Storia di un cane

di Me91
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo & Primo Capitolo ***
Capitolo 2: *** Secondo Capitolo ***
Capitolo 3: *** Terzo Capitolo ***
Capitolo 4: *** Quarto Capitolo ***
Capitolo 5: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo & Primo Capitolo ***


Storia di un cane

Prologo

Il mio respiro è affannoso, la lingua pende fuori dalla bocca facendo cadere calde gocce di saliva a terra e gli occhi sono spalancati, impauriti.
Sono nervoso.
Intorno a me luci, strani suoni, voci attenuate, forse vengono da un’altra stanza. Nella mia visuale, fatta di pochi colori, le forme degli oggetti sono sbiadite più del solito; il fatto di non riuscire a vedere bene mi agita ancor di più.
Tento invano di alzarmi, ma questo mi provoca un sussulto doloroso al cuore che mi leva il respiro. Ansimo ancora più forte, costretto a posare di colpo la testa sulle zampe che mi sento pesanti, intorpidite.
Sono così debole...
Mi sfugge un gemito, e poi un altro, a due respiri più profondi; inspirare l’aria non è mai stato così doloroso. Sono costretto a chiudere gli occhi, gemendo ancora, mentre il cuore mi pare stia per scoppiare, da quanto batte forte.
Ancora qualcuno che parla; non riesco a capire, mi fischiano le orecchie.
Un guaito spontaneo quando qualcosa punge la mia zampa anteriore, già tesa e dolorante di suo; provo istintivamente ad alzarmi per scappare, ma noto con orrore di non riuscirci. Le zampe posteriori non le sento più da diverso tempo, ormai, ma adesso anche il resto del corpo sembra davvero pesante, addormentato.
Sono spaventato, mi rendo conto di essere immobile e di non percepire quasi nessuno stimolo esterno.
Continuo a guaire dalla disperazione, dal dolore; i miei lamenti devono essere davvero acuti, sento infatti qualcun altro della mia specie rispondere addolorato al mio pianto.
Improvvisamente il suo odore mi investe e la sua mano calda si posa dolcemente sul mio capo, mentre l’altra mano va a solleticarmi sotto il muso, proprio come adoro.
E infine la sua voce ferma, così rassicurante alle mie orecchie, che si rivolge proprio a me.
Apro stancamente gli occhi, smettendo di piangere, giusto per osservare il suo viso e il suo sguardo a pochi centimetri dal mio.
«Ehi, amico... va tutto bene» mi sussurra, con il suo piccolo sorriso appena accennato su quel volto così calmo.
Calmo: così mi appare Earl; così mi appare sempre. Questo mi tranquillizza.
Poi vedo i suoi occhi; i suoi occhi neri, profondi, tristi.
Earl è triste. Mi dispiace.
Mi dispiace perché avevo promesso a me stesso che lo avrei reso felice.
Socchiudendo gli occhi, torno allora indietro nel tempo, nei miei ricordi, dolci e amari allo stesso tempo.

