Deep Roots Are not Reached by the Frost di Nenredhel (/viewuser.php?uid=35475)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Lend ath i Maur (Un Viaggio nell’Oscurità) ***
Capitolo 2: *** Noer a Maur (Fiamme e Ombra) ***
Capitolo 3: *** Ah Gwanath ned i Gûr (Con la Morte nel Cuore) ***
Capitolo 1 *** Lend ath i Maur (Un Viaggio nell’Oscurità) ***
Nuova pagina 1
DISCLAIMER: Non mi appartiene niente,
nè Dean, nè Castiel nè nessuno dei parti della mente diabolicamente geniale di
Erik Kripke, e neppure, sfortunatamente, la Terra di Mezzo e il meraviglioso
mondo nato dal genio di Tolkien...
DEDICA:
A
Sepherim, che è una grande fan di questa fanfiction/saga e che attendendo con
impazienza i nuovi capitoli, mi sprona a dare il meglio di me! Ma soprattutto,
che ha compiuto gli anni pochi giorni fa e quindi si merita un bel regalo, un
bacione forte e un grande abbraccio! AUGURI CARA! (Ti avviso che questa è solo
la prima parte del mio regalo ritardatario! Abbi fede e presto arriveranno anche
le altre due. Tutta questa “riga” della poesia è dedicata a te!)
Lend ath i Maur
(Un Viaggio nell’Oscurità)1
1
Il titolo è esattamente lo stesso del capitolo dedicato a Moria nel Signore
degli Anelli… ci sono un po’ di citazioni (liberamente) tratte dai libri
disseminate qui, chissà chi le riconosce tutte ;P
*
Solo attraverso l’oscurità, puoi giungere al mattino
“You
can only come to the morning through the shadows”*
[J.R.R. Tolkien]
Dean lanciò un’ultima occhiata attraverso lo spiraglio sempre più stretto delle
pesanti porte di pietra, mentre queste si richiudevano lentamente sotto la
spinta di chissà quale meccanismo o magia. La sua espressione era corrucciata
mentre indirizzava i propri occhi verdi, ancora una volta, verso la superficie
nera e terribilmente immobile delle acque del lago sul quale erano stati
accampati fino a pochi momenti prima.
“Man presta le? (Cosa ti turba?)” chiese la voce pacata di Castiel,
accanto a lui, mentre i suoi occhi, quasi neri nell’ombra fitta delle miniere,
lo guardavano con la fissità intenta degli Eldar.
“Si raccontano strane cose, cose oscure, riguardo alle acque di quel lago”
replicò Dean nella lingua corrente, distogliendo finalmente lo sguardo dalla
porta ormai chiusa per portarlo a cercare di fendere l’oscurità davanti a lui,
che ancora ammantava il sentiero sotterraneo delle miniere di Moria.
“Molte leggende corrono sulle strade della Terra di Mezzo, ma non è saggio
temere tutte le vecchie parole dei viaggiatori” lo redarguì Rufus, superandolo
con passo deciso per andare a tastare i muri intorno a loro, in evidente ricerca
di qualche cosa per illuminare la strada.
“Non è saggio nemmeno ignorarle tutte, Rufus, ma ancor meno saggio è
preoccuparsi di ciò che è alle nostre spalle quando c’è ancora tanta strada di
fronte a noi” ribatté Bobby con il suo consueto tono burbero, battendo il
bastone in terra finché la pietra sulla sua punta non si fu illuminata di
un’intensa ma discreta luce candida “questa ci servirà meglio di una vecchia
torcia consumata, ora andiamo” proseguì il vecchio stregone, senza più degnare
nessuno di uno sguardo, ma indirizzando la propria luce verso la scala che
dipartiva dalla piccola sala in cui si trovavano, prima di salire i primi
gradini.
Rufus si limitò a grugnire una risposta inintelligibile ma discretamente
infastidita, prima di fare un gesto al resto della compagnia, attendendo che
fossero tutti sulle scale, prima di chiudere il gruppo.
Sam fu il primo a seguire i passi dello stregone, non prima di avere indirizzato
uno sguardo divertito a Dean, che rispose con una scrollata di spalle,
seguendolo poi insieme a Castiel. Non sapeva da quanto il ramingo e Bobby si
conoscessero, ma ogni volta che li aveva visti insieme, aveva avuto
l’impressione che fossero amici dall’inizio del mondo stesso: nessuno, a parte
Rufus, si rivolgeva allo stregone con lo stesso tono ironico ed affettuosamente
insofferente. Il giovane uomo fissò per alcuni secondi lo sguardo sull’ampia
schiena di Sam, davanti a sé: Castiel non era stato il primo né l’unico a dire
che quella era esattamente la stessa cosa che accadeva fra lui e il principe di
Gran Burrone.
Il filo dei suoi pensieri fu interrotto bruscamente, quando gli sconnessi
gradini della scala che stavano percorrendo si interruppero bruscamente, finendo
su di uno stretto ma solido sentiero, scavato in quella che sembrava una scura
parete granitica, che si gettava per decine di metri in un ampio ed imponente
strapiombo. Esili e malridotte impalcature di legno erano incastrate qui e là
nella parete rocciosa, abbarbicate come ragni alle pietre scure, con funi che
pendevano come tentacoli morti dalle loro piattaforme, spesso inclinate e
marcescenti, protendendosi verso lo stesso baratro da cui parevano volersi
sottrarre con tutte le loro forze. C’era un’aria di desolazione e di stantio
abbandono nell’aria immobile e fredda dell’enorme caverna in cui si trovavano, e
allo stesso tempo, Dean non avrebbe saputo immaginare nulla di più grandioso di
quella nera voragine, sfidata con tanta alacre sollecitudine dalle costruzioni
dei nani, o di più magnifico delle intricate trame di splendenti venature di
limpido argento che attraversavano, come linfa pulsante di vita, la volgare
pietra scura.
Mentre seguivano con attenzione i passi di Bobby, giù per il sentiero, stretto
ma non abbastanza da rendere opprimente il vuoto che li accompagnava, Dean stese
la mano per percorrere con le dita la scabra superficie fredda di uno di quegli
esili e preziosi rigagnoli d’argento.
“Mithril” gli sussurrò la voce di Castiel all’orecchio, e il ramingo trasalì
appena, sentendo un brivido scendere per la spina dorsale nel sentire
all’improvviso il respiro dell’Elfo accanto all’orecchio. Il desiderio
impellente di voltarsi e spingerlo contro quello stesso muro striato di
splendore antico, e divorare le sue labbra, gli fu mozzato d’improvviso nel
petto dallo sguardo penetrante di Bobby.
“Esatto, Mithril” annunciò la sua voce secca, e le sue note più gravi
rimbombarono fra le pareti della miniera come se i suoi mille anfratti volessero
rispondere e ripetere quelle prole all’infinito “L’oro dei Nani. Leggero come
una piuma, splendente come l’argento più puro, e duro come le scaglie di drago.
Molti Signori degli Elfi del passato si rivestirono di questo metallo, prima che
sciocche dispute dividessero i popoli degli Eldar e Nani, indossando vesti che
avevano il valore di intere città di uomini” spiegò Bobby, avvicinando la luce
del suo bastone alla parete rocciosa per mostrare le piccole venature argentate,
che catturarono il tenue bagliore, riflettendolo in mille fulgori candidi, come
la superficie di un lago inondato dalla luce della luna.
“E allora perché questo tesoro è abbandonato?” domandò Sam cupamente, prima che
lo stregone potesse finire di voltarsi per riprendere il cammino.
“E’ vero. Questo luogo è privo di vita, sembra abbandonato da decenni. Dove sono
i cugini di cui ha parlato Ronald della Montagna Solitaria al consiglio di
John?” aggiunse subito Dean, portando uno sguardo inquieto sulla vuota
solitudine intorno a lui.
