Storia di un cane di Me91 (/viewuser.php?uid=25338)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo & Primo Capitolo ***
Capitolo 2: *** Secondo Capitolo ***
Capitolo 3: *** Terzo Capitolo ***
Capitolo 4: *** Quarto Capitolo ***
Capitolo 5: *** Epilogo ***
Capitolo 1 *** Prologo & Primo Capitolo ***
Storia di un cane
Prologo
Il
mio respiro è affannoso, la lingua pende fuori
dalla bocca facendo cadere calde gocce di saliva a terra e gli occhi
sono
spalancati, impauriti.
Sono
nervoso.
Intorno
a me luci, strani suoni, voci attenuate,
forse vengono da un’altra stanza. Nella mia visuale, fatta di
pochi colori, le
forme degli oggetti sono sbiadite più del solito; il fatto
di non riuscire a
vedere bene mi agita ancor di più.
Tento
invano di alzarmi, ma questo mi provoca un
sussulto doloroso al cuore che mi leva il respiro. Ansimo ancora
più forte,
costretto a posare di colpo la testa sulle zampe che mi sento pesanti,
intorpidite.
Sono
così debole...
Mi
sfugge un gemito, e poi un altro, a due respiri
più profondi; inspirare l’aria non è
mai stato così doloroso. Sono costretto a
chiudere gli occhi, gemendo ancora, mentre il cuore mi pare stia per
scoppiare,
da quanto batte forte.
Ancora
qualcuno che parla; non riesco a capire, mi
fischiano le orecchie.
Un
guaito spontaneo quando qualcosa punge la mia
zampa anteriore, già tesa e dolorante di suo; provo
istintivamente ad alzarmi
per scappare, ma noto con orrore di non riuscirci. Le zampe posteriori
non le
sento più da diverso tempo, ormai, ma adesso anche il resto
del corpo sembra
davvero pesante, addormentato.
Sono
spaventato, mi rendo conto di essere immobile e
di non percepire quasi nessuno stimolo esterno.
Continuo
a guaire dalla disperazione, dal dolore; i
miei lamenti devono essere davvero acuti, sento infatti qualcun altro
della mia
specie rispondere addolorato al mio pianto.
Improvvisamente
il suo odore mi investe e la sua
mano calda si posa dolcemente sul mio capo, mentre
l’altra mano va a
solleticarmi sotto il muso, proprio come adoro.
E
infine la sua
voce ferma, così rassicurante alle mie orecchie, che si
rivolge proprio a me.
Apro
stancamente gli occhi, smettendo di piangere,
giusto per osservare il suo viso e
il
suo sguardo a pochi centimetri dal
mio.
«Ehi,
amico... va tutto bene» mi sussurra, con il suo
piccolo sorriso appena accennato su
quel volto così calmo.
Calmo:
così mi appare Earl; così mi appare sempre.
Questo mi tranquillizza.
Poi
vedo i suoi occhi; i suoi occhi neri, profondi,
tristi.
Earl
è triste. Mi dispiace.
Mi
dispiace perché avevo promesso a me stesso che lo
avrei reso felice.
Socchiudendo
gli occhi, torno allora indietro nel
tempo, nei miei ricordi, dolci e amari allo stesso tempo.
*
Tradito
Non ricordo
molto della mia infanzia, di mia madre e
dei miei fratelli.
Sono nato in uno di quei posti definiti
“allevamenti”, figlio
di“campioni”, come si dice. Mio padre, che non ho
mai
conosciuto, e mia madre erano ottimi cani da caccia: dei Pointer
inglesi. Io
sono un Pointer, un “magnifico esemplare di
Pointer”, così mi avevano definito.
Maschio, pezzato
bianco e nero, dagli occhi color
ebano, con un fiuto eccezionale, garantito dai miei genitori.
Io e i miei fratelli fummo venduti presto e a caro
prezzo.
Il mio primo
padrone era un cacciatore, ovviamente. Era
severo e rigido, ricordo mi picchiava forte quando non facevo bene
qualcosa, ma
io ho un carattere posato, non mi sono mai ribellato.
Vivevo in un
capanno tra topi e fieno; vissi lì il
mio primo anno di vita.
Non ero bravo a
cacciare. Proprio così: nonostante
discendessi da ottimi cacciatori, io ero una frana. Il mio padrone non
capiva
il perché: rispondevo sempre ai richiami, apprendevo in
fretta ciò che mi
insegnava, ero attento e disciplinato, eppure non riuscivo a stanare
nemmeno
una preda, oppure ritrovare nel bosco il punto in cui era caduto
l’uccello
colpito dal mio padrone.
Mi
portò dal veterinario e, dopo un’accurata visita,
risultò che, per un problema genetico, il mio olfatto faceva
cilecca: era poco
sviluppato, insomma, per questo non riuscivo a fiutare le prede.
In giro di pochi
giorni mi ritrovai da solo in mezzo
ad un campo.
Quella mattina
presto, infatti, il mio padrone - di
cui non ricordo nemmeno il nome - mi fece salire sulla sua 4x4, si
avviò per le
campagne, in zone che non avevo mai visitato, si fermò in
mezzo alla strada di
terra, al bordo di un campo di grano, aprì la portiera ed
esclamò:
«Forza,
vai!»
E io,
riconoscendo il comando, partii
immediatamente, spedito, nella direzione indicata dal suo dito indice,
pronto a
cercare la selvaggina che probabilmente il mio padrone aveva
individuato tra il
grano. Solo dopo un centinaio di metri percorsi di corsa sfrenata mi
resi conto
di essere rimasto solo.
Mi fermai
ansimando un po’ e mi voltai indietro,
verso la strada: una nuvola di polvere doveva ancora posarsi a terra,
segno che
la macchina era ripartita velocemente giusto qualche istante prima.
Girai la
testa in varie direzioni, ma non scorsi l’auto da nessuna
parte, già scomparsa
dietro gli alberi che costeggiavano la strada.
Allora tornai a
guardare nella direzione che mi
aveva indicato il padrone e puntai il naso a terra, avanzando in cerca
della
bestia che dovevo portargli: nonostante l’olfatto poco
sviluppato potevo percepire
chiaramente che nelle vicinanze non
c’era nessuna bestia, né viva né morta.
Mi fermai di
nuovo e tornai ancora a guardare la
strada.
