Poche note a inizio capitolo: è una
storia breve, divisa in due parti. Ambientata al settimo anno, nel post-guerra,
in cui io ho immaginato che Astoria Greengrass sia davvero piccola e che sia
finita a Gryffindor.
Ah, e ho anche immaginato che a Hogwarts
ci sia la statua di Ebe sulla via per i sotterranei –
Ebe, quella tizia che faceva la coppiera degli dei.
I paragrafi hanno un punto di vista
alternato: prima Draco, poi Hermione, e via dicendo.
I mostri sono quelli che conosciamo
tutti. Cioè quelli che sogniamo la notte.
Monsters
Shower me with lullabies
A
chi ha trovato il modo di leggermi
anche
quando io stessa non sapevo come fare.
“You
shower me with lullabies, as you’re walking away”
Placebo _
C’erano sapori che a provarli sulla
punta della lingua lasciavano impressioni diverse. Ottobre aveva un sapore del
genere, ma più disperato.
A una bambina sembrava quello di un
chicco d’uva rossa, scurissima, da masticare dopo averne consumato qualche
strato con unghie mangiucchiate e labbra sporche di succo aranciato. Per lui,
ottobre sapeva di vino elfico e calici che qualche volta si frantumavano sotto
la pressione di dita troppo rabbiose per essere innocue.
Draco Malfoy quella sera non aveva
bevuto, ma la bambina aveva saccheggiato la scodella della frutta come se il
bisogno di quel tesoro per lei fosse quasi doloroso.
Dopo cena, si era nascosta al solito
posto. C’era una statua all’ingresso dei sotterranei: aveva pelle di marmo,
fredda e nuda come il cielo che mostra tutte le sue stelle nelle notti
d’estate; un biancore così fulgente da sembrare etereo, candido e puro, toccata
dalle lingue di fuoco delle torce aveva la stessa luce abbagliante che si vede
al confine tra la vita e la morte. La statua era quella di un’Ebe dalle mani delicatissime: versava un sorso di paradiso
in una coppa gigante, che avrebbe dovuto donare a un dio la cui statua era
andata persa nei meandri di Hogwarts, o nella cantina di uno scultore che aveva
improvvisamente perso tutta la sua ispirazione.
Draco Malfoy si accigliò. Era certo che
anche l’ambrosia di Ebe avrebbe avuto un sapore
diverso per la sua lingua e per quella della bambina.
La Granger arrivò trafelatissima
proprio sul filo di quella riflessione.
«Ho avuto problemi con Pix al piano di
sopra. È diventato impossibile. E i frati ubriachi nel corridoio ovest? Stanno
minacciando ogni primino con la pretesa che se non
gli portano dell’altro vino andranno tutti all’inferno e che il vino serve per
ricordare il sangue di… Non sta piangendo?»
Draco prese a massaggiarsi le tempie.
Quella mezzosangue gli faceva venire sempre un gran mal di testa. Non la
smetteva mai di parlare. Sembrava una collezionista di parole inutili, di tutte
quelle che la gente scartava. Lo vedeva dal modo in cui proprio in quel momento
diceva transustanziazione e riusciva
a pronunciarla al primo colpo.
«Non sta piangendo», le assicurò,
lanciando uno sguardo obliquo alla bambina.
Lei non parve molto persuasa. «L’hai
sedata? Hai usato una pozione di usnea barbata?»
Draco Malfoy decise che per sentirsi
offeso non gli serviva nemmeno sapere cosa diavolo fosse l’usnea barbata. Magari la Granger giocava alla piccola pozionista con la
barba della nuova professoressa di pozioni e non era assolutamente il caso di
indagare oltre.
«Astoria?»
La bambina non diede segno di aver
sentito il richiamo con cui la mezzosangue cercava di avvicinarla. Continuò a
conficcare acini d’uva in una crepa del muro proprio di fianco a Ebe. Aveva le mani un po’ sporche di succo, il sapore di
ottobre si riversò sulla pergamena che giusto un mese prima aveva lasciato in
quella stessa fessura.
«Non piangeva neppure quando nascose
quella», osservò Draco, pensieroso.
«Cos’è? Una preghiera? Una pagina di
diario? Un appunto per una pozione segreta? Magari un…»
«È l’orario delle lezioni del settimo
anno. Non so a chi l’abbia rubato».
«È strano», rifletté la Granger. «Perché
mai un’allieva del primo dovrebbe interessarsi agli orari del settimo anno?»