“I Nani hanno scavato troppo a fondo e troppo a lungo” replicò lo stregone, e
mentre il palmo della sua mano si poggiava alla parete rocciosa, parve d’un
tratto che tutti i suoi lunghi anni fossero giunti in un solo momento a gravare
finalmente sulle sue spalle “Chi sa cosa hanno risvegliato nelle profondità
della terra?” proseguì, riscuotendosi e drizzando la schiena “Ma ora basta
chiacchiere, o non usciremo più di qui! Abbiamo ancora molte sale, e ben più
imponenti di questo luogo, da attraversare” veloce com’era venuta, quella strana
aura di stanchezza era scivolata via dallo stregone come l’acqua di un torrente,
e la sua voce era tornata quella brusca e decisa di Bobby il Grigio.
“Le parole di Bobby non mi hanno affatto tranquillizzato” commentò Sam in tono
preoccupato, sfiorando il lungo pugnale elfico che portava alla cintura, mentre
riprendeva lentamente il cammino.
“Hai passato troppo poco tempo con lui, altrimenti avresti imparato che fare una
domanda a Bobby il Grigio è il modo migliore per pentirsene pochi secondi dopo”
replicò Dean con una vena di amara ironia, abbassando lo sguardo sul fodero
vuoto della propria spada e cercando quindi di sopprimere il sospiro che arrivò
ugualmente a gonfiargli il petto.
~~~
Bobby passò una mano sulla pietra appuntita incastonata sulla cima del suo lungo
bastone di legno, e la luce bianca aumentò prontamente di intensità, inondando
le altissime arcate e gli imponenti pilastri di pietra grigia, mentre la sua
voce rimbalzava in mille eco solenni fra le pareti dell’immensa sala in cui
erano finalmente sbucati.
“Ammirate le sale di Durin, signore di Moria”
Dean si ritrovò con lo sguardo che si perdeva all’insù e la bocca semiaperta
dallo stupore, prima che si fosse effettivamente reso conto di cosa stesse
facendo. Aveva perso il conto dei giorni che avevano trascorso negli scuri
corridoi di Moria, perché nelle gallerie scavate negli abissi della terra il
sole non giungeva mai, e non avevano che la loro stanchezza a misurare il tempo
che avevano trascorso a camminare sui gradini di pietra delle miniere. Avevano
percorso corridoi interminabili e sceso scale che sembravano finire nei visceri
stessi della terra, avevano camminato sugli stretti sentieri dei minatori
illuminati dai bagliori del Mithril, e attraversato le sale dove la vita dei
Nani trascorreva tra pinte di birra e maiale salato, ma quando la luce di Bobby
si espanse nel salone dove li aveva infine condotti, Dean fu sicuro che qualche
magia dovesse avere scavato quella grotta, raddrizzato le sue pareti e posto
pietra su pietra quegli immensi pilastri, perché né mano umana né Elfica, né
tanto meno le tozze mani dei Nani potevano avere costruito qualcosa di così
immensamente grandioso.
Forse più di venti uomini uno sull’altro potevano trovare spazio sotto le volte
della sala, e nemmeno l’intensa luce del bastone di Bobby riusciva a strappare
completamente all’oscurità le pietre scolpite degli immensi pilastri compositi,
né tanto meno riusciva ad indagare la liscia superficie grigia delle pareti di
fondo della sala. Il ramingo poteva solo immaginare quanto dovesse essere vasta,
perché l’altro capo della stanza era ancora avvolta completamente nel buio,
mentre avanzavano i primi passi, ascoltando il loro sordo rimbombare in
quell’interminabile vuoto di pietra.
“Le risate e le musiche si elevavano alte, fra il clangore di boccali di birra
Nanica e il bagliore di monili di Mithril, riempivano questa sala fino alle sue
volte, quando Durin regnava su Moria” spiegò la voce di Bobby, e i suoi compagni
potevano indovinarvi una nota di nostalgia e forse una vaga venatura di timore
“C’è solo un luogo dove gli eredi di Durin possono avere ritenuto di conservare
le vestigia della spada di Colt, ed è insieme alle spoglie del più grande fra i
loro sovrani” proseguì lo stregone, indicando con la punta illuminata del
proprio bastone, una piccola porta aperta sul muro più vicino dell’immensa sala
“Vai a rendere i tuoi omaggi al signore dei Nani, Dean. Sarà dalle mani di un
grande Re che dovrai prendere la tua eredità regale” concluse bruscamente,
voltando gli occhi chiari sul ramingo, che sentì il proprio cuore balzargli
improvvisamente in gola, mentre si rendeva conto che il suo destino lo stava
aspettando proprio lì, in quella sala che, ironicamente, lo faceva apparire
ancora più minuscolo di quanto già non fosse.
Quando mosse il primo passo in direzione della porta, gli parve che i suoi piedi
fossero diventati di piombo, per poi fondersi con gli enormi lastroni del
pavimento di pietra della sala: a quanto pareva la strada per il destino era una
salita tanto ripida da apparire insormontabile. Il breve tragitto fino ai
battenti spalancati della porta, che appariva molto più imponente da vicino di
quanto non fosse sembrata quando era incorniciata dai mastodontici pilastri, gli
sembrò interminabile, come se in tutti i suoi viaggi non avesse mai percorso una
strada così lunga con le proprie gambe. E quando finalmente si trovò sormontato
dal grande architrave, fiocamente illuminato dal raggio di luce solare che
penetrava da una fenditura nel soffitto, i suoi passi si bloccarono, come se una
forza invisibile gli avesse sbarrato la strada.
Alla poca luce che filtrava da metri e metri di solida roccia, poteva già
intravedere il profilo, splendente e ancora affilato nonostante l’età, di ciò
che stavano cercando: giaceva su di un panno che doveva essere stato prezioso e
raffinato un tempo, di un rosso reso scuro dalla polvere e dal tempo, sopra a
quello che solo ad un primo momento aveva scambiato per un altare. C’era
qualcosa di sinistro nel fatto che quella lama fosse stata conservata in una
tomba.
Dean strinse i pugni e sfiorò con la sinistra il fodero vuoto della sua spada,
l’elegante guaina di cuoio che lady Lisa aveva fatto fare per lui e gli aveva
consegnato in dono, con un sorriso appena bagnato di lacrime, prima di partire,
e fu proprio in quel momento che sentì la mano di Castiel lambire appena la sua
e, simultaneamente, quella di Sam posarsi sicura sulla sua spalla. Il ramingo si
voltò prima da una parte e poi dall’altra: i loro volti erano seri, ma nei loro
occhi c’era una fiducia incrollabile, oltre ad un affetto incondizionato. Solo
allora il giovane uomo tornò a percepire anche la presenza rassicurante di Rufus
e Bobby alle sue spalle: malgrado le bugie e le incomprensioni, malgrado non ci
fosse una sola goccia di sangue condiviso fra di loro, lui non era solo, non lo
era mai stato. La sua famiglia era con lui.
Le dita delle sue mani si aprirono: non c’era in lui nessuna nuova certezza di
poter davvero diventare un Re, ma sapeva di poter contare sui suoi amici, e
forse questo poteva bastare per arrivare in fondo a quella strada. Dean si
mosse, e nonostante le mani di Sam e Castiel scivolassero via da lui mentre
procedeva incontro al destino, poteva ancora sentire la loro presenza al suo
fianco.
In due lunghi passi lenti fu davanti alla massiccia tomba, e prima di allungare
la mano a sfiorare l’elsa, finemente lavorata ed ancora perfetta, della spada
che fu spezzata, si fermò ad osservare gli spigolosi caratteri incisi nella
tomba di Durin. Non ricordava la storia dei Nani, conosceva a malapena quella
degli uomini, e solo vaghi stralci della millenaria storia elfica rimanevano
nella sua mente, non molto portata per lo studio, ma il monumento alla grandezza
che erano le miniere stesse su cui questo Nano aveva regnato, gli rendevano
giustizia più di quanto potessero fare le parole di qualsiasi libro. E questo
grande Re aveva custodito quella spada per lui per tutto questo tempo, per lui
che avrebbe dovuto ringraziare gli dei per il resto della sua vita, se fosse
riuscito a diventare degno anche solo dell’ombra su cui aveva camminato Durin di
Moria.
