Rebirthing now

di Camelia Jay
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Nero, reclusione ***
Capitolo 2: *** I conflitti dell'orgoglio ***
Capitolo 3: *** Mera curiosità ***
Capitolo 4: *** Cambiamenti ***
Capitolo 5: *** Insinuazioni impetuose ***



Capitolo 1
*** Nero, reclusione ***




[
Capitolo Uno]

[Nero, reclusione]

 

 
[A tutti quelli che hanno fatto della scrittura
la loro piccola, seconda realtà personale
]
 
 

[Feel your presence filling up my lungs with oxygen
I take you in
I’ve died
Rebirthing now
I wanna live for love wanna live for you and me
Breathe for the first time now
I come alive somehow]
[Skillet – Rebirthing]

 
 
 

Giorno sedicesimo di reclusione.
La punta della penna a sfera a inchiostro nero scorreva regolare sulla pagina del quadernetto con la copertina di un azzurro sbiadito, che era diventato il mio diario, finché all’improvviso la mano che guidava la biro si arrestò. Riflettei su cosa potessi scrivere.
Nulla di nuovo da raccontare. In fondo, sono già sedici giorni che non esco di casa, se non per andare a scuola.
L’inchiostro scuro si posava sulla carta creando una calligrafia composta e ordinata, dritta e senza intoppi, perfettamente leggibile.
Decisi di prendermi una pausa dalla scrittura, e mi strofinai gli occhi. Erano stanchi e arrossati, e contornati da due pesanti occhiaie. Appoggiai i gomiti sul legno duro della scrivania e mi misi le mani tra i capelli, chinando il capo sul quaderno. La lampada economica comprata a un mercatino qualunque alla mia sinistra emanava una luce arancione e debole, che si diffondeva intorno a me ma che trascurava gli angolini più remoti della sua stanza, lasciandoli in balia di un velo di oscurità.
Ripresi in mano la penna e scribacchiai qualcosa di insensato. Era sabato, non c’era stata la scuola, e quindi quel giorno non avevo nemmeno varcato la soglia della mia stanza – per uscirne, s’intende. Mio padre mi aveva portato il pranzo in camera, perché mi rifiutavo categoricamente di uscire.
Io non sapevo se quello che stavo facendo fosse per farmi notare o perché mi ero arresa dall’avere una vita socialmente attiva. Sapevo solo che non volevo uscire dalla mia stanza.
Per questa sera è tutto. Saluti dalla piccola reclusa.
Chiusi il quaderno e lo riposi in un cassetto insieme alla penna, certa che nessuno sarebbe mai andato a curiosare. E anche se fosse successo, non c’era problema, perché la maggior parte di quello che scrivevo nel mio diario improvvisato erano le maledizioni e gli anatemi che lanciavo alle due persone che odiavo di più al mondo. Quelle due persone, ovvero la causa che mi avevano spinta ad un imprigionamento volontario.
Spensi la lampada, che da un po’ aveva cominciato a emettere uno strano ronzio, e la luce andava e veniva, a scatti imprevedibili. Mi ritrovai nel buio più totale, le tapparelle della finestra abbassate, che non lasciavano trapelare nemmeno i riflessi lattiginosi della luna.
In quel momento le mie orecchie attente captarono un rumore di passi a breve distanza. Erano passi veloci, quasi frettolosi, leggeri. Ormai sapevo riconoscere il rumore della camminata di Gwendolyn.
«Ehi, sorellina?» fece una voce ovattata attraverso la porta. «Keira? Dammi un segno!» esclamava.
Io rimasi in piedi sul pavimento, immobile, le palpebre semichiuse. Se qualcuno mi avesse vista in quel momento, avrebbe pensato che fossi un fantasma, con il suo corpo mingherlino infilato in una camicia da notte bianca, le gambe dalla pelle pallida rigide come bastoni dritti sul pavimento, le braccia che pendevano inermi lungo i miei fianchi.
«Va be’» si arrese Gwendolyn, con tono di voce pacato e rassegnato. «Io te le lascio qui, okay?»
“Che cosa mi lascia qui?” mi domandai, incuriosita.
Attesi pazientemente che i passi della mia sorella maggiore si allontanassero, morbidi e ritmici lungo il pavimento.
Così, per l’ennesima volta, ripensai alle differenze innumerevoli tra me e mia sorella. Vedevo me stessa in quel momento come una specie di malata psichiatrica che si rinchiudeva per giorni nella propria stanza. Vedevo Gwendolyn come la persona più solare del mondo, talmente allegra da riuscire a farsi simpatico chiunque. Lei era Miss Università, mentre io ero Miss Svogliatezza. Lei aveva un nome bello e armonico, Gwendolyn Towers, che a pronunciarlo pareva quasi una breve melodia. Keira Towers invece pareva non stare né in cielo né in terra, ma almeno aveva un significato che mi si addiceva; sì, potrei dire che mi calzava a meraviglia.
Nero.
Come il nero intorno a me, che mi ricopriva come un tenue velo. Come i miei capelli corvini che scendevano liberi fino alla vita. Come il nero dei miei occhi, profondi e penetranti, che contrastavano con la mia pelle lattea.
Avanzai coi piedi scalzi fino alla porta. Posai la mano sulla maniglia fredda e metallica, e la abbassai con lentezza, finché nella stanza non penetrò un filo di luce che fendeva il pavimento, dividendolo a metà. I miei occhi scuri cercarono di intravedere qualcosa attraverso la fessura. Si spostarono in basso, su una grossa macchia gialla e rossa. Le mie pupille troppo abituate all’oscurità si adattarono alla luce e misero a fuoco: delle grosse e succose fragole in una ciotola color canarino. Erano mature e lucide, ed erano state appena sciacquate, dedussi con crescente contentezza, anche dalle piccole gocce d’acqua che ancora scorrevano sui loro corpi gonfi.
Socchiusi ancora un po’ la porta lignea, giusto per lo spazio necessario a far passare la mia mano dalla pelle cadaverica e la ciotola gialla.
Una volta agguantato il bottino richiusi la porta e mi accucciai per terra, appoggiandomi al legno duro. Mi appoggiai il contenitore sul grembo, e le mie dita sottili afferrarono la prima fragola, spulciandola cercando di togliere le foglioline verdi sulla sommità.
Misi in bocca il frutto, e un sapore dolce e leggermente aspro mi fece esplodere le papille gustative. Chiusi gli occhi e mi immersi completamente in quella forte sensazione. “Oscurità, solitudine e fragole. Cosa potrei volere di più? Non mi serve assolutamente nessuno.”
Svuotai la scodella color canarino per metà nel giro di dieci minuti, gustandomi uno per uno ogni singolo frutto. Le mie dita dalle falangi bagnate si fecero strada in mezzo alla massa dimezzata di fragole rosse. In quel momento, però, udii un lontano trillo che proveniva da sotto di me. Il telefono.
Contò gli squilli: uno, due… e poi la voce di sua madre: «Pronto?»
“La solita amica di mamma. O il ragazzo di Gwendolyn. O un collega di papà.”
«Ciao Lydia!» esclamò la donna, con evidente difficoltà a gestire la conversazione, in quanto la persona che la sua interlocutrice cercava non intendeva rivolgerle la parola. “No, strano, ma è qualcuno che cerca me” constatai, con amarezza più che con gioia. D’accordo che le persone che potevano cercarmi erano poche. Ma lei… «Oh, cara» continuò mia madre, con voce compassionevole e comprensiva. “Cara…” provai una fitta di gelosia che mi trafisse come una freccia. «Ora te la chiamo, farò tutto il possibile.»
A quel punto mi infilai una fragola intera in bocca. Me la rigirai con la lingua per i secondi successivi, senza masticarla. Mi sollevai da terra solamente per chiudere a chiave la porta, perché sapevo che la mamma non era tipo da esitare prima di invadere la privacy altrui.
Nel giro di qualche attimo lei era già lì. «Keira? Dai, Keira, aprimi. C’è Liddy.»
Detestavo quello stupido diminutivo. Detestavo averglielo dato proprio io. Lei abbassò più volte la maniglia, come se questa potesse magicamente esaudire le sue richieste, dopo vari tentativi.
Allora affondai i premolari nel frutto con gelida calma. “Liddy…” mi ripetevo, in continuazione, come un mantra, fin quasi all’esasperazione. Con le nocche, diedi solo un leggero colpetto alla porta, giusto per far sapere che ero viva, altrimenti nel giro di poco mia madre si sarebbe fatta strada a spallate, dalla preoccupazione. Attese un paio di minuti, prima che si arrendesse. «Scusa, Lydia, ma non ne vuole sapere di uscire.»
La mia mano esplorò di nuovo la ciotola, e mi tenni un’altra pallina rossa e succosa e punteggiata di semini neri tra il pollice e l’indice.
«Sì, Lydia» fece l’altra, fuori dalla porta, con tono condiscendente. «Lo so che ti dispiace.»
Le mie unghie mangiucchiate si conficcarono con forza nella fragola. Un liquido rossastro prese a scivolare lungo il dorso della mia mano. “Le dispiace.”
La punta della mia lingua leccò il succo vermiglio che mi colava sulla pelle.
«Sì, glielo riferirò sicuramente. Non appena si degnerà di uscire da camera sua
“Inutile” pensai, scuotendo con decisione il capo. “Io di qui non esco.” E poi, se possibile, uscivo dalla mia stanza solo lo stretto necessario. Infatti, i miei genitori – e Gwendolyn – cercavano in tutti i modi di beccarmi in giro per casa, per prendermi e indurmi ad andare da uno psicologo.
Due giorni prima mia madre era arrivata e aveva esordito con un: «Basta, io chiamo uno psicologo e lo faccio venire qui, e tu dovrai stare a sentirlo!» Ma alla fine non aveva concluso niente. Tipico di quella donna, essere tendente all’inconcludenza. «Keira» mi ripeteva costantemente «il tuo è un problema serio, devi affrontarlo!»
Cosa? Quale problema? Erano tutti convinti che fossi affetta da sociofobia. Quanto si sbagliavano. Un sociofobo è consapevole di esserlo, sa che è un comportamento irrazionale, quello che detiene. La mia, invece, era stata una scelta deliberata. E mi resi conto adesso che l’avevo fatto per sentirmi dire quelle parole da Lydia: «Mi dispiace.» Allora il mio petto si era gonfiato di un certo senso di soddisfazione. Ma ancora non era abbastanza.
Volevo vederla affondare. Sapevo di essere importante per lei, ma da sola non ero sufficiente per provocare la sua totale rovina. Perciò avevo deciso che me ne sarei stata lì ad aspettare che qualcosa – qualsiasi cosa – avvenisse, per far sì che si sentisse finalmente rovinata. Il mio obiettivo era quello: doveva sentirsi come mi sentivo io.
Fortunatamente credevo alla fortuna che cadeva dal cielo senza preavviso.
Appoggiai da una parte la ciotola gialla, ancora piena in parte. Avevo mangiato così tanto che mi stava venendo la nausea. Gwendolyn pensava che sua sorella mangiasse troppo poco, perché pareva secca e anemica – io, che, scherziamo? –. Quindi, spesso sgraffignava qualche schifezza dal frigo o dalla dispensa e me la portava davanti alla porta di camera mia. Mi immaginai la mamma, il mattino successivo, quando sarebbe andata a cercare le fragole per fare una torta e non ne avrebbe trovato nemmeno una traccia.
La mia mamma, fuori dalla stanza, riagganciò. «Keira, dovrai uscire, prima o poi» disse, per l’ennesima volta in tutta la settimana, stanca e irritata. «Mi stai facendo venire i capelli bianchi!»
“Mamma non ha un minimo di polso.” Non che mio padre la superasse in questo. Gwen per fortuna a volte era l’unica che sapeva farsi gli affari suoi, anche se quando voleva sapeva essere molto insistente.
«E dai Keira… Liddy ti ha chiesto scusa! È l’ennesima volta che lo fa! Se continui così e tieni il broncio smetterà di chiamarti, un giorno o l’altro.»
“Oh no, spero proprio che non accadrà tanto rapidamente.” Mi piaceva sentire la voce di uno dei miei familiari che discuteva al telefono con una Lydia caparbia e – sperava – in lacrime. So quanto ciò possa essere sadico, ma per me non poteva essere altro che quella, la mia soddisfazione e la mia gratificazione più grandi.
Non ero crudele. Mi sentivo umana. Avevo voglia di vendetta; e allora? Io dopo tutto non stavo facendo niente, aspettavo solo che questa si abbattesse su Lydia.
«E va bene, fa’ un po’ come ti pare» terminò la donna, spazientita, girando i tacchi e andandosene con passo pesante.
“Grazie del consiglio, lo seguirò senz’altro.”
Nel giro di due ore mi era già tornato l’appetito, mi era spazzolata le ultime fragole dalla scodella mentre i miei familiari se ne andavano lentamente a dormire. Probabilmente Gwen era uscita, visto che era nel mezzo del finesettimana. Ma in fondo, a me poco importava.
Riaccesi la lampada che faceva ancora le bizze. Le diedi una piccola botta e questa parve tornare normale. Bene. Col dito scorsi nella fila di libri sistemata su uno degli scaffali sopra di me, ed estrassi un volume, quasi a caso. Notai che sul dorso si era posato un sottile strato di polvere grigia. Io vi soffiai sopra per spazzarla via e dopo essermi rannicchiata sulla sedia della scrivania, stringendomi nel mio esile corpo, mi inabissai nella lettura.
Ciononostante, non riuscii a concentrarmi a dovere. I miei occhi scivolavano sulle parole, una dietro l’altra, ma nella testa non entrava niente. Ero troppo presa a pensare a Lydia. Liddy.
Io mi ero fidata. Avevo pensato che Liddy fosse una di quelle poche persone disposte ad accettare di essere amiche di una come me, invece aveva dimostrato di non meritarla nemmeno, la mia amicizia. “Tzè, al diavolo.”
Un rumore leggero e netto provenne dalla finestra. Qualcosa – qualcosa di piccolo – aveva sbattuto contro la tapparella della finestra. “Un sassolino”, realizzai quel pensiero immediatamente. Quasi non l’avevo sentito. Poggiai distrattamente il libro sulla scrivania e mi avviai silenziosamente ad aprire la finestra.
Una volta alzata la tapparella, ebbi la sua visuale completa. Sbuffai. Blake era lì, il lettore DVD portatile sottobraccio. Io ero già in camicia da notte mentre lui indossava ancora felpa e jeans. Alcuni ciuffi neri si ribellavano alla chioma che lui cercava invano di tenere ordinata. Lo vidi farmi un cenno con il capo.
«Uff… non mi va proprio» dissi, con voce monocorde, cercando di liquidarlo. «Vai via, non ho voglia di parlare.» Mantenevo un tono più basso possibile per non svegliare i miei genitori, ma anche alto abbastanza perché lui sentisse.
Blake sollevò il lettore DVD.
«Inutile, non mi va ti ho detto» ribadii, seccata.
Con l’altra mano, lui sollevò un grosso sacchetto, lungo più di metà del suo braccio e largo come…
Come un pacchetto di popcorn di dimensioni extra-large, di quelli cui lui sapeva che la sottoscritta non sapeva resistere.
Mi massaggiai la pancia. Che mi fosse venuta la nausea o no, io di certo non avrei mai resistito al fascino di un pacchetto di dimensioni gigantesche di popcorn.
Vidi Blake ammiccarmi in maniera amichevole, consapevole di aver azzeccato la scelta.
Sbuffai ancora, ma alla fine sparii dalla sua vista. Così lui si diresse verso la porta d’ingresso. Al solito, io sarei venuta ad aprirgli in assoluto silenzio e in totale segretezza. Avremmo fatto le ore piccole anche stavolta.

