciva a credere al tradimento della donna che amava, sebbene fosse stata proprio Hilda a farglielo presente, sebbene ogni cosa lo lasciasse presagire. Flare era una persona onesta e leale, pensò vagamente, se aveva ritenuto opportuno agire in questo modo, liberando il cavaliere di Atena che impudentemente aveva osato infiltrarsi a palazzo per aiutarlo a fuggire, doveva esserci un motivo che andava certamente al di là delle apparenze. E i suoi nemici avrebbero pagato anche per questo.

Finalmente all’orizzonte apparve qualcuno. Si trattava di un giovane cavaliere, protetto di un’armatura dai colori argentei, luminosi come la neve che li circondava. Aveva un aspetto stranamente nordico, con la carnagione chiara e i capelli biondi. Per un istante riconsiderò il suo cosmo. Gelido e impietoso, quasi come il clima delle sue amate terre.

“Il tuo cammino termina qui, cavaliere di Atena!” gridò Hagen parandoglisi di fronte e preparandosi allo scontro, i muscoli tesi dal desiderio di colpire, negli occhi la furia accesa della vendetta.
Hyoga inchiodò sul posto, assumendo istintivamente una posizione di difesa. Davanti a lui un uomo alto e possente, col volto parzialmente celato dall’elmo.
“Il mio nome è Hagen, sacro cavaliere di Odino, protetto dalla costellazione di Artax. Ricorda bene questo nome ragazzino, perché appartiene al guerriero che porrà fine alla tua esistenza!”

Dalle sue mani giunte, una raffica spietata di gelo si sprigionò sul cavaliere del Cigno. Hyoga espanse il cosmo in un bagliore, riuscendo a contrastare solo parzialmente l’incredibile forza del nemico. La sua armatura appariva come ricoperta di un sottile strato di brina, traslucido e ruvido al tatto, ma le sue ossa avevano accusato il colpo, nonostante in apparenza l’attacco sembrasse superficiale. Hagen tirò un sorriso sbieco.
“Non sono qui per combattere, cavaliere. Solo una cosa ti chiedo, per il bene di Asgard e della tua regina Hilda.” disse Hyoga cercando di non dare a vedere il dolore sordo che gli fasciava il braccio sinistro come un guanto.
Il cavaliere di Odino dapprima non replicò. Fissava l’avversario con una strana intensità, gli occhi ridotti a due fessure. Il colore delle iridi, verdissimo e liquido, pareva emanare saette.

Una sinistra risata si diffuse all’improvviso nello spazio silenzioso della foresta, insinuandosi tra le fronde come vento. “Il bene di Asgard…” farfugliò tra le risa, divertito e al contempo incredulo.
“Sta zitto! Che ne sai tu di Asgard e della nostra regina?? Come osi nominarla senza vergognarti di quanto tu e i tuoi compagni state facendo?”
Hyoga parve arretrare di fronte a tanto rancore, inaspettato.
“Fino a prova contraria, quelli che hanno dato il via a questa assurda e ingiustificata guerra siete proprio voi! Come osi tu parlarmi come se fossimo stati noi ad usurpare il regno di Asgard?!” scattò poi di rabbia, incapace di dialogare col cavaliere di Artax nonostante inizialmente fossero questi i suoi propositi. L’uomo che aveva davanti era arrogante e pieno di acredine. Sembrava combattere non solo per la sua gente e la sua regina, ma anche per se stesso, come se lui fosse stato in prima persona toccato dalla situazione.
“Voi avete raggirato e rapito la principessa Flare, mettendola contro sua sorella e il suo popolo. Un’azione tanto ignobile merita di essere lavata col sangue!”

Hagen scagliò sul nemico il temibile potere del Nord, con tutta la sua forza e il suo risentimento. La donna che amo. Non riusciva ancora a credere che gliel’avessero portata via.
Hyoga si difese prontamente, alzando attorno a lui un’inviolabile barriera di ghiaccio. Non aveva intenzione di combattere, almeno non prima di aver tentato di trovare un terreno di collaborazione, sebbene in quel momento quest’impresa gli sembrasse persino più grande della stessa guerra con Asgard.
“Cavaliere, ascoltami! La principessa Flare non è stata rapita…”

Per un istante Hagen parve allentare la presa. Hyoga si rilassò, incapace di mantenere troppo a lungo la barriera di difesa. “Flare mi ha seguito di sua spontanea volontà, perché la portassi da Atena. È stata lei a chiedere il nostro aiuto!” incalzò, sperando di far breccia nel ferreo livore dell’avversario. L’ondata di gelo del Nord cessò di colpo. Un silenzio pieno d’aspettative si posò sulle loro teste, greve.

Hagen ripensò all’ultima volta che aveva visto la principessa. In quell’occasione le aveva strappato un bacio, lungo e timido, incerto. Il sapore della sua bocca era divenuto come un veleno che s’infiltrava in tutte le sue vene, irrorandolo per intero. Aveva sempre creduto di amare Flare dallo stesso istante in cui era venuta al mondo. Dopo quel bacio però, il sentimento che nutriva verso di lei era cresciuto a dismisura, colmando del tutto ogni pensiero e desiderio della sua vita.