Allungò titubante la mano verso l’elsa da cui si allungava il moncherino della
lama che aveva sconfitto Lilith all’alba dei tempi, ed ebbe l’impulso di
voltarsi, per chiedere ancora una volta se non ci fosse stato un errore, se
quella lama leggendaria fosse davvero lì per lui. Solo che sapeva perfettamente
che non c’erano errori o vie d’uscita: sua era la decisione di impugnare il suo
destino per il futuro dei popoli della Terra di Mezzo, sua e solo sua. E per
quanto potesse pensare di essere ben poca cosa a cospetto dell’ombra che si
stava ergendo contro di loro, se qualcuno aveva deciso di affidare a lui questo
compito, non era suo diritto voltarvi le spalle e lasciare che qualcun altro
morisse al posto suo.
La sua mano coprì il resto della distanza in un gesto deciso, e le sue dita si
strinsero con forza intorno all’elsa scura, sollevando il metallo leggero e
lucente nel chiaro fascio di luce solare. Dean vi vide riflessi per un secondo i
propri occhi verdi, e in quell’attimo si chiese se sarebbero mai più stati gli
occhi del ragazzo che aveva visto riflessi nell’acqua di Gran Burrone mille e
mille volte, mentre attendeva con la trepidazione di un bambino il proprio
futuro.
Nel momento in cui la lama fu sollevata dalla sede che l’aveva ospitata per
tutti quei lunghi anni, un secco rumore di pietra contro pietra fece tremare per
un secondo le pareti della stanza, subito seguito da un colpo sordo, come quello
di un gigantesco tamburo, nelle viscere della terra.
Preso di sorpresa, Rufus si voltò di scatto, estraendo rapido la spada dal suo
fodero e guardandosi intorno, sulla difensiva: fu proprio quello il movimento
che fece oscillare lo scheletro coperto di ragnatele, che era rimasto per tutto
quel tempo a guardia del sovrano e del suo tesoro. La sua testa coronata dal
pesante elmo nanesco colpì le pareti del pozzo sul quale il Nano era rimasto in
bilico fino ad allora con un assordante rumore metallico che risuonò di mille
eco nelle profondità delle grotte di Moria, prima di spegnersi nel nero di quel
baratro che pareva interminabile.
Un silenzio carico di tensione avvolse la piccola compagnia non appena l’ultima
eco morì in lontananza, mentre una ragnatela di sguardi sospesi nel terrore si
intesseva fra i loro occhi tanto immobili quanto frementi d’attesa.
“Gettati tu la prossima volta, Rufus, e liberaci della tua goffaggine!” sbraitò
Bobby, colpendo il ramingo dritto sulla testa con il suo lungo bastone, quando
il silenzio si fu allungato abbastanza a lungo da aver stemperato almeno in
superficie la paura.
Fu allora che il secondo colpo di tamburo riempì con il suo cupo annuncio di
guerra il vuoto funereo delle miniere di Moria.
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Capitolo 2 *** Noer a Maur (Fiamme e Ombra) ***
Nuova pagina 1
Piccola premessa (della serie
"mettiamo le mani avanti"): nella descrizione del balrog così come in quella del
ponte di Kahzad-dum ho
deciso di fare una specie di mix tra le effettive descrizioni di Tolkien e le
immagini del film... mi perdonino i puristi! ;P
Invece, permettetemi di prendermi una riga per ringraziare tutte le persone che
hanno letto e soprattutto commentato (in particolare
Castiel Who), non
solo perché ricevere recensioni e sapere di essere letta fa sempre piacere, non
solo perché gioisco a vedere che ci sono davvero lettori fedelissimi che mi
stanno davvero seguendo in questo strano viaggio nella Terra di Mezzo, ma perché
i vostri commenti pertinenti, sagaci e intelligenti mi aiutano a migliorare e a
definire il futuro dei miei personaggi! Quindi, un grosso GRAZIE!
Noer a Maur (Fiamme e Ombra)
*
Non giuri di camminare nell’oscurità, colui che non ha visto la notte calare
“Let him not vow to walk in the dark, who has not seen the darkness fall”*
[J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli_La Compagnia dell’Anello]
Non c’erano stati altri rumori, dopo i due isolati colpi di tamburo che erano
risuonati nell’oscurità scuotendo i cinque viandanti fino nell’anima. Il
silenzio era tornato ad avvolgere con il suo pesante manto le miniere di Moria.
Bobby aveva stretto convulsamente il legno del suo bastone, mentre Castiel
scrutava l’oscurità con i suoi ottimi occhi di Elfo, e solo quando era stato
ragionevolmente sicuro che non sarebbero stati presi in un imboscata appena
fuori da quella stanza, li aveva guidati con passo veloce attraverso la sala.
Il piano originario era stato di recuperare la spada e tornare a Gran Burrone
per la stessa strada percorsa all’andata, ma Bobby sapeva bene che in quel
momento si trovavano molto vicini all’uscita est delle miniere, il Cancello dei
Rivi Tenebrosi, e ora che avevano sentito qualcosa risvegliarsi nelle viscere
della terra, non avrebbe rischiato un’altra lunga e pericolosa traversata per
tornare indietro. Dovevano lasciare le miniere il più velocemente possibile, poi
avrebbero pensato a come valicare nuovamente le Montagne Nebbiose per fare
ritorno nel reame di sire John.
Ma la sala in cui si trovavano era ancora più ampia di quanto Dean fosse
riuscito ad immaginare, e loro erano stanchi per le lunghe ore di marcia che li
avevano condotti fino lì. Quando finalmente raggiunsero la parete opposta del
salone, erano tutti abbastanza stremati da accettare il rischio di fermarsi
qualche ora a riposare.
Sam e Castiel si erano subito presi l’onere di montare la guardia mentre i
compagni dormivano: il loro sangue Elfico permetteva loro di recuperare le forze
semplicemente sedendo rilassati e vigili, avendo bisogno di vero sonno solo
raramente, e per brevi periodi di tempo. Bobby era sempre stato tanto prudente
quanto diffidente, ma era stanco, forse anche più dei due raminghi, e sapeva di
potersi fidare degli occhi e delle orecchie dei due Elfi. Quando la pietra sul
bastone dello stregone aveva affievolito la sua luce fino a spegnersi, il buio
era calato sulla piccola compagnia, ma era sembrato solido ed impenetrabile solo
per qualche secondo: spaccature ed aperture opportunamente predisposte si
aprivano nella roccia, esattamente come nella cripta di Durin, e lasciavano che
una vaga luminescenza si spandesse per le sale, indice che fuori doveva essere
ancora giorno pieno.
Così, Dean se ne stava steso sul proprio mantello, una mano sotto la nuca a
reggere la testa pesante, mentre l’altra riposava sul fodero di cuoio che
conteneva ora tutti i frammenti della spada di Colt. L’elsa fuoriusciva come se
l’arma fosse stata ancora intatta, ma il ramingo sentiva i pezzi sconnessi
tintinnare fra loro ad ogni passo, a ricordargli che la strada da percorrere era
ancora tanto lunga quanto ripida e irta di pericoli. Mentre giaceva ad occhi
socchiusi, guardando le ombre dei pilastri intorno a lui emergere come forme
vaghe e fantasmagoriche dal buio effimero, sentiva il bisogno di estrarre ancora
una volta il moncherino dal suo fodero: voleva osservare di nuovo il proprio
sguardo riflesso dal metallo lucido della sua lama, e allo stesso tempo non
c’era nulla al mondo che temeva di più.
Sentiva il respiro lento e regolare di Rufus e Bobby poco lontano da lui, e
sapeva che stavano dormendo: avrebbe potuto riconoscere il ritmo del loro sonno
ovunque; mentre i due Elfi di guardia erano tanto immobili e silenziosi da
sembrare essere stati inghiottiti dall’oscurità stessa. Quando gli parve
evidente che non sarebbe riuscito ad addormentarsi, o meglio quando non riuscì
più a sopportare la solitudine opprimente che la vicinanza di quella lama gli
imponeva nel cuore, il giovane uomo si levò a sedere con un movimento repentino,
e si allontanò il più silenziosamente possibile dai due amici addormentati.