*

Tradito

Non ricordo molto della mia infanzia, di mia madre e dei miei fratelli.
Sono nato in uno di quei posti definiti “allevamenti”, figlio di“campioni”, come si dice. Mio padre, che non ho mai conosciuto, e mia madre erano ottimi cani da caccia: dei Pointer inglesi. Io sono un Pointer, un “magnifico esemplare di Pointer”, così mi avevano definito.
Maschio, pezzato bianco e nero, dagli occhi color ebano, con un fiuto eccezionale, garantito dai miei genitori.
Io e i miei fratelli fummo venduti presto e a caro prezzo.
Il mio primo padrone era un cacciatore, ovviamente. Era severo e rigido, ricordo mi picchiava forte quando non facevo bene qualcosa, ma io ho un carattere posato, non mi sono mai ribellato.
Vivevo in un capanno tra topi e fieno; vissi lì il mio primo anno di vita.
Non ero bravo a cacciare. Proprio così: nonostante discendessi da ottimi cacciatori, io ero una frana. Il mio padrone non capiva il perché: rispondevo sempre ai richiami, apprendevo in fretta ciò che mi insegnava, ero attento e disciplinato, eppure non riuscivo a stanare nemmeno una preda, oppure ritrovare nel bosco il punto in cui era caduto l’uccello colpito dal mio padrone.
Mi portò dal veterinario e, dopo un’accurata visita, risultò che, per un problema genetico, il mio olfatto faceva cilecca: era poco sviluppato, insomma, per questo non riuscivo a fiutare le prede.
In giro di pochi giorni mi ritrovai da solo in mezzo ad un campo.
Quella mattina presto, infatti, il mio padrone - di cui non ricordo nemmeno il nome - mi fece salire sulla sua 4x4, si avviò per le campagne, in zone che non avevo mai visitato, si fermò in mezzo alla strada di terra, al bordo di un campo di grano, aprì la portiera ed esclamò:
«Forza, vai!»
E io, riconoscendo il comando, partii immediatamente, spedito, nella direzione indicata dal suo dito indice, pronto a cercare la selvaggina che probabilmente il mio padrone aveva individuato tra il grano. Solo dopo un centinaio di metri percorsi di corsa sfrenata mi resi conto di essere rimasto solo.
Mi fermai ansimando un po’ e mi voltai indietro, verso la strada: una nuvola di polvere doveva ancora posarsi a terra, segno che la macchina era ripartita velocemente giusto qualche istante prima. Girai la testa in varie direzioni, ma non scorsi l’auto da nessuna parte, già scomparsa dietro gli alberi che costeggiavano la strada.
Allora tornai a guardare nella direzione che mi aveva indicato il padrone e puntai il naso a terra, avanzando in cerca della bestia che dovevo portargli: nonostante l’olfatto poco sviluppato potevo percepire chiaramente che nelle vicinanze non c’era nessuna bestia, né viva né morta.
Mi fermai di nuovo e tornai ancora a guardare la strada.
Mi sembrava assurdo che il mio padrone mi avesse indicato una direzione sbagliata e poi se ne era andato. Sì, assurdo. Mi fidavo di lui; credetti ci fosse stato un errore. Pensai che si era semplicemente spostato più avanti con la macchina, inseguendo con lo sguardo il coniglio o il fagiano o la lepre che era scappata in un’altra direzione; magari mi aveva anche chiamato, dicendo di inseguirla, ma io, troppo preso dalla punta, non l’avevo sentito.
Certo di queste considerazioni, ricordo di aver continuato a cercare in quel campo e nel boschetto limitrofo per tutta la mattina, e poi il pomeriggio, finché non era calata la sera. E ricordo anche che, a parte qualche topo o riccio o passero, non avevo fiutato niente.
Non c’era cacciagione lì; non c’era niente che io dovessi trovare.
Solo a notte fonda, sdraiato accanto il bordo della strada proprio nel punto in cui aveva fermato la macchina e mi aveva fatto scendere, riuscii a realizzare che il mio padrone mi aveva tradito.
Fu una considerazione terribile. Terribile. Non riesco a trovare nessun altra parola. Mi fidavo di lui e lui mi aveva tradito.
Nonostante stessi malissimo, decisi di non arrendermi. Attesi seduto lì tutto il resto del giorno dopo e la notte successiva; ogni volta che passava una macchina - molto di rado mi ricordo - mi alzavo in piedi e iniziavo a scodinzolare, ma non era mai lui. Non si fermava nessuno e, all’alba del terzo giorno, mi ritrovai ad avere molta fame e sete.
Pieno di un vuoto interiore, mi allontanai lentamente da lì, conscio che il mio padrone non sarebbe più tornato a prendermi.
Girovagai altri due giorni, riuscendo a dissertarmi in un paio di ruscelli, ma senza mangiare nulla. Nemmeno un topo o una piccola lepre: iniziavo ad inseguirli, ma loro, rapidi, fuggivano presto tra i cespugli e il sottobosco, così che, con il mio debole olfatto, non riuscivo più a rintracciarli.
Ero dimagrito e stanco quel sesto giorno della mia solitudine, quindi per questo quell’uomo riuscii a catturarmi facilmente. Usò un lungo bastone d’acciaio con in cima un collare rigido, che strinse appena me lo passò sul collo. Mi fece salire su un furgoncino con all’interno una gabbia: non opposi alcuna resistenza, ero troppo debole.
E così finii in canile.
La prima cosa che mi colpì fu il rumore. Un chiasso assordante tra abbai, gemiti, il tintinnare di ciotole di ferro che cadevano a terra, ringhi e il chiaro suono di una lotta tra due cani parecchio nervosi, il ticchettare delle unghie sul pavimento di cemento, le gabbie scosse violentemente dai cani che si affollavano per vedere il nuovo arrivato, mangime smosso nelle mangiatoie di ferro. Le orecchie mi ronzavano e stringevo un po’ gli occhi, abbassando il capo per cercare di schermare un po’ tutto quel rumore, ma era impossibile.
Poi, la puzza mi investii. Piscio, bisogni vecchi non raccolti sul pavimento delle gabbie, puzzo di pelo bagnato e delle vecchie cucce con all’interno stracci mai lavati, per non parlare degli aliti di un centinaio di cani che abbagliavano tutti nella mia direzione... Un inferno, non trovo altra definizione.
Fui portato in fondo a quel corridoio a cui lati affollavano gabbie con almeno quattro cani all’interno; l’uomo aprì proprio l’ultima, già occupata da un meticcio maschio tipo barboncino e un bel segugio femmina che, intuii, era purtroppo sterilizzata. Mi lasciò lì dentro e si allontanò; gli altri due cani mi annusarono per qualche tempo e io feci lo stesso, poi tornammo ad ignorarci. Senza perdere altro tempo, attratto dall’odore, mi fiondai verso la mangiatoia e presi a mangiare parecchie crocchette sommariamente insapori e un po’ dure. Bevvi anche molto, poi, veramente stanco, mi posai sopra un bancale di legno, mentre la segugia entrava in una cuccia e il barboncino si acciambellava in un angolo riparato dal vento, pian piano il rumore del canile si placò e io mi addormentai.

Continua...

Per scrivere questa storia mi sono ispirata alla mia esperienza di volontariato in un paio di canili.
Il racconto sarà breve: si concluderà tra tre piccoli capitoli e un breve epilogo.
Spero che questo primo capitolo vi sia piaciuto; grazie a chi ha letto. :)
A presto!

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Capitolo 2
*** Secondo Capitolo ***


