Every Rose Has Its Thorn

di Whatshername_
(/viewuser.php?uid=156964)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: Cinque ore tra alieni e ricordi ***
Capitolo 2: *** Se odi tanto volare, perchè trasferirsi dall'altro lato del Paese? ***



Capitolo 1
*** Prologo: Cinque ore tra alieni e ricordi ***


Every rose has its thorn...

 

Ogni rosa ha la sua spina
Così come ogni notte ha la sua alba
Così come ogni cowboy canta la sua canzone triste
Ogni rosa ha la sua spina.

 
PROLOGO:
Era mattina presto ed ero sveglia ormai da un bel pezzo. Contro ogni buonsenso mi ero già vestita e mi trovavo in bagno, davanti allo specchio, mentre cercavo di sistemare quell’ammasso aggrovigliato che erano i miei capelli.
In giorni normali potevano anche essere belli, non passavo mai molto tempo a pettinarli e li lasciavo sempre sciolti e al naturale, ma quella mattina sembrava che una rondine vi avesse fatto un nido.
Sentii di passi salire le scale e qualche istante dopo comparve Dustin che si appoggiò allo stipite della porta del mio bagno.
-Sei sicura di voler andare?- mi chiese,fissandomi con le braccia conserte
Odiava l’idea di vedermi andare via, anche per poco tempo. Entrambi eravamo stati abbandonati dai nostri genitori e ci eravamo promessi e ripromessi che ci saremmo sempre stati l’uno per l’altra e viceversa.
Annuii malinconicamente, guardandolo negli occhi dal riflesso nello specchio.
-Sai che non vorrei, ma sai anche che è ciò che vuole mamma.- mormorai, cercando di non piangere
Dopotutto non me ne stavo andando per sempre. Sarei tornata una settimana più tardi e tutto sarebbe andato bene.
-Lo so. Ho sempre saputo che saresti stata tu quella che avrebbe reso felice la mamma. Io ero solo la pecora nera della famiglia.- disse, scompigliandosi i capelli neri.
Coprii la distanza fra noi e lo abbracciai, facendomi stritolare dalle sue lunghe braccia affusolate.
-Sai che non è così. Ti voleva bene... Ti vuole bene. Non ti ha mai visto come la pecora nera. Ha sempre accettato le tue scelte, anche se magari non erano quelle che le avrebbe fatto per te... E non te lo diceva spesso, ma era molto orgogliosa di te.-
Sentii la mia guancia inumidirsi appena e scacciai quella lacrima solitaria sfregando il volto sulla sua maglia morbida.
-Già... Era papà quello che non apprezzava mai nessuna delle mie scelte...- mormorò –Almeno tu sapevi che lei era orgogliosa di te. Non si dimenticava mai di dirtelo.-
Mi risvegliai dal ricordo della conversazione avvenuta con mio fratello quella mattina.
Avevo perso la cognizione del tempo ormai.
Quanto tempo era passato da quando avevo messo piede su quella trappola di metallo volante?
Forse tre, quattro ore...
Volare era una vera e propria tortura... Soprattutto se sei spiaccicata fra un uomo sulla cinquantina un po’ troppo sovrappeso che si addormenta sulla tua spalla e una vecchia signora che durante la prima ora di volo si scola tre bottigliette di vino rosso e alla terza ora di volo ti ha già chiesto circa 15 volte se si trovasse su una navetta aliena diretta verso una galassia sconosciuta.
Perché avevo scelto volontariamente di sottopormi ad una tortura simile?
Era una lunga storia e, più ci pensavo, più mi innervosivo... E con i compagni di volo che mi ritrovavo ad avere non era la scelta più sensata.
Avrei potuto scegliere di viaggiare in prima classe, ma perché viziarsi in questo modo?
Avrei potuto passare questo lunghissimo viaggio in una comoda poltrona spaziosa con compagni di volo e hostess sorridenti, ma no, avevo preferito spendere poco! Sono proprio un’idiota, certe volte!

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Se odi tanto volare, perchè trasferirsi dall'altro lato del Paese? ***


Capitolo primo
Se odi così tanto volare, perché trasferirsi dall’altro lato del Paese?

