The Saint

di Annamirka
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 0 - Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 - Behind Countless Desires ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 - Sin and Sanctity ***



Capitolo 1
*** Capitolo 0 - Prologo ***


Il Santo

-Prologo-


 


 


 


 

Gli occhi si aprirono lentamente. La era stanza buia, immobile.

Tutto sembrava normale, ma... c'era qualcosa di strano.

Cosa era quella sensazione d'ansia che le attanagliava il cuore?


 

Si sollevò dal letto, cercando di adattare gli occhi all'oscurità. Vuota.

Rivolse uno sguardo all'altra metà del letto, carezzandola con un tocco gentile.

Il tessuto delle lenzuola si presentava caldo al tatto, non doveva essere passato molto tempo da quando il suo compagno aveva lasciato il suo posto accanto a lei.

Sospirò, rivolgendo poi lo sguardo verso la porta.

Con molta probabilità doveva essere andato a controllare il loro bambino che dormiva nella stanza adiacente, e presto avrebbe fatto ritorno, baciandole la fronte.

E con un sorriso si sarebbe rimesso a letto, stringendola a sé.

Sorrise, pensando a quanto si sentisse fortunata a possedere una famiglia come la sua.

Un marito meraviglioso ed un figlio che, dall'alto dei suoi quattro anni, faceva già l'ometto di casa, dichiarando baldanzoso che avrebbe protetto sua madre da ogni pericolo.


 

Sorrise ancora al ricordo degli occhi di suo figlio.

Quel grigio scuro e intenso dalla stessa tonalità tipica della sua famiglia, ed ardenti della stessa vitalità e determinazione di quelli del suo amato marito.

Una famiglia felice, calda, che viveva in pace e prosperità, dedicando la propria vita alla protezione del loro amato villaggio e di quella preziosa foresta sacra che ospitava e nutriva numerose creature.

Si sistemò una lunga ciocca di capelli neri dietro l'orecchio, tentando di rilassarsi nell'oscurità. Non capiva perché, ma il suo animo era terribilmente inquieto.

Il suo sesto senso continuava ad agitarsi nel suo cuore, a gridarle a gran voce

«Stai sbagliando, c'è qualcosa che devi fare assolutamente!»...

 

All'improvviso sgranò gli occhi allarmata.

 

Odore... di fumo?

 

Si sollevò dal letto, cercando di affinare i sensi.

Sì, non si era sbagliata. Si trattava senza dubbio di odore di fumo, ed era molto forte. Poteva udire anche uno scricchiolio sinistro... il rumore di fiamme vive che ardevano?

Come aveva fatto a non rendersene conto prima?

 

Il suo pensiero volò subito al suo bambino.

Doveva andare da lui, doveva accertarsi che stesse bene.

Corse verso la porta, dalla quale si sollevava una spessa coltre nera che penetrava nella stanza attraverso la fessura in basso.

La situazione sembrava più grave di quanto avesse pensato inizialmente.

Portò una mano alla maniglia, cercando nel contempo di coprirsi il volto, utilizzando la manica della lunga e sottile veste da notte estiva, e tossendo nel tentativo di riguadagnare aria nei polmoni.

 

«Non... non si apre!»

 

La porta non si apriva.

La spinse più volte, provando ad aiutarsi anche con il peso del suo corpo, ma era del tutto inutile. Per quanti tentativi compisse, la porta sembrava non volerne sapere di muoversi.

 

Con tutta probabilità doveva esserci qualcosa che ne bloccava l'apertura dall'esterno.

 

Il panico si impadronì del suo cuore.

Cosa aveva scaturito l'incendio?

Perché non c'era nessuno in casa?

Dov'era suo marito, e dove si trovava il suo bambino?

Stavano bene? Erano al sicuro?

 

Il pensiero le infuse nuova forza, con la quale si scagliò con tutto il peso contro la porta. La porta si scostò maggiormente, ma qualcosa continuava ad impedirne una apertura adeguata, abbastanza da permetterle di passarvi attraverso.

Per quanto le fosse possibile, infilò la testa attraverso la fessura, lanciando un'occhiata nella stanza adiacente, in quella che veniva utilizzata come zona comune della baracca di legno.

 

Il fuoco era alto lungo le pareti. Il soffitto era in fiamme, e la porta della stanza di suo figlio era chiusa, ma fortunatamente sembrava non essere ancora stata intaccata dal fuoco.

 

Doveva fare qualcosa, doveva assolutamente riuscire ad uscire da quella stanza!

Si guardò velocemente indietro, cercando qualcosa da utilizzare per schermarsi dal fumo che le avrebbe intralciato i movimenti.

In un angolo della capanna individuò il tessuto di superfibra che suo marito era solito utilizzare come protezione. Come mai era uscito senza portarlo con sé?

Doveva aver lasciato la stanza in tutta fretta...

Cosa mai era accaduto?

 

Raccolse tra le mani il tessuto di superfibra, sistemandoselo sulle spalle con diversi giri intorno alla bocca. Se avesse potuto bagnarla con qualcosa, la fibra speciale avrebbe filtrato l'aria, tenendo in questo modo lontano il fumo.

Ma in quella stanza non disponevano di acqua.

 

Il mio bambino… devo andare dal mio bambino.

 

«Ok.» Con uno sguardo determinato guardò la parete dall'altro lato della stanza. Appese con chiodi e ganci, vi erano diverse armi ornamentali.

Lance, spade ed asce antiche.

La maggior parte di esse erano molto vecchie, tramandate all'interno della famiglia come trofei o mementi funebri.

Fin da quando era bambina, non aveva mai visto brandire una di queste armi da qualcuno del suo villaggio.

In un villaggio pacifico e ospitale, dove tutti vivevano in sincronia ed armonia con la natura, le armi erano possedute e tramandate come monito per l'uomo: strumenti che avevano il potere di ferire un altro essere vivente o stroncarne la vita.

Erano il simbolo e il monito di qualcosa che poteva essere solo inconcepibile e inaccettabile per un popolo che viveva venerando la vita nel rispetto della natura.

 

Dopo un veloce giudizio decise di afferrare una delle lance d'arredo appese alla parete, e tornò velocemente alla porta.

Utilizzando la lancia come leva tentò di forzarla posizionandola attraverso la fessura e spingendo il manico con tutte le sue forze.

Doveva aprirla, doveva riuscire assolutamente ad aprire quella porta.

 

«Madre!»

 

La voce di suo figlio, accompagnata da un colpo di tosse, le giunse attraverso il crepitio del fuoco. Proveniva dall'altra parte della porta.

 

Per fortuna sta bene...

 

«Madre?! Madre, sei lì? C'è così tanto fumo... madre?»

 

Tirò un sospiro di sollievo, infilando nuovamente la testa attraverso la fessura della porta, per guardare suo figlio nella stanza accanto.

Dalla spalla del bambino tre topolini squittivano allarmati. Lanciò un'occhiata alla stanza. Il soffitto in fiamme aveva ceduto in più punti, e il centro della sala era pieno di piccoli focolai in cui pezzi di legname e paglia caduti dal tetto ardevano crepitando.

.Suo figlio non poteva stare lì. Rimanere sotto la porta era pericoloso.

 

«Non... non avvicinarti, tesoro. La mamma uscirà presto.» disse spingendo di nuovo la lancia con il peso del suo corpo.

 

La porta si spostava leggermente, per poi tornare indietro, vanificando qualsiasi progresso compiuto. Doveva fare qualcosa, la capanna non avrebbe retto ancora a lungo.

Sentiva suo figlio al di là della porta continuare a tossire, mentre cercava di rimanere coraggiosamente calmo in quella situazione pericolosa.

Con i topolini che gli correvano sulla spalla, il bambino aveva preso un ferro dal camino, e con tutta la forza nelle sue piccole manine stava cercando di spostare i pezzi di legno che ostruivano l'apertura della porta.

Un bambino davvero sveglio per avere solo quattro anni, e non lo pensava perché lei ne era la madre, ma sapeva che suo figlio possedeva un'intelligenza ed uno spirito d'adattamento davvero fuori dal comune.

Si era sempre chiesta quale grande persona sarebbe diventato una volta adulto.

Lo aveva sempre immaginato rispettato ed apprezzato dall'intero villaggio come suo padre, con molte fanciulle che avrebbero fatto a gara per attirarne l'attenzione.

Con quegli occhi grigi intensi, il portamento fiero del padre e l'eleganza ereditata dalla famiglia materna.

Gli abitanti del villaggio lo viziavano già con dolci e giocattoli ogni qual volta faceva loro gli occhi dolci. A quattro anni, quel bambino sembrava aver già compreso come rigirarsi un adulto sul mignolo della mano, e spesso era costretta ad andare a riprendere suo figlio dalle cucine, dove lo avrebbe trovato davanti ad una tazza di cioccolata calda fumante, con i topini che sgranocchiavano piccole molliche di pane o semi e le donne incaricate della cucina che lo guardavano adoranti.

Un sorriso o una canzone e quel bambino riusciva a comprare chiunque.

Quante volte aveva dovuto trascinarlo via dalle altre capanne sotto gli occhi divertiti delle sue 'ammiratrici', dicendogli che non doveva procurare fastidi alle persone!

Quattro anni e già così pieno di vita, così promettente.

 

Aveva solo quattro anni ma dai suoi occhi grigi traspariva una grande personalità, oltre a quell'abilità, quel potere posseduto da lei ed ereditato dalla sua famiglia, il potere di cantore.

Un giorno anche lui avrebbe messo la sua dolce e gentile voce al servizio della loro amata divinità, in una melodia di devozione, una melodia capace di donare pace ai sensi.

Quel vento capace di portare via le anime scorreva già fiero dentro di lui. Poteva sentire quella forza provenire da suo figlio.

 

Si fermò un attimo per riprendere fiato, sorridendo al suo bambino attraverso la porta, per tranquillizzarlo.

 

Ritornò nella posizione iniziale. Uno dei topolini, quello nero con il collo bianco, si stava arrampicando per la sua veste, squittendo una volta raggiunta la sua spalla.

 

«Sei qui per incoraggiarmi?» sorrise al piccolo roditore, accarezzandolo leggermente sotto il collo. Quei tre topolini avevano deciso di seguire suo figlio senza una apparente ragione, lo avevano sempre fatto.

Un giorno di primavera, qualche mese prima, lei e suo figlio si trovavano all'ombra di un albero di faggio, mentre insegnava al bambino le gioie del canto.

Suo figlio era disteso sull'erba, con gli occhi chiusi, e canticchiava distratto.

Lei lo guardava sorridendo, mentre attendeva che suo marito li raggiungesse. Lasciando vagare lo sguardo per la sua amata foresta, aveva notato un grosso topo bianco con diversi cuccioli dietro alcune rocce poco distanti da loro. In silenzio, aveva attirato l'attenzione di suo figlio scuotendolo leggermente con una mano, indicandogli i topini senza fare rumore per non spaventarli.

Ma il bambino aveva deciso ugualmente di avvicinarsi loro.

Appena resisi conto della sua presenza, mamma e cuccioli erano fuggiti via terrorizzati, ad eccezione di tre piccoli topolini.

Il bambino, soddisfatto, aveva allungato una mano per accarezzarli.

Un piccolo topino bianco si era avvicinato al suo dito per fiutarne l'odore, lo aveva guardato dritto negli occhi, e infine lo aveva morso, correndo velocemente a nascondersi, seguito a ruota dagli altri due.

Suo figlio aveva sbuffato indispettito e l'aveva raggiunta nuovamente, proclamando che non gli interessavano perché infondo non erano nemmeno carini, e infine si era disteso nuovamente accanto a lei, riprendendo a cantare ad occhi chiusi.

Dopo qualche secondo aveva guardato nuovamente suo figlio, si era resa conto che i tre topolini si trovavano sulla spalla del bambino, e ascoltavano rapiti il suo canto. Da quel momento non avevano più lasciato il suo fianco, e per quanto il bambino continuasse a dichiarare che non fossero suoi amici, e si fosse sempre rifiutato di dar loro un nome perché 'erano solo stupidi topi', ogni giorno dava loro da mangiare. Da allora non si erano mai più separati.

Sorrise al ricordo di quella giornata.

Erano passati pochi mesi eppure sembrava così lontana.

 

Si asciugò il sudore dalla fronte, per poi rinforzare la presa sul manico di legno, e premette nuovamente contro lancia.

Il legno della vecchia arma scricchiolava in modo inequivocabile, presto si sarebbe spezzata.

 

«Ma ci sono tanti tronchi pieni di fuoco, madre, come farai ad uscire?»

 

Eve sorrise alle parole del suo piccolo ometto.

Eccolo lì che si preoccupava per la sua mammina.

Sospirò, dandosi un nuovo slancio contro l'arma usata come leva.

Dopo un paio di tentativi, la lancia si spezzò completamente, mandandola quasi a schiantarsi contro la parete davanti a sé.

Sentì il bambino dall'altro lato della porta chiedere cosa fosse successo, ma lo rassicurò con un «Nulla amore, non preoccuparti.»

 

Si guardò le mani.

Stavano sanguinando.

Alcune schegge del legno spezzato si erano infilate nelle dita, ma non poteva lasciarsi vincere da questo, doveva continuare a tentare.

Si guardò intorno, e notò il topolino scendere già per la manica e correre verso la parete da cui aveva preso la lancia poco prima.

Stava agitando il musetto freneticamente, indicandole un'ascia.

 

Sì, un'ascia era perfetta.

Percorse la stanza, sorridendo al topolino come ringraziamento, e notando che una parte della parete di legno accanto alla porta aveva cominciato a prendere fuoco.

Doveva fare presto, non sapeva per quanto ancora la struttura di legno e paglia avesse potuto reggere all'azione del fuoco, e lei stessa iniziava già a sentirsi debole a causa del fumo.

 

Prese l'ascia dal muro, liberandola dai ganci che la tenevano ferma contro la parete, e tornò di nuovo alla porta seguita dal topolino.

I colpi di tosse che sentiva al di là della porta le indicavano che suo figlio era ancora lì, e i vari “oh issa” le segnalavano che era ancora intento a spostare i pezzi di legno.

Si affacciò nuovamente attraverso la fessura della porta, per trovare suo figlio che si manteneva un fazzolettino bagnato davanti alla bocca.

Davvero sorprendente per un bambino di quattro anni.

 

Lanciò uno sguardo al soffitto.

Vedeva la paglia e il legno del solaio ardere con maggior forza.

Presto! Doveva fare presto.

 

«Ascoltami bene, tesoro, adesso la mamma butterà giù la porta, quindi cerca di stare lontano. Ok?»

 

Lo sentì annuire e attraverso lo spiraglio della porta lo vide avvicinarsi ad un angolo della capanna lontano dalla porta.

Il fuoco era sempre più feroce, e nonostante il fazzoletto  a coprirgli il volto, suo figlio stava tossendo visibilmente ormai a limite.

I topolini facevano capolino dalle pieghe dei vestiti, per poi rituffarsi subito dopo. «Tesoro, esci fuori dalla capanna, la mamma ti raggiungerà presto.»

 

Il bambino la guardò con due occhi indignati, che la fecero quasi sorridere, e con un musone enorme le rispose «Scordatelo! Che uomo sarei se fuggissi lasciandoti qui?»

 

Sorrise a suo figlio, per poi fare qualche passo in dietro, e corse infine verso la porta con l'ascia alta tra le mani.

L'ascia si conficcò rumorosamente nella porta, creandole qualche difficoltà nel momento in cui cercò di estrarla.

 

Facendo pressione sul manico con le mani, sentì le piccole schegge di legno di poco prima conficcarsi ancora più in profondità nelle sue carni.

Il topolino squittì da sopra la sua spalla, come per volerla incoraggiare.

 

Respirando a denti stretti, staccò l'ascia dalla porta, aiutandosi facendo leva con un piede, e portò nuovamente l'ascia al di sopra della testa.

Fortunatamente il legno della porta era abbastanza vecchio e malandato, e si rompeva facilmente sotto i colpi poco fermi e insicuri della donna.

Era stanca, gli occhi le lacrimavano a causa del fumo e ogni qual volta impugnava il manico dell'ascia per sferrare un nuovo colpo, le mani diffondevano un brivido di dolore lungo tutto il corpo.

 

Ma doveva andare avanti, non poteva fermarsi lì, doveva assolutamente uscire da quella stanza.

Amava la vita, e non si sarebbe mai arresa se c'era ancora una possibilità di combattere.

Doveva farlo anche per il suo bambino che le infondeva coraggio dall'altro lato della porta.

 

Continuò a colpire la porta vicino alla cerniera. Se fosse riuscita a rompere quella zona della porta, questa sarebbe poi caduta da sola.

Ormai poteva vedere chiaramente suo figlio dall'altro lato della porta, il quale aveva preso una pala dal camino e si stava nuovamente avvicinando alla porta che la teneva prigioniera.

 

«Tesoro, va' via. Non puoi stare lì, è pericoloso. Devi correre fuori, piccolo! Hai capito?»

 

«No, io ti devo aiutare, madre.»

 

«No, allontanati di lì, ti prego!»

Un altro colpo di ascia contro la porta, mentre la tosse tornò nuovamente ad assalirla.

Si fermò un attimo, abbassando il capo mentre si toccava il collo con la mano, ma uno strano rumore le fece alzare nuovamente il capo di scatto.

 

La visuale davanti a lei era abbastanza libera da permetterle di comprendere con uno sguardo cosa era stato il rumore.

Altre travi della capanna avevano ceduto per via del fuoco, ed ancora più pezzi di legno ardente erano precipitati al suolo, andando ad aggiungersi a quelli che ostruivano la porta.

 

I topolini stavano squittendo allarmati, uno di loro cercava inutilmente di mordere il tessuto del pantalone del bambino per portarlo via.

 

«Voi, smettetela! Devo spostare questi pezzi di legno per far uscire la mamma, non vedete che sta crollando tutto?»

 

Suo figlio si trovava al centro della stanza, proprio al di sotto di quel soffitto pericolante, e cercava di spostare via la legna ardente da dietro la porta.

Non poteva restare lì, il soffitto stava bruciando, sarebbe potuto crollare tutto da un momento all'altro.

 

«Va via di là!»

 

 

Avvenne tutto in un attimo.

Udì uno scricchiolio ed un attimo dopo altre travi stavano cedendo dal soffitto.

Sgranò gli occhi, chiamando a gran voce il nome del bambino, mentre vedeva con i suoi stessi occhi le travi che precipitavano addosso a suo figlio.

Il piccolo finì a terra, una trave ardente gli bloccava la schiena.

I piccoli topolini corsero via impauriti, per poi tornare coraggiosamente indietro, e cominciare freneticamente a tirargli i vestiti con i piccoli dentini.

La donna chiamò più volte il nome di suo figlio, ma il bambino non rispondeva.

Per un attimo temette il peggio, ma si rese conto che il torace del piccolo si muoveva su e giù. Respirava ancora, aveva solo perso i sensi.

Tirò un sospiro di sollievo, mentre il cuore le martellava forte in petto.

Non poteva ancora rilassarsi, non con suo figlio schiacciato sotto una trave ardente, con altre travi in bilico sopra di lui, in procinto di crollare da un momento all'altro. No. Non doveva succedere questo, non poteva morire in quel modo.

Con una determinazione rinnovata dalla forza della sua disperazione, afferrò l'ascia, colpendo con tutte le sue forze l'ultimo pezzo della porta che aveva ormai iniziato ad andare a fuoco.

 

Il fuoco le lambiva le mani, bruciandole gli orli della veste, ma doveva continuare, doveva salvare suo figlio.

 

Dopo diversi colpi, il pezzo centrale della porta finalmente cedette, cadendo fragorosamente al pavimento e rivelando completamente alla vista la parte della capanna oltre la porta di legno.

Suo figlio si trovava sdraiato al centro della stanza, la piccola maglietta in fiamme, e una trave sulla schiena gli impediva di tirarsi su nonostante gli sforzi.

I topolini gli giravano intorno come impazziti, tentando di svegliarlo squittendogli accanto alle orecchie. Dopo diversi interminabili istanti lo vide muovere una mano, per poi aprire gli occhi.

Aveva ripreso i sensi.

 

Il bambino si guardò intorno, mettendo a fuoco il volto della madre, ed in un istante il panico scomparve dagli occhi grigi, lasciando spazio ad un sorriso rassicurante.

Nonostante il dolore, le stava sorridendo debolmente, allungando verso sua madre una manina annerita dalle fuliggini e sussurrandone il nome con un leggero movimento delle labbra, prima di perdere nuovamente i sensi.

Eve corse da suo figlio, graffiandosi le guance contro il legno scheggiato della porta e strappandosi le vesti semi bruciate mentre raggiungeva a piedi nudi il suo bambino.

Gli scostò di dosso la trave, non prestando ascolto alle mani che gridavano a gran voce avvertendola del dolore per le scheggi e le bruciature, e districò la superfibra dalle sue spalle, utilizzandola per spegnere le fiamme dalla maglietta di suo figlio e premendola davanti al naso e alla bocca del bambino per impedire che respirasse ulteriore fumo.

Sollevò infine il bambino tra le braccia, notando un leggero gemito scappare dalle labbra del piccolo, nel momento in cui le braccia gli avevano sfiorato la base della schiena, e si affrettò a correre fuori dalla capanna, seguiti dai topolini.

Gli occhi le lacrimavano, la gola bruciava secca e asciutta e il petto le doleva per i ripetuti colpi di tosse.

 

Ma erano fuori, erano salvi.

Si fermò a riprendere fiato, stringendo suo figlio al petto.

Si sentiva stremata, ma la sensazione del suo bambino stretto al petto la rincuorava come non mai.

 

Dopo alcuni attimi di respiro, si concesse finalmente di guardare lo spettacolo che si trovava davanti a lei.

Il cuore le balzò in gola e sembrava non volesse saperne più di tornare al proprio posto. Ma cosa…?

 

L'intero villaggio si trovava in fiamme allo stesso modo della sua capanna. Una grande quantità di persone, i suoi compagni di tribù, correvano alla rinfusa per le strade.

Amici, parenti, conoscenti, adulti, bambini, anziani, tutti correvano e gridavano, piangendo e domandandosi perché stesse accadendo tutto questo. Il vento che soffiava sinistro, era caldo, bollente, e portava con se la fuliggine e l'odore della distruzione. Un odore di morte.

Come era possibile?

 

Perché il loro meraviglioso e pacifico villaggio era divorato dalle fiamme?

Alzò gli occhi al cielo, stringendo suo figlio al petto.

Sembrava tutto così surreale.

Il cielo estivo avrebbe dovuto essere ricco di stelle, eppure non poteva scorgerne alcuna, così illuminato dal rosso cremisi delle fiamme e dal grigio e dal nero plumbeo del fumo. Tossì ancora, coprendosi il volto con una mano.

Perché stava succedendo tutto questo?

Eppure nessuno del suo villaggio avrebbe mai perso il controllo di un fuoco. Conoscevano troppo bene il fuoco e la natura perché potessero perderne il controllo fino a quel punto.

Guardò verso la foresta quasi per istinto, e quanto vide le strinse il cuore.

 

No...

 

La foresta era completamente immersa nelle fiamme.

Alte, altissime fiamme bruciavano fino al cielo, divorando gli alberi e le creature che aveva sempre amato e protetto con la sua tribù, che la loro divinità protettrice aveva sempre aiutato loro a difendere.

 

Che la Dea li avesse abbandonati?

No, non era possibile, la sua tribù aveva vissuto da sempre in quella foresta, proteggendo la natura e le forme di vita che la abitavano.

Qui nel villaggio di Mao erano tante le leggende che circondavano la grande dominatrice, colei che proteggeva questa terra da tempi immemori.

Nessuno aveva mai visto la sua vera forma, ma ciclicamente compariva davanti al suo popolo, invocata dai cantori. Anche lei era uno di questi.

Si trattava di una tradizione di famiglia, l'aveva ereditata da suo padre ed ora aveva riconosciuto il suo stesso potere in suo figlio.

Una voce capace di portare via le anime, come il vento che soffia lambendo leggero le terre preziose e rigogliose, i laghi che risplendono con i loro riflessi in lontananza, le montagne morbidamente ricoperte di nuvole e i corsi d'acqua che scorrono limpidi e tranquilli, pieni di vita.

La loro Dea proteggeva queste terre da sempre, insieme al suo popolo, il popolo della foresta, da cui era temuta e rispettata da quando i primi membri della tribù avevano calpestato per la prima volta quella terra.

Da sempre la Dea si sarebbe presentata loro per poter concludere la sua rinascita.

Una volta ogni dieci anni, in un continuo ciclo di morte e vita, il popolo della foresta avrebbe presentato alla Dea, con canti e riti, quel sostegno che avrebbe aiutato la dominatrice nella sua rinascita: il suo ospite, il 'Letto della Divinità'.

Un cervello di animale in cui avrebbe deposto le sue uova, una delle quali sarebbe poi divenuta la nuova regina.

La tribù si impegnava a proteggere il Letto della Divinità, sottraendolo ai pericoli fino al giorno della schiusa delle uova, quando sarebbe andato poi distrutto.

I cantori avrebbero cantato per lei, per venerarla e sedare la sua ira, ottenendone al contrario favore e protezione, così che a sua volta, Lei avrebbe protetto per loro quella foresta dove le sue uova avrebbero atteso la schiusa.

Era così da sempre, la potente e magnanima dominatrice non aveva mai fatto loro del male, prendendo possesso di un uomo o uccidendolo, scegliendo invece di utilizzare quell'ospite che veniva lei offerto.

Lei aveva sempre protetto quella terra, ricoperta da rigogliose distese di faggi, dove numerose creature vivevano protette e potevano trovare rifugio e sostentamento.

E dove da sempre il popolo di Mao viveva in sintonia con la natura.

Ed ora quella foresta, la loro foresta, la loro casa era in fiamme.

 

Eve si guardò intorno, alla ricerca di un viso famigliare. Dove si trovava suo marito?

Le sue sorelle? Si strinse maggiormente suo figlio al petto, il battito del cuore del bambino contro il suo riusciva ad infonderle quel coraggio per andare avanti, per non impazzire.

Doveva trovare qualcuno che le spiegasse cosa stesse accadendo, e sopratutto un modo per fermare l'incendio. Per fermare quella pazzia.

All'improvviso un'esplosione squarciò il silenzio delle fiamme, seguita subito dopo da un'altra, e un'altra ancora.

Da un remoto angolo del villaggio provenivano diverse esplosioni.

Vedeva i suoi compagni in lontananza, correre da quella direzione, e poco dopo accasciarsi a terra, immersi in una pozza di sangue.

 

Cosa era? Cosa era?

Cosa stava succedendo?

Non... non era stato un semplice incendio allora?!

 

Alcune donne corsero verso di lei. Tra di essere c'era la vecchia sciamana del villaggio.

La vecchia le corse incontro chiamandola per nome e prendendola per mano, trascinandola nella direzione inversa a quella da cui provenivano le esplosioni.

No, doveva trovare suo marito, le sue sorelle, non poteva fuggire lasciando indietro i suoi cari.

Strinse suo figlio ancora più forte a sé, mentre il piccolo mostrava i primi segni dei sensi che stavano tornando. I topolini erano nascosti tra le pieghe del suo pigiama.

Cosa avrebbe pensato questo bambino, vissuto tutta la vita in un ambiente caldo e accogliente, nella gioia e protezione della sua famiglia, di fronte ad una realtà tanto dura da accettare?

Esplosioni capaci di troncare una vita, sangue, fuoco, disperazione, erano sempre state lontane da questo villaggio.

E per quanto il suo bambino fosse intelligente al punto da essere in grado di comprendere il pericolo ed agire velocemente in una situazione, - come aveva dimostrato poco prima- il fatto che non conoscesse crudeltà e ingiustizia era un realtà.

 

Piccolo mio, cosa penserai quando ti renderai conto che la vita può essere anche questo...?

 

Strinse il figlio forte a sé.

Un senso di inquietudine, come una premonizione le attanagliò il cuore, ed una lacrima lasciò i suoi occhi, solcandole il viso e scivolandole giù lungo la guancia.

I giorni di quiete, quei giorni di pace erano finiti per sempre, si erano ormai tramutati in un passato che non avrebbe potuto fare ritorno mai più.

 

Già, ormai non è più possibile...

 

Il gruppo di donne correva verso una zona nascosta della foresta, dove, ai suoi confini, si trovavano le montagne occidentali che dividevano la verde distesa a Nord dal territorio occidentale, montagne che celavano numerose grotte.

Le montagne ad Ovest della foresta erano da sempre state occupate dal popolo della foresta come dimora, fin dai tempi più antichi.

Numerose grotte, scolpite e rimodellate dall'uomo, giacevano al di sotto della superficie, correndo nascoste lungo tutta la zona circostante, fino a raggiungere quella zona ad Ovest, abitata dagli uomini da cui si erano sempre tenuti a distanza, dove fino ad una decina di anni prima sorgeva una piccola cittadina chiamata Rose Street.

La tribù aveva sempre scelto di non avere contatti con quegli uomini che vivevano in modo così differente dal loro.

Nel giro di una decina d'anni, da quella piccola frazione di case si era espansa divenendo man mano nel tempo una grande città, che aveva iniziato ad allargarsi ancora di più, occupando e distruggendo lentamente i territori circostanti.

La prateria a Sud era stata occupata e trasformata in campi da coltivazione e allevamento; la zona ad Est, quella meravigliosa distesa di verde e di laghi, veniva disboscata sempre più per lasciare spazio a zone residenziali, intorno alle quali era sorto un muro d'acciaio speciale sempre più alto; e le stesse terre al Nord erano spesso soggette a dei barbari attacchi, dove uomini muniti di strani tubi lucidi e neri, vagavano uccidendo le piccole creature che abitavano le foreste, con un rombo secco che squarciava la pace e la quiete della foresta.

Lepri, conigli, volpi, ed anche uccelli. Per questo avevano sempre cercato di tenersi lontani da quegli uomini così differenti da loro.

 

Era proprio in prossimità di quelle grotte che aveva incontrato quell'uomo, diversi anni prima. Un uomo con un camice bianco.

 

Si era perso nella foresta, attraversando incautamente il dedalo di gallerie nascosto in quelle montagne. Nessuno di quegli uomini tanto diversi da loro si era mai spinto nel cuore della loro foresta, e incontrarne uno proprio lì, così vicino al tempio, era stata una grande sorpresa.

Le grotte lo avevano condotto nel cuore della foresta sacra, provenendo dall'altra parte, dalla zona ovest, o West Block come lo chiamavano loro.

Titubante, gli aveva infine parlato, ed aveva scoperto che era giunto proprio attraverso quelle grotte che collegavano la foresta alle terre ad ovest delle montagne.

Le aveva detto di essersi smarrito, vagando nella zona alla ricerca di risposte.

Quando gli aveva domandato di quali risposte fosse alla ricerca, seduti all'ombra di un faggio, con il vento che soffiava gentile tra i capelli, l'uomo l'aveva guardata con determinazione e le aveva risposto «Un modo per salvare questo mondo.»

 

Eve aveva sempre posseduto una speciale abilità, quella di leggere nel cuore delle persone, e in quel momento aveva letto del vero negli occhi di quell'uomo.

Quell'uomo, appartenente ad un mondo così distante dal suo, un mondo immerso solo nella corsa all'espansione e all'assoggettamento della natura, desiderava rimediare agli errori che i suoi simili avevano per lungo tempo compiuto.

Quella determinazione l'aveva convinta, ed infine gli aveva parlato del loro modo di vivere. Di come il popolo della foresta vivesse proteggendo da sempre quella terra.

L'uomo sarebbe tornato diverse volte a trovarla, parlandole di quel mondo così diverso dal suo, delle guerre che la sua gente aveva affrontato, degli errori irrimediabili che avevano portato alla distruzione di quanto la natura aveva messo loro a disposizione.

Per la prima volta Eve si era resa conto che la realtà in cui viveva non era l'unica possibile, che un mondo di pace e serenità è qualcosa che va conquistato giorno per giorno, non qualcosa che si può ottenere vivendo passivamente i propri giorni, aspettandosi che siano gli altri a prendere una decisione per te.

 

Quell'esperienza le aveva permesso di apprezzare maggiormente il valore di quanto possedeva: una foresta che amava, una famiglia che adorava ed un villaggio che rinnovava giorno dopo giorno la decisione di vivere in accordo e nel rispetto di quanto la natura offriva loro.

 

Il giovane ricercatore le chiese della loro Dea, che aveva ribattezzato Elyurias, della natura e del patto tra Lei ed il popolo di Mao.

Le chiese di poter ascoltare la sua canzone, o di spiegargli il significato dei bassorilievi che adornavano il Tempio della Dea.

Per diverso tempo lo aveva incontrato tra quegli alberi ai piedi delle montagne ad Ovest, ed ogni volta sarebbe andato via, facendo ritorno al suo mondo attraverso quelle grotte che lei non aveva mai varcato.

Da un giorno all'altro, tuttavia, le cose erano cambiate.

Le domande dell'uomo, spinte una volta solo dalla curiosità e dall'amore per la conoscenza, dal desiderio di cambiare e di migliorare, erano divenute lentamente qualcosa dettata dall'ossessione.

 

Era ossessionato da 'Elyurias', affermava che la Dea avrebbe potuto risolvere i problemi del suo mondo e dei suoi compagni, se solo avessero potuto capire la natura del suo potere.

I suoi occhi avevano perso la luce di cui brillavano al principio, quella luce che l'avevano convinta a fidarsi di lui.

Così gli aveva chiesto di non tornare mai più e di dimenticarsi di Elyurias.

 

«La Dea non è qualcosa del tuo mondo, e due mondi differenti non si possono mescolare, non dovranno mai farlo.»

 

Da allora non lo aveva più visto.

La città da cui proveniva si era allargata a dismisura, disboscando le foreste e continuando nella sua opera di inquinamento dell'aria e del suolo.

Aveva visto quel popolo sviluppare una tecnologia sempre più capace di influenzare la natura, sempre più disastrosa. Una tecnologia... capace di portare distruzione.

 

Forse questi attacchi sono davvero opera di quella città?

 

Si fermò.

Se era così, il loro obbiettivo doveva essere la Dea...