Mi sembrava
assurdo che il mio padrone mi avesse
indicato una direzione sbagliata e poi se ne era andato. Sì,
assurdo. Mi fidavo di lui; credetti
ci
fosse stato un errore. Pensai che si era semplicemente spostato
più avanti con
la macchina, inseguendo con lo sguardo il coniglio o il fagiano o la
lepre che
era scappata in un’altra direzione; magari mi aveva anche
chiamato, dicendo di
inseguirla, ma io, troppo preso dalla punta, non l’avevo
sentito.
Certo di queste
considerazioni, ricordo di aver
continuato a cercare in quel campo e nel boschetto limitrofo per tutta
la
mattina, e poi il pomeriggio, finché non era calata la sera.
E ricordo anche
che, a parte qualche topo o riccio o passero, non avevo fiutato niente.
Non
c’era cacciagione lì; non c’era niente
che io
dovessi trovare.
Solo a notte
fonda, sdraiato accanto il bordo della
strada proprio nel punto in cui aveva fermato la macchina e mi aveva
fatto
scendere, riuscii a realizzare che il mio padrone mi aveva tradito.
Fu una
considerazione terribile. Terribile. Non
riesco a trovare nessun altra parola. Mi fidavo di lui e lui mi aveva
tradito.
Nonostante
stessi malissimo, decisi di non
arrendermi. Attesi seduto lì tutto il resto del giorno dopo
e la notte
successiva; ogni volta che passava una macchina - molto di rado mi
ricordo - mi
alzavo in piedi e iniziavo a scodinzolare, ma non era mai lui. Non si
fermava
nessuno e, all’alba del terzo giorno, mi ritrovai ad avere
molta fame e sete.
Pieno di un
vuoto interiore, mi allontanai
lentamente da lì, conscio che il mio padrone non sarebbe
più tornato a
prendermi.
Girovagai altri
due giorni, riuscendo a dissertarmi
in un paio di ruscelli, ma senza mangiare nulla. Nemmeno un topo o una
piccola
lepre: iniziavo ad inseguirli, ma loro, rapidi, fuggivano presto tra i
cespugli
e il sottobosco, così che, con il mio debole olfatto, non
riuscivo più a
rintracciarli.
Ero dimagrito e
stanco quel sesto giorno della mia
solitudine, quindi per questo quell’uomo riuscii a catturarmi
facilmente. Usò
un lungo bastone d’acciaio con in cima un collare rigido, che
strinse appena me
lo passò sul collo. Mi fece salire su un furgoncino con
all’interno una gabbia:
non opposi alcuna resistenza, ero troppo debole.
E
così finii in canile.
La prima cosa
che mi colpì fu il rumore. Un chiasso
assordante tra abbai, gemiti, il tintinnare di ciotole di ferro che
cadevano a
terra, ringhi e il chiaro suono di una lotta tra due cani parecchio
nervosi, il
ticchettare delle unghie sul pavimento di cemento, le gabbie scosse
violentemente dai cani che si affollavano per vedere il nuovo arrivato,
mangime
smosso nelle mangiatoie di ferro. Le orecchie mi ronzavano e stringevo
un po’
gli occhi, abbassando il capo per cercare di schermare un po’
tutto quel
rumore, ma era impossibile.
Poi, la puzza mi
investii. Piscio, bisogni vecchi non
raccolti sul pavimento delle gabbie, puzzo di pelo bagnato e delle
vecchie
cucce con all’interno stracci mai lavati, per non parlare
degli aliti di un
centinaio di cani che abbagliavano tutti nella mia direzione... Un
inferno, non
trovo altra definizione.
Fui portato in
fondo a quel corridoio a cui lati
affollavano gabbie con almeno quattro cani all’interno;
l’uomo aprì proprio
l’ultima, già occupata da un meticcio maschio tipo
barboncino e un bel segugio
femmina che, intuii, era purtroppo sterilizzata. Mi lasciò
lì dentro e si
allontanò; gli altri due cani mi annusarono per qualche
tempo e io feci lo
stesso, poi tornammo ad ignorarci. Senza perdere altro tempo, attratto
dall’odore, mi fiondai verso la mangiatoia e presi a mangiare
parecchie
crocchette sommariamente insapori e un po’ dure. Bevvi anche
molto, poi,
veramente stanco, mi posai sopra un bancale di legno, mentre la segugia
entrava
in una cuccia e il barboncino si acciambellava in un angolo riparato
dal vento,
pian piano il rumore del canile si placò e io mi addormentai.
Continua...
Per scrivere questa storia mi sono ispirata alla mia esperienza di
volontariato in un paio di canili.
Il racconto sarà breve: si concluderà tra tre
piccoli capitoli e un breve epilogo.
Spero che questo primo capitolo vi sia piaciuto; grazie a chi ha letto.
:)
A presto!
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Capitolo 2 *** Secondo Capitolo ***
Il
Canile
Dalla
mia gabbia potevo guardare fuori. Intorno la
struttura del canile si estendeva un bel prato con alberi da frutto,
poi, al di
là di una staccionata di legno che delimitava la zona,
potevo osservare i campi
di grano e di avena e un bosco in lontananza. A meno di quindici metri
dalla
mia gabbia, appunto l’ultima del canile, c’erano
sette box isolati, proprio di
fronte a dov’ero io. Al loro interno, uno per gabbia, un cane
da caccia: da un
paio di Pointer come me a tre Bracchi e due Setter. Esemplari
bellissimi e ben
curati che stridevano in contrasto ai cani sporchi, quasi tutti meticci
e
vecchi all’interno del canile.
Questi
cani “speciali” venivano nutriti bene tutti i
giorni con crocchette dall’aspetto davvero invitante e, a
volte, qualche bel
osso buco; dalla loro voracità intuivo avesse un sapore
ottimo.
Le
nostre mangiatoie, invece, venivano riempite solo
ogni due giorni, con scarse quantità che bastavano appena a
me, la segugia e il
povero simil-barboncino che arrivava appena all’apertura
della mangiatoia.
Trovavo buffo osservarlo pescare le crocchette con la lingua; notai che
era
magro, probabilmente non mangiava mai abbastanza. Era comunque un tipo
tranquillo, con però un carattere deciso: lasciavo che
mangiasse sempre prima
di me, altrimenti mi sarei dovuto sorbire i suoi brontolii per tutto il
tempo
del pasto; non mi attaccava mai infatti, forse intimorito dalla mia
stazza, ma
si faceva sentire!