Il Canile
 
Dalla mia gabbia potevo guardare fuori. Intorno la struttura del canile si estendeva un bel prato con alberi da frutto, poi, al di là di una staccionata di legno che delimitava la zona, potevo osservare i campi di grano e di avena e un bosco in lontananza. A meno di quindici metri dalla mia gabbia, appunto l’ultima del canile, c’erano sette box isolati, proprio di fronte a dov’ero io. Al loro interno, uno per gabbia, un cane da caccia: da un paio di Pointer come me a tre Bracchi e due Setter. Esemplari bellissimi e ben curati che stridevano in contrasto ai cani sporchi, quasi tutti meticci e vecchi all’interno del canile.
Questi cani “speciali” venivano nutriti bene tutti i giorni con crocchette dall’aspetto davvero invitante e, a volte, qualche bel osso buco; dalla loro voracità intuivo avesse un sapore ottimo.
Le nostre mangiatoie, invece, venivano riempite solo ogni due giorni, con scarse quantità che bastavano appena a me, la segugia e il povero simil-barboncino che arrivava appena all’apertura della mangiatoia. Trovavo buffo osservarlo pescare le crocchette con la lingua; notai che era magro, probabilmente non mangiava mai abbastanza. Era comunque un tipo tranquillo, con però un carattere deciso: lasciavo che mangiasse sempre prima di me, altrimenti mi sarei dovuto sorbire i suoi brontolii per tutto il tempo del pasto; non mi attaccava mai infatti, forse intimorito dalla mia stazza, ma si faceva sentire!
La segugia era invece riservata e un po’ schiva; aspettava che noi avessimo finito per venire a mangiare e stava fuori dalla cuccia poco tempo, preferendo ripararsi là dentro. Credo avesse subito molti maltrattamenti in passato, per questo era diventata così timorosa e schiva.
Cosa che percepii chiaramente fu che il simpatico barboncino era follemente innamorato di lei. Ogni volta che la segugia usciva dal suo riparo, lui era subito al suo fianco: la scortava in ogni angolo della gabbia, come a proteggerla, e il piccoletto mi ringhiava se provavo a darle un’affettuosa leccata sulla guancia. E lei sembrava proprio lusingata dalle sue premure: intuii avessero passato davvero molto tempo insieme dentro quella gabbia.
Comunque, sommariamente io ignoravo entrambi senza problemi; sono sempre stato un tipo indipendente e tranquillo.
I problemi veri arrivarono però un giorno, venendo a rompere il dolce equilibrio che si era venuto a creare all’interno della mia gabbia.
Ricordo bene quel giorno. Me ne stavo beatamente sdraiato sul mio bancale, con il capo appoggiato sulle zampe anteriori, e guardavo fuori quei bellissimi sette cani da caccia correre per il prato curato intorno il canile. Il proprietario della struttura - proprietario anche di quei sette cani - li faceva uscire per il prato ogni mattina presto per mantenerli in forma. Io ero al canile da ormai otto mesi e non ero mai uscito, nemmeno una volta.
Li guardavo forse un po’ invidioso, ma non facevo una piega, al contrario di molti altri cani reclusi che si agitavano sbattendo contro le pareti delle gabbie e abbaiavano forte, ingelositi. Per tutta risposta, i sette cani fuori non ci degnavano minimamente della loro attenzione.
Ad un tratto si udì sopraggiungere una macchina - le ruote scricchiolavano sulla stradina di terra che conduceva alla struttura -, poi ci fu un fischio e in un attimo i cani tornarono dentro le proprie gabbie, che furono chiuse dal padrone, mentre un secondo uomo si avviava per il prato con al guinzaglio di ferro un cane completamente nero dagli occhi nocciola vivi, attenti. Un nuovo ospite per il canile.
Non era raro che entrassero nuovi cani, negli ultimi mesi ne erano stati trovati in giro cinque, tutti poi sistemati nei vari posti vuoti in una gabbia o in un’altra. Però ora di posti vuoti non ce n’erano più, essendo le gabbie progettate per accogliere non più di quattro cani, quindi l’unica disponibile era la mia, dove eravamo ancora in tre.
L’uomo entrò nel corridoio e prese ad avanzare, mentre gli altri “ospiti” abbaiavano e ringhiavano e sbattevano contro le gabbie. Ma il cane nero non era affatto intimorito. Non abbassava la testa per schermarsi un po’ dai rumori, come avevo tentato di fare io la prima volta, non concedeva nemmeno uno sguardo agli altri cani, si limitava ad avanzare con fredda calma e le labbra un po’ tirate a mostrare leggermente i suoi canini. A prima vista sembrava un incrocio con un Pastore Tedesco, anche se alcuni lineamenti ricordavano un Labrador. Maschio, fiero e con il corpo robusto, forse aveva sui quattro o cinque anni, in piena maturità.
L’uomo si fermò davanti la nostra gabbia, aprì la porta, sciolse abilmente il collare e spinse il cane dentro che, per risposta, ringhiò sommessamente mostrando un po’ di più i denti. L’uomo, per nulla intimorito, lo ignorò, chiuse la porta e andò via.
Mi alzai in piedi, ma non mi mossi dalla mia postazione. La segugia, inizialmente intenzionata ad avvicinarsi per annusarlo, tirò invece indietro le lunghe orecchie e si nascose nella sua cuccia. L’unico a muoversi fu il barboncino: si avvicinò al cane nero e iniziò ad annusargli il sedere. Il nero, irritato, voltò la testa verso di lui e ringhiò ancora; il barboncino arretrò, ringhiò a sua volta, poi decise di lasciar perdere e andò nel suo angolo.
Così il nero rilassò i tratti del muso e volse lo sguardo verso di me. Uno sguardo color cammello, vivo, intenso. Ci guardammo a lungo negli occhi; eravamo quasi della stessa stazza, io ero un po’ più piccolo ma anche più giovane.
Qualcosa in quello sguardo freddo, però, mi fece decidere di abbassare il mio.
Come soddisfatto da ciò, il cane nero si voltò e prese a mangiare; il barboncino tentò una piccola protesta, ma lasciò perdere, notando che il nero lo ignorava del tutto.