“Cedimi lo zaffiro che hai incastonato nell’armatura…” insisté il cavaliere del Cigno credendo che il nemico stesse finalmente cedendo. “Hilda è tenuta prigioniera da un maleficio, una sorta di sigillo imposto sull’anello che porta, l’anello del Nibelungo…” proseguì speranzoso, abbassando la guardia ed avvicinandosi di qualche passo.

Ora Hagen poteva vederlo meglio, in ogni singolo dettaglio. Era molto giovane, notò con disappunto, più giovane di lui. I suoi occhi erano di un azzurro intenso, di un tono più chiaro e brillante delle profondità dell’oceano che li circondava. I lineamenti erano regolari, piacevoli, e la carnagione chiara non era pallida come la sua, ma velata come di una sfumatura dorata. Con riluttanza ammise che era un bel ragazzo. Una qualità che avrebbe potuto catturare l’attenzione della principessa assieme all’aura di giustizia che si portava dietro come un biglietto da visita un cavaliere d’Atena. Mi ha seguito di sua spontanea volontà.

“Cosa le hai promesso maledetto per convincere Flare?! Cosa le hai detto??”

Il cosmo di Hagen s’incendiò come una torcia, facendo rifulgere di immenso potere la sua armatura come un faro. Hyoga non poté vedere il colpo arrivare, ma lo sentì. Una teca di ghiaccio lo avvolse interamente in un’esplosione di luce, lasciandolo senza fiato. Per un istante i suoi sensi sopiti dal freddo non poterono registrare quando accadesse intorno. Una luce azzurrina aveva deposto un velo sopra i suoi occhi, impedendogli di vedere bene il nemico.
“Flare vi ha sempre creduto superiori a noi, per il solo fatto d’aver prestato fedeltà alla dea della giustizia. Non immaginavo sarebbe stato sufficiente così poco per farti fuori!”
Il cavaliere del Cigno percepiva le parole di Hagen in maniera confusa, ovattata, come se tutti i suoni fossero stati inghiottiti dalla foresta. Faceva freddo nella teca, eppure quell’atmosfera a suo modo era piacevole, in grado com’era di intorpidire ogni pensiero. Se fosse rimasto così per sempre magari avrebbe smesso di sentirsi in colpa per Camus, di sentire terribilmente la sua mancanza, di avvertire costantemente quel senso d’oppressione che gli stringeva lo stomaco in una morsa.
“Morirai qui bel biondino. Dirò alla principessa che hai combattuto senza dignità, senza valore, tu che hai avuto la presunzione di portarmela via!”

Qualcosa scattò nella mente di Hyoga, come un pungolo che faceva sentire la sua punta acuminata in lontananza. Era questo allora, pensò in un barlume di lucidità, come sentendosi dal di fuori. Era per la principessa Flare che il cavaliere di Artax stava lottando in quel modo, con tutta la rabbia di cui fosse capace. I suoi pensieri si riempirono subito di lei, di come aveva affrontato la neve con determinazione quando erano scappati insieme, delle preziosi informazione che aveva fornito, dello sguardo colmo d’amore che aveva sempre per le sue bianchissime terre. Ricordò la sensazione di calore che aveva provato al tocco del palmo delle sue mani sul volto, di come gli avevano sfiorato la pelle con tenerezza, quasi si conoscessero da una vita. A stento si era trattenuto dal baciarla. Flare esercitava su di lui un’attrazione molto pericolosa.

Lentamente concentrò le forze nel richiamare a sé il proprio cosmo. Lo sentì crescere piano, all’altezza del cuore, il suo piccolo universo di energia che si dispiegava al centro per permettergli di attingere al potere delle stelle che lo proteggevano. Doveva ottenere quello zaffiro ad ogni costo. Per Atena, per Asgard. E per Flare.

Una bolla di luce abbacinante, più fredda della neve stessa, conflagrò all’improvviso, riducendo in mille pezzi la teca di ghiaccio. Hagen rimase a guardare attonito, immobilizzato sulle sue lunghe gambe. Da quella bolla si sprigionò un potere immenso, il potere di un cavaliere d’oro, feroce come la Siberia. Provò a resistere espandendo a sua volta il cosmo e preparandosi a lanciare un colpo, ma Hyoga fu più rapido, scagliando su di lui la violenza dell’aurora boreale. Il cavaliere di Artax venne respinto per molti metri, fino alla roccia su cui qualche minuto prima stava scrutando l’orizzonte in attesa del nemico. La durezza della pietra toccò la sua testa con brutalità. Se non avesse avuto l’elmo a proteggerlo, Hagen sarebbe morto.

“Cedimi lo zaffiro.” disse Hyoga aspramente. “Cedimelo e ti risparmierò la vita.”