 

La vecchia sciamana si voltò a guardarla interrogativamente, mentre suo figlio, che stava guardando alle loro spalle nella speranza di veder sbucare suo padre, tirò in dietro la testa per guardarla in viso.

 

«Cosa c'è, madre?»

 

Eve guardò suo figlio, sorridendogli, poi spostò lo sguardo sulla vecchia, chiedendole con un espressione seria.

 

«Sei riuscita a vedere chiaramente chi stava attaccando? Erano di quella città, di No.6, non è così?»

 

L'anziana donna la guardò incerta per qualche secondo, poi scosse il capo, mordendosi le labbra.

 

«Eve-sama... in mezzo a quella confusione non sono riuscita a vedere nulla, è successo tutto così all'improvviso. Ero a letto anche io quando ho sentito la prima esplosione.

Le mie figlie mi hanno chiamata e siamo corse fuori dalla capanna.

 E quello che abbiamo visto era... c'era fuoco, fuoco dappertutto. E gli uomini, che avevano cercato di parlare, di convincerli pacificamente a risolvere qualunque fosse il motivo per cui ci stavano attaccando.... loro erano a terra, in una pozza di sangue...

c'era anche suo marito...»

 

La donna si fermò, guardando il bambino tra le braccia della donna dai lunghi capelli neri. Aveva quattro anni, ma dai suoi occhi spalancati e l'espressione consapevole, non aveva dubbi... il bambino aveva capito che suo padre non c'era più.

 

«Mi... mi dispiace...»

 

Eve seguì lo sguardo della vecchia signora, guardando suo figlio che cercava di trattenere le lacrime, tra le sue braccia.

Non stava piangendo, probabilmente non piangeva per non far soffrire lei...

Eve strinse suo figlio a sé, chiudendo un momento gli occhi.

 

È morto... morto.... non ci sei più...

Una lacrima le scese giù lungo il viso.

Non doveva piangere, non davanti al loro bambino, non quando lo stesso bambino stava facendo di tutto per trattenere le proprie.

Sentì una piccola mano toccargli il viso.

Era la manina di suo figlio che le asciugava le lacrime, mentre cercava di trattenere le proprie.

Lo posò a terra, cadendogli davanti in ginocchio ed abbracciandolo stretto.

 

Non c'era più, la loro famiglia non c'era più, era troppo tardi ormai...

Il bambino rimase per qualche secondo immobile tra le sue braccia, poi sentì due piccole manine posarsi sulle sue spalle, e venne spinta fino a trovarsi faccia a faccia con due occhi grigi.

Lo stesso grigio di quelli di suo marito.

 

«Madre, ti proteggerò io, non devi preoccuparti.»

 

Questo bambino stava facendo di tutto per darle la forza, e lei doveva essere forte a sua volta. Ormai erano soli, era l'unica che avrebbe potuto prendersi cura di lui.

 

Ricordò la sensazione che aveva provato poco prima.

Quella premonizione, quel sesto senso che le diceva che ormai era troppo tardi per tornare indietro.

L'istinto aveva sempre avuto ragione.

Era una dote da cantore, un istinto capace di prevenire pericoli, un dono della Dea per permettere loro di proteggere il letto della divinità.

Già, aveva dei doveri, come madre e come cantore, aveva il dovere di salvare suo figlio, e di preservare 'Elyurias'.

«Dobbiamo andare al tempio, dobbiamo mettere al sicuro il tesoro sacro, e il letto della divinità.»

 

Eve sollevò nuovamente suo figlio tra le braccia, e corse verso il tempio ai piedi delle montagne a Nord-Ovest, seguita dalla vecchia sciamana e le sue due figlie.

Il tempio della Dea, dove era custodito il letto della divinità e venivano praticati i riti della Sacra Rinascita, era ancora intatto, celato tra la folta vegetazione.

Il fuoco fortunatamente non aveva ancora raggiunto quella porzione di foresta, più fitta e celata rispetto al villaggio, ed anche le esplosioni si udivano sporadiche e lontane da quella zona.

L'anziana signora insieme alle donne salì le scale del tempio, spalancando le porte perché la giovane cantatrice riuscisse ad entrare con il figlio tra le braccia.

 

Al centro del tempio figurava l'enorme effige di una vespa, incastonata nella pavimentazione a mosaico, circondata da sei bracieri marmorei le cui fiamme non venivano mai spente, e numerosi segni ed incisioni erano intarsiati lungo ciascuna parete d'alabastro nella grande sala esagonale.

Opposto all'ingresso del tempio, preceduto da un'ampia scalinata bianca, sorgeva un grande altare marmoreo, completamente scolpito come le pareti, sul quale veniva custodito il letto della divinità durante il periodo della schiusa delle uova.

Seggi in pietra erano addossati alle pareti laterali, dove mosaici multicolore ritraenti soggetti naturali adornavano le alte finestre bifore.

La luce della luna che penetrava attraverso le finestre colorate, frammentandosi in tutte le direzioni, proiettava ombre maestose ed eteree sul grande mosaico, il simbolo della Dea, che dominava imponente il pavimento.

In questo scenario tranquillo e silenzioso, il ricordo degli atroci eventi e delle terribili visioni a cui avevano assistito i loro occhi stanchi, sembravano quasi memorie lontane, scherzi irreali delle loro menti disorientate.

 

Era passato tanto tempo dall'ultima volta in cui aveva cantato per la Dea in quel luogo sacro.

Probabilmente il rito si sarebbe tenuto in un anno o due, quando la loro divinità protettrice avrebbe cominciato a chiamare il cantore, comparendogli in sogno e allietandolo con la sua canzone.

Gli avrebbe fatto capire che il tempo era ormai al limite, che occorreva la preparazione per un nuovo letto della divinità perché potesse depositare nuove uova.

 

Tempo fa, quell'uomo proveniente dal mondo al di la delle montagne le aveva chiesto se fosse possibile avere quello che restava del letto della divinità, allo scopo di studiarlo e comprenderne la natura dell'essere che chiamava 'Elyurias'.

Eve ovviamente aveva rifiutato.

Sarebbe stato come consegnare la divinità stessa nelle mani di quel mondo senza amore per la natura, oltre le montagne.

Non poteva permetterlo, mai.

 

Salì le scale dell'altare.

Alla base del supporto per il letto della divinità giaceva uno scrigno di legno intarsiato, arricchito da numerosi disegni e simboli, e sulla sua sommità compariva uno stemma riportante la stessa effige rappresentata al centro della sala.

L'occhio della Dea, disegno di una vespa con al centro l'occhio della protezione, rappresentava la regalità della dominatrice.

 

Eve posò suo figlio per terra, e prese il forziere con le mani.

Al di sotto di esso era custodito il libro della conoscenza, il volume in cui erano tramandate le leggende riguardo la Dea, il patto con il popolo della foresta e la storia del loro villaggio.

Il popolo della foresta non aveva un capo, ma vivevano in una comunità dove tutti decidevano insieme: il compito di tramandare storie e tradizioni era affidato agli sciamani, che curavano e proteggevano la tribù con la benedizione della Dea e con l'aiuto dei cantori.

I cantori all'interno del villaggio erano un numero esiguo, solitamente uno o due per generazione. Si trattava di un titolo tramandato di generazione in generazione insieme a quel potere che permetteva di invocare la Dea e aiutarla nella sua rinascita.

Un cantore cantava per la Dea e possedeva, attraverso la sua voce, la facoltà di allietare l'animo di qualunque creatura., come un vento che portava via le anime e rubava i cuori.

 

Nemmeno nel libro della conoscenza era riportata notizia di chi fosse stato il primo cantore o di come il popolo della foresta fosse venuto in contatto con la Dea protettrice, ma una cosa si tramandava con fermezza.

Le scritture dicevano che mai più l'oggetto contenuto in quello scrigno avrebbe dovuto essere utilizzato, perché avrebbe condotto grandi sciagure al suo utilizzatore.

Solo un cuore deciso, dalla forte volontà e con un desiderio per cui avrebbe sacrificato qualunque cosa, sarebbe stato in grado di toccarne il contenuto, ma il suo utilizzo avrebbe attirato su di se la sventura.

Il ruolo dei cantori era impedire che sacrifici simili venissero compiuti nuovamente.

Ma non aveva scelta, non poteva permettere che quelle persone senza rispetto ed amore per la natura potessero mettere le mani sulla Dea.

 

Sollevò il piccolo scrigno tra le mani.

Poteva già sentire quella voce che la chiamava.

Sentiva la sua anima venire trascinata via da una forza dolce e calda, ma allo stesso modo potente ed intensa quanto una tempesta.

 

 

Solo un'anima forte, caratterizzata da un fortissimo desiderio poteva utilizzarne i suoi poteri a pieno”

 questo recitavano le scritture.

 

Non avrebbe dovuto farlo nessuno, mai più, questa sarebbe stata l'ultima volta.

Strinse forte le mani intorno alla scatola e fissò il libro, gli occhi che le pizzicavano per le lacrime che stava trattenendo. Lo aprì e strappò via le pagine che parlavano del rito.

 

Mai più, nessuno avrebbe mai più dovuto... dopo di lei.

 

 

S i girò verso la vecchia sciamana, alle cui braccia aveva affidato il suo bambino che la guardava con i suoi grandi occhioni grigi e curiosi.

Non aveva mai parlato a suo figlio della loro Dea, del ruolo di cantore.

Suo figlio le chiedeva spesso di cantare per lui, e non voleva che i loro momenti insieme divenissero semplici momenti d'insegnamento, ci sarebbe stato tempo in abbondanza per quello... aveva sempre pensato questo.

 

Si inginocchiò davanti al bambino, avvolgendo sulle spalle del piccolo il tessuto di superfibra appartenuto a suo marito, poi, con le mani sulle piccole spalle guardò il bambino negli occhi grigi pieni di domande.

 

«Tesoro mio, la mamma deve fare una cosa adesso. Ti prego, da bravo, va' con la vecchia sciamana. La mamma vi raggiungerà appena possibile, ok?»

 

Cercò di sorridere a suo figlio, tenendo a freno le lacrime che le stavano pizzicando terribilmente gli occhi.

Il bambino la guardò con i suoi occhioni curiosi, poi la sua espressione si fece determinata, ed afferrandole una lunga ciocca di capelli neri, allo stesso modo in cui aveva fatto per tante volte il suo amato marito, la guardò negli occhi.

«Madre, fa quello che devi fare, prometto che non darò fastidio e sarò buono.»

 

Eve guardò suo figlio per qualche interminabile istante, poi lo abbracciò forte.

Il bambino sussultò quando si sentì toccare la schiena.

Attraverso la parte inferiore della maglietta, bruciata e in pezzi, poteva vedere della carne annerita. Era un'ustione... suo figlio, avrebbe dovuto convivere con una simile ferita nel corpo... e anche nell'animo.

 

Lo strinse forte a sé, facendo attenzione a non fargli male, poi guardò l'anziana donna che le fece di sì con la testa in comprensione.

La giovane madre si separò infine dal bambino, e prese il libro tra le mani, passandolo all'anziana donna.

 

«Ti prego, tra qualche giorno, quando tutto questo sarà finito, torna a prendere il tesoro sacro. Non sapranno come usarlo ma mi sentirei più al sicuro sapendolo lontano da mani dalla crudele natura...»

 

Guardò la vecchia signora con uno sguardo determinato. La vecchia sciamana la guardò negli occhi ed annuì comprensiva.

Il bambino fissava entrambe con occhi attenti, gli occhi di qualcuno che sa esattamente cosa sta succedendo.

L'anziana donna le prese una mano, stringendola tra le sue, e la guardò con sguardo determinato.

 

«Come mi chiede lei, Eve-sama.»

Eve le sorrise leggermente, posando l'altra mano sul dorso di quella dell'anziana che stringeva la sua.

 

«Grazie.»

 

L 'anziana signora fece di sì con la testa, prendendo per mano il bambino. Le due giovani figlie della signora stavano piangendo.

 

«Madre, noi resteremo con Eve-sama a compiere il rito, vi raggiungeremo appena possibile.»

Abbracciarono a turno la vecchia donna, accarezzando poi la guancia del bambino a cui tante volte avevano regalato dolci e giocattoli quando gironzolava per il villaggio con i suoi occhi grigi, capaci già di stregare, e i topolini sempre al fianco.

 

«E tu fai il bravo, ok?»

Il ragazzino scosse la testa infastidito, e tornò a guardare la madre.

La luce nei suoi occhi era la stessa di quando aveva saputo della morte di suo padre.

Lui sapeva...

 

Eve strinse un pugno cercando di mostrarsi forte.

La figlia minore della vecchia sciamana le passò un foglio ed una vecchia penna, sorridendole mentre le suggeriva di scrivere due parole per suo figlio.

Eve sgranò gli occhi, poi fece un sospiro profondo e prese in mano carta e penna.

Suo figlio meritava di sapere chi era sua madre, quale fosse la sua storia... era intelligente ma i ricordi scompaiono, sbiadiscono...

 

Ciò che per te è importante, ciò che per te oggi è il mondo, non sarà altro che un lontano ricordo, un giorno...

 

La mamma che ha tanto amato in questi quattro anni, tra dieci sarà per lui una completa sconosciuta, un'ombra confusa in una memoria lontana.

 

Scrisse alcune parole nella carta, poi la ripiegò, consegnandola alla sciamana.

 

«Ti prego, fagliela avere quando sarà abbastanza grande per capire.»

 

In silenzio osservò la sagoma di un bambino e di un'anziana donna che svanivano lentamente oltre l'ingresso del tempio, avvolti nella luce dell'alba.

 

Si girò verso le due giovani donne, poco più che bambine, che la fissavano con le lacrime agli occhi, in pena per lei e per il destino che aveva colpito tutti.

 

«Ragazze... grazie....»

 

«Non possiamo permettere che si addossi tutta la responsabilità da sola, Eve-sama.»

Disse una delle due fanciulle stringendole la mano.

 

«Noi resteremo al suo fianco fino alla fine.» rispose la più giovane.

 

Eve sorrise alle due ragazze, pensando a come sarebbe stato suo figlio a quell'età, dove si sarebbe trovato e come avrebbe vissuto.

 

Perdonaci, non abbiamo saputo proteggerti...

 

Eve tirò un lungo sospiro, poi raccolse il piccolo forziere, ed avanzò al centro della stanza.

 

 

 

 

 

Diverse notti dopo, la vecchia signora fece ritorno al tempio. La scena che si trovò davanti era desolata, lo spettacolo più doloroso a cui avesse mai assistito. Più del villaggio in fiamme, più della visione dei suoi compagni, amici e conoscenti morire sotto i suoi occhi, sembrava che la visione del tempio distrutto avesse risvegliato in lei la consapevolezza di tutti gli eventi irreali che si erano susseguiti in quei giorni. Era tutto finito ormai.

Il villaggio di Mao, il popolo della foresta, i giorni sereni e pacifici vissuti proteggendo la foresta in nome della Dea.

Tutto finito.

 

 

Metà del tempio era in rovina, con numerosi massi e calcinacci sparsi per il pavimento.

La vegetazione intorno era stata completamente divorata dalle fiamme.

Di quegli alberi, sempre verdi e rigogliosi che dominavano la valle incontaminata circondando il tempio, erano rimasti solo scheletri spogli, tronchi anneriti dalla cenere e dalla fuliggine, là dove il fuoco non era riuscito a consumare la vegetazione ancora fresca e viva.

L'esercito era arrivato anche lì infine.

Perché? Chi erano quelle persone?

Si ricordò Eve-sama chiederle se aveva per caso riconosciuto nei loro aggressori gli abitanti di No.6.

 

No.6... la donna era abbastanza in là negli anni da aver assistito alla sua creazione, quando ancora i suoi abitanti occupavano quella piccola cittadina ad ovest delle montagne.

La vecchia Rose-street.

E per un gioco del destino, era proprio in quella Rose-street che era fuggita per cercare rifugio dalla furia di No.6.

 

 

Si domandò se avesse fatto bene a lasciare il bambino in quel sottoscala che aveva trovato, insieme ai topolini che il bambino aveva insistito per portare con sé.

D'ora in avanti sarebbe stato difficoltoso per lei provvedere al sostentamento del ragazzino e delle sue figlie, ma nonostante questo il bambino non aveva voluto separarsi da quei piccoli roditori.

La vecchia sospirò. Era una madre anche lei, ed anche le sue figlie erano state così vivaci alla sua età.

Le sue figlie,… dove si trovavano in quel momento?

Avrebbero dovuto raggiungerla non appena

Eve-sama avesse compiuto il rito.

Le aveva attese per mezza giornata al di là della grotta, ma quando il freddo e la fame avevano cominciato a farsi particolarmente duri, e l'ustione sulla schiena del bambino aveva cominciato a dare segni d'infezione, aveva dovuto trovare un riparo per lei e il piccolo. Per caso aveva trovato quella casa piena di libri, - o meglio erano stati quei tre topolini a trovarla, correndo e squittendo mentre portava il bambino febbricitante tra le braccia. Così l'avevano condotta in quella vecchia stanza piena di libri e polvere.

Non male per dei topi, ma diversamente per degli esseri umani, persone vissute per tutta la vita in mezzo alla natura.

 

Sospirò nuovamente, salendo infine l'ultimo gradino delle scale del tempio.

Probabilmente le sue figlie dovevano essere giunte dall'altra parte della grotta, ma non avendo trovato la loro madre, dovevano essere rimaste nei paraggi alla ricerca.

Era probabile che se le avesse attese al tempio, si sarebbero rincontrate prima o poi.

Certo, il bambino la stava aspettando con la febbre in quella stanza, ma i suoi topi sarebbero stati in grado di badare a lui per qualche ora.

 

 

La scena che si trovò davanti all'interno del tempio era agghiacciante.

Metà della volta era collassata sotto i colpi delle esplosioni.

I marmi, che un tempo ricoprivano tutte le pareti del tempio, erano ora disseminati sul pavimento, e in quei punti ancora attaccati alle pareti erano ormai illeggibili.

Delle grandi ed eleganti vetrate, dai sgargianti colori capaci di rapire chiunque fosse entrato nell'edificio sacro, erano rimasti solo gli scheletri, con i vetri frantumati sparsi al suolo e sulle panche di marmo ai loro piedi.

L'altare, distrutto in più punti, era completamente in disordine, e la teca in cui veniva riposto il letto della divinità era scomparsa.

 

 

Di Eve-sama nessuna traccia.

 

 

Nulla, non era rimasto nulla. Era davvero finito...

 

Eve-sama...perché è dovuto succedere tutto questo?

Oh Dea che proteggi tutti noi, che proteggi questa foresta, perché hai permesso tutto questo?

 

 

La donna si strinse una mano al cuore, e si avvicinò ad una delle panche di marmo ancora intatte. Si sentiva quasi svenire, aveva bisogno di sedersi, aveva bisogno di....

 

 

Sentì all'improvviso il proprio viso perdere tutto il suo calore, e un leggero tremolio si diffuse per il corpo. Per diverso tempo pensò di essersi dimenticata anche di respirare.

 

Ad un angolo della stanza, abbracciate, c'erano le sue due figlie, riverse in una pozza di sangue.

 

Si trovavano in un angolo, i loro visi erano contorti in una espressione di paura e dolore. Gli occhi ancora spalancati, le loro giovani bocche erano aperte, probabilmente in una supplica.

«Vi preghiamo, non uccideteci.»

Dovevano aver implorato quegli uomini, mentre questi puntavano loro contro le strane canne metalliche e le colpivano poi con quelle esplosioni. Le avevano uccise, ancora così giovani, non ancora in età da marito.

Erano rimaste indietro per permettere ad Eve-sama di completare il rito, perché quella maledetta città non si impadronisse della Dea.

 

Si inginocchiò davanti alle figlie, per guardarle meglio.

 

Poco più in là, abbandonato in mezzo alla pozza di sangue, giaceva qualcosa.

Sollevò l'oggetto tra le mani. Era lo scrigno. Il tesoro sacro.

 

 

Ti prego, tra qualche giorno, quando tutto questo sarà finito, torna a prendere il tesoro sacro. Non saprebbero come usarlo ma preferirei non lasciare comunque che lo trovino...”

Erano state le parole di Eve-sama poco prima che si separassero.

 

Il tesoro sacro, come era possibile che non lo avessero portato via? Probabilmente non lo avevano visto o non gli avevano dato peso, così riverso nel sangue.

 

Sorrise sinistramente.

 

Avete commesso un errore.

Vi pentirete di averlo lasciato qui. Con questo potrò sicuramente vendicarmi.

 

Sì, si sarebbe vendicata di quei bastardi usando lo stesso potere che avevano desiderato, spingendosi fino a questo punto.

Si guardò intorno.

Dove erano? Dove si trovavano le pagine che Eve-sama aveva strappato?

 

Le trovò ai piedi dell'altare, pezzetti di carta sparsi alla rinfusa sul pavimento. Li raccolse, mettendoli nello scrigno e dirigendosi infine fuori dal tempio.

Lo scrigno luccicava sinistramente nella luce dell'alba.

Sì, si sarebbe vendicata. Non importa quanti anni le sarebbero stati necessari.

Avrebbe aspettato in eterno se fosse necessario.

Avrebbe usato anche il bambino se fosse stato il caso.

Ma quella città doveva crollare, avrebbe trovato il modo, le fosse costata anche la vita, la sua e quella di chiunque altro nel tentativo.

 

Fine prologo.

 

 

 

 

Angolo dell’autrice


 


 

Grazie per la lettura. Innanzi tutto vorrei specificare che cercherò di seguire la novel più possibile, quindi se Sion sembrerà più 'scontroso' o Nezumi ancora più aggressivo sapete il perché. Alcune cose sono inventate, altre sono veramente informazioni contenute nella novel.

Ad esempio il nome Elyurias non è il vero nome della dea, né il popolo della foresta l’ha ha mai chiamata in quel modo, è un nome inventata dal vecchio fondatore della città (il tizio della grotta che ha cresciuto poi Nezumi).

Il personaggio di Eve l'ho inventato io, ma è facile capire perchè, anche la scelta del nome: le informazioni su Elyurias sono pressappoco tutte vere, il letto della divinità, i cantori, la sua rinascita ogni 10 anni, il fatto che protegge la foresta.

L'occhio della dea che ho tentato di descrivere era praticamente il simbolo dell'anime, quella vespa stilizzata, l'ho chiamato occhio perchè mi hanno fatto notare che assomiglia vagamente all'occhio di Horus, dunque mi sono ispirata al suo nome per battezzarlo. Siccome è un simbolo che dovrò nominare spesso, preferivo dargli un nome. Riguardo le grotte, dove vivevano i tipi, erano occupate fin da tempi antichi da una tribù indigena, lo dice nella novel, dunque ho tenuto ed utilizzato anche questo aspetto. Ed anche il fatto dei topolini di Nezumi discendenti di quella foresta è vero, ho solo inventato la storia del loro incontro.

 

Ultima cosa, la struttura della zona l'ho presa dalla novel:

· Nord – montagne

· Sud – prati

· Est - laghi

· Ovest - Rose Street (città originaria di Karan e Rikiga)

 

Ringrazio Onechan Evee Kitzune che mi ha fatto da Beta.


 

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 - Behind Countless Desires ***


N.d.A:Questa fanfiction è nata in seguito all'interrogativo "Cosa sarebbe successo se Safu non fosse mai stata rapita?" e di lì ho iniziato a svilupparne la trama, come una specie di gioco. Una cosa che mi sono divertita a fare è stato tagliare e ricucire pezzi di dialoghi o scene che avvengono dopo il rapimento di Safu, in modo da adattarli a questa storia. Premetto che ho in mente qualcosa di abbastanza lungo. Ho già tutta la trama.

La storia ha inizio dalla discussione tra Nezumi e Sion in cui Nezumi gli ordina di scegliere tra lui e No.6. Ho cercato di seguire in modo accurato la novel. Il pezzo in questione fa parte del 10 capitolo, (o 5o capitolo del 2o libro, se qualcuno fosse interessato alla lettura può trovare il link della traduzione della novel nel mio profilo) .

Riguardo la scelta di Sion/Shion, sono corretti entrambi ma uso Sion per abitudine mia, non vogliatemene.

Seguendo il canon della novel, vorrei fare presente che ci sono alcune differenze rispetto all'anime:

· Nezumi ha capelli più corti, anche se faccio io stessa fatica a descriverlo o immaginarlo. Ed anche il suo carattere è più aggressivo e pessimistico, potrei dire.

· L'aspetto di Sion è differente: la cicatrice non arriva fino alla guancia ma si ferma al collo, i suoi occhi sono lilla (colore del fiore Shion, ovvero l'Aster) e non rossi. Ha un carattere molto differente, e in certi versi più inquietante di quello della novel. Dunque non dovete meravigliarvi se capita che risponda a Nezumi per le rime o ci siano momenti in cui Nezumi ha paura di lui, perchè non è mia invenzione...

· Alcuni eventi che nell'anime sono avvenuti, qui non lo sono: l'anime ha invertito l'ordine di diverse scene, tra cui ad esempio la scena in cui ballano, o quando Inukashi fa attaccare Nezumi dai cani, o ancora la scena in cui Sion vede Eve [p-s- Eve penso di tenerla per esigenze di "copione", lo so che prima dico di volermi attenere alla novel poi cambio, ma mi serve XD]. Ho tolto tutto ciò che è post-rapimento di Safu. In realtà Inukashi propone il lavoro a Sion subito dopo la discussione da cui comincia questa fanfiction ma ho spostato anche quello. (Avevo bisogno di far rimanere Sion a casa a pensare, o non mi poteva partire la trama...).

· Riguardo Elyurias... molte informazioni sono reali, altre sono frutto della mia fantasia. Cantori e letto della divinità sono vere, si tratta di informazioni fornite nella novel tra il 6° (quando incontrano il vecchio) e il 9 volume (Informazioni contenute nel Chip). Mia invenzione sono: il tempio, il personaggio di Eve, il ruolo degli Sciamani e la natura di Elyurias (l'ho cambiata un po', ma non voglio anticipare nulla).

 

P.s. Ammetto di avere alcuni dubbi a proposito della prima parte di questo capitolo. Il capitolo è lungo e metà è costituito da pensieri di Sion riguardo la loro conversazione. Ciò nonostante è necessario per far partire il tutto, a mio parere. Spero non vi annoierete a leggerlo. Adoro Sion e a volte sono troppo prolissa con lui, me ne rendo conto...

Il titolo del capitolo, BEHIND COUNTLESS DESIRES, viene direttamente da uno dei capitoli della novel. Ho intenzione di utilizzare gli stessi, perchè è come se riscrivessi la storia a modo mio. (Non ho alcuna pretesa di essere all'altezza della Asano-sensei ovviamente, è solo un tentativo divertente il mio ><)

 

 

 

 

-Capitolo 1-

Behind Countless Desires

* * * * * * * * * * * *

 

La porta si chiuse con un rumore sordo, e la stanza rimase completamente avvolta nel silenzio. Sion sospirò, continuando a fissare la porta oltre la quale era da qualche attimo scomparsa la schiena di Nezumi.

 

Non ho ancora perso la speranza, Nezumi....

 

Si sedette sulla sedia, poggiando la testa contro lo schienale e chiudendo gli occhi. La discussione appena avuta con l'altro lo aveva mentalmente sfinito, e le parole di Nezumi continuavano a rimbombargli nelle orecchie e nel cuore.

 

Io o No.6. Quale delle due scegli?

 

Sapeva da sempre che quel momento sarebbe arrivato prima o poi, ma anche così faceva male. Perchè Nezumi non riusciva a credere in lui?

So che non diverrei mai tuo nemico. Mai. Non importa cosa accadrà, anche se dovesse costarmi la vita, resterei dalla tua parte. Sempre.

...solo belle parole, hai detto....?” Sospirò nuovamente.

Questa volta le parole dell'altro erano suonate incredibilmente serie ed amare. Nella voce dell'altro non aveva percepito alcun tono scherzoso mentre gli diceva che un giorno sarebbero diventati nemici... Nezumi lo pensava davvero.

 

"Perchè odi così tanto No.6....?"

Sapeva che restare fermo a rimuginarci su era inutile. Non avrebbe potuto ottenere risposta, se non dalle parole dello stesso Nezumi. Non era una conoscenza ottenibile attraverso un libro, una nozione acquisibile con lo studio. Si trattava di risposte che solo Nezumi avrebbe potuto fornirgli.

 

"La chiave della comprensione umana è racchiusa nei dati" questo era quello che si era sentito ripetere per tutta la vita all'interno di No.6.

Il corpo umano è composto da pressappoco 32,000 geni; approssimativamente 100,000 tipi di proteine; 300 milioni di sequenze base del DNA; neuroni; fibre di collagene; macrofagi; la struttura stratificata di un muscolo; la quantità totale del sangue in circolazione.

Conosceva bene tutto questo, eppure riteneva che nessuna di queste informazioni fosse utile per comprendere un uomo. Aveva sempre avuto la sensazione che l'animo umano fosse qualcosa di molto più complicato e complesso da poter essere ridotto a semplici numeri. Comprendere un essere umano era una dimensione interamente differente. Era qualcosa che Sion aveva imparato dai suoi giorni vissuti con Nezumi in questa terra.

Il DNA non avrebbe mai mostrato il cuore di una persona.

 

Aveva sempre provato un certo disagio verso alcuni degli insegnamenti che la Città Santa riteneva importante divenissero pensiero comune tra i suoi cittadini.

 

Diverse volte si era guardato intorno, chiedendosi se quello che era insegnato loro a credere, desiderare, sognare fosse giusto. Se la vita che trascorreva in No.6, -la stessa, identica vita uguale per ogni cittadino che conosceva,- fosse un modo di vivere autentico, reale. Si era sentito soffocare, per lungo tempo. Anche se non comprendeva il motivo di tale disagio, non riusciva a porre freno al suo animo che si agitava inquieto. In alcuni momenti poteva sentire una voce quasi sconosciuta urlare dentro di sé.

 

È tutta una facciata.
Qui, puoi ottenere tutto.
Ma puoi dire di stringere qualcosa di davvero tuo tra le mani?
Questa non è la vita che desideri.
Allora scappa.



Infrangila! Distruggila!
Distruggere cosa?
Tutto.

Tutto?

 

Un disagio che aveva compreso a pieno solo la notte del suo dodicesimo compleanno. Una notte in cui il vento batteva forte contro la sua finestra e il mondo all'esterno urlava in preda ad una frenesia pari a quella che si agitava nel suo cuore.

Quella notte, dalla sua finestra aperta, aveva lasciato entrare il vento ed uscire tutta la sua angoscia, la sua inquietudine, in un grido che non avrebbe mai dovuto raggiungere orecchio umano.

 

Eppure quel grido era stato ascoltato e, come il faro che guida la nave al sicuro nel porto durante la tempesta, il suo grido aveva guidato il cambiamento, perchè approdasse con sicurezza nella sua vita. La sua voce, attraverso il vento e la pioggia, aveva raggiunto la persona che avrebbe capovolto radicalmente la sua intera esistenza, e l'aveva invitata ad entrare attraverso quella finestra.

 

Un miracolo, lo aveva definito Nezumi.

 

In realtà lo era stato anche per lui.

 

Quella notte erano stati salvati entrambi.

 

Lui aveva salvato Nezumi dal freddo, dal sangue, da una morte umiliante ed insensata, da una ferita da arma da fuoco, sotto la pioggia gelida e scrosciante nel quartiere residenziale di Cronos.

 

E Nezumi aveva salvato Sion. Aveva salvato la sua anima, impedendogli di vivere solo a metà, in una vita falsa e artificiale. Nezumi gli aveva insegnato ad appropriarsi della sua anima, a non sottometterla a nessuno, a reclamarla come propria e tenerla stretta a sé, con le unghie e con i denti. Lo aveva messo davanti alla realtà, trascinandolo fuori da quella fittizia perfezione, dalla falsa utopia che lo teneva imprigionato come un uccellino in gabbia, e gli aveva mostrato la vera realtà nella sua durezza e nella sua crudele ironia. Aveva conosciuto la sofferenza e la fame. E il significato di combattere per la propria vita e i propri ideali.

 

Ma la realtà che gli era stata mostrata non era solo un mondo spietato e crudele. Oltre la sua crudeltà, aveva scoperto l'amore per la vita. Aveva scoperto di possedere delle emozioni, dei desideri, dei sogni. Una infinita gamma di emozioni che No.6 aveva celato alla sua vista, al suo udito.

 

Cosa desiderare. Cosa sperare. Cosa sognare. No.6 aveva l'esclusiva sulla loro anima. Diceva loro cosa desiderare di imparare, suggeriva loro quali dovessero essere le aspettative nella vita di ognuno, o le sicurezze a cui ogni cittadino doveva aggrapparsi per andare avanti. Fin da bambino, il cittadino doveva vivere in funzione della sua città.

L'esame a cui veniva sottoposto ogni bambino nei due anni di età era il primo passo con cui quella città si impossessava della vita del suo cittadino. Etichettandolo, schiavizzandolo, relegandolo tra una delle sue caste.

 

Nessuno faceva domande, nessuno si fermava a riflettere, o ponderare. Nella Città Santa, nella città utopica, il cittadino doveva essere felice - non poteva non essere felice, - il contrario non era ammesso.

 

Anche le persone in punto di morte erano libere dai dolori e dalla sofferenza della morte, e avevano la fortuna di morire con una espressione di serenità in volto. Qualunque cittadino sarebbe morto con un'espressione serena in volto, come se stesse facendo un sogno meraviglioso.

 

"Bastava cospargessi il suo viso con una sostanza chimica speciale e lo ricoprissi con questo apparato. E poi... avrebbe sorriso. Tutti lo facevano. Finivano tutti per sembrare come se stessero facendo un sogno meraviglioso."

 

Erano state le parole di Yamase-san, un attimo prima della sua morte...

 

No.6 sarebbe dovuta essere un utopia.

 

Eppure in un utopia, le persone dovrebbero essere felici. Ma la noia, il soffocamento, il senso di smarrimento... la perfezione di quell'ambiente gli aveva sempre messo addosso un senso di inquietudine...

 

"Siete stati tutti programmati a credere che questo ammasso fallato di menzogne sia una perfetta utopia."