«È strano», masticò Draco, soffermandosi
sulla normalità della parola strano –
strano era davvero troppo normale per
la Granger. «È strano anche che venga qui a piangere ogni notte. E questa è la
seconda volta che nasconde qualcosa nel muro».
«Bipolarismo?»
Draco sospirò, chiedendosi come
riuscisse a essere così tecnica e scolastica davanti a una piccoletta che
trascorreva ore in preda alle lacrime. «È solo una bambina. Avrà perso
qualcosa».
Avrebbe dovuto dire qualcuno, ma era la Granger quella che sapeva pronunciare le parole
impronunciabili.
Però la sua bocca rimase chiusa,
immobile.
Allora Draco si chiese che sapore avesse
ottobre sulla lingua della Granger.
***
Novembre aveva la meraviglia straziante
dell’autunno che muore e di un corpo di giovincella che quando incontra la
morte si veste di una bellezza preclusa a chi da vivo è costretto a vestirsi di
sospiri.
Era passato un mese dalla volta in cui
aveva preso Astoria per mano senza l’urgenza di asciugarle le lacrime. La via
per riportarla ai dormitori di Grifondoro era molto
lunga, ed Hermione ricordava di essersi sentita sollevata e inquieta al tempo
stesso. Certi giorni sembrava che le lacrime fossero l’unico segno di vita in
quella ragazzina, perciò la notte successiva, quando aveva ripreso a piangere,
Hermione si era sentita di nuovo sollevata e inquieta, anche se in maniera
diversa e più dolorosa.
Il giorno trenta Astoria non pianse. Era
sabato e i caposcuola in via teorica erano esentati dalla ronda notturna, ma
Hermione non si stupì troppo di trovare Draco Malfoy poggiato al muro di fronte
la statua dell’Ebe che mesce.
«Continui con gli straordinari, Malfoy?»
«Per quanto ogni singolo mago della
comunità sia rimasto folgorato dalla tua capacità di cavillare al mio processo per farmi uscire pulito, ti ricordo che
sono ancora tenuto d’occhio da troppi occhi».
Hermione sorrise, tronfia. All’inizio
lei ed Harry avevano accettato di fare da testimoni al processo di Draco
soltanto perché Harry si sentiva in debito nei confronti di Narcissa, e lei…
lei aveva avuto voglia di dimostrare ancora una volta quanto fosse migliore.
Migliore di lui, che aveva offerto una protezione sin troppo blanda quando a
pasqua erano giunti a Malfoy Manor; migliore di lui che non l’aveva protetta
per niente, mentre sua zia la torturava.
Hermione era stata talmente presa da
quella voglia di costruirsi una posizione di favore, che a un certo punto aveva
fatto fuori l’avvocato di Malfoy e aveva preso le redini della sua causa. La
decisione aveva fatto chiacchierare molte signore, e aveva invitato i più
benestanti a giocare altissime somme di denaro in una scommessa che dava per
spacciata la relazione lavorativa nel giro di tre giorni. I più audaci avevano
puntato su una durata di ben quindici giorni. E ci avevano quasi preso.
In dieci giorni Hermione aveva fatto
scagionare Malfoy da quasi tutte le accuse, non lo aveva maledetto – non gli
aveva lasciato segni tangibili di maledizioni, cioè – e alla fine si erano pure
stretti la mano.
«Finalmente hai capito cosa significa cavillare?»
«Granger, quanto sei acida».
«E tu sei acescente».
Hermione si ripropose di nascondere il
suo sorrisino soddisfatto. C’era un’ombra particolare nella linea che
prendevano le labbra di Malfoy quando decideva di offendersi anche se non
capiva l’offesa che gli era stata rivolta.
Si voltò di nuovo a fissare Astoria. Non
piangeva, come tutti gli ultimi del mese il suo visino era pulito e truccato
come le aveva insegnato una vera intenditrice di finezza. Aveva il capo
poggiato contro il muro gelido che da Ebe scendeva
nei sotterranei, poco sopra la pietra che spostava ogni tanto per nascondere
qualcosa nelle viscere del castello. Questa volta lottava con mani che
emanavano riflessi violetti, le unghie ombrate da petali che lasciavano
impronte chiarissime, come i cuori delle persone di cui adornavano le dimore
eterne.
Astoria cercava di incastrare nella
pietra un fascio di crisantemi.
Hermione si portò una mano alla bocca,
sconvolta – il respiro mozzato da una lama di precisione, quella impugnata da
mani innocenti che la rendevano più sottile, più letale.
