I just haven't met you, yet.

di Human_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Amy e Jacopo; scuola. ***
Capitolo 2: *** Adam e Marysol; muretto. ***



Capitolo 1
*** Amy e Jacopo; scuola. ***


I just haven't met you, yet.
#1.

«Dovete capire, ragazzi, che il latino è una lingua meravigliosa».
Ceeeerto. Che film ha visto?
Do un'occhiata all'orologio, tanto per capire quanto durerà ancora questo supplizio. Due minuti.
Argh.
«Scusi prof, le posso fare una domanda?».
No, chi cazzo si mette a fare una domanda a due minuti dall'intervallo? Chi è il genio? Chi?!
Mi guardo intorno con gli occhi pronti a lanciar fulmini, e identifico il pirlotto come Luca. Prima fila, orribile, capelli che sembrano un roveto, jeans che non metterebbe neanche mio nonno e maglietta metallara che è praticamente l'unica cosa decente nella sua figura.
Metto a cuccia i fulmini e sbuffo. Tanto ormai è una causa persa. Scemo è e scemo rimane, non ci si può far niente.
«Dimmi Menconi».
«Gesù Cristo è nato ai tempi d'Augusto, giusto?».
Ma pensa te che domande di merda si mette a fare. Perché sopprimono i cani e non certi soggetti?
«Sì, esatto, tant'è che il censimento che spinge Maria e Giuseppe...»
Bla bla bla. Ma chissenefrega. Guardo di nuovo l'orologio. Ancora un minuto. Oddio.
«E infatti mi sembrava» E allora cazzo hai chiesto a fare? «Ma allora perché Gesù ha detto “Date a Cesare quel che è di Cesare”, se Cesare è già morto?».
Alzo gli occhi. «O signore, dammi la forza» bisbiglio.
«Pensa che tra un po' suona» risponde il mio compagno di banco, coprendo l'interessantissima spiegazione della mia professoressa.
«Se così non fosse avrei già chiesto d'andare in bagno».
Sorride e prepara i soldi per la macchinetta del caffè, l'unica ancora funzionante, che tra l'altro fa solo il the.
«Vuoi che corra avanti anche per te?» mi chiede.
«Sì, grazie, così io vado dall'uomo focaccina».
Gli do i miei spiccioli e guardo di nuovo l'orologio.
Tre, due, uno...
Olè! Mi alzo pronta a scappare, ma la voce della mia professoressa mi blocca.
«Alt! Fermi tutti dove siete!» grida.
«È una rapina?» domando smarrita, aggrottando la fronte.
Mi guarda male e continua. «Non vi ho dato i compiti. Tutti seduti e scrivete».
Una mano dalle ultime file si alza quasi timida.
«Che vuoi Genovesi?».
«Se tipo io i compiti di latino non avessi nessuna intenzione di farli... potrei uscire?».
«Non ti degno neanche di risposta» sibila, e inizia a dettare.
Batto ritmicamente il piede mentre scrivo, e non so se è una ripicca o meno ma i compiti di latino sono infiniti. Ma porca miseria.
«...Ah, e poi fate anche il quindici. Okay, potete andare».
Mi alzo e credo di non aver fatto uno scatto del genere neanche quando il mio professore di ginnastica mi ha obbligato a fare la campestre.
Esco dalla classe travolgendo una che stava entrando a fare non so che cosa, e m'avvio per il corridoio puntando alle scale.
Poi succede tutto in fretta. Un tizio, o sarebbe meglio dire il tizio, quello dietro cui sbavo da mesi, sbuca dal nulla, materializzandosi davanti a me, e non faccio in tempo né a fermarmi né a girargli intorno, così, senza neanche accorgermene, senza avere il tempo di realizzare niente, sbatto prima contro di lui, poi col culo sul pavimento. Violentemente.
Ahia.
Chiudo gli occhi, dicendomi che non se n'è accorto. Dai, mica deve essersene accorto per forza.
Certo, tu lo ammazzi e quello non se ne accorge.
Zitta, cazzo di voce interiore guastafeste!
Alzo gli occhi. Tanto non se n'è accorto.
Eddaje.
E invece se n'è accorto. Mi fissa e sta trattenendo una risata. Ma porca trota.
Ho lo guance dello stesso colore di un pomodoro maturo maturo. Quasi ammuffito. Mi guardo intorno e appuro che tutto il piano inferiore della scuola mi sta fissando. Porco cazzo.
Porto le mani a coprirmi il viso e conto fino a tre. «Che figura di merda!» mi lamento.
«No, dai, neanche più di tanto».
Mi scopro gli occhi e vedo la sua mano, quella del tizio che ho travolto, per intenderci, che si offre come appiglio. Anche gentile.
Afferro la sua mano e mi isso, guardandomi le scarpe imbarazzatissima pulendomi i pantaloni con le mani.
«Jacopo» si presenta, sorridendo e tendendomi la mano.
Vorrei rispondergli “Lo so”, ma mi pare abbastanza scortese. «Amy» rispondo, e gliela stringo, per la seconda volta. Non vorrei pensarlo, ma è calda, e morbida, e mi fa venire i brividi e, Dio, non è a contatto con la mia mano che vorrei i suoi polpastrelli.
Amy, cazzo, un po' di contegno.
«Dove andavi così di corsa?» chiede, sempre sorridendo. In un altro momento avrei pensato mi stesse prendendo per il culo. Volendo, lo penso anche adesso.
Mi trattengo dall'usare il mio tono sarcastico solo perché ha tutto il diritto di sfottermi, dopo la figura di merda che ho fatto. «A pr-prendere la focaccia».
Ho anche balbettato, santa merda.
Basta, non mi parlo più.
Devo commentare?
No, vocetta, per il bene mio e tuo, taci.
«Andiamo allora, vieni. Stavo andando anche io».
Gli sorrido, ancora rossa, e m'avvio, accanto a lui, con le nostre spalle che quasi si sfiorano.
«In che classe sei?» s'interessa, mentre la gente ci passa vicino. Chissà cosa pensano.
Ma chissenefrega.
«Quella di fronte alla tua».
No! Ma cazzo, sono idiota? Così capirà che gli sbavo dietro, porca miseria!
Lo guardo quasi terrorizzata, e lui si blocca. Mi guarda con la fronte aggrottata, fa per iniziare una domanda, poi sembra ripensarci e, inaspettatamente, sorride.
Accenno un sorriso, tanto per non restare impalata a sbavare, e riprendiamo a camminare.
Arriviamo, ancora guardandoci negli occhi sorridenti, davanti al rivenditore di focacce che ci informa che, di focacce, non ce ne sono più.
E, per una volta,
non me ne importa niente.  