 
Ero atterrata quella mattina e da allora non avevo fatto altro che trascinarmi da un lato all’altro della città, sotto quel sole cocente, con quei vestiti troppo pesanti per la temperatura che sfiorava i 40° e con quella stramaledettissima valigia che avrei lasciato volentieri al primo ladruncolo di strada che avrebbe cercato di derubarmi. Mi avrebbe fatto un enorme favore, se non fosse stato che lì dentro c’era praticamente tutta la mia vita.
Erano le due del pomeriggio e, nonostante il caldo insopportabile, le strade erano piene di persone che facevano shopping indossando pantaloncini corti e canottiere leggere. Alcune ragazze mi fissavano come se venissi dal pianeta degli stramboidi.
Una volta mi fermai a guardare il mio riflesso nella vetrina di una gelateria. Era tutto a posto.
Va bene, indossavo dei jeans lunghi, un maglioncino verde e degli scarponcini neri, abiti sconosciuti ai manichini colorati che riempivano le vetrine di quella città, ma nella mia adorata New York rischiavi un raffreddore anche se solo osavi pensare di uscire con maglie a maniche corte, benché fosse la metà di Luglio.
Fortunatamente avevo visitato quasi tutte le case e gli appartamenti quella mattina. Me ne mancava solo una che, per mia sfortuna, si trovava in periferia.
Avrei potuto prendere un taxi, ma non me lo sarei mai perdonata se avessi dovuto spendere anche solo un dollaro per un taxi.
Camminando verso quell’ultima casa sembravo una vera e propria turista, tranne per il fatto che ero troppo di fretta per fermarmi ad ammirare le vetrine e le pubblicità colorate che riempivano le vie di Los Angeles.
Mi trovavo in quella città perché quell’autunno avrei ricominciato il college e in quel momento non avevo nessun posto dove alloggiare.
Avevo sempre creduto che avrei vissuto a casa del mio ex ragazzo, Richard, che frequentava il corso di Scienze Politiche nel mio stesso college da due anni, ma mi aveva lasciato perché, secondo lui, quando mi veniva a trovare ero troppo occupata con lo studio o con chissà cosa per offrirgli le attenzioni che meritava.
Mi aveva lasciata per e-mail una settimana prima degli esami finali.
Per fortuna ero riuscita a riprendermi e avevo passato tutti gli esami con voti eccellenti.
Purtroppo mi ero ritrovata senza un posto dove alloggiare quell’anno e la scuola non voleva darmi un alloggio al campus. Secondo quello che diceva la segretaria con cui avevo parlato ero arrivata troppo tardi e  tutti gli alloggi erano occupati quindi, a meno che non entrassi a far parte di una confraternita che volesse darmi un posto dove stare, lei non poteva fare nient’altro per me.
Non avevo nemmeno preso in considerazione l’idea di entrare in una confraternita.
Avevo fatto qualche ricerca su Internet: a quanto pare esistevano solo quattro confraternite e tutte e quattro erano maschili.
Quindi la confraternita era fuori discussione.
Nel mese e mezzo che seguì la fine della scuola mi ero data da fare per cercare qualcuno che fosse disposto a ospitare un coinquilino e, dopo aver raccolto una ricca lista di indirizzi, ero partita.
Purtroppo fino a quel momento nessuna casa andava bene: ne avevo visitate dieci ma nessuna mi convinceva.
Una era abitata da una specie di gattomane ventenne che abitava con cinque gatti e la casa era ricoperta di peli e puzzava di pipì di gatto.
Un ragazzo abitava con la madre e con la nonna e io avrei dovuto dormire nella stessa stanza con la tenera vecchietta che mi aveva quasi sputato la dentiera addosso.
Un altro ragazzo, una specie di musicista squattrinato, abitava nel garage di suo padre e la stanza era piena di strumenti musicali e attrezzi da lavoro pieni di polvere.
Poi c’era un tizio che abitava in un monolocale al settimo piano senza ascensore... E la cosa bella era che fino a quel momento era il migliore che avessi visto.
Speravo vivamente che quella casa fosse almeno lontanamente vivibile.
Ci misi quasi tre quarti d’ora ad arrivare.
Era una via chiusa con quattro villette color pastello.