 

Poi era arrivato Nezumi, ad aveva scoperto quale era la verità. Gli aveva detto apri gli occhi e guarda la realtà, ascoltala con le tue orecchie. E così aveva iniziato a vivere la sua vera vita, a stringere con le mani quella realtà, quell'individualità che No.6 gli aveva sempre negato. Aveva cominciato a scoprire il mondo esterno, così come la persona che si trovava dentro di lui. Nezumi gli aveva permesso di conoscere Sion.

Non conosceva ancora tutta la verità, aveva potuto graffiare solo la superficie della realtà del mondo, ma ormai non era più in grado di tornare al tempo in cui non sapeva nulla, al tempo in cui era ignorante e felice in quella vita fittizia. Non gli era possibile e non era nemmeno quello che desiderava.

 

Sion sospirò e si portò una mano sugli occhi. Ci stava pensando così tanto, che gli stava quasi venendo mal di testa.

 

Non credi che possa esserci una terza possibilità?


Terza possibilità? Stai solo cercando una via di fuga. Non hai idea di quante persone siano state sacrificate perché quella città potesse arrivare dove è ora. Non ne hai la minima idea ed è per questo che devi smetterla di tessere favolette in quel modo.

 

Aveva capito ormai che No.6 non era l'utopia che dicevano, anzi, lo aveva sempre saputo, così come gli aveva detto quattro anni fa, ma anche così non poteva arrendersi e lasciare che i cittadini morissero inutilmente, morissero in modo assurdo per quelle vespe parassite. Non poteva lasciare che le persone che amava, le persone con cui era cresciuto morissero senza fare nulla. Sapeva che quella città era falsa, che era No.6 la vera parassita, eppure non poteva arrendersi sui suoi cittadini.

 

Sion, quello che dici è assurdo. Ma quale 'terza possibilità? Quello che dici tu è impossibile da realizzare.

 


Tu dividi il mondo in dicotomie, Per te è tutto diviso in due... amore o odio. Amici o nemici. Fuori dalle mura, dentro le mura. E dici sempre che ne puoi scegliere uno solo. Invece di distruggere No.6, se la facessi scomparire?

 

Conciliare questo mondo, il vero mondo con le persone che si trovano dentro le mura. Sapeva che era qualcosa di difficile, e non era così sciocco da pensare che un cittadino comune, abituato ad una vita agiata e ad un senso di sicurezza falsamente costruito intorno a lui potesse accettare di adattarsi al mondo reale da un momento all'altro. Sapeva quanto era duro risvegliarsi da quel sogno perfetto, ma una volta avuto un assaggio di cosa significa toccare con mano la verità, possibile che un cittadino sceglierebbe di restare nella sua ignorante sicurezza?

Quando era stato buttato fuori da Cronos, aveva continuato a provare comunque un forte attaccamento all'ecologia, all'ambiente di apprendimento di primo livello, alla sua vita confortevole – ed abbastanza vergognosamente, persino agli encomi, alle parole di lode e incoraggiamento, agli sguardi di ammirazione di cui era al centro. Eppure nonostante questo, mai, in quei quattro anni di attesa, si era pentito di quello che aveva fatto quella notte. Diverse volte si era domandato cosa avrebbe fatto se avesse potuto far tornare il tempo a quel giorno, nel suo dodicesimo compleanno. Avrebbe chiamato la polizia? Avrebbe attivato il sistema d'allarme? La risposta era sempre 'no'. Anche se avesse avuto la possibilità di tornare a quella notte, avrebbe fatto la stessa cosa. Avrebbe accolto il vento e la pioggia, e quell'intruso che era arrivato con loro. Non aveva rimpianti su quello che aveva fatto. Se accettare Nezumi significava la sua stessa distruzione, allora avrebbe abbracciato la distruzione ancora e ancora. Da quella notte, altri uragani erano arrivati e passati. Ascoltando i mormorii eccitati delle foglie nel vento, Sion non provava alcun rimpianto, ma un senso di nostalgia. Un intenso desiderio di rivederlo nuovamente. Dopo la sua scomparsa il mattino seguente, non aveva saputo più nulla di lui. Se era vivo, se era riuscito a fuggire al sicuro, o se le autorità cittadine fossero riuscite a catturarlo. Per quattro anni non lo aveva saputo, domandandosi di lui, sospirando mentre guardava una tazza di cioccolata calda o fissava con nostalgia una fetta di torta alle ciliege, mentre guardava malinconico la pioggia fuori dalla finestra, sognando occhi grigi... fino al giorno in cui aveva rivisto quegli occhi grigi tra la folla, quando uno strano topolino si era arrampicato sulla sua spalla mentre camminava al fianco di Safu. A lungo aveva desiderato rivederlo, lo aveva desiderato così tanto da lanciarsi alla sua ricerca quasi in uno stato ipnotico, lasciando alla stazione quella sua cara amica che non avrebbe rivisto per due anni. Eppure non era riuscito a fermarsi, non era riuscito a trattenersi, si era ritrovato in balia dei suoi sentimenti, così intensi da fargli quasi paura, e aveva vagato - corso ansiosamente tra quelle strade dove persone e macchine camminavano insieme in modo uniforme, così ordinati, così perfetti, così fortemente in contrasto con il suo cuore che si agitava e batteva disordinato e frenetico nel suo petto in quel momento. A lungo aveva desiderato rivedere quegli occhi, con un'intensità così travolgente da dimenticare tutto il resto. Il disagio per aver perso il suo ruolo e il suo futuro, il rimpianto per quel corso di ecologia che tanto adorava, la tristezza per aver costretto sua madre ad abbandonare una vita di privilegi e comodità, e ritrovarsi a dover lavorare per mantenere entrambi. Era vero, sua madre aveva accettato gli eventi di quattro anni fa senza fargli domande, limitandosi ad abbracciarlo e rassicurarlo. Aveva risentito il calore di sua madre dopo tanto tempo, quel calore che sembrava quasi essersi intorpidito dalla loro vita in Cronos. Intorpidito, quasi come se la vita agitata a cui No.6 invitava i suoi cittadini ad ambire, fosse una vita capace di intorpidire le emozioni umane, il calore di una famiglia, i gesti d'affetto. Mai aveva sentito così forte la presenza di sua madre, come in quei quattro anni in cui avevano vissuto in Lost Town, lavorando ogni giorno duramente per guadagnare da vivere e per tenere unita la loro piccola famiglia. Era una sensazione meravigliosa, una sensazione che non avrebbe mai sostituito con i freddi privilegi di quella casa lussuosa in cui aveva vissuto per dieci anni. E credeva che anche gli altri cittadini avrebbero fatto la stessa scelta, una volta provato quel calore...


Queste sono solo belle parole, una fiaba irrealizzabile. Non è come mescolare dei colori, non puoi metterli insieme e crearne uno solo. Uno dei due dovrà distruggere l'altro, è l'unica soluzione. È quello che ha deciso il fato. Amore o odio, amici o nemici, quelli nelle mura e quelli fuori... ed io e te. Loro non potranno mai essere uno e nemmeno noi.

 

Le parole di Nezumi lo addoloravano, lo colpivano con un intensità ed una violenza da lasciarlo quasi senza respiro. Nezumi non diceva mai menzogne, diceva sempre quello che credeva davvero. E questa volta lo aveva detto con un tono che non ammetteva repliche. Non credeva che un cittadino di No.6 potesse scegliere la propria anima al torpore di quel falso confort e la falsa sicurezza in cui no.6 li teneva rinchiusi. Non conosceva bene i cuori delle persone, da poco aveva cominciato a capire come leggere il suo, ma almeno le persone che conosceva, le persone care che vivevano all'interno delle mura, era sicuro avrebbero compiuto la sua stessa scelta. Era convinto che i cuori delle persone, davanti ad un dilemma, avrebbero infine scelto la pace alla guerra, la musica e la letteratura alle armi, e l'amore all'odio. Non era una fantasia. Era la sua speranza.

Non lo saprai mai se non ci provi.

 

Voglio credere che ci sia una terza possibilità. Non mi importa se riderai di me, ma credo ancora che si possa realizzare.

 




Questa è la mia decisione.



Voglio trovare quella strada che non riesci ancora a vedere e potertela mostrare.



Sperava davvero di riuscire a trovare un modo. Un modo per permettere a chiunque di aprire gli occhi, un modo per dare ai cittadini del West Block una vita più dignitosa. Un modo per impedire a No.6 di continuare a fare del male a chi si trovava fuori così come alle persone che proclamava di proteggere. Aveva assolutamente bisogno di trovare un modo, per la gente che viveva nelle mura, quelli che lo avevano visto crescere, così come per le persone con cui era venuto a contatto e a cui si era affezionato in questi pochi mesi in cui aveva vissuto fuori dalla città. Le persone che aveva visto in questo luogo, l'intensità con cui vivevano e si aggrappavano alla vita lo avevano lasciato a bocca aperta. Si trattava di qualcosa che mai aveva visto all'interno della città, una passione che non poteva fare a meno di ammirare. Ed anche lui aveva iniziato a provarla dentro di sé. Anche lui aveva cominciato a comprendere cosa significa provare attaccamento alla vita, il sollievo che si prova nel momento in cui ci si rende conto di essere sopravvissuti ancora un giorno. Lo aveva provato in prima persona, il giorno in cui era quasi morto a causa della vespa parassita.
"Voglio vivere" aveva detto, forse per la prima volta nella sua vita.
Quando Safu gli aveva chiesto quali erano i suoi sogni, lui non aveva saputo risponderle, eppure alla domanda di Nezumi, se si fosse pentito di essere sopravvissuto, non aveva esitato un momento.

Voglio vivere.

Una breve, semplice frase, ma che aveva spalancato le porte di un intero mondo davanti a lui. Un nuovo mondo, sconosciuto e meraviglioso, - e terrificante al tempo stesso - che lo lasciava ogni giorno con una sensazione di trepidazione ed eccitamento. Una curiosità verso quello che avrebbe visto, scoperto, letto, ascoltato, imparato ogni nuovo giorno.
Tutto così diverso da quel mondo che gli veniva messo passivamente davanti agli occhi in No.6, ogni giorno tutto uguale, ogni giorno così costante.
Aveva scoperto un nuovo mondo, e ne scopriva uno intero ogni volta che spostava i suoi occhi. Aveva scoperto il cielo stellato sulla sua testa, qualcosa che mai in No.6 si era soffermato a guardare. Aveva scoperto quanto meraviglioso potesse essere un cielo azzurro, limpido e sereno. Aveva scoperto la bellezza della letteratura. Il modo in cui lo faceva viaggiare con la fantasia restando seduto in quella piccola stanza piena solo di libri e di topolini. I vari, infiniti mondi che quei libri impolverati gli avevano fatto esplorare, così tanti eppure ancora così pochi in confronto a quelli che poteva ancora scoprire. E soprattutto aveva scoperto le sue emozioni. Un intero mondo che si trovava all'interno del suo cuore, e che sembrava agitarsi o fluttuare leggero ogni volta che due occhi grigi si posavano sui suoi. Tutti questi mondi gli erano stati mostrati da Nezumi, anche se il mondo che avrebbe voluto conoscere maggiormente, quel mondo chiamato Nezumi, restava ancora un mistero. Il mistero più grande e più prezioso che desiderava poter scoprire un giorno.






Ora basta. Un idealistico teoreta da salotto come te dovrebbe starsene tutto il giorno seduto qui sopra. Ignorare il mondo esterno e rimuginare su questo e quello dentro la sua testa. ”



Eppure Nezumi non voleva saperne nulla di tutto questo. Non pensava fosse possibile unire i due mondi, né desiderava dare ai cittadini di No.6 la possibilità di uscire fuori dalla loro gabbia. Sia che non si rendesse conto che fossero anche loro vittime, o che le accusasse di essere responsabili per la loro stessa ignoranza, come spesso aveva fatto con Sion, restava il fatto che Nezumi odiava la città e i suoi cittadini al punto da volerli vedere distrutti. Distrutti e in preda al panico, con le vespe parassite come portavoci della sua ira e del suo odio. Perché quell'odio? Perché così tanto odio?
Sion non lo capiva, Nezumi era diverso da tutte le persone che aveva incontrato nel West Block. Gli altri si limitavano passivamente a continuare a cercare di sopravvivere, biasimando No.6 per i loro problemi o non curandosi dell'esistenza della città. Rikiga come Inukashi, in nessuno dei due aveva mai visto ribollire un odio così profondo come quello che bruciava negli occhi di Nezumi ogni qual volta nominava la città, guardando il suo profilo che risplendeva nel tramonto. Lo stesso odio che vedeva in quegli occhi grigi, nei momenti in cui fissavano lui riuscendo a vedere solo l'incarnazione della città. La volte in cui lo colpiva o aggrediva riversando su di lui tutto l'odio e la crudeltà che serbava nei confronti della città.
Io non ho alcun rancore nei tuoi confronti, né tantomeno ti odio.”aveva detto Nezumi, il giorno in cui gli aveva detto di non fidarsi affatto delle sue parole. Gli occhi di Nezumi non mostravano mai emozioni, - quattro anni fa come adesso i suoi occhi grigi erano sempre calmi e tranquilli come le acque di un mare in una giornata priva di vento. Gli aveva detto di non odiarlo, eppure a volte, mentre lo guardavano, quegli occhi grigi diventavano freddi al punto da immobilizzarlo. Non poteva fare a meno di rabbrividire. Si chiedeva se Nezumi sarebbe mai stato capace di guardarlo senza vedere in lui la città che tanto odiava, un giorno. Faceva male... molto male....



Ma non posso restarmene in silenzio.

 

Devo parlarti, ascoltare la tua storia e trovare un modo per continuare a vivere insieme.

 

Faceva male essere guardato con odio. Mai in No.6 era successo che qualcuno lo guardasse con ostilità, o gli parlasse con scherno o disprezzo. Tutti i cittadini erano educati e pacati, nessuno avrebbe mai alzato la voce o cercato di danneggiare un altro. Nezumi era stata la prima persona che aveva visto agire in modo differente. Lo aveva scagliato contro un muro ad una velocità impressionante, non era riuscito nemmeno a scorgerne i movimenti. Gli aveva parlato in tono arrogante o derisorio, aveva parlato con odio verso la città, definendola falsa e ipocrita. Lo aveva immobilizzato in una velocità impressionante, minacciandolo con un cucchiaino che sapeva di torta alla ciliegia... e solleticandogli l'orecchio con un filo d'alito, gli aveva detto in un sussurro che se si fosse trattato di un coltello, in quel momento sarebbe già morto. Una agilità impressionante, una potenza e una vitalità irradiata da un corpo eppure così debole, e quegli occhi grigi che lo avevano rapito dal primo momento in cui avevano incrociato i suoi... mai aveva incontrato qualcuno come Nezumi.

 

Non voglio più vivere così.. .tapparmi le orecchie, tenere la bocca chiusa, e chiudere gli occhi.

 

Quell'odio era doloroso, ma ancor di più lo era la consapevolezza che Nezumi non riuscisse a fidarsi di lui.

Aveva deciso di vivere nel West Block, perchè riteneva importante poter vivere nello stesso mondo in cui viveva l'altro.

"Voglio vedere quello che tu vedi, mangiare quello che tu mangi, e respirare la stessa aria che respiri. Voglio stringere con queste mani quello che non sono mai stato in grado di avere in No.6." Gli aveva detto, ma Nezumi non aveva fiducia nelle sue parole. “Io non mi fido di te. Non mi fido di nulla di quello che dici. Sei una persona che ha vissuto in un'abbondanza artificiale da quando è nato. E abbastanza arrogante da essere capace di dire di poter gettar via facilmente quella fortuna. Le parole non sono qualcosa da poter usare casualmente. Ma infondo una cosa simile tu non la puoi sapere. Ecco perché non ho intenzione di fidarmi di te.” Eppure sentiva il bisogno di continuare a vivere con lui.

Sentiva il bisogno di starli vicino, non perchè No.6 o qualcuno glie lo avesse imposto, ma perchè era il suo cuore a suggerirglielo. Non sapeva cosa significasse, non aveva idea di cosa fossero quei sentimenti, l'unica cosa di cui era sicuro, era la loro autenticità. Esistevano ed erano reali. Aveva bisogno di Nezumi, desiderava restargli accanto, e in cuor suo sperava di essere accettato dall'altro, almeno un po'...

ma sembrava così difficile...

 

Un attimo prima lo trattava con gentilezza, consigliandogli un libro, parlando normalmente, scherzando, accarezzandogli i capelli – e un attimo dopo lo guardava con odio, come se faticasse a stento a non conficcargli uno dei suoi pugnali in pieno petto... era confuso e faceva male.

Eppure non poteva rinunciare. Era per questo che voleva sapere la verità. Conoscere la causa di tanto astio, un odio che sembrava quasi logorarlo ogni momento.

Nezumi non doveva aver vissuto una vita facile. Non sapeva nulla di lui, se non che lo aveva salvato quattro anni prima da una ferita d'arma da fuoco; odiava profondamente No.6; era un VC in fuga; - fuggito dal dipartimento di Sicurezza mentre veniva scortato dal Penitenziario al Moon Drop per una ragione che non aveva voluto dirgli; viveva in una casa piena di polvere, topi e libri; e faceva l'attore per vivere. Erano le uniche informazioni che possedeva su di lui, eppure una cosa gli era chiara: la sua vita non era stata affatto semplice.

Era per questo che voleva sapere. Desiderava trovare un modo per porre fine a quella battaglia che lo stava logorando. Avrebbe voluto mostrargli una strada, dirgli che non aveva più bisogno di combattere, puoi vivere in pace adesso. Probabilmente era il suo più grande desiderio. Cancellare la rabbia e la tristezza da quegli occhi grigi che non mostravano mai emozioni...

 

Sion sorrise.

 

Se mi sentisse ora direbbe che sono un illuso senza speranza, oltre ad un poeta fallito...

 

 

Nezumi, sei stato tu ad insegnarmelo.

Allontana le mani dalle orecchie, mi hai detto, apri la bocca e ordina ai tuoi occhi di vedere.

 

Queste sono state le tue parole.

 

E ora mi stai dicendo di stare zitto? Mi dici di non voler ascoltare?




Voglio trovare il modo di realizzare tutto questo. Non so come, non so nemmeno da dove partire, ma io credo che nemmeno tu desideri davvero la morte dei cittadini di no.6... a modo tuo, sei stato in grado di accettarmi, perchè ti sei reso conto che non sono il robot perfettamente programmato che no.6 si aspettava fossi... sono sicuro che molti altri come me si trovano dentro quelle mura...
Ed anche chi non riesce ad ascoltare la voce del proprio cuore, troppo ottenebrato dalle certezze che no.6 ha forzato in loro, sono sicuro che anche queste persone riusciranno a capire un giorno. Comprenderanno che la città in cui vivono non è un utopia, ma una dittatura che rende schiavi i cuori e gli animi delle persone. Si renderanno conto che siamo tutti uguali, dentro le mura così come fuori. Impareranno a distinguere la vera realtà. Sentiranno l'esigenza di capire e chiedere scusa, perchè siamo tutti responsabili per non aver chiesto, per non aver indagato, per aver accettato passivamente tutto quello che ci veniva detto. Questi sono i nostri errori, e non possiamo rinnegarli. Il primo passo per rimediare ad un errore sta proprio nel riconoscerlo. Ed io penso e spero che un giorno anche i residenti del West Block riusciranno a perdonarci... Ignoro cosa ti abbia fatto no.6, ma spero che anche tu riuscirai a perdonarla un giorno. Riuscirai a perdonare tutti noi...
E che arrivi finalmente il giorno in cui riuscirai a guardarmi negli occhi mettendo da parte il tuo rancore. Io sono dalla tua parte, lo sarò sempre, qualunque cosa accada. Vorrei solo lo comprendessi e che mi permettessi di avvicinarmi a te, almeno un po'...







 

Sion si alzò in piedi, stiracchiandosi. Quella era la sua decisione, e non si sarebbe lasciato scoraggiare. Avrebbe combattuto la sua battaglia, anche se non sapeva ancora quale sarebbe stata. Ma un giorno, armato della sua determinazione, sperava sarebbe riuscito a cambiare le cose.

Sorrise, sentendo una nuova energia scorrere dentro di sé. Sì, avrebbe mostrato quella strada a Nezumi, dicendogli fieramente "Come ti ho detto, riesco a vedere cose che a te sfuggono", gli avrebbe sorriso dolcemente e gli avrebbe detto "ora sei libero di vivere la tua vita come desideri". Non vedeva l'ora di poterlo fare, di vedere l'espressione che avranno quegli occhi grigi in quel momento. Sarà sorpreso? Incredulo? Mostrerà apertamente la sua felicità per una volta? Sarà sollevato? Commosso? Si sentirà smarrito?

 

Si... qualunque cosa farai, io resterò dalla tua parte, e ti mostrerò quella strada.

 

"Oook... basta pensare, è il momento di darsi da fare con qualcosa, ho bisogno di sgranchirmi un po' i muscoli." Sion si guardò intorno. Le sue giornate nell'attesa del ritorno di Nezumi erano lunghe, e tra una lettura e l'altra aveva terminato di mettere a posto tutti i libri nella stanza. Cosa poteva fare per passare un po' il tempo? Avrebbe potuto dedicarsi alla lettura, ma dopo il tanto pensare sentiva il bisogno di tenere mente e corpo occupati. Non gli restava che darsi alle pulizie. Se solo potesse trovare un lavoro qui nel West Block. Ma Nezumi gli aveva riso in faccia quando gli aveva chiesto se pensava avrebbe potuto trovare un lavoro da qualche parte. "Un lavoro? Tu? Un bocchan che in vita sua non ha mai mosso un muscolo per lavorare?" Gli aveva detto.

Ormai era diventato uno dei tormentoni di Nezumi. Ogni qual volta gli diceva che desiderava poter fare qualcosa di utile o costruttivo, Nezumi gli avrebbe risposto che un signorino che non sa nulla del mondo non ne sarebbe stato in grado. Anche quando si era offerto di mettere a posto i libri nella sua casa, aveva ricevuto la stessa risposta. Nezumi aveva lasciato la stanza, e dopo qualche secondo era rientrato passandogli un paio di guanti da lavoro. Nezumi era anche quel genere di persona, gentile ed attenta ai dettagli... Tutto questo lo confondeva così tanto...

Sion si guardò in giro nella stanza, ammirando la sua opera. Qualche libro era già fuori posto o giaceva sparpagliatamente sul letto. D'altronde era naturale, per come ogni sera finivano per rimanere a leggere per diverso tempo nel piccolo letto che condividevano, prima di spegnere la luce della lanterna ed augurarsi la buona notte.

Si avvicinò al letto e raccolse i pochi tomi sparsi al di sopra. Lanciò una veloce occhiata e li sistemò nello scaffale, ricordando l'ordine in cui erano sistemati.

Il suo sguardo ricadde sulla cassetta del pronto soccorso. Una delle cose che era riuscito a disseppellire dalla montagna di libri, insieme ad una pentola ed una coperta. Non male come bottino della sua caccia al tesoro. Nezumi gli aveva ordinato di non toccare nient'altro che i libri, poichè avrebbe potuto trovare un tesoro per davvero, e nemmeno lui era consapevole di cosa giacesse per davvero al di sotto della montagna di carta e polvere.

Sion sorrise al ricordo delle sue parole. Ricordava ancora la sensazione che aveva provato alla vista di quella cassetta di pronto soccorso, un oggetto che aveva visto per l'ultima volta in una notte tempestosa di quattro anni prima. I rumori di quella notte erano ancora vividi dentro le sue orecchie come nel suo cuore. La notte della tempesta in cui Nezumi era piombato nella sua stanza e nella sua vita. Era una memoria che gli scaldava il cuore con una sensazione dolce e sconosciuta. Non aveva mai incontrato nient'altro al mondo capace di fargli provare sensazioni simili. Solo quegli occhi, quella voce, il ricordo del battito del suo cuore sotto la sua mano, o il calore di quel corpo tra le sue braccia. Erano memorie che serbava nel cuore come un tesoro.

 

Ancora sorridendo, si guardò intorno. La stanza era perfettamente pulita ed in ordine. Poteva immaginare di vederne risplendere alcuni punti. Sorrise leggermente, e stiracchiò il collo.

"Ok, cosa faccio adesso? Nezumi non tornerà ancora per un paio d'ore..."

 

le parole di Nezumi gli tornarono alla mente.

 

Ma limitati a libri e scaffali, non toccare nient'altro

 

"Non è che ci sia molto altro oltre a libri e scaffali qui dentro”

 

"Come hai detto, potresti trovare un tesoro fantastico. A dire il vero, nemmeno io so cosa ci sia sotto quei libri”




Davvero, chissà cosa ci sarà nascosto qui sotto... e chissà quando avrà iniziato a vivere qui dentro, con i suoi topolini..



Sion si abbassò, prendendo tra le mani il piccolo topolino bianco che gli stava gironzolando intorno ai piedi.
"Il tuo padrone ha sempre vissuto solo qui da solo? Come ha trovato questo posto.... ci sono tante cose che vorrei chiedergli...."

 

 

 

Senza una particolare ragione, si ritrovò davanti alla piccola stanza accanto al bagno. Non vi era più entrato da quella volta... la sera in cui aveva scoperto la cicatrice sulla sua pelle ed i suoi capelli bianchi. La notte della sua rinascita.

Fece un passo avanti, fermandosi all'ingresso. Si poggiò contro lo stipite della porta, nella stessa posizione in cui aveva trovato Nezumi quella sera, quando si era voltato, attatto dalla sua voce improvvisa. Entrare nuovamente in quella piccola stanza lo metteva un po' in soggezione. Era come la ricordava, buia ed oscura anche illuminata dalla luce della lampada ad olio, con le sue pareti di legno che sembravano assorbire tutta la luce e il calore. Aveva sentito che in montagna usavano costruire case internamente rivestite in legno per trattenere il calore. Come'è che le chiamavano? Eppure questa stanza dove pareti e parquet erano rivestiti in vecchie e marcie tavole di legno, riusciva a ispirargli solo freddo. Avanzò di un passo, mentre il naso venne colpito dal fetore di legno marcio e segatura. Il lavoro dei tarli doveva essere in uno stadio avanzato. Sperava non passassero ad intaccare il resto della libreria e i libri della stanza principale. Uno specchio era affisso alla parete proprio come nella sua memoria, insieme a numerosi oggetti dalle diverse forme e dimensioni.

La sera in cui aveva messo piede per la prima volta in quella stanza, non si era fermato a guardare con attenzione cosa contenesse, così agitato e confuso a causa della sua scoperta e con una mente concentrata a comprendere cosa fosse accaduto al suo corpo. Sion si guardò intorno. Le pareti della stanza erano piene dei più disparati oggetti. Alcuni di essi, era sicuro di non averli mai visti prima di allora, dal vivo come in qualche libro.
Attraversò la stanza a bocca aperta, entusiasta dalla visione di numerosi oggetti a lui sconosciuti. Raggiunse la parete, fermandosi in piedi davanti ad essa. Gli sembrava di essere in un museo, anche se personalmente non ne aveva mai visitato uno. No.6 non aveva mai coltivato l'interesse per l'arte o per la storia passata.



C'erano pugnali; attrezzi che dovevano essere serviti per lavorare la terra, ma dubitava le terre del west block fossero ancora coltivabili... c'erano vecchie pentole di rame, alcune dal fondo bruciato; ferri di cavallo; pale che sembravano attrezzi da camino ed altri oggetti di ferro o di legno.
Nell'angolo si trovava lo specchio che gli aveva presentato il conto della sua sopravvivenza nella battaglia per la vita contro la vespa parassita. Ricordava ancora i volti di quei bambini. Gli occhi terrorizzati mentre gridavano "Un serpente", indicandolo con manine tremanti, per poi riscendere la collina con una corsa su piedi incerti. Il ricordo di quelle voci era scolpito nella sua memoria e dubitava si sarebbe mai affievolito. Eppure nonostante quegli sguardi, nonostante qualcuno lo avesse guardato come se fosse stato un mostro o un deforme, anche così non provava rimpianto per essere sopravvissuto.
Anche così cambiato nell'aspetto, così diverso da chiedersi se sua madre sarebbe stata in grado di riconoscere il suo bambino, non poteva rinunciare all'amore per la vita. Assolutamente.
Era vero, questo aspetto gli creava problemi ed attirava sguardi indiscreti ovunque andasse, eppure riteneva fosse il simbolo della sua vittoria per la vita. Era convinto di doverlo indossare con fierezza, di avere il dovere di girare a testa alta sotto gli sguardi delle persone.
Sion si avvicinò allo specchio, posando una mano sulla sua immagine riflessa. Alla tenue luce della fiamma della candela, i suoi capelli bianchi rimandavano dei bagliori rossastri, così diversi e sconosciuti, rispetto a quei capelli castani a cui si era abituato per tutta la sua vita.
Eppure sono vivo... ho vinto.... Questi capelli e questa cicatrice non sono altro che medaglie al valore.

 

 

La voce di Nezumi si fece strada nelle sue orecchie. “A guardarli bene sono molto belli. E poi... un serpente rosso avvolto intorno al corpo... Piuttosto attraente, direi.” Al ricordo di quelle parole, Sion sentì le guance andargli al fuoco. Scosse la testa cercando di costringere il battito del suo cuore a decellerare, e cercando di scacciare il ricordo del dito di Nezumi che gli tracciava la cicatrice sul petto.

Si voltò di spalle, intenzionato a lasciare la stanza. "A quanto pare non c'è nulla che io possa fare nemmeno qui..."

 

Cominciò a camminare verso la porta, quando il suo piede inciampò contro qualcosa, finendo rovinosamente a terra.
Si massaggiò la testa al solo pensiero della botta che era stato sul punto di dare contro la parete, e si tirò a sedere a terra, lì dove si trovava.

Nezumi aveva ragione, se continuava a camminare con la testa tra le nuvole, prima o poi sarebbe finito per inciampare sull'aria stessa. Sorridendo, guardò a terra in direzione del presunto colpevole della sua caduta, aspettandosi di non trovare nulla, ma con sua sorpresa notò una trave di legno visibilmente rialzata. Non c'era da sorprendersi, visto il legno logoro e rovinato del parquet.

Baite, ecco come si chiamavano quelle case rivestite in legno. Lo aveva letto in un libro. Neve, montagne, baite e vette innevate. Sorrise. Era vero, da quando viveva in questa piccola stanza traboccante di libri aveva avuto occasione di conoscere e incontrare molte più terre, persone e realtà che avrebbe mai potuto incontrare in un intera vita di viaggi.

Questo era il potere dei libri, dell'abbandonarsi alla fantasia.

 

Tastò il legno colpevole della sua rovinosa caduta, e notò che la trave si muoveva in modo instabile. Nezumi probabilmente lo avrebbe preso in giro, dicendo qualcosa tipo "Non ti accontentavi di vivere alle mie spalle dando fondo alle mie finanze, dovevi distruggere anche il mio pregiatissimo parquet."




Ridacchiò divertito, posando le mani a terra per darsi una spinta per alzarsi, quando le parole di Nezumi gli tornarono alla mente.

 

Potresti trovare un tesoro fantastico. A dire il vero, nemmeno io so cosa ci sia esattamente lì sotto.”



 

Guardò la trave per qualche secondo, pensieroso. Su entrambi i lati consumati, una piccola fessura separava la trave dal resto del pavimento, molto più ampia della distanza che separava tutte le altre travi che componevano il parquet. Posò con cautela la mano ai lati della trave, provando ad infilare un dito in mezzo ai due pezzi di legno. Lo spazio non era abbastanza ampio per passarci le dita, ma un ferro di quelli appesi alla parete...

Si alzò in piedi, avvicinandosi alla parete, e delicatamente sollevò tra le mani la pala da camino, facendo attenzione a non far staccare il supporto che la teneva collegata alla parete – il pavimento era stato un incidente, ma far staccare un supporto di proposito, "Non ti bastava il parquet, dovevi anche sconvolgere i complementi d'arredo che avevo appeso con tanta cura!". Sion sorrise alle parole di Nezumi nella sua testa, e tornò alla trave reggendo il ferro tra le mani. Non sapeva perchè ma nel suo animo provava eccitazione, come un bambino che sta per fare qualcosa di nascosto da un genitore. Sembrava come una di quelle botole segrete in cui i pirati nascondono i loro tesori, come aveva letto in quel libro. Eheh, se lo avesse visto Nezumi in quel momento gli avrebbe dato del pazzo. Ma non poteva evitarlo, quella sensazione così nuova, la scoperta di qualcosa di sconosciuto... sembrava non ne avrebbe avuto mai abbastanza.

Si accovacciò davanti alla trave sospetta. Era più logorata delle altre, e sembrava incastrata in uno strano modo, quasi fosse stata rimossa con oggetti trovati a caso e reincastrata in un secondo momento. Gli angoli erano scheggiati e mal tagliati, al contrario delle restanti tavole che, più o meno ugualmente marce, presentavano contorni più lisci e netti. Infilò con attenzione il manico di ferro nella fessura tra una trave e l'altra, e usando le sue mani come perno, abbassò lentamente il manico, che come una leva sollevò la trave scricchiolante. Gli occhi di Sion si riempirono di meraviglia. Era incredibile, al di sotto della trave si trovava davvero una piccola botola, grande almeno trenta centimetri. Sembrava scavata nel tufo al di sotto, probabilmente con gli stessi attrezzi della stanza. Chissà, forse era stato lo stesso Nezumi a scavarla. Forse era la sua cassaforte, o ci aveva nascosto qualcosa di segreto o importante.

Eccitazione e trepidazione gli riempivano il cuore. Lo sentiva battere all'impazzata. Era questa la sensazione che provava uno scienziato davanti alla scoperta di una ricerca di una vita? O la gioia provata da un paleontologo davanti all'inaspettata apparizione di uno scheletro di dinosauro sotto la sabbia nei suoi scavi? O un astronomo che scopre una stella in una costellazione lontana? Qualcosa di inaspettato, ma che potrebbe rivelare qualcosa di ampiamente desiderato.