Si instaurò così un equilibrio diverso nella gabbia, molto più delicato del precedente: spesso il nero e il barboncino si ringhiavano, ma per il momento il più piccolo decideva di lasciar perdere e quindi non c’erano mai stati grossi problemi; la segugia passava molto più tempo nella cuccia, evitando di farsi avvicinare dal nero; e io e lui ci ignoravamo a vicenda, senza mai annusarci e io rispettavo il suo turno nel mangiare senza protestare.
Avvenne tutto molto in fretta.
Erano passate ormai due settimane dall’arrivo del cane nero, quel giorno pioveva.
Non era mai una bella cosa quando pioveva: il tetto spiovente della struttura era rotto in alcune parti, ad esempio proprio sopra il mio bancale. Anche l’angolo del barboncino era bersaglio della pioggia e, al contrario di me che non facevo troppo caso all’acqua che mi inzuppava il pelo e che continuavo a sonnecchiare come se nulla fosse, il piccoletto era parecchio innervosito. Proprio come il cane nero, che mordicchiava le grate in ferro della porta della gabbia, come in un tentativo di uscire per trovare un riparo decente. Mentre il barboncino camminava in cerchio, irrequieto, borbottando chissà cosa nel suo nervosismo, il nero decise di lasciar perdere gli inutili tentativi di fuga e si avvicinò all’unica cuccia presente nella gabbia, dentro cui si trovava naturalmente la segugia. Aprii gli occhi per guardare, capendo le intenzioni del nero: o con le buone o con le cattive, quella cuccia sarebbe stata sua. Non mi mossi, ma ero teso: era stato deciso da tempo che quel riparo era di proprietà della segugia, e adesso arrivava lui che glielo voleva sottrarre. No, non andava bene per niente...
Il nero si fermò davanti l’entrata della cuccia e iniziò a ringhiare sommessamente. La segugia all’interno si irrigidì, spaventata, ma non si mosse. Il nero allora prese a ringhiare più forte, abbaiando anche, ma lei non si mosse.
Il barboncino, intanto, si era fermato e guardava rigido la scena, mentre i peli sulla schiena gli si drizzavano.
Il nero perse di colpo la pazienza: immerse la testa dentro la cuccia, ringhiando con forza, e azzannò ad una spalla la segugia che gemette forte.
Fu un attimo: intanto che mi alzavo, innervosito da quell’improvvisa violenza, il barboncino partì spedito contro il nero, ringhiando ed abbaiando, e lo attaccò alla zampa anteriore. Il cane nero, irritato, tirò fuori la testa e, con un movimento davvero fulmineo, abbassò le fauci sul collo del barboncino, stringendo forte, strappando un lamento al piccoletto, e iniziando a scuoterlo come se fosse uno di quei pupazzi di gomma con cui mi faceva giocare il mio padrone quand’ero cucciolo.
Iniziai ad abbaiare, intimando al nero di smetterla, mentre la segugia piangeva da dentro la cuccia, davvero disperata. Ma no, il nero non si fermava: ignorando i lamenti e gli inutili tentativi del barboncino di morderlo, continuava a scuoterlo, affondando sempre di più i denti nel collo del cane.
Anche tutti gli altri cani abbaiavano: chi incitava il nero, chi gli chiedeva di fermarsi... c’era il caos.
Il proprietario della struttura entrò di corsa brandendo una scopa: iniziò a colpire con forza il cane nero sul dorso, urlando di smetterla; la scopa si ruppe, ma lui continuò a colpire, tanto che, alla fine, gemendo, il nero dovette per forza lasciare la presa e allontanarsi dolorante per evitare altri colpi. L’uomo si chinò immediatamente sul barboncino, ma ormai non c’era più niente da fare.
Era morto.
Mi avvicinai istintivamente per annusarlo un’ultima volta, ma l’uomo, dopo averlo preso in mano per portarlo via, mi diede un calcio, facendomi guaire, e mi intimò di stare indietro mentre usciva. Se ne andò quindi con il piccoletto in una mano e quella fu l’ultima volta che vidi il mio buffo amico a quattro zampe.
La segugia, a quel punto, uscì lentamente dalla cuccia, di cui si appropriò subito il nero, entrandovi, ma lei lo ignorò, si avvicinò pian piano a me, che mi trovavo di fronte al punto in cui poco prima giaceva il barboncino, chinò il capo e prese a leccare le gocce di sangue del suo amico e, chissà, amore. Le leccò tutte, pulendo il pavimento, e io la osservavo immobile, profondamente dispiaciuto, osservando in silenzio anche la sua ferita alla spalla, fortunatamente superficiale. Quando ebbe finito, con gli occhi spenti, si avviò all’angolo preferito del barboncino, si acciambellò su se stessa e posò il muso sulle zampe, fissando terra. Io pure me ne tornai mestamente al mio bancale, bagnandomi ancora sotto la pioggia e pensando tristemente a quanto cambiano velocemente le cose.  
Passarono altre due settimane da quel fatto e morì anche la segugia. Non aveva più toccato cibo, né acqua, da quella volta, rimanendo sempre in quell’angolo e si era spenta lentamente nella sua malinconia. Mi accorsi che era morta la mattina presto; mi sdraiai allora al suo fianco e posai il capo sul suo, rimanendo così fino il primo pomeriggio, quando arrivò l’uomo per riempire la mangiatoia e capì cos’era accaduto. La portò via subito e io rimasi seduto là dove era rimasta quei quindici giorni, limitandomi a guardare il nero che, senza nessun problema, affondava il muso dentro la mangiatoia per pranzare.
Da quel momento i rapporti tra noi due divennero parecchio tesi. Non c’era nulla da fare: ormai avevo due anni e mi mostravo come un cane dominante, proprio come lui. Non era raro che ci guardassimo ringhiando a vicenda, ma sempre sottovoce, come una pacata e fredda minaccia. Anche sul fatto del mangiare non ero più tanto d’accordo che iniziasse lui e lo facevo notare iniziando a ringhiare un po’ più forte, ma lui mi rispondeva altrettanto minaccioso e per il momento decidevo sempre di lasciar correre. Ogni volta che si avvicinava un po’ troppo a me facevo notare il mio disappunto mostrando i denti; lui mi guardava intensamente, poi si allontanava. Eravamo legati da una tesa tregua che rischiava di rompersi da un momento all’altro.