Brancolò nel buio per un paio di passi, guardandosi intorno alla ricerca della
corta tunica verde chiaro di Castiel, o della forma aguzza del suo arco, la cui
sommità gli spuntava dalla spalla, accanto alla testa, ma fra le ombre più o
meno dense intorno a sé, non riuscì a scorgere niente del genere. Erano in uno
spazio aperto, e non riusciva a capire dove l’amico potesse essersi nascosto, ma
ricordava anche molto bene che un Elfo sapeva confondersi con l’ambiente, se lo
desiderava. Avanzò a casaccio ancora di qualche passo nell’oscurità, desiderando
solo di allontanarsi dal resto del gruppo e dal malefico fodero che sembrava
continuare a chiamarlo, e infine poggiò la mano sulla liscia superficie fredda
di uno dei pilastri.
“Telig thinno (Dovresti dormire)” bisbigliò una voce accanto al suo
orecchio, facendolo trasalire.
Dean non poteva scorgere con esattezza l’espressione del viso dell’Elfo, eppure
avrebbe giurato che si fosse divertito un mondo ad apparirgli alle spalle a quel
modo, prendendolo di sorpresa.
“Non riesco. La mia mente continua a tornare a quella dannata spada” replicò il
ramingo con voce roca, forse leggermente troppo forte. Si voltò distrattamente a
controllare che nessuno dei due compagni si fosse riscosso, quindi mosse qualche
passo attorno al pilastro, finché la vista del loro piccolo accampamento gli fu
preclusa dalla roccia.
“Non lasciare che il peso di quella lama ti schiacci. Tu sei più forte di quello
che pensi…” sussurrò l’Elfo, posandogli una mano sulla spalla per richiamare la
sua attenzione.
Per un attimo, le sue parole rassicuranti lo irritarono: gli fecero ripensare a
tutte le volte che gli aveva parlato con dolcezza, nel buio della sua camera,
per calmare le sue paure di bambino; ma quando si trovò di nuovo ad incrociare i
suoi occhi blu, la cui lucentezza il buio non riusciva ad occultare, sentì ogni
stizza scemare. Non c’era il sorriso divertito e condiscendente che gli aveva
visto tante volte sul viso, quando era solo un bimbo. Il suo bel volto chiaro
era estremamente serio. Nei suoi lineamenti dolci ma decisi, riusciva a vedere
il principe, il guerriero, la splendida, incredibile creatura millenaria che era
e che, dall’alto della sua perfezione impossibile, accettava di mettere nelle
sue mani, così giovani e impreparate, il suo destino e quello del suo popolo.
Come poteva un tale principe degli Elfi riporre in un semplice uomo tanta
incrollabile fiducia? Come era possibile che una creatura del genere avesse
donato il suo cuore a lui?
“Io sono più forte quando sei con me” rispose alle sue parole, andando a
poggiare una mano sulla sua guancia, prima di avvicinarsi, deciso a sentire di
nuovo sulle labbra quel sapore antico e celestiale che per troppi giorni aveva
sognato senza poter avere.
“Dean, Samuel nar si ennas (Dean, Samuel è qui intorno)” lo avvisò
Castiel in un soffio, che danzò sensualmente sulle labbra dell’uomo.
“Avo preston nin (Non mi importa)” replicò il giovane, accostando una
guancia alla sua perché i dolci suoni della lingua elfica potessero scivolare
come miele nel suo orecchio “Tirnin le an eraid pen aglenno le (ti guardo
da giorni senza poterti toccare)” aggiunse, stuzzicando appena con le labbra la
punta del suo orecchio, scendendo sul collo non appena sentì il suo corpo
tremare d’improvviso, e assaggiando piano la sua pelle mentre faceva scorrere le
dita sulla stoffa liscia della sua tunica da viaggio “Aniron le (ti
voglio)” sussurrò contro la sua pelle, saggiandola con i denti mentre sorrideva
del sospiro improvviso che gonfiò il petto dell’Elfo “Ora” concluse
d’improvviso, soffiandogli quella parola contro le labbra, nel momento in cui
gli afferrò la vita, facendolo ruotare per spingerlo contro la fredda superficie
di pietra del pilastro.
“Dean…” riuscì a sospirare solamente l’Elfo, prima che il ramingo catturasse le
sue labbra con veemenza, bevendo da esse il suo respiro già affannato come fosse
la fonte stessa della sua vita, mentre una mano gli afferrava saldamente il
fianco, ed il bacino accarezzava con insistenza il suo.
Le dita di Dean giocarono per un secondo con gli stretti lacci della casacca,
prima di scendere fra di loro, cercando con insistenza il bordo dei pantaloni,
per insinuarsi dolcemente sotto la sottile stoffa morbida che li divideva.
“Dean derig le! (Dean fermati!)” ansimò disperatamente l’Elfo, ma il suo
corpo sembrava pensarla altrimenti, mentre si spingeva con impazienza nel palmo
caldo del compagno “Fermati!” ripeté di nuovo nel linguaggio comune, con più
urgenza, mentre una mano si afferrava alla sua nuca, stringendo i corti capelli
castani come per richiamare la sua attenzione.
Dean sorrideva di trionfo nel vedere gli occhi languidamente liquidi e la bocca
dischiusa dell’Elfo, ma mentre si sporgeva in avanti per leccare di nuovo,
lentamente, le sue labbra piene, finalmente si immobilizzò. Sul fondo delle sue
iridi blu c’era qualcosa di sbagliato: Castiel era allarmato per qualcosa, ma
era troppo in preda alle sensazioni del proprio corpo per riuscire a dominarsi e
dare voce alla sua paura. Non ci fu bisogno di domandare cosa lo avesse
spaventato, ora poteva sentirlo anche lui: tamburi nell’oscurità.
Il giovane ramingo fece appena in tempo ad allontanarsi in fretta dal compagno,
prima che Sam comparisse al suo fianco dalle ombre, silenzioso come ogni Elfo.
Dean non ebbe il tempo di chiedersi da quanto li stesse osservando e cosa avesse
visto, riusciva a sentire sul pavimento le vibrazioni di mille piedi che si
avvicinavano correndo: stavano arrivando.
Bobby balzò in piedi in un lampo, accanto a Rufus, quando Sam li raggiunse per
dare l’allarme. Stava succedendo tutto troppo in fretta, e lo sguardo torvo che
lo stregone indirizzò al Mezzelfo diceva era solo per metà un rimprovero. Aveva
intuito che qualcosa aveva distratto le due sentinelle di guardia, ritardando
fin troppo l’allarme, ma non c’era il tempo per fermarsi a rimproverare nessuno.
Dean corse a raccogliere le proprie cose: si avvolse il mantello sulle spalle e
allacciò il cinturone con la spada alla vita, assicurandosi che fosse ben saldo,
quindi si sentì afferrare bruscamente il braccio da Bobby.
“Tu, davanti a tutti. Corri e non ti voltare, qualsiasi cosa succeda!” ordinò
perentoriamente lo stregone, e quando il giovane ramingo rimase per un secondo a
fissarlo frastornato, lo spinse in malo modo verso la buia porta che si apriva
solo a pochi metri da loro, prima di voltarsi per rivolgersi a Rufus “Il ponte
di Khazad-dûm non dev’essere lontano, ma siamo troppo in alto. Raggiungete il
fondo delle scale, ma lì non indugiate più di qualche secondo ad aspettarmi, se
non sarò arrivato, conducili tu fuori”
Mentre fissava corrucciato l’espressione decisa degli occhi chiari dello
stregone, parve che Rufus stesse per ribellarsi protestare qualcosa, ma alla
fine il suo sguardo scuro si spostò, fulmineo, sul ragazzo che stava scomparendo
in quel momento oltre la porta di uscita della sala, e il ramingo si limitò ad
annuire serio, prima di seguire il resto del gruppo giù per le strette scale
immerse nell’oscurità.