«E questa che roba è?» domandai io, che avevo già aperto il grosso sacchetto di popcorn per affondarvi la mano dentro.
Blake infilò il DVD e fece partire il film. Il lettore sembrava quasi un piccolo computer. «Me l’ha consigliato un tizio su Internet. È appena uscito in DVD, e ho letto che al cinema ha riempito tutte le sale.»
«Interessante» commentai.
Eravamo seduti sul pavimento della mia stanza, acquattati in un angolo, il lettore subito davanti a noi, un filo nero che sbucava da dietro, e che scorreva per terra per un lungo tratto prima di raggiungere la presa elettrica. «Ehi, non te li divorare tutti, per favore.» Mi prese il sacchetto dalle mani. Come sempre, ce lo saremmo litigato per tutta la durata del film.
«Comunque hai visto che ore sono?» dissi io mentre Blake impostava l’audio. «Ormai è quasi l’una, e io sono già in camicia da notte. Non ti sembra un po’ tardi per un film?»
«Primo, lo so benissimo che tu sei sempre sveglia a quest’ora. Secondo, della camicia da notte non m’importa granché. Sinceramente, non l’avevo neanche notata. Terzo, abbiamo tempo finché tua sorella non rientra, mi pare. Il che accade non prima delle quattro.» Sospirai e distesi le gambe. Poi l’altro continuò. «Allora, come vanno le cose con Lydia e Doug?» chiese a bruciapelo.
Strabuzzai gli occhi. Blake lo vide soltanto perché la luce del lettore si rifletteva sul mio volto. «E tu come fai a saperlo?» Le mie unghie si conficcarono nei palmi. Volevo evitare il discorso, se possibile.
«Ehm… anche io frequento la tua stessa scuola, Keira. D’accordo che di pettegolezzi non me ne intendo, ma sei la mia vicina di casa. Ci vediamo due volte a settimana, almeno. Un’infarinatura della questione te la sei fatta sfuggire tu l’altro giorno; il resto l’ho saputo tramite alcune voci di corridoio.» Si alzò, dirigendosi verso la scrivania. Ormai sapeva perfettamente che vi tenevo sempre appoggiate sopra due lattine di Coca-Cola, nel caso che lui si dimenticasse di portarle. «E poi, del resto, chi – queste lattine non le hai messe in frigo, vero? – a scuola non si fa gli affari di Douglas Spear? È nientemeno che il più fico dell’istituto» concluse con ironia.
Feci una smorfia. Ero perfettamente consapevole di dove voleva andare a parare. Mi feci passare una lattina di cola. «E va bene, tu avevi ragione e io torto, lo ammetto. Stavo puntando a qualcosa di improponibile.»
«Brava, vedi che a volte riusciamo a concordare su qualcosa?» Blake si aprì la lattina, ingollò un sorso e premette il tasto play, accovacciandosi di nuovo per terra. «Credimi, non ha cervello» disse alzando le spalle. «L’avresti detestato dopo i primi dieci secondi di compagnia.»
Io lo guardai. I suoi occhi, anche all’oscurità, brillavano azzurri come due lapislazzuli. Presi una manciata di popcorn, infilandomela in bocca, e mi leccai il sale che mi era rimasto sulle labbra. Mentre guardavo il film, i miei problemi le sembrarono improvvisamente meno importanti, e per un po’ li riuscii a mettere da parte.

A fine film il pacchetto di popcorn di dimensioni extra-large era già stato svuotato da un bel po’, ed io ero già sgattaiolata al piano di sotto per andare ad arraffare dal frigo altre due lattine di Coca-Cola.
Blake spense premendo un tasto il piccolo lettore DVD, e staccò il cavo. Accartocciò il sacchetto di plastica grande e vuoto e lo gettò nel cestino. Vide me appoggiata al bordo della scrivania con la schiena. «Che ore sono?» gli chiesi in un sussurro.
Lui estrasse il cellulare, in modalità silenziosa, dalla tasca dei jeans, e controllò. «Le tre meno cinque. Non dirmi che sei già stanca.»
«Neanche per idea» risposi. «Qui quello stanco sembri tu.»
«Io? Scommettiamo che è il contrario?»
«Come, a quest’ora?» Be’, mancava ancora un’ora buona prima che Gwendolyn tornasse dal suo sabato sera in discoteca con il suo ragazzo. Conoscendola, non sarebbe certo arrivata in anticipo. «Mmm… una partita a dama?» proposi.
«Andata.»
Fui costretta a mettere a soqquadro mezza stanza prima di trovare la dama, un mio amato passatempo che riusciva a intrattenere me e Blake durante le nottate noiose e insonni. «Ti avverto, io prendo i neri.»
«Sì, lo so, non preoccuparti.» Una delle mie principali prerogative a dama era avere i pezzi neri. Infatti, ormai lui sapeva benissimo che stravedevo letteralmente per quel colore, che era il significato anche del mio nome.
Sistemammo il piano della dama su un comodino che avevo provveduto a liberare da ogni cianfrusaglia, mettemmo due sedie ai due lati opposti del mobile, e dopo aver disposto i pezzi iniziammo a giocare, sotto un triangolo di luce perlacea diffuso dalla luna, che si intravedeva dalla finestra, adesso con le tapparelle alzate.
Posai la punta dell’indice su uno dei pezzi e lo spostai.
«Eh» mi rimproverò Blake. «Cerchi sempre di fregarmi. I bianchi muovono per primi.»
«Giusto.» Io ritrassi la mano, guardando il mio avversario fare la stessa mossa che io mi ero immaginata. Com’era prevedibile. Risposi finalmente alla mossa. «Allora, come mai qui stasera – anzi stanotte?» domandai, tanto per chiedere, non che mi interessasse più di tanto.
Blake mosse un altra pedina bianca su una casella al bordo del piano di gioco. Scrollò le spalle. «Niente più computer.»
«Come? I tuoi te l’hanno di nuovo sequestrato?»
«Che c’è di strano? Anche a te scommetto che sequestrerebbero tutti i libri che leggi, se solo riuscissero ad entrare in camera tua.»
«È un discorso diverso» spiegai. «I tuoi genitori sono severi e autoritari. I miei sono dei mollaccioni senza forza di carattere.» Spostai un pezzo nero pericolosamente vicino a uno di quelli avversari. «Come farai senza il tuo amato Internet adesso?»
«Facile» rispose, continuando a giocare con me. «Come al solito, fingo di aver imparato la lezione per un paio di settimane, e poi ritorno alla mia vita abituale. Prima o poi si arrenderanno anche loro, no?»
Annuii. Il suo discorso non faceva una piega. «Mangiato.» Presi una delle sue pedine color avorio e la misi da parte.
«Dannazione.» Passò al contrattacco. «Invece che mi dici di Lydia?»
«Me l’hai già chiesto» dissi io acida, stringendo i denti. Feci una mossa sbagliata.
«Ah, lo sapevo, ti sei distratta.» Mi incastrò con una mossa di risposta che io non mi aspettavo. «Intendevo come vanno i rapporti con lei, non m’interessa della sua vita privata.»
«Allora sii più specifico.» Mi passai una mano tra i capelli. Avevo perso un pezzo nero. «Mi ha chiamata, prima.»
«Interessante. Cosa vi siete dette? Le hai lanciato uno di quegli insulti – uno dei tanti – di cui mi avevi parlato? Immagino che le lingue delle ragazze siano molto più taglienti di quelle di chiunque altro.»
«Fai attenzione, Blake. Sto per fare damone.» Lui parve concentrarsi maggiormente, accigliandosi. «Ci ha parlato mia madre. A volte mi sembra quasi che sia dalla sua parte. Io mi sono rifiutata di parlarle» continuai.
«Sei un po’ rigida, eh? E con questa mossa, un altro punto a mio favore.»
Osservai un altro dei miei pezzi neri venire mangiato, con sguardo impassibile. Gli occhi color lapislazzuli di Blake rilucevano trionfanti. «Come? Non mi fai il discorsetto da buon samaritano? Del tipo “Perdonala, dai, tutti possono sbagliare qualche volta”.»
Blake scosse la testa con risolutezza. «Io non sono un buon samaritano. E non do neanche consigli che non condivido. Se ritieni che quella ragazza si meriti tutto questo… allora hai ragione tu.»
«Damone» sentenziai, con un ghigno stampato sul viso. «Pensavo che mi avresti contraddetto solo per il gusto di farlo. Meglio così.»
Liddy. Ricordavo quando le avevo affibbiato quel soprannome, sostenendo che suonasse bene. Lei lo aveva accettato volentieri. Ci eravamo conosciute senza un motivo preciso: a scuola era venuta da me a chiedermi se potevo prestarle degli appunti, e avevamo inevitabilmente avviato una conversazione. Chiaramente era stata Lydia a incitarmi a continuare a chiacchierare, perché io non ero il tipo da perdersi in quel tipo di cose. Eravamo molto diverse, nell’aspetto particolarmente. A partire dai capelli – lisci e setosi quelli di Lydia, inquietanti e tenebrosamente scuri i miei – per terminare con le curve proporzionate della ragazza, il suo seno prosperoso e il potere di stare bene incalzando qualsiasi tipo di vestito. Io, invece, ero bassina e magra, le mie caviglie sembravano le zampette di un canarino, da quanto erano sottili. E se solo provavo a indossare il bianco, ecco che tutti mi osservavano come se stessero guardando un fantasma.
Scossi la testa, cosciente che pensare a quella traditrice mi avrebbe solo fatta distrarre ulteriormente.
«Se vuoi torno anche domani» disse lui dopo un po’, senza preavviso. «Sai, senza Internet non ho molto da fare. E ho tanto tempo libero.»
Feci un’altra mossa. «Potresti approfittarne per rimetterti in pari con lo studio» dissi, ironicamente, sapendo già la faccia che avrebbe fatto.
«Solo se lo fai anche tu» si fece sfuggire una risatina. «Quando ti ho conosciuto, ho visto così tanti libri in giro per la tua stanza che ho pensato fossi una secchiona. Pensa un po’.»
La mia stanza sembrava una libreria messa sottosopra con tomi e volumi sparsi dappertutto, non solo occupando tutti gli scaffali, ma anche formando grosse pile sul pavimento, sotto il letto, dentro gli armadi, nei posti più improbabili. Leggevo almeno cinque ore al giorno. Ma con lo studio mi mantenevo appena al livello della sufficienza piena, tranne in letteratura, dove avevo i voti massimi.
«Comunque è un brutto periodo» gli dissi io. «Non ho voglia di compagnia.»
«Ho visto.» Una delle pedine di Blake raggiunse la fila estrema in campo nemico. Un damone anche per lui. «Infatti ultimamente sei ancora più isolata del solito.»
Keira si allungò leggermente all’indietro. Pareva riflettere. «Pensavo di non venire a scuola per qualche giorno.»
Blake rimase spiazzato. «Sul serio?» Alzò le sopracciglia. «No, Keira, non ti spingere a tanto.»
«E perché no? Tanto a scuola i miei voti sono quelli, e della gente che c’è lì dentro poi non ne parliamo.»
«Un conto è stare soli per scelta. Un altro è fuggire dai propri problemi, come stai facendo tu ora.» Con una mossa inattesa, mi eliminò due pezzi neri dal gioco in una sola mossa. «Oh oh, sei nei guai» dedusse.
Mi alzai di scatto dalla sedia, i pugni serrati. Mi voltai poi dall’altra parte, dandogli di schiena. «Ti ho detto che non ho voglia di vedere nessuno. Chiaro?» mi imposi.
Feci per allontanarmi, ma avvertii il contatto repentino di una mano che mi afferrava il polso. Era fredda, e mi stringeva con decisione. «Fai un tentativo. Che ti costa?»
Sbuffai. «Senti da che pulpito proviene la predica!»
«Io almeno a scuola ci vado. Anche se non posso gioire dei risultati.» Mi lasciò andare il polso. Io rimasi immobile come una statua, fissando la parete davanti a me. «Che fai, ti arrendi? Getti la spugna così facilmente?» proseguì lui, indicando il piano di gioco.
Lo guardai da sopra la spalla. «Sei veramente odioso» ringhiai. Mi rimisi a sedere. «Ma io non mi arrendo. Dovresti saperlo, ormai, no?»
Feci un’altra mossa. Proprio ciò che lui voleva.
Blake sorrise, maligno, vittorioso. «Mangiata.»

 
 

[In nome di quella stessa bambina che a sei anni
scrisse la sua prima "operetta", e sapeva già
che la scrittura sarebbe stata la sua vita.

In nome della fantasia che aveva e che si è portata dietro
fino ad oggi, sperando che non svanisca mai.

