Monsters - Shower me with lullabies

di Ato
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte I ***
Capitolo 2: *** Parte II ***



Capitolo 1
*** Parte I ***


 

 

Poche note a inizio capitolo: è una storia breve, divisa in due parti. Ambientata al settimo anno, nel post-guerra, in cui io ho immaginato che Astoria Greengrass sia davvero piccola e che sia finita a Gryffindor.

Ah, e ho anche immaginato che a Hogwarts ci sia la statua di Ebe sulla via per i sotterranei – Ebe, quella tizia che faceva la coppiera degli dei.

I paragrafi hanno un punto di vista alternato: prima Draco, poi Hermione, e via dicendo.

I mostri sono quelli che conosciamo tutti. Cioè quelli che sogniamo la notte.

 

 

Monsters

Shower me with lullabies

 

 

A chi ha trovato il modo di leggermi

anche quando io stessa non sapevo come fare.

 

“You shower me with lullabies, as you’re walking away”

Placebo    _

 

 

C’erano sapori che a provarli sulla punta della lingua lasciavano impressioni diverse. Ottobre aveva un sapore del genere, ma più disperato.

A una bambina sembrava quello di un chicco d’uva rossa, scurissima, da masticare dopo averne consumato qualche strato con unghie mangiucchiate e labbra sporche di succo aranciato. Per lui, ottobre sapeva di vino elfico e calici che qualche volta si frantumavano sotto la pressione di dita troppo rabbiose per essere innocue.

Draco Malfoy quella sera non aveva bevuto, ma la bambina aveva saccheggiato la scodella della frutta come se il bisogno di quel tesoro per lei fosse quasi doloroso.

Dopo cena, si era nascosta al solito posto. C’era una statua all’ingresso dei sotterranei: aveva pelle di marmo, fredda e nuda come il cielo che mostra tutte le sue stelle nelle notti d’estate; un biancore così fulgente da sembrare etereo, candido e puro, toccata dalle lingue di fuoco delle torce aveva la stessa luce abbagliante che si vede al confine tra la vita e la morte. La statua era quella di un’Ebe dalle mani delicatissime: versava un sorso di paradiso in una coppa gigante, che avrebbe dovuto donare a un dio la cui statua era andata persa nei meandri di Hogwarts, o nella cantina di uno scultore che aveva improvvisamente perso tutta la sua ispirazione.

Draco Malfoy si accigliò. Era certo che anche l’ambrosia di Ebe avrebbe avuto un sapore diverso per la sua lingua e per quella della bambina.

La Granger arrivò trafelatissima proprio sul filo di quella riflessione.

«Ho avuto problemi con Pix al piano di sopra. È diventato impossibile. E i frati ubriachi nel corridoio ovest? Stanno minacciando ogni primino con la pretesa che se non gli portano dell’altro vino andranno tutti all’inferno e che il vino serve per ricordare il sangue di… Non sta piangendo

Draco prese a massaggiarsi le tempie. Quella mezzosangue gli faceva venire sempre un gran mal di testa. Non la smetteva mai di parlare. Sembrava una collezionista di parole inutili, di tutte quelle che la gente scartava. Lo vedeva dal modo in cui proprio in quel momento diceva transustanziazione e riusciva a pronunciarla al primo colpo.

«Non sta piangendo», le assicurò, lanciando uno sguardo obliquo alla bambina.

Lei non parve molto persuasa. «L’hai sedata? Hai usato una pozione di usnea barbata

Draco Malfoy decise che per sentirsi offeso non gli serviva nemmeno sapere cosa diavolo fosse l’usnea barbata. Magari la Granger giocava alla piccola pozionista con la barba della nuova professoressa di pozioni e non era assolutamente il caso di indagare oltre.

«Astoria?»

La bambina non diede segno di aver sentito il richiamo con cui la mezzosangue cercava di avvicinarla. Continuò a conficcare acini d’uva in una crepa del muro proprio di fianco a Ebe. Aveva le mani un po’ sporche di succo, il sapore di ottobre si riversò sulla pergamena che giusto un mese prima aveva lasciato in quella stessa fessura.

«Non piangeva neppure quando nascose quella», osservò Draco, pensieroso.

«Cos’è? Una preghiera? Una pagina di diario? Un appunto per una pozione segreta? Magari un…»

«È l’orario delle lezioni del settimo anno. Non so a chi l’abbia rubato».

«È strano», rifletté la Granger. «Perché mai un’allieva del primo dovrebbe interessarsi agli orari del settimo anno?»

«È strano», masticò Draco, soffermandosi sulla normalità della parola stranostrano era davvero troppo normale per la Granger. «È strano anche che venga qui a piangere ogni notte. E questa è la seconda volta che nasconde qualcosa nel muro».

«Bipolarismo?»

Draco sospirò, chiedendosi come riuscisse a essere così tecnica e scolastica davanti a una piccoletta che trascorreva ore in preda alle lacrime. «È solo una bambina. Avrà perso qualcosa».

Avrebbe dovuto dire qualcuno, ma era la Granger quella che sapeva pronunciare le parole impronunciabili.

Però la sua bocca rimase chiusa, immobile.

Allora Draco si chiese che sapore avesse ottobre sulla lingua della Granger.

 

***

 

Novembre aveva la meraviglia straziante dell’autunno che muore e di un corpo di giovincella che quando incontra la morte si veste di una bellezza preclusa a chi da vivo è costretto a vestirsi di sospiri.

Era passato un mese dalla volta in cui aveva preso Astoria per mano senza l’urgenza di asciugarle le lacrime. La via per riportarla ai dormitori di Grifondoro era molto lunga, ed Hermione ricordava di essersi sentita sollevata e inquieta al tempo stesso. Certi giorni sembrava che le lacrime fossero l’unico segno di vita in quella ragazzina, perciò la notte successiva, quando aveva ripreso a piangere, Hermione si era sentita di nuovo sollevata e inquieta, anche se in maniera diversa e più dolorosa.