È
solo una bambina. Avrà perso qualcosa.
Sentì distintamente l’attimo in cui
Draco la raggiunse, sistemandosi alle sue spalle. Quando la fece voltare verso
di sé, lei aveva già qualche lacrima incastrata tra le ciglia.
«Puoi dirlo», lo sentì mormorare, ed era
quasi una preghiera nascosta nella formula di un permesso accordato.
Avrà
perso qualcosa.
«Draco, ha perso qualcuno».
***
La Granger col cappellino natalizio era
pressoché ridicola. Il problema era che se Draco si azzardava a farglielo
notare lei rispondeva che quello era il moderno
gonfalone di una società rispettabile, che ancora sapeva in cosa credere. E
allora si cadeva nell’incomunicabilità. Perché Draco sapeva cos’era un
gonfalone, ma non riusciva a concepire che quello dei babbani fosse un
cappellino taglia unisex per umani ed elfi domestici, che somigliava a quello
di un presunto barbone che faceva il papà solo la notte di Natale rubando il
latte ai bambini in cambio di prestazioni atletiche lungo i comignoli dei
camini più sporchi.
A dire il vero non riusciva a concepire
nemmeno che i babbani avessero un moderno gonfalone, ma Draco sospettava che
non fosse una mossa intelligente mettere a parte il mondo di certi pensieri.
Soprattutto quando al mondo era venuto in mente di rigurgitargli la Granger
sulle scarpe nuove – sia su quelle estive, che su quelle invernali, a dirla
tutta.
Tuttavia Draco si disse che magari con
una mossa di fine intelligenza poteva farle notare che Natale era passato e che
ormai erano già al trentuno dicembre. Il fatto era che con tutta
quell’incomunicabilità di fondo – lei che usava parole incomprensibili, lei che
faceva ragionamenti incomprensibili, lui che cercava di capirli l’istante prima
di ricordarsi che era una perdita di tempo – Draco aveva deciso di tagliare le
comunicazioni anche col suo buonsenso.
Così non le aveva detto di liberarsi del
cappello ridicolo. Gliel’aveva rubato. I capelli ne erano usciti in maniera
disastrata. La Granger sembrava un albero di Natale con addobbi sparati a caso,
però aveva una frangetta piuttosto disciplinata – la cui disciplina si riduceva
a incorniciarle il viso in quella maniera che la faceva sembrare più buffa e
piccola di Astoria Greengrass.
Draco si impegnò a scacciare dalla testa
quell’immagine brutale.
Non era la prima volta che la regina dei cavilli e delle parole
impronunciabili gli sembrava vittima di una parola fatta realtà – di una
parola talmente violenta da ridurla in lacrime, proprio come succedeva ad
Astoria. Nelle notti più buie, quando una fiammella si spegneva anzitempo per
un alito di vento che penetrava attraverso i vecchi infissi, Draco aveva dovuto
combattere e riallacciare i rapporti col suo buonsenso, strofinarsi un po’ gli
occhi per stabilire che solo Astoria piangeva. Aveva dovuto faticare per
distinguere le immagini di una bambina in lacrime da quelle di una ragazza che
se piangeva doveva essersi graffiata coi suoi stessi artigli.
Se
piangeva, la Granger, si era graffiata coi suoi stessi artigli.
O
c’era ancora qualcosa in grado di farle del male?
«Malfoy, tu sai che questo si chiama
furto aggravato dal mezzo fraudolento?»
«E il mezzo fraudolento sarebbe?»
La Granger distolse velocemente lo
sguardo, come predata da una insidia invisibile.
Draco si disse che forse era il suo
nuovo profumo.
«Fissavo Astoria. Ero distratta. E tu ne
hai approfittato».
Magari il mezzo fraudolento erano i suoi
piani di tenersi la critica a babbo natale tutta per sé? Possibile che la donna
delle parole impronunciabili l’avesse smascherato così presto?
Draco scosse la testa, facendo del suo
meglio per allontanare i pensieri molesti. «È il trentuno dicembre. Lo sai
anche tu che non piangerà».
«Ma riuscirà a festeggiare? Nemmeno ci rivolge
la parola».
«Parla per te. Una volta mi ha detto logofobia».
«E tu ovviamente sai cosa significa».
«Significa che se sta ancora a contatto
con te comincia a parlare anche lei in un modo strano».
«Inintelligibile
ai più superficiali».
