Inarwe

di Sophrosouneh
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Notte dei Segreti - Pont-Saint-Martin 16 marzo 1987 ***
Capitolo 2: *** Alba di sangue- Pont-Saint-Martin 16 marzo1987 ***
Capitolo 3: *** Serata tempestosa- Pont-Saint-Martin 16 marzo1987 ***
Capitolo 4: *** Tenebre della Fine - Pont-Saint-Martin 17 marzo 1987 ***



Capitolo 1
*** Notte dei Segreti - Pont-Saint-Martin 16 marzo 1987 ***


*Prima Classificata al contest "Let's Fly on Fantasy's Wings!!" di SunnyPain
 
Nickname:Ss904, Sophrosouneh (su Efp)
Titolo: Inarwe
Numero dei capitoli: 4
Pacchetto scelto:Ira
Trama: “Soltanto la sua fiera presenza statuaria infondeva nel cuore di Thaet una sicurezza innata che la portava a nutrire una flebile speranza di salvezza.
“Grazie.” Bisbigliò a denti stretti abbassando la testa.
“Dovere” rispose Vhes, concedendosi un sorriso rilassato alla vista dell’impaccio della minore.
Così, mentre il sole calava lento dietro le nubi antracite. In quel disperso angolo di infernale paradiso, si rovesciava copiosa una tempesta depuratrice di mali. L’acqua corrente lavava via il sangue dalle anime e la polvere dai ricordi. Ma, allo stesso tempo, custodiva i segreti nei cuori di ogni dimora.”
Le tre Erinni: tre sorelle che non potrebbero essere più differenti. Vhes la forte, Thaet la subdola ed Inarwe la fragile. Ed è proprio quando la minore si trova ad affrontare la realtà che le si para di fronte il più insidioso dei nemici: la paura di affondare sé stessi.
nda: Pont-Saint-Martinè una cittadina della valle d’Aosta, l'abitato prende il nome dal poderoso ponte romano dedicato a San Martino di Tours. Secondo la leggenda, San Martino, di passaggio sulla via Francigena in pellegrinaggio, fece un patto con il diavolo. Questi si impegnò a costruire in una notte un ponte, in cambio dell'anima del primo essere vivente che ci sarebbe passato. Il giorno dopo, San Martino liberò sul ponte un cagnolino, che venne ucciso brutalmente. In compenso, il diavolo lasciò in pace gli abitanti. È a questa leggenda che si fa riferimento ad inizio capitolo 2.
Alla fine il personaggio di Varian chiama Inarwe per nome, pur non conoscendo la sua identità; la cosa è voluta, per sottolineare ancora di più il legame tra i due.




Inarwe 
 

Notte dei Segreti - Pont-Saint-Martin 16 marzo 1987
 
Nel buio della notte fiamme scarlatte si avvolgevano attorno alle membra dello sventurato peccatore. La tortura per la colpa gli ardeva il corpo, mentre urlava al cielo la sua disperazione. Cupe vampe impregnate di asfodelo riempivano interamente il suo campo visivo, mentre il suo corpo rimaneva intatto; solo il dolore lancinante lo tormentava inesorabile. Era stato crudele; solo il fuoco avrebbe potuto purificare il sangue lordo che gli inondava le mani.
L’uomo si raggomitolò con le braccia strette al petto e il volto trasfigurato in una maschera di dolore. Urlò ma nessuno lo sentì, nessuno lo poteva salvare lì dove si trovava. Era solo con la sua colpa.
D’improvviso tra le fiamme si innalzò un corridoio che, ai suoi occhi, parve infinito. Tra le lingue di fuoco un mastino dal pelo fulvo si faceva strada, trascinandosi appresso l’aria impregnata di miasmi infernali. Il corpo magro all’osso, le lorde zanne in bella vista e un paio di occhi viola profondi come baratri gli si pararono di fronte. Si sarebbe aspettato un attacco improvviso, ma la verità fu che la bestia non si mosse di un millimetro. Rimase immobile ad osservarlo, mentre nel petto dell’uomo si faceva strada la paura. Ad un certo punto il cane fece per andarsene, saltando, abile come uno stambecco, tra le rocce a precipizio. Con molta fatica l’uomo lo seguì costeggiando il fianco del monte, fin quando non si accorse di averne perso le tracce. Sarebbe volentieri tornato indietro, se una fugace visione non fosse apparsa ai suoi occhi.
Seduta su un masso sporgente, a pochi metri sulla sua destra, c’era una ragazza vestita di una candida veste della consistenza di una soffice nube primaverile.
Le fiamme che avvolgevano il corpo dell’uomo pian piano si ritrassero, come purificate dalla figura che aveva di fronte.
Le nubi color carbone cominciarono a diradarsi e la falce lunare illuminò con il suo chiarore latteo il profilo dolce della giovane donna.
“Chi sei?” non poté esimersi l’uomo dal chiedere.
La ragazza non rispose, socchiudendo le palpebre, e rivolgendo al giovane uno sguardo afflitto. Quelle iridi profonde, notò l’uomo, avevano la stessa sfumatura viola malva di quelle del mastino infernale che gli era apparso prima.
“Perché l’hai fatto Varian?” chiese, con voce timida e tremate, la ragazza.
“Conosci il mio nome?”
“Chi sei?” tornò a chiedere il giovane, ma, ancora una volta la domanda rimase senza risposta.
“Perché l’hai fatto?” la domanda si ripropose, e il giovane abbassò lo sguardo come a nascondere il proprio smarrimento.
“Tu non sei cattivo Varian. Perché l’hai fatto?” mentre le parole della ragazza gli colpivano il cuore come una pugnalata, le sue mani si tinsero del colore scarlatto del sangue. Nella mano sinistra ancora stringeva la lama che aveva utilizzato per tranciare la gola dell’esserino steso ai suoi piedi. Rivedeva gli occhi della sorellina nella sua mente distorta, mentre, vacui, lo fissavano dal pavimento lordo. Parevano chiedere pietà, volevano ricevere una spiegazione.
Perché il suo amato fratello l’aveva uccisa?
Un folata di aria gelida lo ripescò dal fiume dei ricordi in cui stava affogando, vide la ragazza seduta a pochi passi da sé, e la paura si impossessò del suo corpo.
“Non è stata colpa mia. Quella voce mi ha detto di farlo. Diceva che saremo stati bene senza quella peste tra i piedi. Ma io non volevo, eppure ho impugnato il coltello e le ho reciso la carotide. Se non atro è morta entro breve. Si è dissanguata prima ancora che riuscissi a chiamare aiuto.” Si lasciò sfuggire, mentre scivolava a terra sfiancato.
“Chi è stato a darti questi ordini Varian?” chiese la ragazza con un pizzico di curiosità nella voce “Io ti posso aiutare …” tentò di spiegare, ma un rumore di passi lontani la fece distogliere. Spalancò gli occhi esterrefatta e si alzò in piedi, lasciando che il suo esile corpo riprendesse fattezze animali.
Di fronte a Varian si ergeva di nuovo il mastino infernale che annunciava la presenza di un demone. Lo guardò sfuggire dal suo campo visivo, mentre le fiamme tornavano ad avvolgerlo nelle loro spire letali, e la luna scompariva nuovamente dietro alla coltre di nubi color antracite.
 