Il giorno trenta Astoria non pianse. Era sabato e i caposcuola in via teorica erano esentati dalla ronda notturna, ma Hermione non si stupì troppo di trovare Draco Malfoy poggiato al muro di fronte la statua dell’Ebe che mesce.

«Continui con gli straordinari, Malfoy?»

«Per quanto ogni singolo mago della comunità sia rimasto folgorato dalla tua capacità di cavillare al mio processo per farmi uscire pulito, ti ricordo che sono ancora tenuto d’occhio da troppi occhi».

Hermione sorrise, tronfia. All’inizio lei ed Harry avevano accettato di fare da testimoni al processo di Draco soltanto perché Harry si sentiva in debito nei confronti di Narcissa, e lei… lei aveva avuto voglia di dimostrare ancora una volta quanto fosse migliore. Migliore di lui, che aveva offerto una protezione sin troppo blanda quando a pasqua erano giunti a Malfoy Manor; migliore di lui che non l’aveva protetta per niente, mentre sua zia la torturava.

Hermione era stata talmente presa da quella voglia di costruirsi una posizione di favore, che a un certo punto aveva fatto fuori l’avvocato di Malfoy e aveva preso le redini della sua causa. La decisione aveva fatto chiacchierare molte signore, e aveva invitato i più benestanti a giocare altissime somme di denaro in una scommessa che dava per spacciata la relazione lavorativa nel giro di tre giorni. I più audaci avevano puntato su una durata di ben quindici giorni. E ci avevano quasi preso.

In dieci giorni Hermione aveva fatto scagionare Malfoy da quasi tutte le accuse, non lo aveva maledetto – non gli aveva lasciato segni tangibili di maledizioni, cioè – e alla fine si erano pure stretti la mano.

«Finalmente hai capito cosa significa cavillare

«Granger, quanto sei acida».

«E tu sei acescente».

Hermione si ripropose di nascondere il suo sorrisino soddisfatto. C’era un’ombra particolare nella linea che prendevano le labbra di Malfoy quando decideva di offendersi anche se non capiva l’offesa che gli era stata rivolta.

Si voltò di nuovo a fissare Astoria. Non piangeva, come tutti gli ultimi del mese il suo visino era pulito e truccato come le aveva insegnato una vera intenditrice di finezza. Aveva il capo poggiato contro il muro gelido che da Ebe scendeva nei sotterranei, poco sopra la pietra che spostava ogni tanto per nascondere qualcosa nelle viscere del castello. Questa volta lottava con mani che emanavano riflessi violetti, le unghie ombrate da petali che lasciavano impronte chiarissime, come i cuori delle persone di cui adornavano le dimore eterne.

Astoria cercava di incastrare nella pietra un fascio di crisantemi.

Hermione si portò una mano alla bocca, sconvolta – il respiro mozzato da una lama di precisione, quella impugnata da mani innocenti che la rendevano più sottile, più letale.

È solo una bambina. Avrà perso qualcosa.

Sentì distintamente l’attimo in cui Draco la raggiunse, sistemandosi alle sue spalle. Quando la fece voltare verso di sé, lei aveva già qualche lacrima incastrata tra le ciglia.

«Puoi dirlo», lo sentì mormorare, ed era quasi una preghiera nascosta nella formula di un permesso accordato.

Avrà perso qualcosa.

«Draco, ha perso qualcuno».

 

***

 

La Granger col cappellino natalizio era pressoché ridicola. Il problema era che se Draco si azzardava a farglielo notare lei rispondeva che quello era il moderno gonfalone di una società rispettabile, che ancora sapeva in cosa credere. E allora si cadeva nell’incomunicabilità. Perché Draco sapeva cos’era un gonfalone, ma non riusciva a concepire che quello dei babbani fosse un cappellino taglia unisex per umani ed elfi domestici, che somigliava a quello di un presunto barbone che faceva il papà solo la notte di Natale rubando il latte ai bambini in cambio di prestazioni atletiche lungo i comignoli dei camini più sporchi.

A dire il vero non riusciva a concepire nemmeno che i babbani avessero un moderno gonfalone, ma Draco sospettava che non fosse una mossa intelligente mettere a parte il mondo di certi pensieri. Soprattutto quando al mondo era venuto in mente di rigurgitargli la Granger sulle scarpe nuove – sia su quelle estive, che su quelle invernali, a dirla tutta.

Tuttavia Draco si disse che magari con una mossa di fine intelligenza poteva farle notare che Natale era passato e che ormai erano già al trentuno dicembre. Il fatto era che con tutta quell’incomunicabilità di fondo – lei che usava parole incomprensibili, lei che faceva ragionamenti incomprensibili, lui che cercava di capirli l’istante prima di ricordarsi che era una perdita di tempo – Draco aveva deciso di tagliare le comunicazioni anche col suo buonsenso.

Così non le aveva detto di liberarsi del cappello ridicolo. Gliel’aveva rubato. I capelli ne erano usciti in maniera disastrata. La Granger sembrava un albero di Natale con addobbi sparati a caso, però aveva una frangetta piuttosto disciplinata – la cui disciplina si riduceva a incorniciarle il viso in quella maniera che la faceva sembrare più buffa e piccola di Astoria Greengrass.

Draco si impegnò a scacciare dalla testa quell’immagine brutale.

Non era la prima volta che la regina dei cavilli e delle parole impronunciabili gli sembrava vittima di una parola fatta realtà – di una parola talmente violenta da ridurla in lacrime, proprio come succedeva ad Astoria. Nelle notti più buie, quando una fiammella si spegneva anzitempo per un alito di vento che penetrava attraverso i vecchi infissi, Draco aveva dovuto combattere e riallacciare i rapporti col suo buonsenso, strofinarsi un po’ gli occhi per stabilire che solo Astoria piangeva. Aveva dovuto faticare per distinguere le immagini di una bambina in lacrime da quelle di una ragazza che se piangeva doveva essersi graffiata coi suoi stessi artigli.

Se piangeva, la Granger, si era graffiata coi suoi stessi artigli.

O c’era ancora qualcosa in grado di farle del male?

«Malfoy, tu sai che questo si chiama furto aggravato dal mezzo fraudolento?»