Hagen sputò a terra un grumo di sangue. A fatica si rimise in piedi, avvertendo le proprie costole scricchiolare. La sua mente lavorò rapida, cercando il punto debole del nemico.
“Tu devi essere il cavaliere di Cygnus…” proferì tentando di prendere tempo “Il gelo della Siberia è ben poca cosa rispetto a quello di Asgard, ma il tuo maestro deve averti addestrato bene…”
Hyoga sentì il suo cuore restringersi come in un pugno. Il pensiero di Camus gli invase prepotente i pensieri. Non replicò, pronto a colpire.
“Se vuoi questo zaffiro, devi venire a prendertelo!” gridò infine prima di scomparire dentro la bocca minacciosa di una caverna.

_________________________________________________________________________

Qualche precisazione: il mito di Sigfrido e Fafnir è stato un po’ ritoccato…un po’ tantino in realtà, ma mi piaceva che Sigfried avesse un padre buono e forte, nobile, da cui trarre esempio. Buona lettura!

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Dieci ***


Capitolo 10




Flare pregava silenziosamente, le mani giunte al petto. Kiki, dietro di lei, giocava con una pietra, disegnando sulla neve infantili scene di battaglia.
I cavalieri di Atena erano partiti già da qualche ora, correndo incontro ad uno scontro difficile e dall’esito incerto. Non sapeva che piega avesse preso la battaglia, né s’era soffermata troppo a chiederselo. Da ambo le parti, per lei sarebbe stata comunque una sconfitta.

Sospirando, rivolse un fugace pensiero a Hilda. L’ultima volta che l’aveva vista, la regina di Asgard le aveva indirizzato una breve occhiata gelida, priva di luce e calore, del tutto insensibile alle lacrime che erano rotolate giù da sole, senza che lei potesse far nulla per fermarle. Sapere che sua sorella era sotto il controllo di una volontà aliena da una parte la turbava profondamente, ma dall’altra la rasserenava, perché Hilda ne era ignara.
“Isabel deve essere stremata…” sussurrò, le mani ancora giunte in atto di preghiera.
Kiki annuì, sedendosi vicino a lei.
“Atena è forte. È una dea, vedrai che ce la farà…”

Flare non rispose. Sapeva che Atena era potente, ma sapeva pure che al di là della divinità c’era un corpo di fanciulla, delicato e fragile almeno quanto il suo. Checché ne dicesse Kiki, la principessa non condivideva la speranza che Isabel potesse resistere ancora a lungo.
Odino…quando finirà tutto questo?

“Ma…” Kiki si scosse all’improvviso, lo sguardo attento concentrato in un punto impreciso davanti a sé.
“C’è qualcosa che non va?” domandò la principessa con malcelata preoccupazione.
“No…direi di no…impossibile…”
“Cosa è impossibile Kiki?”
“Niente, è che m’era sembrato d’aver percepito Hyoga in pericolo, ma non credo che in tutta Asgard esista un luogo simile…” rispose lui pensieroso.
“Un luogo come??” scattò Flare mentre i contorni di un brutto presentimento iniziavano ad assumere fattezze precise. Kiki rimase sconcertato dalla reazione della principessa e per un istante parve arretrare. “Una caverna…” disse con riluttanza “Una caverna piena di lava…”

***

L’armatura di Artax era stata forgiata dalle lave arroventate del Kuklövs, un anello incandescente di grotte sotterranee che circondava la base del monte più alto della regione. Il suo metallo era capace di resistere al caldo e al freddo assieme, assorbendone il potere penetrante fino alle fibre più interne.

Questo era stato decisamente un bene quando erano arrivati i draghi. Lunghi serpenti alati ricoperti di fitte squame scure, che riverberavano sui bordi la luce accecante dell’inverno, all’improvviso erano apparsi tra i raggi del sole che in quella stagione era appena tiepido, scivolando silenziosi nell’aria come cupi stendardi minacciosi. Numerose teste si erano allora alzante verso l’alto, a guardare immobili quegli esseri spaventosi che già avevano iniziato a spalancare le proprie fauci sulla popolazione.

Aveva sentito Flare gridare forte, quel giorno. Nel bosco d’ametista, tra le suggestive stalagmiti violacee che emergevano dal terreno come rocce, la principessa di Asgard, allora così giovane, con le guance piene di carne e bellezza, non aveva saputo fare altro. Si era pietrificata tutto ad un tratto, fissando lo sguardo verdissimo sui frammenti di cielo che la fitta trama degli alberi lasciava a mala pena intravedere. Così da lontano, in realtà, non erano nemmeno stati in grado di vederli i draghi, ma il bagliore sfolgorante del fuoco che avevano vomitato sulla città inerme era stato invece abbacinante.

Hagen era corso ad indossare l’armatura. Durante il tragitto a palazzo, la mano ben salda su quella minuta di Flare, fredda e pallida, il cavaliere di Artax quasi non era riuscito ad avvertire le gambe sotto di sé, dove i muscoli vibravano convulsamente di ansia e paura. La sua investitura risaliva solo a pochi giorni prima, quando assieme a un’altra manciata di giovani imberbi come lui era stato benedetto dalla mano rugosa di Dhor, che, con un cerimoniale pomposo, aveva suggellato il loro onore. Fino ad ora i suoi combattimenti erano stati solo esercitazioni programmate in cui sapeva che non sarebbe mai morto, ed Hagen non aveva davvero idea se fosse giù autorizzato a sentirsi pronto per una battaglia vera.