E infine, in nome di quell’ispirazione che arriva
all’improvviso e che ci entusiasma mentre scriviamo.
]

 

I deliri pensieri di Camelia:
Prima di tutto, ciao. In secondo luogo, ora non so più cosa dire perché tutto ciò che volevo comunicare a chi è arrivato fin quaggiù è già scritto nelle note all’inizio e in questa in fondo. Sono davvero fiera di questa storia – sebbene ancora non l’abbia terminata, ma sta procedendo un capitolo per volta.
Poco tempo fa ho riletto una cosa che avevo scritto da bambina, e alla fine c'era scritto "Non bisogna mai smettere di usare la propria fantasia, poiché è la cosa più bella che ci è stata regalata". Mi sono commossa, e mi sono venute in mente tutte le cose che la mia fantasia mi ha permesso di fare, e che permette di fare a tutti ogni giorno. La scrittura per me è l'applicazione di questa fantasia, perciò le do sì tanta importanza. Dunque, mi è venuto in mente di dedicare questa storia a tutte le persone che sfogano la loro immaginazione così.
E per chi non l'avesse capito, sono fan degli Skillet ;D LOL.
Oh, Camelia non è il mio vero nome purtroppo. Chiamatemi Jade o Cam se volete un nome più corto di Drama_Queen.
Ho la mania di darmi i soprannomi da sola, va bene?! xD
Okay, detto ciò, spero che mi lasciate un commentino, anche ino ino ino ^^’ vi saluto calorosamente!
Cam
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Capitolo 2
*** I conflitti dell'orgoglio ***




Ehm, sì. Mi prendo la colpa il merito per questa schifezza piccola opera d'arte scaturita una sera dalla mia mente e completata il mattino successivo... a scuola. Perché a scuola o si scrive o si disegna okay io non ho detto niente eh?! xD Però la cosa più bella è la mia firma u.u incomprensibile, ovviamente (quella in basso a destra). Questa è una MangaKeira. Potrei farne altre, se vi piacciono naturalmente ^^ Buona lettura! :D




[Capitolo Due]
[I conflitti dell'orgoglio]


 

È difficile, dannatamente difficile, rientrare in quell’edificio dopo tutto ciò che è successo.
È difficile ritornare, e sai che avete in comune troppe lezioni per potervi ignorare deliberatamente, e sai che la incrocerai decine di volte per i corridoi, e sai che la vedrai con
lui. Sei consapevole che lei ha raccontato al suo nuovo ragazzo delle cose che ha fatto il giorno prima, che gli ha stampato un bacio sulle labbra appena dieci minuti fa, che non vede l’ora che le lezioni si concludano per potersene andare insieme con lui da qualche parte. Tutte cose che avresti voluto fare tu, al posto di lei, che così, senza alcun preavviso, ha preso la tua speranza più grande e l’ha mandata in frantumi, come un vaso che tocca il pavimento con troppa forza.
E vedrai lui, che ti manderà sguardi indecifrabili, che non sai se significano pena, perché tu avrai sofferto e lui sa che è colpa sua, o se significano che sei veramente ridicola, perché ti sei lasciata sfuggire qualcosa di simile, o perché ti illudevi di avere qualche speranza. Una tua amica, la tua amica più grande, quella che, al contrario di te, era allegra e solare. E prima ancora che tu avessi l’occasione di confessare a lui il tuo amore, lei te lo aveva già portato via.

Sapendo di farti un torto.
«Tanto non ti filava» aveva detto, al telefono.
Poi si era scusata.
Ma quelle scuse oramai erano inutili. Il danno era stato provocato più da quella frase e da quella successiva, che da tutto il resto.
«È da un mese che ci frequentiamo.» Ma cosa aspettasse lei a dirlo, alla sua migliore amica, sebbene anche questa fosse innamorata di lui, non ci è permesso saperlo.
Erano state le ultime parole che avevo sentito, perché l’unico rumore che era venuto successivamente era stato il tuuu tuuu del telefono, con il mio pollice schiacciato sul tasto con la cornetta rossa. E avevo concluso la chiamata.
«Cerca di capire…» aveva cercato di dirmi.
Una bugia che andava avanti da un mese. Non c’era assolutamente nulla da capire.
Che io fossi stata innamorata persa di Douglas, un tempo, ormai non mi interessava più, poiché lei mi aveva tenuto nascosta una relazione con lui che andava avanti da più di un mese. C’erano mille motivi per cui lei avrebbe dovuto dirmelo subito. La nostra amicizia, la fiducia reciproca, e il fatto che in quel periodo io stavo continuando a sperare in lui, sebbene fosse già appartenenza di Lydia, e quest’ultima aveva lasciato che io mi illudessi; ancora un po’.
Forse era l’essere di Doug così diverso dal mio ad avermi attratta fin dal primo istante. Forse era stato proprio il fatto che fosse così impossibile da raggiungere, il fatto che fosse così lontano, ad alimentare la fiamma del mio “amore”. Si può chiamare amore quel sentimento – non corrisposto – che provi verso una persona nonostante tu non vi abbia mai parlato? Alcuni lo chiamano colpi di fulmine, io la consideravo…
… la mia malattia.
Mi svegliai, socchiudendo gli occhi e con la fronte madida di sudore.
Ancora una volta, avevo sognato tutto. Era come un promemoria che mi rammentava di odiare per sempre Lydia. Eppure sapevo che era un comportamento da immatura. Ma io reputavo me stessa poco più che una bambina, benché avessi già compiuto diciassette anni, e sapevo di non essere il miglior modello adolescenziale che si potesse desiderare.
Viziata e capricciosa. Tutti dovevano eseguire il mio volere. No, questo io non lo pensavo, ma mi aveva detto Gwendolyn, attraverso la porta della mia stanza, che papà mi aveva definita in questa maniera. “Bene, papà”, avevo pensato, “hai visto come hai cresciuto bene tua figlia?”
Con una fitta alla testa pressante e gli occhi ancora appesantiti dal sonno, sbattei una mano sul tasto che spegneva la sveglia, la quale segnava le sette del mattino.
Il lunedì era giunto in fretta, tenendo conto che dalla volta in cui avevo ricevuto Blake a casa mia, non avevo fatto altro che dormicchiare, passando l’intera domenica nel letto. Molti miei coetanei mi avrebbero invidiata, e lo sapevo.
Io avevo puntato la sveglia, tuttavia non sapevo come comportarmi: Blake mi aveva fortemente suggestionata a recarmi a scuola, ma la mia voglia rasentava lo zero assoluto. Lui non faceva mai storie per il mio comportamento apatico e poco socievole, anche perché egli stesso non era troppo diverso da me, eppure doveva aver raggiunto sicuramente una maturazione più elevata della mia per dirmi che era mia responsabilità andare a scuola.
Dunque, la domanda rimaneva sempre la stessa: che fare? Affrontare la dura, spietata realtà e incontrare la coppia del momento, o rimanermene buona buona infilata sotto le coperte?
Mi uscì uno sbuffo dalla bocca.
Sollevai la trapunta fino a coprirmi la fronte.
Riabbassai le palpebre.
Era molto più confortevole starsene al caldo in un letto comodo, alle prime luci del mattino che passavano solo come tenui filamenti da alcune fessure, grazie alla tapparella che stava alla finestra che ne impediva il passaggio.
Sopportai per tutta la mattina, a intervalli di circa mezz’ora, le botte sulla porta di mia madre e il suo strepitare, lamentandosi del fatto che non mi alzavo. Lei esigeva che io andassi a scuola a tutti i costi, eppure, alla fin fine, non faceva nulla per impedirmi di restarmene a letto. Mi bastava avere una buona pazienza e rimanere imperterrita ad occhi chiusi, in attesa che, dopo tutti quegli strilli che mi avevano svegliata, il sonno sopraggiungesse di nuovo.
Finalmente, a mezzogiorno circa smise di darmi delle noie, troppo impegnata a preparare il pranzo. Sebbene fossi chiusa a chiave all’interno della stanza, saliva comunque un lieve profumo che non riuscii bene a distinguere, avendo ancora i sensi assopiti.
Continuai così per giorni.
 
Alle sei del pomeriggio, più di una settimana dopo, ancora non era accaduto nulla di rilevante: succedeva sempre così, da quando avevo incominciato la mia reclusione. Se vogliamo essere precisi, ero ancora sdraiata sul letto, ma le coperte aggrovigliate in una matassa indistinta di tessuto risiedevano sotto il mio corpo, che era steso sulla schiena. I miei occhi fissavano il soffitto mentre le mie orecchie si dilettavano con la musica proveniente dalle cuffie del mio lettore mp3. Lo scrutai. Non era nuovo, non lo era per niente. Tuttavia riproduceva musica, e a me stava benissimo così. La musica era un altro modo, solamente più rumoroso, di estraniarmi da ciò che mi dava fastidio, il che era qualcosa che potevo solamente gradire, viste le circostanze in cui mi trovavo.
Fu solamente quando il brano che stavo ascoltando in quel momento terminò che mi accorsi che qualcuno stava bussando insistentemente alla porta. Lo faceva con così tanta irragionevole frenesia e ansia che poteva trattarsi solamente di quella donna che mi aveva messa al mondo appena diciassette anni prima, commettendo un grosso errore a discapito dei suoi nervi. «Insomma, Keira! Mi vuoi ascoltare?» esclamava.
Trassi un respiro profondo, e pronunciai la prima frase della giornata: «Cosa vuoi?» le domandai con totale indifferenza.
«Volevo solo dirti che ho cucinato la torta al cioccolato. Tutto qui. Se la vuoi, è in cucina, e te la vieni a prendere» disse, con tono che cercava di essere austero ma, insomma, mi aveva appena offerto una torta. Cosa c’è di austero nell’offrire una torta?
C’era qualcosa sotto, ma cosa? Voleva avvelenarmi, addormentarmi, drogarmi per potermi portare con facilità dallo psicologo o qualcosa del genere? O forse era tutta una bugia per farmi uscire da camera mia?
Io ero sempre andata matta per la torta al cioccolato che preparava la mia mamma. Ne mangiavo fino alla nausea, quando ero piccola, e mi promettevo che non l’avrei mai più riassaggiata in tutta la vita. Eppure, ogni volta che lei la ricucinava, il mio amore improvvisamente rinasceva. Solamente concepire il pensiero che potesse esserci una torta appena fatta al piano di sotto, posta in un vassoio bianco sul tavolo ancora chiazzato di farina della cucina, mi creò un turbinio di idee insistenti: dovevo averla.
Attesi pazientemente, con il desiderio che, ogni secondo che passava, andava in crescendo, e alla fine mia madre si rassegnò e si diresse giù per le scale tra uno sbuffo e l’altro. Balzai dal letto dicendomi di non agire con impeto e andai a socchiudere la porta: il delicato ma allo stesso tempo penetrante profumo di torta, con l’odore pungente del cioccolato, mi riempì le narici, e ne rimasi estasiata. Le papille gustative iniziarono inevitabilmente a fremere ancor prima di sentire quel sapore dilettarmi lingua.
Se mamma aveva davvero cucinato la torta, allora non doveva averlo fatto perché c’era qualcosa sotto, almeno così pensai.
Quatta quatta e in punta di piedi, scesi le scale e m’intrufolai in cucina, come se fossi una ladra, sebbene mia madre mi avesse vista all’istante. Era seduta su uno sgabello che dava sul tavolo dal quale, distrattamente, stava ripulendo la farina bianca con uno straccio. Come avevo previsto, su un vassoio, giaceva indifesa una torta, la cui fragranza si faceva sempre più intensa ad ogni passo che muovevo nella sua direzione. Presi uno sgabello anch’io e mi sedetti. Mamma aveva già tagliato una fetta di torta per me – di grandi dimensioni, come era mio solito mangiarne. Quel gesto non alleviò i miei sospetti, anzi, parve acuirli. Sapeva per certo che sarei venuta al piano di sotto a controllare. Tuttavia, inebriata dal profumo del dolce che attendeva solo di essere ingurgitato da me, divorai la fetta di torta gustandomela a malapena. La donna che sedeva davanti a me sembrava avere l’aria più che soddisfatta. «Cos’è quel sorrisetto che hai?» le domandai, ripulendomi la bocca sporca di briciole con la manica della camicia da notte che ancora indossavo.
«Oh, niente, niente» fece lei, trattenendosi. «Solo che mi fa piacere che tu apprezzi ancora qualcosa di quello che faccio.»
Non era mai stata un tipo troppo sentimentale. Persino quella frase mi parve troppo strana, pronunciata dalla sua bocca. Ingoiai l’ultimo pezzo di torta che mi era rimasto e immediatamente, assalita da nuovi sospetti, fuggii su per le scale leccandomi le dita dai residui.
La porta della mia stanza era spalancata – non come l’avevo lasciata – e subito fuori, sul pavimento freddo del corridoio semilluminato, erano impilate due o tre file di libri. Vidi mio padre, con le maniche della camicia tirate su fino ai gomiti, che trasportava una decina di libri per volta da camera mia a lì fuori. Fuori dalla mia portata.
Cacciai uno strillo con tutto il fiato che avevo, e mi gettai sui miei libri. «Papà, che cosa stai facendo?» Stavo seriamente cominciando a spaventarmi di ciò che poteva succedere.
Vidi l’omone di fianco a me emettere uno sbuffo di fatica. «Porto via i tuoi libri, non vedi?» mi disse con un’ovvietà che mi sorprese. Prima che potessi esclamare stupefatta, però, proseguì: «Ordini superiori, mi spiace davvero molto.»
Lo vidi scrollare le spalle bonariamente, e la rabbia colmò d’un tratto tutto il mio essere, espandendosi e saturando capillarmente ogni fibra del mio corpo. La mamma mi aveva attirata giù in cucina per quello, non c’era altra spiegazione. «No, i miei libri no! Aspetta!» Cosa avrei fatto per tutto il giorno senza i miei libri?
«La mamma ha detto che finché non ti deciderai ad uscire di lì e a riprendere la tua vita, questi qui» indicò, dopo aver appoggiato alcuni volumi, tutte le pile che si erano ammucchiate «vanno tutti giù in seminterrato.»
Sbarrai gli occhi. «Nel seminterrato? Ma ti rendi conto che c’è odore di muffa laggiù? Impregnerà tutte le pagine!»
«Sai quanto gliene importa, alla mamma?» mormorò, per non farsi sentire dalla donna che, intanto, era al piano di sotto speranzosa che il suo piano fosse andato a buon fine. «Chiuderà a chiave la porta del seminterrato così anche quando non ci saremo non potrai andarli a recuperare. Si è organizzata per bene.»
Si decidevano ad essere severi proprio in quel momento. Non seppi come comportarmi. A pugni stretti e sudata, ringhiando di collera, tornai nella mia stanza e presi alcuni dei libri che erano rimasti, i più importanti e i più significativi, compreso il suo quadernetto dalla copertina azzurro sbiadito, e ne infilai un po’ sotto le coperte e sotto il cuscino, dentro i cassetti dell’intimo, sotto la biancheria in modo da renderli invisibili, in tutti i punti dove sapevo che non avrebbero controllato. “Stronzi”, pensai alla fine, ribollente d’ira e con una sola, unica lacrima che le scivolava sulla guancia sinistra.
 