La
segugia era invece riservata e un po’ schiva;
aspettava che noi avessimo finito per venire a mangiare e stava fuori
dalla
cuccia poco tempo, preferendo ripararsi là dentro. Credo
avesse subito molti
maltrattamenti in passato, per questo era diventata così
timorosa e schiva.
Cosa
che percepii chiaramente fu che il simpatico
barboncino era follemente innamorato di lei. Ogni volta che la segugia
usciva
dal suo riparo, lui era subito al suo fianco: la scortava in ogni
angolo della
gabbia, come a proteggerla, e il piccoletto mi ringhiava se provavo a
darle
un’affettuosa leccata sulla guancia. E lei sembrava proprio
lusingata dalle sue
premure: intuii avessero passato davvero molto tempo insieme dentro
quella
gabbia.
Comunque,
sommariamente io ignoravo entrambi senza
problemi; sono sempre stato un tipo indipendente e tranquillo.
I
problemi veri arrivarono però un giorno, venendo a
rompere il dolce equilibrio che si era venuto a creare
all’interno della mia
gabbia.
Ricordo
bene quel giorno. Me ne stavo beatamente
sdraiato sul mio bancale, con il capo appoggiato sulle zampe anteriori,
e
guardavo fuori quei bellissimi sette cani da caccia correre per il
prato curato
intorno il canile. Il proprietario della struttura - proprietario anche
di quei
sette cani - li faceva uscire per il prato ogni mattina presto per
mantenerli
in forma. Io ero al canile da ormai otto mesi e non ero mai uscito,
nemmeno una
volta.
Li
guardavo forse un po’ invidioso, ma non facevo
una piega, al contrario di molti altri cani reclusi che si agitavano
sbattendo
contro le pareti delle gabbie e abbaiavano forte, ingelositi. Per tutta
risposta, i sette cani fuori non ci degnavano minimamente della loro
attenzione.
Ad
un tratto si udì sopraggiungere una macchina - le
ruote scricchiolavano sulla stradina di terra che conduceva alla
struttura -,
poi ci fu un fischio e in un attimo i cani tornarono dentro le proprie
gabbie,
che furono chiuse dal padrone, mentre un secondo uomo si avviava per il
prato
con al guinzaglio di ferro un cane completamente nero dagli occhi
nocciola
vivi, attenti. Un nuovo ospite per il canile.
Non
era raro che entrassero nuovi cani, negli ultimi
mesi ne erano stati trovati in giro cinque, tutti poi sistemati nei
vari posti
vuoti in una gabbia o in un’altra. Però ora di
posti vuoti non ce n’erano più,
essendo le gabbie progettate per accogliere non più di
quattro cani, quindi
l’unica disponibile era la mia, dove eravamo ancora in tre.
L’uomo
entrò nel corridoio e prese ad avanzare,
mentre gli altri “ospiti” abbaiavano e ringhiavano
e sbattevano contro le
gabbie. Ma il cane nero non era affatto intimorito. Non abbassava la
testa per
schermarsi un po’ dai rumori, come avevo tentato di fare io
la prima volta, non
concedeva nemmeno uno sguardo agli altri cani, si limitava ad avanzare
con
fredda calma e le labbra un po’ tirate a mostrare leggermente
i suoi canini. A
prima vista sembrava un incrocio con un Pastore Tedesco, anche se
alcuni
lineamenti ricordavano un Labrador. Maschio, fiero e con il corpo
robusto,
forse aveva sui quattro o cinque anni, in piena maturità.
L’uomo
si fermò davanti la nostra gabbia, aprì la
porta, sciolse abilmente il collare e spinse il cane dentro che, per
risposta,
ringhiò sommessamente mostrando un po’ di
più i denti. L’uomo, per nulla
intimorito, lo ignorò, chiuse la porta e andò via.
Mi
alzai in piedi, ma non mi mossi dalla mia
postazione. La segugia, inizialmente intenzionata ad avvicinarsi per
annusarlo,
tirò invece indietro le lunghe orecchie e si nascose nella
sua cuccia. L’unico
a muoversi fu il barboncino: si avvicinò al cane nero e
iniziò ad annusargli il
sedere. Il nero, irritato, voltò la testa verso di lui e
ringhiò ancora; il
barboncino arretrò, ringhiò a sua volta, poi
decise di lasciar perdere e andò
nel suo angolo.
Così
il nero rilassò i tratti del muso e volse lo
sguardo verso di me. Uno sguardo color cammello, vivo, intenso. Ci
guardammo a
lungo negli occhi; eravamo quasi della stessa stazza, io ero un
po’ più piccolo
ma anche più giovane.
Qualcosa
in quello sguardo freddo, però, mi fece
decidere di abbassare il mio.
Come
soddisfatto da ciò, il cane nero si voltò e
prese a mangiare; il barboncino tentò una piccola protesta,
ma lasciò perdere,
notando che il nero lo ignorava del tutto.
Si
instaurò così un equilibrio diverso nella gabbia,
molto più delicato del precedente: spesso il nero e il
barboncino si
ringhiavano, ma per il momento il più piccolo decideva di
lasciar perdere e
quindi non c’erano mai stati grossi problemi; la segugia
passava molto più
tempo nella cuccia, evitando di farsi avvicinare dal nero; e io e lui
ci
ignoravamo a vicenda, senza mai annusarci e io rispettavo il suo turno
nel
mangiare senza protestare.
Avvenne
tutto molto in fretta.
Erano
passate ormai due settimane dall’arrivo del
cane nero, quel giorno pioveva.
Non
era mai una bella cosa quando pioveva: il tetto
spiovente della struttura era rotto in alcune parti, ad esempio proprio
sopra
il mio bancale. Anche l’angolo del barboncino era bersaglio
della pioggia e, al
contrario di me che non facevo troppo caso all’acqua che mi
inzuppava il pelo e
che continuavo a sonnecchiare come se nulla fosse, il piccoletto era
parecchio
innervosito. Proprio come il cane nero, che mordicchiava le grate in
ferro
della porta della gabbia, come in un tentativo di uscire per trovare un
riparo
decente. Mentre il barboncino camminava in cerchio, irrequieto,
borbottando
chissà cosa nel suo nervosismo, il nero decise di lasciar
perdere gli inutili
tentativi di fuga e si avvicinò all’unica cuccia
presente nella gabbia, dentro
cui si trovava naturalmente la segugia. Aprii gli occhi per guardare,
capendo
le intenzioni del nero: o con le buone o con le cattive, quella cuccia
sarebbe
stata sua. Non mi mossi, ma ero teso: era stato deciso da tempo che
quel riparo
era di proprietà della segugia, e adesso arrivava lui che
glielo voleva
sottrarre. No, non andava bene per niente...