Forse non avrebbe contenuto nulla. O poteva trattarsi di qualcosa appartenuto all'originale proprietario del magazzino, risalente a quando quella "era una città decente", come l'aveva chiamata Nezumi. Eppure anche se si fosse rivelata qualcosa di poco importante, come la capsula del tempo di un bambino, o un semplice buco nel pavimento ricoperto velocemente con una copertura improvvisata, non gli sarebbe importato. Avrebbe fatto tesoro delle sensazioni che provava nel suo cuore in quel momento. Perchè erano sue, appartenevano al suo cuore e nessuno lo aveva costretto a provarle.

 

Sorrise ancora contento, e depositò a terra il ferro, che picchiò il legno ammuffito con un sordo "tump". Con entrambe le mani libere, si preparò a prendere in mano ciò che si trovava nella botola. Qualunque cosa vi fosse, era ricoperta da un cellofan di plastica, che ostruiva l'intera visuale di quello che si trovava al di sotto. Probabilmente era stato messo per evitare che polvere o eventuali termiti potessero rovinare il suo contenuto.

 

Chissà cosa ci sarà dentro?



 

Le sue dita si chiusero intorno ad un oggetto di larga superficie e piccolo spessore. Il cellofan lo ricopriva in più strati interamente, impedendogli la visione dell'ogetto. Non riusciva a capire di cosa si trattasse.

 

Un libro? Possibile?



 

Lo posò delicatamente a terra, avendo cura di non sbatterlo troppo. Non sapeva in che condizioni si trovasse l'oggetto all'interno del cellofan, né se si trattasse di qualcosa che rischiava di rompersi con un minimo movimento. Da ciò che sapeva, avrebbe potuto anche esplodere all'improvviso.

 

Nezumi, stavi costruendo una bomba per far saltare in aria No.6 per caso?



 

Terminata l'operazione di depositare a terra l'oggetto, passò a rimuovere il cellofan. Voleva evitare di rompere la plastica. Se era davvero qualcosa nascosta da Nezumi, sarebbe stato meglio non fargli scoprire che ne conosceva l'esistenza. Individuata l'apertura, aprì delicatamente i lembi della plastica. Sì, era proprio un libro.

Un grosso libro dalla copertina in pelle nera si trovava in questo momento poggiato sulle sue gambe incrociate al pavimento. Era grosso, pesante, e aveva l'aria di essere abbastanza vecchio e datato. Sulla sua copertina svettava in bassorilievo uno strano segno che non aveva mai visto. Sembrava un insetto, come un'ape o una vespa stilizzata, con sei zampe, due ali, due antenne, ed una sfera nella parte superiore del corpo che gli ricordava tanto un enorme occhio che guarda severo ed inquisitore... un brivido gli attraversò il corpo al ricordo della vespa parassita. Non sapeva perchè ma sentiva di avere tra le mani qualcosa di importante. Qualcosa che avrebbe potuto cambiare le sorti della sua battaglia...

Allentò la presa delle sue mani, che stringevano il libro talmente forte da far diventare bianche le sue nocche, e dopo aver tirato un lungo respiro aprì la prima pagina.

 

 

In questo libro è narrata la nostra storia. La storia del Popolo della Foresta.

Il Popolo della Foresta vive da sempre nella Foresta Sacra, proteggendola e rispettando le sue creature. L'armonia e il rispetto della natura è l'unica e principale legge che ci unisce.

Preservare la Foresta Sacra, Madre della vita degli uomini e di tutte le creature che la abitano, è un compito e privilegio che possediamo da sempre.

Compito del nostro popolo, inoltre, è servire ed aiutare la nostra Dea, la Madre della Natura che ci protegge e ci guida, permettendoci di vivere in pace ed in armonia grazie ai doni che questa vita ci offre.

 

Il Mondo, la Natura, la Luna, le Acque, le Montagne, gli Alberi, l'Aria, le Creature. Fanno tutte parte di un unico Organismo.

 

Uno è tutto, tutto è uno.

 

Siamo tutti parte di un unico Organismo, e come tale, lo proteggiamo e rispettiamo, vivendo in armonia con esso.

E seguendone le sue regole.

Il Popolo della Foresta, il Popolo di Mao, fin dalla notte dei tempi serve la nostra Divinità, aiutandola, onorandola e cantando inni per Lei, che ci fa dono di questa foresta prospera e rigogliosa.

 

Coloro che possono parlare con Lei, porgerle omaggio, compiacere e placare la sua ira sono coloro che hanno ricevuto in dono il Vento Sacro. Una Sacra Voce, che con la sua forza, la sua purezza, riesce ad allietare l'animo di qualunque essere esistente sulla Sacra Terra in cui camminiamo.

 

Coloro che hanno ricevuto il dono, i 'Cantori', sono rispettati e riveriti quali Sacerdoti e Praticanti della nostra Dea, della 'Dominatrice'. Si tratta di un dono innato, passato di generazione in generazione a solo pochi eletti, che assumeranno il sacro ruolo di Cantori della Divinità Madre.

 

I Cantori possiedono il compito di ricevere l'arrivo della Dea, accogliendola con la brezza dei loro Canti, ed offrendole il conforto e il piacere della loro voce.

Le parlano delle meraviglie che ci offre, dello splendore delle terre che protegge e delle creature a cui permette la vita.

 

I sacri Cantori, le offrono in fine lo strumento per permettere la rinascita della sacra Dea. L'ospite in cui deporrà le nuove Uova di Vita.




 

"... Ospite?...uova... di vita? Aspetta un attimo, non dirmi che..."

 

La sua nuova venuta si ripeterà ciclicamente ogni due lustri.

 

Per permettere alla Regina la rinascita in questo mondo, un sacro rituale sarà allestito durante una notte di luna nuova.

Il rituale si svolge ad un anno dalla notte in cui la divinità avrà cominciato ad annunciare ai suoi figli - i cui cuori sono uniti dal suo vento sacro- il suo ritorno, attraverso i sogni.

 

Gli inni dei sacri Cantori saranno accompagnati dagli Sciamani, che offriranno alla Dominatrice il 'Letto della Divinità', l'Ospite scelto in cui la Regina porrà le basi per il suo nuovo Essere.




 

"Ospite e uova... il simbolo a forma di vespa sulla copertina.... possibile che...? Le vespe parassite? ...Nezumi, cosa è veramente questo libro?!"

 

Il Letto della Divinità sarà preparato e custodito nel Tempio dagli Sciamani Protettori, coloro che sono secondi solo ai Cantori, onorati e rispettati dal villaggio come nostri Fratelli e Protettori. Gli Sciamani sono coloro che confezionano il Letto della Divinità, raccogliendo le sventurate Creature della Sacra Foresta morte per caso, e preservando la sede materiale del loro intelletto, come Ospite per le sacre Uova di Vita.

Con rituali e infusi preservano i cervelli delle nostre sorelle creature morte sventuratamente, fornendo così il Letto dove la nostra Dea deporrà le sue Uova, come un'ape regina da la vita al suo alveare.




 

"Avevo ragione ma... cosa sarebbe questo letto della divinità? Un cervello di animale? Quindi... non ha sempre deposto le uova negli esseri umani...? ma allora..."

 

La nostra potente Dominatrice, colei che sola potrebbe sterminare questo Mondo, ha accettato di proteggerci e permetterci di vivere in questa Foresta rigogliosa insieme alle Creature che la abitano.

Lei la protegge, la riempie di vita e rigore, così come riempie di vitalità le creature e di gioia i cuori di chi ascolta i canti divini, il vento che ha donato ai suoi figli più cari.

 

Lei protegge questa terra, così come noi ci impegniamo a tenere al sicuro e lontano dai pericoli il Letto della Divinità dove sono state deposte le sacre uova.

 

Questo libro, è il libro che racconta il Popolo e la Terra Sacra da esso protetta.

 

Gli annuali del Popolo della Foresta, gli abitanti del Villaggio di Mao.

 

Anno 1351......

 




 

Improvvisamente sentì un rumore. Era il rumore di chiavi girate nel chiavistello. Che ora erano?

 

Possibile che Nezumi sia già tornato?



 

Sion fissò il libro tra le mani.

 

No... meglio che non lo veda ora... probabilmente lui...
ma... conoscerà l'esistenza di questo libro? Sapeva di questa dominatrice? E delle vespe parassite?
Nezumi, perchè possiedi questo libro?



 

Velocemente lo ripose nel suo nascondiglio e si affrettò a lasciare la stanza.

 

Cosa sai di questa storia in realtà...?



 

Trovò Nezumi intento a togliersi il giubbotto. Il "Tadaima" poco entusiasta gli riportò alla mente il modo poco amichevole con cui si erano lasciati all'uscita di Nezumi. Non voleva ripensare a quella storia, non ora che forse aveva trovato una chiave...

 

"Okaeri" Gli disse, avvicinandosi a Nezumi che si sedeva stancamente sulla sedia. Doveva essere stata una giornata stancante, anche se non lo dava a vedere in viso, lo capiva dai movimenti un po' rigidi e dalla postura del ragazzo. Sembrava davvero stanco.

Sion sentì una fitta di dolore al petto. Nezumi si stancava ogni giorno per lavorare, per dare da mangiare anche a lui, che era rimasto per oltre tre mesi a casa sua, senza aiutarlo in nulla. Un parassita che viveva gravando sulle sue spalle, un peso inutile e fastidioso che non faceva che procurargli grattacapi. Avrebbe voluto fare qualcosa per sdebitarsi. Nezumi lo aveva salvato, aiutato, accolto in casa sua, ma lui non era capace di far nulla.

Nulla.

Sion si avvicinò al ragazzo che poggiava la testa contro la spalliera della sedia, con gli occhi chiusi e il torace che saliva su e giù in modo armonioso. "Nezumi, ti senti bene?"

L'unica risposta che ricevette fu uno sguardo che sembrò fulminarlo, nascosto subito dopo dalle palpebre che si richiudevano nuovamente. L'intero corpo di Nezumi sembrava gridargli 'non azzardarti nemmeno a fiatare'. Se fosse stato nello stesso stato d'animo in cui si trovava durante la discussione di poche ore prima, Sion avrebbe ignorato la minaccia in quello sguardo, finendo sicuramente in una nuova litigata. Ma la nuova risoluzione che aveva trovato, e gli eventi di quella sera gli avevano infuso nuova sicurezza. Era ok lasciar perdere per il momento. Nezumi sembrava molto stanco, e non poteva ignorare una cosa simile, sapendo bene che era anche colpa sua. Se Nezumi gli stava chiedendo di farsi piccolo piccolo, e non fargli avvertire nemmeno la sua presenza, allora era quello che avrebbe fatto.

 

Si avvicinò al tavolo, dove il ragazzo appena rincasato aveva posato il pacchetto con le verdure che sarebbero diventate la loro cena, e lo scartò cercando di fare il meno rumore possibile. Preparare la cena per entrambi era il minimo che poteva fare, l'unica cosa per ripagarlo della sua gentilezza.

 

Mi hai salvato e accolto in casa tua senza chiedermi nulla. È vero, mi ripeti spesso quanto io sia inutile e ti crei fastidi, ma non hai cercato di mandarmi via, nemmeno una volta. Hai detto di avermi salvato per ripagare il tuo debito, ma ormai lo hai fatto così ampiamente, mi hai dato già così tanto... più di quanto tu possa immaginare, Nezumi.



 

Raccolse le verdure, le posò sul tavolo ed andò a recuperare la pentola che svettava in cima alla stufa a combustibile naturale.

L'odore emesso dalla stufa ad RDF gli ricordava Lost Town, le cui strade erano impregnate costantemente dal suo odore. Gli ricordava il piccolo forno dove viveva con sua madre Karan, così differente da quella lussuosa e confortevole casa in cui avevano vissuto in Cronos. Una casa dagli innumerevoli confort, dove era possibile ottenere qualsiasi bene di consumo o di lusso con estrema facilità e in qualunque momento dell'anno, equipaggiata col più sofisticato e all'avanguardia impianto fotovoltaico, capace di provvedere al fabisogno energetico e termico. Eppure in quel calore artificiale non aveva mai avvertito il senso di calore domestico che aveva provato invece in un piccolo forno situato in un angolo di Lost Town, in una piccola casa composta solo da una zona giorno e un deposito che fungeva da stanza da letto. Eppure, più di qualunque altro luogo, il luogo in cui si era sentito maggiormente a casa, era una minuscola stanzetta sotterranea, immersa in libri, polvere e topi, in un sottoscala nascosto oltre una parete mobile in un angolo sperduto del West Block. Ricordava ancora la meraviglia che aveva provato la prima volta che aveva messo piede in quel luogo. Si era guardato intorno a bocca aperta, esterrefatto dalla visione di tanti libri, così numerosi che sembrava quasi difficile muoversi in quello spazio angusto. Una casa completamente ricoperta di libri, con le uniche eccezioni di un piccolo letto, una sedia e un minuto tavolino sufficente a mala pena per posarci due piatti sulla sua superficie.

Era la casa che lo aveva accolto quando si era ritrovato fuori da No.6, sperduto ed insicuro sul destino che lo attendeva ora che la città che lo aveva visto nascere e crescere lo aveva riconosciuto suo nemico e dichiarato colpevole di un omicidio. Un omicidio di cui non solo non era colpevole, ma di cui era stato anche incredibilmente vicino a finire vittima lui stesso. Era la casa che lo aveva visto combattere con le unghie e con i denti nella sua battaglia per la vita contro la vespa parassita. Le mura entro le quali era avvenuta la sua rinascita, marchiata sulla sua pelle e nei suoi capelli, indelebile quanto il segno che aveva lasciato nel suo animo. Era la casa in cui, come un bambino che mette i primi passi nel mondo, aveva cominciato la sua scoperta della realtà, sotto la guida di Nezumi. Il luogo a lui più caro, ricco di memorie e significato, simbolo di tutto quello che per lui rappresentava la vita. In nessun altro luogo si sarebbe mai potuto sentire a casa come in quella stanza, la consapevolezza di questo era una delle poche certezze nel suo cuore alla ricerca di risposte e verità.

Ricordava le parole di Nezumi, quando lo aveva preso in giro per la sua incapacità di muoversi al buio nella stanza dove aveva vissuto per dieci anni. Lui gli aveva risposto di non essere abituato a camminare al buio perchè non aveva mai avuto bisogno di farlo, ma la verità era che in questi tre mesi in cui aveva vissuto in questa piccola casa traboccante di libri, ne aveva imparato ogni angolo, arrivando ad amarne ogni singolo anfratto, al punto che sarebbe stato capace di camminarvi attraverso anche bendato. Sion sorrise leggermente, versando dell'acqua nella pentola posata sul tavolo. Sì, non esisteva altro luogo che avesse mai sentito casa come questo.

 

"Perchè ridi all'improvviso senza motivo? Sei finalmente diventato pazzo?"

 

Sion si girò, e quasi sobbalzò trovando Nezumi accanto a lui. Era stato così immerso nei suoi pensieri da non accorgersi che il ragazzo si era avvicinato al tavolo, e aveva cominciato ad affettare con un coltello le verdure che aveva risciacquato poco prima. Che non si fosse reso conto della sua presenza per l'innaturale dote di Nezumi di muoversi silenziosamente, o perchè era immerso nei suoi pensieri, non lo sapeva, ma ritrovare l'altro ragazzo a poca distanza da lui era sempre stato qualcosa che costringeva il suo cuore a martellargli incontrollabilmente nel petto. Per lo meno sembrava avesse deciso di rivolgergli di nuovo la parola. Sion sentì il suo cuore leggermente sollevato. Ogni volta che si sentiva respingere da Nezumi, era come se una parte del suo cuore divenisse pesante. Gli sembrava quasi più difficile respirare. Nezumi era l'unica persona che gli avesse mai fatto provare queste sensazioni. Non sapeva nemmeno di essere in grado di provarle, in realtà. Così ogni volta che l'altro sembrava fare un passo verso di lui, nelle volte in cui si era allontanato scacciandolo rudemente, Sion si sarebbe sentito sempre sollevato.

 

Non potè fare a meno di fissare il profilo dell'altro, illuminato dalla luce della lanterna sul tavolo. Gli occhi grigi rilucevano, capaci come sempre di non far trapelare la minima emozione, eppure traboccanti di una forza e un magnetismo da cui si sentiva sempre rapito. La sua pelle diafana, così bianca e priva di imperfezioni da sembrare quasi una statua di marmo. Il suo profilo delicatamente cesellato, i lineamenti perfetti da sembrare quasi non umani. Sembrava una bambola, una creazione realizzata con la più sottile minuzia e precisione. Non poteva fare a meno di fissarlo rapito.

 

"Cosa? Ho qualcosa in faccia, per caso?"

 

"Hm?... n-no... scusami... " Rispose Sion, sentendo stranamente tutto il sangue del corpo fluire all'impazzata verso le sue guance.

 

Ma cosa mi prende? Non è il momento di sognare ad occhi aperti... a cosa stavo pensando?



 

Girò il capo verso la pentola e si affrettò ad aggiungere. "Stavo pensando che mi piace l'odore di questa stufa, mi fa sentire a casa."

 

Fu solo un momento, ma Sion notò Nezumi sgranare gli occhi meravigliato. Sembrava non si aspettasse sentirgli dire qualcosa di simile. Ma un istante dopo quell'espressione era già svanita dal suo volto, sostituita dalla sua solita risata divertita.

 

"Se ti piace così tanto potresti andare a lavorare nell'impianto di smaltimento rifiuti di No.6. Ormai la strada dovresti conoscerla, anche la nuotatina nelle profumate acque di scolo sembrava di tuo gradimento. Dovresti andare a chiedere subito, non perdere tempo, ti consiglio di andare domattina, appena possibile!"

 

Sion lo fulminò con lo sguardo, poi mormorò un "Idiota," a denti stretti, aiutando Nezumi a raccogliere le verdure dal tavolo e metterle nel tegame. Era impressionato dall'abilità di Nezumi con un coltello. Riusciva addirittura a tagliare le verdure senza graffiare il vecchio tavolo, anche se era anche questo pieno di buchi e graffi che sembravano risalire a molto tempo prima. Ricordava le mani di sua madre, quando da bambino le si metteva accanto mentre cucinava, e si muovevano con accuratezza e precisione contro il tagliere in cucina, sorridendo amorevolmente a suo figlio. Gli mancava il sorriso di sua madre, gli mancava la sua risata, il bacio sulla fronte che gli dava prima di uscire, nonostante non fosse più un bambino. Gli mancava il modo in cui i suoi occhi lo guardavano con dolcezza e un filo di tristezza, interrogandosi sul futuro che avrebbe avuto il suo bambino ora che tutti i ponti per una carriera elitaria erano stati tagliati. Gli mancava, ma nulla avrebbe potuto sostituire la gioia di un singolo momento trascorso in quell'angusto sottoscala, in compagnia della persona in piedi accanto a lui. Momenti come questo, passati semplicemente a scherzare con l'amico, erano quanto di più prezioso il suo cuore sembrava attendere. Avrebbe voluto restare così per sempre, se solo avesse potuto.

 

Sollevò il viso, girandosi a guardare Nezumi con un sorriso.

 

Tu o no.6, quale delle due scegli?



 

"Quello che volevo dire è che sento questo posto come la mia casa." disse, affrettandosi a continuare prima di essere interrotto da qualche commento sarcastico. Sentiva di dovergli dire queste parole, anche se Nezumi si fosse preso gioco di lui per questo, aveva il bisogno di trasmettergli quello che sentiva nel suo cuore. Di ringraziarlo per queste sensazioni così care e sconosciute. "Più di quanto abbia mai sentito casa Cronos, più di quanto mi sia mai sentito a casa in Lost Town con mia madre... "

Più di quanto abbia mai sentito casa l'intera no.6... Nezumi...

Distolse lo sguardo, pensando alle parole più adatte da usare. Poi lo guardò dritto negli occhi, deciso. "Il luogo che sento più casa mia è quello dove ci sei tu."

 

"Ma guarda, lo ospiti per un attimo e quello già si appropria di casa tua, un giorno ti vedrò arrivare con un arredatore di interni, dicendo che vorresti cambiare e rimodernare l'arredamento." Disse con una voce divertita, ma prima che Sion avesse il tempo di protestare riguardo quanto fosse serio, aggiunse guardandolo dritto negli occhi. "Sion, non so quanto tempo potremo restare in questa casa. Nessuno lo sa, perchè nessuno sa per quanto tempo riuscirà a restare in vita in questo posto maledetto. Non so nemmeno se saremo in vita domani per veder sorgere il sole." Disse, fissandolo dritto negli occhi.

E non so quando sarà il momento in cui dovremo smettere con questa quotidianità, il giorno in cui diverremo nemici, però...

"...però fino a quando vorrai, potrai restare qui. Di questo non devi preoccuparti."

 

Sion lo guardò ad occhi spalancati per qualche secondo, la mente completamente bianca. Poi sorrise.

 

Non si aspettava parole smielate come anche per me casa è dove ci sei tu, o che Nezumi lo abbracciasse, scoppiando in lacrime commosso, ma le parole dell'altro gli bastavano. Erano sufficenti per scaldargli il cuore. Nezumi lo accettava nella sua vita ancora per un po'. Non gli chiudeva la porta, non lo allontanava da sé. Nonostante quello che gli aveva detto, nonostante Nezumi sembrasse credere fermamente che sarebbero diventati nemici un giorno, che Sion avrebbe scelto no.6... nonostante tutto, Nezumi lo accettava ancora. Gli permetteva di restare con lui, fino a quando sarebbe stato possibile. Che lo facesse perchè sentiva ancora di dover ripagare il suo debito o perchè almeno un po' fosse arrivato ad abituarsi alla sua presenza,- e magari anche a goderne di essa,- non lo sapeva. Ma qualunque fosse la motivazione, la cosa più importante era che Nezumi gli permetteva di rimanere con lui. Lo accettava ancora. Anche se era un peso, anche se si sentiva spesso infastidito dalla sua presenza e le sue parole, anche se la sua sola vista gli ricordava la città che tanto odiava... gli permetteva di restare. Questo lo riempiva di una gioia immensa, così tanto da sentire quasi il cuore fluttuare in aria. Gli sorrise ancora di più, afferrando Nezumi per le mani e trascinandolo a sedersi sulla sedia. "Nezumi, tu mettiti seduto. Sembri stanco. Riposati pure, baderò io allo stufato finchè non sarà pronto."

"Oh, era ora che mostrassi un minimo di gratitudine" disse scherzosamente, ma senza l'ombra di cattiveria questa volta. Si lasciò trascinare senza fare resistenza alla sedia, dove si lasciò andare stancamente. Era vero, era molto stanco. Per poter guadagnare da vivere per entrambi doveva lavorare più di prima, prestando una mano con le riparazioni in teatro oltre alla sua consueta recitazione. La presenza di Sion aveva gravato sulla sua vita più di quanto avesse preventivato inizialmente. Sia nel senso fisico, diventando molto più stancante e costringendolo a lavorare il doppio per continuare a potersi procurare almeno quel pezzo di pane duro e mezzo ammuffito giornaliero, o un pezzo di carne secca di tanto in tanto. E sopratutto stanchezza mentale. Le costanti litigate con il ragazzo, che sembrava difendere a spada tratta la sua nemica giurata... non avrebbe mai rinunciato al suo odio, e non avrebbe mai perdonato nessuno che si fosse schierato al fianco di No.6.

Un nemico è un nemico, non importa chi sia la persona a sferrare la pugnalata, il fendente nel cuore risulta ugualmente fatale.

Aveva sempre vissuto così. Cercando di non lasciare entrare nessuno, in modo da non avere problemi nel momento in cui avrebbe dovuto recidere un rapporto. Aveva salvato Sion dalle mani del Dipartimento di Sicurezza per restituirgli il debito che aveva con lui. Era semplicemente quello il motivo. Non aveva mai desiderato attaccarsi a lui. E non solo Sion – non aveva mai desiderato avere legami o aprire il suo cuore ad un'altra persona. I sentimenti per gli altri erano qualcosa di pericoloso. Non era il tipo da condividere un legame con qualcuno. Che si trattasse di un uomo o una donna, era solito stabilire relazioni facili da recidere.

 

 

Non lasciare che nessuno sia capace di scaldarti il cuore. Non fidarti di nessuno all'infuori di te.



 

Erano state le parole di quella vecchia in punto di morte. Era stata colpita da un proiettile in pieno petto e stava tossendo sangue, eppure quelle parole erano suonate chiare alle orecchie di Nezumi. Non pensava di poterle mai dimenticare. Anche se lo avesse voluto, la sua voce non glie lo avrebbe permesso. Si erano attaccate saldamente alla sua mente, e rifiutavano di lasciare la presa.

 

Eppure non poteva voltare le spalle a Sion. Sapeva che portarlo lì nel West Block probabilmente costituiva un pericolo per se stesso, eppure non avrebbe mai potuto abbandonarlo, lasciarlo morire a causa sua. Forse portare lì Sion era stato un errore. Lo pensava per davvero. Si ostinava a voler creare un siero contro le vespe parassite, utilizzando il suo stesso sangue. Non era per questo che lo aveva salvato, non gli avrebbe permesso di rovinare la sua vendetta. Se c'era davvero una vespa parassita nella città, che si aggirava seminando morte e distruzione, lui l'avrebbe usata. L'avrebbe usata per portare a termine la sua vendetta, per tirare giù quel mostro atroce. E non avrebbe tollerato nessun intralcio, avrebbe ucciso chiunque si fosse frapposto tra lui e la sua vendetta. Aveva sempre pensato così. Eppure, il pensiero di avere Sion come nemico lo infastidiva. Non aveva paura del ragazzo, era troppo debole ed inesperto per costituire un nemico temuto, eppure qualcosa rendeva l'idea di avere Sion come suo nemico ugualmente disagevole. Forse erano quelle memorie di quattro anni prima, o gli sforzi che aveva fatto per sottrarlo al Dipartimento di Sicurezza. Lo aveva condotto nel West Block, portato in casa sua.
Un cittadino di No.6, una persona completamente inutile e che non sapeva nulla del mondo. Anche la sua semplice presenza avrebbe potuto costituire facilmente un pericolo per lui.



Sion che viveva senza un minimo di cautela, in questo luogo dove anche un piccolo errore poteva costare la vita. Il West Block era un luogo duro, dove non potevi fidarti nemmeno di chi bussava alla tua porta. Eppure Sion era il tipo da aprire la porta di casa fiduciosamente. Lo aveva già fatto in passato. Quando quella bambina, Karan, aveva bussato loro alla ricerca d'aiuto per salvare la vita del suo fratellino Rico che stava soffocando. In quell'occasione Sion aveva aperto la porta senza alcuna esitazione, l'aveva sprangata, senza prendersi nemmeno la briga di accertarsi di chi si trovasse dall'altra parte o di nascondersi nell'ombra. Se fossero stati sfortunati, avrebbero perso entrambi la vita. Il visitatore avrebbe potuto essere un soldato armato, o un rapinatore che usava un bambino come esca. Nel West Block non sarebbe stata una cosa tanto strana. Ma una cosa simile Sion non avrebbe potuto saperla. Non conosceva il sospetto, la cautela o la necessità di provare paura. Possedeva l'incoscienza e l'avventatezza di qualcuno cresciuto nell'incolumità e nella sicurezza. Sentiva sul serio di essersi sobbarcato un peso che gli avrebbe causato solo problemi e pericoli.
E poi insiste col voler creare un siero...
Nessuno lo aveva forzato ad assumersi questa responsabilità. Ne era stato lui stesso la causa, volendo restituire il favore che gli doveva. Ma non avrebbe mai lasciato morire Sion, la persona che gli aveva salvato la vita senza aspettarsi nulla in cambio. È impossibile restituire un favore ad un morto e Nezumi non voleva avere debiti che non sarebbe mai stato in grado di ripagare. Questo era stato il motivo per cui aveva salvato Sion e lo aveva portato nel West Block. Ma credeva di essersi addossato un rischio più grande di quello che aveva preventivato. Ma se Sion non avesse aperto la porta quel giorno, Rico non si sarebbe salvato. Una vita salvata. Come quella notte di quattro anni prima. A lui, come a Rico. Sion, entrambe le volte, aveva incautamente allungato le sue braccia, finendo per salvare loro la vita.
Sion conosceva il mondo solo attraverso teoremi e razionalità. Era ingenuo e non aveva imparato nulla su come dubitare l'affidabilità degli altri. Era naturalmente ignaro, all'oscuro di tutto, stupido, e non sapeva nemmeno chi fosse Amleto. Ma Sion era anche superiore a lui per certi versi. Non in capacità o conoscenza, ma...ma in cosa?
Non lo sapeva, tuttavia anche con la sua ignoranza, la sua stupidità, non era mai riuscito a guardare Sion dall'alto. Non era particolarmente difficile ridere delle persone, chiamarle deboli o indulgenti, quando accettavano incondizionatamente qualcuno, o provavano a salvare una vita. Indubbiamente, come risultato dell'aver accolto Nezumi, Sion aveva perso quasi tutta la sua fortuna e i suoi privilegi. Quanto più facile sarebbe stato, se avesse potuto ignorare Sion con una risata sdegnosa,che ragazzo ingenuo, che petri-dish elite, cresciuto ignorante della società.
Ma per lui, accantonare la faccenda con una risata sarebbe stato troppo doloroso. Era un qualcosa troppo vivido da dimenticare. Così incredibilmente pesante da gettar via. I ricordi della notte di quattro anni fa erano ancora troppo vividi, troppo dolorosi da gettar via.



Ricordava ancora, così vividamente, quella finestra che si spalancava come per invitarlo ad entrare; il dodicenne Sion che sporgeva fuori il viso; 'Sei ferito, non è vero? Lascia che ti aiuti' – parole che non si sarebbe mai aspettato; il sorriso soddisfatto comparso sul volto di Sion nel momento in cui aveva completato la sutura; la dolcezza della cioccolata calda; il gusto delizioso della torta alle ciliege; il letto accogliente; il suono di un respiro calmo e sopito che si era ritrovato accanto mentre si risvegliava il mattino seguente – non riusciva a dimenticare niente di tutto questo, non importa quanto faticosamente ci provasse. Anche quando aveva provato ad abbandonare quei ricordi, a gettarli via, non era mai riuscito a trovare il coraggio di farlo.

Diverse volte Sion gli aveva detto di aver ampiamente saldato il debito, di essere stato salvato ormai tante volte da lui, ma Nezumi non riusciva a considerare ripagato un debito simile. Era troppo alto per lui.

 

Per questo continuava a permettere che il ragazzo restasse in casa sua.

 

Lo aveva soccorso quando lo aveva visto agitarsi in preda a una strana e improvvisa agonia, scoprendo poi che si trattava della vespa parassita. Provvedeva al suo cibo, per quanto fosse faticoso provvedere al sostentamento anche di una singola persona.

Fino a quando Sion avesse avuto bisogno di un posto dove rimanere, era disposto ad accoglierlo e condividere con lui tutto quello che aveva, così come era stato fatto quattro anni prima con lui. Però oltre questo non aveva intenzione di spingersi. Sion era un estraneo che aveva allungato una mano verso di lui quando aveva avuto bisogno, ma pur sempre un estraneo. Ed era necessario che nessuno dei due superasse quel confine. Per quanto quella persona sostenesse di voler restare con lui e cercasse un modo per entrare più in profondità nella sua vita, Nezumi non poteva permetterlo. Era una delle sue regole principali, quella di non lasciarsi coinvolgere da nessuno, e con Sion si era fatto coinvolgere anche troppo. Le memorie che non poteva lasciar andare, i pericoli che correva a causa sua, i sacrifici che stava facendo per permettergli di vivere nel West Block per un nuovo giorno.

 

Posso davvero definirti ancora un estraneo, Sion?



 

Nezumi fissò le spalle del ragazzo che mescolava la zuppa nella pentola. La zuppa preparata con le verdure comprate con i suoi soldi. Cucinata nel suo tegame, sulla sua stufa riscaldata a combustibile da rifiuti comprato da lui.

Un estraneo? Un estraneo non dovrebbe forse sembrare innaturale in casa propria? Allora perchè gli sembrava così naturale vedere quella figura accanto a sé, mentre scherzava e ridacchiava, mentre prendeva uno dei suoi libri o giocava con uno dei suoi topolini? Mentre dormiva nel suo letto o rimaneva semplicemente seduto accanto a lui a leggere, con la luce della stufa che dipingeva mille tonalità di arancione e rosso tra i fili argentei dei suoi capelli?

 

Posso davvero definirti ancora un estraneo, Sion?

 

"A te." Sion gli si avvicinò sorridente, porgendogli la sua ciotola di stufato di verdure. Nezumi la prese tra le mani che vennero subito riscaldate dal calore della vecchia ceramica, ed annuì in segno di ringraziamento. Sion tornò al tavolo, prendendo la sua ciotola fumante e prese posto in un angolo del letto accanto alla sedia occupata da Nezumi. Illuminati dalla luce della lampada la cui fiamma vacillava leggermente a causa di un piccolo spiffero di vento che riusciva a trovare sempre la sua strada nella stanza sotterranea, i due ragazzi mangiarono in silenzio. Era un silenzio confortevole. Vivevano insieme da poco più di tre mesi, eppure in momenti come questi, la presenza di uno sembrava talmente familiare all'altro che si domandavano se per tutti i quattro anni trascorsi dal loro primo incontro non avessero vissuto insieme.

 

La verità era una. Ciascuno dei due, a modo suo e per un diverso motivo, aveva passato quei quattro anni pensando all'altro.

 

Sion aveva passato i suoi giorni sognando occhi grigi, non pentito per un attimo di aver accolto Nezumi nella sua vita, anche a costo della sua caduta in disgrazia. E Nezumi aveva fatto di tutto per scoprire quando la città avrebbe messo in atto la sua vendetta nei confronti di Sion per averlo favorito. L'esistenza dell'altro era diventata un punto saldo nella vita di entrambi, e qualunque incomprensione o problema potesse esistere tra i due, anche se la situazione tra loro dovesse divenire improvvisamente estrema, una cosa simile non sarebbe mai cambiata.

Una esistenza importante, scolpita in profondità nella mente e nel cuore dell'altro.