Ma salve.
Sì, ho ancora il coraggio di pubblicare cose che richiedono un certo impegno senza provare un minimo di vergogna. Perdonatemi.
Questa è – per chi mi segue da un po' – la famosa raccolta che dovevo pubblicare, poi non più, poi di nuovo e blablabla. Spero non vi aspettaste qualcosa di meglio, onestamente.
Comunque, entriamo nel dettaglio.
La storiella che avete appena letto è nata a scuola, l'anno scorso, tipo. La protagonista è una disgraziata che mi sopporta (e che devo sopportare a mia volta) da un sacco di tempo, che una mattina in cui io ero assente si è quasi schiantata contro il tizio in questione e, alle mie fantasie romantiche, si ostina a rispondere con irritante pessimismo. La picchiate voi?
Anyway, fatemi sapere che ne pensate, se vi va, ed io giuro che farò il possibile per aggiornare in tempi decenti.
Un abbraccio,

Human_ ( che ha una tosse da far invidia ai vecchi fumatori di sigaro dei film. )

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Capitolo 2
*** Adam e Marysol; muretto. ***


I just haven't met you, yet.
#2.


Di lei sapeva che le piaceva uscire sotto la pioggia ed alzare gli occhi al cielo, allargando le braccia, ma solo se non vista. Forse la seconda cosa che sapeva di lei era appunto che della gente aveva vergogna, o forse paura, o semplice imbarazzo, chissà. Sapeva solo che lei, la gente, non l'amava. Quale fosse il motivo non gli era dato saperlo.