Il
nero si fermò davanti l’entrata della cuccia e
iniziò a ringhiare sommessamente. La segugia
all’interno si irrigidì,
spaventata, ma non si mosse. Il nero allora prese a ringhiare
più forte,
abbaiando anche, ma lei non si mosse.
Il
barboncino, intanto, si era fermato e guardava
rigido la scena, mentre i peli sulla schiena gli si drizzavano.
Il
nero perse di colpo la pazienza: immerse la testa
dentro la cuccia, ringhiando con forza, e azzannò ad una
spalla la segugia che
gemette forte.
Fu
un attimo: intanto che mi alzavo, innervosito da
quell’improvvisa violenza, il barboncino partì
spedito contro il nero,
ringhiando ed abbaiando, e lo attaccò alla zampa anteriore.
Il cane nero,
irritato, tirò fuori la testa e, con un movimento davvero
fulmineo, abbassò le
fauci sul collo del barboncino, stringendo forte, strappando un lamento
al
piccoletto, e iniziando a scuoterlo come se fosse uno di quei pupazzi
di gomma
con cui mi faceva giocare il mio padrone quand’ero cucciolo.
Iniziai
ad abbaiare, intimando al nero di smetterla,
mentre la segugia piangeva da dentro la cuccia, davvero disperata. Ma
no, il
nero non si fermava: ignorando i lamenti e gli inutili tentativi del
barboncino
di morderlo, continuava a scuoterlo, affondando sempre di
più i denti nel collo
del cane.
Anche
tutti gli altri cani abbaiavano: chi incitava
il nero, chi gli chiedeva di fermarsi... c’era il caos.
Il
proprietario della struttura entrò di corsa
brandendo una scopa: iniziò a colpire con forza il cane nero
sul dorso, urlando
di smetterla; la scopa si ruppe, ma lui continuò a colpire,
tanto che, alla
fine, gemendo, il nero dovette per forza lasciare la presa e
allontanarsi
dolorante per evitare altri colpi. L’uomo si chinò
immediatamente sul
barboncino, ma ormai non c’era più niente da fare.
Era
morto.
Mi
avvicinai istintivamente per annusarlo un’ultima
volta, ma l’uomo, dopo averlo preso in mano per portarlo via,
mi diede un
calcio, facendomi guaire, e mi intimò di stare indietro
mentre usciva. Se ne
andò quindi con il piccoletto in una mano e quella fu
l’ultima volta che vidi
il mio buffo amico a quattro zampe.
La
segugia, a quel punto, uscì lentamente dalla
cuccia, di cui si appropriò subito il nero, entrandovi, ma
lei lo ignorò, si
avvicinò pian piano a me, che mi trovavo di fronte al punto
in cui poco prima
giaceva il barboncino, chinò il capo e prese a leccare le
gocce di sangue del
suo amico e, chissà, amore. Le leccò tutte,
pulendo il pavimento, e io la
osservavo immobile, profondamente dispiaciuto, osservando in silenzio
anche la
sua ferita alla spalla, fortunatamente superficiale. Quando ebbe
finito, con
gli occhi spenti, si avviò all’angolo preferito
del barboncino, si acciambellò
su se stessa e posò il muso sulle zampe, fissando terra. Io
pure me ne tornai
mestamente al mio bancale, bagnandomi ancora sotto la pioggia e
pensando
tristemente a quanto cambiano velocemente le cose.
Passarono
altre due settimane da quel fatto e morì
anche la segugia. Non aveva più toccato cibo, né
acqua, da quella volta,
rimanendo sempre in quell’angolo e si era spenta lentamente
nella sua
malinconia. Mi accorsi che era morta la mattina presto; mi sdraiai
allora al
suo fianco e posai il capo sul suo, rimanendo così fino il
primo pomeriggio,
quando arrivò l’uomo per riempire la mangiatoia e
capì cos’era accaduto. La
portò via subito e io rimasi seduto là dove era
rimasta quei quindici giorni,
limitandomi a guardare il nero che, senza nessun problema, affondava il
muso
dentro la mangiatoia per pranzare.
Da
quel momento i rapporti tra noi due divennero
parecchio tesi. Non c’era nulla da fare: ormai avevo due anni
e mi mostravo
come un cane dominante, proprio come lui. Non era raro che ci
guardassimo
ringhiando a vicenda, ma sempre sottovoce, come una pacata e fredda
minaccia.
Anche sul fatto del mangiare non ero più tanto
d’accordo che iniziasse lui e lo
facevo notare iniziando a ringhiare un po’ più
forte, ma lui mi rispondeva
altrettanto minaccioso e per il momento decidevo sempre di lasciar
correre.
Ogni volta che si avvicinava un po’ troppo a me facevo notare
il mio disappunto
mostrando i denti; lui mi guardava intensamente, poi si allontanava.
Eravamo
legati da una tesa tregua che rischiava di rompersi da un momento
all’altro.
E
questo accadde circa un mese dopo la morte della
segugia.
Erano
ormai nati da due mesi i quattro piccoli del
Pointer femmina bianco e marrone del proprietario del canile;
l’aveva fatta
accoppiare con l’altro suo Pointer tempo prima e ora erano
pronti per essere
venduti. Era pieno pomeriggio e io stavo seduto sul bancale a guardare
proprio
quella bella Pointer sdraiata sull’erba che osservava i
cuccioli girare nel
prato; c’era solo lei fuori con loro quattro. Un paio di
piccoli curiosi si
avvicinarono un po’ di più alla mia gabbia; tra me
e i loro c’erano appena
cinque o sei metri di distanza. La madre li richiamò,
dicendo di non
avvicinarsi, e loro si fermarono.