«E il mezzo fraudolento sarebbe?»

La Granger distolse velocemente lo sguardo, come predata da una insidia invisibile.

Draco si disse che forse era il suo nuovo profumo.

«Fissavo Astoria. Ero distratta. E tu ne hai approfittato».

Magari il mezzo fraudolento erano i suoi piani di tenersi la critica a babbo natale tutta per sé? Possibile che la donna delle parole impronunciabili l’avesse smascherato così presto?

Draco scosse la testa, facendo del suo meglio per allontanare i pensieri molesti. «È il trentuno dicembre. Lo sai anche tu che non piangerà».

«Ma riuscirà a festeggiare? Nemmeno ci rivolge la parola».

«Parla per te. Una volta mi ha detto logofobia».

«E tu ovviamente sai cosa significa».

«Significa che se sta ancora a contatto con te comincia a parlare anche lei in un modo strano».

«Inintelligibile ai più superficiali».

«Quel che è». Per la verità Draco aveva deciso che sarebbe stato saggio non indagare, perciò nel mese di dicembre era stato più interessato a elaborare strategie mefistofeliche per separare la Granger dal suo cappellino, invece che a perdere tempo dietro a un’altra parola dimenticata anche dai dizionari più vecchi della buon’anima di suo zio Pollux mezzabirra Black.  «E poi Granger sei tu quella che vuole festeggiare: dovresti almeno offrirle da bere, se capisci cosa voglio dire».

«Ci avevo già pensato, naturalmente».

La Granger massacrò tutte le ombre che li circondavano, la sua evocazione sapeva di lumi accesi sotto travi basse e parole soltanto sussurrate. Improvvisamente comparvero dei calici e una bottiglia di spumante dall’odore improbabile – possibile che l’avesse barattato con un elfo delle cucine in cambio di un cappellino orribile come il suo?

Draco capì che non c’era proprio limite alla sconvenienza del cattivo gusto e ai disastri a catena che generava.

Come per esempio il fatto che il mondo, dopo avergli rigurgitato la Granger sulle scarpe nuove, ora gliele sporcava pure con bevande di seconda scelta.

Draco sbatté un po’ le ciglia: non era stato molto attento, ma era sicuro che la dannata mezzosangue aveva centrato il calice proprio un attimo prima di attentare alle sue scarpe. La fissò con più attenzione: il viso si era acceso di disagio, le braccia si erano rifugiate dietro la schiena, il petto andava incontro all’aria con movenze fin troppo agitate.

Cosa le faceva del male se non se stessa?

«Se il marmo potesse ridere, Ebe si giocherebbe la sua immagine per sollazzarsi della tua professionalità», le fece notare, indicando la statua con un pensiero irrisolto in testa.

 

«È stata solo una svista, Malfoy, non fare l’iperbolico».

Draco assunse l’espressione offesa per principio. Era praticamente sicuro di essere stato offeso.

«Perché non mi aiuti a fare l’Ebe che mesce invece di indignarti?»

«Perché se mi avvicino di nuovo mi sporchi pure la camicia».

Hermione voltò il capo verso la bambina, ancora una volta. Come se, per assurdo, in lei trovasse sicurezza. «E non puoi sacrificare i polsini per un brindisi?»

 «Per brindare dovrei pensare a farti un augurio».

Draco si disse che magari anche a lui era concesso distogliere lo sguardo, qualche volta, e che gli sguardi in fuga forse sono codardi, ma pieni di parole – di quelle impronunciabili, che però sono sempre sulla punta della lingua, e le danno il sapore delle stagioni.

 

«Ha nascosto un regalo di Natale». La Granger gliel’aveva sussurrato all’orecchio, come se fosse un segreto da affidare solo ai compagni più fidati. «Malfoy, dico: l’hai vista?»

Draco si riscosse dalle sue riflessioni, lanciando un’occhiata disperata alla bottiglia di spumante. «Magari è un regalo per la sorella, cosa vuoi che ti dica».

«Ma hai detto che sua sorella è…»

«Appunto, Granger».

Draco si massaggiò stancamente le tempie, chiedendosi per quanto ancora avrebbe dovuto espiare le sue colpe sopportando ben due donne ogni notte, insieme, col particolare raccapricciante che nemmeno una delle due si prendeva cura di lui.

Gli venne in mente il giorno in cui aveva capito chi avesse perso Astoria. Era stato un ingenuo a non pensarci prima. Aveva dato per scontato che semplicemente una come Daphne Greengrass non era interessata a finire la scuola.

E magari non lo era sul serio, ma qualcuno le aveva portato via la possibilità di scegliere.

Era morta.

Davanti alla statua dell’Ebe, Draco ne era sicuro.

Ricordò anche il momento in cui aveva dovuto dirlo alla Granger. Era stato praticamente terrorizzato dall’eventualità che lei lasciasse incastrare qualche altra lacrima tra le ciglia e Draco in un momento di confusione avrebbe saputo dirle soltanto che lei non doveva inghirlandarsi le ciglia per renderle belle.

Non era successo nulla di tanto disastroso, effettivamente: la Granger si era limitata ad aumentare i suoi tentativi di intortare la bambina con qualche parola impossibile.

Come in quel momento, in cui specificava che purtroppo certe bevande erano state deistituzionalizzate a Hogwarts, ma per l’ultimo dell’anno persino lei era pronta a fare un’eccezione e a chiudere un occhio.

Magari due, si ritrovò a sperare Draco, preso dalle sue ciance:«Astoria, vuoi assaggiare lo spumante che ho evocato? È fatto con essenza di felix felicis», le confidò lei, con aria soddisfatta.

Draco non fu molto stupito dell’ennesima diavoleria che si era inventata la Granger per festeggiare a base di assurdità. Anzi, gli venne voglia di prendere la bottiglia e scolarsela per conto proprio tutta in una volta sola.

«Insomma, Malfoy, mi vuoi aiutare?»

Lanciò un ultima occhiata al candore della sua camicia di alta sartoria. Si disse costretto a sacrificarla. Prese un calice dalle mani della Granger e attese che combinasse lo stesso disastro di prima.