“Nasconditi qui, Flare…fa caldo, ma sarai al sicuro…”

L’antro dell’anello di Kuklövs appariva come poco più che un grosso buco, l’ovale perfetto della tana di un grosso orso. Il vapore ardente che più all’interno ricopriva le pareti rocciose, rendendo le caverne ostili e irrespirabili, non arrivava fin dove Hagen aveva fatto sedere la principessa, proprio dentro una piccola rientranza della montagna che da fuori era quasi invisibile, ma il caldo era comunque percepibile, e abbracciava ovunque l’aria circostante.

“Non mi lasciare, ti prego! Sono sicura che a palazzo
“No!” aveva urlato, incapace di gestire l’incubo mitologico in cui erano piombati. Flare aveva sgranato gli occhi, guardandolo scioccata.
“Devo sbrigarmi a scendere in campo!” O non rimarrà più nemmeno l’ombra del palazzo dove desideri tanto rifugiarti

Ma non gliel’aveva detto. Flare era solo una bambina di appena dieci anni, una principessa bellissima cresciuta tra luccicanti argenterie e stoffe preziose, centinaia di inservienti pronti ad esaudire ogni suo desiderio, tra pareti pesanti e sicure che avevano avvolto la sua infanzia in un’impenetrabile bolla. Cosa poteva saperne lei della guerra? Anche se non aveva mai affrontato uno scontro reale, Hagen sapeva bene cosa era voluto dire per lui, in tutti quegli anni, sottoporsi quotidianamente all’estenuante addestramento che l’aveva fucinato nel corpo e nella mente. Sapeva bene cosa voleva dire essere cavaliere.

“Tornerò presto, te lo prometto…” aveva fatto allora più dolce “Ma tu devi promettermi che starai qui e non ti muoverai per nessuna ragione…”
Flare aveva annuito, distogliendo lo sguardo come era solita fare quando non era del tutto convinta di qualcosa.
“Me lo devi promettere…” aveva insistito.
“…va bene…te lo prometto…”

Era stato allora che aveva iniziato a correre davvero. La neve era scivolata sotto ai suoi piedi come un impalpabile velo, leggerissimo, mentre i suoi gambali lasciavano sul terreno profonde increspature. Aveva indossato l’armatura in pochi attimi, avvertendo per la prima volta il potere vasto e arcano che quell’inusitata lega metallica imprigionava nelle sue maglie. Il cosmo di Artax ne impregnava tutte le fibre, e queste lo trattenevano a sé come una garza imbevuta. Hagen si era sentito sicuro, perché con un potere tanto grande nel corpo non avrebbe potuto soccombere.

Solo davanti agli occhi piccoli e vicini, gialli come paglia, di un drago tozzo e scuro la sua spavalderia era un poco vacillata. Si trattava di una creatura squallida e maleodorante, mostruosa, ma per un verso affascinate. Era una creatura leggendaria, mistica, magica. Le sue narici erano grandi come la sua testa, umide suoi bordi, da cui uscivano costanti e rumorosi sbuffi di fumo nero.

“Cavaliere di Artax…” aveva sibilato simile a un serpente. Dalle sue enormi fauci era gorgogliato un borbottio sommesso che solo alla fine si era mutato in risata.
“Cosa vorresti fare tu, sciocco ragazzino, con i tuoi miseri giocattoli?”

Un rivolo di sudore freddo era scivolato lungo la schiena, gelido. Ma Hagen era rimasto immobile, contemplando di sottecchi lo scenario che si profilava devastante alle spalle del drago. Molti corpi giacevano riversi, con la faccia nella neve, contornati da aloni scuri di bruciatura. Non riusciva a scorgere i suoi compagni da nessuna parte, mentre i plotoni dell’esercito erano già tutti schierati, seppur dimezzati.

In tutta la sua vita, Hagen non avrebbe mai potuto immaginare di vivere un giorno una situazione simile. Dietro di sé, una distesa lattescente di ghiaccio si estendeva a perdita d’occhio, giù fino al mare, fino alle rocce aguzze, fino al picco della preghiera dove Dhor celebrava gli antichi rituali di Odino. Davanti, un mostro con una chiostra di denti affilati scoperta, piccoli pugnali d’osso con cui ridurre carne a brandelli.

In quella disperata prova di sopravvivenza, il cavaliere di Artax avrebbe finalmente conosciuto la sua forza, il limite estremo verso cui potersi spingere.

***
“Fenrir…”
“Che cosa?”
“…è stato sconfitto…”

Sul volto di Alberich non era comparsa alcuna emozione nel dare la notizia della morte del cavaliere di Luxor. Sigfried sgranò gli occhi che quel giorno avevano acquisito un’intensa sfumatura grigia, dello stesso colore del cielo annuvolato che gravava sulla città come una cappa. La sue labbra sottili si schiusero appena, lasciandosi sfuggire solo un gemito di sorpresa.