Si
udì sopraggiungere una macchina, poi una portiera
fu chiusa, il proprietario del canile parlò con
l’ospite e i due uomini si
avviarono per il prato diretti proprio verso i cuccioli. Quando furono
nel mio
campo visivo alzai lo sguardo per vedere e, a quel punto, mi gelai.
Non
c’era nessun dubbio; anche se il mio debole
olfatto non poteva confermare la mia teoria, ne ero certo: in compagnia
del
proprietario del canile, il possibile acquirente, era il mio padrone.
Mentre
quest’ultimo si chinava a raccogliere un cucciolo pezzato
bianco e marrone, ad
appena quei cinque o sei metri da me, io balzai di colpo su due zampe e
iniziai
ad abbaiare, saltare, ululare, scodinzolare di gioia, attirando la sua
attenzione come a dire “Ehi, ehi, sono qui! Guardami, sono
io!”.
E
quindi, come avevo sperato, il mio padrone alzò
gli occhi su di me e si immobilizzò, con il cucciolo in
mano, guardandomi
davvero stupito.
«Qualcosa
non va?» gli chiese
l’allevatore/proprietario del canile.
Il
mio padrone sbatté più volte le palpebre,
sorpreso, e si ritrovò a chiedere:
«E
quel Pointer? Dove l’hai preso?»
L’allevatore
capì che parlava di me e rispose
tranquillamente:
«Trenta
chilometri a nord, girovagava per le
campagne. Perché, ti interessa?»
Vidi
chiaramente il mio padrone deglutire e
irrigidirsi ancor di più; sperai che, da un momento
all’altro, avanzasse verso
di me per accarezzarmi, scusandosi dicendo che non era riuscito
più a trovarmi,
che gli ero mancato moltissimo... oh, perché lui
sì, mi era mancato da morire!
E
invece il mio padrone distolse lo sguardo da me,
osservò per un ultima volta il cucciolo che aveva in braccio
e tornò a
rivolgere l’attenzione all’allevatore, chiedendo
come se nulla fosse:
«E’
questo l’esemplare di cui mi parlavi?»
«Sì,
proprio questo, sì»
«Bene,
andiamo, accordiamoci per il prezzo»
Si
allontanarono con il piccolo cane, mentre io
ancora non mi fermavo e continuavo a saltare ed abbaiare, ma i due non
si voltarono
e presto sparirono dalla mia visuale. Rimasi così, fermo su
due zampe, in
ascolto, finché non udii chiaramente la macchina ripartire.
Ritornò solo il
proprietario del canile che fece rientrare la Pointer e i suoi cuccioli
e si
allontanò di nuovo.
Mi
sentii morire dentro, letteralmente.
Ricaddi
su quattro zampe, mesto, e mi avviai
lentamente all’abbeveratoio; tutto quell’abbaiare e
saltare mi aveva fatto
venire una gran sete. Mentre bevevo svogliatamente con
un’aria rassegnata, il
mio sguardo cadde involontariamente sull’espressione
compiaciuta del nero.
Sembrava soddisfatto della mia “sconfitta”. Questo
mi irritò parecchio.
Smisi
di bere e mi avvicinai con calma a lui, senza
abbassare lo sguardo dai suoi occhi. Allora lui si irrigidì;
quell’aria
soddisfatta scomparve dal suo muso, dove prese posto
un’espressione dura,
decisa. Assunsi anch’io quell’espressione e
rimanemmo uno di fronte all’altro a
fissarci negli occhi. Poi il nero iniziò a ringhiare.
Iniziai anch’io,
appositamente più forte e minaccioso. Lui
continuò ancora un po’, poi scosse
come la testa, quasi a consigliarmi di lasciar perdere, e si
avviò
tranquillamente alla mangiatoia. Allora mi frapposi tra lui e il cibo,
deciso
ad andare fino in fondo: sta volta non avrebbe mangiato per primo.
Davvero irritato
dalla mia insubordinazione, il nero tornò a ringhiare
più forte ed ad abbaiare.
Risposi anch’io al ringhio e all’abbaio; il nero
provò ancora ad avanzare, ma
io lo anticipai. Con uno scatto gli fui addosso, mirando proprio al
collo, come
lui aveva fatto al barboncino. Finimmo a terra, rotolando su noi stessi
e
continuando a mordere, ringhiare e graffiare. Sbattemmo più
volte contro le
pareti della gabbia, ma non ci fermammo; ormai non vedevo
più niente, accecato
dalla rabbia e dal dolore, e colpivo alla cieca, assaporando il sangue,
il
puzzo della sua pelle, il sapore di sporco del pelo. Non so quanto
lottammo, ma
alla fine un dolore forte, lancinante, mi esplose al fianco; gemendo,
fui
costretto a mollare la presa sulla guancia del nero e arretrai, mi
accorsi così
che era intervenuto l’allevatore con una scopa, con cui ora
colpiva il nero che
si era ribellato anche a lui.
«Fermati!
Fermati!» gli urlava l’uomo, colpendolo,
ma il cane nero, totalmente impazzito dalla rabbia, si era avvinghiato
alla sua
caviglia, affondando sempre di più i denti e facendolo
gridare dal dolore.
Intervenne
di corsa anche l’altro uomo, quello
addetto alla cattura dei cani randagi, che sparò una siringa
narcotizzante
contro il fianco del cane nero. Quest’ultimo, con un guaito,
lasciò allora la
presa e iniziò a barcollare, arretrando. Anch’io
arretrai verso il mio bancale,
notando che ora l’uomo mirava a me; mi sparò,
colpendomi alla coscia. Gemetti e
mi sdraiai sul bancale, spaventato. Pian piano iniziai ad
addormentarmi, proprio
come il cane nero, e l’ultima cosa che vidi fu il nero
crollare a terra e
l’uomo ferito alla gamba mettersi seduto con
un’espressione sofferente.
Poi
fu tutto buio.
Continua...
Grazie a tutti coloro che hanno letto il primo capitolo; spero vi sia
piaciuto anche questo!
A presto! :)
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Capitolo 3 *** Terzo Capitolo ***
E
così conobbi Earl
Era
una bella giornata invernale.