 
“Che cosa stai combinando?”
Combattendo contro l’impulso di spiccare un salto di dieci piedi dal suolo, la donna si aggrappò spasmodicamente alle maniche candide della veste color carbone che indossava e si appiattì il più possibile contro il fondo della grotta nella quale aveva trovato rifugio. Pensava che almeno lì sarebbe stata lasciata in pace, ma si sbagliava. Mai sottovalutare l’istinto di una sorella protettiva.
“Rispondimi, Inarwe!”
Urlò di nuovo l’acida voce della sorella proprio in corrispondenza del suo orecchio. La giovane si strinse ancora di più nelle proprie spalle, cercando di farsi piccola ed invisibile agli occhi indagatori dell’altra.
L’intraprendente sorella maggiore parve placare la sua collera, non appena scorse gli occhi gonfi di lacrime e imploranti dal colore della malva che da secoli la furia possedeva.
“Dannazione, non guardarmi così!” sussurrò scocciata dal fatto che quella piccola mocciosa riuscisse sempre inesorabilmente a commuoverla con quei suoi occhioni lacrimanti.
Per risposta la piccola abbassò lo sguardo colpevole mormorando piano un: “Sì sorellona …”.
“Lo stavi facendo di nuovo, non è vero?” ed ecco che quel dannatissimo tono intransigente e tagliente si faceva strada tra le parole della donna, incisivo come la lama di un affilato coltello. Quelle insinuazioni velate facevano più male della stessa realtà. La sorella sapeva, ma non era nella sua natura sgridarla apertamente e metterla alla gogna per il suo deplorevole comportamento. Thaet, infondo, era buona, aveva soltanto un carattere piuttosto scorbutico e sibillino. Con lei si arrabbiava raramente, ma quando lo faceva, sapeva essere più subdola ed astuta di chiunque altro, anche di Vhes.
Vhes era la maggiore delle tre e sapeva farsi rispettare, anche con il pugno di ferro se questo fosse servito a mantenere il proprio dominio. Era forte e decisa, tutto il contrario di lei che provava pena per quelle povere creature sulle quali era costretta ad accanirsi per sua stessa natura.
Thaet sospirò sconsolata, realizzando che, con quei metodi, non sarebbe riuscita a cavare un ragno dal buco con la sorellina. Fu così che le si sedette accanto sulla nuda roccia, appoggiandole una mano sulla testolina mora e scarmigliata.
“Tu non vuoi che lo dica a Vhes vero? Lo sai cosa ti farà, qualora lo scoprisse?” chiese, tentando di risultare il più amorevole possibile, ma con scarsi risultati. In risposta il corpo di Inarwe divenne un fascio di nervi, non appena realizzò il reale significato di quelle parole. Vhes faceva paura quando era felice ed allegra, figurarsi quando era furibonda. Se avesse scoperto quel che stava facendo, come minimo le avrebbe sbranato la testa, urlandole improperi e maledizioni contro la sua anima dannata.
Rabbrividì percettibilmente.
“No, ti prego, non dirlo a Vhes …” pigolò Inarwe, spaventata a morte.
“Io … io stavo solo dando un’occhiata alla vittima.” Tentò debolmente di spiegare.
“Quindi non stavi comunicando con lui?”
“No, ho semplicemente sfiorato i suoi sogni” concluse abbassando sempre più il tono della voce, ma non abbastanza da fare in modo che la maggiore non sentisse.
“Che cos’hai fatto??” urlò Thaet fuori di sé.
Gli occhi color ocra parevano sprizzare scintille da quanta carica negativa ne fuoriusciva, ed i capelli –di un nero dalle sfumature violacee-, se possibile, si erano arricciati ancora più di quanto già non fossero.
“Tu.- le sibilò a pochi centimetri dal volto ormai paonazzo –Lo sai benissimo che solo colei che ha la maggiore anzianità ed esperienza può permettersi di torturare le vittime durante il sonno quando sono più fragili e malleabili, ma allo stesso tempo più insidiose per il nostro compito. A noi due tocca l’ingrato compito di tenergli compagnia per il resto della giornata. Ma i sogni sono off limits, quelli sono territorio di Vhes, io e te non siamo ancora capaci di manipolarne uno a nostro vantaggio.” Spiegò, riacquistando un briciolo di calma.
“Poi se lei ci scoprisse ci frantumerebbe le ossa senza nessun indugio” aggiunse deglutendo rumorosamente.
Anche Inarwe si vide costretta a dare un debole segno d’assenso. Ricordava la furia di Vhes, e la temeva come nient’altro al mondo. Eppure c’era qualcosa in quel mortale che l’aveva spinta a compiere quell’atto di ribellione e sfiorare la materia informe dei suoi sogni tormentati. Non sapeva di cosa si trattasse, ma l’attirava così come una fiamma sfolgorante attira un’ignara falena notturna.
 