Il suo polsino ne uscì imbrattato di spumante al sentore di felix felicis, e tuttavia doveva ancora decidere se quella camicia fosse davvero fortunata.

La Granger ci mise veramente tanto, ad avvicinarsi alla bambina, ma quando lo fece la sua bocca sembrava lo scrigno più pieno di fortuna che Draco avesse mai visto.

Forse se ne convinse anche Astoria, che diede un sorso e pigolò qualcosa di molto simile ad Auguri.

L’altra ne uscì deliziata, tanto che non pensò nemmeno di scusarsi quando, per riempire anche i loro calici, sporcò entrambi i polsini di Draco, che almeno a quel punto fu ben felice di avere un augurio adatto: «Per l’anno nuovo, Granger, ti auguro di trovarti qualcuno capace di versare un po’ di spumante senza fare disastri», mormorò. Giocando con dispetto un po’ della sua frangetta,  le lasciò un colpetto sulla fronte.

«E io ti auguro di trovarti qualcuno che abbia un po’ di rispetto per le tue camicie».

Alla Granger tremavano le mani.

 

***

 

C’era stato un momento della sua vita in cui il confine tra sogno e realtà era tracciato da una ninna nanna dolcissima. Di quella che le mamme inventano nelle notti insonni e cantano ai propri figli per far loro un dono prezioso, esclusivo, pregno di affetto così estremo da sembrare impronunciabile.

La passione per le parole impronunciabili l’aveva avuta in dono dalla guerra e da un pezzo di estate trascorso con Malfoy, ma Hermione sapeva sin da piccola quante cose riesce a dire una ninna nanna.

Così non si era stupita di trovare un vecchio giradischi nella stanza di Astoria, e non si era neppure stupita quando aveva visto cosa traeva da un vinile malandato.

Qualche volta, durante le notti più turbolente di gennaio, in cui le lacrime sembravano più fitte della pioggia, Hermione le aveva chiesto se le potesse piacere ascoltare di nuovo quella ninna nanna cantata da una bocca amica. Astoria aveva spesso fatto cenno di no col capo, ma non l’aveva mai allontanata quando l’accompagnava in camera, a notte fonda, quando le lacrime le avevano già scavato il viso.

«Potremmo evocare il giradischi», propose, davanti a un Malfoy esasperato.

«Granger, tu sei sicura che non ha niente di grave?»

Hermione fissò la ragazzina, attentissima.

Dormiva nascosta dalla statua di Ebe, senza una lacrima in viso. In grembo aveva un diario bianco, di cui aveva inaugurato solo una pagina. Doveva essere l’ennesimo ricordo che voleva donare alla sorella – come l’orario delle lezioni che avrebbe dovuto seguire, e i fiori per onorare tutti i cari, e il regalo di Natale impacchettato in una carta di un verde scurissimo.

Poteva capitare, a volte, che ci si ritirava così in profondità nei propri sogni, da smarrire la via del ritorno.

Avevano provato a svegliare Astoria in tutti i modi più delicati che conoscevano, ma non era cambiato niente. Era il trentuno gennaio, e anche se quello era l’unico giorno del mese in cui la ragazzina riusciva a trattenere le lacrime, era chiaro che coi suoi demoni non riusciva proprio a spuntarla.

«Draco, secondo te cosa sogna che la agita tanto?»

«Mostri. I sogni servono per metterti in guardia. Perciò da piccolo sogni tutti questi mostri…»

«E da grande?»

Lo vide rabbrividire, sotto i colpi di un pensiero violento. «Sogni ancora i mostri, credo. Il problema è che quei mostri sono ricordi di ciò che hai visto il giorno prima, o l’anno prima. E allora i sogni non servono più a metterti in guardia».

Hermione si inginocchiò davanti ad Astoria, scostandosi la frangetta dagli occhi; si sentiva più nuda, da quando Draco le aveva rubato il suo cappellino e si sentiva ancora più nuda da quando lui aveva scoperto che spesso le tremavano le mani.

Il fatto era, però, che da quando Astoria le aveva raccontato qualcosa della persona che aveva perso, Hermione sentiva di non avere neppure il diritto di vestirsi di protezioni momentanee.

Daphne si era allontanata da sua sorella ordinandole di non uscire allo scoperto, cantando a voce bassa e anche un po’ grave.

Qualcuno aveva sentito il singhiozzo di Astoria, poco prima, e in breve avrebbero trovato il loro nascondiglio, se una di loro non avesse deciso di farsi vedere. Allora una slytherin si era sacrificata per la sua piccola sorella di gryffindor, ed era morta con una ninna nanna sulle labbra e un pensiero dolcissimo nel sangue che presto era finito riversato sul pavimento di pietra, mischiato ad altro meno puro, o meno eroico, o meno dolce.

Sul pavimento di pietra, con una ninna nanna sulle labbra che parlava di affetto impronunciabile.

Hermione sussultò, incapace di guardare una ragazzina mangiata dai propri demoni – ricordi – e affatto pronta a sentirsi ancora impotente.

«Ma allora a cosa servono i sogni quando cresci?»

Draco si buttò stremato contro il muro, le mani piegate sulle spalle, intorno al collo, per massaggiarsi qualche muscolo teso. «Salazar, le persone normali per qualche tacito accordo non parlano di sogni e mostri, Granger, fattene una ragione».

Hermione annuì, tentando di controllare il tremore nelle mani. «La porto di sopra», soggiunse, decidendo di spostare Astoria dalla parte Slytherin del castello fino alla torre di Gryffindor. L’avrebbe fatta levitare. Ci sarebbe riuscita, senza mai lasciarla cadere. «Ci vediamo domani ad aritmanzia, Malfoy. E dirò così tante volte prostaferesi che ti farò impazzire».

Lui la fissò con occhi sgomenti, quando si rese conto che faceva proprio sul serio. Tirò un lungo respiro, prima di prendere la ragazzina tra le braccia e incamminarsi lungo le scale a cui piaceva sempre cambiare. «Non sarà quello a farmi impazzire», sbraitò.