Anche quella sera feci entrare Blake di nascosto: se i miei genitori l’avessero visto, avrebbero insistito con lui perché mi convincesse a tornare a scuola e non ci avremmo più cavato i piedi per tutta la notte. Così addio film, o qualsiasi altra cosa avremmo fatto.
Chiaramente, non appena lo accolsi notò la mia faccia frastornata e il vuoto che aveva aggredito così repentinamente la mia stanza, e ne dedusse subito che doveva essere accaduto qualcosa.
Dopo che gli ebbi raccontato tutto, da quella mattina quando avevo ignorato ancora una volta i tentativi di mia madre di farmi alzare al sequestro dei miei libri, lui esordì in questo modo: «Pensavo che fossero i miei i genitori severi, mentre i tuoi erano, se non sbaglio, i “mollaccioni privi di polso”, o come li avevi chiamati tu.»
«Non mi sei per niente d’aiuto, così» gli risposi, forse un po’ troppo bruscamente. Sì, il nervosismo talvolta mi faceva reagire non molto bene.
«D’accordo» alzò le spalle lui. «Allora posso anche andarmene.»
Fece finta di uscire per andare via, ma io glielo impedii, bloccandolo per un braccio. «Non so più che cosa fare» sibilai, inutilmente, perché lui lo sapeva già. Chiusa in camera mia, senza nessuno a parte lui che mi venisse a trovare e che mi raccontasse cosa accadeva là fuori, i miei che mi avevano staccato la connessione a Internet, e adesso senza più neanche i miei libri. Che cosa potevo fare?
Blake si voltò, fissandomi negli occhi. Aveva un’espressione sul volto di quelle solenni che vogliono comunicarti, senza dirti nulla a parole, la cosa giusta da fare. Gli occhi luminosi color zaffiro erano mirati su di me, in uno sguardo intenso, così tanto che pur conoscendoci da anni ancora non avevo imparato a sorreggerlo. E allora, compresi subito. «Non staresti così adesso, se almeno andassi a scuola» disse, estinguendo definitivamente ogni mio dubbio. «Sono giorni che non ti vede più nessuno.»
Scossi la testa con decisione. «No, io non ci vado.» Mi rendevo perfettamente conto di assomigliare ad una bambina capricciosa, ma in quel momento che me ne facevo dell’orgoglio? «E poi non credo che là sentano la mia mancanza.»
Alla fine, stanco della mia caparbietà, mi prese per le spalle. Aveva una presa ferrea e ferma, e anche se mi fossi dimenata, lui non avrebbe mollato nemmeno per un secondo la sua morsa che mi teneva in trappola. «Keira, non è difficile: trovate un punto d’incontro, e basta. Puoi fare così per un po’ di tempo, e aspettare, poi potrai di nuovo fare quello che vuoi. Ma se non accetti il fatto che adesso devi uscire da quella porta, i tuoi libri rimarranno nel seminterrato per chissà quanto tempo.» Vedendo che non avevo alcuna reazione, alzò un sopracciglio, e proseguì senza indugi. «Prima che tu riesca a recuperarli le pagine saranno già ingiallite, e le copertine logorate.»
Quella frase conclusiva bastò per mettermi orrore: mi seccava doverla dare vinta ai miei genitori, tuttavia non avevo altra scelta. E in più, sospettavo che se avessi continuato così sarebbero arrivati a soluzioni ancor più drastiche, come togliermi la luce, o qualcosa del genere. Attesi in silenzio, finché la presa di Blake non si fece un po’ meno salda; a quel punto, mi liberai facilmente e potei allontanarmi da lui, mettendomi a sedere sul letto e affondando nel materasso. «Tu non riesci minimamente a comprendere cosa sto sopportando, sapendo i miei libri laggiù. Non lo comprendi perché non leggi.»
«Bene, una ragione in più per fare come ti dico io.»
Tirai su le gambe, e mi rannicchiai, infilando il capo tra il grembo e le ginocchia. Sbuffai un “Sì” poco convinto, prima che Blake traesse un sospiro di sollievo. Non mi era mai piaciuto scendere a patti. E ancor meno mi piaceva l’idea in quel momento di andare a scuola: non dopo tutto quello che vi avrei trovato. Sì, perché quella ragazza che odiavo tanto riusciva comunque a farmi patire delle pene che scaturivano esclusivamente dal mio affetto nei suoi confronti.
Era contraddittorio come discorso, ma scommisi che Blake l’avrebbe capito. «Non voglio vedere Lydia» mormorai, per celare il mio tono di voce affranto.
Lui, prima di rispondere, si avvicinò, sedendosi accanto a me. Aspettò che mi aprissi dalla mia posizione a riccio, prima di cingermi affettuosamente con un braccio. Il calore del suo corpo mi pervase, accogliente come una casetta di montagna in pieno inverno. «Se non affronti i tuoi problemi nella vita reale, poi questi non ti daranno pace e ti inseguiranno anche nei tuoi pensieri.»
Gli diedi una pacca scherzosa per sdrammatizzare la situazione. «Da quando sei diventato un filosofo?» gli domandai, tuttavia non appena finii di dirlo capivo che non avevo molta voglia di scherzare.
«Domani la vedrai, lei cercherà di parlare con te, e chiarirete la situazione; farete pace e non se ne parlerà più. Tutti felici e contenti, no?» disse Blake.
«No!» esclamai bruscamente, tirandomi su in piedi di scatto. «Non voglio vederla, ti ho detto, figuriamoci parlare con lei.»
Chiusi gli occhi, e mi sforzai di ragionare più a mente fredda. Qualche secondo dopo, avvertii le braccia di Blake circondarmi una seconda volta, e in seguito la sua mano che mi scompigliava i capelli. Mi lasciai andare, appoggiandomi al suo corpo caldo e affondando la faccia nella larga felpa. «Se la odiassi soltanto e volessi solamente vendicarti di lei, non ti sentiresti così» disse, con un tono che sembrava più indifferente di quel che era in realtà. Non era mai stato molto bravo a consolare, ma del resto non lo ero neanche io, e mi andava bene così.
«È molto più complicato di così.»
Ed era vero. Non ero arrabbiata solo per il torto che mi aveva fatto: ero arrabbiata perché l’avevo persa, ed era colpa sua.
«Non ho voglia di pensarci» indietreggiai, sfuggendo al suo contatto, e mettendo in mostra un ampio sorriso: forse, se mi sforzavo almeno di sembrare felice, mi sarei dimenticata di Lydia. «Che hai portato?» domandai. Ero stata così presa dalla conversazione, che mi era passato di mente anche il fatto che il mio stomaco stava brontolando.
Blake sventolò un nuovo sacchetto di popcorn che aveva appoggiato temporaneamente sulla mia scrivania. Il mio umore a terra fu risollevato, seppur in maniera modesta. «Dimmi che verrai, domani» disse lui, cercando di essere persuasivo. «Non ti chiedo di parlare con lei, ti chiedo solo di tentare e venire. Gente molto più arrabbiata e abbattuta di te si ribella molto meno di quanto tu abbia fatto finora. Fallo per me, Keira.»
In realtà quella non l’avrei chiamata “ribellione”. Recludersi in una stanza non era una ribellione, era un lasciare passivamente che la propria esistenza scorresse. Comunque sia, non sapevo perché Blake mi avesse detto quelle cose: solo io decidevo se fare qualcosa o meno, non c’era verso di convincermi, e lui lo sapeva bene. Probabilmente, ancora non aveva rinunciato alla speranza di potervi riuscire.
Alla fine, tuttavia – non so cosa mi passasse per la testa – riuscì a strapparmi un cenno d’assenso con il capo. In quella maniera avevo detto “Sì, io domani vengo, e accetto il fatto che tutto quello che m’infastidisce e che disprezzo sia lì, senza fare una piega”.
«Brava» mi lodò Blake, assestandomi una pacca sulla schiena. «Così mi piaci. Non è poi una catastrofe, come la fai sembrare tu.»
Irritata dalle sue parole, improvvisamente, sbottai: «Per te è facile dirlo, i tuoi amici non ti hanno tradito e non ti hanno spezzato il cuore!» Generalmente, con chiunque altro, non avrei reso l’idea dei miei sentimenti così esplicitamente; non era nel mio carattere. Tuttavia, con Blake sapevo di poterlo fare senza problemi. Lui comprendeva, e molto meglio di altre persone che mi stavano vicino per più ore al giorno.
«Non che ne abbia una catasta!» esclamò Blake, sdrammatizzando anche lui, ma con più successo di quello che ebbi io in precedenza. «E comunque capita. Se si è veri amici, ci si perdona, no?» tentò di convincermi.
Fino a quel punto non mi sarei mai piegata: mi aveva già convinto sul recarmi a scuola, e perdere una battaglia quel giorno era già sufficiente. «Se si è veri amici, non ci si dice le bugie, non ci si mette insieme a determinate persone. E poi, cosa che mi infastidisce molto, non si convincono gli amici ad andare in un posto contro la loro volontà» terminai la battuta enfatizzando sull’ultima frase, in modo che lui potesse capire chiaramente a chi stavo alludendo.
Lui, in tutta risposta, sollevò le sopracciglia. «Oh, scusa se mi sto preoccupando per te» ironizzò con pacatezza. «Dico solo che per prima cosa, probabilmente Lydia non ti ha detto nulla perché non sapeva come fare. Comprendila, non è molto facile andare a dire alla propria migliore amica che ci si è innamorati del ragazzo al quale era interessata anc…»
«Lei non doveva farlo!» lo interruppi inavvertitamente, incollerita, nessuno dei due che si stava rendendo conto del mio tono di voce troppo alto. «Non doveva mettersi insieme a Douglas! Non doveva!»
«E perché?» chiese lui, con uno sguardo che era un misto tra curiosità e divertimento nel farmi capire che ero io quella che aveva torto. «Insomma, Douglas era single. Tu non ci stavi insieme. Lui, inoltre, non ti aveva mai detto in nessuna occasione di essere interessato a te…»
Quella fu una freccia dritta al cuore. Un altro che mi diceva solo adesso che con quel ragazzo non avrei avuto speranze, una volta disincantata e con il cuore in frantumi. «La smetti?! Potevi dirmelo prima, che Douglas non mi considerava, così almeno mi sarei risparmiata un sacco di sofferenze inutili!» strillai, in preda all’ira, avvampando violentemente in viso e con il sangue che pulsava nel cervello.
«Io te l’ho detto» replicò Blake, con calma. «E mi sentivi anche, quando lo facevo. Sentivi, ma non ascoltavi.»
«Ma…!»
Si udì d’un tratto un bussare frenetico alla porta. «Cosa sta succedendo lì dentro?!» chiese una voce agitata, giovane e femminile.
Senza accorgercene, avevamo svegliato tutta la casa. O meglio, io avevo svegliato tutta la casa, con i miei gridi e i miei strilli iracondi. Feci un cenno a Blake, che andò ad aprire la porta, girando la chiave nella toppa. Indietreggiò non appena Gwendolyn e i miei genitori irruppero nella stanza, vestiti per andare a dormire, mio padre che sbadigliava e mia madre con i capelli arruffati.
«Keira, diamine, la smetti di ur…» la mamma s’interruppe non appena scorse la figura di Blake che le aveva aperto la porta, e rimase meravigliata dalla sua presenza. «E tu?» fece, perplessa.
Fui io a porre fine a quella situazione imbarazzante: «L’ho fatto entrare io» dissi, con voce acida per la discussione interrotta pochi istanti prima. «E se ne stava giusto andando» proseguii, non senza ancora una punta di astio nella voce.
Vidi Blake annuire, mentre si scusava con un sorriso imbarazzato sulle labbra, e io lo accompagnai al piano di sotto, verso la porta. Era tranquillo, sapeva che mi arrabbiavo con facilità, certe volte, e sapeva anche che il giorno successivo me ne sarei a malapena ricordata. Ma benché fosse così, in quel momento ero fuori di me.
Stava per uscire, quando lo sentii dire: «Ci vediamo domani, allora. A scuola» specificò, provocando la mia ulteriore irritazione.
«Fuori» risposi, ferma e decisa, cercando di mantenere un contegno, ma accompagnando la mia espressione con un sospiro, che lui decifrò come la mia rassegnazione, la mia resa. Sì, avevo perso.
Non era ancora il giorno dopo, e io già avvertivo una folle ansia che mi schiacciava il petto in una morsa soffocante.
«Ho sentito bene?» squittì Gwen, precipitandosi giù per le scale, non appena ebbi richiuso la porta principale. «Hai detto che domani andrai a scuola?» Anche lei sorrideva, forse più per il sollievo del fatto che non avrei più urtato i suoi nervi e quelli di mia madre, più che per il fatto che finalmente mi fossi decisa a uscire ad affrontare il mondo esterno.
«Fatti gli affari tuoi» la liquidai, sorpassandola e urtandole la spalla. Nel momento stesso in cui mi chiusi nuovamente a chiave nella mia stanza, crollai in ginocchio al suolo, traendo respiri profondi e pregando che la mia ansia insensata che incombeva su di me se ne andasse, anzi che intensificarsi ad ogni acquisto di ossigeno nei polmoni.
Avevo perso, a quanto pareva. Contro mamma e papà. Tuttavia, qualche giorno dopo avrei reputato questo episodio come un nonnulla rispetto alle sconfitte che avrei ricevuto successivamente. Avrei rimpianto tutto ciò che in quel momento detestavo e mi stava sui nervi.
Avrei pregato gli dei di tutte le religioni, pur di poter essere ancora accasciata sul pavimento di casa mia come  lo ero ora.