Le tre sorelle erano Erinni. Furie scaturite dalle più turpi azioni dell’essere umano che, per esse, veniva torturato. Vendicatrici dei torti subiti agivano su vari fronti, attaccando la preda come un sol uomo.
Thaet era subdola e scaltra, infida come una vipera velenosa. Repentina e inattesa nel morso letale, sapeva attendere con pazienza il momento più proficuo per sferrare un attacco alla vittima quando le sue difese erano abbassate. Le sue parole sibilate all’orecchio trafiggevano la coscienza dell’uomo come mille dardi acuminati. Impossibili da prevedere ma capaci di provocare un lancinante dolore.
Vhes era l’incarnazione del desiderio, della forza e della determinazione. Abbastanza forte da modellare a suo piacere i sogni della vittima, la tormentava in perpetuo con la sua presenza schiacciante. Urlando maledizioni e levando alte grida al cielo, squarciava le tenebre della madre Notte con le peggiori torture esistenti. Sotto le sue mani capitolavano gli uomini più saldi, arrivando a chiedere pietà con le guance rigate dalle lacrime.
E poi c’era lei, Inarwe. Debole, anche troppo per essere una loro sorella. Timida ed impacciata oltre ogni dire. La sua unica utilità era quella di commuovere il soggetto. Far breccia nel suo cuore con la sua tenerezza e quelle dolci lacrime che tanto spesso versava. Doveva rappresentare la personificazione del rimorso. Assumeva l’aspetto della perdita, una sorella, una madre, un nonno. Le sue parole erano dolci, ma allo stesso tempo amare, speranzose, ma oscure. Il suo intervento faceva sì che la vittima cadesse in uno stato di profonda divisione spirituale. L’uomo doveva essere combattuto tra la ragione che lo aveva spinto a seguire il male e le voci melodiche e cantilenanti di cloro che aveva fatto soffrire. Non appena le difese dell’uomo vacillavano, intervenivano le sorelle che sopprimevano ogni volontà d’animo che il soggetto ancora dimostrasse.
Erano un trio di spiriti efferati nella distruzione psicologica, assetati di vendetta e desiderosi di stragi e devastazioni.

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Capitolo 2
*** Alba di sangue- Pont-Saint-Martin 16 marzo1987 ***