C’era stato un momento della sua vita in cui il confine tra sogno e realtà si era fatto invisibile, e i sogni si erano fatti incubi, ricordi di mostri.

O ricordi di mani troppo ferme per tremare, come quelle di Draco, che le aveva fermato i polsi prima di dare le spalle al ritratto della signora grassa. Aveva gli occhi nebulosi, col sentore di un invito a cena mancato. «Servono per capire che da piccolo facevi bene ad avere paura».

 

***

 

Potrei discutere del fatto che sono una persona orribile perché mi sono presa questa pausa autunnale da efp che non mi ha molto giovato e che invece di farmi migliorare, mi fa regredire.

Non so cosa sia questa storia. Qualcuno che sa davvero leggere mi ha detto che ha un’atmosfera malinconica e un po’ struggente come Medusa. Io ho sorriso. Se fosse come Medusa o qualcun’altra delle mie storie vorrebbe dire che mi sto ritrovando.

Perché è a questo che mi serve Monsters. A ritrovarmi.

Non so se ci sia riuscita, ma almeno ho ritrovato loro, gli impiastri insomma.

E va bene così.

 

Appena possibile posto il secondo capitolo.

 

-          You shower me with lullabies, as you’re walking away è tratto da The Bitter End, dei Placebo.

-          L’usnea barbata è il lichene da cui si ottengono i barbiturici.

-          Logofobia è la paura di determinate parole.

 

C’è qualcuno che mi contatta in privato ogni tanto e mi dice quando continui peccato? (quando trovo un lepricauno che mi esaudisce un paio di desideri!)guarda quanto è fresco qui Joseph Morgan!

Per chi volesse buttarsi nella mischia, io sto qui: Click

Filomena

 

 

 

 

 

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Capitolo 2
*** Parte II ***


Ci sono dei momenti in cui i grazie sembrano parole impossibili.

Non è questo il caso.

Grazie a chi ha letto, a chi mi ha accolta con un sorriso, con malinconia (prima o poi la smetterò di buttare tutti in questa atmosfera che di malinconico ha giusto le margherite che continuo a importunare); grazie a chi mi ha detto bentornata e mi ha sopportato quando io ho detto che non so se sono tornata, se sono tornata in me o nella tastiera, e nemmeno se sono tornata bene; grazie a chi si è lasciato toccare dai mostri, e grazie anche a chi mi dirà che forse davvero è il caso di farci l’amore, coi mostri.

Filomena.

Monsters

Shower me with lullabies

 

 

 

“You shower me with lullabies, as you’re walking away”

Placebo    _

 

 

Al di là delle parole impronunciabili che conosceva solo la Granger, c’erano parole altrettanto impronunciabili, che gli fluttuavano in testa tra un pensiero scomodo e uno esilarante.

Draco sapeva che c’erano cose che proprio non andavano dette, per evitare di limitarle a poche parole. Cose del genere erano i desideri, per esempio.

La Granger avrebbe detto bramosie, e poi gli avrebbe fatto andare di traverso il suo succo di zucca. A Draco veniva in mente qualche altra donnina che anni prima si era finta una giovane Ebe, e gli veniva in mente anche l’anima pia che da lei si era fatta soggiogare.

Sarò l’Ebe che versa – E che io bramo immortal come quella. – E Salazar!

Qualcosa del genere. Una storia orribile.

Perciò per Draco l’Ebe non mesceva, ma versava.

Per la Granger naturalmente l’Ebe mesceva – Mesce, Malfoy, si dice mesce. Versare sarebbe stato davvero troppo semplicistico.

Allora a Draco non rimaneva altro che ricordarsi di un particolare rassicurante: la Granger non sapeva né mescere, né versare. E lui non avrebbe mai detto a nessuna quanto la bramava.

Non quando febbraio era così gelido da fargli chiedere se esistesse ambrosia bollente; se Astoria si fosse rifugiata proprio dietro quella statua con la speranza di trarne una goccia fatta di marmo freddo e paradiso. Draco aveva proprio voglia di sapere che l’ambrosia fosse bollente, o se la Granger ne conoscesse la ricetta – sapeva sempre tutto, la donna delle parole impossibili.

Draco sapeva soltanto una cosa: che se il paradiso lo bevi a sorsi, poi ti scotti la lingua. E lui non avrebbe più conosciuto il sapore di ottobre, né quello delle stagioni. Ma solo quello della Granger e della sua ambrosia.

Mentre lei se ne stava a picchiettare le dita sul muro, dicendo qualcosa come mandarinismo o almanaccare. E lo diceva con vocina sottile e sorriso sulle labbra, in un tono talmente confidenziale che Astoria dovette credere di essere davanti a un’amica di sempre.

Draco invece ci mise più del dovuto a decidere se sentirsi offeso per principio. Non aveva ben capito se stessero parlottando proprio di lui. C’era una luce strana, negli occhi delle ragazze. Astoria aveva una luce da slytherin, come se l’anima della sorella, invece di lasciare la terra dei vivi, si fosse insinuata proprio dentro di lei. La Granger…. lei aveva gli occhi nebulosi, col sentore di inviti a cena mancati, di quelli in cui si desidera qualcuno talmente vicino da porgergli la mano, per lasciargli assorbire i tremori dell’emozione e della malattia.

Un attimo prima di lanciargli una palla di neve dritto in faccia.

Draco avrebbe sbattuto anche le palpebre, se non fosse stato troppo impegnato a focalizzarsi sui rivoli di gelo che gli mangiavano il viso come se fosse stata una tela da imbrattare. Una palla di neve, dritto in faccia.

Scosse la testa, bagnandosi le mani in mezzo ai capelli praticamente fradici, agitandosi così tanto che un paio di gocce arrivarono pure ai piedi della Granger, che proprio non la smetteva di ridere. Ma c’era qualcosa di più irritante: Draco non sapeva nemmeno come classificare la sua morte. Come si chiamava tutto quel freddo? Congestione? Assideramento? Lei lo avrebbe saputo. Come si chiamava tutto quel freddo?