I deliri pensieri di Camelia:
mi prendo la responsabilità per non aver fatto ancora comparire il mio amore Logan, terzo vertice di questo triangolo che si verrà a formare ;P spero non vi sembri troppo banale, detta così. Cosa accadrà nel prossimo capitolo? Sopravviverà Keira? xD per scoprirlo, attendete Camelia con il terzo capitolo, che prima o poi presto arriverà. Forse.
Ci tengo a ringraziare tutti coloro che mi hanno finora letta e recensita, davvero, non mi aspettavo un successo così grande, o almeno non subito al primo capitolo! Sono davvero contenta :)
In particolare, ringrazio anche
mistress_chocolate
ThePoisonofPrimula
VeronicaL
Coloro che mi sopportano perché Camelia, come ben si dovrebbe sapere di lei, sa solamente parlare di scrittura (e va be'... qualche volta parlo anche di altro... per esempio, di gatti e di anime giapponesi!! xD) un bacione, alla prossima!!
Cam

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Capitolo 3
*** Mera curiosità ***




[
Capitolo Tre]
[Mera curiosità]


 

[L'uomo più saggio non è colui che sa,
ma chi sa di non sapere.
]
[
Socrate]

 



 

Una volta dentro, non era poi così orribile, dovetti osservare: il brusio di voci che si soffocavano a vicenda, l’una addosso all’altra, e il rumore irregolare di passi sordi che faceva da sfondo a quella scena quotidiana, mi permettevano di confondermi nella massa e di non essere notata.
A differenza di tutti gli altri, io muovevo passi felpati, e avevo un’espressione del tutto indifferente, quasi avessi timore di attirare l’attenzione. Non è che avevo paura: semplicemente non volevo.
Alla prima ora avevo biologia; dopo così tanti giorni di assenza, l’orario delle mie lezioni già incominciava a sfumarsi perdendo di nitidezza nella mia mente – non che me ne fosse mai importato troppo. Solo che l’abitudine faceva la sua parte.
Prima di entrare in aula, esalai un respiro profondo.
Attraversata la soglia, mi lasciai inondare dalla forte sensazione di familiarità nel vedere quelle file di banchi ancora mezzi vuoti stendersi per tutto il piano della classe, una lavagna nero carbone che si stagliava sulla parete dietro la cattedra.
Scivolai incurante sulla prima sedia libera che mi capitò a tiro nelle file in fondo. Meno risultavo evidente agli occhi degli altri, meglio era.
Blake ed io non avevamo molte lezioni in comune, e biologia non era una di quelle poche, ragione in più per sentirmi ancora un po’ a disagio. Ora che non avevo più Lydia, credo che lui fosse l’unica persona su cui potessi fare davvero affidamento. La sua sola presenza bastava per darmi una sicurezza che effettivamente, all’interno di un’aula e durante la lezione, a poco mi serviva. Tuttavia, l’aura che emanava il suo essere lì contribuiva a farmi sentire meglio.
Decisi che a fine lezione l’avrei cercato nei corridoi, ma anche se non avessi preso già allora quella scelta, credo mi sarebbe venuto comunque automatico farlo, al trillo della campanella.
Cercai di rilassarmi, nei minuti che seguirono: il professor Terrence, giunto poco più tardi, quasi non aveva notato la mia ricomparsa improvvisa dopo tutto quel tempo che avevo passato in reclusione, motivo ulteriore per confidare nella mia assoluta – e gradita – anonimità.
Solo dopo un po’ di tempo udii i primi segnali della mia riapparizione: «Oh, guarda, non ti avevo vista» commentò, con voce monocorde, Sophia Sebert, posizionatasi nel banco alla mia destra. Aveva le sopracciglia sollevate in una lieve sorpresa, ma non pareva dare molto peso al mio ritorno a scuola. Probabilmente era più una frase buttata lì per la circostanza. «Bentornata, Towers» concluse, in un calando di voce.
Io incurvai leggermente le labbra all’insù, increspandole in un accenno di sorriso. Un altro dettame della situazione.
Capii che né lei né altri tre studenti che solo a quella frase drizzarono il capo avevano ascoltato l’appello mentre il professor Terrence lo eseguiva. «Ti eri ritirata in meditazione?» fece Logan Rush, voltandosi dal banco subito dinanzi al mio. Mi sentii indispettita dal suo sorrisetto e dalla sua battuta che volevano essere spiritosi.
«Più o meno» risposi, senza la minima voglia di spiegare a chicchessia che diamine avevo fatto in quasi tre settimane, anche se si trattava prevalentemente di leggere, guardare film e giocare a dama con Blake e dormire. A molti non sarebbe importato nulla, ai pochi rimanenti avrebbe fatto piacere saperlo per poter spettegolare su qualcosa che mi riguardasse, dunque, in entrambi i casi, era meglio se stavo in silenzio.
L’occhiata che mi lanciò l’insegnante in quell’istante, un’occhiata di rimprovero e ammonimento, bastò per richiamare l’attenzione mia e di tutti quelli che l’avevano distolta dalla lezione. Non avendo portato il libro di testo, da casa, tirai fuori un quaderno, scribacchiando qualche parola a caso pronunciata dal professore e, quando proprio avvertivo una forte sonnolenza incombere su di me, mi mettevo a scarabocchiare disegnini senza senso.
Era la ripresa di una piatta routine.
 
Temporeggiai, una volta fuori da scuola. Stavo aspettando Blake per poter prendere l’autobus insieme, tornando a casa, ma non mi ero accorta che lui in realtà era già più avanti di me, ed egli stesso era inoltre convinto che io fossi già alla fermata.
Il mio rallentare, così, mi fece perdere l’autobus, facendomi arrivare al luogo di raccolta dei passeggeri pochi secondi dopo che il mezzo pubblico era partito. In questo modo ero sola, senza Blake, appiedata. Con Gwen ancora che studiava e mio padre al lavoro, mi rimaneva solo da chiamare la mamma, sperando che potesse venirmi a prendere.
Tra un sospiro e l’altro, mi sedetti su un freddo muretto di pietra che dava su una delle vie che portava in centro città. Estrassi il cellulare dallo zaino e composi il numero. Stavo per premere il tasto di chiamata, quando realizzai di non aver per niente voglia di avere a che fare con quella donna. Misi via, perciò, il telefono.
Scrutai il paesaggio intorno a me: se mi muovevo a passo veloce, in una trentina di minuti potevo essere a casa. Camminare non mi dispiaceva, anzi, era molto più piacevole di cinque minuti in macchina con mia madre, che ce l’aveva ancora con me. Mi avviai, impassibile agli altri studenti che, come me, si dirigevano a loro volta verso casa loro.
«Keira!» udii uno strillo acuto, che si propagava per tutta la strada da lontano, fino a raggiungere le mie orecchie.
Mi voltai, e ciò che ne ricavai fu che il mio cuore sobbalzò in un misto tra timore e sorpresa: prima che potessi realizzare chi avevo davanti, Lydia mi era già a pochi centimetri dal viso. Aveva gli occhi languidi ridotti a due fessure tra gli zigomi e le sopracciglia, ma riuscivo comunque a scorgerne le iridi chiare. Le guance le si erano arrossate, e stava annaspando, probabilmente per la corsa che aveva fatto per raggiungermi.
Io mi discostai, indietreggiando di un passo, con il viso inalterato. Non dissi niente, le mie braccia rimasero inermi lungo i fianchi, le labbra socchiuse in maniera enigmatica. Si aspettava che io dicessi qualcosa, oppure no?
«Keira, per favore, devo parlare con te!» esclamò, tra un riacquisto di fiato e l’altro. Mi appoggiò le mani sulle spalle, per costringermi ad avvicinarmi, ma così facendo provocò solo un mio strattone violento e un ulteriore indietreggiamento.
Allora mi voltai, sapendo che lei mi sarebbe venuta dietro come un’ombra. Io mi arrestai di colpo, dunque, e dissi, con voce ferma: «Smettila di seguirmi.»
«No!» sbottò lei, afferrandomi e costringendomi a girarmi per guardarla negli occhi. «Keira, mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace!» ripeteva, scuotendo la testa. «Non volevo dirti una bugia! Non volevo innamorarmi di Doug! Ma è successo… se tu fossi nella mia stessa situazione, capiresti!»
«Se io fossi nella tua stessa situazione, ora non verrei da te a strisciare, ma piuttosto impiegherei il mio tempo in qualcosa che abbia almeno una minima utilità» la interruppi, acuendo il mio tono di voce di un’ottava e iniziando a perdere la pazienza.
«Ma io…!» Lydia non fece in tempo a dire altro, che una mano si posò sulla sua spalla.
Non credevo di poter vedere qualcosa di più disarmonico di un abito rosso abbinato a una borsetta blu; invece c’era: Lydia insieme a Doug. Costui era appena arrivato dietro di lei, cercando di farla calmare. In seguito, vedendo la mia faccia irritata e sull’orlo del peggioramento drastico, arrivò anche un amico del ragazzo che frequentava con me, tra l’altro, alcune lezioni, Logan Rush, lo stesso della battutina di quella mattina. Quest’ultimo si posizionò inframmezzando lo spazio che c’era tra me e la mia interlocutrice. Me lo ritrovai davanti a fissarmi intensamente negli occhi, come per chiedere che cos’avessi intenzione di fare alla povera ragazza.
Ma insomma, lì se c’era qualcuna che poteva picchiare l’altra, era Lydia, non di certo io, che ero piccola e minuta, non sfioravo nemmeno il metro e sessanta e non di rado la gente diceva che una folata di vento avrebbe potuto portarmi via.
«Ehi, mocciosetta, non importunare la mia ragazza, intesi?» disse Douglas, con un tono detestabile e arrogante.
Corrugai la fronte, accigliata. «Per prima cosa, la mocciosetta qui» dissi, indicandomi «ha la tua stessa età. In secondo luogo, era lei che stava importunando me» e, a questo punto, puntai il dito contro la mia migliore amica dei tempi andati.
Feci per riavviarmi dopo una scrollata di spalle, ma sapevo che non sarebbe stato così semplice. «Ehi, ti vuoi fermare quando uno ti parla?» fece di nuovo Doug, stavolta ancora più aggressivo, con una Lydia silenziosa e remissiva e un Logan incapace di comprendere cosa dovesse fare.
«Io me ne sto solo tornando a casa, quindi perché non facciamo finta che non sia accaduto nulla e amici come prima?» dissi poi io, tentando di controllare i miei nervi.
«Allora magari evita di fare la sua stessa strada, che cosa ne dici?» la sua non suonava come un’offerta, ma piuttosto come una minaccia.
Trassi un profondo respiro, al limite della sopportazione, e partii a spiegare: «Ho perso l’autobus, non posso tornare a casa a meno che io non vada a piedi, e questa è la strada più corta. Sono stata esauriente?» domandai – retoricamente – con palese astio.
Seguì un secondo di silenzio, mentre tutti i presenti metabolizzavano l’informazione e la elaboravano, pensando a una soluzione. Io non pensavo proprio niente, perché avevo tutte le intenzioni di ripartire e tornarmene a casa, non m’importava se quelli volevano trattenermi.
«Ascoltami» partì nuovamente Douglas «io non ti permet…»
«Oh, ma guarda!» disse poi Logan, esordendo nella conversazione «C’è la mia auto parcheggiata proprio lì!» Indicò, con finta sorpresa di vedere la propria vettura, una macchina nera poco distante. «Che ne dite se porto io a casa la ragazza e non se ne parla più?» chiese infine, provato.
«Io non ho finito! Non sopporto di vedere questa qui che dopo aver fatto soffrire Lydia viene anche ad importunarla!» intervenne Doug, digrignando i denti.
Stavo per aprire bocca, ma malgrado ciò il fiato mi fu mozzato per lo stupore quando percepii il contatto della mano di Logan Rush con il mio polso. Per porre fine a quell’insopportabile diatriba, mi stava adesso portando via, trascinandomi al parcheggio. Le sue dita mi stringevano salde, ma allo stesso tempo quasi attente a non farmi male. Forse davo davvero l’impressione della ragazza deboluccia.
Una volta salita in auto, controvoglia ma sotto lo sguardo ammonitore di Logan, potevo ancora vedere i due fidanzati che borbottavano qualcosa tra di loro. Iniziai a pensare cosa poteva aver raccontato lei a lui, di me, della nostra vecchia amicizia, di come il nostro rapporto si era bruscamente interrotto, e di come Doug l’avesse interpretato. Era tremendamente difficile immaginare, eppure ci stavo provando con tutte le mie forze.
«Non abiti lontano, spero» mi disse poi Logan, troncando il mio fluire di pensieri. La frase, così com’era, poteva sembrare seccata e poco carina, come se lui fosse scocciato dal fatto che ora si fosse preso l’impegno di riaccompagnarmi; tuttavia nel suo tono c’era una venatura di gentilezza che mi impedì di pensarla così. Lo apprezzai più di quel mattino, quando aveva cercato di fare dell’umorismo con quella sua uscita che non faceva per niente ridere.
Scossi la testa. «Qualche minuto appena. Tu segui la strada principale, poi ti dico io dove devi andare.»
Non avevo poi molta difficoltà a parlare con le persone come molti pensavano, se era strettamente necessario. Ciò confutava del tutto la teoria della sociofobia che mi aveva affibbiato qualche professore non molto tempo prima, e anche qualche conoscente poco informato dei miei genitori.
Era una delle poche volte in cui avevo parlato con lui finora, constatai. E comunque, quando si trattava di una persona sola e non di un gruppo, piccolo o grande che fosse, le mie difficoltà a rapportarmi diminuivano in maniera esponenziale.
Partimmo con il rumore del motore che faceva di sottofondo al viaggio. Accavallai le gambe sotto il cruscotto e incrociai le braccia, dopo essermi allacciata la cintura. Iniziai a guardare fuori dal finestrino, così forse Logan avrebbe capito che non possedevo l’attitudine alla conversazione e che in quel momento preferivo di gran lunga ammirare il paesaggio. Dal riflesso del vetro, incominciai a studiare i suoi lineamenti che non avevo avuto il tempo di osservare approfonditamente in tutti quegli anni passati nella stessa scuola: folti capelli castani che contornavano il suo viso dall’espressione tranquilla, le labbra piene e gli occhi color nocciola fissi sulla strada. Con lo sguardi scorsi poi sul profilo del suo naso, che, proporzionato rispetto al resto della faccia, continuava perfettamente dritto. Allora mi voltai lievemente verso di lui e passai poi, sempre scorrendo ma stavolta con la coda dell’occhio, alle sue braccia piegate in avanti verso il volante, e alle mani che lo reggevano solidamente, ma fu lì che la sua voce mi interruppe di nuovo: «Ti dispiace se accendo lo stereo?» mi chiese.
«No, no, fa’ pure.» Mi faceva piacere il fatto che non fosse un tipo loquace come me. Preferiva la musica piuttosto che cercare di attaccare discorso. Ciò era apprezzabile, almeno da me.
Lo vidi premere un tasto che fece accendere il piccolo stereo dell’auto. Automaticamente, partì una canzone rock che conoscevo. Senza che lo volessi, mi spuntò un sorriso, mentre con le dita iniziai a tenere il ritmo sulle ginocchia. «Hai gusto» dissi, ed era una delle prime volte che dicevo una di quelle frasi che solitamente si dicono per avere un appiglio per cominciare un discorso.
Logan sorrise, stupito, ma non distolse lo sguardo dalla strada per guardarmi. «Anche tu allora, se ascolti come me questa musica.»
Non dissi altro. In uno dei romanzi che tanto amavo leggere, o in un telefilm, quella poteva essere la scusa buona per intraprendere un lungo discorso, approfittando di quella circostanza che si era venuta a creare. Ma così non era, perché io non ero né dentro a un romanzo, tantomeno ero un personaggio di una soap o di una commedia. Persino Logan sapeva che non ero loquace.
Ad un certo punto, gli indicai che doveva svoltare a destra. Continuai a dargli diverse indicazioni, in maniera distaccata, la mia voce che si udiva appena sopra la chitarra elettrica e la batteria i cui suoni erano emessi dallo stereo. Lui, prontamente e senza dare segni di esitazione, eseguiva, e stava in silenzio. Ogni tanto annuiva, per farmi vedere che aveva capito.
Eravamo quasi a destinazione, quando parlò ancora: «Fossi in te» esordì, con tono di avvertimento ma non di rimprovero «eviterei di importunare Douglas e la sua nuova ragazza.»
Da come lo disse, non suonò una minaccia come quella che mi aveva fatto precedentemente il ragazzo di cui ero innamorata tempo prima, anzi, Logan sembrava mantenersi né dalla parte del suo amico né dalla mia, ma perfettamente in mezzo. «È Lydia che è venuta da me, a cercarmi» spiegai poi, con tono calmo, sebbene un moto di rabbia stesse tornando ad assalirmi fino alle membra.
«Ah, non l’avevo capito» rispose lui. «Da come parlava Doug, pensavo che fossi stata tu.»
In quel momento avrei voluto tirare fuori i peggiori insulti al quoziente intellettivo di quel dannato energumeno che mi aveva rovinato l’esistenza, ma essendo io alla destra di un suo amico decisi di impiegare qualche secondo per moderare le parole. «Io non parlo più con Lydia da un po’» proseguii «e lei ci sta male. Probabilmente è stato un fraintendimento.»
Lo vidi inarcare un sopracciglio, perplesso. «Non lo so, non credo che lui sappia queste cose. È un po’ impulsivo, deve aver reagito come gli ha detto il cervello in quel momento.»
«Abito qui» troncai poi la conversazione.
Mancavano ancora un paio di centinaia di metri a casa mia, in realtà, ma avrei fatto di tutto pur di terminare seduta stante con quell’argomento.
Lui incominciò ad accostare. «Sicura? Guarda che posso andare ancora avanti, non c’è problema.»
Scossi la testa con fermezza. «No, va benissimo qui. Grazie.» A tutta velocità smontai dal veicolo e, quasi senza voltarmi, lo salutai con un cenno della mano. Una maniera sbrigativa per liberarmi di una questione scomoda.
«Ciao» udii lui, attraverso il finestrino. «A domani.»
Feci un ultimo ammicco col capo, prima di voltargli le spalle e sentire il motore che intensificava il suo rumore, per poi disperdersi gradualmente mentre l’automobile si allontanava, fino a scomparire tutta d’un colpo una volta svoltata una curva. Quando non udii più la vettura, seppi che Logan non c’era più, e che ora ero veramente sola, sola con la mia mente e le mie riflessioni.
Duecento metri di strada non erano tanti, ma erano abbastanza per poter pensare un po’.
Così mi tornarono in mente vecchi ricordi, talmente belli che, malgrado tutto, erano ancora freschi, a dispetto del tempo che era passato. Iniziai a pensare ancora una volta, come facevo non troppo raramente, a quando io e Lydia ci eravamo conosciute, ai primi tempi della nostra amicizia acerba che aveva cominciato a crescere lentamente, soprattutto a causa della mia introversione, e di come poi sia sfociata in qualcosa di intimo e irripetibile.
Ricordai, poi, quando mi ero resa conto che stava diventando importante, quando avevo preso a parlare di lei con Blake ininterrottamente. Ed era stato proprio lui a farmelo notare: «Keira, vedo che tu e questa Lydia siete diventate molto amiche.» Non so se l’avesse detto con un tono di gelosia nei miei confronti, o se fosse davvero felice per me. Tuttavia, da lì avevo nutrito i primi dubbi. Difficilmente mi avvicinavo a qualcuno, e ancor più difficilmente succedeva il contrario, cioè che fosse qualcuno a fare il primo passo verso di me.
Lydia però era diversa: io l’ammiravo e pareva che lei potesse fare tutto, sfoggiando quel suo brillante sorriso e quel suo viso ingenuo, quasi da bambina. Mi domandavo che cosa ci potesse fare lei, con una come me. Finché la nostra amicizia non si era consolidata, per me non era stato facile fidarmi e accettare il fatto che sì, lei voleva la mia compagnia, la compagnia della solitaria ed introversa Keira Towers quasi senza amici, e senza la minima voglia di passare i sabato sera in giro per discoteche.
Le mie riflessioni si arrestarono di colpo, quando mi accorsi che le mie gambe mi avevano portata automaticamente davanti al portone di casa. Mamma si sarebbe chiesta perché avessi fatto così tardi, ma sapevo che qualche parolina improvvisata e buttata lì le sarebbe stata una spiegazione esaustiva.
 