“Com’è possibile…” sussurrò piano, volgendo l’attenzione all’officiante di corte che con la sua buffa andatura saltellante si era andato ad accomodare accanto al fuoco. Vagal si era sfilato i piccoli occhiali rotondi dal naso e si era affaccendato a pulirli con il fazzoletto bianco che teneva nel taschino.
“Per Thor non c’è stato nulla da fare…” furono le sue uniche parole.

Quella mattina, lui e Sigfried aveva avuto una lunga discussione. Approfittando di una ferita superficiale che la regina si era procurata nel maneggiare con disattenzione la lama affilata dell’antico stiletto di suo padre, un pezzo d’antiquariato ormai, il kandhaliano, nonostante le reticenze del cavaliere del Drago, non aveva esitato a leggere di nuovo i fumi.

“È più grave di quanto pensassi.” gli aveva rivelato secco, porgendogli una strana mistura a suo dire corroborante. Sigfried aveva annusato con diffidenza la bevanda fumante, dall’odore un po’ stantio, prima di nascondere la tazza dietro un inquietante mezzo busto di marmo che rappresentava Sinikka Rosa, la madre di Hilda.
“Noi kandhaliani abbiamo un detto: più grave della morte, c’è il vento che porta la morte. Il nostro popolo ha sempre ritenuto che gli elementi dell’aria, fumi compresi, sono portatori di messaggi, e l’esperienza ce ne ha sempre dato conto.”
“Messaggi…Vagal, ti prego, ne abbiamo già
“E te ne dirò un altro: non c’è vento che rechi messaggio alle orecchie di chi non vuole intendere…”

Sigfried non riuscì a trattenere un sorriso. Il suo pensiero corse stranamente ad Hilda, al modo in cui aveva smesso di ascoltarlo, ai suoi occhi freddi e asciutti che non distinguevano più nemmeno la sua ombra. Nelle ultime ore la vita ad Asgard si era srotolata come lungo uno strapiombo, a capofitto verso la rovina, senza che nessuno potesse a questo punto più arrestarla. Nel burrone ci erano finiti Thor e Fenrir, l’ululato del lupo, Mjöllnir con tutta la sua devastante potenza. E Hilda non aveva battuto ciglio, presa com’era dalla rabbia che sentiva per la sorella che l’aveva tradita.

“Non ho bisogno di fumi per capire che così non va…”
Vagal non replicò, osservandolo in silenzio attraverso i suoi occhi piccoli e ravvicinati, straordinariamente simili a quelli di Fafnir. L’ultima volta che Sigfried aveva guardato suo zio in faccia, il nano aveva già assunto la forma e le dimensioni di un nero drago squamoso, con gli occhi gialli grandi come un otre. Ma nell’insieme, tra quelle creste dure di pelle coriacea di rettile, quelli apparivano ancora piccoli e ravvicinati come li aveva sempre avuti.
“Ma hai bisogno dei fumi per capire come finirà. Finirà molto male, cavaliere di Drago. Più grave della morte
“Lo so, c’è il vento che la porta…”

Si squadrarono senza dire niente, per qualche secondo.
“Questa volta il vento la porta per tutti. Non risparmierà nessuno. Nei fumi ti ho visto, Sigfried, ti ho visto brillare nel cielo come una cometa.”

Il cavaliere di Orion si passò ruvidamente le mani sul volto. Anni addietro aveva perso il dono della preveggenza per colpa di Dhor, ma l’invulnerabilità che il sangue di Fafnir aveva conferito al suo corpo era ancora lì a permeare in profondità ogni suo arto, muscolo, fibra. La carne del drago si era mutata nella sua, scendendo calda attraverso la gola, fino al ventre.
“Nessuno può sconfiggermi…” sostenne a voce alta, come cercando più di convincere se stesso che Vagal.
L’officiante serrò le labbra.
“Non è quello che pensasti quando ricevetti la preveggenza?”

Sì. Sigfried aveva pensato proprio quello quando aveva scoperto di poter spiare nel futuro. E adesso pensa che ha paura, che è confuso, che non si riconosce più, né lui, né Hilda. Flare corre e prega, prega perché teme di essersi innamorata della persona sbagliata, di ferire chi la ama più di quanto non abbia già fatto. Corre, attraverso la neve, attraverso la brina gelida, cade e si rialza. E intanto Kuklövs è una cerchia di mura infuocate.

Ha paura anche il cavaliere del Cigno. La caverna è calda e soffocante, si ripiega sopra la sua testa. Non ne ha invece Hagen, che conosce perfettamente i limiti estremi verso cui può spingere il suo cosmo. E Hilda stringe tra le mani il canarino nella gabbia, stringe fino a farlo sanguinare, perché questa è la fine dei traditori, la fine di chi la ostacola, persino di Flare. Lo sguardo duro e tagliente che spaventa Sigfried. Anche se ancora, nonostante tutto, la segue.