Alba di sangue- Pont-Saint-Martin 16 marzo1987

 
“Pare che in questo luogo il demonio non si sia mai stancato di tendere le sue reti. A cosa vuoi che servano gli intrighi di un santo o di un vagabondo? Satana non smetterà certo di praticare il male solo per aver ricevuto l’anima di un cane! Sai Inarwe, io ritengo che certi umani siano davvero stupidi! Non credi anche tu?” domandò la statuaria presenza dagli aurei boccoli sciolti lungo la schiena e riversi sulla parete brulla della caverna in cui si trovava.
“Io trovo che sia sciocco affidarsi ad una leggenda del genere.” sussurrò la minore.
“Esatto, è una sciocchezza! Una vera idiozia! ” ribatté la donna conferendo enfasi ad ogni sillaba.
“Ma sai, gli uomini ammucchiano gli errori di tutta la loro vita e creano un mostro che chiamano destino. Detestano l’idea di indeterminatezza che il libero arbitro concede loro; preferiscono immaginarsi legati per collo con una corda che li conduce lungo il sentiero per loro predestinato. Va ben al di sopra di quella che possa essere la mia comprensione.” Terminò la donna dagli occhi corvini profondi come la voragine stessa dell’inferno.
Autoritaria alzò un indice al cielo: “La lezione del giorno è: mai credere alle dicerie!” a Vhes piaceva stilare una lezione ogni giorno da impartire alle sue sorelle. Quando attraversava quei momenti pareva una maestra costretta ad insegnare a degli scolari insofferenti.
A Inarwe piacevano quei piccoli secondi di pace in cui poteva godersi la compagnia della sorella maggiore. Gettò una fugace occhiata alla figura di Vhes che, imponente come una statua scolpita nel più bianco marmo, si appoggiava al fianco del monte e, a braccia conserte, osservava la piccola città sottostante brulicare di vita. Quando non c’erano di mezzo i mortali la donna pareva rilassare un po’ la sua espressione perennemente furibonda, per concedersi un po’ di riposo.
“Vhes, non pensi mai che ci sia qualcosa di sbagliato in quello che facciamo?” chiese la castana, abbassando subito lo sguardo.
La Furia la osservo titubante per qualche secondo.
“No” rispose telegrafica la bionda, ma Inarwe era decisa sul fatto che non avrebbe mollato, ormai voleva che la sorella fosse messa al corrente delle sue supposizioni. Se avesse avuto ragione forse una vita sarebbe stata risparmiata.
“Ieri sera ho incontrato quel giovane, e mi ha parlato della sorellina, e del fatto che abbia agito sotto il comando impartitogli da qualcun altro.” La minore non aveva il coraggio di alzare lo sguardo su Vhes perché sapeva che, qualora avesse intravisto i suoi occhi dalle profondità infinite, avrebbe sicuramente perso ogni traccia di sicurezza.
“Tu hai fatto cosa??” la voce di Vhes già cominciava ad assumere quella nota stizzita che prendeva quando veniva contrariata.
“Non è come pensi, io volevo solamente …” ma non riuscì a finire la frase che si trovò sdraiata a terra con la guancia dolorante. La figura della sorella la dominava in tutta la sua altezza e aveva dipinta in volto un’espressione disfatta dall’orrore.
“Brutta stupida perché non vuoi capire che c’è un valido motivo se non voglio che tu ti avvicini ai sogni degli umani? Non sei ancora capace di mantenere il controllo. Non ti rendi conto che potevi perderti per la vita tra gli anfratti della mente di quell’essere.” tuonò Vhes.
“Si chiama Varian.” Sussurrò debolmente.
“Cosa hai detto?”
“Ho detto che il suo nome è Varian.” Ripeté abbassando gli occhi e stringendosi spasmodicamente al petto l’orlo della cupa veste.
A quell’affermazione l’ira di Vhes parve congelarsi sul suo volto. Quelle iridi calamitanti come buchi neri si soffermarono sulla figura della sorellina spaventata da quel suo temperamento tanto severo.
Non era mai successo che Inarwe, per quanto dolce e introversa potesse essere, si prendesse così a cuore un essere umano. Era sempre riuscita a indossare le vesti di familiari ed amici delle vittime, facendo sempre in modo che mai trasparissero i suoi sentimenti e le sue insicurezze. Il dono della piccola era tanto sottile quanto estremamente letale e Vhes era perfettamente a conoscenza del fatto che la vita di Inarwe era costantemente sul filo del rasoio. Se non avesse fatto la massima attenzione avrebbe rischiato grosso. Nel loro lavoro non potevano permettersi coinvolgimenti di nessun tipo. La sorellina lo sapeva bene, e in tutti quei secoli non aveva dato segno di tentennamenti neppure una volta, ma allora perché adesso era venuta fuori con quei discorsi?
Per quanto odiasse ammetterlo, la sua reazione era stata esagerata, seppure dentro morisse dalla voglia di proteggerla e vegliare su di lei ogni istante per salvaguardarla da ogni male, Vhes sapeva che era suo preciso compito di sorella maggiore lasciare ad Inarwe lo spazio adeguato per esprimere la sua arte. E, vedendola sofferente e maltrattata proprio da colei che avrebbe dovuto anteporre la sua felicità alla propria, le si strinse il gelido cuore in una morsa d’acciaio. Eppure si era ripromessa che avrebbe protetto Inarwe e Thaet da qualsiasi pericolo si fosse presentato. Le faceva male pensare che, per quegli occhi d’ametista, adesso l’unico nemico era proprio lei.
 