 

Nezumi alzò gli occhi verso Sion, e si stupì nell'incontrare gli occhi dell'altro proprio in quel momento. C'erano momenti in cui Sion gli appariva come il più incomprensibile dei testi, ed altri in cui gli sembrava la più familiare delle parole... eppure in quel momento non capiva se non riusciva a leggere quello che si agitava in quegli occhi lilla o se comprendesse fin troppo bene quello che gli stavano dicendo. Grazie. Sono felice di poter restare ancora con te. Vorrei ti fidassi più di me. Io sarò sempre dalla tua parte, perchè per me un mondo senza di te non ha senso.




 

 

Nezumi non riusciva a distogliere lo sguardo. Era come se non conoscesse affatto quegli occhi, eppure così familiari. Una determinazione e nel contempo una dolcezza che sembravano immobilizzarlo. Stava semplicemente fissando quegli occhi, ma si sentiva come se ci fosse stata una mano che lo afferrava il collo, una forza che lo premeva contro il muro, precludendogli ogni movimento. Stava addirittura trattenendo il respiro. Riuscì a muoversi solo quando Sion distolse lo sguardo, tornando a posare gli occhi nuovamente sulla sua ciotola fumante. Il più grande dei misteri, incredibilmente prevedibile come le battute di una parte in un dramma provato infinite volte, e spaventosamente imprevedibile, come il testo di un libro abilmente scritto che non aveva mai letto prima. A volte pensava che Sion fosse più imprevedibile e spaventoso di qualunque situazione in cui si fosse mai venuto a trovare in tutta la sua vita.

C'erano volte in cui si ritrovava a sentirsi terrorizzato da lui. Così come dalle emozioni che duellavano nel suo cuore quando si ritrovava ad abbassare per un attimo la guardia davanti ai suoi occhi.

 

Si alzò in piedi, ed andò a posare la ciotola sul tavolo, ritirando poi stancamente un libro dalla libreria e tornando alla sedia dove era seduto prima. "Sion, ti spiacerebbe...?" disse massaggiandosi il collo. Per quanto fosse sempre stato dotato di grande resistenza, si sentiva a pezzi. Sion seguì la linea del suo sguardo fino ai piatti che giacevano sul tavolo, e scattò in piedi con un "Certo! Lo faccio subito, tu riposati pure."

Subito dopo lo vide scomparire oltre la porta del bagno con le due ciotole e la pentola dello stufato. Nezumi si sollevò dalla sedia stancamente, decidendo che il letto apparisse decisamente più comodo ed invitante in quel momento, e si sdraiò sulla schiena, sollevando il cuscino contro la spalliera e aprendo il libro alla pagina dove aveva interrotto la lettura la sera precedente. Sentiva tutti i muscoli della schiena pulsare, come se proprio quel giorno avessero deciso di fargli riconoscere la propria esistenza. Si massaggiò di nuovo il collo, ritrovandosi a chiudere lentamente gli occhi senza rendersene conto. Così stanco da non riuscire nemmeno ad addormentarsi. Erano anni che non arrivava a stancarsi così, ma la verità era che lui stesso era responsabile di tale stanchezza. Si era gettato a capofitto nel lavoro. Più lavorava e più pensava alla discussione con Sion, più pensava alla loro conversazione e più si metteva d'impegno nel lavorare, come se la stanchezza avesse avuto il potere di cancellare gli avvenimenti dalla sua memoria, o dalla stessa realtà degli eventi.

La verità era che aveva paura. Sapeva che nulla sarebbe durato per sempre, che anche la mano estesa verso di lui sarebbe scomparsa un giorno. Sapeva che quello che c'era attualmente, quel calore domestico che non aveva avuto da anni, sarebbe svanito da un momento all'altro. Lo sapeva, non si era mai ingannato a riguardo.

Sion era un cittadino di no.6, e per quanto fosse stato scacciato dalla città, per quanto dicesse di non poter più accettare una falsa sicurezza, una volta conosciuta la verità, un giorno avrebbe fatto la sua scelta. E conosceva Sion a sufficenza per sapere che non si sarebbe mai schierato contro il luogo dove vivevano le persone che amava. Non si sarebbe mai messo deliberatamente in una posizione che avrebbe compromesso l'incolumità di sua madre, o della sua amica Safu, o le persone con cui era cresciuto. Sion era troppo gentile per scegliere tra lui o loro, ma quella indecisione lo avrebbe messo in pericolo, o avrebbe finito addirittura per divenire una minaccia per lo stesso Nezumi.

E lui non poteva permetterlo. L'indecisione è qualcosa di pericoloso, ed è qualcosa che solo i vigliacchi preferiscono. Rimandare una scelta o rifiutare di prenderla equivale a mettere in pericolo se stessi e gli altri.

 

È solo cercare una via di fuga, solo un modo per non farsi male.

 

Lui avrebbe distrutto no.6 un giorno, l'avrebbe gettata nella distruzione. Un giorno avrebbe visto cadere nel panico quelle persone vissute sempre al sicuro, correre in preda alla confusione, e condurre se stesse alla distruzione. Avrebbe sterminato e spazzato via No.6 dalla faccia della terra, così che la gente non sarebbe più costretta a vivere in una discarica.

No.6 era come un fiore artificiale che non produceva alcun seme. Fioriva sul sangue e sui cadaveri di numerose persone.

 

Ti strapperò via dal terreno un giorno. Allora non avrai più scelta se non quella di ascoltare le voci dei morti. Il loro odio, le loro sofferenza, il tormento e l'odio che sgorgheranno dal terreno bagnando la terra. Ti costringerò a sentire, anche se dovessi tapparti le orecchie. Fino ad allora, continuerò a vivere e a ricordare.

 

L'immagine di fiamme alte nel cielo notturno che ardevano spietate comparve nella sua mente. Sì, non poteva dimenticare. I morti non ricordano, i morti non parlano, non raccontano, non odiano. Ma lui era vivo, e da vivo era suo dovere non dimenticare. Lui stesso non lo avrebbe permesso.

 

"Nezumi...?" I suoi pensieri vennero interrotti dall'incerto sussurro di Sion, accompagnato dai passi di ritorno dal bagno. L'albino entrò nella stanza, posando le ciotole e la pentola nei rispettivi posti. "Stai dormendo...?"

 

Nezumi aprì leggermente un occhio, il libro aperto sul petto, e lo guardò avvicinarsi al letto insicuro se raccogliere o meno il libro tra le mani dell'altro. Si era fatto tardi, ed era abitudine di Sion infilarsi silenziosamente a letto quando vedeva Nezumi troppo stanco per leggere, per non disturbare il suo coinquilino con la luce della lampada.

"No." Nezumi si tirò a sedere, le gambe ancora distese sul letto. Richiuse il libro lentamente e lo passò a Sion, che lo posò al suo posto e andò a sedersi sulla sponda del letto accanto a lui.

 

"Vuoi che spenga la lanterna?"

 

"Nh? No, leggi pure se vuoi, non mi dai fastidio." Disse mentre si spostava nel letto, facendo posto a Sion affinché potesse sdraiarsi anche lui. Sion fece di sì con la testa, e si allungò a prendere il libro che aveva selezionato poco prima. I tre topolini presero posto accanto a loro sul cuscino. Sistemandosi in fine nel letto, cominciò a leggere con una voce bassa, i topolini accanto a lui ascoltavano rapiti. Presto si ritrovò perso nella lettura, a viaggiare per valli e foreste incontaminate, in compagnia di principi e cavalieri alle prese con la loro ricerca.

 

All'improvviso avvertì un leggero peso contro la sua spalla. Trattenendo il respiro, Sion girò leggermente il capo fino alla vista di capelli scuri contro il suo petto e il suo collo. Rimase immobile in silenzio, sorridendo nell'udire il respiro regolare dell'altro che dormiva profondamente poggiato a lui. Guardò i topolini, che dopo un movimento dei musetti come se avessero voluto dirgli di aver capito, andarono a prendere posto in cima alla solita pila di libri e si misero a dormire. Richiuse il libro silenziosamente, avendo cura di non fare rumore mentre si allungava per posarlo e spegnere la lampada posizionata sulla sedia accanto al letto. Sospirò contento. Chinò leggermente il capo in modo da poggiare la sua testa su quella di Nezumi, e chiuse gli occhi.

 

"Buona notte, Nezumi." Sussurrò in un filo di voce prima di addormentarsi cullato dal calore contro la sua spalla.

 

 

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La spia luminosa si accese accompagnata da un leggero suono, e l'uomo sbuffò annoiato. Odiava essere interrotto mentre godeva dello spettacolo della sua città immersa nelle luci. Quella visione lo rendeva estasiato, lo riempiva di fierezza ed orgoglio.

La sua opera d'arte. Il frutto di anni d'impegno in cui aveva riunito sotto la sua egida i migliori scienziati e ricercatori per sottomettere natura e scienza alla volontà umana. No.6 era la sua opera d'arte, il culmine della scienza e della tecnologia, la più perfetta e illuminata realtà in cui un uomo avesse mai potuto aspirare di vivere. Su sei città stato che si erano venute a formare in questo mondo distrutto dall'incompetenza dell'uomo, no.6 era la speranza dell'umanità, un luogo tanto perfetto e all'avanguardia, ambito ed onorato al punto da essere insignito del titolo Città Santa.

Qualunque cittadino sarebbe stato onorato di abitarla. Avrebbe potuto vivere al sicuro e con qualunque confort un uomo potesse ambire di ottenere.

 

La Città Santa, e presto sarebbe divenuta santa per davvero.

 

Quando la scienza al suo servizio sarebbe riuscita a mettere le mani sulla chiave, su quel vaso di Pandora chiamato Elyurias, allora il vero progetto della Città Santa sarà finalmente completo.

L'uomo sorrise compiaciuto, dando infine le spalle alla meravigliosa visione fuori dalla vetrata del suo ufficio, e camminò verso la sua scrivania. Aveva scelto personalmente quella stanza come suo ufficio personale, la vista migliore nella vetta del cuore della città. Il palazzo municipale, quello che i cittadini chiamavano con rispetto e devozione Moon Drop. L'edificio più imponente e prestigioso che dominava il cuore della città, al centro del Parco Forestale dove i cittadini potevano passare in pace il loro tempo, circondati dai frutti della natura e della scienza a loro servizio.

 

L'uomo premette il pulsante sul telefono. Il suono cessò, e sullo schermo davanti a lui comparve un viso conosciuto. Occhiali dalla doppia montatura nera, tazza di cafè tra le mani, e camice bianco sempre indosso. Tratti con cui era familiare da anni.

L'uomo all'altro capo della linea lo salutò con tono scherzosamente rispettoso come suo solito, e dopo aver bevuto un sorso del suo caffè passò subito al punto.

 

"Come ti ho preventivamente accennato, una volta completata l'archiviazione dei dati raccolti sui campioni esanimi che hai procurato per me, potremo passare al campione vivo. Ho analizzato i campioni che mi hai inviato ieri, e posso confermarti come sospettavo, che alcuni tra questi non risultano tra i possibili candidati che avevamo selezionato in precedenza. Tuttavia non sono riuscito a comprendere come fosse stato possibile. Posso confermare comunque che la causa della morte di quei cadaveri era quella che sospettavamo. Sembra stiano agendo autonomamente." L'uomo si sistemò la montatura degli occhiali, abbassando il documento che aveva tra le mani.

 

Il sindaco si sedette sulla sua sedia, poggiando pensieroso il mento sulle mani.

"Quindi non erano dei campioni selezionati da noi...? Capisco. Cosa pensi che sia la causa?"

"Non lo so. Ma non essendo ancora riuscito ad ottenere tutte le informazioni possibili a proposito di quelle uova, non saprei cosa pensare. Nemmeno quella persona aveva scoperto più di tanto. Ho letto e riletto il suo rapporto, ma non c'era nulla di utile sulla nascita spontanea di quella cosa... " Si fermò, sistemandosi la montatura degli occhiali, un gesto che era solito fare quando era pensieroso. "Comunque sia, reputo sia arrivato il momento di passare alla fase successiva, Fennec."

L'uomo dall'altra parte della linea fece una smorfia nel sentire il suo vecchio soprannome, ma decise piuttosto di continuare con le sue domande. "Il recupero del campione vivo, dunque?"

"Già. E come ti accennavo quella volta, se riuscissi a portarmi anche quel certo 'topo' che sembra si trovi con lui..." L'uomo si sfregò le mani come un bambino in procinto di mangiare la sua cioccolata preferita. "È da quando quella persona ci fece sapere di avere un reduce del Popolo della Foresta tra le mani, che non vedevo l'ora di tagliuzzarlo... non hai idea di quanto rimasi male quando venni a chiederti di portarmi un regalino da quel posto chiamato Mao, ma mi dicesti che avevate già fatto un bel barbecue... la notizia che si era salvato uno dalla vostra festicciola mi fece sentire al settimo cielo, quasi al pari del mio tempo con il mio adorato microscopio... "

Il sindaco scosse la testa, facendo spallucce. "Mi spiace, ma avevamo bisogno di agire di notte per evitare inconvenienti. Non credevo ti potessero servire come esperimenti... Sembra che questo topo si stia facendo desiderare parecchio, e?" Disse ridacchiando. "Vedrò di fartelo portare allora, in una bel pacchetto regalo, con tanto di coccarda sulla testa."

L'uomo col camice bianco sorrise, prendendo un altro sorso del suo caffè. "Non vedo l'ora allora. E questa volta non fartelo scappare come l'altra volta, ti prego – nessuno dei due. Mi prudono ancora le mani, odio che mi si vengano tolti i giocattoli da sotto il naso."

Il sindaco sorrise e scosse la testa. "Non preoccuparti. E poi sono sicuro che se fallisse di nuovo nel portarti il tuo adorato campione vivo, il nostro caro ispettore Rashi si roderebbe il fegato. Sembra avere un conto in sospeso con il topo in questione, dice che gli deve un'automobile di pattuglia. Sai com'è il nostro Rashi. Un tipo che porta parecchio rancore... Comunque, provvederò al recupero appena possibile."

L'uomo con il camice bianco posò la sua tazza sul tavolo, sorridendo soddisfatto "Ok."

"Un'altra cosa. Già che ci siamo, credi ti servano anche altri campioni? Quelli su cui lavorare come vuoi?"

"Hmmmm---" L'uomo mormorò pensieroso, grattandosi la testa, poi mosse il capo affermativamente. "Sì, se me ne porti un centinaio, anche di più, li accetto volentieri. Quelli non sono mai sufficienti, dovresti saperlo bene ormai."

"E va bene, comincio i preparativi per la raccolta dei campioni e dei tuoi topolini da laboratorio."

 

L'uomo col camice sorrise, e dopo un breve saluto interruppe la comunicazione.

 

L'uomo tornò alla sua finestra, e ammirò di nuovo la vista che si estendeva davanti a lui. No.6 risplendeva di luci, di giorno come di notte. Anche sotto un cielo nero come la pece, ogni angolo risplendeva ed era illuminato a giorno. Le luci erano così forti da far impallidire addirittura il cielo stellato sulle loro teste.

La sua città che risplendeva più luminosa delle stelle del cielo, l'ennesimo trionfo dell'umanità sulla natura, e lui ne sarebbe diventato presto il sovrano assoluto.

Sorrise, guardando in distanza la lontana oscurità regnante oltre le mura della città. Quando avrebbe completato il suo progetto, avrebbe potuto finalmente liberare la terra dai vermi che la infestavano. Il mondo spettava agli uomini, esseri superiori in grado di sottomettere la natura a proprio piacimento. Lui aveva trovato la chiave per farlo.

 

Sorrise soddisfatto, guardando l'orologio sul suo polso. La data odierna spiccava a caratteri digitali contro il monitor dell'orologio da polso. Presto, tra pochi giorni sarebbe stata la festa di celebrazione per la fondazione della città. L'Holy Celebration.

 

Sì, potrei approfittarne per un po' di pulizia. E intanto Rashi potrebbe approfittarne per recuperare i due topolini in fuga. È perfetto...

 

L'uomo guardò per l'ultima volta fuori dalla finestra, poi si voltò, raccolse i suoi oggetti personali e lasciò infine l'ufficio. Prima di spegnere la luce si voltò nuovamente per guardare la grande vetrata che dominava l'intero ufficio e sorrise.

 

Sì, molto presto farò di questa città una Città Santa nel vero senso della parola. E poi, ne diverrò il sovrano assoluto.


 


 

Continua....


 

Piccola nota:

Tadaima= sono a casa

Okaeri= ben tornato

so che la maggior parte di chi legge le conoscerà già, ma qualcuno mi ha chiesto cosa significassero.


 


 


 

 


 


 

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 - Sin and Sanctity ***


 

 

 

CAPITOLO 2 - Sin and Sanctity

 

 

Sion sorrise, stiracchiandosi leggermente. Non pensava che i pallidi raggi del sole, in una serena mattinata invernale, potessero sembrare così caldi sulla pelle scoperta del viso. Inspirò profondamente. Qualcuno potrebbe pensare che l'aria del West Block fosse molto più irrespirabile di quella di No.6, eppure al di fuori delle mura aveva trovato luoghi, come la piccola distesa verso le montagne a Nord accanto alla fonte, in cui l'aria sembrava tanto fresca e serena che il solo restare in quel posto aveva il potere di riscaldargli il cuore. Era una sensazione che in quella No.6 che aveva sottomesso la natura al suo volere, con i suoi parchi, la sua vegetazione, i giardini ricchi e colorati, non aveva mai provato. L'essenza di una vegetazione ancora semi incontaminata, ignara della mano dell'uomo. Un luogo dove la natura riusciva ancora a prevalere in tutta la sua forza e la sua maestosità. Sion aveva sempre amato la natura, e il suo cuore non poteva che vibrare di gioia, immerso in un simile spettacolo.

 

Si stiracchiò di nuovo, inginocchiandosi davanti alla fonte e sollevando tra le mani un po' di acqua. L'acqua scendeva fresca e pura per la sua gola.

Riconosceva quell'acqua. Un sapore che non avrebbe mai dimenticato. Era l'acqua che aveva allietato la sua gola asciutta, in seguito alla sua battaglia con la vespa parassita. Ricordava ancora la mano di Nezumi che gli alzava leggermente il capo, facendogli scorrere nella bocca il liquido fresco e gustoso. Il ricordo di quell'acqua, insieme alla voce che lo aveva incitato a non mollare, a tornare indietro, a non rinunciare alla sua vita, erano una delle memorie più care che il suo cuore custodiva. Non avrebbe mai potuto dimenticare il giorno della sua rinascita, così come la mano che lo aveva afferrato e tirato fuori dall'oscurità che era stata sul punto di inghiottirlo. Qualsiasi cosa il suo coinquilino avesse potuto fargli o dirgli, nulla avrebbe cambiato quelli che erano i sentimenti che custodiva per lui nel suo cuore. Nulla.

 

Prese il contenitore dell'acqua e lo tenne immerso nella fonte fino a quando non si riempì abbastanza. Aveva preso l'abitudine di andare alla fonte per riempire acqua fresca ogni mattina, mentre Nezumi restava ancora a letto.

Sion aveva notato che il ragazzo con cui viveva era una persona incredibilmente pigra al mattino, ed era convinto che se avesse potuto, Nezumi sarebbe rimasto a letto fino a mezzo giorno. Sion sorrise.

 

Chissà che persona saresti divenuta se non avessi dovuto vivere una vita così dura...

 

Scosse la testa per darsi una mossa, ed avvitò il coperchio del contenitore ormai pieno, sollevandolo con forza dal terreno. Lo caricò sul piccolo carrellino ed iniziò a trascinarlo lungo la discesa alberata. Il cielo invernale mostrava alcune nuvole grigie all'orizzonte, ma oltre quelle poche macchie, sembrava sereno. No.6 sembrava dominare tutta la vallata, illuminata nella sua costante luce.

 

Mamma, a quest'ora avrai già aperto il forno, e i soliti clienti affezionati saranno fermi davanti alle scale del negozio, appagati dal semplice profumo del pane appena sfornato e dei tuoi muffin. E i tuoi dolci? Hai poi cominciato a vendere le tue torte come avevi pensato di fare? Sono sicuro che avranno avuto un grande successo...

 

Mamma... perdonami.

 

Il viso di sua madre Karan, con il suo dolce sorriso, comparve davanti agli occhi di Sion. Chissà quando avrebbe potuto rivederla. Era uscito di casa un mattino per recarsi a lavoro ma non aveva più fatto ritorno. La morte del suo collega Yamase-san, che si era accasciato improvvisamente al suolo, e lo aveva visto invecchiare all'improvviso davanti ai suoi stessi occhi. La vespa parassita uscita fuori dal suo collo, la prima che aveva visto. Poi gli ufficiali del Dipartimento di Sicurezza che lo accusavano dell'omicidio del suo collega. L'allarme di Sampo che suonava, e il topolino che faceva su e giù lungo il braccio del robottino, da cui erano uscite le parole di Nezumi. "Esci di lì. Sei nei guai."

Quell'uomo, Rashi... le sue parole crudeli.

"Un cittadino? Diritti? Pensi davvero di averne?"

Poi era stato portato via dal Dipartimento di Sicurezza. Le parole di Nezumi che aveva continuato a ripetere a se stesso come un mantra, quando l'automobile del dipartimento di sicurezza viaggiava attraverso Lost Town, e gli mostrava sua madre che stava servendo dei clienti, ignara della sorte toccata al suo bambino.

"Sion, non avere paura. Sto venendo ad aiutarti." le parole che aveva udito da Nezumi poco prima di essere portato via. E proprio così, Nezumi aveva mantenuto la sua parola, salvandolo e sottraendolo dal dipartimento di Sicurezza; impedendo che venisse portato nel Penitenziario, dove sarebbe sicuramente morto per la vespa parassita. Se non ci fosse stato Nezumi, non sarebbe riuscito a sopravvivere. Guardando indietro al susseguirsi degli eventi, domande si formavano inevitabilmente dentro di lui. Il modo in cui il cadavere trovato nel parco e quello di Yamase-san san erano stati portati via nel mistero; l'immediata accusa di omicidio mossa contro di lui... Nezumi aveva detto che la città doveva essere necessariamente consapevole dell'inusualità della causa di quelle morti, ed aveva utilizzato Sion, tenuto sotto controllo da quattro anni, come capro espiatorio in modo da far passare le morti come opera di uno psicopatico in cerca di vendetta. Ed in più era impossibile che un animale o insetto, per quanto piccolo, passasse inosservato al sistema centrale. Se quelle vespe erano nate all'interno della città, era impossibile che la città non ne fosse a conoscenza...

 

E poi... il libro. C'era il libro che aveva trovato nascosto in casa di Nezumi quasi una settimana fa. Il Popolo della Foresta, il villaggio di Mao, la Divinità Dominatrice, le vespe, le uova...

 

Sono collegati, ma come?

 

Sion si fermò, asciugandosi la fronte con la mano. Il carrello con l'acqua era pesante, ma non gli dispiaceva procedere in questo compito ogni mattina, se significava sollevare Nezumi da almeno un peso. La prima volta il ragazzo lo aveva preso in giro, "Un signorino come te, che non ha mai mosso un dito per tutta la sua vita, non ce la farebbe mai a portare il carrello da solo; e se per grazia divina dovessi farcela, finiresti per ruzzolare fino a valle trascinato dal peso del carrello." Sion lo aveva fulminato con lo sguardo, sbattendosi la porta alle spalle, ed aveva risalito le scale con carrello e cilindro per l'acqua in spalla, dirigendosi a grandi falcate verso il viale che conduceva alla fonte. Ovviamente, esattamente come predetto da Nezumi, si era ritrovato ad inseguire il carrello dell'acqua per tutta la discesa, fino a quando era andato a bloccarsi, - capovolgendosi in un fosso, - ed aveva dovuto ricominciare da capo. Non volendo darla vinta a Nezumi, aveva provato in vari modi, - cercando di tirarlo, mettendosi avanti per evitare di farlo cadere, interrogando il topolino che saliva e scendeva dalla sua spalla in incoraggiamento, - fino all'arrivo di un estremamente divertito Nezumi che gli aveva spiegato –mantenendosi la pancia dal ridere – che avrebbe dovuto usare i freni delle ruote per l'intera discesa. Dopo la sua sonora sconfitta Sion aveva cominciato a recarsi alla fonte tutte le mattine, scoprendo che l'aria di prima mattina accanto al piccolo fiumiciattolo era una delle cose più piacevoli che avesse mai incontrato.

 

In vero, trattandosi di una zona poco frequentata, secondo Nezumi avrebbe potuto uscire liberamente anche senza compagnia. Dopo la brutta esperienza al mercato in cui aveva rischiato seriamente di finire ucciso almeno due volte nel giro di dieci minuti, - forse tre, contando anche la ruzzolata nelle rovine, - Inukashi gli aveva offerto un cane di scorta nel caso in cui avesse avuto bisogno di spostarsi "Se sei disposto a pagarmi, ovviamente."

 

Così ogni mattina usciva presto di casa con il suo carrellino, restava seduto per qualche tempo a riva a fissare la natura, quella No.6 che dominava la vallata o a pensare, e faceva infine ritorno alla loro piccola casa dove avrebbe trovato Nezumi intento a preparare la colazione o a leggere un libro. Alcune volte un topolino si sarebbe arrampicato sulla sua spalla o sarebbe saltato sulla piccola cisterna dell'acqua mentre usciva di casa, altre lo avrebbe raggiunto mentre si trovava seduto sul greto del torrente, accompagnato dall'arrivo di Nezumi.

Gli piaceva stare lì. Certe volte, quando il tempo era abbastanza sereno da poter stare all'aperto, era solito portare in riva al torrente la piccola Karan e Rico, i due bambini che vivevano al di sotto della collina. Karan gli aveva raccontato che in primavera l'intera fonte sarebbe stata circondata da numerosissimi fiorellini rosa di ogni tonalità. Non vedeva l'ora di poterli vedere. La sorgente si trovava nei pressi di una piccola cascata. Non ne aveva mai viste prima di allora, se non nei libri. Quando i bambini lo avevano preso per mano portandolo in esplorazione, con i piccoli visi sorridenti, si era sentito pieno di gioia. Amava la natura, e scoprire i più piccoli segreti e anfratti di quel luogo nascosto e celato vicino le montagne aveva riempito il suo animo di gioia ed eccitazione. Aveva sentito la sua anima vibrare.

"Guarda," gli aveva detto il piccolo Rico, indicandogli con la manina in direzione della cascata. Le acque della cascata colpivano quelle calme della superficie del piccolo lago al di sotto. Piccoli spruzzi d'acqua riempivano l'aria, rimbalzando verso l'alto all'impatto con le acque e i piccoli sassi che riempivano il letto del lago. Un leggero arcobaleno attraversava la nuvola bianca che sorgeva là dove le acque della cascata incontravano le loro compagne nel piccolo bacino circondato da costoni rocciosi e vegetazione. Anche in inverno, gli alberi che lo circondavano erano di un verde intenso, formando con i loro rami una tettoia che ricopriva il corso d'acqua fino al centro del fiumiciattolo. Lo spettacolo che si trovava davanti era di una bellezza mozzafiato. Chissà come sarebbe stato in primavera, quando le sue sponde sarebbero state completamente ricoperte di fiori.

Magari in primavera ci tornerò con Nezumi. Potremmo portare alcuni libri e qualcosa da mangiare, e passare l'intera giornata qui, insieme. Potremmo leggere con i topolini sulle spalle, poi fare una nuotata e resteremo qui, circondati dal profumo dei fiori e cullati dal suono delle acque.

 

Sapeva che qui nel West Block fare progetti anche solo per il giorno successivo era qualcosa di stupido e insensato, ma non poteva evitarlo.

 

Posso almeno sperare e sognare... giusto?

 

Sion aveva guardato lo spettacolo mozzafiato che si era ritrovato davanti con attenzione, gli occhi sgranati dalla meraviglia, fino a quando Karan aveva tirato leggermente la manica per attirare la sua attenzione. La ragazzina aveva indicato un piccolo viale lungo il costone della montagna, che sembrava sparire oltre la cascata stessa.

"Guarda bene," aveva detto con una voce bassa, come un bambino intento a raccontare una storia paurosa in una serata estiva. "Lì dietro... c'è una grotta."

Sion aveva guardato con attenzione nella direzione indicata dalla bambina, e aveva notato un'ombra nera che si perdeva oltre il salto dell'acqua. Sembrava davvero l'ingresso di una grotta. La curiosità stava già spingendo i suoi piedi in quella direzione, quando venne fermato dalla voce della ragazzina. "Si dice che quelle grotte corrano attraverso tutte le montagne," proseguì la ragazzina, in tono serio. Rico strinse con più forza la sua mano. "Si dice che chi si addentri lì dentro non riesce più ad uscire, è la strada per un altro mondo."

Sion aveva sorriso loro, inginocchiandosi davanti a Rico per accarezzargli rassicurante la testa. Il bambino lo aveva guardato con i grandi occhioni spalancati, fino a quando sua sorella non gli aveva posato una mano sulla spalla. "è solo una diceria per non far avvicinare nessuno. È vero, però, che si trovano un gran numero di grotte e cunicoli lì sotto. Nessuno si avvicina a quel posto."

Sion aveva guardato verso la cascata per l'ultima volta, domandandosi se avessero condotto davvero in un altro mondo, poi prese per mano i due bambini. "Torniamo a casa adesso." Ed avevano ridisceso insieme lo stretto viale alberato.

 

Quando si ritrovava a dover aspettare l'arrivo di Nezumi, in ritorno dal suo lavoro in teatro, - che non era ancora riuscito a convincerlo a mostrargli, - avrebbe preso un paio di libri, e con i topolini in spalla sarebbe andato a leggere in riva al fiumiciattolo. E lì sarebbe rimasto fino a quando il tramonto avrebbe annunciato l'imminente ritorno di Nezumi.

 

Sion girò il famigliare angolo dell'edificio semi dissestato, e si avvicinò alla falsa parete. Cercò con le dita il masso che gli aveva indicato Nezumi e pigiandolo, la parete scivolò lateralmente in modo silenzioso, mostrandogli il sottoscala semi immerso nell'oscurità. Sollevò il grosso contenitore con le due mani, cercando di convogliare la forza nelle braccia. Questa era la parte più difficile, e puntualmente avrebbe visto spuntare Nezumi da dietro la parete.

Anche questa volta non faceva eccezione. Ed infatti senza dire una parola, l'altro ragazzo risalì le scale scuotendo la testa e gli prese la tanica d'acqua dalle mani. Sion mormorò un grazie e raccolse il carrello, seguendo giù Nezumi per le scale.

Era ormai diventata una consuetudine.

 

L'odorino che raggiunse il suo naso appena entrato nella stanza, gli fece brontolare sonoramente lo stomaco. Sentì le guance avvampare leggermente, mentre vedeva Nezumi versare la tanica d'acqua all'interno del serbatoio. Era grazie a questo che potevano permettersi una doccia con acqua corrente, anche se era talmente vecchia e mal funzionante che i getti d'acqua gelida si alternavano a quelli d'acqua bollente, facendolo sobbalzare ogni volta. Eppure anche così, era una fortuna poter usufruire di una doccia nel West Block.

 

Sospirò sonoramente, buttandosi pesantemente sulla sedia.

 

"Già stanco? Sei davvero debole tu." Disse Nezumi con un sorrisetto sul volto, passandogli la ciotola con la sua razione di pane zuccherato per colazione.

 

Sion lo fulminò con lo sguardo, decidendo che era troppo stanco ed affamato per rispondergli, e prese la sua colazione tra le mani, ringraziandolo poi con un sorriso. Nezumi si poggiò contro il tavolo poco distante da Sion e fece colazione lentamente.

Sion lo guardò con la punta dell'occhio. Questa mattina sembrava più rilassato. "Nezumi?"

"Mh?" disse continuando a mangiare.

"Devi uscire presto stamattina?"

 

"Cosa c'è, senti già la mia mancanza?"

 

Sion sentì le guance diventare rosse e gli lanciò contro il tessuto di superfibra appallottolato, che era rimasto appeso al bracciolo della sedia fino a quel momento. Nezumi sorrise, afferrandolo al volo con non curanza, e se lo lanciò su una spalla, mormorando un "Grazie, ma sai, prima della sciarpa va indossato il giubbotto."

Sion considerò se fosse il caso di lanciargli la ciotola ancora piena di colazione, ma decise di no. Lo zucchero era un alimento prezioso e difficile da trovare, il loro arrivava dalla dispensa di Rikiga-san che lo aveva costretto ad accettare come regalo. Non era opportuno sprecare il cibo, meglio mangiarlo, decise, e si limitò a mormorare un "idiota."

 

Nezumi finì di mangiare il resto della colazione, prese la ciotola dalle mani di Sion e le portò entrambe al lavello, accingendosi a sciacquarle.

"Aspetta, lascia che le lavi io" Disse Sion affrettandosi a raggiungerlo al lavello del bagno.

"Non serve. Piuttosto, non sarebbe meglio ti facessi una doccia? Guardati, sei completamente fradicio che potrei strizzarti e riempire un secondo catino d'acqua."

"Ma tu hai da fare, non è giusto che faccia sempre tutto tu." Obbiettò Sion.

"Sion, tranquillo. Va' a farti pure quella doccia, va bene così." Disse Nezumi senza degnarsi nemmeno di guardarlo.

"...Ok"

 

Sion tornò nella stanza, cercando velocemente un asciugamano in mezzo alla montagna di libri. I topolini sembravano sapere cosa stesse cercando, e corsero su e giù per lo scaffale fino a quando Sion non individuò la posizione dell'asciugamano.

"Grazie." disse sorridendo ai piccoli roditori che squittirono per risposta. Raccolse l'asciugamano e tornò nel bagno dove Nezumi aveva appena terminato di lavare le ciotole. Rimase in piedi contro la porta della doccia a fissare le spalle di Nezumi, fino a quando questo non si girò a guardarlo.

"Cosa c'è?" "Stavo aspettando che uscissi dal bagno"

"Che c'è, ti vergogni di farti vedere nudo?"

"Questo non- non centra niente, è solo che la stanza è piccola, e non c'è abbastanza spazio per due persone."

"Oh, mi perdoni sua maestà, tuttavia il tempo stringe e avrei bisogno di eliminare un po' di barba da questo mio volto." Disse prendendo un vecchio rasoio da una scatola dell'unico mobiletto del bagno. "Deve perdonarlo, ma questo suo umile servo necessita di fare uso di questo viso per poter portare cibo alle regali labbra di sua maestà."