E questo accadde circa un mese dopo la morte della segugia.
Erano ormai nati da due mesi i quattro piccoli del Pointer femmina bianco e marrone del proprietario del canile; l’aveva fatta accoppiare con l’altro suo Pointer tempo prima e ora erano pronti per essere venduti. Era pieno pomeriggio e io stavo seduto sul bancale a guardare proprio quella bella Pointer sdraiata sull’erba che osservava i cuccioli girare nel prato; c’era solo lei fuori con loro quattro. Un paio di piccoli curiosi si avvicinarono un po’ di più alla mia gabbia; tra me e i loro c’erano appena cinque o sei metri di distanza. La madre li richiamò, dicendo di non avvicinarsi, e loro si fermarono.
Si udì sopraggiungere una macchina, poi una portiera fu chiusa, il proprietario del canile parlò con l’ospite e i due uomini si avviarono per il prato diretti proprio verso i cuccioli. Quando furono nel mio campo visivo alzai lo sguardo per vedere e, a quel punto, mi gelai.
Non c’era nessun dubbio; anche se il mio debole olfatto non poteva confermare la mia teoria, ne ero certo: in compagnia del proprietario del canile, il possibile acquirente, era il mio padrone. Mentre quest’ultimo si chinava a raccogliere un cucciolo pezzato bianco e marrone, ad appena quei cinque o sei metri da me, io balzai di colpo su due zampe e iniziai ad abbaiare, saltare, ululare, scodinzolare di gioia, attirando la sua attenzione come a dire “Ehi, ehi, sono qui! Guardami, sono io!”.
E quindi, come avevo sperato, il mio padrone alzò gli occhi su di me e si immobilizzò, con il cucciolo in mano, guardandomi davvero stupito.
«Qualcosa non va?» gli chiese l’allevatore/proprietario del canile.
Il mio padrone sbatté più volte le palpebre, sorpreso, e si ritrovò a chiedere:
«E quel Pointer? Dove l’hai preso?»
L’allevatore capì che parlava di me e rispose tranquillamente:
«Trenta chilometri a nord, girovagava per le campagne. Perché, ti interessa?»
Vidi chiaramente il mio padrone deglutire e irrigidirsi ancor di più; sperai che, da un momento all’altro, avanzasse verso di me per accarezzarmi, scusandosi dicendo che non era riuscito più a trovarmi, che gli ero mancato moltissimo... oh, perché lui sì, mi era mancato da morire!
E invece il mio padrone distolse lo sguardo da me, osservò per un ultima volta il cucciolo che aveva in braccio e tornò a rivolgere l’attenzione all’allevatore, chiedendo come se nulla fosse:
«E’ questo l’esemplare di cui mi parlavi?»
«Sì, proprio questo, sì»
«Bene, andiamo, accordiamoci per il prezzo»
Si allontanarono con il piccolo cane, mentre io ancora non mi fermavo e continuavo a saltare ed abbaiare, ma i due non si voltarono e presto sparirono dalla mia visuale. Rimasi così, fermo su due zampe, in ascolto, finché non udii chiaramente la macchina ripartire. Ritornò solo il proprietario del canile che fece rientrare la Pointer e i suoi cuccioli e si allontanò di nuovo.
Mi sentii morire dentro, letteralmente.
Ricaddi su quattro zampe, mesto, e mi avviai lentamente all’abbeveratoio; tutto quell’abbaiare e saltare mi aveva fatto venire una gran sete. Mentre bevevo svogliatamente con un’aria rassegnata, il mio sguardo cadde involontariamente sull’espressione compiaciuta del nero. Sembrava soddisfatto della mia “sconfitta”. Questo mi irritò parecchio.
Smisi di bere e mi avvicinai con calma a lui, senza abbassare lo sguardo dai suoi occhi. Allora lui si irrigidì; quell’aria soddisfatta scomparve dal suo muso, dove prese posto un’espressione dura, decisa. Assunsi anch’io quell’espressione e rimanemmo uno di fronte all’altro a fissarci negli occhi. Poi il nero iniziò a ringhiare. Iniziai anch’io, appositamente più forte e minaccioso. Lui continuò ancora un po’, poi scosse come la testa, quasi a consigliarmi di lasciar perdere, e si avviò tranquillamente alla mangiatoia. Allora mi frapposi tra lui e il cibo, deciso ad andare fino in fondo: sta volta non avrebbe mangiato per primo. Davvero irritato dalla mia insubordinazione, il nero tornò a ringhiare più forte ed ad abbaiare. Risposi anch’io al ringhio e all’abbaio; il nero provò ancora ad avanzare, ma io lo anticipai. Con uno scatto gli fui addosso, mirando proprio al collo, come lui aveva fatto al barboncino. Finimmo a terra, rotolando su noi stessi e continuando a mordere, ringhiare e graffiare. Sbattemmo più volte contro le pareti della gabbia, ma non ci fermammo; ormai non vedevo più niente, accecato dalla rabbia e dal dolore, e colpivo alla cieca, assaporando il sangue, il puzzo della sua pelle, il sapore di sporco del pelo. Non so quanto lottammo, ma alla fine un dolore forte, lancinante, mi esplose al fianco; gemendo, fui costretto a mollare la presa sulla guancia del nero e arretrai, mi accorsi così che era intervenuto l’allevatore con una scopa, con cui ora colpiva il nero che si era ribellato anche a lui.
«Fermati! Fermati!» gli urlava l’uomo, colpendolo, ma il cane nero, totalmente impazzito dalla rabbia, si era avvinghiato alla sua caviglia, affondando sempre di più i denti e facendolo gridare dal dolore.
Intervenne di corsa anche l’altro uomo, quello addetto alla cattura dei cani randagi, che sparò una siringa narcotizzante contro il fianco del cane nero. Quest’ultimo, con un guaito, lasciò allora la presa e iniziò a barcollare, arretrando. Anch’io arretrai verso il mio bancale, notando che ora l’uomo mirava a me; mi sparò, colpendomi alla coscia. Gemetti e mi sdraiai sul bancale, spaventato. Pian piano iniziai ad addormentarmi, proprio come il cane nero, e l’ultima cosa che vidi fu il nero crollare a terra e l’uomo ferito alla gamba mettersi seduto con un’espressione sofferente.
Poi fu tutto buio.  