“Scusami” le sussurrò sollevando l’esile corpicino tra le braccia e cominciando a carezzarle la testa. Non appena si fu seduta a sua volta, le esili braccia di Inarwe le si avvolsero attorno alle spalle, infondendole quel calore di cui tanto aveva bisogno in quel momento.
Calde lacrime cominciarono a cadere dagli occhi socchiusi della minore, andando ad imperlarsi nella matassa aggrovigliata dei suoi capelli castani e sulla veste dorata della sorella maggiore.
“Vhes, c’è molto di più in lui di quel che appaia. Noi dobbiamo fare qualcosa.” Le bisbiglio all’altezza dell’orecchio Inarwe.
La maggiore sospirò profondamente, ponderando la situazione.
“Non è così semplice. Tu cosa pensi ci sia sotto?” le chiese la maggiore scrutandola attentamente in volto.
“Personalmente temo che quelle voci di cui mi ha accennato, altro non siano che una sua illusione.”
“La mente umana è un imperscrutabile labirinto in cui i ricordi si ripropongono quando meno te lo aspetti. Non cercare di comprendere come ragionino le nostre vittime; dammi retta, il nostro lavoro è più semplice se tracciamo una linea di netta divisione tra noi e loro. Tu non puoi fare niente per salvarlo, ormai ha deciso da solo di avviarsi verso l’autodistruzione di entrambe le sue personalità.”
Inarwe spalancò gli occhi esterrefatta.
“Questo vuol dire che tu già ne eri a conoscenza?” chiese oltraggiata per il fatto di essere stata tenuta all’oscuro di tutto.
“Non era necessario che tu lo sapessi.” Ed ecco che la solita maschera di ghiaccio tornava ad incastonarsi sul volto si Vhes.
“Invece sì!” ribatté Inarwe dando prova di tutto il coraggio di cui fosse capace.
Senza che potesse fare niente per fermarle calde lacrime cominciarono a scendere ancora più insistenti lungo il profilo delle sue guance rosee.
“Entro sta notte la sua coscienza sarà annientata definitivamente. Farai meglio a metterti l’anima in pace.” Disse alzandosi in piedi e facendo per andarsene, mentre la piccola si raggomitolava con le braccia al petto.
“Noi siamo sorelle Inarwe, siamo la tua famiglia. Guarda dentro di te e decidi quale strada scegliere, ma ricordati una cosa: qualunque cosa tu deciderai di fare io e Thaet ti rimarremo sempre accanto.” Aggiunse, senza neppure voltarsi e ad Inarwe parve, anche se solo per un istante, che un sorriso incorporeo increspasse le sue labbra di pietra.
In meno di un secondo il corpo della sorella si fuse con la veste ed uno splendido falco spiccò il volo nell’aria frizzante dell’alba, lasciandosi alle spalle la caverna. Le piume dorate rilucevano dei caldi toni dei raggi del sole nascente, incantando lo spirito della piccola, come ogni volta che vedeva la sorella assumere la sua forma animale. Era così nobile e fiera che le faceva venir voglia di nascondersi agli occhi del mondo.
Rimase lì a piangere in silenzio, con il cuore in tempesta squarciato dal fragore dei lampi che le attanagliavano l’anima.

 

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Capitolo 3
*** Serata tempestosa- Pont-Saint-Martin 16 marzo1987 ***


Serata tempestosa- Pont-Saint-Martin 16 marzo1987

 
Varian era lì, a due passi da lei; poteva vedere il suo respiro condensarsi sulla superficie liscia del vetro della finestra del soggiorno di casa sua. Guardava fuori la tempesta abbattersi scrosciante sulle pendici aspre dei monti dalle bianche cime innevate. Gli occhi vacui persi in una dimensione di cui solo lui conosceva l’esistenza, e dalla quale nessuno ormai avrebbe più potuto farlo riemergere. Assaporava l’oscurità del baratro in cui stava per saltare, desiderando inconsciamente la perdita di conoscenza, per il solo desiderio di dimenticare, annegare i suoi dolori in un’acqua in grado di purificare, o tra le lingue di fuoco dei suoi sogni che, crudeli e beffarde, lo torturavano facendo apparire la morte tanto distante. Giocavano con lui e con ciò che rimaneva della sua mente.
Continuava a sentire quella voce che lo aveva spinto ad uccidere la sorella, gli sussurrava all’orecchio pensieri che lui non avrebbe mai neppure osato formulare. Quando udiva quei gelidi sibili, inconsciamente le immagini del volto della sorella gli tornavano alla mente, minando il poco autocontrollo che gli era rimasto.
Odiava quel suo essere incapace di qualsiasi azione; lo avevano insultato, picchiato, deriso e lui si era tenuto tutto dentro covando una rabbia tale che essa, un giorno, si era ribellata al suo controllo, scatenandosi sulla prima persona che gli fosse capitata sotto tiro.
Non era che l’ennesima vittima di una vita ingiusta. Meritava una giusta punizione anche solo per il fatto di aver osato venire alla luce.
 
Inarwe osservava l’uomo perso nella sua solitudine infestata dai fantasmi di un passato che sarebbe stato duro per chiunque. Seduta sulla mensola sopra il caminetto stracolmo di cenere e tizzoni morti del fuoco della sera precedente. In tutta la casa regnava un gelo pungente che faceva scricchiolare le ossa e raggelare il fiato appena fuoriuscito dalle labbra.
Con i suoi profondi occhi di ametista scrutava il profilo stanco del giovane uomo, segnato da troppe rughe per la sua reale età; piaghe segnate da una vita tanto dura quanto inquietante per qualsiasi essere umano.
Lui così debole, incapace di ribellarsi a quello che i mortali chiamavano ‘destino avverso’. Infondo era soltanto una persona alla ricerca di qualcuno che gli dimostrasse un po’ d’amore e d’aiuto; forse era per questo che la Mania aveva sentito tanta affinità con quell’essere.
Guardando quelle fosse sotto gli occhi, quello sguardo perso nel vuoto, quelle ossa sporgenti e quella debolezza insita nel suo essere, vedeva riflessa in lui la propria figura incorporea.
Aveva paura di quell’uomo, un timore tanto intimo e forte da farla sussultare, ogni qual volta coglieva un particolare in più di quel volto tanto bello quanto atroce. E ciò accadeva perché la sua paura era quella di perdersi in quella figura carica di dolore che le somigliava tanto amaramente.
Anche lei, allo steso modo si trascinava succube di un intero mondo di demoni dominatori.
Le sue sorelle, Vhes e Thaet, loro non sapevano quello che si provava ad essere schiacciati tanto dalla vita, tanto da coloro in cui si ripongono le proprie speranze.
Varian era impazzito, risucchiato nel vortice di una logorante schizofrenia, mentre lei ancora si logorava aggrappandosi spasmodicamente alle sue sorelle maggiori per trovare protezione ed aiuto. Ma quanto ancora avrebbe potuto continuare con quell’aborto di vita?
 