Forse lo sapeva anche Astoria, che d’un tratto, sorridente, gli si fece vicino. Aveva le mani violacee, la borsa piena di neve da donare alla sorella, e le labbra lucide.

Draco ci mise un po’, a capire che non avrebbe dovuto sapere com’erano quelle labbra. O che forma prendevano sulla pelle di qualcun altro. Ma quando lo capì, proprio quelle labbra si erano fissate all’angolo della sua bocca, e gli avevano lasciato un bacio. «Scusa».

E come si chiama il freddo se qualcuno tenta di scaldarti?

Draco non sapeva neppure questo, sapeva soltanto che fino ad allora aveva tenuto gli occhi chiusi. Tutti e due.

Ricevere un bacio fu come aprirli. Aprirli e aprirli sul mondo. Che sulle scarpe gli aveva rigurgitato un sacco di roba nuova.

Come Astoria, che da ingenuo aveva creduto bambina fino a un attimo prima; che invece era cresciuta grazie al bacio che la sorella le aveva dato prima di morire; aveva tredici anni, e aveva conosciuto la sua bocca.

Roba da impazzirci, quella dei baci.

Draco si sentì orribile.

Una volta, tanto tempo prima, Daphne aveva baciato anche lui, come aveva fatto con la sorella.

Draco si sentì proprio orribile. Perché Astoria, da quei baci, aveva imparato a baciare. Lui invece non aveva imparato nemmeno come si fa a riceverlo, un bacio.

Un bacio che resta, pensò.

Quello di Dapnhe a stento lo ricordava.

Si portò le mani alla testa, disperato. Lanciò un’occhiata stralunata alla Granger, che aveva in viso un sorriso cristallizzato – anche lei aveva freddo?

Draco sentì l’impulso di urlarle che era un mostro, ma questo voleva dire…

 

***

 

Hermione desiderava urlarglielo, che le sarebbe piaciuto essere un mostro, ma questo voleva dire che le sarebbe piaciuto passeggiare nei suoi sogni e trovarvi dimora.

Sogni ancora i mostri.

Draco una volta aveva bevuto, e le aveva parlato come impazzito. Con parole semplici, e per questo non troppo facili da capire.

Le parole impronunciabili erano più facili: avevano un solo significato, ed era uguale per tutti. A Draco invece piaceva usare parole così semplici da sembrare impossibili.  Come la sera in cui le aveva parlato dei baci. E di come sia orribile quando sei incapace di riceverli, o di trattenerli. E perché Astoria ricordava così bene il bacio della sorella mentre a lui era rimasta soltanto l’ombra di un ricordo?

Aveva stabilito che c’era qualcosa di strano, nelle persone che non conoscono un bacio che resta.

Hermione allora si era chiesta se lei era una di quelle persone. Non capiva bene cosa potesse essere un bacio che resta, erano parole troppo semplici, con troppi significati. Però le sembrava di aver trattenuto qualche bacio. Per esempio quello che le aveva dato Ron nella camera dei segreti, o quello di Ginny e della signora Weasley alla fine della guerra, che avevano lo stesso sapore di morte e vittoria. Un sapore che arriva più tardi rispetto a quello delle stagioni.

Forse era un sapore che conoscevano tutti, perché tutti ora vivevano in ritardo, compresi lei, Astoria, e Draco.

Vivevano così in ritardo, che nessuno aveva organizzato una festa di Carnevale. Non avevano fatto in tempo. Allora la festa l’avevano organizzata a marzo, per salutare la primavera con qualche lacrima e con la riservatezza di una maschera dolcissima.

Hermione aveva asciugato con cura gli occhi di Astoria, prima di sistemarle in viso un velo finissimo, un po’ oscuro e un po’ birichino, che stendeva delle ombre sulla pelle e la rendeva misteriosa come un fiore ancora chiuso. Poi era corsa a prendere la sua maschera: era orribile e l’aveva scelta proprio per questo.

Era così terribile che Draco subito la riconobbe, fermandole le mani che per un po’ smisero di tremare.

«Vuoi sentirti dire che sei mostruosa o sbaglio?»

«È soltanto una maschera», precisò lei, improvvisamente non molto audace.

«Allora non avrai nulla da dire se la sposto un po’».

E se nemmeno lei sapeva cos’è un bacio che resta?

Forse si era soltanto illusa… «No, aspetta».

Draco annuì brevemente.

Era strano poggiargli le mani sulle spalle. L’aveva fatto anche Astoria, poco prima, quando avevano ballato insieme e lei l’aveva stretto a sé con tutta la forza di chi conosce un bacio che resta. Hermione invece aveva paura di stringerlo troppo. Era convinta che se l’avesse fatto, le mani avrebbero ripreso a tremare. Era qualcosa che non riusciva proprio a controllare.

Eppure per qualche mese aveva pensato che fosse semplice. Quando gli aveva stretto la mano, al processo, era stata fermissima. Era stata fermissima, e un po’ presa da un ragazzo che con sole parole semplici se l’era trascinata dalla sua parte – dalla parte di chi assaggia le stagioni in punta di lingua, e poi le usa per trasformare la codardia di una vita nel mistero più antico di sempre: quello delle cose belle e disposte a cambiare.

«Draco, mi inviterai mai a cena?»

Ma era disposto a cambiare così tanto?

«Prima devo trovare qualche camicia da sacrificare».

Hermione sorrise un po’, guardandosi intorno. Lei era l’unica con la maschera da mostro. C’era qualcosa di intenso in quella consapevolezza. Forse la speranza che quando Draco avrebbe sognato, quella notte, avrebbe sognato proprio lei.

«Ma prima devo darti un bacio?» gli chiese, andando in panico. Non conosceva nemmeno le regole di un bacio che resta.

Forse Astoria le conosceva. Forse poteva baciarlo proprio dove l’aveva baciato lei. Forse a Draco sarebbe rimasta un’impronta lucidissima, e allora, dopo tanti baci dell’una o dell’altra, lui avrebbe imparato a trattenerli, senza dimenticarli.

Sollevò un po’ la mano, portandola tremante sul suo viso e voltandolo verso di lei.