Continua...

Grazie a tutti coloro che hanno letto il primo capitolo; spero vi sia piaciuto anche questo!
A presto! :)

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Capitolo 3
*** Terzo Capitolo ***


E così conobbi Earl
 
Era una bella giornata invernale.
La neve ricopriva candidamente oltre la metà della mia gabbia, quella non protetta dalla tettoia in parte rotta, e io mi divertivo a calpestarla cautamente, osservando come la mia grossa zampa affondasse di almeno cinque centimetri in quel manto bianco. Divertito come non mai presi a scavare nella neve, buttandola tutta contro la parete destra, colpendo così il grosso e rosso meticcio che sonnecchiava placidamente sul pavimento della sua gabbia, adiacente alla mia. Questi si svegliò e mi abbaiò di smetterla, io lo ignorai e proseguii a scavare finché non c’era più neve nel mio box. A quel punto, annoiato, tornai dentro la cuccia, sospirando.
Erano passati sei anni dalla mia lotta con il cane nero, del quale seppi fu soppresso perché aggressivo anche verso le persone. Io invece ero stato medicato e trasferito in un box di isolamento, accanto altre quattro gabbie singole dove si trovavano cani all’apparenza docili ma che non andavano d’accordo con i loro simili. Fui classificato come “un maschio dominante che non tollera la presenza di altri maschi” e così mi lasciarono in quel box singolo per sei anni.
Grattandomi con una zampa il mio mezzo orecchio sinistro - strappato a morsi dal nero quella volta - mi soffermai con lo sguardo su una coppia di umani con una bambina che portavano via il piccolo meticcetto focato e a pelo lungo, simile ad un volpino, arrivato non da molto in canile. Un’altra adozione: eravamo già a tre nell’ultimo mese.
In sei anni avevo visto lasciare la struttura una ventina di cani, tra adozioni e qualche morte, ma il ricambio era continuo: continuamente, infatti, arrivavano nuovi randagi, così che il canile era sempre pieno.
La coppia e la bambina passarono davanti il mio box, con al guinzaglio l’allegro simil volpino, senza degnarmi di uno sguardo, come accadeva ogni volta. La mia gabbia si trovava circa all’inizio del corridoio - la terza, in ordine -, eppure, quando entravano gli ospiti, nessuno si soffermava su di me. Probabilmente a causa del mio orecchio mozzo, la mia stazza e il fatto che mi trovavo in una gabbia di isolamento, segno che non ero affatto docile. Ma era tutta apparenza: ero il cane più tranquillo del mondo. Però nessuno se ne accorgeva.
Quei tre furono fuori, firmarono le ultime carte che gli porgeva il proprietario della struttura, e si avviarono quindi per il prato. Poco prima di uscire, superarono un giovanotto sui trenta, alto, dall’aria introversa, grossi occhiali da vista e neri capelli ribelli. Avanzava un po’ incerto sul prato in direzione della struttura, con le mani in tasca e rannicchiato nel suo pesante cappotto beige, con al collo una sciarpa rossa che gli copriva il mento. Dava l’idea di avere molto freddo.
Non so perché lo studiai così a lungo, intanto che il proprietario del canile gli si avvicinava con finto fare cordiale, ma ebbi come una strana intuizione che mi convinse ad uscire dalla mia cuccia, sedermi di fronte alla porta della gabbia e guardarlo entrare dentro il canile con un’aria attenta, scrutandolo dai capelli arruffati agli scarponcini neri sporchi di neve e fango.
Rimasi così, in attesa.
«Allora, mi diceva che ha un bel giardino, giusto?» chiese l’allevatore, entrando per primo nella struttura.
«Sì» rispose timidamente il giovane, portandosi istintivamente una mano su un orecchio, cercando di proteggersi un po’ da tutto quel rumore all’interno del canile.
«E cercava un cane di taglia media, mi diceva» proseguì l’allevatore, iniziando ad avanzare per il corridoio «Ho proprio ciò che fa per lei!»
Il ragazzo iniziò a seguirlo titubante, spostando lo sguardo sul simil pastore tedesco all’entrata, troppo grande e fiero per il suo piccolo box singolo, il maremmano dall’altro lato del corridoio, anche lui in isolamento, il bavoso molossoide nel box accanto il maremmano, poi l’agitato meticcio rosso accanto la mia gabbia, finché non giunse proprio davanti a me. E si fermò.
«Chiaramente non sono tutti di razza, ma visto che non ha grosse pretese andranno benissimo...» proseguiva a parlare il proprietario del canile, continuando a camminare per il corridoio senza accorgersi che l’altro si era fermato.
Il giovane si piegò sulle gambe, abbassandosi in modo da avere gli occhi alla stessa altezza dei miei; io continuavo a starmene seduto composto, senza dire o fare nulla.
Gli occhi del ragazzo erano di un marrone molto scuro, quasi neri; ricordavano molto i miei. Quello che mi colpì fu che ispiravano una profonda tristezza e malinconia.
Avvicinò un po’ di più il viso alla mia gabbia e io, d’istinto, feci lo stesso; a pochi centimetri da me l’allevatore si accorse di cosa stava accadendo e iniziò ad esclamare:
«Ehi, aspetti, quel cane è...»
Una lunga leccata, dalle labbra alla fronte del ragazzo, che strizzò gli occhi, pietrificato.
«... pericoloso...» concluse sorpreso l’allevatore.
Il giovane si alzò in piedi, si asciugò il volto con la sciarpa, mi lanciò un altro sguardo e si rivolse all’uomo tranquillamente:
«Prendo lui»
Uscire da quella gabbia fu bellissimo. Bellissimo. Non trovo altro termine.
Ero stato legato ad un provvisorio guinzaglio in corda per uscire dal corridoio; ero già irrequieto e felice da quella novità, tanto che trascinavo letteralmente il mio nuovo padrone verso l’uscita della struttura. Una volta fuori, nel prato esterno recintato, il giovane mi strattonò maldestramente, richiamandomi:
«Su, bello, non farmi cadere...»
Bello. Nessuno mi aveva mai definito “bello”. Mi sentii fiero e forte e allora decisi di accontentare quel giovane e mi fermai.
Il ragazzo firmò le ultime carte, salutò l’allevatore e noi due ci avviammo verso la sua macchina, un vecchio fuoristrada sporco di fango. Non mi voltai mai una volta indietro, verso la mia prigione; puntai semplicemente dritto verso l’auto e salii subito quando mi aprì il portabagagli.
Poi il giovane si mise alla guida, dicendomi di stare buono durante il viaggio, e partimmo per quelle strade sterrate e piene di buche, finché non arrivammo per una strada malamente asfaltata e poi in un’altra invece molto bella, costeggiata da case e una fila di alberi sempreverdi.
La casa era davvero graziosa, con un bel giardino e un piccolo laghetto al momento ghiacciato. Entrammo subito dentro e il ragazzo mi slegò quella corda dal collo, lasciandomi libero per il salottino, che non persi tempo ad analizzare, annusando ogni cosa. Poi il giovane buttò via la corda, cosa che mi sorprese moltissimo, si tolse il cappotto, la sciarpa e le scarpe e poi si rivolse a me, mettendosi le mani sui fianchi.
«Allora, amico, intanto mi presento: mi chiamo Earl» mi misi seduto sul tappeto, in ascolto «Al tuo nome non ho ancora pensato, ma c’è tempo. Le regole in questa casa sono semplici: si sporca fuori, non si rompono i divani, non si mordicchiano le sedie e non si dorme sul mio letto. Tutto chiaro?»
Ruotai un po’ la testa di lato, fissandolo con occhi dolci, e Earl non poté trattenersi nel sorridere. Il suo sguardo aveva acquistato un po’ più di lucentezza.
«E adesso facciamo un bel bagno che puzzi!» sentenziò infine.  