Dean non si rese conto del fatto che Bobby non li aveva seguita, finché non udì
lo strano boato che li raggiunge rimbalzando fra le strette pareti che il gruppo
continuava a percorrere a tentoni il più velocemente possibile. Non c’erano
fessure né finestre lungo quella rampa di scale, e la totale mancanza di luce
rendeva la discesa pericolosa, ma i quattro compagni continuarono a procedere
con il passo più veloce consentito dagli stretti gradini, fino a che il giovane
ramingo non si immobilizzò, quando il rumore di rocce franate non lo raggiunse
insieme ad un violento spostamento d’aria.
“Cosa sta succedendo?” domandò al buio fitto che lo circondava.
“Muoviti ragazzo!” sbottò Rufus alcuni gradini più in alto, e Dean calcolò che
doveva essere lui a chiudere la fila. Non fece in tempo a protestare, che il
Dunedain proseguì “Non costringermi a spingerti!” il ruvido tono brusco convinse
il ragazzo a voltarsi e ricominciare la faticosa discesa, sebbene qualcosa nella
sua voce lo avesse preoccupato ancor più degli inquietanti suoni che provenivano
dalle scale alle loro spalle.
Mano a mano che scendevano, l’aria sembrava farsi sempre più calda e Dean si
trovò a sudare copiosamente quando finalmente raggiunsero l’ultimo pianerottolo
delle scale. Davanti a lui si aprivano tre porte: una sembrava condurre ancora
più in basso, una svoltava a destra e ricominciava a salire, mentre la terza
sembrava dare accesso ad una piccola sala, illuminata da una strana e tremula
luce rossa.
“E adesso? Dove andiamo?” domandò il ragazzo, passandosi un braccio sulla fronte
quando sentì le prime gocce di sudore bruciargli negli occhi. Al tenue bagliore
proveniente dalla terza porta, il ramingo poteva scorgere le facce accaldate e
preoccupate dei compagni, ma trasalì ugualmente quando Bobby comparve alle
spalle di Rufus, facendosi largo in malo modo con il bastone per raggiungere la
testa del gruppo. I suoi vestiti, così come la sua barba rossiccia sembravano
coperti di polvere di roccia, mentre il modo con cui si appoggiava pesantemente
al suo bastone mentre scendeva gli ultimi gradini lo faceva apparire ancora più
vecchio del solito.
“Non mi piace quella luce, ma è quella l’unica via d’uscita” annunciò,
avvicinandosi alla porta illuminata di rosso “Andiamo” li esortò senza troppi
complimenti, voltandosi per proseguire il cammino nonostante il respiro
affannoso.
“Bobby, cosa è successo?” gli chiese Dean, poggiandogli una mano sul braccio per
attirare la sua attenzione, mentre si affrettava per tenere il suo passo.
“Qualcosa di ben peggiore degli orchetti è stato risvegliato nelle viscere della
terra” replicò lo stregone, indirizzandogli due occhi fiammeggianti di potere,
malgrado fossero velati di stanchezza “Per fortuna la porta della sala è
crollata, non sarei riuscito a trattenerlo oltre” aggiunse, tornando a guardarsi
attorno come stesse cercando ossessivamente la fonte della luce rossa che stava
illuminando loro il cammino.
“Il Flagello di Durin” commentò la voce di Castiel, da un punto fin troppo
distante, alle spalle del giovane ramingo.
Dean si voltò e riuscì ad incrociare lo sguardo preoccupato dell’Elfo solo per
un secondo, prima che gli fosse nascosto dal corpo di Sam, che camminava dietro
di lui. Era stato, però, sufficiente per notare che l’Elfo teneva ora pronto tra
le mani il proprio arco, così come Rufus, dietro di lui, aveva appena finito di
sguainare la spada. Il giovane portò la mano all’elsa della spada di Colt e si
sentì inerme, sapendo che non era altro che un inutile mozzicone, solo un peso
che doveva assolutamente riportare alla luce del sole. Estrasse dal suo fodero
il lungo pugnale elfico che teneva legato all’altro fianco, e stringendo la sua
impugnatura tentò di ritrovare un po’ della sicurezza che non aveva.
Un terribile presentimento stava crescendo dentro di lui, e neppure la vista
dello stretto ponte di Khazad-dûm, così vicino all’uscita da poter già sentire
il profumo dell’aria libera, riuscì a liberargli il cuore da quel peso. Bobby
iniziò l’ultima discesa verso il ponte nel momento in cui una delle corte frecce
degli orchetti gli sibilò vicino all’orecchio: dovevano esserci arcieri nascosti
da qualche parte, sopra il ponte. Dean vide il primo cadere nel vuoto un attimo
dopo che Castiel ebbe scoccato la prima freccia, ma un secondo più tardi fu
indotto a voltarsi nel sentire il clangore vicinissimo di mille armi che
smaniavano di assaggiare la loro carne.
L’orda degli orchetti li aveva raggiunti per chissà quale via, e ora premeva
alle loro spalle. Certo, sullo stretto passaggio sospeso non avrebbero potuto
attaccarli in massa o circondarli, ma non era quello a preoccuparlo. Quello che
gli stava mozzando il fiato nel petto, al momento, era l’ombra che stava
risalendo alle spalle dei loro inseguitori, mettendo in fuga gli orchetti stessi
con il suo seguito di atavico terrore. Pareva una nube di fumo e cenere, al cui
centro si poteva distinguere qualcosa di molto simile ad una figura umana. Dean
sentì le proprie gambe divenire come di marmo, mentre il cuore gli sprofondava
nel petto per l’orrore, e gli vollero alcuni secondi per vedere che tutto il
gruppo era stato paralizzato da quella visione.
Quando anche Bobby si voltò, puntando i propri occhi chiari dritti all’interno
di quel nero ammasso di terrore ed aumentando la luce del proprio bastone come
per attirare la loro attenzione, uno strano ruggito riempì le alte pareti che
circondavano il baratro sul quale si gettava il ponte di Khazad-dûm, mentre il
nero fumo che avvolgeva quella creatura si accendeva improvvisamente di rosso,
come stesse bruciando dall’interno e il suo corpo fosse composto di tizzoni
d’inferno.
“Sono un servitore del Fuoco Segreto e reggo la Fiamma di Anor! A nulla ti
servirà il fuoco oscuro, torna nell’Ombra Azazel, fiamma di Udûn!” tuonò la voce
di Bobby, e il suo bastone vibrò di potere e di luce per un attimo, facendo
tremare il demone di fiamma che stava loro innanzi, il quale reagì con un lungo
ruggito che sembrò scuotere le fondamenta delle miniere, mentre sul suo volto
distorto ora illuminato dalle sue stesse fiamme, si scorgeva un sorriso che fece
gelare il sangue nelle vene dei cinque compagni.
“C’è qualcosa che devo prendere, prima di tornare nell’Ombra, Istari” sibilò la
sua voce, come fosse il suono delle fiamme che lo componevano, e quelle parole
quasi sommesse parvero squassare ancor più a fondo le pietre intorno a loro.
Sinistri scricchiolii raggiunsero il loro orecchio, prima che i massi
iniziassero e piovere sulle loro teste, minando il loro già stretto percorso
sospeso nel vuoto.
“Correte!” ordinò immediatamente Bobby, percorrendo gli ultimi gradini per
imboccare poi il ponte, che li costringeva ad avanzare in fila indiana.
Quando Dean gettò un’occhiata dietro le spalle, vide le orde di orchetti
superare di corsa il demone che fino ad allora li aveva tenuti lontani con il
timore che incuteva loro, e coprire velocemente lo spazio che li divideva. Rufus
aveva appena raggiunto a sua volta l’altro lato del ponte, quando il primo
orchetto lo raggiunse con la sua lama. Il ramingo imprecò al dolore provocato
dalla prima ferita, e si voltò abbattendo l’avversario con un unico fendente
della sua lama lunga. Ormai, però, si era fermato, e gli orchetti gli si
avventavano uno dopo l’altro, calpestando senza pietà i corpi dei loro compagni
morti, che scivolavano lentamente giù dal sentiero di pietra piombando nel
vuoto.
Dean strinse più forte le dita attorno all’impugnatura del suo pugnale, e si
voltò per andare a dar manforte all’amico, ma le ferme mani di Sam lo fermarono.