«Quel che è». Per la verità Draco aveva
deciso che sarebbe stato saggio non indagare, perciò nel mese di dicembre era
stato più interessato a elaborare strategie mefistofeliche per separare la
Granger dal suo cappellino, invece che a perdere tempo dietro a un’altra parola
dimenticata anche dai dizionari più vecchi della buon’anima di suo zio Pollux mezzabirra Black. «E poi
Granger sei tu quella che vuole festeggiare: dovresti almeno offrirle da bere,
se capisci cosa voglio dire».
«Ci avevo già pensato, naturalmente».
La Granger massacrò tutte le ombre che
li circondavano, la sua evocazione sapeva di lumi accesi sotto travi basse e
parole soltanto sussurrate. Improvvisamente comparvero dei calici e una
bottiglia di spumante dall’odore improbabile – possibile che l’avesse barattato
con un elfo delle cucine in cambio di un cappellino orribile come il suo?
Draco capì che non c’era proprio limite
alla sconvenienza del cattivo gusto e ai disastri a catena che generava.
Come per esempio il fatto che il mondo,
dopo avergli rigurgitato la Granger sulle scarpe nuove, ora gliele sporcava
pure con bevande di seconda scelta.
Draco sbatté un po’ le ciglia: non era
stato molto attento, ma era sicuro che la dannata mezzosangue aveva centrato il
calice proprio un attimo prima di attentare alle sue scarpe. La fissò con più
attenzione: il viso si era acceso di disagio, le braccia si erano rifugiate
dietro la schiena, il petto andava incontro all’aria con movenze fin troppo
agitate.
Cosa
le faceva del male se non se stessa?
«Se il marmo potesse ridere, Ebe si giocherebbe la sua immagine per sollazzarsi della
tua professionalità», le fece notare, indicando la statua con un pensiero
irrisolto in testa.
«È stata solo una svista, Malfoy, non
fare l’iperbolico».
Draco assunse l’espressione offesa per
principio. Era praticamente sicuro di essere stato offeso.
«Perché non mi aiuti a fare l’Ebe che mesce invece di indignarti?»
«Perché se mi avvicino di nuovo mi
sporchi pure la camicia».
Hermione voltò il capo verso la bambina,
ancora una volta. Come se, per assurdo, in lei trovasse sicurezza. «E non puoi
sacrificare i polsini per un brindisi?»
«Per
brindare dovrei pensare a farti un augurio».
Draco si disse che magari anche a lui
era concesso distogliere lo sguardo, qualche volta, e che gli sguardi in fuga
forse sono codardi, ma pieni di parole – di
quelle impronunciabili, che però sono sempre sulla punta della lingua, e le
danno il sapore delle stagioni.
«Ha nascosto un regalo di Natale». La
Granger gliel’aveva sussurrato all’orecchio, come se fosse un segreto da
affidare solo ai compagni più fidati. «Malfoy, dico: l’hai vista?»
Draco si riscosse dalle sue riflessioni,
lanciando un’occhiata disperata alla bottiglia di spumante. «Magari è un regalo
per la sorella, cosa vuoi che ti dica».
«Ma hai detto che sua sorella è…»
«Appunto, Granger».
Draco si massaggiò stancamente le
tempie, chiedendosi per quanto ancora avrebbe dovuto espiare le sue colpe
sopportando ben due donne ogni notte, insieme,
col particolare raccapricciante che nemmeno una delle due si prendeva cura di
lui.
Gli venne in mente il giorno in cui
aveva capito chi avesse perso
Astoria. Era stato un ingenuo a non pensarci prima. Aveva dato per scontato che
semplicemente una come Daphne Greengrass non era interessata a finire la
scuola.
E magari non lo era sul serio, ma
qualcuno le aveva portato via la possibilità di scegliere.
Era
morta.
Davanti alla statua dell’Ebe, Draco ne era sicuro.
Ricordò anche il momento in cui aveva
dovuto dirlo alla Granger. Era stato praticamente terrorizzato dall’eventualità
che lei lasciasse incastrare qualche altra lacrima tra le ciglia e Draco in un
momento di confusione avrebbe saputo dirle soltanto che lei non doveva
inghirlandarsi le ciglia per renderle belle.
Non era successo nulla di tanto
disastroso, effettivamente: la Granger si era limitata ad aumentare i suoi
tentativi di intortare la bambina con qualche parola impossibile.