Continua

La storia è quasi finita: presto l'ultimo capitolo e poi l'epilogo.
Grazie a tutti coloro che hanno letto fin qui; a presto! ;)

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Capitolo 4
*** Quarto Capitolo ***


Quant’è vero che il tempo passa in fretta
 
La sveglia suonò allegramente, vibrando sul comodino in legno chiaro e avvicinandosi sempre più pericolosamente al bordo, minacciando di cadere da un momento all’altro.
Rapido attraversai il salotto, abbandonando il mio morbido cuscino che fungeva da giaciglio, raggiunsi la camera, aprii la porta socchiusa con il naso e saltai sul letto, riempiendo di baci il viso di Earl che borbottò di smetterla, per poi scoppiare a ridere.
La sveglia cadde infine a terra e si zittì.
«Su, Paul, smettila, smettila! Sono contento anch’io di darti il buongiorno, ma basta...!» provò Earl, mentre ci mescolavamo tra le coperte e i cuscini, in una buffa confusione.
Buffo, proprio come il perché mi avesse chiamato Paul.
Ero con Earl da nemmeno una settimana e lui, da bravo ragazzo single, era intento a pulire minuziosamente casa; al momento passava lo straccio bagnato a terra, intimandomi a rimanere sul divano, fermo, qualsiasi cosa fosse accaduta, altrimenti avrei di nuovo sporcato. Obbedivo in silenzio, guardandolo incuriosito lucidare il pavimento marroncino. Intanto alla radio c’era la pubblicità di un nuovo supermercato ed entrava un’aria davvero pungente dalle finestre lasciate momentaneamente aperte per far asciugare in fretta il pavimento. D’un tratto la pubblicità finì e al suo posto partì una canzone annunciata con il titolo di “Maybe I’m Amazed”. Drizzai le orecchie, in ascolto. I toni così profondi della voce del cantante e la melodia di un ottimo gusto, a mio parere, mi portarono ad ululare in direzione della radio, seguendo quasi il ritmo della canzone. Earl smise per un attimo di pulire, ascoltò la canzone, guardò me ed esclamò con una risata:
«Ti piace Paul McCartney? Davvero ti piace? Molto bene, molto bene, Paul
 
Earl è un informatico. Lavora a casa a lungo, anche sette o otto ore al giorno, a volte fino a tarda notte. Progetta software per un’azienda e perfeziona programmi, tutto nel suo studio, in cui trova l’ambiente di lavoro ideale.
E’ una persona schiva, un po’ solitaria, che ha ricercato la compagnia di un cane per non sentirsi troppo solo. Mi disse di aver scelto me perché, a prima vista, aveva intuito che gli assomigliassi molto nel carattere; teoria confermata.
Aveva provato ad avere qualche relazione, con due o tre ragazze, ma tutto si concludeva con un nulla di fatto. Era troppo timido, non andava mai bene. Però lui era comunque felice. Sì, felice. Ero io la sua felicità e questo mi rendeva particolarmente orgoglioso. Sono un cane obbediente, pulito e silenzioso, proprio come piace a Earl. E sì, ero felice anch’io.
 