Forse se avesse avuto un filo di rossetto, la sua impronta sarebbe rimasta meglio, forse…

Forse quello era un bacio che resta. Chissà dove, si disse Hermione. All’angolo della bocca o nei ricordi fatti mostri da sognare?

Draco rimase un po’ immobile, prima di ridestarsi e guardarla negli occhi. «Così», mormorò, assaggiandola come faceva con le stagioni.

Proprio così.

Almeno il bacio sarebbe rimasto nella bocca.

 

***

 

Ad Aprile Astoria ripose una margherita rinsecchita accanto a una maschera da mostro. L’aveva presa nel baule di Hermione l’ultimo giorno di marzo, e l’aveva nascosta dietro la statua di Ebe in dono alla sorella. Forse, da quella sera, i mostri le facevano meno paura. E le margherite le sembravano belle anche se avevano perso la linfa tra le sue pergamene, e vi avevano lasciato un’impronta come quella di un bacio che resta; proprio uguale, eccetto per il profumo.

Astoria gli disse che un bacio che resta sapeva più di camomilla che di margherita.

Draco ci rifletté per un bel po’ di tempo, guardando di sottecchi la Granger che parlava felice con la ragazza nell’unica notte del mese in cui lei non piangeva.

Draco non sapeva nemmeno distinguere una margherita da un fiore di camomilla. La donna delle parole impossibili gli avrebbe elencato almeno tre differenze, ma lui era abbastanza certo che non fosse quello il punto.

Forse il punto era che si ricordava quasi tutti i baci che le aveva strappato, o che lei gli aveva donato, o che semplicemente si erano messi tra loro come vivi mentre camminavano ai lati opposti di un corridoio e uno dei due decideva di attraversare la fiumana di gente per provare a lasciare un’impronta.

L’impronta era il punto.

L’impronta che se non era di un bacio che resta, allora doveva essere mostruosa, almeno in sogno l’avrebbero riconosciuta.

Draco si rigirò tra le mani la caraffa piena di camomilla. Nemmeno gli piaceva quella roba. I baci sì, i baci gli piacevano proprio. Però a quel punto non era escluso che baci e camomilla avessero lo stesso sapore. Magari era vero, magari la camomilla era ambrosia bollente. Draco diede un’altra scossa alla caraffa, parte del contenuto finì sul tappeto su cui era seduto. Non si sentiva a suo agio nella sala comune di gryffindor, anche se era notte fonda e molto probabilmente non l’avrebbe visto nessuno. Ma la Granger ci stava mettendo veramente tanto, a scendere.

Prese a rigirarsi i polsini della camicia, scoprendo il marchio nero con cui pian piano stava imparando a convivere. Gli riusciva un po’ meglio da quando l’aveva sporcato di spumante e da quando la sera ci pensavano dita candide e tremanti a farlo sentire pulito.

«Draco, non mi piace la camomilla».

«Nemmeno a me», ammise, un po’ sorpreso di non averla sentita arrivare.

Doveva essere una delle ultime sere in cui avrebbe visto un camino acceso a Hogwarts e lui voleva sapere se sotto i suoi occhi tremasse di più una fiamma o la Granger.

«Ma almeno aiutami!», si lamentò lei, afferrando una tazza.

Draco si accigliò. Non aveva nessuna voglia di aiutarla. Voleva vedere cosa sarebbe successo alla Granger con la tazza in una mano e la caraffa nell’altra.

Dopo qualche istante ne sorrise poco sorpreso: anche lei aveva dovuto sacrificare la camicia. Ne era uscita molto contrariata, tanto che abbandonò la tazza e per poco non stabilì che fosse più carina a prendere fuoco nel camino.

«Allora facciamo così», decise, portandosi la caraffa alle labbra. Qualche goccia bollente le scivolò giù per il collo dopo il primo sorso. Tossì un po’, presa alla sprovvista, mentre Draco decideva che invece in quel momento aveva voglia di aiutarla, anche se lei stava dicendo libare e gli faceva venire in mente di nuovo la donnina che si era finta Ebe prima di lei.

«Oppure facciamo così», le disse, prendendole la mano e liberandola del polsino bagnato della camicia.

Draco le posò le labbra sulla pelle delicata del polso, quella morbida da cui poteva sentire tremare persino il suo sangue. Le gocce di camomilla che assaggiò con le labbra non gli piacevano, però non aveva più dubbi: era proprio quella l’ambrosia bollente che stava cercando da mesi.

Le baciò lentamente l’avambraccio, facendo salire la camicia pian piano, sotto mani fermissime, e si bloccò nella piega del gomito, lì dove forse solo la Granger riusciva a tremare – a tremare per lui.

Quando la distese nuda sul tappeto, l’ombra delle fiamme sussultò su di lei. C’era qualcosa di favoloso a danzare sulla sua pelle: era fuoco, ambrosia bollente che si asciugava per il calore e per i baci, mostruosità da sognare nel buio delle notti trascorse ad amare, e nelle pieghe più segrete… fili di parole che erano incomprensibili solo se si dicevano ad alta voce. In quel silenzio era tutto così chiaro…

Era chiarissimo.

La Granger era tutta un cuore. Perciò non la smetteva di tremare. Era tutta un cuore. Ovunque la toccasse – e la toccava persino in tratti di pelle che lei non conosceva – ovunque la toccasse, c’era il suo cuore che tremava.

Ed era, quello della Granger, un cuore ruscellante.

Ruscellante.

Ruscellante era abbastanza impronunciabile da calzarle alla perfezione come solo le parole più belle riuscivano a fare. Le parole più belle e il corpo di Draco. Lui la vedeva proprio così.

«È questo», la sentì pronunciare, mentre le rubava tutte le sue parole.

«Cosa?»

«Il mezzo fraudolento. Sono le tue mani».

Draco sorrise, ricordandosi del suo furto aggravato. Lei l’aveva capito che quel cappellino non l’avrebbe più visto e che gli piaceva così tanto giocare con la sua frangetta?

Forse, tra tanti baci che restano, poteva usare molto più spesso il suo mezzo fraudolento.