Quella che avrei visitato era color panna con le finestre e la porta bianche, un vialetto acciottolato  tagliava a metà un piccolo giardino dove erano state piantati degli alberelli e portava ad un portico bianco su cui erano state sistemate un paio di sedie a dondolo ed un tavolino di ferro battuto.
Aprii il cancello su cui la vernice ormai si stava scrostando e mi avviai a passo lento verso la grande porta.
Suonai il campanello e feci un passo indietro aspettando che qualcuno venisse ad aprirmi.
Sentii dei passi e la porta si aprì.
Ad aprirmi era stato un ragazzo più alto di me di una decina di centimetri, coi capelli castano scuro scompigliati e gli occhi color castano chiaro, indossava una camicia bianca e un paio di jeans blu scuro.
Alzai il viso per guardarlo negli occhi e mi sorrise, scostandosi dalla porta e facendomi segno con la mano di entrare.
Chiuse la porta dietro di se e i miei occhi ci misero qualche istante ad abituarsi alla poca luce che entrava dagli spiragli lasciati dalle tende.
-Ciao. Tu devi essere Josephine. Ti stavamo aspettando.- mi disse con la sua voce leggera e vellutata, mentre mi guidava verso il salotto –Oh, lascia pure lì la tua roba.-
Lascia la valigia in un angolo e vi appoggiai sopra la mia borsa.
-Grazie... Comunque preferirei se tu mi chiamassi Joy.- dissi, trattenendo una smorfia disgustata.
Odiavo il mio nome.
“Josephine Catherine Gray” la voce della mia professoressa di matematica risuonò acida nella mia testa, mentre riaffiorava  il ricordo del modo in cui si divertiva a chiamarmi quando mi sgridava.
-D’accordo. Beh, io sono Jeremy.- disse, stringedomi la mano
Iniziai a dare un occhiata alla stanza. Una volta probabilmente il piano terra era diviso in due stanze, ma i muri erano stati buttati giù e il salotto e la cucina formavano una sola stanza.
Dal lato del salotto compariva una scala larga che portava al piano delle stanze da letto.
Il divano era stato posizionato a lato della scala, in modo che fosse rivolto verso una TV sotto a una finestra, che offriva una visuale del vialetto esterno. I muri erano lo stesso color panna dell’esterno ed erano decorati da fotografie, quadri e mensole piene di libri.
La cucina si trovava al lato opposto del divano. Un tavolo in legno scuro padroneggiava la scena e i banconi con gli elettrodomestici, il frigorifero, il forno e il lavandino erano appoggiati al muro.
Il frigorifero era appoggiato ad un angolo, dietro il quale c’era una porta, probabilmente il bagno e sul muro di fronte al divano dall’altro lato della stanza c’era una porta che dava sul giardino sul retro.
-Alex! Muoviti a scendere! Abbiamo ospiti, idiota!- urlò Jeremy verso le scale –Scusa, mio fratello è...- non finì la frase, ma era abbastanza ovvio ciò che voleva dire.
Gli sorrisi e in quel momento un altro ragazzo scese le scale con un sorriso stampato in volto.
Per poco non rimasi a bocca aperta guardandolo mentre scendeva le scale con il suo passo morbido e sinuoso.
Portava i capelli neri tagliati corti, ma non troppo e una frangia scompigliata gli copriva la fronte, sotto le sopracciglia scure c’erano un paio di occhi blu chiarissimi che mi scrutavano interessati e sorrideva mostrando una fila di denti bianchissimi.
Si avvicinò al fratello e fui sorpresa di vedere che era più alto di almeno dieci centimetri abbondanti, se non di più.
Come era possibile?  Perché quella bassa dovevo essere sempre io?
Alex sollevò una mano e mi salutò, accompagnando il gesto con un sorriso.
-Beh, benvenuta. Sono Alex, e al contrario di quello che dice mio fratello non sono un idiota.-
Jeremy lo guardò con un sopracciglio alzato, con un espressione scettica in viso per poi tornare a sorridermi.
-Credo che tu voglia vedere la tua stanza. Mi dispiace, ma abbiamo avuto dei problemi e non è ancora pronta quindi dovrai dormire con Alex... Sempre se deciderai di rimanere con noi.- mi disse salendo le scale con me alle spalle e il fratello che ci seguiva
-Oh, non sarà di certo una stanza non ancora pronta a fermarmi dopo tutte le case che ho visto oggi.-
Mi rivolse uno sguardo confuso mentre apriva una porta, probabilmente la stanza dove avrei dormito io.