 

Sion lo guardò mentre bagnava la lametta con l'acqua, e senza applicare schiuma da barba o altri prodotti passava la lama contro la pelle, spostando la bocca in una buffa espressione alla ricerca di un'angolazione migliore. Nezumi lo notò trattenere a stento una risata attraverso lo specchio. "Bhe, ti decidi a spogliarti o vuoi che lo faccia io per te?"

Sion lo guardò a metà tra l'indignato e l'imbarazzato, e si girò di spalle, sentendo le guance andare a fuoco. Nezumi ridacchiò guardandolo dallo specchio, e aggiunse. "Avanti, non è niente che io non conosca già."

"Ah già, dimenticavo che tu fossi uno stalker"

"Oh, giusto, avresti preferito che ti lasciassi portare al penitenziario. Mi dispiace, non me ne sono reso conto prima. Ma non è troppo tardi, sei ancora in tempo per andarci. Sono sicuro che ti accoglierebbero a braccia aperte." Nezumi vide Sion fargli una linguaccia attraverso lo specchio, poi proseguì con un sorriso sarcastico, "E poi con il fisico che mi ritrovo non potrei di certo lasciarmi impressionare da un corpo pelle ed ossa come il tuo"

A queste parole una maglietta piovve sulla testa di Nezumi, intento ancora a guardare nello specchio, tentando di non tagliarsi con il rasoio. La piccola bestemmia che Sion sentì provenire da sotto la maglietta, gli fece immaginare che probabilmente si era proprio tagliato. Ridacchiando soddisfatto della sua piccola vendetta, entrò nella doccia, chiuse la tenda mezza strappata, e gettò gli slip da qualche parte in direzione di Nezumi.

"Anche se devo ammettere che un serpente intorno al corpo è alquanto affascinante..."disse afferrando al volo gli slip prima che gli colpissero la testa "Hai idea di quanti ammiratori in più potrei avere? E con quei capelli poi?"

Allo scrosciare silenzioso dell'acqua Nezumi strinse impercettibilmente gli occhi. Il ricordo della vespa parassita doveva essere ancora qualcosa di doloroso per Sion. Il simbolo della sua sopravvivenza.

 

Nezumi strinse il pugno, fissando il suo riflesso negli occhi. Qualunque fosse stato il prezzo da pagare per continuare a vivere, lui avrebbe continuato a vivere comunque. Questa era la sua filosofia, questo era il modo in cui aveva scelto di vivere. Aveva una vendetta da compiere, e avrebbe continuato a vivere fino al giorno in cui avrebbe visto il suo nemico in ginocchio implorante pietà. E lui avrebbe dato un fendente deciso, staccando di netto la testa al suo nemico. Solo allora avrebbe lasciato spazio a qualsiasi altro pensiero. Rimpianti, tristezza, solitudine, desiderio. Nulla contava di più di continuare a vivere. Qualsiasi fosse stato il prezzo da pagare, lui avrebbe accettato di tutto, purché fosse stato in grado di continuare a vivere, a tenere in vita il ricordo.

 

Si toccò istintivamente la base della schiena. Qualunque fosse il prezzo, vivere era più importante.

 

Per questo, quando aveva visto Sion andare in panico alla vista di quella cicatrice e dei suoi capelli, del suo aspetto completamente mutato, aveva pensato eccolo lì, il cittadino di No.6, una persona capace di dare peso solo a qualcosa di arrogante e superficiale.

Eppure Sion lo aveva sorpreso. Guardandolo dritto negli occhi gli aveva detto che voleva vivere, che non importava quello che sarebbe potuto diventare, la sua vita era più importante. Non si era vergognato di quello che era divenuto il suo nuovo aspetto. Non aveva cercato di mutarlo o coprirlo, di nascondere i segni della sua battaglia per la vita. Aveva accettato di portare su di sé quei segni, di indossarli con orgoglio quale simbolo della sua vittoria. Non glie lo aveva mai detto, ma era rimasto davvero colpito dallo Sion che si era trovato davanti quel giorno.

 

Davvero imprevedibile... quando penso di aver capito che persona sei, ecco che fai qualcosa di totalmente inaspettato...

 

"Scusami, non volevo farti ricordare." Va bene così, se non è rimpianto il tuo allora va bene...

 

"No... tranquillo. È che non mi sono ancora abituato a tutto questo. Tutto qui."

 

Nezumi vide il suo riflesso nello specchio sorridere leggermente. Per un attimo si ritrovò sorpreso nel vedere un'espressione simile sul suo volto. Sono forse... fiero di lui...?

 

Scosse la testa per scacciare il pensiero, e vide una mano fare capolino dalla tenda ed afferrare l'asciugamano posato sul piccolo sgabello. Pochi istanti dopo Sion uscì dalla doccia, asciugamano in vita, e con un piccolo inchino indicò la doccia. "Vostra maestà, il suo umile servitore ha terminato il lavaggio delle sue carni. È libero di servirsi del nobile lavacro adesso" Disse, poi raggiunse Nezumi accanto al lavello.

 

"è tanto difficile radersi con quell'affare?" disse indicando il rasoio che era posato ora su di un bordo del lavello. Nezumi lo guardò perplesso, chiedendosi quali peli pensasse di tagliarsi, visto che non glie ne vedeva quasi nessuno, poi gli disse indicando il mobiletto.

"Lì dentro c'è un vasetto con una specie di spuma da barba. È fatta con la cenere, non è difficile da fare. Io non la uso perchè mi secca prepararla, e riesco a fare la barba anche senza, ma se ti serve puoi usarla."

Sion guardò per un momento nella direzione indicata dal dito di Nezumi, chiedendosi esattamente quante cose fosse in grado fare Nezumi, e poi aprì il mobiletto, tirando fuori un barattolo contenente un liquido biancastro.

"Questo come hai imparato a farlo?" "Ti prego, non cominciare con il tuo interrogatorio già di prima mattina."

"E dai, ti ho chiesto solo una cosa...."

Dopo qualche secondo di lotta di sguardi, Nezumi sospirò, un sospiro esagerato.

"Dai libri puoi imparare di tutto, credo di avertelo già detto."

Sion fissò Nezumi con ammirazione, uno sguardo che fece quasi venire i brividi a Nezumi, poi si girò determinato verso il lavello, e cominciò la sua operazione di sbarbatura.

Nezumi fissò per un attimo Sion, poi guardò la doccia con disagio.

 

Sion notò la perplessità dell'altro attraverso lo specchio."Nezumi?"

"Mh?", "Cosa c'è?"

 

"Mh?"

 

"Cosa c'è? Mi sembri strano."

Nezumi guardò un'ultima volta verso la doccia, poi andò verso la porta. "Nulla, questa stanza è davvero troppo stretta, vorrà dire che farò la mia doccia quando avrai finito. Stanza tutta tua, contento?" e senza aggiungere altro chiuse la porta alle sue spalle.

 

Sion rimase a fissare la porta per qualche secondo poi tornò a concentrarsi sul riflesso nello specchio. Che strano... come mai era andato via? La stanza stretta era chiaramente una scusa,

...ma perchè?

All'improvviso gli venne in mente qualcosa. Nezumi non era mai comparso davanti a lui senza maglietta, mai, nemmeno una volta. Tra due ragazzi che vivono insieme, cambiarsi nella stessa stanza non era qualcosa di inconsueto, eppure Nezumi sembrava sempre sparire ogni qual volta doveva cambiarsi. Perchè?

 

Uno bussare alla porta interruppe il flusso dei suoi pensieri.

"Ohi Sion." "Mh?" "C'è una lettera per te."

 

Finito di farsi la 'barba', o come aveva detto Nezumi di "Togliere quei due peli in fila che hai in faccia", Sion uscì finalmente dal bagno, trovando Nezumi accanto alla porta in compagnia di un grosso cane marrone chiaro. Era uno dei cani di Inukashi, quello che li aveva seguiti quel giorno al mercato. Si avvicinò a Nezumi, che senza dire una parola gli passò un foglio giallastro. Lo aprì, e alcuni caratteri insicuri e slabbrati comparivano al di sopra, macchiati e sbiaditi dalla saliva del cane.

 

Ehi Sion, ti interessa un lavoro? È un lavoro come lavacani. Mi servirebbe una mano. Se ti va di farlo, segui il cane. Finquando sarà con te, nessuno dovrebbe farti nulla di strano. Ci si vede. Oh, PS: questo qui ha detto che saresti un lavacani perfetto”

 

Cosa è un lavacani?” , “Esattamente quello che hai letto. Dovresti lavare i cani...quelli che Inukashi presta come scaldini. Quelli grossi e docili dal pelo lungo. Dovrebbero essercene una ventina. A volte i clienti si rifiutano di pagare perché i cani puzzano o hanno le zecche, così una volta a settimana, in una giornata soleggiata, porta i cani fuori e li lava. Allora, cosa pensi di fare?”

Ci vado, ovviamente” Sion stava ardendo dalla contentezza. “Mi ha chiesto se voglio un lavoro. Il mio primo lavoro. Ho un lavoro adesso”

La pianti di entusiasmarti?” disse Nezumi con una smorfia. “Cavoli, è davvero facile farti contento, eh?” “Nezumi, pensi dovrei portare qualcosa con me? Del sapone forse?”

Probabilmente non ti servirà nulla. Stai solo attento a uomini e donne che potrebbero trascinarti in un vicolo buio. Teoricamente se quel cane è con te, non dovrebbero esserci problemi. Sto uscendo anche io, facciamo mezza strada insieme”

 

A proposito, mi piacerebbe vedere dove lavori, un giorno. E magari assistere ad uno spettacolo”

 

Non sperarci troppo”

 

Il cane abbaiò.

 

Grazie” gli disse Sion. “Grazie a te sono riuscito ad avere il mio primo lavoro. Sono tutto tuo, portami pure dove vuoi”

 

***

 

La porta del forno si richiuse, seguita da un campanello, e Karan sospirò. Erano passati più di tre mesi da quando suo figlio era uscito di casa una mattina, senza più fare ritorno, e nonostante fosse ora consapevole che suo figlio era vivo da qualche parte nel West Block, non poteva fare a meno di sentirsi in ansia per lui. Come viveva? Mangiava abbastanza? Stava bene? Era in pericolo?

 

Diverse erano le voci che aveva sentito a proposito di quel posto, e diversamente da molti residenti di no.6, lei poteva dire aver conosciuto il luogo con i suoi stessi occhi. Si trattava di qualcosa risalente a tantissimi anni fa, quando No.6 era ancora una cittadina in fase di crescita, ed era possibile spostarsi liberamente tra i blocchi. Anzi, in realtà il West Block, nella sua struttura attuale, non era altro che ciò che restava del piccolo paesino dove lei stessa era nata e cresciuta, Rose Street.

Aveva passato la sua infanzia in quel luogo, quando gli stati mondiali non facevano che guerreggiare tra loro. Era poco più che una ragazzina all'epoca ma ricordava ancora bene quegli avvenimenti. Guerre, riscaldamento globale, corsa al nucleare. L'uomo aveva finito per distruggere quasi la totalità delle terre che occupava. Era poco più che una bambina all'epoca, ma anche dopo tutti questi anni non riusciva a dimenticare la preoccupazione negli occhi dei suoi genitori e di qualunque adulto che guardava un bambino.

 

In quale mondo vi costringeremo a vivere? Perdonateci, abbiamo sbagliato ma ormai è troppo tardi per rimediare.

 

Karan strinse una mano al petto, sedendosi sulla piccola sedia di legno scuro dietro al bancone. La stanza semi immersa nell'oscurità era talmente silenziosa che le sembrava quasi di impazzire. Accese distrattamente il piccolo televisore appeso alla parete, e posò il proprio mento nel palmo della mano, il gomito poggiato contro il bancone.

 

Sion...

Ora che era madre poteva comprendere bene la preoccupazione che aveva visto negli occhi dei suoi genitori.

Dove abbiamo sbagliato. Un pensiero che le capitava spesso di formulare.

 

Aveva vissuto all'interno di questa città dalla data della sua creazione. Aveva assistito a tutti i momenti bui e le lotte che l'umanità aveva dovuto affrontare per sopravvivere, quando più della metà della popolazione mondiale era morta a causa delle guerre o delle conseguenze delle sconsiderate scelte dell'uomo. L'uomo aveva lentamente condotto se stesso alla rovina, e i pochi sopravvissuti avevano cominciato a interrogarsi su dove avessero sbagliato. Erano stati ignoranti ed arroganti. La brama per il potere e la ricchezza li aveva portati alla distruzione. Guerre, malattie, sconvolgimenti climatici, l'uomo si era ripromesso di non ricommettere mai più gli stessi errori.

Così sul pianeta, le persone sopravvissute avevano abbandonato con riluttanza razza, nazionalità, confini, ed avevano giurando di mantenere la pace, e di vivere con semplicità. Da questa speranza e volontà di rinascita erano nate sei metropoli.

 

Questa avrebbe dovuto essere la città in cui viveva. Un luogo dove vivere in pace. Un utopia. L'ultima speranza e l'ultimo baluardo della razza umana. Qui, le persone potevano vivere al sicuro, dalla loro nascita fino alla morte, in tranquillità e felicità. Si supponeva dovesse essere così. Lei non si era mai soffermata a pensare seriamente a tutto questo. I cittadini vivevano nella convinzione che, fino a quando fossero restati in No.6, una vita appagante sarebbe sempre stata loro garantita.

 

Ecco cosa pensavano – avevano pensato – era stato insegnato loro a pensare così.

 

È tutta una menzogna. Tutto quanto – è solo apparenza.

 

La verità era diversa... Erano tutti divisi in classi, attraverso i loro ID card, al punto da non essere nemmeno liberi di muoversi all'interno della Città. Suo figlio era stato preso forzatamente in custodia, e non le era permesso nemmeno di presentare un'obiezione formale, o di rivederlo per l'ultima volta. Dove era questa libertà? Dove erano la pace, la salvezza, e la vita di soddisfazioni? Non esistevano affatto.

 

Se è così, allora cosa abbiamo fatto per tutto questo tempo? Perché mai abbiamo creato una Città simile? Cosa abbiamo fatto – in cosa abbiamo sbagliato?

 

Non poteva fare a meno di domandarsi quale fosse il mondo che avevano lasciato in eredità ai propri figli, così come i suoi genitori si erano domandati quale sarebbe il mondo in cui sarebbe vissuta lei.

 

Infilò una mano nella tasca del grembiule. Al suo interno c'era il piccolo pezzo di carta che aveva acceso la luce della speranza ancora una volta, quella sera.

 

Mamma, mi dispiace. Sono vivo e sto bene.

 

Erano le parole dell'ultimo bigliettino che aveva ricevuto da suo figlio, consegnatole da un piccolo topolino dal manto castano, che la stava attendendo nella stanza a fianco, mentre aveva servito gli ultimi clienti. Gli aveva dato un roll al formaggio, come aveva fatto la prima volta che il piccolo roditore le aveva consegnato il messaggio che le aveva permesso di scoprire che suo figlio era in salvo, che si trovava da qualche parte nel West Block. Era riuscita a ritrovare la speranza grazie a poche semplici parole scritte su di un piccolo pezzo di carta, ma esse avevano acceso in lei un ulteriore angoscia. Come viveva suo figlio? Era terrorizzato? Quando lo avrebbe rivisto?

Di una cosa sola era certa. La persona che si trovava con lui in quel momento, quella persona che si era firmata Nezumi in quel suo piccolo biglietto di speranza, doveva essere la persona che Sion aveva passato gli ultimi quattro anni nella speranza di rivedere. Non conosceva i dettagli, suo figlio aveva sempre evitato il discorso, eppure diverse volte lo aveva colto distratto e sognante, e in una di quelle occasioni era riuscita a sentirgli fare proprio quel nome. Nezumi.

Non sapeva chi fosse, ma era facile sospettarlo. La ragione della loro caduta da Cronos alla parte più bassa della città. Il VC che Sion aveva aiutato il giorno del suo 12 compleanno, nascondendolo dal dipartimento di sicurezza. Non aveva mai biasimato suo figlio per le scelte che aveva compiuto. Certo, per una persona dalla grande intelligenza come Sion, era facile dire che si fosse trattato di un gesto avventato e sconsiderato, ma non poteva portarsi a condannare l'azione di suo figlio. Lei sapeva che suo figlio aveva scelto il suo cuore al lusso e la ricchezza, e questo era qualcosa che non avrebbe mai potuto rimproverargli.

 

Squit Squit’

 

Il suo pensiero venne interrotto dal verso del topolino, seduto sul pavimento davanti a lei, che la guardava in attesa.

"Oh, perdonami, signor-topolino. Ero persa nei miei pensieri e mi ero dimenticata di te, scusami." Disse, prendendo dal vassoio un altro pezzo di pane al formaggio. Gli avrebbe dato una doppia razione per farsi perdonare. "Stai aspettando che scriva la mia risposta?" disse abbassandosi davanti a lui, e porgendogli il pezzo di pane. Il topolino le si avvicinò esitante, annusò il pane un paio di volte, ed infine cominciò a mangiare dalle sue mani. Karan sorrise, e lasciò cadere a terra il pezzo di pane. "La scrivo subito, perdonami se ti ho fatto aspettare."

 

Nel momento in cui si stava sollevando in piedi, sentì bussare alla porta.

 

Il suo animo si riempì d'ansia. Che si trattasse del dipartimento di sicurezza? Nezumi le aveva scritto di fare attenzione, perchè avrebbero potuto tenerla sotto sorveglianza, ma per la gioia dell'aver ricevuto il biglietto non aveva pensato ad eventuali telecamere.

 

Guardò sospetta verso la porta. Se qualcuno avesse tentato di entrare con la forza, la porta non avrebbe retto a lungo. Strinse forte il pugno intorno al bigliettino nella sua tasca, mentre il piccolo topolino correva ad arrampicarsi su di uno scaffale, e si avvicinò al bancone. "S-si?"

Una voce femminile rispose al di là della porta. "Chiedo scusa per l'ora... c'è nessuno in casa?"

Al suono gentile ed esitante, il battito del cuore di Karan rallentò leggermente. Quella voce, pensava di conoscerla.

Si avvicinò alla vetrina del negozio, scostando leggermente la veneziana, ed una giovane donna, avvolta in un cappotto grigio che le arrivava fino alle ginocchia, comparve davanti a lei.

"Safu."

 

 

Accertatasi dell'identità della ragazza la fece accomodare. Ricordava Sion aver detto che la ragazza era partita per uno scambio, ma sembrava fosse tornata a causa della morte di sua nonna. Anche lei, così giovane, aveva conosciuto cosa significava restare completamente soli al mondo. No, non era preciso. Perché Karan conservava ancora nel cuore la speranza di poter rivedere suo figlio un giorno.

 

All'improvviso, la ragazza la guardò decisa.

 

La prego, mi dica dove si trova Sion. È vivo, non è vero? Non è tenuto prigioniero nel Penitenziario. Lui è vivo...dove si trova?”

 

Karan aveva nutrito il sospetto che potesse essere qualche tranello da parte del dipartimento di sicurezza, ma era presto giunta alla conclusione che se avessero desiderato ricavare informazioni da lei, lo avrebbero fatto in altro modo, come con un siero della verità. Così le aveva detto tutto quello che sapeva, grata del fatto di non essere l'unica a vivere con quell'angoscia. Safu le aveva detto che credeva che fino al momento in cui Sion fosse rimasto al di fuori della città, sarebbe stato al sicuro. "Sento che questa Città è davvero chiusa... Chiusa in se stessa come un riccio. Completamente isolata e che risolve tutto al suo interno... e minimamente interessata o intrigata da quello che si trova al di fuori da essa” le aveva detto la ragazza.

 

Era vero, tutto ciò che accadeva al di fuori della città era come se accadesse su un altro pianeta. Non si era mai soffermata a pensare a quello che accadesse alle terre al di fuori delle mura, da quando aveva cominciato a vivere al loro interno. Il mondo era limitato a quelle mura, ecco quale era la visione generale diffusa tra tutti i cittadini. Eppure... non era un mistero che al di fuori vivessero altre persone... allora perché, perché tutti riescono a ignorare le loro esistenze come se non fossero nemmeno umani?

 

Signora, dove si trova Sion?” La domanda della ragazza la colse alla sprovvista. Dove si trovava suo figlio? Tutto quello che sapeva era che si trovava al di fuori delle mura, in quel West Block dove le vite dei residenti non riusciamo a considerare nemmeno al nostro pari...

 

È nel West Block... è tutto ciò che so.”

 

West Block...Allora è cosi?” Un sospiro sfuggì dalle labbra di Safu. Per un istante il suo sguardo vagò nell'aria. Poi chinò profondamente il capo verso Karan.

 

La ringrazio. Sono felice di averla potuta rivedere, Signora”

 

Aspetta. Cosa hai intenzione di fare, ora che sai dove si trova Sion?”

 

Andrò da lui”

 

 

Ma...ma...lo hai detto tu stessa ora. Potrebbe essere possibile uscire dalla città, ma rientrare...”

 

 

"Non ha importanza per me" Aveva risposto Safu piena di determinazione. “Anche se non potessi far ritorno mai più qui, non lo rimpiangerei. Se Sion si trova nel West Block, allora è lì che andrò”

 

Aveva provato a fermarla, aveva provato a fermare quella ragazza determinata e innamorata. Ma si sa, l'amore è una delle forze più potenti e distruttive esistenti al mondo, e una persona spinta da essa diviene quasi inarrestabile. Così Safu era andata via, stringendo tra le sue mani il suo amore e la sua forte determinazione di raggiungere la sua persona amata.

 

"Non posso starmene seduta ad aspettare Sion in questo stato. Voglio vederlo così tanto. Questo è tutto quello che posso fare... non sono una madre, signora...non posso essere forte come lei. Non posso continuare ad attendere fiduciosa. Non voglio dover rimpiangere nulla. Se...se per caso, dovesse finire per non tornare più in dietro... sarei io a dover soffrire per tutta la vita. Non desidero questo.” Questo era quello che aveva detto. Le aveva chiesto chi si trovasse con suo figlio, e quando Karan le aveva fatto quel nome che era riuscita ad udire per caso dalle labbra di suo figlio, una scintilla si era accesa negli occhi della ragazza.

 

Signora, sono felice di essere riuscita ad incontrarla. Addio” Le aveva detto, e poi era andata via.

 

Karan era rimasta in silenzio, pensando ad un modo per fermare la ragazza. Non poteva permetterlo, da adulta e da donna non poteva lasciare che una ragazza così giovane si mettesse in pericolo per una cosa simile.

 

Una donna può andare avanti a vivere senza un uomo. Potrà essere doloroso, potrà sembrare come se le tue braccia ti fossero state strappate via dal corpo, ma saresti comunque in grado di vivere e portare con te quella ferita. Anche con quel peso, un giorno sarai in grado di ridere di nuovo. Ecco perché...ti prego, non mettere la tua vita in pericolo per un uomo. Ti prego, vivi per te stessa.

 

Avrebbe voluto dirle quelle parole, ma non era riuscita a farlo. Sapeva che non sarebbero state ascoltate. Anche lei, in passato aveva amato un uomo con tutta se stessa. Eppure quando questa persona l'aveva abbandonata, lasciandole come unico dono quel figlio di cui lui stesso aveva scelto per nome quello del fiore che lei amava tanto, era andata avanti a vivere, aggrappandosi con tutte le sue forze a quella piccola vita tra le sue braccia. Ed ora quell'ancora le era stata strappata via dal dipartimento di sicurezza, e lei non aveva la forza o il coraggio di fare altro se non attendere fiduciosa un ritorno che avrebbe potuto non avvenire mai. La ragazza che era appena andata via, invece, era disposta a prendere in mano le redini della sua vita e combattere per il suo cuore. Due strade completamente diverse, due modi di amare differenti. Eppure poteva dire che uno dei due fosse sbagliato? Non era forse scegliere il sentimento alla ragione qualcosa che anche suo figlio aveva fatto quattro anni prima? Però lei era un'adulta, aveva il dovere di essere forte anche per quei ragazzi che si abbandonavano al proprio cuore. Aveva deciso che avrebbe protetto quei sentimenti preziosi, perché il cuore era forse l'unica speranza che ancora restava all'umanità.

 

Squit squit’

 

Guardò verso la sedia da cui proveniva lo squittio. Il topolino marrone sedeva su di una piccola sciarpa rosa. Era la sciarpa di Safu. Karan ringraziò il piccolo topino per averle dato il pretesto di correre dietro alla ragazza, raccolse la sciarpa, mentre il topolino entrava in una sua tasca, e lasciò il negozio.

 

 

Trovò la ragazza sulla strada principale, camminava in direzione della stazione.

"Safu!"

 

La ragazza si girò verso di lei, guardandola stupita. "Signora, cosa ci fa qui? Se pensa di potermi fermare, mi spiace ma ho già preso la mia decisione."

 

Karan la guardò esitante, stringendosi un pugno al petto. Sapeva che sarebbe stato difficile ma doveva farle cambiare idea in qualche modo. "Hai lasciato questa in negozio. È fatta a mano, ho pensato dovesse essere un oggetto davvero prezioso per te."

 

Safu fissò la sciarpa per qualche secondo, poi la prese e la strinse al petto. "La ringrazio. È un oggetto molto prezioso per me, è stata mia nonna a farlo."

 

Karan sorrise. Determinata come una donna, ma in lei c'erano ancora i segni di una bambina rimasta sola. Le posò una mano sulla spalla. "La prossima volta vieni pure a trovarmi prima di pranzo” Sperò che le sue parole riuscissero a raggiungere in qualche modo la ragazza vestita di grigio.

 

Prima di pranzo?”

 

Sì. Sforno il pane da prima mattina fino a pranzo. Di prima mattina sforno sopratutto panini e pagnotte, ma verso l'ora di pranzo, anche pane dolce e torte. Stavo pensando di preparare tre specialità diverse di muffin. Mi piacerebbe che venissi ad assaggiarle. Avrei anche del delizioso tea nero per accompagnarli”

 

Ci fu un momento di silenzio tra le due.

 

Ma certo” proseguì Karan, “Safu, se ti va, ti andrebbe di aiutarmi qui in negozio? Potrei insegnarti come si prepara il pane. Mi sono sentita molto sola tutto per questo tempo. Se ti andasse di venire a lavorare qui ne sarei tanto felice”

 

Sapeva che si stava comportando da sciocca. Ma cos altro avrei potuto dire? Come altro potrei distrarre il suo cuore da Sion? Come potrei proteggerla dal pericolo?

 

Grazie, Signora. Io adoro i muffin. Non vedo l'ora di poterli assaggiare”

 

La ragazza stava nuovamente per andare via, quando un'automobile si avvicinò verso di loro a tutta velocità. "Safu attenta!"

 

Karan si era lanciata verso la ragazza, ed erano ricadute entrambe al pavimento. Safu sentì l'aria mozzarsi in gola mentre Karan gemeva leggermente tastandosi un braccio. "Signora, si è fatta male?"

Karan stava sorridendo alla ragazza per rassicurarla, quando udirono un frastuono nella direzione in cui era diretta l'auto, seguito dalle voci di numerose persone che gridavano. Sollevarono entrambe il capo, notando l'auto che le aveva investite, poco distante da loro. Dal suo cofano fuoriusciva del fumo. L'auto era salita su di un marciapiede poco distante da loro ed era andata a schiantarsi conto il muro di un edificio. Numerose persone si erano immobilizzate alla scena, e una cospicua folla di persone stava cominciando a raccogliersi intorno all'automobile sul marciapiede.

 

Safu fu la prima a sollevarsi in piedi, porgendo una mano a Karan per aiutarla a tirarsi su. "Signora, la ringrazio. Mi ha salvato la vita."

 

Karan le sorrise caldamente, un sorriso che le ricordava tanto quello Sion. Quella gentilezza, quel calore che faceva stare bene anche alla sola vista. Le mancava così tanto...

I capelli scompigliati della donna fuoriuscivano dalla fascia che li raccoglieva sulla testa, mentre con la mano si stava premendo ancora il braccio. Si era ferita per proteggerla.

"Signora, lei è ferita. Lasci che la - " Le parole della ragazza che stava allungando la sua mano verso il braccio della donna, vennero sopraffatte da diverse urla. Le grida delle persone che si stavano accumulando intorno all'auto erano fatte sempre più forti e impaurite. Safu sentì il suo sangue raggelarsi nelle vene, mentre una strana ansia si impadroniva del suo cuore.

 

"Che... che cosa succede?"

 

Safu prese Karan per mano, e guardando la donna negli occhi, le fece cenno con la testa. "Andiamo a vedere... " Karan si strinse una mano al petto, ed annuì leggermente.

 

Erano giunte davanti all'auto completamente attorniata da persone, quando all'improvviso si alzò un nuovo boato dalla folla. Una donna era caduta a terra, e si stringeva convulsamente il capo. Le persone accanto a lei si affrettarono a soccorrerla, ma nel momento in cui le avevano sollevato il volto e avevano provato a fermarle le braccia per lasciarla respirare meglio, quello che si erano trovati davanti era stato uno spettacolo agghiacciante. La pelle della donna era completamente ricoperta di rughe e macchie nere. Esattamente davanti ai loro occhi i capelli della donna erano letteralmente diventati bianchi, e ciocca dopo ciocca erano piovuti al pavimento, come se non avessero più avuto l'energia per mantenersi al proprio posto. Dopo i capelli, anche i denti avevano fatto lo stesso, mentre le sue labbra si muovevano disperate senza emettere alcun suono. L'uomo che le stava reggendo il viso aveva sgranato gli occhi inorridito, ed aveva lasciato la presa come scottato. La testa della donna aveva battuto rumorosamente contro il selciato, ma nessuno sembrava avergli dato peso. Alcuni gridavano, altri correvano impauriti, altri ancora fissavano la scena immobili, ma nessuno andava in soccorso della donna che continuava a contorcersi sul pavimento. Karan si abbassò verso la donna, quando si sentì chiamare.

 

"Oba-chan?" La donna sollevò il volto, mentre Safu correva dalla signora riversa al pavimento, che sembrava ormai aver smesso di muoversi. Cercando tra la folla, Karan individuò la voce di chi l'aveva chiamata. Era una piccola ragazzina con i codini che sedeva in braccio alla sua mamma. "Lili, Renka-san."

 

La donna teneva sua figlia strinta a se, in modo da coprirle la visione della donna che giaceva immobile a terra, ma anche così la bambina tremava visibilmente. Al fianco della donna, un uomo dai capelli neri che non aveva mai visto prima di allora, con uno strano corvo sulla spalla, assisteva alla scena con un'espressione indecifrabile. Appena l'aveva vista, Lili aveva allungato le sue mani verso Karan, che l'aveva presa in braccio stringendola forte a sé.

 

"Non possiamo stare qui, dobbiamo allontanarci prima che arrivino le autorità." aveva sussurrato l'uomo con sollecitudine all'orecchio di Renka, posandole una mano sulla spalla. Karan vide Renka guardare l'uomo sorpresa, ma dopo aver letto la serietà negli occhi dell'altro, aveva fatto di sì con la testa. Karan aveva pensato che l'uomo avesse gli stessi occhi di Lili e di sua madre. Deve trattarsi di un loro parente.

 

Karan sentiva il corpo tra le sue braccia tremare. Mentre stringeva la bambina a se, le sembrò di vedere un insetto nero allontanarsi dal gruppo di persone. Un insetto in quel periodo dell'anno? Doveva essersi sbagliata. La bambina si strinse ancora di più forte a lei. Piangeva "Oba-chan, perché gridano così? Ho paura..." Karan la strinse di più accarezzandole i capelli per tranquillizzarla.

 

"Karan-san, allontaniamoci di qui." le aveva detto la donna con uno strano tono. Karan l'aveva guardata insicura per qualche secondo.

 

"Safu, è tardi ormai per tornare a Cronos, ti andrebbe di restare qui stanotte?"

 

Safu rimase in silenzio. Guardò il braccio di Karan che sembrava crearle qualche disagio mentre stringeva la bambina tra le braccia, ed abbassò il capo mortificata. La donna si era ferita per proteggerla. Lanciò uno sguardo alla donna dall'aspetto grottesco distesa sul pavimento. La sua bocca era spalancata, e poteva vedere le gengive ruvide e bucate, dove fino a pochi attimi prima erano incastonati i denti bianchi che ricoprivano adesso il marciapiede poco lontani dal capo della donna. La pelle del suo cranio era raggrinzita e piena di macchie scure, e sotto la luce dei lampioni rifletteva uno strano colore. Sembrava traslucida, quasi trasparente. Le ciocche dei capelli caduti al pavimento ricoprivano il marciapiede insieme ai denti e alla sua borsetta. Non sembravano bianchi, ma quasi trasparenti. Come se ogni traccia di melanina fosse stata risucchiata dall'interno. Sembrava che ogni pigmento di colore fosse stato risucchiato via dalla donna, insieme alla sua giovinezza e la sua linfa vitale. Safu rabbrividì, mentre il suo sguardo ricadeva sull'auto a poca distanza da loro. Immerso nell'oscurità dell'abitacolo, anche il guidatore sembrava aver incontrato la stessa sorte della donna.

 

Cosa era successo? Cosa?

 

Sion... cosa sta succedendo in questa città?

 

Fece su e giù con la testa, annuendo distrattamente alla domanda della donna. Renka aveva preso sua figlia nuovamente tra le braccia e i quattro iniziarono a seguire l'uomo dai capelli neri.

 

"Meglio non tornare a casa, la città è disseminata di telecamere,- se ci riconoscessero non so cosa potrebbe accaderci... Per il momento è meglio nascondersi." Aveva detto l'uomo, mentre apriva lo sportello della sua automobile nera e salivano tutti e quattro nell'auto. "Non si tratta del il primo caso. Sono già scomparsi diversi testimoni..." Aveva detto mentre stringeva lo sterzo della sua auto. In lontananza si udivano delle sirene.

 

Karan infilò una mano nella tasca, dove il piccolo topolino messaggero era rimasto nascosto per tutto questo tempo.

 

Sta accadendo qualcosa di davvero strano... Sion, riuscirò davvero a rivederti?