Era questa intima corrispondenza che percepiva unire le loro anime che l’aveva spinta a manifestarsi in sogno all’uomo nella sua vera forma. Non lo aveva mai fatto per nessun altro, ma quel riflesso di specchio era troppo importante per lei, per lasciarselo sfuggire dalle mani senza tentare di stabilire un contatto con la sua anima.
Fu così che si lasciò scivolare giù dal caminetto, facendo sì che la lunghissima veste corvina sfiorasse il pavimento di legno della casa spoglia.
In un istante il suo corpo di donna si mutò in quello della nera bestia demoniaca: il cane nero infernale dagli occhi viola. Nonostante il fatto che non fosse più invisibile agli occhi dell’uomo, Varian continuò ad ignorare la sua presenza mentre lei gli si aggirava attorno alle caviglie. Fu solo quando Inarwe appoggiò la testa, coperta di soffice pelo scuro, sulle ginocchia dell’uomo, che la sua mano destra parve animarsi da sola, cominciando a lisciare il pelo della creatura.
“Sei tu.” Non era una domanda, bensì una semplice constatazione che squarciò il silenzio del luogo, interrotto solamente dal ticchettare della pioggia sui vetri appannati dal calore di un corpo umano.
Per tutta risposta dalla gola di Inarwe provenne un guaito sommesso.
“Sei venuta a prendermi?” le chiese, mentre gli occhi immobili continuavano a scrutare il vuoto di fronte a sé.
Un amaro sorriso gli si dipinse sulle labbra.
“No, tu non me lo porterai via!” sibilarono le labbra di Varian con una voce di tre ottave superiore alla norma.
“Hai una vaga idea di quanto tempo io abbia impiegato per formare il carattere di Varian?? Rispondimi!” tuonò la voce femminea, mentre sul volto del giovane si dipingeva un’espressione di sdegno.
 
Era lei.
Per la prima volta da quando Inarwe e le sue sorelle avevano cominciato ad occuparsi della salute mentale di Varian, le capitava di incontrarla. La voce melliflua che sussurrava nell’orecchio dell’uomo, che lo aveva costretto all’uccisione dell’amata sorella, era lì, di fronte ai suoi occhi. In verità Vhes le aveva già accennato all’esistenza di un ‘lato oscuro’ nella personalità di Varian; ma semplicemente aveva preferito dare poco conto a quelle parole, perseverando a seguire le sue tesi. Ma adesso che coglieva quella sfumatura nello sguardo, nella postura, e nell’espressione del volto, capiva finalmente la gravità del problema. Era chiaro come il sole che Varian avesse una personalità alternativa, il problema dunque era come riuscire ad estirpare la metà malvagia, lasciando intatto l’ego dell’uomo.
 
Inarwe si ritrasse un poco, scostandosi dal corpo di Varian.
“Smettila Vittoria, così la spaventi.” La voce dell’uomo si impose di nuovo, come se fosse riuscito a riprendersi il controllo del proprio corpo. Ma tale situazione durò per poco, perché ben presto si impose nuovamente la voce della donna:
“Maledetto ingrato! È questo il modo di rivolgersi a chi ti ha così spesso difeso? Vergognati di te stesso brutto verme! Senza di me non saresti nulla! Nulla!!” urlò Vittoria, con occhi fiammeggianti di rabbia.
In preda alla collera Vittoria tirò un calcio alla sedia dove, fino a poco prima era seduta.
“Allora arrangiati da solo!” tuonò, per poi scomparire nel nulla dal volto di Varian che finì per accasarsi a terra.
Calde lascive cominciarono a solcare le guance dell’uomo.
Intimidita, Inarwe mosse qualche passo verso la figura desolata, nonostante qualcosa nel suo cervello le urlasse disperatamente di andarsene da lì.
Fu Varian che, dopo aver alzato lo sguardo sul nero mastino dell’aldilà le rivolse parole tremanti.
“Ti prego signora, potami con te. Dissipa le tenebre del mio inferno” pronunciò in un sussurro piangendo lacrime amare come il sangue della sorellina brutalmente sgozzata come una bestia al macello.
Il cuore di Inarwe parve perdere un battito udendo quelle parole.
Sentì l’aria smettere di affluirle ai polmoni e tutto il corpo costretto in una gelida morsa, mentre percepiva l’avvento della morte alitarle sul collo.
 