Iniziò tutto una mattina di autunno, durante una nostra passeggiata insieme, per l’abituale giro del quartiere alberato. Le foglie marroni, rosse e gialle a terra ruotavano al vento creando una vista davvero suggestiva.
Avevo ormai quindici anni.
Earl camminava al mio fianco, con le mani in tasca e il capo del guinzaglio legato ad un polso; io avanzavo con calma, forse un po’ stanco, come mi sentivo da qualche tempo. Avevo il muso rivolto verso terra, forse in cerca di qualche odore che il mio naso poteva captare lievemente; quasi non vidi l’idrante rosso davanti a me che riuscii ad evitare grazie anche ad una tempestiva strattonata di Earl.
«Ehi, amico, tra un po’ ci sbattevi il muso...» commentò lui, con un accento impensierito nella voce.
Mi resi conto di non riuscire a mettere bene a fuoco le cose intorno a me. Attribuii tutto questo alla stanchezza e non ci feci più troppo caso.
La vista non tornò più quella di prima e nei giorni successivi iniziai anche a risentire dell’età, muovendo le zampe con più fatica. Comunque non mi persi mai d’animo, andando a svegliare Earl tutte le mattine con allegra irruenza, strattonandolo nei primi dieci metri di strada non vedendo l’ora di annusare la profumata urina della bellissima Setter del vicino di casa, mangiando sempre tutto e voracemente. Semplicemente ora mi stancavo con maggiore facilità, ritrovandomi spesso con il cuore che batteva forte e il fiato corto, anche solo dopo una breve scalinata. Earl se ne accorse e, premuroso, evitava di farmi camminare troppo a lungo o di percorrere strade con troppi “sali-scendi”.
L’inverno era giunto quasi al termine, quando quella mattina la sveglia del mio padrone iniziò a suonare come al solito alle otto meno dieci. Earl non riuscì a destarsi in tempo per zittirla, così che questa cadde a terra come ogni volta, tacendo. Il ragazzo sbadigliò sonoramente e si mise seduto sul letto, arruffandosi ulteriormente i capelli con una mano e infilandosi gli occhiali. Dopo qualche secondo ancora di stordimento realizzò che c’era qualcosa che non andava. Volgendo uno sguardo alla porta socchiusa della camera si sbrigò ad alzarsi, si infilò la vestaglia e giunse in salotto, preoccupato.
Io ero là, sdraiato a terra, immobile.
Non percepii affatto Earl gettarsi di colpo in ginocchio accanto a me, sollevandomi, scuotendomi e chiamandomi; non rispondevo.
Quando ripresi conoscenza mi trovavo sul tavolo del veterinario, attaccato ad una flebo. Sentii il dottore spiegare che avevo avuto un forte attacco di cuore e che ero vivo per miracolo. Però, purtroppo, ero rimasto a lungo privo di sensi e senza respirare; la scarsa affluenza di sangue al cervello e la mia avanzata età avevano provocato dei danni celebrali: ero rimasto paralizzato dalla vita in giù. Il fatto di non sentire più le zampe posteriori mi fece andare nel panico: iniziai ad agitarmi, mentre il respiro si faceva corto e il cuore batteva così forte da farmi male. Earl tentò di calmarmi, ma, non riuscendoci, il veterinario fu costretto ad iniettarmi un leggero calmante, che mi fece placare.
Iniziò un brutto momento per me ed Earl che era costretto a premermi sulla vescica per farmi fare la pipì, visto che non sentivo più lo stimolo, e a raccogliere i miei bisogni pulendomi anche spesso. Io continuavo a dimostrargli il mio affetto con leccate e uno sguardo grato; questo lo tirava sempre un po’ su. I primi giorni furono davvero difficili per entrambi, ma poi il tutto divenne come una routine e le cose andarono un po’ meglio.
Io comunque peggioravo costantemente, si capiva. Prendevo molte pillole, camuffate nel cibo, ed Earl mi faceva spesso punture o flebo, come gli aveva insegnato il veterinario. Una volta a settimana avevo il controllo; non era mai un bel momento perché il dottore non poteva far altro che constatare l’aggravarsi della mia situazione. La paralisi si stava estendendo e io ero sempre più stanco ed affaticato anche se me ne stavo sdraiato tutto il giorno. Il veterinario aveva iniziato a proporre un “metodo rapido per far finire le sofferenze”, come l’aveva definito; vidi Earl diventare scuro in volto, incapace di dire niente. Continuammo ad andare avanti, entrambi senza pensare molto alla mia condizione; io sempre allegro e amorevole nei suoi confronti e lui pieno d’affetto in ogni momento.
Venne presto, però, il momento di tornare alla realtà.
Era subito dopo pranzo che iniziai a stare veramente male. Sdraiato su un fianco ansimavo pesantemente e l’aria calda di inizio estate certo non mi aiutava. Mi sentivo il corpo pesante e il cuore batteva forte, fortissimo, togliendomi il respiro. Non riuscivo a tenere molto aperti gli occhi.
Vidi Earl decidere.
Capii che aveva deciso dall’espressione del suo volto: era lontana, spenta, veramente affranta.
Ma io ero d’accordo: lui sapeva che era giusto e io volevo dimostrargli che mi fidavo ciecamente del suo giudizio. Provai a scodinzolare, ma ovviamente non ci riuscii; provai allora ad alzare un po’ il capo per leccargli la mano vicino il mio muso, ma non riuscii a fare nemmeno quello. Earl parlò con il veterinario al telefono, poi mi prese in braccio e uscimmo insieme di casa. Mi teneva stretto a sé, dolcemente; ricordo, era una bellissima emozione. Poi mi adagiò sul sedile della macchina e partimmo.

Continua...

Ecco qua l'ultimo capitolo; e tra un po' posterò anche l'epilogo. Grazie millissime a tutti coloro che mi hanno seguito fin qui e... a presto! :)

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Capitolo 5
*** Epilogo ***


Grazie a tutti coloro che hanno letto la fic; questo è l'epilogo e perciò così si conclude la storia di un cane.

Così finisce

 
E quindi, eccomi qua, sul tavolo del veterinario.
Ho una flebo attaccata alla zampa anteriore e, con la coda dell’occhio, vedo il dottore preparare una siringa in silenzio.
Earl si accorge del mio sguardo distratto e allora posa entrambe le mani ai lati del mio capo, richiamando la mia attenzione verso il suo viso.
Mi sorride. E piange.
Non c’è niente di malizioso in quel sorriso, niente di falso: solo riconoscenza.
Viene da piangere anche a me. In quel momento vorrei solo riuscire a parlare la sua lingua, non per dire chissà che, ma solo, solo una cosa, una singola parola che racchiude tutto ciò che i dolci ricordi di me e lui insieme sanno trasmettermi.
Grazie, Earl.
Non sento proprio niente quando il veterinario inserisce l’ago nella flebo e quel liquido inizia a scorrere nel mio sangue; solo un sempre più forte intorpidimento... sto per addormentarmi, forse.
Earl avvicina ancora di più il suo viso al mio muso, sussurrandomi dolcemente con le lacrime agli occhi:
«Va tutto bene, Paul. Ti voglio bene»
E io, una debole leccata sulla sua bocca, proprio come la prima volta che ci siamo incontrati. Sento le labbra di Earl incurvarsi in un piccolo sorriso. E muoio.
 
Così si conclude la storia di un cane.
Un cane come tanti.
Un cane profondamente felice.
 
Fine
 
 
Ho pianto scrivendo il finale. :’)

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