Il ragazzo lo guardò come se fosse impazzito, ma in quel momento un masso più
grosso degli altri cadde alle loro spalle, portando con sé una consistente parte
del cammino sospeso. Bobby si trovava già dall’altro lato, e si voltò fissando
ad occhi sbarrati la scena.
“Salta ragazzo, muoviti!” ordinò perentorio, facendo un passo indietro per
dargli lo spazio di atterrare dall’altro lato. Il buco che si era aperto nel
loro sentiero era ampio ma non insormontabile, eppure il ragazzo continuava a
guardarsi indietro, verso il ramingo che gli aveva fatto da maestro, che
continuava a tenere ostinatamente la sua posizione, rispondendo colpo su colpo
nonostante la stanchezza gli stesse evidentemente già attanagliando le braccia.
“Non possiamo lasciarlo solo!” protestò Dean con rabbia, spostando il proprio
sguardo fra i tre compagni, non trovando altro che costernazione e rassegnazione
“Non…” continuò Dean, ma Bobby lo interruppe bruscamente.
“Se resti qui condannerai molto più che la vita di Rufus. Devi riportare quella
spada dagli Elfi perché sia riforgiata. Devi portare la luce contro l’Ombra” lo
ammonì la sua voce brusca, e per quanto Dean si rendesse conto che aveva
ragione, non poteva risolversi a lasciare l’amico a morire solo in quelle
miniere.
Disperato, si voltò verso Sam, non osando neppure guardare negli occhi Castiel
mentre afferrava il fodero della spada di Colt, per tenderlo al Mezzelfo “Prendi
la spada, portala a tuo padre! La spada è fondamentale, io…” ma questa volta fu
qualcun altro ad impedirgli di completare la frase.
“La spada non è nulla senza qualcuno che la brandisca. La luce di cui parla
Bobby è dentro di te” la voce di Castiel era profonda e solenne tanto quanto i
suoi occhi blu che lo fissavano senza possibilità di sfuggire.
“Salta Dean, Rufus non vorrebbe che tornassi indietro per lui” aggiunse Sam,
spingendolo con delicatezza verso il baratro, mentre il suo sguardo verde pareva
fissarlo con un misto di affetto e irremovibile durezza.
Dean lanciò un ultimo sguardo alle mosse sempre più stanche di Rufus, solo
alcuni metri più indietro: non c’era più tempo, ben presto il ramingo avrebbe
ceduto e gli orchetti sarebbero stati loro addosso. Senza più dire una parola,
lasciò che il fodero della spada gli ricadesse al fianco, quindi si voltò e
spiccò il balzo senza pensarci oltre, ritrovandosi in men che non si dica
dall’altro lato, insieme a Bobby. Sam lo seguì velocemente, non appena il
ramingo si fu scostato per fargli spazio, quindi fu il turno di Castiel di
prepararsi a saltare.
Il giovane uomo osservava con apprensione la scena alle sue spalle, e i suoi
occhi verdi non riuscivano a staccarsi dalla figura avvolta dalle fiamme, che
ora stava avanzando lentamente in direzione del ponte. Era troppo distante per
scorgere il suo volto, ma Dean era certo che stesse ancora sorridendo in quel
suo modo freddo quanto incandescente doveva essere il suo corpo: sorrideva, come
se sapesse di avere già vinto.
Castiel piegò le gambe, pronto a balzare, ma proprio in quel momento sentì il
ruggito di dolore di Rufus giungergli alle orecchie. Istintivamente, si fermò e
voltò lo sguardo per guardarlo crollare in ginocchio mentre la spada
insanguinata di un orchetto dalla malsana pelle verdognola scivolava fuori dal
suo corpo con un suono liquido di sangue versato, cavandogli le viscere dal
ventre con un crudele movimento di torsione. Dean vide il lampo di rabbia nel
blu solitamente placido dello sguardo dell’Elfo, nonostante potesse scorgerlo
solo di profilo, quindi lo vide estrarre velocemente una freccia ed incoccare,
rapido e silenzioso proprio come la punta del suo dardo mentre si conficcava nel
volto ghignante dell’essere mostruoso che aveva appena brutalmente assassinato
il loro amico.
Quando l’Elfo si voltò nuovamente per saltare a sua volta, finalmente, un nuovo,
gigantesco masso piombò fra lui e i suoi compagni, frantumando un nuovo pezzo
del sentiero di pietra, che si sbriciolò velocemente sotto i piedi dei tre
compagni, che riuscirono a malapena a trarsi in salvo, arrampicandosi più su per
l’ultima rampa di scale che portava verso il Cancello dei Rivi Tenebrosi. Ora il
vuoto che si apriva fra i due lembi del sentiero era di parecchi metri, e
nemmeno le lunghe ed agili gambe di un Elfo avrebbero potuto coprirlo con un
salto.
Dean non sentiva nemmeno la mano di Sam che, posata sulla sua spalla, cercava di
trascinarlo via di peso, su per i gradini e verso la salvezza, aveva
semplicemente gli occhi sbarrati fissi sul volto incredibilmente ancora
impassibile di Castiel. I suoi occhi sembravano valutare e rivalutare lo spazio
del salto, come se stesse veramente meditando di provare a coprirlo con le sue
sole forze, e sembrò che fosse trascorsa un’eternità prima che rialzasse lo
sguardo, puntandolo in quello terrorizzato del compagno per sorridergli
dolcemente. Dean vide le sue labbra incurvarsi appena in quel suo sorriso
segreto e appena accennato, quello che aveva sempre quando accarezzava la sua
pelle sudata dopo aver fatto l’amore, e sentì il respiro mancargli nel petto
quando vide un addio ricolmo di una malinconia dolorosa nei suoi occhi.
“Cas!” urlò con quanto fiato aveva in gola, lottando come un diavolo contro le
braccia di Sam che ancora cercavano con fatica di trascinarlo via.
No, non poteva finire così: con un sorriso ed un addio silenzioso, con uno
sguardo ancora colmo di fiducia e amore mentre si voltava per andare a morire.
Non poteva, non voleva dire addio e lasciarlo andare, lasciarlo morire per una
stupida spada, per una speranza appesa un filo che si sarebbe reciso presto, nel
momento stesso in cui il suo cuore avrebbe cessato di battere. Dean vide Castiel
voltargli le spalle e sguainare la sua lama elfica, prima di gettarsi incontro
alla morte come un eroe delle antiche canzoni, risplendendo della luce di
Valinor come solo un principe degli Elfi poteva, e portando il chiarore del suo
cuore immacolato contro l’Ombra che già si faceva avanti per inghiottirlo.
Dean sentì l’odio per quell’essere di ombra e fiamma bruciare dentro le lacrime
che già gli solcavano il volto, mentre con una ferocia senza pari gli divorava
l’anima di dolore. Lasciò cadere il pugnale che aveva stretto fino a quel
momento tra le dita, mentre finalmente si voltava per lasciare che Sam lo
trascinasse via, perché sapeva che altrimenti se lo sarebbe piantato nel petto,
nell’inutile tentativo di uccidere la bestia di odio e sofferenza che lo stava
già dilaniando dall’interno.
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Capitolo 3 *** Ah Gwanath ned i Gûr (Con la Morte nel Cuore) ***
Nuova pagina 1
Ok, ci ho messo una vita per questo terzo
capitolo... chiedo venia ai miei 4 fedelissimi lettori! Però, fedelissimi, oltre
alla pazienza voglio chidervi ance qualcos'altro stavolta: ho una gran paura di
avere fatto un bel casino con la mia "Galadriel" (e in realtà temo anche di
avere mandato un po' OOC Dean...) mi dite voi cosa ne pensate? Aspetto i vostri
commenti con trepidazione! Grazie a tutti!
Ah Gwanath ned i Gûr
(Con la Morte nel Cuore)
*
“Non
dirò, non piangete, perché non tutte le lacrime sono un male”
"I will not say, do not weep, for not all tears are an evil."*
[J.R.R.