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Sion accarezzò leggermente la testa del cane e dopo avergli detto grazie richiuse la porta. Tra le mani stringeva il sacchetto con un po' di carne secca e pane che aveva comprato di passaggio dal mercato, come gli aveva ordinato Nezumi.

Ormai era passata una settimana da quando aveva cominciato a lavare i cani per Inukashi, e salvo i primi giorni in cui il ragazzo non aveva fatto che lamentarsi per la sua lentezza e la sua "Abitudine di imbambolarti fissando l'aria", il suo lavoro si era fatto piacevole. Era vero, si trattava di un lavoro stancante, - di gran lunga più stancante di qualsiasi lavoro avesse mai fatto in no.6, - ma anche così non gli dispiaceva.

 

Sion si fissò le mani. Erano piene di cicatrici, la pelle era ruvida, e nel complesso erano diventate piuttosto scarne. Avevano perso tutta la morbidezza e la levigatezza che possedevano quando viveva all'interno della città, eppure era convinto che le sue mani mostrassero più forza adesso. Mani piene di vita, che si impegnavano per avere una presa salda su ciò che lo circondava e desiderava. Non gli dispiaceva lavorare. Era stancante, pensate, tornava alla sera con le spalle dolenti per essere rimasto tutto il giorno prono o aver trasportato numerosi secchi d'acqua, ma quel dolore, quella stanchezza, lo facevano sentire in qualche modo vivo. Sono vivo e lavoro giorno dopo giorno per continuare a vivere, tenendo stretta questa vita con gli artigli e con i denti.

 

Guardalo. Mister-Élite di No.6 che gioisce per un lavoro come domestico e dog-sitter. Sarà interessante vedere fino a che punto cadrai in basso.”aveva detto Nezumi qualche giorno prima, quando aveva manifestato la sua felicità perchè Inukashi gli aveva chiesto di continuare a prendersi cura dei cani e aiutarlo a pulire le stanze dell'hotel. Ma lui era felice per davvero. Lavorare lo faceva sentire libero, e anche la più piccola entrata che potesse sgravare un peso dalle spalle di Nezumi era più che benvenuta.

 

Io non credo che quello che sto facendo sia abbassarmi,” gli aveva risposto. “Ed anche tu sei d'accordo con me, non è forse così? Non credi affatto che tutto questo significhi 'abbassarsi'.”

 

Nezumi ovviamente aveva cambiato discorso, come tutte le volte in cui si era trovato in un angolo, e gli aveva affidato il compito di comprare il cibo con i suoi soldi. Dopo il primo fallimentare tentativo, in cui era stato derubato da un gruppo di ragazzini, e la loro cena si era ridotta a un terzo della razione originale, - con un Nezumi terribilmente irritato per contorno -, gli altri giorni erano risultati più fortunati.

 

Fortunatamente imparava in fretta, e per quanto gli facesse male vedere la gente affamata per le strade, sapeva di non poter fare nulla, Nezumi glie lo aveva ripetuto fino alla nausea...

 

"Cosa pensi poter fare con quella tua tiepida compassione? Salveresti solo per breve tempo una manciata di bambini dalla fame. Lascia che ti dica una cosa, Sion. Niente è più duro della fame dopo la sazietà. Questi bambini non conoscono cosa significa essere sazi. Ecco perché riescono ad andare avanti anche così. Lo capisci? Non c'è nulla che tu possa fare qui, assolutamente nulla.”

 

Avrebbe tanto voluto fare qualcosa, ma non gli era possibile, non ne aveva il potere... la sola vista di quei bambini, di quelle persone lo addolorava, gli stringeva il cuore, e l'impotenza che provava era ancora più dolorosa. Quella visione lo tormentava ogni volta che attraversava le strade affollate e brulicanti di vita del West Block. Aveva scelto di vivere in questo luogo, sentiva di desiderarlo per davvero, anche se gli fosse offerta l'opportunità di tornare nella città che lo aveva scacciato, eppure il dolore che provava alla visione di quei volti sofferenti, di quegli occhi supplicanti che lo guardavano ogni volta che usciva da un chiosco stringendo tra le mani la loro cena, lo colpivano con forza. Aveva chiesto di poter conoscere la verità, di poterla vedere con i propri occhi e ascoltarla con le proprie orecchie. E così era stato. Era ancora una parte infinitamente piccola della realtà del mondo in cui era nato, eppure non riusciva ancora ad abituarvisi. Tutto quello che riusciva a fare era provare dolore e dispiacersene. Ma intanto avrebbe continuato per la sua strada, stringendo al petto il sacchetto con il suo pane, stringendo al petto quel cibo che avrebbe permesso di vivere lui e Nezumi per un altro giorno. Non poteva fare altro.

 

La mia, verso quei bambini, è solo una falsa pietà? Un modo ipocrita per adulare la mia autostima?

 

Nezumi lo aveva accusato spesso di una cosa simile. In quest'occasione così come quando aveva cercato di offrire qualcosa ai due bambini che vivevano nella casa al di sotto della collina, Karan e Rico. I due bambini si univano spesso a lui per la lettura, quando Inukashi lo lasciava tornare a casa dopo aver terminato il suo lavoro e non era troppo tardi o prossima l'ora in cui sarebbe tornato Nezumi, avrebbe letto loro un libro. La sua vita ormai era caduta in una certa quotidianità. Lui e Nezumi avrebbero fatto colazione insieme, poi lo avrebbe accompagnato a metà strada fino all'hotel di Inukashi, nonostante il prestacani gli avesse lasciato il cane come guardia del corpo. Sarebbe rimasto all'hotel fino al primo pomeriggio. Tornato a casa avrebbe letto un po' per i bambini, e rimasto solo sarebbe andato nella piccola stanza di legno per continuare la lettura del libro che aveva scoperto. Aveva terminato la lettura proprio il giorno prima. Alcune pagine sembravano mancare - un intero capitolo strappato impietosamente per celarlo alla vista di qualunque lettore. Si chiedeva cosa avesse contenuto, ma oltre quello, il resto lo aveva trovato abbastanza comprensibile.

 

La Dea... era sicuro si trattasse delle vespe parassite.

Però non si sentiva ancora pronto per chiedere a Nezumi se fosse al corrente di qualcosa riguardo l'intera faccenda. Era sicuro si sarebbe arrabbiato, lo conosceva fin troppo bene ormai per non immaginare quale potesse essere la sua reazione. Glie ne avrebbe parlato, ma sentiva c'era ancora qualcosa che lo attendeva, qualche mistero irrisolto che non si era ancora manifestato...

 

Finito di sistemare la spesa sul tavolo, si diresse verso la piccola stanza accanto al bagno. Un topolino corse dietro le sue gambe, sapendo che avrebbe iniziato a breve una lettura. Lo accarezzò sotto il mento e si sedette a terra accanto al nascondiglio del libro. Fortunatamente Nezumi non si era ancora reso conto di nulla, né della trave spostata, né delle sue letture. Daltronde era comprensibile: se non ci fosse praticamente inciampato sopra, non avrebbe mai scoperto dell'esistenza di quel nascondiglio.

Aprì la piccola botola, prendendo delicatamente il libro con le mani, e restò a fissarne la copertina di pelle per qualche secondo. Il simbolo inciso sulla sua copertina gli metteva una certa inquietudine addosso. Si toccò istintivamente la base del collo, là dove una piccola cicatrice faceva si presentava al tatto. Era la cicatrice dell'incisione che aveva fatto Nezumi il giorno in cui gli aveva salvato la vita.

 

Le vespe parassite. Una divinità.

 

Rabbrividì nuovamente.

 

Non poteva farci nulla. Il solo ricordo era qualcosa di terrificante. Non era simile ad alcuna esperienza che avesse mai provato in vita sua. Nemmeno il terrore di avere una pistola puntata in faccia era stato pari a quel terrore folle e cieco che aveva provato in quei momenti. Ricordava ancora con quanta forza e disperazione si era aggrappato alla mano di Nezumi in quel momento, mentre la sua stessa vita sembrava venire risucchiata da dentro il suo corpo.

 

Nezumi...

 

Gli occhi grigi che ho ritrovato quando ho aperto i miei occhi in quei momenti di disperazione, la mia àncora di salvezza... meravigliosi come il cielo poco prima dell'alba. Come quel cielo capace con la sua radiosità di infondere speranza. Una benedizione per coloro che sono determinati a vivere un nuovo giorno. Meravigliosi.

 

Quante volte, quegli occhi meravigliosi mi hanno dato speranza?

 


Mi piacerebbe riuscirti a comunicare almeno in parte quanto importante sia stato quello che hai fatto per me, ma per quanto mi sforzi non riesco a trovare le parole. Mi vengono in mente solo parole banali, troppo semplici e ordinarie per esprimere quanto importante sia stato il segno che hai lasciato dentro di me...

 

 

Sollevò il libro, portandolo parallelamente davanti al suo volto ad altezza d'occhi, le braccia estese davanti a sé. Fissò il libro con curiosità, come se si aspettasse di veder comparire tutte le risposte ai suoi interrogativi semplicemente continuando a fissarlo.

 

"Allora, cosa mi nascondi? Cosa mi sfugge ancora?"

 

Come se avesse ascoltato le sue parole, un tud attirò la sua attenzione mentre qualcosa di leggero cadeva planando al pavimento. Era.... un foglio?

 

Lo prese tra le mani. Un foglio ingiallito con una scrittura dalla calligrafia molto confusa si trovava tra le sue mani in quel momento. Lo avvicinò di più agli occhi per ispezionarlo meglio. Doveva essere stato scritto in fretta, poiché la scrittura sembrava molto confusa, come se fosse stato scritto con urgenza.

 

Cercò di interpretare la calligrafia ma era molto rovinata. Il foglio sembrava abbastanza vecchio e mal conservato, al contrario del libro, che per quanto fosse palesemente più antico, doveva essere stato realizzato per durare nel tempo.

Dopo alcuni tentativi riuscì a individuare il modo in cui leggere il foglio. Era palesemente una lettera. Sembrava rivolta da una donna verso suo figlio.

 

 

 

--

Bambino mio,

Mi dispiace infinitamente di tutto quello che è accaduto. Il villaggio ormai è distrutto, così come la vita tranquilla e serena che avevamo costruito in quella foresta.

Ci sono tante cose che non conosci, e tante cose che non capirai, che ti ritroverai un giorno ad affrontare senza che qualcuno abbia avuto il tempo di spiegarti come era giusto. Quello che dovrai fare... quello che ti verrà chiesto... quello che sei capace di fare.

-Ciò di cui sei capace solo tu.-

Queste parole ti sembreranno strane, lo capisco, ma quando leggerai il nostro libro sacro spero ti sarà tutto più chiaro. Spero che la vecchia sciamana si prenderà cura di te. Mi spiace, io non ho potuto farlo, non posso restarti accanto. In quanto cantrice, - ed anche tu ne possiedi il potere, - non posso permettere che la nostra Dea cada in mano a coloro che hanno attaccato il nostro villaggio. Loro vogliono utilizzare la grande Divinità che ci protegge, impadronirsi del suo potere e usarlo per sottomettere la natura. Io lo so, perchè è tutta colpa mia... sono stata io a parlare a quell'uomo di Lei. Gli ho raccontato del patto tra noi, gli ho raccontato della Sua rinascita e di come ci protegge. Perdonami, è colpa mia se sarai costretto a vivere in un mondo incerto e insicuro, irto di pericoli. Non ho saputo proteggerti...

figlio mio, mi dispiace tanto....

 

Se penso che nel momento in cui starai leggendo questa lettera probabilmente non ricorderai nemmeno più il volto tua madre...

 

Ciò che per te è importante, ciò che per te oggi è il mondo, non sarà altro che un lontano ricordo, un giorno...

 

Mi dispiace, mi dispiace tanto...

 

è colpa mia se dovrai portare una cicatrice così grande nel cuore. Così come la cicatrice dell'ustione sulla schiena che ti sei fatto tentando di proteggermi.

 

Figlio mio... anche se non la ricorderai... anche se per te sarò poco più che un'estranea... ricorda... la mamma ti ha amato tanto, più della sua stessa vita.

 

Eve.

 

 

Sion rimase in silenzio a fissare il foglio. La sua mente sembrava completamente sgombra da ogni pensiero.

 

Cosa era questo? Cosa aveva appena letto adesso? Cosa significava tutto questo?

 

Cercò di fare chiarezza nei suoi pensieri, tirando un profondo respiro.

 

Calmati Sion, devi procedere con calma.

 

Innanzitutto...

 

Fissò la lettera davanti a sé, cercando di placare il battito del cuore che sembrava andare a mille all'ora. Tirò un lungo sospiro e rilesse velocemente le parole della lettera.

 

Dunque...

 

Il villaggio era stato attaccato? Da chi?

 

Sion strinse la lettera al petto, mentre alcune parole udite nei primi giorni in cui si era trasferito qui nel West Block riaffiorarono alla sua mente. La voce di Nezumi che pronunciava quelle parole, sembrava invadere la sua mente con insistenza, non lasciandogli scampo se non quello di guardare la realtà con il suo carico di crudeltà e spietatezza.

 

La città dove sei nato e cresciuto – quello è il parassita più grande. Si attacca all'ospite, ne succhia tutti i nutrimenti e lo divora per intero. Questo è il tipo di città di cui si tratta. Una città parassita... "

 

 

 

Possibile...

 

 

...no.6?

 

 

Lo aveva visto con i suoi stessi occhi ormai. Anche se faceva male, anche se sembrava quasi impossibile da accettare, non poteva più chiudere gli occhi e fare finta di nulla.

 

"Una volta che hai scoperto la verità non c'è modo di tornare indietro. Non puoi più tornare in dietro e essere come prima, felice e libero da preoccupazioni."

 

Sion chiuse gli occhi, cercando di respirare. L'aria sembrava si fosse fermata in petto e non avesse più intenzione di circolare per i suoi polmoni. Sì... è inutile mentire a me stesso... ormai so di cosa sarebbero capaci...

ho visto con i miei stessi occhi la terribile realtà che vivono le persone da questa parte del muro. Ed è impossibile che i dirigenti di No.6 non siano consapevoli della miseria in cui lasciano degli esseri umani da queste parti.

 

"Diritti? Pensi davvero di averne?"

 

la voce di Rashi, l'ispettore che lo aveva interrogato quattro anni prima, e che era stato lo stesso ad arrestarlo dopo la morte di Yamase-san, incolpandolo per l'omicidio del suo collega e dell'uomo trovato nel parco, riaffiorò alle sue orecchie. Nezumi lo aveva detto, le persone che lo avevano arrestato in quel momento non avrebbero esitato un attimo a schiacciarli come vermi. Durante la sua fuga non si era soffermato a pensare con esattezza a cosa tutto questo implicasse, e gli eventi successivi, la vespa parassita in primis, avevano completamente rimosso dalla sua attenzione quei ricordi, eppure quelle parole le aveva udite.

 

Ma cosa significava con esattezza? Se le autorità ben sapevano in che condizioni versavano i residenti del west block ma non agivano, allora... le autorità cittadine non consideravano gli abitanti del West Block esseri umani come chi abitava entro le mura. Le autorità cittadine erano corrotte. Nezumi lo aveva sempre detto, eppure l'odio del suo salvatore non si fermava alle autorità. Era rivolto anche ai suoi cittadini.

 

Eppure i cittadini non sapevano, se lo avessero saputo allora avrebbero fatto qualcosa per intervenire, non avrebbero permesso che esseri umani morissero di fame e di freddo agli angoli delle strade a pochi passi dalle loro case. Non lo avrebbero mai accettato, sarebbero intervenuti, avrebbero fatto qualcosa, avrebbero...

 

Ignoranza... non sapere e non cercare di sapere. Ecco il peccato dei residenti di No,6. Vivere la loro vita nella pace e nella spensieratezza e non domandarsi quale è il prezzo che altri hanno dovuto pagare per permettere loro di vivere in quel modo.

 

Da quando aveva posato i suoi occhi sul West Block per la prima volta, era già troppo tardi. Non poteva girare il capo e far finta di nulla ormai, ignorare quale era la natura del luogo in cui era cresciuto, delle persone con cui era cresciuto.

 

Sono anche io così? È questo che hai cercato di dirmi di continuo, Nezumi?

 

Aveva sempre sentito parlare di West Block, aveva sentito voci secondo cui si trattava di un posto dove regnavano povertà, malattie, violenza. Ricordava una volta, tanto tempo fa, di aver sentito che i bambini in quel luogo bevessero acqua contaminata, e che chiunque vi abitasse sarebbe stato capace di uccidere anche per un semplice pezzo di pane. Aveva sentito quelle voci, eppure quando aveva visto per la prima volta quelle strade, quelle terre, era come se fosse stato qualcosa di nuovo e completamente inaspettato per lui. Perché?

 

Perché siamo sempre stati solo concentrati su noi stessi, su quello che accadeva entro quelle mura di acciaio speciale. Tutto quello che avveniva al di fuori, per quanto fosse in una terra estremamente vicina, era come se accadesse in una galassia distante anni luce da noi. Nezumi mi ha aperto gli occhi per la prima volta, facendomi comprendere cosa era lo strano disagio e il sospetto che provavo nei confronti della città, eppure... anche io sono un cittadino.

 

Posso abitare fuori dalle mura, eppure quell'arroganza, quell'autocompiacimento, l'amore verso il sentirmi lodato e anche invidiato verso la posizione d'elite che ricoprivo, le ricordo benissimo. Quei sentimenti erano miei, non sono stati provati da altri che da me. Non posso nascondermi dietro una scusa, dietro il fatto che sia stata la città ad impormi di ragionare, desiderare e sperare nel modo in cui era per essa consona. Mi è stato imposto, ma quello che ha peccato sono io.

 

Sion guardò ancora una volta la lettera. Un villaggio di gente innocente, che viveva in armonia con la natura era stato distrutto. Tutto questo per appropriarsi del potere della loro divinità.

Questo significava solo una cosa. No.6, i sopravvissuti di quell'umanità che aveva finito per distruggere se stessa e la terra che era stata donata loro dalla natura, aveva occupato le terre del popolo della foresta, che avevano protetto questa foresta e questa terra da tempi immemori.

No, non è ancora corretto.

L'arrogante umanità, dopo aver giocato a fare dio, aver controllato ed abusato della natura in modo inappropriato, ed aveva quasi completamente annientato se stessa e il mondo in nome di scienza e ideali. In seguito, in nome di una presunta ricostruzione, si erano appropriati di questa terra, che come un fiore in mezzo a delle rovine, era rimasto integro e incontaminato grazie alla protezione di un popolo che aveva vissuto per proteggere, non per sfruttare la natura.

 

Più le parole si formavano nella sua mente, più il cuore si stringeva in una morsa dolorosa. Come può la natura umana essere così arrogante, così spietata?

 

In seguito... questi uomini, o forse sarebbe corretto già chiamarla no.6, hanno scoperto l'esistenza del popolo della foresta e della sua divinità. Così hanno attaccato e massacrato gente innocente, in nome del loro progresso e della loro brama... ancora una volta.. ancora una volta, ciò che ha distrutto una volta l'umanità è quello che ha portato alla distruzione di un intero popolo.

 

Sion scosse la testa. È assurdo.

L'uomo aveva rinunciato una volta a razza, nazionalità, barriere nazionali, giurando di mantenere la pace, per continuare a vivere con semplicità. Dopo la morte di più della metà della popolazione mondiale, le persone si erano raccolte in queste regioni, costruendo lentamente le rispettive metropoli.

 

Desideravano vivere con semplicità, eppure si erano lasciati prendere nuovamente dai desideri, dalla brama.

 

La ricerca di più sviluppo, il potere, le ricchezze hanno creato come risultato no.6?

 

E così l'esercito di No.6 aveva attaccato quella tribù. Per appropriarsi della loro divinità, per il potere che deteneva e le permetteva di protrggere e regnare su quella foresta, per poter salvare e ristabilire il mondo come lo conoscevano.... no, qualunque sia stata la motivazione che ha spinto no.6 a farlo, nulla giustificherebbe le atrocità che ha commesso. Ha distrutto delle vite di persone innocenti, non so quando sia successo, ma quella città che proclama di vivere in pace e di rinnegare le guerre, uccide e depreda alle spalle dei suoi cittadini. No, non è corretto.

Uccide e depreda in nome dei suoi cittadini.

 

Sion si sentiva nauseato, gli sembrava di dover vomitare da un momento all'altro. Strinse forte il pugno, mentre gli occhi gli bruciavano pizzicati da lacrime che minacciavano di cadere. Come può l'uomo essere disposto a spingersi fino a questo punto? Dopo aver quasi distrutto tutto ciò che possedeva, e metà della stessa umanità, possibile che continuava a cedere al fascino dell'arroganza e della ricerca affannosa di potere e ricchezza?

 

Seduto a terra, con il pugno stretto in petto, fissava nel vuoto. La testa gli martellava, il mondo sembrava girare freneticamente intorno a lui, come se non fosse più intenzionato a fermarsi. Era nauseato dall'essere un cittadino di no.6, nauseato dall'essere un essere umano. Se la loro natura era quella, se avrebbe finito per sbagliare ancora ed ancora, per quante volte compisse gli stessi errori anche a costi terribilmente alti, allora avrebbe preferito non essere un essere umano affatto.

 

Dove... dove abbiamo sbagliato?

 

 

"Ohi, si può sapere che ci fai lì?"

 

All'improvviso suono della voce alzò la testa. Nezumi si trovava in piedi poggiato allo stipite della porta, braccia conserte e sguardo interrogativo. Le labbra di Sion si mossero, ma nessuna parola lasciava la sua bocca. Non riusciva a rispondergli, non sapeva nemmeno cosa avrebbe potuto rispondergli. La testa era piena di interrogativi, di pensieri, di domande. Gli sembrava di voler gridare, di voler piangere, di voler fuggire via dalla stanza o di voler scomparire, o semplicemente di voler chiedere a Nezumi di ucciderlo lì, perché quello che aveva scoperto era troppo da sopportare persino per lui.

 

Ma l'unica cosa che si limitò a fare fu fissare Nezumi, con la bocca aperta e i grandi occhi sgranati. Non sapeva davvero cosa dire. Sperava quasi che Nezumi si inginocchiasse davanti a lui, gli posasse una mano sulla spalla e gli dicesse non preoccuparti, riuscirai a superarlo, ma sapeva piuttosto che quelle che lo aspettavano, sarebbero state parole dure, il rimando che era proprio quella la sua natura, la sua origine, la forma del suo animo, i suoi veri colori. Tu fai parte di quel mondo, sei nato dallo stesso grande grembo che ha generato quell'arroganza, quell'ipocrisia, quella spietatezza, la sconsideratezza che spinge i tuoi simili a ripetere all'infinito gli stessi errori.

 

Il suo stomaco si contorceva e divincolava convulsamente. Abbassò gli occhi, incapace di reggere lo sguardo dei due occhi grigi che lo scrutavano. Nezumi, tu lo sapevi? Sapevi che No.6 ha commesso tutto questo? Sapevi fino a che punto si spinge la crudeltà della città in cui sono nato e cresciuto?

 

All'improvviso, il nome della persona che aveva firmato la lettera gli tornò alla mente. 'Eve'.

 

Quel nome, è solo una coincidenza?e se così non fosse? E se fosse legato alla ragione per cui odi così tanto no.6? E se ti avessero fatto del male? E se...

 

"Sion?"

 

Incapace di ascoltare la voce che lo chiamava, continuava a fissare il vuoto.

 

Io non so nulla di te. Non hai mai voluto dirmi nulla del motivo per cui odi no.6. Non so dove sei nato, non so nulla dei tuoi genitori, non so per quanto tempo hai vissuto in questa casa, o perché quel giorno di quattro anni fa eri fuggito dal penitenziario. Non conosco nemmeno il tuo nome. Non hai mai voluto dirmi nulla di te, non mi permetti nemmeno di essere nella stessa stanza nel momento in cui ti cambi....

 

I meccanismi del suo cervello sembravano ormai girare fuori controllo. Le parole della lettera gli tornarono alla mente. Parole di una madre che chiedeva perdono a suo figlio per una cicatrice sulla schiena, fatta per proteggerla.

 

"è colpa mia se dovrai portare una cicatrice così grande nel cuore. Così come la cicatrice dell'ustione sulla schiena che ti sei fatto tentando di proteggermi."

 

 

Se fosse stata questa la verità, Eve, l'odio verso no.6. Possibile che Nezumi non gli avesse mai mostrato la schiena perchè nascondeva una cicatrice? Se era così allora...

 

Si sentì afferrare rudemente il mento, e alzò gli occhi per incontrare due occhi grigi furenti. Nezumi si era accovacciato davanti a lui e lo guardava impaziente.

 

"è mezz'ora che ti chiamo, si può sapere che hai da imbambolarti in quel modo?"

 

Automaticamente, con una mano tremante, Sion allungò il braccio verso Nezumi. Senza dire una parola, con uno strattone, Nezumi lasciò il mento di Sion che ricadde verso il basso come senza vita, e gli prese la lettera dalle mani. Sion non sapeva quale espressione avesse il viso di Nezumi mentre prendeva la lettera o lasciava scorrere i suoi occhi lungo i fogli, ma al suono di Nezumi che schioccava la lingua sollevò la testa.

 

Nezumi, ancora accucciato, lo guardava con un sorriso sarcastico e uno sguardo crudele. "E allora?"

 

Sion lo guardò per qualche secondo ad occhi sgranati, come se l'altro gli avesse parlato in una lingua incomprensibile, poi scosse leggermente la testa.

 

All'improvviso si sentì più leggero, come se un grosso peso gli fosse stato sollevato dalle spalle.

 

Ma certo, Nezumi non poteva sapere cosa passava per la sua testa in quel momento. Aveva dato per scontato che l'altro conoscesse il contenuto del libro o della lettera, che sapesse qualcosa di tutta quella storia, ma forse erano davvero semplici congetture. Il nome su quella lettera, il fatto che Nezumi era sembrato a disagio a spogliarsi davanti a lui, dovevano essere tutte coincidente, tutte sue mere congetture. Nezumi non centrava nulla col popolo della foresta, la città dove Sion era nato e cresciuto non aveva ucciso l'intera famiglia della persona che era per lui più importante. No, non lo aveva fatto, era impossibile, se fosse stato così non se lo sarebbe mai riuscito a perdonare, mai.

 

Mai.

 

"Dunque? Sei commosso per questa storiellina toccante della mammina che dice addio al figlioletto e sei rimasto senza parole?"

 

Non me lo perdonerei mai...

 

Sion guardò Nezumi negli occhi. Era quasi impercettibile, ma c'era una strana luce in quegli occhi grigi. Una luce che non gli aveva mai visto. Sembrava... tristezza.

 

No, mi sto sbagliando, Nezumi non centra nulla con questa storia, non può aver subito un destino così crudele, se così fosse io non avrei nemmeno il diritto di stargli vicino, perchè farei parte degli assassini che avrebbero sterminato la sua famiglia, e io non potrei sopportarlo, non potrei....

 

Nezumi si sollevò, avvicinandosi alla porta. Poco prima di uscire, si girò appena, guardandolo. I suoi occhi avevano un'espressione più gentile.

 

"Sion. Non ti stai sbagliando, quelli che hai avuto modo di vedere sono proprio i veri colori della città dove sei nato."

 

L'eco delle sue parole fu sostituito da quello dei passi che si allontanavano. Pochi secondi più tardi, solo il silenzio regnava nella stanza.

 

 

Se fosse così non dovresti essere così gentile con me, non avresti dovuto nemmeno salvarmi così tante volte. Dovresti odiarmi, pressarmi per avere risposte, farmi del male, punirmi, dirmi che il mio peccato è imperdonabile....

 

Non dovresti essere così gentile con me, perchè io altrimenti... non mi sentirei nemmeno degno di amarti così tanto....

 

 

Per diversi lunghissimi minuti, piccoli singhiozzi sopiti furono l'unico suono ad echeggiare nella stanza.

 

***

 

Tornato nella stanza principale, trovò Nezumi intento a leggere un libro. La pentola fumante sulla stufa emanava un profumo che aveva riempito l'intera stanza. Il solo odore di cibo fece muovere qualcosa nel suo stomaco in disgusto. Era completamente bloccato. Non mangiava dall'ora di pranzo, ma era sicuro che se avesse mandato giù anche solo un boccone avrebbe finito per riversare l'intero stomaco sul pavimento. Scosse la testa, pensando che non doveva essere uno spettacolo che Nezumi era così impaziente di vedere, e decise che era meglio saltare completamente la cena per quella sera. Si avvicinò allo scaffale prendendo un libro, mentre il suo coinquilino gli lanciava uno sguardo falsamente distratto. Sapeva che Nezumi era ben consapevole del fatto che avesse passato almeno l'ultima mezz'ora a piangere, ma anche così gli stava dando i suoi spazi. Si trattava di un discorso che avrebbero affrontato di sicuro, le ultime parole di Nezumi prima di lasciare la stanza erano state oltremodo chiare. Ma in quel momento gli stava lasciando i suoi spazi, attendendo che Sion fosse stato pronto per parlare.

 

Parli freddamente, dici che non possiamo che essere estranei, che sei sicuro diventeremo nemici, eppure riesci a mostrarmi questa gentilezza nei momenti in cui sento di aver più bisogno di te... Nezumi...

 

Nezumi si alzò dalla sua sedia, ed andò a mescolare la zuppa nella pentola. Guardò Sion con un'espressione leggermente preoccupata e tornò alla zuppa.

 

"Hai fame? Dovrebbe essere pronta a breve. Se non te la senti di mangiare ora potrei lasciartela sul fuoco, la mangerai più tardi."

 

Sion lo ringraziò distrattamente e chinò la testa sul libro. Non riusciva a capire nulla di quello che leggeva, ma in quel momento non riusciva a trovare il coraggio di portarsi a guardare Nezumi negli occhi. Non riusciva a togliersi dalla testa che ogni qual volta Nezumi lo guardava, non doveva vedere altro che un arrogante egoista assassino... membro del popolo della foresta o meno, Nezumi conosceva bene cosa era capace di fare la città in cui era nato. Lo sapeva bene, così come tutte le persone che vivevano da questa parte delle mura. Nezumi, Inukashi, Rikiga-san, la piccola Karan o il piccolo Rico, le persone che incontrava ogni giorno nel mercato. Negozianti, mendicanti, i clienti di Inukashi, i poveri che morivano ai bordi delle strade di freddo o di fame. Ogni singolo residente di questa parte del muro era una vittima della città in cui era nato.

 

Squit squit.’

 

Sion alzò la testa, guardando verso Nezumi. Il ragazzo era accovacciato a terra, e stava sollevando tra le mani un piccolo topolino marrone. Nella sua bocca c'era una piccola capsula. Una lettera di sua madre?

 

Senza dire una parola, Nezumi prese la capsula tra le mani e la lesse. La sua espressione si fece sempre più indecifrabile. Terminata la lettura si alzò in piedi, e camminò verso Sion. Gli si fermò davanti, aprendogli davanti il palmo della mano. Un bigliettino dove poteva vedere una scrittura appartenente chiaramente a sua madre si trovava al centro di esso.

 

Sion allungò la mano con esitazione, mentre continuava ad evitare lo sguardo dell'altro. Non sapeva perchè ma aveva uno strano presentimento. Nezumi attese immobile che prendesse il piccolo biglietto tra le mani, poi restò davanti a lui con le braccia conserte. Sion trattenne il respiro mentre leggeva il biglietto.

 

Sion. Qui sta accadendo qualcosa di strano. L'ho visto con i miei occhi, la gente invecchia all'improvviso e muore nel giro di un attimo. La città è nel panico, è scoppiato il caos. Spero tu stia bene, ti voglio bene e spero di rivederti presto. Karan.

 

Sion fissò il biglietto ad occhi sgranati. La gente invecchiava e moriva nel giro di un attimo...

 

"Le vespe parassite, sono attive ancora adesso...."

 

"Già. Allora, cosa pensi di fare?"

 

Sion alzò il viso di scatto, guardando l'altro negli occhi. Cosa pensava di fare?

Il ricordo delle parole di quella lettera tornarono alla mente. Il popolo della foresta, il modo disumano in cui no.6 li aveva attaccati per inseguire la propria bramosia...

e ora le vespe parassite stavano riscuotendo la vendetta per tutto quello che quel popolo bieco e senza scrupoli aveva compiuto, eppure....

 

"Spero tu stia bene, ti voglio bene e spero di rivederti presto. Karan."

 

Mamma....

 

Un popolo arrogante e presuntuoso, ma in mezzo a quel popolo c'era pur sempre sua madre.... le persone a lui care.

 

"Nezumi... anche così..." chinò il capo, stringendo il suo pugno contro il petto. "Non ci riesco..."

 

Nezumi schioccò la lingua e si voltò di spalle, tornando alla pentola che bruciava sulla stufa.

"Mi sembra di avertelo detto, Sion. Se anche dopo aver saputo la verità resterai dalla parte di No.6, noi saremo nemici."

 

Sion fissò le spalle di Nezumi, le cui nocche stavano diventando bianche dal modo in cui stava stringendo il cucchiaio di legno. Sion sospirò e lanciò uno sguardo nella stanza in silenzio.

 

...tornare solo in questa stanza... Non ti conosco ancora bene ma penso che qualcosa di te sto cominciando a capirla... Nezumi... nemmeno tu vorresti tornare solo.... non è forse così?

 

All'improvviso vide Nezumi ondeggiare lievemente, e prima di rendersene conto, il suo corpo stava già scattando in avanti gridando il nome dell'altro.

"NEZUMI!"

 

Era successo all'improvviso. Un attimo prima Nezumi si trovava davanti alla stufa che mescolava lo stufato, l'attimo successivo lo aveva visto collassare al pavimento. La stufa era caduta con lui, lo stufato sparpagliato sul pavimento insieme al cucchiaio di legno che era sfuggito dalle mani del ragazzo svenuto.

 

Sion era scattato subito verso di lui, afferrandolo un attimo prima che toccasse il pavimento ricoperto di zuppa bollente. Lo aveva afferrato da sotto le ascelle, il volto terribilmente pallido e un'espressione che sembrava ansiosa e spaventata. Il corpo di Nezumi era pesante, completamente abbandonato, le palpebre chiuse e la frangia che gli ricopriva gli occhi sul capo accasciato. Appellandosi al tutta la forza che riusciva a chiamare in raccolta, Sion cercò di trascinare il ragazzo lontano dalla zuppa, lasciandosi ricadere infine al pavimento.