 
“Ce l’aveva promesso!” sibilò Thaet stizzita mentre scrutava l’interno della casupola, dopo aver assunto la sua forma animale.
Era un cobra reale dalle squame cangianti dei colori del malva, dell’indaco e del nero.
Sibilava, nascosta nella caverna sopra l’altura che troneggiava sulla casa della loro vittima.
“Lasciala agire come meglio crede. Ha solo bisogno di un po’ di fiducia da parte nostra” parlò lo spirito del falco pellegrino di fianco a lei.
“Non sei preoccupata per quello che potrebbe combinare, Vhes?”
“Per niente!” rispose il fiero animale spiegando le ali maestose screziate da piume del colore dell’oro.
“Poi entro sta sera la morte calerà la sua veste anche su di lui. Il suo corpo non riuscirà a reggere ancora per molto.” Spiegò pratica per poi continuare:
“La nostra piccola Inarwe deve essere libera di crescere. Compito nostro, di sorelle maggiori, sorreggerla durate il cammino, ma non precluderle la possibilità di scelta! Noi Erinni siamo spiriti liberi per natura, sarebbe un abominio tappare le sue belle ali, non trovi?”
“Sarà…” sbuffò il serpente, per niente convinto delle tesi della sorella maggiore.
La sola idea di poter perdere Inarwe era per lei insopportabile, ma, scrutando nello sguardo fiero di Vhes, riusciva a cogliere un’apprensione anche maggiore della sua. Poi Vhes era la sorella maggiore, non poteva farsi vedere vacillante di fronte ai suoi occhi.
Soltanto la sua fiera presenza statuaria infondeva nel cuore di Thaet una sicurezza innata che la portava a nutrire una flebile speranza di salvezza.
“Grazie.” Bisbigliò a denti stretti abbassando la testa.
“Dovere” rispose il falco, concedendosi un sorriso rilassato alla vista dell’impaccio della minore.
Così, mentre il sole calava lento dietro le nubi antracite, in quel disperso angolo di infernale paradiso, si rovesciava copiosa una tempesta depuratrice di mali. L’acqua corrente lavava via il sangue dalle anime e la polvere dai ricordi. Ma, allo stesso tempo, custodiva i segreti nei cuori di ogni dimora.


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Capitolo 4
*** Tenebre della Fine - Pont-Saint-Martin 17 marzo 1987 ***


Tenebre della Fine - Pont-Saint-Martin 17 marzo1987
 
Era fantastico. Uno degli spettacoli più belli che madre natura potesse offrire ai propri figli. Un Sogno era la massima realizzazione umana in cui l’uomo era padrone del suo futuro, ma, allo stesso tempo non conosceva le regole del gioco a cui stava giocando. In sogno l’uomo faceva e disfaceva, creava scenari idilliaci e li lasciava precipitare nell’oblio. I sogni erano il più grande desiderio e mistero della mente umana.
Esternamente apparivano come una bolla d’acqua stagnante colma, al suo interno, di una fine nebbiolina caliginosa che non permetteva di sondarne il contenuto. Restavano sospesi, incorporei ed invisibili ad occhio umano, pochi centimetri sopra la testa dell’uomo, e lì fluttuavano per tutta la durata del sonno, intrappolando al loro interno l’anima dell’uomo che da loro veniva inesorabilmente attratta.
 
Inarwe allungò debolmente una mano verso l’imprecisa superficie della bolla, ritraendosi non appena le era arrivata troppo vicina.
La Furia galleggiava a mezz’aria, distesa carponi nel vuoto, osservando la sfera con occhi da cerbiatta.
Entrare nei sogni di un umano era come partire sempre con un piede in fallo per loro Erinni. Lì era l’uomo il padrone, ed il fatto che non riuscisse a controllare tutto il potere di cui disponeva, sicuramente non facilitava il loro compito, rendendo la vittima una bomba ad orologeria pronta ad esplodere da un momento all’altro. Solo Vhes possedeva il potere di manipolare, se pur in piccola parte, i sogni altrui, ma a lei tale possibilità era univocamente preclusa.
 
Si lasciò sfuggire un profondo sospiro e, dopo aver raccolto il coraggio a due mani, sfiorò con la punta dell’indice la superficie della bolla che, al suo tocco, si increspò in tante soffici onde.
‘Questa è la cosa giusta. Sto facendo la cosa giusta.’ Continuò spasmodicamente a ripetersi, per scacciare quel peso che percepiva all’altezza dello stomaco.
Fugace com’era apparsa nella stanza, scomparve nell’oscurità in un battito di ciglia.
 
 
Il paesaggio era sempre lo stesso: la landa di fuoco si estendeva a vista d’occhio ovunque gettasse lo sguardo. Le fiamme continuavano a procurargli un effimero dolore, non accompagnato da ferite corporee. Si sentiva stranamente leggero quella sera. Gli sembrava quasi di riuscire a fluttuare in quel cielo rossastro che vedeva sormontargli la testa. Forse il tutto era dovuto a quella tripla dose di sonniferi che aveva ingurgitato. Sentiva che qualcosa era cambiato dall’ultima volta che aveva visitato quel luogo. Qualcosa mancava per far sì che tutto tornasse come era sempre stato. Percepiva il calore sulla pelle innalzarsi sempre di più, gradualmente, come se il suo corpo si adattasse al calore di quella fornace con estrema lentezza.
Come alzò lo sguardo sul terreno di fronte a lui, vide la ragazza vestita di nero lì, in piedi al suo cospetto. Tanto vicina da poterla toccare, ma, allo stesso tempo, irraggiungibile.
 