“Hilda è la nostra regina, celebrante di Odino, in diretto contatto con lui. Forse siamo noi a non capire…” disse infine tornando a guardare Vagal, senza nemmeno crederci davvero.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Undici ***


Capitolo 11




L’ingresso della caverna aveva inghiottito il cavaliere di Artax come una bocca famelica. Aguzzi denti di ghiaccio ne contornavano le fauci, che si aprivano come un pozzo infinito che precipitava nell’abisso.

A Hyoga quella gola profonda ricordava moltissimo l’apertura che qualche tempo prima, un tempo che ora gli appariva così lontano e distante, quasi impalpabile, aveva aperto con la forza del suo pugno nella banchisa durissima. Si era ferito le nocche al contatto col gelo di quella spessa lastra che, sotto di sé, preservava ancora intatto il corpo sottile della madre. Le mani avevano sanguinato, in perfetta sincronia con il cuore che non aveva mai cessato di riversare fuori il dolore della sua perdita.

Rammentava più di tutto il volto, di Natassia. Il corpo invece, un giunco flessuoso che da bambino gli era sembrato altissimo, rimaneva una figura indistinta di cui nitido era solo il profumo e il calore che possedeva, l’odore di buono che poteva respirare quando lei lo chiudeva nella stretta del suo abbraccio, per proteggerlo, perché era piccolo, perché erano soli.

Non si era mai arreso a quella morte prematura. Forse perché era stata troppo rapida e irreale, come un brutto film dalla pessima regia e sceneggiatura, o forse perché lei, quando l’aveva spinto con disperazione dentro la piccola scialuppa che l’avrebbe salvato dall’acqua, fingendo una sicurezza forzata, gli aveva promesso che si sarebbero ritrovati a terra, di nuovo insieme. E lui aveva sempre saputo che una promessa e una promessa, e non poteva non essere rispettata.

Indugiò davanti a quell’incavo opalescente, che rifletteva sui bordi i pigri raggi del sole. Pensò ai suoi compagni, che in questo momento stavano affrontando un avversario potente come era stato Thor, determinato come lo era Hagen. Pensò a Isabel che sfidava il potere paralizzante del freddo, immobile come una statua sul picco della preghiera, con gli occhi e le labbra serrate.

Quella era stata la volta buona. Finalmente era stato capace di espandere il cosmo al punto di aprire un varco in quella barriera così massiccia, scavando un buco irregolare e profondo. L’abbraccio degli abissi era stato sferzante, quasi mortale, nonostante il cosmo, nonostante il desiderio di rivedere le fattezze amorevoli di Natassia. Ma era stato molto deciso, Hyoga, di quella decisione che avrebbe potuto fare di lui il cavaliere ideale.

- Se non fosse per la motivazione sbagliata…

Perché aveva agito a quel modo? Perché Isaac aveva dovuto seguirlo? Sarebbe dovuto divenire lui cavaliere, che invece era mosso sempre dalle motivazioni giuste.

Camus non gli aveva parlato a lungo per quello che era successo. Erano trascorsi giorni interminabili, infinite notte insonni, prima che tornassero a condividere lo spazio che li circondava senza la metallica tensione che separava i loro fianchi come una lancia. Avevano continuato ad allenarsi anche dopo la scomparsa di Isaac, anche dopo che il maestro era rientrato senza averlo ritrovato, con i capelli lunghi impregnati di cristalli bianchi e le sopracciglia dritte come spini. Hyoga aveva pianto silenziosamente, dentro di sé, senza lasciarsi sfuggire una lacrima perché credeva che quello avrebbe fatto infuriare Camus.

- Sono sicuro che sarai un ottimo guerriero…un vero cavaliere…se non fosse per la motivazione sbagliata…

Dopo un tempo che a Hyoga era parso non potesse mai avere fine, Camus gli aveva finalmente rivolto la parola. Aveva serrato le mascelle come ranghi armati di un esercito, e da fuori si era avvertito lo sfregare stridulo dei denti. Ma lui già si sentiva più rilassato, libero di respirare di nuovo, perché per tutto quel tempo era come se avesse trattenuto il fiato in attesa di una reazione del maestro.

- Mi dispiace…
- …
- Non merito l’armatura del Cigno…

Era vero. Hyoga comprendeva la crudezza di quella verità come se avesse una forma che poteva toccare con le dita. Lui non era come Isaac, che l’avrebbe sicuramente meritata, non era spinto ad addestrarsi per inseguire inconsistenti ideali di giustizia e sacrificio. Lui, la sacra armatura di Cygnus, non la voleva affatto. Perché in fondo Hyoga non voleva essere un cavaliere, non voleva che la sua vita venisse inderogabilmente stabilita da qualcuno che non fosse lui stesso, senza possibilità di appello. 

- Questo lascialo giudicare a me.

Aveva borbottato Camus, scostandosi nervosamente una ciocca di capelli da davanti agli occhi.

- Mi dispiace per Isaac…mi dispiace di essere stato così stupido…

Finalmente aveva pianto. Sentiva di doverlo fare da tanto, ormai, dal giorno stesso in cui si era ritrovato disteso sulla banchisa, a fissare il cielo grigio sopra di sé. Isaac l’aveva salvato dalla sua avventatezza a caro prezzo, un prezzo che davvero non valeva la pena pagare. Il suo futuro, i suoi ideali, la sua giustizia. Di tutto questo, ormai non ci sarebbe stato più niente.