 

No.

 

No. No. No. No.

 

Sion strinse forte al petto il corpo tra le sue braccia, affondando il capo nell'incavo del collo di Nezumi.

Il profumo di Nezumi...

L'odore del ragazzo che gli invadeva le narici sembrava l'unica cosa che impedisse al suo cuore di esplodere. Non riusciva a muoversi. In quel momento riusciva solo a restare in ascolto del suo respiro.

 

Nezumi respirava lentamente, mentre il suo corpo tremava tra i gemiti sopiti. Sion affondò maggiormente il viso nella sua spalla, circondandolo con braccia tremanti. Non sapeva cosa fare. La sua mente era vuota, completamente bianca e incapace di prendere qualsiasi decisione razionale.

 

Nezumi.... Nezumi...” Continuava a chiamare il suo nome come in una cantilena, le lacrime gli bagnavano il viso finendo assorbite dal collo della camicia dell'altro.

 

No....Non potrei sopportarlo... Se dovessi perderti non sarei in grado di mantenere la mia sanità mentale.... Io impazzirei completamente....

 

è troppo.... Cosa devo fare?

 

Il corpo di Nezumi aveva cominciato a scottare, e il suo sudore gli aveva inumidito le mani. Sion sentì Nezumi gemere lievemente, rendendosi conto solo in quel momento che lo stava stringendo forte. Avrebbe dovuto lasciargli spazio per respirare, si trattava di una delle prime nozioni di pronto soccorso che aveva imparato nel corso speciale. Ma dal momento in cui aveva visto il corpo di Nezumi cadere, tutte quelle nozioni sembravano completamente svanite dalla sua mente.

Devi muoverti. Datti una mossa, invece di piangere e singhiozzare. Non sei capace di fare altro all'infuori di tenerlo tra le tue braccia?

 

Sion tirò un lungo respiro, distendendo a terra Nezumi, sollevandogli leggermente il capo con il tessuto di superfibra.

 

Cercando di calmare il cuore che gli martellava in petto, con una mano tremante scostò una ciocca di capelli dal suo collo. Nella mente l'immagine del corpo di Yamase-san invecchiato e distorto per sempre in un espressione terrorizzata.

 

No... non anche tu...

 

Tastò il collo con le mani, il terrore di trovare una vescica sotto le punte delle sue dita gli gonfiava il cuore.

 

Non c'è nulla....

 

Solo dopo essersi accertato che non c'era alcun bozzo sul collo, si rese conto di aver trattenuto il respiro fino a quel momento. Sion tirò un grosso respiro di sollievo, e guardò il corpo disteso al pavimento con uno sguardo determinato.

 

Calmo, devo stare calmo...

 

Inginocchiandosi a terra accanto a Nezumi, gli aprì la camicia, per controllare la presenza di cicatrici o strane macchie. Per diversi istanti rimase immobile, fissando come in trance quella pelle diafana. Per la seconda volta si era ritrovato a trattenere il respiro. Era la prima volta che gli capitava di vedere il corpo di Nezumi. La pelle era talmente liscia e priva d'imperfezioni da sembrare appartenere ad una bambola, una creazione artificiale frutto di mani esperte. Era liscia, candida, e scendeva lungo il suo corpo scolpendolo con maestria. I pettorali che salivano leggermente su e giù con il respiro, la delicatezza del ventre piatto, il giro vita sottile ma che lasciava intravedere i muscoli che gli scolpivano l'addome. Una statua, come quelle che aveva visto in quei libri di storia greca che aveva trovato nel mucchio di libri nella loro piccola stanza... Scosse vigorosamente il capo, cercando di riscuotersi dal suo stato di trance. Non era il momento di spaziare tra le nuvole. Raggiunse il polso dell'altro con la mano, sollevandogli delicatamente la mano con la sua, e tastò leggermente l'arteria con la punta delle dita. Poteva sentire il battito del cuore sotto la sua pelle.

 

È vivo...

 

Tenendo ancora la mano tra le sue, posò il palmo dell'altra sulla pelle nuda, a direzione del cuore. Chiudendo i suoi occhi, Sion si concentrò sul battito che avvertiva sotto la sua pelle.

 

Tum tum tum

 

Se ti avessi perso, io...

 

Tum tum tum

 

Rimase immobile per lunghi infiniti attimi. Con gli occhi chiusi, il suo intero corpo sembrava teso in ascolto di quello di Nezumi. Lo percepiva con le orecchie. Lo avvertiva con il tatto. Lo sentiva con il suo stesso cuore, concentrato su quell'unica esistenza. In quel momento l'intero mondo era composto solo da Nezumi.

 

Il suo battito. Il suo calore. I simboli della sua vita.

 

"Nhh"

 

Nezumi aveva emesso un gemito, girando leggermente il capo. Sion spalancò gli occhi, dandosi dello stupido quando si rese conto di quello che stava facendo esattamente. Se Nezumi avesse ripreso i sensi in quel momento e si fosse reso conto dell'imbarazzante posizione in cui si trovavano – Sion ad occhi chiusi inginocchiato davanti a Nezumi, quest'ultimo disteso sul pavimento con la camicia aperta. Con una mano nella sua e l'altra sul suo petto nudo -, lo avrebbe come minimo preso in giro chiamandolo maniaco, oppure...

 

"Nulla, questa stanza è davvero troppo stretta, vorrà dire che farò la mia doccia quando avrai finito. Stanza tutta tua, contento?"

 

Ma certo...

 

La mano di Sion scivolò sotto la camicia in direzione di un fianco del ragazzo disteso davanti a lui. Se vedessi la sua schiena in questo momento, potrei scoprire se è davvero lui.... potrei sapere se...

 

"Si...on..." Il viso di Nezumi si contrasse in un espressione sofferente, mentre il ragazzo chiamava il suo nome e stringeva inconsciamente la mano nella sua. La voce di Nezumi bloccò qualunque proposito Sion avesse avuto fino a quel momento.

 

No. non posso tradire la tua fiducia. Pensò stringendo delicatamente la mano tra le sue. La teneva come il gioiello più prezioso, accarezzandone gentilmente il dorso con la punta delle dita. Se questa è la verità e vorrai parlarmene, allora io aspetterò che sia tu a farlo. Si ripromise, mentre abbassava il proprio corpo per baciare leggermente il dorso della mano sollevata tra le sue. Io aspetterò... per tutto il tempo di cui avrai bisogno.

 

 

 

 

 

Nezumi!”
 

Le palpebre si aprirono lentamente, mostrando al mondo un paio d'occhi grigi. Nezumi cercò di mettere a fuoco quello che si trovava davanti, ma l'unica cosa che poteva vedere era una strana e meravigliosa tonalità di bianco. Sembrava risplendere di tinte cremisi che danzavano armoniosamente. Poteva anche vedere un lilla calmo e intenso. Non capiva perchè, ma questi due colori lo facevano sentire stranamente in pace. Se avesse potuto, avrebbe voluto restare così, a fissare quelle due tonalità per sempre. Nessuna preoccupazione, nessuna battaglia, nessuna paura e affanno per il domani e per la vita. Non c'era altro se non il bianco e il lilla, e quella serenità che avvertiva nel cuore. Lo sentiva sereno, caldo e leggero, la stessa sensazione che aveva provato in una notte tempestosa, dove oltre una finestra spalancata aveva trovato il calore di due braccia che lo avevano accolto sicure. Il lilla di un paio d'occhi che lo guardavano come se stessero guardando la cosa più sorprendente che avessero mai visto; e il bianco, candido e trasparente da cui si ritrovava incantato ogni qual volta vedeva i riflessi delle fiamme giocare tra le ombre e gli anfratti di quei capelli, quasi incapace di fermare la propria mano che sembrava impossessata da una forza incontrollabile che lo spingeva a lasciarvi scivolare in mezzo le proprie dita.

 

Sion.

 

Adesso ricordava. Stava pensando alle vespe parassite quando aveva cominciato a udire una canzone. C'era vento, un vento che...

 

Rispondimi, Nezumi!”


Una luce leggera si rifletteva nei suoi occhi, rendendo difficile distinguere i lineamenti del volto che aveva davanti. Poteva vedere solo le ciocche bianche oscillare, mentre incorniciavano il viso calato su di lui. Sotto di sé sentiva il pavimento rigido e duro, ma la sua testa era sollevata da qualcosa di soffice. “Sion.”

“Nezumi! Sei sveglio ora? Riesci a vedermi?” Sion lo fissava con un'espressione indecifrabile. La voce di Sion suonava incredibilmente preoccupata, e di tanto in tanto sembrava interrotta da un debole singhiozzo. Nezumi strinse gli occhi, mettendo finalmente a fuoco il viso del ragazzo davanti a sé. Gli occhi erano privi di lacrime, ma erano palesemente gonfi e arrossati. Poteva distinguere chiaramente i segni del passaggio delle lacrime lungo le guance.
Sei uno stupido... credevo di averti già detto di piangere solo per te stesso.


“Sì.” disse Nezumi tirandosi lentamente a sedere, mentre Sion si raddrizzava, rimanendo in ginocchio accanto a lui. Si sentiva ancora un po' frastornato, ma non avvertiva più il malessere che aveva causato il suo svenimento. Il vento è finalmente svanito...

 

Il suo sguardo ricadde sulla sua mano, sulla quale aveva intensificato impercettibilmente la presa, al ricordo di ciò che aveva visto poco prima. Era piacevolmente calda, al contrario del suo resto del corpo che sentiva freddo e sudato. Il calore che avvertiva non era altro che la mano di Sion. Si trovava nella sua, - anzi, era più corretto dire che la mano di Sion era stretta nella propria. - Poteva ancora sentire la sensazione della sua stessa mano aggrapparsi a lungo quella dell'altro. Vi si era aggrappato con una tale disperazione, come se si fosse trattata dell'unico appiglio per poter ritornare indietro.

 

Restò per qualche secondo in silenzio fissando le due mani congiunte. La mano di Sion, stretta tra le sue, appariva bianca. Doveva avergliela stretta incredibilmente forte.

Lasciò andare la presa, come se si fosse scottato all'improvviso, e non passò inosservata l'espressione delusa che attraversò per un attimo gli occhi di Sion.

 

Riesci a riconoscere dove ti trovi adesso?” Gli chiese Sion con una voce preoccupata mentre cercava di aiutarlo a mantenersi seduto, ma la sua mano venne scacciata immediatamente, - con un gesto che causò agli occhi viola di spalancarsi sorpresi (e addolorati).

Non si sarebbe appoggiato a lui, non intendeva appoggiarsi a nessuno. “Sul pavimento?” Disse guardando lo stufato rovesciato a poca distanza da loro. Se Sion non lo avesse afferrato in quel momento, a quest'ora si sarebbe ritrovato con una fastidiosa ustione sul volto, o se gli fosse caduta la stufa addosso, sarebbe potuto accadergli qualcosa di ben peggiore. Deglutì leggermente, guardando alle sue spalle seduto ancora a terra. Il tessuto di superfibra giaceva a poca distanza da lui. Sion doveva averlo usato per sollevargli il capo.


Sion lo guardava preoccupato. Ignorando la domanda che gli era stata appena rivolta, “Quanto fa tre più sette?” Continuò a chiedergli con impazienza.


Nezumi aggrottò le sopracciglia, sospirando pesantemente. “Cosa? Mi stai facendo degli indovinelli?”


“Rispondimi seriamente!" Disse Sion con urgenza. Sembrava sul punto di avere una crisi di nervi. "Quanto fa tre più sette?”


Nezumi sospirò, chiudendo leggermente gli occhi. Era di Sion che stava parlando, ottuso e testardo come pochi. Certe volte era più facile assecondarlo, anche solo per evitare un ennesimo mal di testa. “Dieci...”


“Si, corretto. Ora, quanto fa tre volte sette?”


“Sion, lo sai...” Si può sapere perchè sei così preoccupato... non ho bisogno di...


Sion lo guardava come se non ammettesse repliche. Non lo aveva mai visto così in preda al panico. Non quando era stato scacciato insieme con sua madre da Cronos e si era ritrovato a vivere in miseria, né quando aveva dovuto lasciare No.6 come un criminale, nemmeno quando era stato quasi ucciso dalla vespa parassita. E allora perchè lo era proprio ora? Noi siamo degli estranei, ricordi?

 

Tre volte sette, rispondimi seriamente.”


“Ventuno.” Smettila...

 

"Corretto. Ti gira la testa?”


“Per niente.” Smettila...


“Nausea?”


“Nada.” Non ho bisogno di qualcuno che nutra una apprensione così sincera per la mia salute. ...


“Mal di testa?”


“Nemmeno un minimo.” Non voglio una persona che si preoccupi seriamente per me.... Non ho bisogno di nessuno che tenga a me...


Sentimenti come apprensione, preoccupazione e premura ricadevano troppo facilmente in quello stato d'animo chiamato 'amore'. Non sentiva il bisogno di nulla di simile. Era perfettamente in grado di vivere senza, come aveva sempre fatto. Per lui erano qualcosa di non necessario.

 

Ma Sion non lo capiva.

 

Eccolo lì, gravato da ogni sorta di inutile bagaglio....

 

 

Esattamente cosa è successo..." La voce di Sion si era fatta bassa, quasi un filo di voce. Nezumi guardò il ragazzo davanti a lui, che sedeva al pavimento con il capo abbassato. Era quasi impercettibile ma vedeva le spalle di Sion tremare leggermente. Sembrava stanco, sfinito, quasi come se quello che era svenuto un attimo prima era stato lui. " Nezumi, " Continuò a domandargli con esitazione. "Quando sei svenuto, come ti sentivi? Riesci a descriverlo?”

 

Nezumi rimase un attimo in silenzio, mentre le immagini di quel 'sogno' – poteva chiamarlo così? - riaffioravano alla sua mente. Non lo ricordava più con precisione. Poteva ricordare solo un... “Vento... il vento soffiava.”


"Cosa?" Gli occhi sorpresi di Sion incrociarono i suoi, e Nezumi si trovò un attimo interdetto per l'intensità con cui lo guardavano. Come se stessero guardando l'unica cosa che conta al mondo....

 

Una debolezza, un peso che ti trascinerà giù fino ad annegarti....

 

"È questa la pesante pietra che porto al collo e che mi trascina a fondo, ma io amo questa pietra e non potrei viverne senza." La bocca di Nezumi si ripiegò in un sorriso amaro. "Sion, non avrai letto Chechov ultimamente, per caso?"

 

"Eh?" Sion guardò Nezumi come se fosse infine diventato pazzo, poi poggiò un dito sulle labbra, ed aggrottò le sopracciglia pensieroso. "Mhh--- penso di aver letto il 'Giardino dei Ciliegi' qualche settimana fa, perchè?"

 

"Niente,..." Nezumi scosse la testa, e il suo viso si fece di nuovo serio. Cosa era successo quando era svenuto? Non lo sapeva nemmeno lui. Stava pensando alle vespe parassite e a quella lettera. Ad una notte di dodici anni fa. Una notte che aveva rimosso dalla memoria, per quanto si fosse ripromesso che si sarebbe obbligato a non dimenticare un singolo ricordo che conservava del suo popolo. "Mantenere vivo il ricordo è l'unico modo per non lasciarli morire del tutto." Così si era ripetuto spesso. Parole recitate fino all'ossessione dalla vecchia che lo aveva cresciuto dopo quella fatidica notte. Era suo dovere ricordare. Pensava di ricordare, ed era convinto fosse così, eppure quella lettera lo aveva spiazzato. Non ne conosceva l'esistenza, non pensava che da qualche parte in quella casa ci fosse nascosto qualcosa di simile... le parole di sua madre. Non si aspettava di trovarle, eppure erano li, sbucate all'improvviso dopo 12 anni. La vecchia non gli aveva mai consegnato quella lettera, probabilmente in attesa che divenisse abbastanza grande per capire. Era morta quando lui aveva 10 anni. Lo aveva preso per mano, e lo aveva portato ad imbarcarsi in una missione suicida, con l'assurda convinzione di poter uccidere il sindaco in visita nel West Block per l'inaugurazione del penitenziario. Era stata uccisa davanti ai suoi occhi, e il segreto di quella lettera svanito per sempre insieme a lei. Almeno fino a quando Sion non l'aveva ritrovata.

Era questo che stava pensando poco prima, al modo in cui era morta sua madre. Non ricordava un granché di quella notte, solo un grande tempio che non aveva mai visto prima di quella sera, e gli occhi di sua madre mentre diceva che era suo dovere proteggere la loro 'divinità'. Poi ricordava solo delle grotte, ed una mano che lo portava via nel buio, fino al momento in cui era caduto a terra privo di sensi per la febbre. Quando si era risvegliato, si trovava solo in una stanza, circondato da un mare di libri e dai tre topolini che correvano ansiosamente intorno a lui. Uno di loro gli aveva portato un pezzo di pane, il primo pezzo di pane ammuffito che avesse mai assaggiato in vita sua – il primo di infiniti. Dopo quel giorno, non aveva più rivisto sua madre, o le figlie della vecchia che erano rimaste indietro insieme a lei. La vecchia era ritornata dopo tre giorni, durante i quali era rimasto senza cibo o acqua in preda alla febbre, – e una dolorosissima ustione alla schiena, rabbrividiva ancora al ricordo, - e non gli aveva mai spiegato cosa fosse successo a sua madre o alle due giovani ragazze. Da quel giorno era diventata un'altra persona, almeno da quello che ricordava nei suoi ricordi da bambino, e la vecchia premurosa sciamana si era trasformata in una persona assetata d'odio e vendetta, che non si stancava di ripetergli di non aspettare gentilezza e felicità dal mondo, perchè il mondo non era quel tipo di posto. Non che si trovasse in disaccordo con un tale punto di vista, visti gli eventi e le persone che aveva incontrato poi. Dopotutto, l'unica mano estesa verso di lui senza chiedere nulla in cambio era stata....

Eppure gli eventi di quella lontana sera avevano cominciato a sbiadire, lasciando solo i contorni di un odio che aveva continuato ad ardere nel suo cuore come sua sola ragione di vita.

Odia. Ricorda. Non dimenticare. Non smettere per un solo istante di odiare.

 

Cosa significava quella lettera, le parole che non capiva ma che necessitava di comprendere. La divinità, il cantore, il fuoco. Ecco a cosa stava pensando quando aveva perso i sensi.

 

E poi....poi c'era stato il vento.

 

 

Il vento porta via le anime, l'uomo cattura il cuore.
La terra, gli elementi, il cielo, la luce.
Lascia che tutto questo resti qui.


La voce sembrava che cantasse qualcosa di simile a questo.
 

Aveva sentito una voce. Lo aveva chiamato per nome, il suo vero nome.

 

 

 

Si trovava in mezzo all'erba. Il vento soffiava gentile accarezzandogli il volto. Il sole era caldo. Sentiva l'odore dei fiori e degli alberi pieni di frutti. Doveva essere un sogno, ma il suo intero corpo sembrava esplodere di vitalità. La vista, il tatto, l'udito, l'olfatto, poteva sentire ognuno dei propri sensi gridare a gran voce che non si trattava di un sogno, ma di un'esperienza reale ed autentica. Si sentiva a casa, come mai si era sentito negli ultimi dodici anni. Poteva chiudere gli occhi e sentire le voci di tutta la natura parlare direttamente con il suo cuore. Le piante, gli alberi, le acque dei laghi in lontananza, gli animali, il sole, il vento. Sentiva distintamente le loro voci che gli parlavano chiare. Era come se fosse nato per questo, se fosse stato qualcosa per cui era destinato ancor prima della sua nascita. Il suo cuore sembrava far parte della natura stessa. Un tutt' uno con essa, in pace ed armonia con tutto quello che lo circondava. Il cielo era azzurro chiaro, di una limpidezza che gli sembrava di non aver mai visto in tutta la sua vita. I fili d'erba gli solleticavano i piedi nudi mentre camminava in direzione di quella voce. Erano piccoli, i piedi di un bambino. Il suo intero corpo sembrava essere tornato all'età dell'innocenza.

 

C'era un albero di faggio davanti a lui, e oltre il suo tronco si trovava la persona la cui voce sembrava accarezzare l'intera foresta, proprio come faceva il vento in quel momento. Il ronzio degli insetti ne accompagnava la melodia come in un'orchestra.

 

Allungò la sua piccola manina, posandola delicatamente contro il tronco scuro dell'albero. Poteva vedere dei lunghi capelli neri danzare nella brezza leggera. Numerose piccole ombre nere stavano danzando davanti ai suoi occhi.

Una, un'altra, un'altra ancora. Numerosi insetti fluttuavano contro il cielo azzurro, formando nell'aria disegni circolari.

Avanzò di un passo verso quella figura che sedeva di spalle ai piedi dell'albero. Al fruscio dell'erba che si piegava sotto i suoi piccoli passi, gli insetti si dispersero in tutte le direzioni, solo per riunirsi di nuovo in un altro luogo.

 

Stanno danzando.

Danzano al suono della voce che canta.

Vide una ciocca ribelle venire spinta da lunghe dita sottili oltre un orecchio, mentre una voce gentile proseguiva il suo canto. Avanzò di un'altro passo, e la voce si fermò. Non poteva vedere il suo viso, ma una mano si allungò verso di lui come in un invito gentile.


“Avvicinati.”

Era una voce estremamente dolce e gentile.

“Lascia che ti insegni come cantare. Lascia che ti insegni canti di cui hai bisogno per sopravvivere. Vieni accanto a me.”

 

Il vento porta via le anime, l'uomo cattura i cuori.

Ma io resterò qui.

Io continuerò a cantare.

Ti prego,

Lascia che la mia canzone ti raggiunga.

Ti prego,

Accetta la mia canzone.

 

 

Il suono del ronzio degli insetti si era fatto più intenso. Echeggiava incessantemente nelle sue orecchie, facendo vibrare l'aria. Le ombre nere danzavano frenetiche. La voce gentile gli sembrava nostalgica, come un dolce ricordo lontano ritrovato dopo tempo immemore. Chiuse gli occhi, lasciandosi cullare dal canto, dal vento, dalla natura intera che vibrava al suono di quella voce. Si sentiva a casa, come non si era sentito da tempo.


Ah, questa scena...

 

Era sereno. Una serenità che solo chi gode dell'innocenza di un bambino può provare. Nessuna battaglia, niente fatiche per sopravvivere, nessun pericolo, nessuno che tradisce o pugnala alle spalle. Immemore del mondo e della sua crudeltà, consapevole solo di gioie e calore.

 

Calore....

 

Ma lui... non era più così.

 

Non c'è giorno in cui non debba combattere per continuare a sopravvivere...

 

Da tempo non viveva più nell'inconsapevolezza del mondo.

 

Non mi aspetto gentilezza e felicità dal mondo, perchè il mondo non è quel tipo di posto...

 

"Resta fermo, è inutile combattere senza risultato. Nessuno sarà disposta a salvarti... " Erano stati i suoi stessi pensieri un giorno, quando anche chi lo aveva cresciuto per due anni, dopo averlo accolto da una montagna di cadaveri, lo aveva consegnato al suo nemico.

 

Correre freddo e sanguinante in una fogna, ecco dove lo avevano condotto la sua fiducia nel prossimo, e poi....

 

poi....

 

 

"Ti curerò la ferita. Sei ferito, non è vero? Lascia che ti curi."

 

 

 

"Si...on."

 

 

Aveva riaperto gli occhi ritrovando Sion preoccupato accanto a sé. Gli aveva afferrato la mano mentre era incosciente, - mentre sentiva la sua anima venire lentamente risucchiata dalla forza di quel vento gentile ma incontrastabile. Non sapeva cosa significasse quello che aveva visto, ma non poteva fare a meno di pensare che fosse in qualche modo collegato a quella lettera.

 

Era molto strano. E quelle vespe poi...

 

"Sion."

 

"Si?"

 

"Quella lettera. Dove l'hai trovata?"

 

Sion aveva sgranato gli occhi, poi aveva abbassato il capo e senza una parola aveva lasciato la stanza. Terrore. Ecco cosa aveva visto in quel frangente nei suoi occhi. Nezumi rimase a guardare nella direzione verso cui era svanito Sion. Si fissò la mano con cui aveva afferrato quella di Sion inconsciamente. Poteva ancora sentire la sensazione di aver afferrato qualcosa con forza, e il calore dell'altro contro la propria pelle.

 

Non ho alcuna intenzione di appoggiarmi a te. Io non mi fido di te. Le persone svaniscono, lasciando dietro di sé solo un vuoto incolmabile. Io non posso... permettermi questi errori.

 

 

 

Sion entrò nella stanza e sollevò la trave di legno. Raccolse lentamente dal suo nascondiglio il libro rivestito in pelle con cui era ormai famigliare. Il simbolo a forma di vespa faceva mostra di sé al centro della copertina. Poteva ancora ricordare il sordo terrore che aveva provato al pensiero di vedere uscire una di quelle vespe dal collo di Nezumi da un momento all'altro. La paura di perderlo che aveva provato poco fa era ancora terribilmente tangibile dentro di lui. Sospirò chiudendo i suoi occhi, cercando di calmare il ritmo del suo respiro che aveva di nuovo cominciato ad accelerare.

La divinità, le vespe parassite. Informazioni che aveva trovato all'interno del libro. La Divinità, o Dominatrice, proteggeva la foresta e la tribù, e in cambio il Popolo della Foresta o Popolo di Mao forniva il Letto della Divinità, - l'ospite dove deporre le uova, composto a quanto pare da un cervello animale- alla Dea. Le uova della Divinità non erano altro che uova della vespa parassita, da cui ogni 10 anni ciclicamente sarebbe rinata la Dea stessa, in un ciclo di morte e rinascita. No.6, alla ricerca di tale potere, aveva distrutto il popolo protetto dalla Divinità. Ed in qualche modo le vespe parassite avevano cominciato ad attaccare i cittadini. Lo aveva visto con i suoi stessi occhi. Invecchiavano all'improvviso e morivano, e dal collo del cadavere una vespa sarebbe venuta fuori. Lui stesso ne era caduto vittima, ma Nezumi aveva estratto la vespa prima della sua nascita, anche sé, stando a quello che erano riusciti a comprendere, la vespa che lo aveva colpito non era riuscita a trasformarsi in Imago. Qualcosa era andato storto nella sua trasformazione. Era grazie a questo che si era salvato, ma in cambio i suoi capelli avevano perso tutto il loro colore, e sul suo corpo si era formata una cicatrice che lo percorreva dalla caviglia sinistra fino al collo. Nezumi diceva che la cicatrice non aveva intaccato nessuna vena ma era limitata a livello superficiale, tuttavia nessuno delle altre due vittime che aveva visto avevano subito la stessa sorte. Non conosceva i dettagli riguardanti l'uomo del parco, ma Yamase-san era invecchiato velocemente e morto in brevissimo tempo. Ricordava il suo collega appassire davanti a lui come un vecchio albero, prima di cadere a terra senza respiro né battito. Era morto nel giro di pochissimi istanti quasi senza soffrire. E di tali morti era stato accusato lui dalle autorità cittadine. Lo avevano arrestato, e senza nemmeno un processo lo avevano scortato al penitenziario quando Nezumi lo aveva liberato, portandolo poi con sé nel West Block. Aveva pensato di creare un siero, approfittando del periodo invernale in cui le vespe sarebbero state in letargo, eppure proprio oggi aveva ricevuto una lettera da sua madre in cui aveva appreso che le vespe parassite erano in azione, uccidendo diverse persone fino a scatenare il panico in città. Sua madre non sapeva nulla di quanto gli era accaduto, e se da cittadina comune era a conoscenza di quello che stava accadendo ed aveva sentito il bisogno di farglielo conoscere, doveva trattarsi di una situazione sfuggita del tutto al controllo delle autorità. Era terribilmente in ansia per sua madre e le persone che conosceva all'interno della città.

 

Strinse il libro al petto. Quella lettera si trovava proprio al suo interno. Sion fissò immobile la piccola botola dove più di una settimana fa aveva scoperto il libro, poi si girò per raggiungere Nezumi. Qualunque cosa questo libro significasse... qualunque fosse il motivo della sua presenza in casa dell'altro... qualunque fosse il significato delle strane coincidenze che indicava quella lettera... solo Nezumi avrebbe dovuto decidere. Qualunque cosa l'altro avesse deciso di dirgli o di fare, lui avrebbe accettato comunque.

 

Uscì dalla stanza, mentre la sua mente registrava a malapena la presenza di un oggetto con lo stesso simbolo che compariva sulla copertina del libro, all'interno della botola.

 

 

 

Sion richiuse la porta alle sue spalle, reggendo il vecchio tomo rilegato in pelle marrone contro il petto. Nezumi si trovava in piedi accanto al tavolo e stava versando un po' di acqua in un bicchiere. Gli occhi di Sion si spostarono sulla zuppa sparsa sul pavimento, dove la stufa ormai spenta era ancora riversa al pavimento. Un brivido, non solo di freddo, gli attraversò tutto il corpo, mentre uno strano presentimento gli appesantiva il cuore. La stanza era gelida, segno che era passato diverso tempo da quando la stufa si era spenta, e il vento che soffiava al di fuori filtrava attraverso le pareti, fischiando forte. I tre topolini avevano leccato parte della zuppa dal pavimento, ed ora si trovavano in cima ad una pila di libri stretti l'uno con l'altro, quasi impauriti dall'atmosfera tesa della stanza. Con esitazione, Sion si avvicinò a Nezumi. Era la prima volta che provasse tanta ansia e terrore nell'incontrare quei meravigliosi occhi grigi.

 

Nezumi lo fissava in silenzio, poggiato in piedi contro il tavolo. Sion gli porse il libro, il tono di voce triste ma determinato.

 

"Questo l'ho trovato in una specie di nascondiglio in quella stanza una settimana fa." Disse, mentre scrutava il volto di Nezumi, cercando di cogliere ogni minimo cambio d'espressione nei due occhi grigi. Aveva deciso di accettare qualunque conseguenza, ma desiderava spiegare tutto dal principio, sentiva di doverlo fare. "L'ho trovato per caso... non pensavo fosse importante ed ho pensato di non dirti nulla al principio. Doveva essere un gioco.... Poi mi sono reso conto che ciò di cui parlava per davvero-" proseguì, ma la sua voce si faceva sempre più insicura ed esitante. La mano che reggeva il libro, immobile a mezz'aria, tremava impercettibilmente. " - non erano altro che le vespe parassite."

 

Nezumi lo guardava in silenzio, il libro ancora tra le mani di Sion. Attendeva di ascoltare le spiegazioni dell'altro. Aveva intenzione di ascoltare le sue parole una per una.

 

"Q-quando mi sono reso conto che parlava proprio di loro, ho pensato che avrei dovuto aspettare a dirtelo, che te lo avrei detto di sicuro, ma dovevo aspettare.... avrei potuto trovare un modo per salvare i cittadini. "Un lampo d'ira balenò negli occhi di Nezumi. Sion si affrettò a continuare. "P-però non ho trovato nulla, e prima che lo sapessi avevo già finito il libro." Gli occhi di Sion si spostarono sul simbolo sulla copertina.

 

"È tutto qui. Ciò che ho trovato è la storia di un popolo che viveva in pace e armonia con la natura. -che ha fatto tutto quello che l'arroganza del resto degli uomini ha sempre impedito di fare... e da quella lettera ho scoperto che quel popolo è stato spazzato via da nessun'altro che No.6... " Sion strinse il libro con forza, le nocche delle mani persero tutto il loro colore. "A-Avevi ragione... credevo di sapere ma in realtà non sapevo ancora nulla... e la prima cosa che ho fatto è stato giustificare gli altri, giustificare me stesso." Gli occhi gli bruciavano, ma non voleva piangere, non poteva permettersi di farlo. Ci sono casi in cui piangere per qualcuno è la più grande mancanza di rispetto che si possa avere per questa persona. E poi, queste lacrime non sarebbero state per le vittime di No.6, ma per il suo stesso ego di cittadino, colpito duramente in quell'immagine della città nel suo cuore che non voleva cadere, nemmeno sotto i più duri colpi dei cannoni della realtà. Diceva di conoscere ormai la realtà, ma eccolo sul punto di piangere, incapace di accettare una verità scomoda. Fuggire e rinnegare, le uniche cose che riusciva a fare meglio.

 

Nezumi strappò il libro dalle sue mani e senza aggiungere una parola lasciò la stanza.

 

Per tutta la notte, Sion restò sveglio nell'attesa di un suo ritorno.

 

 

Continua...

 

 

 

-NOTE-

La cascata l'ho inventata io, ma la fonte con i fiorellini rosa è vera ><.

Nella novel Nezumi non ha mai mostrato a Sion la cicatrice. Lo viene a scoprire solo quando il vecchio della caverna racconta del popolo della foresta, parlando anche dell'incendio (e stiamo parlando di dopo essere entrati nel penitenziario. Sion si domanda come ha fatto a non accorgersene mai.).

Qui mi sono riferita al tempo che hanno vissuto insieme come circa 3 mesi. Non è possibile stabilirlo con esattezza: gli unici dati sono un "tardo autunno" ad un mese da quando Nezumi salva Sion (La scena del mercato in pratica); e inverno inoltrato. Questa storia comincia una settimana prima (circa) del finale della novel in pratica (basta pensare che dalla fine del 4 libro al 9 si dovrebbe svolgere tutto in un giorno o due... ovvero dalla loro cattura a quando escono dal penitenziario). Poco dopo il rapimento di Safu, c'è una signora che pensa che l'holy celebration è tra una settimana. E questa scena avviene 3 giorni dopo il rapimento di Safu. Il topolino di Nezumi impiega 1 giorno intero per arrivare da no.6... in pratica dalla scena scegli me o no.6 alla fine della novel dovrebbero intercorrere 8/10 giorni, non di più.

 

Rose-street vero nome della città originale dove sorge ora il West Block. Città di cui sono originari Karan, Rikiga, il vecchio delle grotte (Rou) e altri.

 

La citazione dal giardino dei ciliegi, il pezzo non è stato scelto a caso, è una citazione di apertura di uno dei capitoli della novel (vol 2 capitolo 4)

 

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