Tolkien, Il Signore degli Anelli _ Il Ritorno del Re]
Macchie di verde e d’argento su di un cielo notturno. Facevano a gara con le
stelle in splendore e magnificenza. Ondeggiavano leggermente alla silenziosa e
tiepida brezza di una primavera inoltrata, guardando con invidia le sorelle che
già tingevano il loro manto dell’oro che avrebbe rivestito il bosco di lì a poco
tempo. Lòrien pareva vestirsi a festa per i suoi visitatori, salutando con gesti
lenti delle sue fronde possenti, il primo piede mortale che calpestava il suo
suolo in secoli e secoli di esistenza, e schiudendo i suoi tesori segreti per
ornare il sentiero del nuovo Re degli uomini. Sussurri sembravano correre tra le
foglie dei Mellyrn, come se gli alberi stessi volessero raccontare del dolore
che vedevano seguire come una cupa ombra questo figlio degli uomini, come se si
accingessero ad un tratto a cantare il dolore di un cuore vuoto.
Dean sedeva sull’erba soffice, la schiena, coperta solo da una soffice maglia
bianca, poggiata all’enorme tronco argentato di uno degli alberi, cercando di
sentire la vita che batteva sommessa ma forte in questo bosco che pareva
incantato; riuscendo solo a percepire il dolore sordo e costante che continuava
ad assordargli il cuore. Neppure le limpide acque del Nimrodel, il conforto di
ogni viaggiatore, avevano potuto scacciare da lui la stanchezza invincibile che
uccideva ogni suo passo, come fosse già sconfitto, già avvolto in un’ombra
mortifera. Ed ora sedeva lì, una mano abbandonata stancamente su di un fodero
ornato che pareva ormai solo un inutile fardello, e gli occhi rivolti all’insù,
ad un cielo indifferente che sembrava osservarlo da lontano, con le sue fredde
lucciole pronte a giudicare la sua debolezza e condannare lui e tutte le vane
speranze che in lui erano state riposte.
Non c’era stato tempo per fermarsi e piangere, non c’era stato tempo per
chiedersi cosa fare, a chi dare la colpa, non c’era stato tempo neppure per
rendersi conto di ciò che era irrimediabilmente perduto. Gli orchetti li
inseguivano e malgrado la magia di Bobby avesse sbarrato le porte di Moria
dietro di loro, non c’era stato tempo per fare nulla se non correre, lasciare
quelle montagne nefaste che si erano tramutate in una orribile tomba, volare
sull’erba verde alle loro pendici per cercare il rifugio degli alberi d’oro di
Lothlorien e dei suoi Galadhrim. Cercare rifugio dagli Elfi, in questo reame
incantato e bellissimo, per sfuggire all’occhio oscuro dei nemici, per
nascondere al loro sguardo malizioso la spada e una speranza, morta con un grido
e un lampo d’azzurro che si spegne nel buio, e andare avanti, ancora avanti,
sempre avanti, un passo dopo l’altro come il cammino di un sonnambulo che
arranca verso il burrone.
Non c’era stato tempo neppure per pensare, fino a che non avevano raggiunto i
cancelli di Caras Galadhon, la città degli Elfi nel cuore del reame d’oro della
Dama, e Dean ne era stato grato. Grato di poter semplicemente portare un piede
davanti all’altro, seguendo Bobby e Sam ciecamente, senza pensare ad un futuro
che i suoi occhi non volevano più vedere, ad un presente appeso sulla sua testa
e pronto a schiacciarlo.
Ma ora… ora era solo sotto quel tronco imponente, che lo faceva sentire tanto
piccolo da parere insignificante: guardava distrattamente le piccole luci che
illuminavano i flet, le case degli Elfi costruite tra i Mellyrn, e benché
l’avessero abbigliato come un principe degli Eldar, non riusciva a sentirsi
parte di quel luogo, di quella realtà ancora capace di sorridere e gioire della
relativa sicurezza ovattata di un mondo di foglie e argento. Il cibo, il
giaciglio promesso e cercato, perfino la lunga strada che ancora si srotolava
davanti ai suoi piedi parevano ricordi effimeri, lontani ed insignificanti.
Canti distanti riempivano, senza disturbarla, l’aria della notte: melodie dolci
che inducevano a riposare, ma che si ostinavano a suonare al suo orecchio come
inni funebri, innalzati da voci angeliche nelle parole di una lingua da lungo
tempo dimenticata per piangere la scomparsa del più candido fra i primogeniti di
Iluvatar.
Non ricordava più per quante notti, quando era solo un fanciullo, era rimasto a
sentire la voce di Castiel che gli raccontava del grande mondo: delle terre
Selvagge e dei suoi boschi, oscuri ma amati, nel lontano Nord; della luce sempre
calda e dorata, come in un eterno tramonto autunnale, che le foglie degli alberi
di Lòrien riflettevano sul suo terreno incantato. Lo aveva ascoltato narrare la
storia di Lòrien, il Vala che amò tanto quella terra da stendersi su di essa e
divenirne parte, facendovi germogliare l’oro dei Mellyrn; e quando lo aveva
sentito descrivere come le nuove foglie spuntassero ogni primavera su quei rami
millenari, verdi e argentate al tempo stesso, aveva desiderato camminare fra
quei fusti, arrampicarsi nelle alte case degli Elfi ed ammirare il giallo fiore
degli Elanor e il bianco candore dei Niphredil, mentre divideva il pane Elfico
con la Dama in persona.
Anche per questo era partito, dieci anni prima, per il ricordo di quei racconti
aveva percorso instancabile i sentieri della Terra di Mezzo, e grazie a quel
ricordo la lontananza gli era sembrata a volte meno pensante e la solitudine
meno terribile. Ma ora che finalmente si trovava seduto su quel manto d’oro, ad
osservare le foglie d’argento tingersi per la primavera, ogni desiderio ardente
di fanciullezza si era spento, e non rimaneva altro che un vuoto che faceva
orrore, e una paura innominabile, in agguato appena oltre il limite della sua
coscienza. C’era una strada che conduceva nell’ombra, davanti a lui, e la luce
cui si era appoggiato per percorrerla gli era stata strappata con il fragore di
un mondo che crolla.
Poteva ancora rivedere i suoi occhi, il suo sorriso rassegnato ma audace, se
solo si azzardava ad abbassare le palpebre: un’immagine che si stagliava su di
uno sfondo di fiamma, e ombre che divoravano ogni cosa, bruciandogli l’anima
fino a consumarla. Eppure, se passava la lingua sulle labbra, il suo sapore era
ancora lì, indugiava sulla sua pelle come un fantasma che non voleva lasciarlo,
circondandolo di un ricordo che gli scavava nel cuore fino a farlo sanguinare.
Avrebbe voluto dimenticare tutto, e al tempo stesso si aggrappava a
quell’immagine, a quel sapore, a quel sentore sommesso di amore ed eternità, e
forse solo immaginato con la forza di un disperato.
Dean chinò il capo e lo sprofondò fra le proprie mani, mentre le dita si
intrecciavano ai corti capelli castani, stringendosi a pugno fino a farsi del
male, e una lacrima bagnava le sue ciglia, per poi correre veloce a confondersi
fra l’oro delle foglie sul terreno. Avrebbe voluto strapparsi il cuore dal
petto, per quanto vuoto, e pesante, e doloroso gli sembrasse, ma non voleva
dimenticare, accarezzava il suo dolore come un amante, perché era tutto ciò che
gli restava di lui.
- Dean – lo chiamò ad un tratto una voce che riconobbe subito, malgrado l’avesse
udita solo una volta: dolce nelle sue note quanto era perentoria nel tono.
Il giovane uomo non si preoccupò di asciugare il viso e cancellare le tracce
delle lacrime come avrebbe fatto solo qualche tempo prima, ma semplicemente alzò
i suoi occhi verdi resi gemme brillanti dal dolore, per fissarli sull’Elfa di
fronte a lui.