Credeva che a lei piacesse indossare cose dentro cui, volendo, sarebbe potuta entrare due volte. L'aveva più volte vista con felpe che le arrivavano a metà coscia e ciabatte enormi – forse del padre. E sapeva che del padre le piaceva l'odore – di questo era certo. Gli rubava giacche e magliette e sciarpe, anche le sciarpe, ed inspirava profondamente per poi annotarsi chissà quali emozioni e sensazioni e immagini – gli sarebbe piaciuto saperlo.
Sapeva anche che della sua macchina fotografica era innamorata, o dipendente, e che amava scattare fotografie ad impensabili dettagli a cui lui non avrebbe mai appunto pensato, e che forse le piaceva poi descrivere i suoi risultati, perché lui non lo sapeva cosa scrivesse su tutti quei fogli che riempiva seduta sul muretto davanti casa con gli occhi rivolti al fiume, ma li riempiva. Li riempiva e li rileggeva spesso, concentrata, aggrottando a volte la fronte e correggendo qua e là qualcosa. Gli sarebbe piaciuto leggere.
Di sé stesso sapeva poco, ultimamente, ché lui era convinto che la bellezza stesse tutta in un bel culo e due tette, e ne era tanto convinto che la prima volta che aveva associato a lei, che avendola sempre vista nascosta in chilometri di stoffa non sapeva quante tette e che culo avesse, la parola “bella”, c'era stato un uragano tanto distruttivo, dentro di lui, che s'era dovuto sedere, sdraiare, addormentare. Al mattino aveva realizzato che, fino ad allora, non aveva capito un cazzo.
Quindi di lui sapeva soltanto che voleva conoscerla. Con una qualsiasi scusa. Gli bastava parlarle, anche se in fondo a lui sarebbe piaciuto conoscerla a fondo, conoscere il perché di ogni singolo gesto, e poi un giorno, magari sotto la pioggia, baciarla, gustare il sapore delle sue labbra che lui immaginava tanto simile a quello delle ciliegie, e stringerla. Forse a stringerla non avrebbe rinunciato.
Era per parlarle, quindi, che quel giorno s'era infilato le sue scarpe fortunate, quelle che gli avevano fatto prendere la patente senza neanche un errore, ed era sceso.
Per raggiungerla gli sarebbe bastato attraversare il ponte, ma aveva preferito fare il giro lungo.
Studiava, nel frattempo, un modo per parlarle senza fare la figura dell'idiota. D'iniziare il discorso con un “ciao” non se ne parlava neanche. Ci aveva già provato, in precedenza, passando davanti a lei del tutto casualmente – in fondo è tutto un caso, no? Anche le intenzioni, no? – e probabilmente aveva pure fatto la figura dell'idiota, perché lei se n'era accorta, che lui la stava fissando – aveva una sorta di sesto senso, lei.
Aveva quindi dovuto, in quell'occasione, biascicare un saluto, a cui lei aveva risposto con un sorriso a metà, ma bellissimo.
Quella volta comunque aveva altri progetti. Voleva qualcosa di grande, qualcosa ad effetto, qualcosa che creasse nel suo cervello le sinapsi giuste, qualcosa che le facesse pensare “Io questo me lo sposo”.
E sul “me lo sposo” lui arrivò davanti a lei, a neanche cinquanta centimetri, non seppe neanche se lei se n'era accorta della figura che le stava davanti mentre lei ancora scriveva con i Three Days Grace che cantavano nel suo cellulare, prima che lui, con molta semplicità, le chiedesse: «È una storia?».
La vide sussultare e quasi gli venne da ridere, perché un'altra cosa che di lei aveva scoperto in tutto quel tempo passato ad osservarla fumando appoggiato al davanzale era quanto lei fosse espressiva, ed in quel preciso istante gli occhi della ragazza gridavano. Gli venne quasi il dubbio che l'avesse pronunciato, quel “Vaffanculo”.
Fu educata, comunque. Lo sorprese. «Non esattamente. Cioè, è una storia, ma la mia. Stavo per dirti “Sono le mie memorie”, ma fa molto vecchia depressa che fa testamento prima di morire e legge tutto ai suoi gatti».
Aveva un tono di voce che gli ricordava terribilmente Neruda, non sapeva neanche perché, dato che lui, la voce di Neruda, neanche l'aveva mai sentita. Aveva la voce roca, come se si fosse appena svegliata, ma era lì in strada da due ore e mezza, quindi, lì per lì, non si spiegò il perché. Eppure, nonostante questo dettaglio, vi era una certa melodia, come se parlasse a dodecasillabi.
«Hai gatti?» le domandò.
Corrugò la fronte, ma col sorriso. «No. Ho un pesce rosso, ma mi fa paura».
«Come fa a farti paura un pesce rosso?». Aveva appena scoperto che aveva paure assurde, e gli si mosse qualcosa nello stomaco. Sperò che non fossero le uova.
«Perché fate tutti questa domanda?». Strinse la bocca e sbuffò. «I pesci rossi sono brutti, ed hanno gli occhi inespressivi. E poi puzzano. Ed ho letto da qualche parte che non hanno le orecchie. Non so se sia vero, ma se non sentono niente non possono mai aver sentito il rumore dell'acqua, quindi non sanno cosa sia la pace».
Aveva paure assurde che non erano poi così assurde, se uno ci pensava bene, e ragionava in modo contorto. Quella cosa fece una capriola nella sua pancia. Non le uova, per favore, non le uova.
Si limitò ad annuire, temendo di pronunciare ad alta voce il suo mantra, e si concentrò. Doveva fare le domande giuste, niente più istinto. «Comunque, avendo appurato che non hai gatti, se vuoi potrei starle a sentire io, le tue memorie. Mi piacerebbe ascoltarle» ascoltarti.
Lei rise. «Non credo ti piacerebbe. Scrivo male».
«Leggimi una frase».
Cambiò colore. Impallidì e le sue pupille si dilatarono. «Come?».
«Mi leggeresti una frase?» ripeté, aggiungendo «Se ti va».
Si schiarì la voce e corrugò la fronte, aprendo appena la bocca, le gote come un estintore che avrebbe potuto spegnere il fuoco che lei stessa aveva acceso in lui, ma non successe perché, non si spiegò bene come, quell'incomprensibile voglia di stringerla che l'aveva spinto a scendere in strada quel pomeriggio aumentò alla vista di quel rossore diffuso. Lei era timida, questo l'aveva prima intuito ed in quel momento scoperto, e tutto ciò che riuscì a pensare, in quel preciso istante, fu per favore, non andare via, non nasconderti, ti voglio vedere, e vedere tutta, anche la parte di cui ti vergogni, sarà meravigliosa comunque, lo so.
«Non so cosa leggerti» mormorò.
Avrebbe voluto, in quel momento, fare spallucce e dirle che non era importante, gli sarebbe andata bene qualsiasi cosa, anche la lista della spesa, perché gli bastava conoscerla e rispondere ad un paio delle domande per cui la vista, per quanto attenta, non bastava – e poi stringerla, ma non era quello il punto – ed invece le sorrise tentando di essere rassicurante e buttò lì un «Leggimi l'ultima frase» che sembrò una scelta casuale, ma significava che a lui ciò che premeva di più era quel che lei era a quel punto della sua vita; per l'antefatto c'era tempo.
Un sospiro. «“Mi manchi un po' come all'Africa forse manca l'America del Sud, immagina quanto erano belle unite e capirai cosa intendo, perché mi piacerebbe poterti raggiungere con un passo e invece tra di noi c'è l'oceano, quello Atlantico, che tutto sommato è bello perché ci sono le correnti del Messico e del Labrador, ma insomma se non ci fosse sarebbe forse un po' meglio; lo prendi un aereo dal Perù che ti porti fino al Congo, se io prometto di aspettare il mio papà come quando ero piccola, di aspettarti e non lasciarmi cadere?» lesse, con la voce tremolante, un po' rotta, ma bellissima.
In pochi minuti scoprì che il padre le mancava anche se lo vedeva ogni giorno, e questo gli fece ricollegare i pezzi – i vestiti, l'odore, le sciarpe.
Scoprì che usava metafore insolite ma d'effetto, che era fragile esattamente come sembrava e che di geografia era piuttosto brava. Scoprì inoltre d'avere una passione particolare per i periodi lunghi collegati con una così intricata alternanza di asindeti e polisindeti.
«È...» pensò ad una parola che di solito non pronunciava, di quelle che gli s'incastravano in gola e non uscivano mai, e completò la frase: «È bellissima».
Gli venne da ridere al pensiero che in effetti riusciva a dire perfettamente “promiscuominescienziosamente”, senza balbettare neanche un pochino, e invece l'aggettivo “bello” non gli riusciva proprio, non perché v'incespicasse sopra ma perché semplicemente s'emozionava. A lei avrebbe voluto dirlo, “Sei bella”, ma più avanti, dopo averla conosciuta bene, perché doveva sapere quanto quelle parole fossero uniche.
Lei lo guardò negli occhi, forse un po' più sicura. «Mi chiamo Marysol», ma con il sorriso, e come se fosse un segreto.
La guardò come se l'avesse intuito. «Io sono Adam».