- Sono io che ho fallito, Hyoga…non ho saputo insegnarti il vero significato dell’essere un cavaliere di Atena…

Non avevano più ripreso il discorso. Ed ora, a conti fatti, il cavaliere di Cygnus, nella sua candida armatura di un tono appena meno latteo della neve, ma più luminoso, tra le centinaia di altre cose che avrebbe voluto dire a Camus, sapeva che c’era anche questa. Aquarius non aveva fallito, non era stata colpa sua se Hyoga aveva voluto mettere davanti ai suoi doveri il personalissimo desiderio di rivedere Natassia.

Rivolse un ultimo pensiero al suo maestro nel varcare l’imbocco della caverna, e, per la prima volta dallo scontro alle dodici case, Hyoga scoprì quanto fosse profonda la voragine che la sua scomparsa aveva lasciato nella sua esistenza. Allora desiderò che potesse sentirlo e lo pregò segretamente di perdonarlo di tutto.

***

Nuova Luxor era una città dall’aspetto ordinato e caotico assieme. Le abitazioni, gli uffici, i palazzi altissimi, tutto era disposto su immaginarie linee parallele e dritte, che s’incrociavano a distanze regolari. I semafori, di tanto in tanto, scattavano all’unisono, sciogliendo all’improvviso le briglie delle automobili disposte in fila indiana, pronte a gettarsi nel traffico.

Erii si fermò davanti alla vetrina di una libreria, stringendosi nella giacchetta leggera acquistata in saldo la settimana prima. Di lì a poco lei e Hyoga avrebbero festeggiato il loro anniversario, sette mesi insieme, ma non aveva ancora pensato ad un regalo per lui. Forse era sciocco celebrare una ricorrenza tanto insignificante, una data tra tante in fondo, uguale a tante. Specie se si trattava di Hyoga.

Spiò distrattamente qualche titolo esposto: best-sellers sui vampiri, classici riproposti in abito moderno, raccolte di poesie. Lui non era esattamente il tipo da ricorrenza. Ad eccezione del compleanno e del Natale, Erii non ricordava di averlo mai sentito affaccendarsi per l’onomastico di un amico o la festa di Ognissanti. Anche se quella volta, almeno per lei, era stata magica.

Si trattava del loro primo anniversario. Hyoga l’aveva invitata a Villa Kido perché quella sera non ci sarebbe stato nessuno. Isabel aveva una cena d’affari, noiosa e abbottonata come tutte le cene in cui lady Kido si sarebbe certamente sentita a suo agio, e Shun sarebbe uscito con una ragazza conosciuta al liceo, uno dei suoi tanti amori spassionati ed improvvisi di cui spesso, incostante, il cavaliere di Andromeda finiva col trovarsi in balia.

Aveva cucinato per lei, quella volta. Piatti tipicamente siberiani, dal sapore corposo e squisitamente nordico, trasudante calorie e nostalgia per il suo paese, un’infinita landa ghiacciata inospitale che Erii aveva sempre trovato ben poco attraente. Lei aveva trovato straordinariamente romantico il loro anniversario. Perché Hyoga ci aveva messo, in fondo, un pezzettino di sé.

La sua attenzione fu colpita dalla copertina di un romanzo fantasy di cui non lesse nemmeno il titolo, scritto da un autore dal nome impronunciabile, che rappresentava l’immagine di un cavaliere nel mezzo di una tempesta di neve. Per un istante lo ricordò così, come l’aveva visto quando attraverso i suoi occhi era passato lo sguardo feroce di un’altra persona, dalle sue mani il potere spaventoso di una divinità oscura. In quella caverna buia e umida, Hyoga le era apparso quasi come una visione, avvolto com’era dal bagliore lucente del suo cosmo.

“Ciao bellissima!”
Erii aveva distolto lo sguardo dalla vetrina. Accanto a lei, un ragazzo alto e dall’aria dinoccolata la guardava sorridente, mettendo in mostra una fila metallica di ganci che aveva lo scopo di tenere in ordine i suoi denti.
“Komatsu, che ci fai qui?” gli aveva risposto involontariamente brusca perché il suo umore galleggiava ancora nell’inquietudine che il pensiero di Hyoga le aveva trasmesso.
“Anch’io sono felice di vederti!”

Erii arrossì, e mentalmente maledisse la stranezza del suo ragazzo che la metteva sempre di malumore. “Scusami, è che…oggi è una di quelle giornate no…”
“Fa niente…”
Komatsu si guardò intorno, come se fosse alla ricerca di qualcuno in particolare.
“Il tuo fidanzato fotomodello ti lascia andare in giro da sola?”
“Hyoga non c’è.” disse soltanto, abbassando gli occhi grandi e caldi a terra.