La
neve ricopriva candidamente oltre la metà della
mia gabbia, quella non protetta dalla tettoia in parte rotta, e io mi
divertivo
a calpestarla cautamente, osservando come la mia grossa zampa
affondasse di
almeno cinque centimetri in quel manto bianco. Divertito come non mai
presi a
scavare nella neve, buttandola tutta contro la parete destra, colpendo
così il
grosso e rosso meticcio che sonnecchiava placidamente sul pavimento
della sua
gabbia, adiacente alla mia. Questi si svegliò e mi
abbaiò di smetterla, io lo
ignorai e proseguii a scavare finché non c’era
più neve nel mio box. A quel
punto, annoiato, tornai dentro la cuccia, sospirando.
Erano
passati sei anni dalla mia lotta con il cane
nero, del quale seppi fu soppresso perché aggressivo anche
verso le persone. Io
invece ero stato medicato e trasferito in un box di isolamento, accanto
altre
quattro gabbie singole dove si trovavano cani all’apparenza
docili ma che non
andavano d’accordo con i loro simili. Fui classificato come
“un maschio
dominante che non tollera la presenza di altri maschi” e
così mi lasciarono in
quel box singolo per sei anni.
Grattandomi
con una zampa il mio mezzo orecchio
sinistro - strappato a morsi dal nero quella volta - mi soffermai con
lo
sguardo su una coppia di umani con una bambina che portavano via il
piccolo
meticcetto focato e a pelo lungo, simile ad un volpino, arrivato non da
molto
in canile. Un’altra adozione: eravamo già a tre
nell’ultimo mese.
In
sei anni avevo visto lasciare la struttura una
ventina di cani, tra adozioni e qualche morte, ma il ricambio era
continuo:
continuamente, infatti, arrivavano nuovi randagi, così che
il canile era sempre
pieno.
La
coppia e la bambina passarono davanti il mio box,
con al guinzaglio l’allegro simil volpino, senza degnarmi di
uno sguardo, come
accadeva ogni volta. La mia gabbia si trovava circa
all’inizio del corridoio -
la terza, in ordine -, eppure, quando entravano gli ospiti, nessuno si
soffermava su di me. Probabilmente a causa del mio orecchio mozzo, la
mia
stazza e il fatto che mi trovavo in una gabbia di isolamento, segno che
non ero
affatto docile. Ma era tutta apparenza: ero il cane più
tranquillo del mondo.
Però nessuno se ne accorgeva.
Quei
tre furono fuori, firmarono le ultime carte che
gli porgeva il proprietario della struttura, e si avviarono quindi per
il
prato. Poco prima di uscire, superarono un giovanotto sui trenta, alto,
dall’aria introversa, grossi occhiali da vista e neri capelli
ribelli. Avanzava
un po’ incerto sul prato in direzione della struttura, con le
mani in tasca e
rannicchiato nel suo pesante cappotto beige, con al collo una sciarpa
rossa che
gli copriva il mento. Dava l’idea di avere molto freddo.
Non
so perché lo studiai così a lungo, intanto che
il proprietario del canile gli si avvicinava con finto fare cordiale,
ma ebbi
come una strana intuizione che mi convinse ad uscire dalla mia cuccia,
sedermi
di fronte alla porta della gabbia e guardarlo entrare dentro il canile
con
un’aria attenta, scrutandolo dai capelli arruffati agli
scarponcini neri
sporchi di neve e fango.
Rimasi
così, in attesa.
«Allora,
mi diceva che ha un bel giardino, giusto?»
chiese l’allevatore, entrando per primo nella struttura.
«Sì»
rispose timidamente il giovane, portandosi
istintivamente una mano su un orecchio, cercando di proteggersi un
po’ da tutto
quel rumore all’interno del canile.
«E
cercava un cane di taglia media, mi diceva»
proseguì l’allevatore, iniziando ad avanzare per
il corridoio «Ho proprio ciò
che fa per lei!»
Il
ragazzo iniziò a seguirlo titubante, spostando lo
sguardo sul simil pastore tedesco all’entrata, troppo grande
e fiero per il suo
piccolo box singolo, il maremmano dall’altro lato del
corridoio, anche lui in
isolamento, il bavoso molossoide nel box accanto il maremmano, poi
l’agitato
meticcio rosso accanto la mia gabbia, finché non giunse
proprio davanti a me. E
si fermò.
«Chiaramente
non sono tutti di razza, ma visto che
non ha grosse pretese andranno benissimo...» proseguiva a
parlare il
proprietario del canile, continuando a camminare per il corridoio senza
accorgersi che l’altro si era fermato.
Il
giovane si piegò sulle gambe, abbassandosi in
modo da avere gli occhi alla stessa altezza dei miei; io continuavo a
starmene
seduto composto, senza dire o fare nulla.
Gli
occhi del ragazzo erano di un marrone molto
scuro, quasi neri; ricordavano molto i miei. Quello che mi
colpì fu che
ispiravano una profonda tristezza e malinconia.
Avvicinò
un po’ di più il viso alla mia gabbia e io,
d’istinto, feci lo stesso; a pochi centimetri da me
l’allevatore si accorse di
cosa stava accadendo e iniziò ad esclamare:
«Ehi,
aspetti, quel cane è...»
Una
lunga leccata, dalle labbra alla fronte del
ragazzo, che strizzò gli occhi, pietrificato.
«...
pericoloso...» concluse sorpreso l’allevatore.
Il
giovane si alzò in piedi, si asciugò il volto con
la sciarpa, mi lanciò un altro sguardo e si rivolse
all’uomo tranquillamente:
«Prendo
lui»
Uscire
da quella gabbia fu bellissimo. Bellissimo.
Non trovo altro termine.
Ero
stato legato ad un provvisorio guinzaglio in
corda per uscire dal corridoio; ero già irrequieto e felice
da quella novità,
tanto che trascinavo letteralmente
il
mio nuovo padrone verso l’uscita della struttura. Una volta
fuori, nel prato
esterno recintato, il giovane mi strattonò maldestramente,
richiamandomi:
«Su,
bello, non farmi cadere...»
Bello.
Nessuno mi aveva mai definito “bello”. Mi sentii
fiero e forte e allora decisi
di accontentare quel giovane e mi fermai.
Il
ragazzo firmò le ultime carte, salutò
l’allevatore e noi due ci avviammo verso la sua macchina, un
vecchio
fuoristrada sporco di fango. Non mi voltai mai una volta indietro,
verso la mia
prigione; puntai semplicemente dritto verso l’auto e salii
subito quando mi
aprì il portabagagli.