La mia ombra si proiettava sulla parete.
Piccole stille di pioggia s’infrangevano con uno schiocco sul vetro della finestra, scivolando lungo la superficie, talvolta fondendosi insieme ad altre compagne.
Quella sera la luna sembrava risplendere di una luce innaturale, non pallida come ero abituata a vederla.
Mi accorgevo di tutti questi dettagli, mentre ero seduta sul pavimento freddo della mia stanza, un libro in grembo. Era un libro scolastico, per questo ero così distratta.
Cercai di captare ogni rumore che si diffondeva in camera mia. Qualche suono ovattato proveniente dal piano di sotto, ma nulla di più. Per il resto solamente il mio svogliato girare delle pagine, e il mio sospirare per la noia che, come una nuvola nera e che promette pioggia su un prato fiorito, incombeva su di me.
Blake arrivò che avevo già messo via il volume, senza speranza. Stavolta era entrato in casa sotto lo sguardo dei miei, sia in ricordo di ciò che era accaduto la sera prima, sia perché stavolta non c’era nessun motivo di fare le cose di nascosto.
Mi si riempì il cuore di gioia non appena lo vidi varcare la soglia. Ad ogni modo, cercai di non darlo a vedere, fingendomi scocciata del fatto che mi fossi fatta convincere da lui a tornare a scuola, quel giorno.
Immediatamente e senza aspettare, gli raccontai ciò che era accaduto con Lydia fuori da scuola, e di come Logan Rush avesse contribuito alla mia salvezza in una situazione senza via d’uscita. Lui ascoltò rapito ogni parola, e attese che avessi concluso prima di dire la sua opinione: «Secondo me avresti dovuto parlarle un po’ più con calma. Se l’avessi fatto, Douglas non avrebbe pensato che avessi importunato la sua ragazza e avreste potuto chiarire facilmente.»
Ruotai gli occhi, visibilmente seccata dalla sua affermazione. «A questo ci ero già arrivata anch’io. Peccato che io volevo solo che mi lasciasse in pace, nient’altro.»
Lo vidi scuotere il capo. Io mi morsi un labbro. Ero stufa del fatto che, ultimamente, le uniche cose di cui parlassimo fossero la mia reclusione e la mia ex migliore amica. In quei momenti non riuscivo a capacitarmi di quanto andassimo effettivamente d’accordo quando non discutevamo di quello. Alla fine gli proposi di smetterla, entrambi. Continuare ci avrebbe portati solo ad una maggiore tensione. E quella era l’ultima cosa che volevo.
Sì, Blake era l’unica persona con cui potevo parlare veramente di tutto; ma non volevo che parlare di un argomento che dava fastidio a me in primis, anche solo a pensarci, distruggesse il nostro rapporto. Se dovevamo essere in totale disaccordo per poi terminare con la mia isteria, allora era meglio se facevamo altro. «Spero che tu abbia portato un film» gli chiesi, col sorriso.
Blake mi scoccò un’occhiata d’intesa: i suoi occhi cerulei brillarono di una luce diversa, per un secondo. Riuscì ad intendermi subito, e acconsentì.
Stazionati sul pavimento come tutte le volte, io e lui, completamente soli e accompagnati solo dalla tenebrosa bellezza dell’oscurità che ci cingeva: tutto ciò che volevo era questo – insieme a un lettore DVD portatile e ad un sacchetto di popcorn di dimensioni spropositate. Mi sarebbe bastato per sopravvivere un’altra sera.
«Non so neanche che film ho preso» ammise Blake. «Sono uscito di casa afferrandone uno a caso. Ci affidiamo alla sorte?» mi domandò poi, mentre inseriva il DVD nel lettore.
Non aspettò di vedermi annuire prima di farlo partire. Lo schermo nero s’illuminò, irradiando un velo soffuso e bianco per tutta la stanza. Seguì una colonna sonora composta di violini e un pianoforte, e dal titolo che occupò l’intera schermata non faticammo a capire che Blake aveva scelto casualmente uno dei pochi film leziosi e romantici presenti nella sua collezione.
Non andavo matta per quel genere di film: erano svenevoli, troppo sdolcinati, e non c’era neanche una sparatoria, un combattimento per la sopravvivenza, nessuna suspense. Ma ero pur sempre una diciassettenne anche io. Gli ormoni facevano la loro parte. Blake, invece, si limitò ad una smorfia. «Mio Dio, tra tutti i film che ho a casa, proprio questo…»
Immediatamente si offrì per andare a prenderne un altro, e destinare quello che attualmente si stava svolgendo sotto i nostri occhi in un angolo remoto e solitario del mondo dal quale non sarebbe mai stato ritrovato, eppure io gli dissi di fermarsi. «Eh no, hai detto che ci affidiamo alla sorte, quindi adesso lo guardiamo.»
Con uno sbuffo, alla fine approvò la mia decisione: avevamo già perso sin troppo tempo. Dopo avermi raccomandato di tenere i fazzoletti a portata di mano, e dopo che io lo ebbi rassicurato del fatto che non mi commuovevo per film del genere, iniziammo a goderci la visione.
Per me era la prima volta, e sì, era anche molto strano, guardare un film romantico con Blake. Era l’unico ragazzo che conoscevo bene, ed eravamo amici da anni. Fu quasi inevitabile che, in certe scene, pensassi a lui, mentre mi immedesimavo nella protagonista – pensavo anche a Douglas, ma si capisce bene che era meglio evitare. Quest’ultima non aveva nulla in comune con me, se non il fatto di essere donna. Ma come donna, si sogna l’amore, quasi sempre. Io non facevo eccezione. Nonostante spesso fossi abbastanza apatica, tranne quando mi arrabbiavo, Douglas era l’esempio lampante di come anch’io, come tutte le altre mie coetanee, inseguissi i medesimi sogni che caratterizzano noi piccole e ingenue adolescenti, che ci crediamo sempre abbastanza mature per affrontare ogni genere di situazione, ma che poi ritorniamo stupide e facilmente ingannabili non appena doniamo il nostro cuore a qualcuno.
Quando la mia ragione parlava, tutto il resto taceva, e io potevo ascoltarla e nulla si opponeva.
Quando era il cuore a parlare, le sue urla sovrastavano quelle della mente, che nonostante rimanesse lucida e perfettamente consapevole, alla fine non vinceva mai. Sapevo di non essere razionale, eppure mi andava bene lo stesso.
Mi arrendevo all’amore, sapendo che sarei stata ingannata. E non sapevo se sarei mai riuscita a contraddire questo mio comportamento, specialmente quando il mio cuore avrebbe ricominciato a battere per qualcuno.
E chi mi diceva che questo qualcuno non fosse troppo lontano, ma anzi, fosse più vicino di quello che pensavo? Potevo averci a che fare tutti i giorni, senza averlo mai conosciuto davvero. Potevo, invece, conoscerlo davvero, ma non conoscere veramente me stessa per comprendere che era lui che cercavo.
E allora come si fa, a conoscere se stessi?
«Penso che quella donna sia troppo credulona» mormorò Blake, facendomi capire appena la battuta pronunciata in quel momento nel film. «Guardala, lui le dice che non la lascerà mai, e lei ci crede.»
Io alzai le spalle bonariamente. «Magari è sincero.»
Lui si voltò verso di me. «Se fosse sincero, glielo dimostrerebbe, senza bisogno di dirglielo. Scommettiamo che tra cinque minuti è già con un’altra che la tradisce?»
«Scommettiamo di no, invece?»
Qualche secondo dopo stavamo ancora guardandoci negli occhi. Per me non c’era nulla di più gradevole; gli occhi di Blake erano di una bellezza e di uno splendore impareggiabili. Ma quello l’avevo sempre pensato, non era una fantasticheria romantica dovuta al film che stavamo guardando insieme.
O forse no?
Sapevo che questo dubbio era insignificante. Su quasi sette miliardi di persone a questo mondo, non c’erano possibilità che Blake fosse fatto per me. Però, c’era pur sempre la possibilità che il destino avesse deciso così per noi.
Questa domanda mi stuzzicava.
«Cosa c’è?» mi chiese poi lui, notando che lo stavo ancora osservando.
Mente e cuore a parte, spesso io mi facevo prendere anche dagli impulsi. Insomma, la mia ragione, certe volte, veniva deliberatamente ignorata. Quella era uno di quelle volte.
Diedi ascolto alla mia curiosità.
Mi bastò allungarmi di pochi centimetri prima che le mie labbra venissero a contatto con le sue, aderendo perfettamente, in un gesto repentino e inaspettato.
Non era la prima volta che baciavo qualcuno, ma quel bacio in particolare aveva un sapore… buono; così tanto che mi stupii. Con un flebile sospiro poi, entrambi e contemporaneamente, ci tirammo indietro.
Con Blake potevo permettermi tutte le confidenze che volevo, ma fino a che punto? Fu una domanda che non ebbi il tempo di pormi, perché ormai era accaduto. Fu un attimo. Un attimo che pensavo mi avrebbe dato delle risposte, che pensavo avremmo preso entrambi così, un po’ per scherzo, un po’ per curiosità. Quanto mi sbagliavo.
Possibile che la ricerca di certezze porti solamente altre domande?
Passiamo tutta la vita in cerca di risposte, quando potremmo vivere benissimo da consapevoli ignoranti ma senza soffrire per il fatto di non avere i responsi che cerchiamo.
Quando staccai le mie labbra rosee con uno schiocco appena udibile, strinsi gli occhi in due fessure, per poter mettere meglio a fuoco, al buio, l’espressione del mio amico. Il suo viso era del tutto impassibile. Ciò mi fece infuriare: volevo sapere che cosa stava pensando. Lo esigevo. «Quello che cos’era?» proferì solamente, con l’aria di qualcuno cui non ha fatto nessun effetto, ricevere un bacio inaspettato dalla propria migliore amica.
Mi bastò una scrollata di spalle per lavare via ogni senso di colpa. «Niente. Ero solo curiosa di sapere cosa si provava.»
Il mio chiarimento non sembrò abbastanza esauriente. Ormai ci eravamo dimenticati ambedue del film in corso. «Potevi chiedermelo!»
«Non avresti accettato. Avresti avuto paura di scoprire com’era.» Il mio tono era scherzoso, ma il pensiero che avevo in testa era serio.
In quell’istante ero fermamente convinta di una cosa: quello che avevo appena fatto, mi era servito solo per appurare che io e Blake eravamo solamente amici.
Lui era il mio migliore amico, e guarda caso era un maschio. “Non c’è nulla di male”, dicevo a me stessa.
«Che stupida» sussurrò Blake, in una maniera che non riuscii ad identificare. Ero stupida perché gli avevo giocato quello “scherzo”, o perché avevo appena infranto un tabù della nostra perenne amicizia? Un confine che, una volta varcato, fa conseguire qualcosa di irreversibile?
«Ehi, calma!» cercai di sdrammatizzare. «Tante volte le amiche femmine lo fanno scherzosamente tra di loro. È una specie di segno affettivo. Non c’è niente di male, non prendertela tanto. Il mio non è stato nemmeno di affetto, te l’ho detto: mera curiosità.»
«Io non sono una ragazza» mi fece notare Blake.
«Però sei mio amico, giusto?» pensai che tale asserzione avrebbe confermato la mia ragione. In fondo, era proprio così che credevo. Eravamo amici, e io avevo solamente reagito in un modo a causa della mia curiosità. Avevo voluto sentire le labbra di Blake, fredde e morbide. E allora?
«Oh, per fortuna. Pensavo ti fossi innamorata di me» disse poi, sincero e senza un briciolo di imbarazzo.
«Tu pensi sempre male.»
«Ah, perché tu al mio posto cos’avresti pensato?»
«La verità: uno scherzo, un gioco, una semplice e insignificante follia dettata dal momento. Chiamala come ti pare.»
«Un bacio ti sembra uno scherzo, o un gioco? O una follia insignificante
«Non era mica un bacio, quello.»
«E allora cos’era?»
A quel punto, esitai, incerta su come spiegare ciò che pensavo. Poi parlai: «Un bacio è qualcosa di romantico, il nostro potremmo definirlo solamente un contatto di labbra. Prenderla così è più semplice, no?»
«Come vuoi.»
Voltai il capo verso il piccolo schermo che ancora, luminoso, trasmetteva il film che avevamo inserito. Invano, visto che, insoddisfatta da come stavano procedendo le cose, continuai. «E comunque perché hai detto “Che fortuna”, prima di “Pensavo ti fossi innamorata di me”?» chiesi, vivace.
Blake si grattò distrattamente il capo. «Non credi che sarebbe strano sapere che lo sei? Insomma, non che tu abbia nulla che non vada, solo che…»
«Solo che sono troppo sfigata» terminai la frase per lui. Sapevo che in realtà non l’avrebbe mai pensato né tantomeno detto, eppure mi venne spontaneo perché immaginai che fosse la cosa che qualunque ragazzo avrebbe detto, se fosse stato nei suoi panni in quel momento.
«No. Assolutamente. È che tu sei Keira. Keira e basta. Capisci?»
No, non capivo. «In che senso sono Keira? Lo so anch’io chi sono.» O forse avevo perso me stessa da qualche parte…
Lui, non sapendo, come me poco prima, come spiegarsi, incespicò un attimo. «Credo che anche tu immagini me come Blake, Blake e basta. È strano, ma è così. Non riesco a immaginarmi la mia migliore amica come… insomma, sì, come la mia…»
«Oh, ora ho capito.»
«Bene.»
«Chiudiamo qui il discorso adesso, non è vero?»
«Non potrei essere più d’accordo.»
Apparentemente, non era accaduto nulla. Non avevo alcun dubbio, su questo. Ciononostante, ancora non mi ero accorta di quel meccanismo che, inconsciamente, avevo attivato: un meccanismo che, inarrestabile e silenzioso, come un gatto dal passo ovattato, s’insinuava nella mia mente pronto ad aggredire. Ma quella sera, per il tempo rimanente in cui Blake fu a casa mia, mi comportai in maniera assurdamente normale. Ero la solita Keira, come sempre, quando ero con Blake, senza vergogna, senza timore. Perché io, di me stessa, ero sempre convinta.
Non era successo nulla.
 