La prima volta che avevano fatto l’amore, lui, dopo l’amplesso, le aveva detto che i suoi occhi erano rassicuranti e profondi coma una tazza di cioccolato. Lei non aveva saputo se doverlo prendere come un complimento, ma era stata comunque felice di sentirgli esprimere una qualche parvenza d’emozione. E lei, a momenti come quelli, ci si aggrappava con tutte le sue forze per trovare i motivi che li tenevano ancora insieme.

“Non lo so…è un po’ strano…” sospirò davanti al succo d’arancia che Komatsu le aveva gentilmente offerto. Forse non avrebbe dovuto accettare. Forse, nella sua agguerrita ingenuità, Komatsu sperava davvero di avere qualche chance con uno come Hyoga.
“Perdonami, ultimamente ho il vizio di ammorbare le persone con i miei problemi sentimentali…”
Non sapeva perché gli stesse raccontando tutto questo. Lui la guardava stralunato, con grandi occhi sbarrati pieni di interrogativi.
“E i tuoi amici cosa dicono?”

Già, gli amici. Miho, negli ultimi due mesi, aveva tentato di presentarle possibili nuovi fidanzati un numero spropositato di volte.
“Senti, Komatsu, cambiamo argomento. Oggi non ho voglia di arrabbiarmi.”
“Come vuoi!” le aveva sorriso lui.

Senza volerlo, Erii ripensò alla copertina del romanzo in vetrina, alla distesa di ghiaccio interminabile alle spalle del cavaliere, alla fanciulla che si intravedeva sullo sfondo. Avvertì i lembi del suo stomaco intrecciarsi come una corda, lunghissima e stretta. Si chiese come stesse Hyoga, dove si trovasse, che cosa stesse facendo ora. La sua bocca si tirò in un sorriso forzato, al di sopra della lontananza, del timore e l’amore stesso che provava devastante per lui.

“Grazie Komatsu…sono contenta di averti incontrato oggi…”

***

Hyoga non aveva mai sofferto tanto il caldo in vita sua. Dentro la caverna in cui Hagen s’era rifugiato, il clima era insopportabile, afoso ed opprimente come una cappa rovente. La roccia era bollente al tatto, come se sotto di essa braci ardenti sfrigolassero in continuazione. Ma che razza di posto è mai questo?, si chiese il cavaliere del Cigno passandosi una mano attorno al collo. I pettorali dell’armatura lo stavano torturando, comprimendolo in una morsa d’acciaio. Avanzò di qualche passo, con evidente fatica. Ad ogni movimento sentiva la sua forza venir meno, avvolta dal peso di quel calore infernale.

Improvvisamente, sotto i suoi piedi si spalancò una voragine abbagliante: un fiume di magma liquido scivolava lentamente nel sottosuolo, divorando tra le terribili fauci la pietra che incontrava nel cammino. Fumi di vapore si alzavano da quello spaventoso spettacolo con estenuante lentezza, condensando sul tetto della caverna in gocce enormi.

“La costellazione di Artax infonde potere straordinario in questa magnifica armatura, forgiata direttamente da queste lave arroventate. Due nature convivono nel cavaliere che la custodisce: una, artica e feroce, sfrutta il rallentamento del moto degli elettroni per agguantare il nemico in una morsa di gelo…l’altra invece si sostanzia del loro vorticare, del loro saltare di stato in stato sviluppando nel loro ritorno insostenibile calore, impietoso e inarrestabile.”

Hyoga volse lo sguardo in direzione della voce che inaspettatamente aveva riempito col suo tono profondo le pareti della  caverna. Hagen si trovava sotto di lui, al centro di quel fiume rosso brillante, perfettamente a suo agio tra i fumi venefici del magma. Scrutava il suo smarrimento con aria beffarda, un sorrisetto sghembo in cui a mala pena s’intraveda il candore della dentatura.

“Scendi quaggiù, cavaliere di Cygnus. Vediamo quanto sei bravo nel mio territorio, lontano dal freddo che tanto sembra confortarti…”
“La tua forza è notevole Artax. Ma altrettanto notevole è la tua codardia. Affrontami fuori se ne hai il coraggio!”
Hagen rise. Dapprima piano, quasi dentro di sé, come un ribollio interiore che si dissipava man mano che diffondeva. Poi più forte, rumorosamente, beandosi del terrore che poteva leggere negli occhi del suo avversario.
“Piccolo sciocco. Credi davvero che m’importi cosa pensi? Scendi e combatti se ci tieni allo zaffiro. Io non mi tirerò certo indietro…”

Hyoga avvertì un rivolo di sudore gelato solcargli la schiena. Si passò rapidamente il dorso della mano sulla fronte, senza stupirsi di quanto fosse bagnata. Se non mi uccide lui, prima o poi lo farà il caldo. Ignorando la debolezza, il cavaliere del Cigno raggiunse l’avversario con un balzo. Là sotto il caldo era ancora più opprimente, ma Hyoga finse di non avvedersene.
“Non impiegherai molto a morire, sta tranquillo…” disse Hagen prima di raccogliere le forze per scagliare sul nemico un colpo pieno di rivalsa e rancore.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=859799