Poi
il giovane si mise alla guida, dicendomi di
stare buono durante il viaggio, e partimmo per quelle strade sterrate e
piene
di buche, finché non arrivammo per una strada malamente
asfaltata e poi in
un’altra invece molto bella, costeggiata da case e una fila
di alberi
sempreverdi.
La
casa era davvero graziosa, con un bel giardino e
un piccolo laghetto al momento ghiacciato. Entrammo subito dentro e il
ragazzo
mi slegò quella corda dal collo, lasciandomi libero per il
salottino, che non
persi tempo ad analizzare, annusando ogni cosa. Poi il giovane
buttò via la
corda, cosa che mi sorprese moltissimo, si tolse il cappotto, la
sciarpa e le
scarpe e poi si rivolse a me, mettendosi le mani sui fianchi.
«Allora,
amico, intanto mi presento: mi chiamo Earl»
mi misi seduto sul tappeto, in ascolto «Al tuo nome non ho
ancora pensato, ma
c’è tempo. Le regole in questa casa sono semplici:
si sporca fuori, non si
rompono i divani, non si mordicchiano le sedie e non si dorme sul mio
letto.
Tutto chiaro?»
Ruotai
un po’ la testa di lato, fissandolo con occhi
dolci, e Earl non poté trattenersi nel sorridere. Il suo
sguardo aveva
acquistato un po’ più di lucentezza.
«E
adesso facciamo un bel bagno che puzzi!»
sentenziò infine.
Continua
La storia è quasi finita: presto l'ultimo capitolo e poi
l'epilogo.
Grazie a tutti coloro che hanno letto fin qui; a presto! ;)
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Capitolo 4 *** Quarto Capitolo ***
Quant’è
vero che il tempo passa in fretta
La
sveglia suonò allegramente, vibrando sul comodino
in legno chiaro e avvicinandosi sempre più pericolosamente
al bordo,
minacciando di cadere da un momento all’altro.
Rapido
attraversai il salotto, abbandonando il mio
morbido cuscino che fungeva da giaciglio, raggiunsi la camera, aprii la
porta
socchiusa con il naso e saltai sul letto, riempiendo di baci il viso di
Earl
che borbottò di smetterla, per poi scoppiare a ridere.
La
sveglia cadde infine a terra e si zittì.
«Su,
Paul, smettila, smettila! Sono contento anch’io
di darti il buongiorno, ma basta...!» provò Earl,
mentre ci mescolavamo tra le
coperte e i cuscini, in una buffa confusione.
Buffo,
proprio come il perché mi avesse chiamato
Paul.
Ero
con Earl da nemmeno una settimana e lui, da
bravo ragazzo single, era intento a pulire minuziosamente casa; al
momento
passava lo straccio bagnato a terra, intimandomi a rimanere sul divano,
fermo,
qualsiasi cosa fosse accaduta, altrimenti avrei di nuovo sporcato.
Obbedivo in
silenzio, guardandolo incuriosito lucidare il pavimento marroncino.
Intanto
alla radio c’era la pubblicità di un nuovo
supermercato ed entrava un’aria
davvero pungente dalle finestre lasciate momentaneamente aperte per far
asciugare in fretta il pavimento. D’un tratto la
pubblicità finì e al suo posto
partì una canzone annunciata con il titolo di
“Maybe I’m Amazed”. Drizzai le
orecchie, in ascolto. I toni così profondi della voce del
cantante e la melodia
di un ottimo gusto, a mio parere, mi portarono ad ululare in direzione
della
radio, seguendo quasi il ritmo della canzone. Earl smise per un attimo
di
pulire, ascoltò la canzone, guardò me ed
esclamò con una risata:
«Ti
piace Paul McCartney? Davvero ti piace? Molto
bene, molto bene, Paul!»
Earl
è un informatico. Lavora a casa a lungo, anche
sette o otto ore al giorno, a volte fino a tarda notte. Progetta
software per
un’azienda e perfeziona programmi, tutto nel suo studio, in
cui trova
l’ambiente di lavoro ideale.
E’
una persona schiva, un po’ solitaria, che ha
ricercato la compagnia di un cane per non sentirsi troppo solo. Mi
disse di
aver scelto me perché, a prima vista, aveva intuito che gli
assomigliassi molto
nel carattere; teoria confermata.
Aveva
provato ad avere qualche relazione, con due o
tre ragazze, ma tutto si concludeva con un nulla di fatto. Era troppo
timido,
non andava mai bene. Però lui era comunque felice.
Sì, felice. Ero io la sua
felicità e questo mi rendeva particolarmente orgoglioso.
Sono un cane
obbediente, pulito e silenzioso, proprio come piace a Earl. E
sì, ero felice
anch’io.
Iniziò
tutto una mattina di autunno, durante una
nostra passeggiata insieme, per l’abituale giro del quartiere
alberato. Le
foglie marroni, rosse e gialle a terra ruotavano al vento creando una
vista
davvero suggestiva.
Avevo
ormai quindici anni.
Earl
camminava al mio fianco, con le mani in tasca e
il capo del guinzaglio legato ad un polso; io avanzavo con calma, forse
un po’
stanco, come mi sentivo da qualche tempo. Avevo il muso rivolto verso
terra,
forse in cerca di qualche odore che il mio naso poteva captare
lievemente;
quasi non vidi l’idrante rosso davanti a me che riuscii ad
evitare grazie anche
ad una tempestiva strattonata di Earl.
«Ehi,
amico, tra un po’ ci sbattevi il muso...»
commentò lui, con un accento impensierito nella voce.
Mi
resi conto di non riuscire a mettere bene a fuoco
le cose intorno a me. Attribuii tutto questo alla stanchezza e non ci
feci più
troppo caso.
La
vista non tornò più quella di prima e nei giorni
successivi iniziai anche a risentire dell’età,
muovendo le zampe con più
fatica. Comunque non mi persi mai d’animo, andando a
svegliare Earl tutte le
mattine con allegra irruenza, strattonandolo nei primi dieci metri di
strada
non vedendo l’ora di annusare la profumata urina della
bellissima Setter del
vicino di casa, mangiando sempre tutto e voracemente. Semplicemente ora
mi
stancavo con maggiore facilità, ritrovandomi spesso con il
cuore che batteva
forte e il fiato corto, anche solo dopo una breve scalinata. Earl se ne
accorse
e, premuroso, evitava di farmi camminare troppo a lungo o di percorrere
strade
con troppi “sali-scendi”.