«Adam». Lei lo ripeté e lui sentì un brivido. Iniziò a sospettare che non fossero le uova. «Non fare come quello della canzone dei Blink, mi raccomando».
Risero. «Se proprio devo prendere un 'Adam' come modello, preferisco Adam Gontier».
«Approvo in pieno».
Erano le diciotto e diciotto di un giorno di fine aprile in cui faceva caldo ma c'era vento, e lei indossava una camicia bianca che le arrivava a metà coscia e dei pantaloni stretti, mentre lui una t-shirt della Marvel – gli stava bene – e dei jeans, ed insieme, seduti a parlare su quel muretto, erano bellissimi, e mentre il cielo si tingeva di rosso creando strane – bellissime – sfumature sui loro capelli, impararono un sacco di cose l'uno dell'altro, senza mai doverle chiedere. Poesia.















Sì, ehm... c'è ancora qualcuno, qui? *passa una balla di fieno*
Come sospettavo.
Ecco la seconda shot. Non doveva esserlo, in realtà, ma ho rivoluzionato completamente la mia scaletta, e non è che poi a voi ve ne freghi qualcosa.
Non credo ci sia molto da spiegare, se non che Adam Gontier è il cantante dei Three Days Grace, per chi non lo sapesse, e nella canzone dei Blink 182 Adam si suicida.
Okay, bòn, basta. Fatemi sapere qualcosa, se vi va, e come sempre rinnovo l'invito ad aggiungermi ovunque vogliate tramite i link che trovate nel mio profilo.

Pace e amore a tutti. *lancia margherite*

Un abbraccio,
Human_
(che a quest'ora dovrebbe essere a studiare ma fottesega)

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