Come in quel momento, in cui specificava
che purtroppo certe bevande erano state deistituzionalizzate a
Hogwarts, ma per l’ultimo dell’anno persino lei era pronta a fare un’eccezione
e a chiudere un occhio.
Magari
due,
si ritrovò a sperare Draco, preso dalle sue ciance:«Astoria, vuoi assaggiare lo
spumante che ho evocato? È fatto con essenza di felix
felicis», le confidò lei, con aria soddisfatta.
Draco non fu molto stupito dell’ennesima
diavoleria che si era inventata la Granger per festeggiare a base di assurdità.
Anzi, gli venne voglia di prendere la bottiglia e scolarsela
per conto proprio tutta in una volta sola.
«Insomma, Malfoy, mi vuoi aiutare?»
Lanciò un ultima occhiata al candore
della sua camicia di alta sartoria. Si disse costretto a sacrificarla. Prese un
calice dalle mani della Granger e attese che combinasse lo stesso disastro di
prima.
Il suo polsino ne uscì imbrattato di
spumante al sentore di felix felicis, e
tuttavia doveva ancora decidere se quella camicia fosse davvero fortunata.
La Granger ci mise veramente tanto, ad avvicinarsi
alla bambina, ma quando lo fece la sua bocca sembrava lo scrigno più pieno di
fortuna che Draco avesse mai visto.
Forse se ne convinse anche Astoria, che
diede un sorso e pigolò qualcosa di molto simile ad Auguri.
L’altra ne uscì deliziata, tanto che non
pensò nemmeno di scusarsi quando, per riempire anche i loro calici, sporcò entrambi i polsini di Draco, che almeno
a quel punto fu ben felice di avere un augurio adatto: «Per l’anno nuovo,
Granger, ti auguro di trovarti qualcuno capace di versare un po’ di spumante
senza fare disastri», mormorò. Giocando con dispetto un po’ della sua frangetta, le lasciò un colpetto sulla fronte.
«E io ti auguro di trovarti qualcuno che
abbia un po’ di rispetto per le tue camicie».
Alla
Granger tremavano le mani.
***
C’era stato un momento della sua vita in
cui il confine tra sogno e realtà era tracciato da una ninna nanna dolcissima.
Di quella che le mamme inventano nelle notti insonni e cantano ai propri figli
per far loro un dono prezioso, esclusivo, pregno di affetto così estremo da
sembrare impronunciabile.
La passione per le parole
impronunciabili l’aveva avuta in dono dalla guerra e da un pezzo di estate
trascorso con Malfoy, ma Hermione sapeva sin da piccola quante cose riesce a
dire una ninna nanna.
Così non si era stupita di trovare un
vecchio giradischi nella stanza di Astoria, e non si era neppure stupita quando
aveva visto cosa traeva da un vinile malandato.
Qualche volta, durante le notti più
turbolente di gennaio, in cui le lacrime sembravano più fitte della pioggia,
Hermione le aveva chiesto se le potesse piacere ascoltare di nuovo quella ninna
nanna cantata da una bocca amica. Astoria aveva spesso fatto cenno di no col
capo, ma non l’aveva mai allontanata quando l’accompagnava in camera, a notte fonda,
quando le lacrime le avevano già scavato il viso.
«Potremmo evocare il giradischi»,
propose, davanti a un Malfoy esasperato.
«Granger, tu sei sicura che non ha
niente di grave?»
Hermione fissò la ragazzina,
attentissima.
Dormiva nascosta dalla statua di Ebe, senza una lacrima in viso. In grembo aveva un diario
bianco, di cui aveva inaugurato solo una pagina. Doveva essere l’ennesimo
ricordo che voleva donare alla sorella – come l’orario delle lezioni che
avrebbe dovuto seguire, e i fiori per onorare tutti i cari, e il regalo di
Natale impacchettato in una carta di un verde scurissimo.
Poteva capitare, a volte, che ci si
ritirava così in profondità nei propri sogni, da smarrire la via del ritorno.
Avevano provato a svegliare Astoria in
tutti i modi più delicati che conoscevano, ma non era cambiato niente. Era il
trentuno gennaio, e anche se quello era l’unico giorno del mese in cui la
ragazzina riusciva a trattenere le lacrime, era chiaro che coi suoi demoni non
riusciva proprio a spuntarla.
«Draco, secondo te cosa sogna che la
agita tanto?»
«Mostri. I sogni servono per metterti in
guardia. Perciò da piccolo sogni tutti questi mostri…»
«E da grande?»