Avevo indovinato. Sui lati della stanza c’erano due letti enormi, uno di fronte all’altro, davanti a noi, accanto alla finestra che dava sulla strada, c’era una scrivania nera.
Accanto al letto disordinato, quello di Alex, senza dubbio, c’era un’altra porta: quella del bagno e accanto al mio c’era la porta dell’armadio a muro.
-Alex, dannazione!- sbottò Jeremy –Perché non hai dato una sistemata al tuo letto?! E’ già abbastanza disgustoso quello che fai senza che tu lasci tracce sparse ovunque!-
Deglutii e mi voltai a guardarli preoccupata, senza però lasciar trapelare nessuna emozione.
-Chi era questa volta?- chiese Jeremy, rassegnato
-Emh... Karen... Forse Hallie... No, no. Stephanie!- esultò, schioccando le dita e indicando il fratello
In un secondo capii.
Capii cosa era successo in quella stanza.
Capii perché sembrava ci fosse appena stato un tornado.
Capii perché Jeremy non aveva trovato un modo carino per descrivermi il fratello.
Sentii il mio stomaco rivoltarsi e sperai vivamente di non aver assunto un colorito bianco cadaverico.
Jeremy mi guardò e sospirò, invitandomi ad uscire dalla stanza.
-Beh, lì è dove dormirai per un po’.- disse, tenendo il viso basso mentre fissava la moquette verde scuro.
-Io... Io dovrei andare ora. Spero tu decida di rimanere con noi, Joy.- disse Alex, sorridendomi
No,no,no,no,no.
Non dovevo lasciarmi fregare da quegli occhi blu e dalla sua voce profonda, ma soave.
Si avvicinò e mi prese una mano. La baciò e mi sorrise, fissandomi negli occhi, prima di scendere le scale ed uscire.
“Che idiota che sei!”sentenziò la mia coscienza.
Come potevo sentirmi le ginocchia molli dopo un gesto del genere?
-Mi dispiace ti sia toccato tutto questo, ma non si sceglie la famiglia, no?- disse Jeremy, posandosi una mano dietro la testa e sorridendomi. Feci spallucce e risposi al suo sorriso -So che può essere disgustoso, ma sarà per un paio di mesi e mi sembra di aver capito che non hai trovato niente di meglio.-
-Già... O questo o la nonna-sputa-dentiera.-
Sorrise e scendemmo al piano di sotto per sistemare le ultime cose.
Ci sedemmo al tavolo della cucina, sul quale trovai un paio di fogli e una penna. Iniziai a scarabocchiare mentre discutevamo.
-Allora io mi fermo qui un paio di giorni e poi dovrei tornare da mio fratello per prendere le mie cose prima dell’inizio della scuola. E per quanto riguarda l’affitto io...-
-Ah no, no. Ferma lì. Non ce n’è bisogno.-
-Ma io non posso vivere qui e lasciare che voi paghiate tutte le spese.-
-Lasciami spiegare, questa casa era dei nostri genitori ma ora loro si sono trasferiti per stare più tranquilli così ci hanno lasciato questa casa.-
-Ma ci saranno pure delle spese... Non dirmi che ti regalano pure l’energia elettrica o che al supermercato le cassiere ti trovano così tanto irresistibile che pagano loro la tua spesa e allora ogni sera mangiate caviale e bevete champagne a sbaffo delle povere commesse...-
Scoppiò a ridere e si accasciò sullo schienale della sedia, stringendosi le braccia attorno alla pancia.
-Stupida! Non so ancora come faremo, mio fratello ha un lavoro e io pure. Per ora ce la caviamo. Per il futuro potremmo fare una specie di cassa comune o qualcosa del genere...- disse, appena riuscì a riprendere il controllo della voce
-Appena mi sarò sistemata mi cercherò anch’io un lavoro...-
Mi tolse la penna dalle mani e mi obbligò a guardarlo negli occhi.
-Non ce n’è bisogno, Joy. Davvero.-
Annuii e gli sorrisi.
I suoi occhi caddero sul foglio che avevo scarabocchiato. Lo prese fra le mani e lo studiò per un minuto interminabile.
-Mi piace. Sei davvero brava.- mi disse, posando il disegno sul tavolo di fronte a me.





Prima di tutto, grazie alle splendide persone che hanno deciso di seguirmi.
Mi avete proprio migliorato la giornata!
E secondo di tutto... Beh... Non so. Non c'è un secondo di tutto! :D
Volevo solo farvi sapere che accetto qualsiasi tipo di critica, anche negativa.
La mia orribile versione di latino mi sta chiamando quindi mi conviene andare. Ciaocciao!

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=873821