Di un trafiletto molto riassuntivo sul pensiero di Socrate*, ricordo una cosa in particolare: secondo il grande filosofo greco, siamo tutti ignoranti. Nessuno di noi sa veramente. C’è, poi, quella categoria di uomini, come appunto egli stesso, che “sa di non sapere” e quella categoria, invece, che pullula di persone fermamente convinte delle loro affermazioni. Questi ultimi non hanno possibilità di arrivare alla vera conoscenza.
Attraverso la loro falsa sapienza, coloro che in realtà non sanno percorrono le strade sbagliate. E non se ne rendono conto, perché accecati dalle loro persuasioni.



*: fidatevi, comunque, meglio Platone (parere personale) u.u



I deliri pensieri di Camelia:
Adesso, per vedere se siete delle brave lettrici che hanno davvero la pazienza di leggere tutti i miei papiri prolissi, non faccio alcun commento, anche perché sono curiosa di vedere le conclusioni a cui potete arrivare leggendo... cosa ne pensate? Siete contente della nuova comparsa in questo capitolo? Fatemi un cenno, mie care ^^ Jade è sempre stracontentissima dei vostri cari commenti <3 vi aspetto, un saluto calorosissimo dalla vostra
Cam
PS: ho quasi finito di scrivere le bozze del capitolo 7... poi mano a mano li revisiono tutti e li pubblico ;D non mi va che ci sia anche un solo capitolo con una virgola fuori posto. Perciò vi dico, se trovate qualche svista, segnalatemela! :D grazie!
PPS: scrivendo alcuni capitoli, un po' per informarvi sul passato di Keira e un po' perché pensavo che a voi lettrici avrebbe fatto piacere, ho incominciato ad inframmezzare, certe volte e inaspettatamente, il racconto di Keira con alcuni flashback di momenti passati con Lydia, di confidenze, o di bei momenti con Blake :) che ne dite, vi gusta l'idea o la metto da parte?

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Capitolo 4
*** Cambiamenti ***



[Capitolo Quattro]
[Cambiamenti]





Il patto era questo, e non tardai a farlo presente ai miei genitori: io tornavo a scuola, loro mi restituivano i libri. Non c’era molto da capire.
«Tra due settimane ne riparliamo» aveva detto mamma, con quel suo finto tono austero, scatenando però la mia ira funesta. Due settimane erano troppo: entro quel tempo le pagine avrebbero già perso il loro olezzo di stampa, che mi inebriava come il più costoso dei profumi quando le sfogliavo, in un magico fruscio di carta e di profumo.
«No, oggi stesso» avevo ribattuto, decisa a non cedere.
«Assolutamente no; una settimana, posso arrivare fino a questo compromesso.»
Compromessi. Non avevo mai creduto nelle vie di mezzo, il venirsi incontro a vicenda… specialmente quando si parlava di mia madre. Tuttavia, ero ben conscia di non poter fare altro. Era l’unico modo per rivedere i miei libri. Benché riluttante, alla fine avevo accettato l’offerta.
Mi aspettavo che da lì sarebbe stato tutto più agevole e che, tutto sommato, una settimana sarebbe passata in fretta. Ma, malgrado ciò, non dovetti attendere troppo, prima che arrivasse un’altra brutta notizia. Scoprii ben presto, di fatto, che i patti non sarebbero stati rispettati come volevo io.
Tornata da scuola, il secondo giorno, aprii la porta che introduceva mia stanza, e un velo di luce proveniente dal corridoio si proiettò all’interno dell’ambiente, diradando la coltre profonda e quasi palpabile di quel buio che tanto amavo. Quando poi, andando a tastoni con la mano, premetti sull’interruttore, rimasi non poco stranita nel rivedere tutti i miei libri perfettamente al loro posto. Shakespeare, Orwell, Jane Austen, Hemingway; erano tutti quanti presenti all’appello, sugli scaffali, per quanto a casaccio e non nell’ordine che io richiedevo.
Il cuore mi sobbalzò nel torace, e sembrò che mi potesse arrivare fino in gola. Che cos’era successo? Era fin troppo bello per essere vero, ma mi chiedevo insistentemente perché i miei libri fossero tornati al loro posto così in fretta; mi riusciva infatti difficile pensare in un atto di magnanimità dei miei familiari.
Poi il mio sguardo si posò sul resto della camera, ispezionandola centimetro per centimetro. Notai immediatamente che nell’ambiente regnava un ordine quasi irreale, assurdo. Semplice, perché quello non era ordine: non c’era più niente. Tutti i miei effetti personali, libri a parte, erano scomparsi. Potevo solamente vedere il mio lettore mp3 appoggiato sulla scrivania insieme alle custodie dei DVD che mi aveva prestato Blake, ma per il resto le mie cose si erano tutte dileguate.
Improvvisamente, un’ombra che proveniva dalle mie spalle arrivò, torreggiando sopra di me. Di scatto, mi voltai, e vidi mia madre a poca distanza che parlava al telefono. Immaginai quasi subito che l’argomento di discussione fossi io. Ma ciononostante, ancora non avevo capito né con chi stesse parlando, né perché in camera mia fossero ricomparsi i libri, benché tutto il resto della roba fosse sparito. In ogni caso, si diffuse in me, come gli arabeschi di fumo di una sigaretta si diffondono ineluttabilmente in una stanza, la consapevolezza che non ci sarebbe stato nulla di positivo per cui cercare di rimanere di buon umore, quel giorno.
 