Lo vide rabbrividire, sotto i colpi di
un pensiero violento. «Sogni ancora i mostri, credo. Il problema è che quei
mostri sono ricordi di ciò che hai visto il giorno prima, o l’anno prima. E
allora i sogni non servono più a metterti in guardia».
Hermione si inginocchiò davanti ad
Astoria, scostandosi la frangetta dagli occhi; si sentiva più nuda, da quando Draco
le aveva rubato il suo cappellino e si sentiva ancora più nuda da quando lui
aveva scoperto che spesso le tremavano le mani.
Il fatto era, però, che da quando
Astoria le aveva raccontato qualcosa della persona che aveva perso, Hermione
sentiva di non avere neppure il diritto di vestirsi di protezioni momentanee.
Daphne si era allontanata da sua sorella
ordinandole di non uscire allo scoperto, cantando a voce bassa e anche un po’
grave.
Qualcuno aveva sentito il singhiozzo di
Astoria, poco prima, e in breve avrebbero trovato il loro nascondiglio, se una
di loro non avesse deciso di farsi vedere. Allora una slytherin si era
sacrificata per la sua piccola sorella di gryffindor, ed era morta con una
ninna nanna sulle labbra e un pensiero dolcissimo nel sangue che presto era
finito riversato sul pavimento di pietra, mischiato ad altro meno puro, o meno
eroico, o meno dolce.
Sul
pavimento di pietra, con una ninna nanna sulle labbra che parlava di affetto
impronunciabile.
Hermione sussultò, incapace di guardare
una ragazzina mangiata dai propri demoni – ricordi
– e affatto pronta a sentirsi ancora impotente.
«Ma allora a cosa servono i sogni quando
cresci?»
Draco si buttò stremato contro il muro,
le mani piegate sulle spalle, intorno al collo, per massaggiarsi qualche
muscolo teso. «Salazar, le persone
normali per qualche tacito accordo non parlano di sogni e mostri, Granger,
fattene una ragione».
Hermione annuì, tentando di controllare
il tremore nelle mani. «La porto di sopra», soggiunse, decidendo di spostare
Astoria dalla parte Slytherin del castello fino alla torre di Gryffindor.
L’avrebbe fatta levitare. Ci sarebbe riuscita, senza mai lasciarla cadere. «Ci
vediamo domani ad aritmanzia, Malfoy. E dirò così
tante volte prostaferesi che ti farò impazzire».
Lui la fissò con occhi sgomenti, quando
si rese conto che faceva proprio sul serio. Tirò un lungo respiro, prima di
prendere la ragazzina tra le braccia e incamminarsi lungo le scale a cui
piaceva sempre cambiare. «Non sarà quello a farmi impazzire», sbraitò.
C’era stato un momento della sua vita in
cui il confine tra sogno e realtà si era fatto invisibile, e i sogni si erano
fatti incubi, ricordi di mostri.
O ricordi di mani troppo ferme per
tremare, come quelle di Draco, che le aveva fermato i polsi prima di dare le
spalle al ritratto della signora grassa. Aveva gli occhi nebulosi, col sentore
di un invito a cena mancato. «Servono per capire che da piccolo facevi bene ad
avere paura».
***
Potrei discutere del fatto che sono una
persona orribile perché mi sono presa questa pausa autunnale da efp che non mi ha molto giovato e che invece di farmi
migliorare, mi fa regredire.
Non so cosa sia questa storia. Qualcuno
che sa davvero leggere mi ha detto che ha un’atmosfera malinconica e un po’
struggente come Medusa. Io ho sorriso. Se fosse come Medusa o qualcun’altra
delle mie storie vorrebbe dire che mi sto ritrovando.
Perché è a questo che mi serve Monsters. A ritrovarmi.
Non so se ci sia riuscita, ma almeno ho
ritrovato loro, gli impiastri insomma.
E va bene così.
Appena possibile posto il secondo
capitolo.
-
You shower me with lullabies, as you’re walking away è tratto da The Bitter End, dei Placebo.
-
L’usnea barbata è il lichene da cui si ottengono i barbiturici.
-
Logofobia è la paura di
determinate parole.
C’è
qualcuno che mi contatta in privato ogni tanto e mi dice quando continui peccato? (quando trovo un lepricauno
che mi esaudisce un paio di desideri!) – guarda
quanto è fresco qui Joseph Morgan!
Per
chi volesse buttarsi nella mischia, io sto qui: Click
Filomena