Molto più a fondo, pensò, arrivando dentro di lei, che era tutta un cuore ruscellante.

Così. Proprio così.

 

***

 

Astoria piangeva di meno, da quando le offrivano la camomilla. Almeno avevano trovato qualcuno a cui piaceva.

Hermione ne era molto soddisfatta. Il sorriso si incrinò un po’ quando vide quel che nascose tra un paio di pietre l’ultimo giorno di maggio. Le date degli esami del settimo anno.

La scuola era finita. Per sempre. E lei forse non avrebbe avuto tutti eccezionale. O forse sì e il giorno dopo le sarebbe parso comunque poco.

Draco le aveva detto che non importava, sarebbero andati a cercare altre fiamme, per vedere se qualcuna tremava più di lei.

Ne aveva sorriso, meravigliata da tanta insensatezza. Quelle maledette parole semplici l’avrebbero fatta impazzire. Forse doveva chiedere ad Astoria come fare per apprezzare la camomilla. Ora aveva qualcosa in cambio da darle. Un paio di regole dei baci che restano, per esempio.

Sacrificare le camicie.

Le avevano tutte stropicciate, o ombrate da qualcosa che si era riversata sul cotone finissimo e qualche volta non andava via nemmeno con i migliori incantesimi.

Conoscere i propri mostri.

Avevano capito tutti che un bambino ci vede meglio, perché solo i bambini hanno paura del buio, perché riescono a vedere ombre del futuro e le vedono mostri. Avevano anche capito che il ricordo dei mostri li avrebbe accompagnati per tutta la vita, e tutte le notti l’avrebbero rivisto vividissimo, come reale.

Conoscere i propri mostri… e poi farci l’amore.

Era un modo accettabile, per risolvere la questione. Trasformare la peggiore delle persecuzioni nel sogno di tutta la vita, quello che ti tiene la mano ferma anche quando trema, quello che ne assorbe il tremore, della mano, e poi lo spiega in parole semplici per farlo sembrare meraviglioso.

«Dieci minuti al giorno potresti anche chiuderlo, quel libro, no?»

Draco fissava accigliato le date degli esami, come se il libro l’avesse osservato fin troppo.

«No, altrimenti domani sarò babelica come te», e non ci teneva proprio ad avere in testa la sua stessa confusione di date, ingredienti e incantesimi.

Lui decise di restare offeso per circa dieci minuti, in cui Astoria lo aveva abbracciato e gli aveva chiesto di sposare lei, se con Hermione le cose non fossero andate bene.

Draco aveva risposto con un «Certamente» così semplice da farla tremare per l’indignazione, tanto che decise di fargli sacrificare l’ultima camicia che gli era rimasta.

Magari a partire dal colletto.

 

***

 

Riusciva a vedere quanto lui fosse bello? E come li dava bene, quei baci?

Forse sì. Hermione si lasciava baciare tutte le volte che lui ci provava. E allora era bella anche lei, con le occhiaie un po’ pronunciate perché trascorreva la notte a ripassare fiumi di parole impossibili e poi le riversava su di lui, che sembrava felice di farsi riempire da quelle cose che non capiva solo se gliele diceva ad alta voce.

Ma quando erano in silenzio…

Astoria li guardava, incantata.

C’era stato un tempo in cui aveva sognato Draco accanto alla sorella, e poi tutto per lei.

Ma quando quei due erano in silenzio… erano belli di una bellezza che incanta.

Draco non sarebbe stato così bello, con lei. Draco era più bello quando guardava Hermione, se le sorrideva di nascosto, o giocava con la sua frangetta, o si lamentava delle camicie sacrificate, o diceva che la camomilla faceva schifo, però…

Astoria li fissava da dietro la porta di un’aula dimenticata.

Stavano aspettando che lei scendesse ai sotterranei.

Sapevano che avrebbe nascosto l’ultima cosa dietro la pietra, e poi avrebbe chiuso tutto con un incantesimo potentissimo, dietro il sigillo di un amore perfetto, salutato con un bacio che resta, anche se era stato un bacio d’addio.

Per esempio… quei due lo sapevano che era proprio quella la vita? Che la vita è come un bacio che resta? Forse doveva dirglielo lei, ma sembravano così distratti…

Lei tremava, se Draco mormorava il suo nome – Hermione, ho deciso di offendermi – lei tremava, se Draco provava a darle un bacio che resta. Ma lei, proprio lei, stava un po’ meglio.

Anche Astoria stava meglio, grazie a loro. Le avevano dato la possibilità di donare un altro anno di vita a Daphne, nell’unico modo che le sembrava possibile. Non l’avevano mai abbandonata. Forse non sapevano cos’era la vita, ma sapevano quanto fosse difficile crearla e donarne un po’ a chi si vuole bene.

Astoria stava meglio.

Non era l’ultimo giorno di giugno, ma l’ultimo giorno di scuola. E non piangeva.

Aveva solo una pietra da spostare e qualcosa da nascondere…

Qualcosa…

Astoria sorrise.

Qualcosa che resta.

 

 

 

-          Grazie anche ad Astoria tredicenne, che mi ha costretto a ricordare la mia prima cotta per scrivere l’ultimo paragrafo.

-          Sarò l’Ebe che versa – E che io bramo immortal come quella è ripresa dal libretto de La Traviata. Queste due battute sono di Violetta e Alfredo, che sono amabili e libano nei lieti calici e tante cose belle, ma sono più belli ne La signora delle camelie, secondo me.

-          Cuore ruscellante è un’espressione di Baudelaire. Riporto l’intera frase perché io la trovo meravigliosa:

Infine, per completare la tua figura di Maria,

e per mischiare amore e barbarie,

nera Voluttà farò, boia pieno di rimorsi,

dei sette Peccati capitali sette Coltelli,

ben affilati, e come un giocoliere insensibile,

prendendo il più profondo del tuo amore come bersaglio,

li pianterò nel tuo Cuore ansimante,

nel tuo Cuore singhiozzante, nel tuo Cuore ruscellante.

(da A una Madonna).

E chi meglio di Baudelaire conosce le parole impossibili?

 

 

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