I suoi lunghi capelli neri gli ricordavano subito Lisa, ma c’era qualcosa di
profondamente diverso nella creatura che aveva innanzi, qualcosa di antico e
potente, che lo faceva tremare e al tempo stesso lo rincuorava. Dean scrutò i
lineamenti severi ma piacevoli del volto della Dama, e la sua figura alta e
snella, avvolta nei morbidi veli bianchi del suo lungo abito di seta, ma furono
gli occhi, i suoi chiarissimi e fermi occhi azzurri ad incatenare il suo sguardo
senza più lasciarlo andare. Quando la Dama gli sorrise, un sorriso caldo e senza
sotterfugi, il ramingo sentì finalmente scivolare via un po’ della stanchezza
che sembrava volerlo uccidere lentamente, e per un secondo benedetto nella sua
mente non ci furono più visioni di fiamma ed oscurità, ma un vuoto piacevole e
calmo. Nessun sorriso e nessuna magia gli avrebbero portato via la pena che gli
bruciava al centro del petto, tanto saldamente vi si era aggrappato, ma quando
la Dama gli tese una mano, in un chiaro invito ad alzarsi e camminare con lei,
Dean obbedì immediatamente, muovendosi lento ma deciso, all’interno della strana
pace malinconica che aveva avvolto il suo dolore.
“Seguimi, Dean. Ci sono cose che devi vedere” disse la Dama sorridendogli
ancora, e il ramingo si trovò a pensare che non era come l’aveva immaginata, la
creatura eterea e sfuggente che si era aspettato: c’era qualcosa di concreto e
schietto in lei, che la rendeva come più presente, e al tempo stesso
completamente distante dai suoi simili.
“Voi siete la Dama, la signora del Bosco d’Oro…” non sapeva bene se quella che
aveva appena pronunciato fosse una domanda oppure no: malgrado fosse diversa da
come l’aveva sognata, Dean non aveva dubbi di trovarsi di fronte a quella che
gli uomini aveva spesso chiamato una strega, una veggente.
La signora annuì con decisione, mentre lo conduceva con passo sicuro fra gli
alberi, aggirando la collina di Caras Galadhon, fino a raggiungere l’ampia
radura dove un ruscello scorreva allegramente in un piccola cascata, accanto
alla quale riposava un’anfora d’argento e quello che pareva un tondo bacile di
pietra. “Dama Pamela è il mio nome, Dean di Nùmenor, e da molte ere veglio e
proteggo questo luogo” rispose infine la Dama, voltandosi per indirizzare uno
sguardo orgoglioso al giovane uomo “La tua gente mi ha chiamato strega, e molti
mi temono” proseguì mentre raccoglieva l’anfora, portandola a riempirsi tra le
acque chiare del torrente “Ma non tu. Il tuo cuore è tanto vuoto che nemmeno la
paura vi trova più spazio, eppure c’è ancora una lunga strada davanti a te…”
l’Elfa si fermò davanti al bacile e fissò gli occhi di ghiaccio in quelli di
Dean “Ci sono cose che hai bisogno di vedere, ma non sarò io a costringerti.
Vuoi guardare nello specchio, Dean di Nùmenor?”
Il ragazzo osservò l’acqua scivolare lentamente dal bordo incurvato dell’anfora
fino a riempire il grosso bacile di pietra chiara. Si sentiva come ipnotizzato
dai gesti delle mani dell’Elfa, tanto quanto il suo sguardo era attirato dalla
superficie increspata dell’acqua: temeva ciò che avrebbe potuto vedere, perché
che fosse stata vittoria o disfatta, non c’era in lui più desiderio di
percorrere quello o alcun sentiero.
“Cosa vedrò?” chiese d’improvviso, spinto dall’impulso di rimandare ancora la
decisione, il momento in cui, inevitabilmente, avrebbe abbassato lo sguardo e
scrutato nelle acque.
“Nemmeno il più saggio può dirlo. Lo specchio mostra molte cose: cose che sono,
cose che furono, e alcune cose che devono ancora verificarsi. Lo specchio ti
mostrerà ciò che hai bisogno di vedere” rispose la Dama pacata, riponendo
l’anfora senza mai staccare le iridi azzurre da quelle dell’uomo. Sembrava che
stesse leggendo l’anima stessa del ragazzo, e Dean percepiva che era davvero
così, ma era troppo stanco per sentirsi minacciato o per pensare di fuggire.
Dean sapeva cosa aveva bisogno di vedere, quello che non sapeva era se lo
specchio glielo avrebbe davvero mostrato, o se sarebbe stato in grado di
sopportarne la vista. In ogni caso, l’unica cosa di cui era sicuro era che non
si sarebbe allontanato senza tentare, senza provare almeno a recuperare un
qualche significato per ciò che stava facendo. Il ragazzo prese un profondo
sospiro, poi i suoi occhi verdi si abbassarono lentamente sulla superficie
perfettamente quieta dell’acqua sotto di lui, e si ritrovò a fissare il nero
liquido del cielo punteggiato di stelle. Aveva quasi iniziato a credere che il
suo cuore fosse troppo vuoto perfino per essere letto dalla magia delle strega
del Bosco d’Oro, quando finalmente un’immagine iniziò ad apparire sul fondo di
pietra.
Alberi, e macchie di un sole freddo, spento. Il verde mantello irregolare di un
bosco che non aveva mai visto, e poi il correre veloce di un cavallo affannato,
montato da un uomo fiero con gli occhi verdi. Un Re fiero con gli occhi verdi. E
poi urla, sangue, buio e gorgoglio di morte. Le bianche pietre scintillanti di
una torre nel sole velato di un mezzogiorno invernale, e le fiamme che si alzano
da due corpi sulle loro pire. Lacrime, e dolore, e oscurità, e morte. E una fuga
nel cuore della notte, e un sorriso freddo che non sa rincorrerlo.
E una fanciulla vestita di bianco: il suo abito si agita come un vessillo
catturato dal vento mentre osserva orde nere correre incontro alla sua casa. E’
fiero il suo sguardo, velato dai fili dorati della sua chioma bionda, e la sua
mano non trema ma regge una spada, pronta a combattere, pronta a morire insieme
ai suoi amici, ai suoi soldati in groppa a splendidi cavalli che fremono ai
primi sentori della battaglia. Fiamme, sangue e morte si dipingono sul chiaro
volto giovane adorno di scompigliati capelli biondi, e spaccato da un’orrenda
ferita sanguinante.
Un fulgore nel buio, il lampo di una lama scintillante di fredda vita che beve
il cremisi orribile di sangue innocente, mischiato al nero osceno di creature
rovinate dall’oscurità. Un bagliore, una corona, un trono vuoto che attende in
silenzio, già imbrattato di sangue. Una speranza così esigua da parere follia,
eppure ancora viva, bruciante di vita.
E poi azzurro, il blu intenso di cieli d’estate avvolti da un’ombra troppo nera
per essere contrastata. E il lampo rosso di sangue e fiamma su di un’armatura
candida, risplendente in mezzo alla morte.
Dean ansimava vistosamente, e le sue mani stringevano tanto forte il bordo di
pietra del bacile da farsi male. Non si accorse delle lacrime che erano tornate
a rigargli il viso, fino a che non le vide cadere a mischiarsi con l’acqua,
spezzando quell’ultima abbagliante visione di bianco. Aveva voglia di prendere a
pugni quello strano altare di pietra, di scuoterlo fino ad estirparlo dalle
radici della terra e ridurlo a pezzi, voleva gridare, e correre fino a sentire i
polmoni bruciargli nel petto. Crollò in ginocchio ed afferrò manciate della
tenera erba verde che indifferente cresceva nell’autunno d’oro di Lorièn. Voleva
ferire il cielo stesso, perché non era giusto che potesse esserci ancora tanta
bellezza intorno a lui mentre il suo cuore era un paese straziato.
“Dean” lo chiamò la voce gentile ma ferma della Dama, e quando la sua mano si
posò sulla sua schiena, proprio all’altezza del cuore, qualcosa dentro di lui si
riscosse e il dolore impotente diventò rabbia, e poi qualcosa di ancora diverso.
Non poteva strappare i Valar dai loro troni indifferenti, come non poteva far
cessare la pena bruciante che colava come sangue infetto dal suo cuore, ma forse
poteva ancora salvare una fanciulla dallo sguardo indomito e i capelli biondi.
“Rohan, devo andare a Rohan” |
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