L’inverno
era giunto quasi al termine, quando quella
mattina la sveglia del mio padrone iniziò a suonare come al
solito alle otto
meno dieci. Earl non riuscì a destarsi in tempo per
zittirla, così che questa
cadde a terra come ogni volta, tacendo. Il ragazzo sbadigliò
sonoramente e si
mise seduto sul letto, arruffandosi ulteriormente i capelli con una
mano e
infilandosi gli occhiali. Dopo qualche secondo ancora di stordimento
realizzò
che c’era qualcosa che non andava. Volgendo uno sguardo alla
porta socchiusa
della camera si sbrigò ad alzarsi, si infilò la
vestaglia e giunse in salotto,
preoccupato.
Io
ero là, sdraiato a terra, immobile.
Non
percepii affatto Earl gettarsi di colpo in
ginocchio accanto a me, sollevandomi, scuotendomi e chiamandomi; non
rispondevo.
Quando
ripresi conoscenza mi trovavo sul tavolo del
veterinario, attaccato ad una flebo. Sentii il dottore spiegare che
avevo avuto
un forte attacco di cuore e che ero vivo per miracolo. Però,
purtroppo, ero
rimasto a lungo privo di sensi e senza respirare; la scarsa affluenza
di sangue
al cervello e la mia avanzata età avevano provocato dei
danni celebrali: ero
rimasto paralizzato dalla vita in giù. Il fatto di non
sentire più le zampe
posteriori mi fece andare nel panico: iniziai ad agitarmi, mentre il
respiro si
faceva corto e il cuore batteva così forte da farmi male.
Earl tentò di
calmarmi, ma, non riuscendoci, il veterinario fu costretto ad
iniettarmi un
leggero calmante, che mi fece placare.
Iniziò
un brutto momento per me ed Earl che era
costretto a premermi sulla vescica per farmi fare la pipì,
visto che non
sentivo più lo stimolo, e a raccogliere i miei bisogni
pulendomi anche spesso.
Io continuavo a dimostrargli il mio affetto con leccate e uno sguardo
grato;
questo lo tirava sempre un po’ su. I primi giorni furono
davvero difficili per
entrambi, ma poi il tutto divenne come una routine e le cose andarono
un po’
meglio.
Io
comunque peggioravo costantemente, si capiva.
Prendevo molte pillole, camuffate nel cibo, ed Earl mi faceva spesso
punture o
flebo, come gli aveva insegnato il veterinario. Una volta a settimana
avevo il
controllo; non era mai un bel momento perché il dottore non
poteva far altro
che constatare l’aggravarsi della mia situazione. La paralisi
si stava
estendendo e io ero sempre più stanco ed affaticato anche se
me ne stavo
sdraiato tutto il giorno. Il veterinario aveva iniziato a proporre un
“metodo
rapido per far finire le sofferenze”, come l’aveva
definito; vidi Earl
diventare scuro in volto, incapace di dire niente. Continuammo ad
andare
avanti, entrambi senza pensare molto alla mia condizione; io sempre
allegro e
amorevole nei suoi confronti e lui pieno d’affetto in ogni
momento.
Venne
presto, però, il momento di tornare alla
realtà.
Era
subito dopo pranzo che iniziai a stare veramente
male. Sdraiato su un fianco ansimavo pesantemente e l’aria
calda di inizio
estate certo non mi aiutava. Mi sentivo il corpo pesante e il cuore
batteva
forte, fortissimo, togliendomi il respiro. Non riuscivo a tenere molto
aperti
gli occhi.
Vidi
Earl decidere.
Capii
che aveva deciso dall’espressione del suo
volto: era lontana, spenta, veramente affranta.
Ma
io ero d’accordo: lui sapeva che era giusto e io
volevo dimostrargli che mi fidavo ciecamente del suo giudizio. Provai a
scodinzolare, ma ovviamente non ci riuscii; provai allora ad alzare un
po’ il
capo per leccargli la mano vicino il mio muso, ma non riuscii a fare
nemmeno
quello. Earl parlò con il veterinario al telefono, poi mi
prese in braccio e
uscimmo insieme di casa. Mi teneva stretto a sé, dolcemente;
ricordo, era una
bellissima emozione. Poi mi adagiò sul sedile della macchina
e partimmo.
Continua...
Ecco qua l'ultimo capitolo; e tra un po' posterò anche
l'epilogo. Grazie millissime a tutti coloro che mi hanno seguito fin
qui e... a presto! :)
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Capitolo 5 *** Epilogo ***
Grazie a tutti
coloro che hanno letto la fic; questo è l'epilogo e
perciò così si conclude la storia di un cane.
Così
finisce
E
quindi, eccomi qua, sul tavolo del veterinario.
Ho
una flebo attaccata alla zampa anteriore e, con
la coda dell’occhio, vedo il dottore preparare una siringa in
silenzio.
Earl
si accorge del mio sguardo distratto e allora
posa entrambe le mani ai lati del mio capo, richiamando la mia
attenzione verso
il suo viso.
Mi
sorride. E piange.
Non
c’è niente di malizioso in quel sorriso, niente
di falso: solo riconoscenza.
Viene
da piangere anche a me. In quel momento vorrei
solo riuscire a parlare la sua lingua, non per dire chissà
che, ma solo, solo
una cosa, una singola parola che racchiude tutto ciò che i
dolci ricordi di me
e lui insieme sanno trasmettermi.
Grazie,
Earl.
Non
sento proprio niente quando il veterinario
inserisce l’ago nella flebo e quel liquido inizia a scorrere
nel mio sangue;
solo un sempre più forte intorpidimento... sto per
addormentarmi, forse.
Earl
avvicina ancora di più il suo viso al mio muso,
sussurrandomi dolcemente con le lacrime agli occhi:
«Va
tutto bene, Paul. Ti voglio bene»
E
io, una debole leccata sulla sua bocca, proprio
come la prima volta che ci siamo incontrati. Sento le labbra di Earl
incurvarsi
in un piccolo sorriso. E muoio.
Così
si conclude la storia di un cane.
Un
cane come tanti.
Un
cane profondamente felice.
Fine
Ho
pianto scrivendo il finale. :’)
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