“Perché hai chiesto proprio a me di salvarti?” questa volta fu Inarwe a rompere il silenzio per prima.
L’uomo non rispose, rimanendo a fissarla incantato, come un fedele devoto fisa l’effige del proprio Dio.
“Perché io?” chiese di nuovo la ragazza, portandosi una mano al petto.
Inizialmente l’uomo si limitò a rivolgerle un ampio sorriso, solo dopo che furono passati parecchi secondi rispose: “Perché siete stata l’unica  volermi aiutare.”.
A quella risposta il cuore di Inarwe si strinse in una morsa ancor più di quanto già non fosse, e la decisione che aveva preso non le era mai sembrata più orribile.
“Mi dispiace…” sussurrò, tentando di trattenere le lacrime.
“Io non posso salvare neppure me stessa” sussurrò mentre, lentamente, si allontanava e il suo corpo perdeva di consistenza.
Nel mentre le fiamme attorno al corpo di Varian divennero reali e cominciarono a divorare il suo spirito. Al mattino avrebbero trovato il suo corpo deceduto per overdose e quello della sorella nascosto nella cassa per gli addobbi natalizi in soffitta.
Il sorriso sul volto dell’anima morente non accennò a mutare di una virgola, mentre i suoi occhi assumevano un tono rassegnato.
“Lo so…” sussurrò abbassando lo sguardo.
Furono queste le ultime parole che Inarwe udì prima di abbandonare l’orrendo spettacolo.
 
E mentre l’anima dell’uomo veniva divorata dalle fiamme ardenti, un nome gli affiorò alle labbra in modo totalmente inaspettato. E li rimase sotto forma di sussurro incorporeo. A metà tra la vita e la morte, rincorrendo il suo destinatario.
 
 
Inarwe si volse indietro, ad osservare il sole nascente, avendo percepito un brivido lungo la schiena. Le cime innevate dei monti rilucevano di milioni di sfaccettature iridescenti mentre appariva all’orizzonte la speranza nell’avvenire.
 
“Allora? Ci volgiamo muovere?” le giunse alle orecchie, aspra come al solito, la voce di Thaet.
Alla fine aveva deciso quale strada seguire.
Gli uomini, secondo Vhes, lo avrebbero chiamato ‘destino’ ma per lei non era altro che una strada: quella che aveva deciso di percorrere. Ovvero quella che la portava al fianco delle sue sorelle, le due persone che sarebbero sempre state al suo fianco. Avrebbe lottato per vivere e conquistarsi il suo posto nel mondo; non avrebbe ceduto a false lusinghe ed echi di irraggiungibili passati.
Nitido le giunse alle orecchie il sonoro rumore di uno scappellotto.
“Lezione del giorno: porta pazienza.” Decretò Vhes mettendo a tacere, con il sorriso sulle labbra, la linguaccia biforcuta della minore.
Ad Inarwe scappò un sorriso mentre si nutriva di quegli attimi di così straordinaria quotidianità.
Sapeva che non avrebbe potuto fare niente per salvare Varian e la sua anima. Lui e Vittoria erano legati da quel malsano amore che lei nutriva nei suoi confronti.
Eppure lui le si era rivolto pur sapendo che non avrebbe potuto fare nulla per salvarlo dal triste destino che incombeva sulla sua testa. Cercava solo un’illusione di aiuto e perdono. Un perdono che Dio non concede agli omicidi dei proprio familiari e che l’aveva portata nella vita del giovane. E seguendo il proprio ‘destino’ Inarwe, con il suo intervento, aveva finito per concedere a quell’anima un’illusione ancora più dolorosa della verità stessa, promettendogli paradisi a lui preclusi.
Sospirò abbattuta dall’ironia e dalla meschinità della vita.
 
“Arrivo subito!” urlò per farsi udire dalle sorelle che l’attendevano poco lontano.
Cominciò a correre verso di loro a perdifiato tenendosi la veste corvina tra le mani per evitare di inciampare da qualche parte.
Ed ecco che, come una scossa elettrica, una folata di vento l’attraversò facendogli giungere all’orecchio quello che prima le era parso un verso indefinito.
Si guardò attorno un poco spaesata, per poi portarsi le mani all’altezza al cuore e percepire un calore improvviso. Spalancò gli occhi entusiasta e riprese a correre verso le sorelle portando nel cuore lo spirito di Varian che aveva saputo rappresentare per lei il più grande dei nemici: la paura di affrontare sé stessi e la realtà.
 
Quel sussurro, trasportato del vento, l’aveva colpita dritta al cuore. Tanto flebile come la vita che lo aveva pronunciato negli ultimi spasmi di lucidità. Non era un lamento o una richiesta; quel semplice nome racchiudeva in sé la felicità della liberazione dopo una lunga prigionia. Era lo spirare silenzioso di un’anima che consegnava al vento la sua ultima preghiera.
 
‘…Inarwe…’
 

L'alba poi è sorta
sembra essersi portata via,
il lato oscuro della notte,
ma esso è ancora lì nascosto
pronto a mostrare la sua oscurità.
(Marzia Ornofoli)
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

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