Passò appena una settimana prima della partenza.
La mia partenza.
So bene che il mio broncio era perenne. Eppure, quel giorno, pareva essere ancora più evidente; capivo che la mia espressione burbera veniva sottolineata dalle valigie che tenevo strette in mano, per chi mi avesse visto in quel momento. Valigie che promettevano cambiamenti, che si portavano dietro pezzi di passato che avrei avuto con me solamente in maniera figurativa.
Varcai la soglia di quell’appartamento e subito poggiai i miei bagagli a terra, su un pavimento marmoreo con delle piastrelle beige dai motivi nodosi, motivi che si intrecciavano tra loro nei bordi, formando qualcosa che somigliava vagamente ad un agglomerato nodi celtici che scivolavano per la superficie mantenendosi ai margini.
La donna che avevo dinanzi, però, col petto all’infuori e dall’aria severa e indeteriorabile, mi ordinò di riprendere subito i miei bagagli e di non fare la scansafatiche. Io ubbidii, sebbene l’unica cosa che avrei desiderato in quel momento fosse tirarle un pugno in pieno viso. Forse così avrebbe smesso di fissarmi con astio, come se fossi una scapestrata.
«Regola numero uno» esordì poi zia Catherine. «Non permetto nemmeno un singolo giorno di assenza da scuola, a meno che tu non sia malata e stia per morire.»
Deglutii fortemente a quella frase, e rimasi in silenzio. Se l’avessi sentita in un film, mi avrebbe fatto ridere. Ma con quella, da ridere non c’era proprio niente.
Zia Catherine era la sorella di mia madre. Era sulla cinquantina – non avevo mai domandato quanti anni avesse e sono certa che la cara zia non me l’avrebbe mai detto – e aveva un modo di fare che era completamente l’opposto di quello della mia genitrice. Era sempre stata, quelle rare volte in cui l’avevo incontrata, estremamente severa, e adesso me ne stava dando la prova inconfutabile.
Era più sottile di mia madre, e infatti, guardandola, pensai che il tailleur nero che indossava le calzasse proprio bene. Era una donna in carriera, faceva l’avvocato ed era impegnata per la maggior parte della giornata. Notai subito le rughe, ben più profonde di quelle della mia mamma sebbene tra loro ci fossero pochi anni di differenza, che le solcavano il viso vicino agli occhi e alla bocca. I capelli erano ordinatamente raccolti sulla nuca, castani e lisci che contrastavano con la pelle lattea che avevo anche io.
«Regola numero due» proseguì la matrona, aggiustandosi gli occhiali dalla montatura pesante e a tartaruga sul naso «io sarò via per molte ore, durante la giornata, per questo esigo ordine e disciplina anche mentre non ci sono. Dunque, è severamente vietato portare gente in casa, amici o giovanotti malintenzionati che siano, sia in mia assenza che in mia presenza.»
Mi guardò, imponendo un cenno di assenso da parte mia. Dopo dieci secondi in cui l’ebbi guardata fisso senza dare alcuna risposta, m’ignorò deliberatamente e continuò con un sussurro che parlava chiaro. Un sussurro che diceva «Ti rimetterò in riga, ragazza, non preoccuparti.»
Avevo odiato i miei genitori per molto meno, ma non per questo: non era stata colpa loro. Sapendo di quello che stava succedendo sotto il mio tetto, infatti, zia Catherine si era subito proposta – meglio dire imposta – per ospitarmi per qualche mese nel suo vasto appartamento, così da evitare spese inutili di un eventuale psicologo che non avrei mai incontrato o punizioni che non mi avrebbero fatto imparare un bel nulla.
Riluttanti, ma alla fine convinti, sia i miei che Gwendolyn si erano trovati d’accordo sulla richiesta, che pareva più una decisione, della mia parente.
La zia abitava persino vicino alla mia scuola; dovevo ancora prendere l’autobus per arrivarci, ma la distanza si accorciava.
«Regola numero tre: in questa casa gli orari vanno sempre rispettati. Sveglia alle sette meno un quarto, non un minuto più tardi.» Prima, malgrado la maggior distanza da scuola, mi alzavo sempre non prima delle sette. «Si cena alle otto. Ti voglio vedere a letto non dopo le dieci. Intesi?»
Cosa avrei detto a Blake? Come avrei fatto a vederlo ancora, con questa zia che mi tartassava con le sue rigide regole?
«Mi stai ascoltando, signorina?»
«Sissignora… ehm, volevo dire, sì, zia Kate» mormorai in rassegnazione. Fui attraversata da un moto di odio che avevo provato per pochi esseri umani prima di allora. Potevo essere più tollerante persino nei confronti di Lydia e Douglas. Forse.
«Non ti azzardare mai più a chiamarmi con un diminutivo, signorina, detesto questo tipo di informalità» mi rimproverò in tono rigoroso.
“Oh, bene”, pensai, “sono appena entrata in questa casa e già comincio a fare errori uno dietro l’altro”. Pazienza, non credevo che avrei rivolto spesso la parola alla zia, non ci sarebbe dunque stato sovente bisogno di chiamarla nella giusta maniera.
«Regola numero quattro: qui, quello che sporchi, lo pulisci» mi ammonì sventolando l’indice in aria, disegnando dei cerchi per indicare l’ambiente. «Inoltre, non sognarti nemmeno di poterti strafogare di schifezze come facevi a casa tua. Con me non toccherai, anzi, non vedrai nemmeno con il binocolo cibo impacchettato, inscatolato, imbottigliato o surgelato, né tanto meno niente di fritto, di dubbia provenienza o con eccedente contenuto zuccherino.»
Praticamente dovevo morire di fame. Il messaggio mi sembrava ovvio.
Le valigie incominciavano a pesare per le mie braccia sottili. Mi sorpresi del fatto che fossero così grevi nonostante dentro non vi fosse alcun libro. Sì, perché i miei libri erano tornati nella mia stanza, ma io me ne ero dovuta andare, senza portarmi dietro alcun oggetto di svago.
«Regola numero cinque: quando sono a casa, voglio vederti studiare seriamente. Quando sarò sicura che la tua media scolastica si sarà rialzata almeno un minimo, allora potremo ricominciare a parlare di libri. Ma non di musica ed mp3. Ci siamo capite?»
Annuii con le lacrime che mi pungevano gli occhi, il capo chino. Ma non potevo farmi vedere piangere, ero troppo orgogliosa per questo. Mi domandavo, comunque, come avrebbe fatto la zia ad essere così presente e a controllarmi, sapendo che era così impegnata con il lavoro. Eppure, in qualche maniera, non faticavo a credere che vi sarebbe riuscita senza troppo sforzo.
«Ah, e non inventarti nemmeno scuse come “Rimango in biblioteca dopo la scuola” o cose simili, perché tanto so che anche se ci andassi leggeresti di tutto tranne quello che dovresti studiare. Devi essere a casa all’ora che decido io.»
Anche mentre mi scortava nella mia nuova stanza, vuota e senza segni che qualcuno vi fosse stato prima di me, desolata e senza colore, la zia continuava ad ammucchiare regole su regole, che dubitavo mi sarei ricordata tanto facilmente. Le pareti desolate non avevano visto la compagnia di mobilia da anni. Al centro, potevo vedere l’intelaiatura di un letto che sorreggeva il materasso nudo, dello stesso colore pallido e spento del resto della camera.
Prima che uscisse e mi lasciasse sola, mi disse: «Alle cinque, cioè tra mezz’ora, la signora Rush al piano di sopra ci ha cortesemente invitate per un tè. Siamo molto amiche e le piacerebbe conoscerti. Ovviamente verrai, e sarai anche educata. Siamo d’accordo?»
Per lei era tutto un impormi doveri e doveri e chiedermi se andava bene, dicendomi implicitamente che non avevo scelta che obbedire. Ancora una volta, annuii debolmente; mi sentivo come una servetta che altro non poteva fare se non quello. Dire di sì senza obiezioni da muovere.
Quando la perfida zia richiuse la porta alle sue spalle, crollai sul letto dallo spoglio materasso che dovevo ricoprire con le mie lenzuola, e lo bagnai di lacrime. Singhiozzai sommessamente per un quarto d’ora abbondante, poi mi decisi ad asciugarmi gli occhi e a cominciare a rendere mia quella stanza, malgrado sapessi che non si sarebbe mai animata di quella personalità presente nella mia vecchia.
Poco dopo stavo già tirando le labbra in un sorriso sghembo e forzato, mentre salivo le scale verso il piano di sopra insieme alla zia. Quando non si girava per guardare se ero ancora lì a seguirla, digrignavo i denti e, mentalmente, le lanciavo una maledizione dietro l’altra. Ero appena arrivata e già non sopportavo più la convivenza con quella donna. Bramavo una qualche via di fuga, o un’alternativa che non mi avrebbe costretta a vivere sotto lo stesso tetto di quella tiranna. Ma se anche mi fosse venuto in mente di scappare, magari non tornando a casa dopo la scuola, cosa avrei fatto dopo? Potevo rifugiarmi da Blake, ma era una copertura che non sarebbe durata troppo: i suoi genitori non potevano non riconsegnarmi ai miei familiari. Non potevo neanche chiedere aiuto a Gwendolyn, poiché era d’accordo riguardo la mia prigionia.
Sì, prigionia, ma era completamente diversa da quella che intendevo io fino a pochi giorni prima.
Avevo ricominciato ad andare a scuola da più di una settimana, ma ancora non avevo raccontato nulla del mio trasferimento a Blake, neppure quando ero ancora a casa e lui veniva a trovarmi. Come avrei fatto a dirgli che da un momento all’altro non potevamo più vederci all’infuori delle mura scolastiche? E con chi mi sarei confidata d’ora in poi, io?
 
La signora Rush non era poi così male: una volta arrivate, ci accolse molto calorosamente. Era una donnina all’incirca della stessa età della zia, tarchiata e con indosso un largo maglione rosa classico che le conferiva un’aria pacata e cortese. Era molto più affabile della mia detentrice, poco ma sicuro, ed ebbi meno difficoltà a comportarmi educatamente sapendo che non ero in compagnia di un’altra matrona come Catherine. Quest’ultima, per tutto il tempo passato nell’appartamento della donna, risultò particolarmente sopportabile. Sì, certo, con me si comportava ancora freddamente. Tuttavia, riuscivo a tollerare la sua presenza.
Ammetto che era un salotto accogliente e ben arredato, quello ove fummo invitate a prendere posto. Inoltre, sopra il sofà di un bianco perlaceo, potei notare un cesto contenente due ferri e qualche lavoro a maglia, di cui uno ancora incompiuto. Ne dedussi che la signora doveva essere una casalinga, e che nel tempo libero si dedicasse a quel passatempo. In quell’atmosfera calda, mi sentii quasi a mio agio.
La signora Rush era sola quel pomeriggio, ma potei desumere che doveva avere una felice famigliola. Infatti, una volta finito di bere il tè verde che ci aveva servito, mi fece vedere tutte le foto incorniciate dei suoi parenti più stretti, che probabilmente zia Catherine aveva già potuto ammirare in precedenza. Se ne usciva sempre fuori con frasi come «Dio, com’era carino il mio bambino quand’era così piccolo!» oppure «Com’ero giovane quando è stata scattata questa foto!» ed io tutte le volte annuivo, con un iniziale stupore nel vedere quelle immagini.
Sì, proprio così: stupore, cui poi però mi abituai, e lo vidi così disperdersi man mano dentro di me a zampilli, come gli schizzi di una pozzanghera.
Un’ora dopo ritornai nella mia prigione insieme alla tremenda zia. Ero stanchissima, ma almeno lo era anche lei. Significava che forse, almeno per quella sera, mi avrebbe lasciata in pace.
Decisi di non disturbarla, onde evitare scatti d’ira improvvisi, fino a dopo cena. Il pasto era orribile: era stata lei a cucinare; mi aveva presentato nel piatto una zuppa di non so che cosa fumante, dall’odore non molto invitante, e il sapore non tradì, ahimè, le mie aspettative. Non terminai di mangiare, e Catherine capì di essere un fallimento in cucina, quindi lasciò che rimanessi con i morsi della fame piuttosto che costringermi a mangiarla.
Speravo che dopo quella cena da dimenticare, per farsi perdonare mi avrebbe concesso una telefonata. Così, poco dopo le nove, mi addentrai in soggiorno, e vidi la donna seduta sulla sua poltrona di pelle con le gambe accavallate, che indossava già la camicia da notte. Aveva gli occhi puntati sul televisore, che trasmetteva un telefilm prodotto dieci anni prima almeno. Ipotizzai che di lì a poco sarebbe andata a dormire, anche se il giorno dopo era domenica, quindi lei in teoria non doveva lavorare. Ma era sempre meglio chiederglielo adesso. «Zia Catherine?» la chiamai, appoggiandomi allo stipite ligneo della porta.
La zia non distolse nemmeno lo sguardo dallo schermo. «Sì?» chiese, seccata.
«Potrei fare una telefonata?» azzardai.
Il mezzo secondo che trascorse mi parve infinito. «Vuoi chiamare i tuoi genitori?» mi rispose lei con un’altra domanda.
«N-no…»
«E allora chi?» incalzò lei.
«Vorrei… vorrei sentire un mio amico; sapere come sta.» Io e Blake ci eravamo visti appena il giorno prima a scuola, ma quel giorno, che era sabato, ancora non avevo avuto notizie di lui. Solitamente passavamo il sabato sera in casa mia a guardare un film e poi giocavamo a dama fino a tarda notte. Ma sapevo, con un peso nel petto che metteva a prova la mia resistenza, che tutto ciò sarebbe ineluttabilmente cambiato.
«Per sapere come sta?» ripeté, a pappagallo, zia Catherine la mia domanda. Poi scosse con decisione la testa. «No, non se ne parla, è troppo tardi, lo sentirai domani.»
Evidentemente qualcuno non aveva capito qualcosa. Mi rinchiudevo per dei giorni in camera mia senza andare a scuola, rendevo la vita impossibile ai miei genitori e non avevo più amici, a parte Blake, e la cosa migliore che viene in mente a quelli che avrebbero dovuto starmi più vicino era stata quella di spedirmi da una zia malefica che non mi permetteva di fare niente?
Strinsi i pugni, sapendo di non poter ribattere, con le lacrime che iniziavano a salire e ad esigere il loro spazio. Mi maledissi, perché piangere era la cosa che mi veniva più spontaneo fare in quei momenti di debolezza in cui dovevo sottomettermi. Ero così infantile e viziata. Mi sforzai tuttavia di mantenere un tono dignitoso: «Posso andare, allora, a prendere una boccata d’aria fuori?»
«Il termine “fuori” è troppo generico» telegrafò la donna tra le labbra sottili, degnandomi di un minimo di attenzione e abbassando il volume del televisore. «Dove vorresti scappare, signorina?»
Abbassai lo sguardo, incapace di sostenere il suo. «Dove vuoi che vada, zia?» risposi con calma e un pizzico di amarezza. «In queste ultime settimane non mi ha mai cercato nessuno. Non ho una gran vita sociale. Volevo solo fare due passi qui intorno.»
La zia, alquanto scocciata, alla fine comunque fece un cenno d’assenso. «Va’ pure. Ma sono guai se non torni entro mezz’ora.»
In quel momento il cuore mi si riempì di gioia. Mi infilai la giacca e uscii dall’appartamento, precipitandomi giù per le scale di corsa, nella consapevolezza di avere i minuti contati – il coprifuoco alle dieci non si rimandava.
Essere fuori, sotto un cielo quella notte privo di stelle, mi dava un pizzico di senso di libertà, una libertà che non mi era concessa. Era molto più bello essere una reclusa a casa mia.
Mi mancava Blake.
Mi misi a camminare distrattamente sul marciapiede lì vicino, sotto la luce fioca dei lampioni. Ripensai a ciò che avevo fatto poche notti prima, quando gli avevo stampato un bacio sulle labbra. Non potei fare a meno di sorridere: era stato così tenero e così amichevole allo stesso tempo. “Ma i baci sono davvero amichevoli?”, mi chiesi poi.
Ebbi paura di aver messo qualche strana preoccupazione a Blake. In effetti, andava tutto così bene tra me e lui, perché doveva venirmi la curiosità di baciarlo? Non andava già perfettamente in questa maniera?
Le mie domande furono troncate quando vidi un pezzo cartaceo svolazzare per terra di fronte ai miei piedi. Un lampione appena sopra di me lo illuminava, comprendendolo nel cerchio di luce che emanava sul marciapiede.
Sbarrai gli occhi e il cuore iniziò a pulsare con foga: erano cinque dollari. So che era poco, anzi pochissimo, ma io non avevo potuto portarmi soldi dietro, dalla zia. Mi abbassai per raccoglierli, chiedendomi che cosa poterci fare, una brezza notturna che faceva svolazzare ancora gli angoli della banconota tra le mie dita.
Fu allora che lo stomaco brontolò con forza, lamentandosi ancora della scarsità della cena consumata poco tempo prima.
«Non sognare nemmeno di poterti strafogare di schifezze come facevi a casa», aveva deliberato la zia appena poche ore prima. Io avevo cinque dollari in mano, nessun controllo, una fame da lupi e ancora venticinque minuti a disposizione: quanti caffè potevano essere aperti nei dintorni quella sera? Dio, cinque dollari potevo usarli per una, ma no, che dicevo, due o tre ciambelle almeno. Sarei andata a letto del tutto sazia.
Avevo appena iniziato a guardarmi intorno in cerca di qualche insegna, quando mi accorsi di una figura che si era posizionata davanti a me e che prima ancora non avevo notato, troppo presa dalla banconota appena trovata per terra.
«Ehm, scusa? Quella è appena caduta a me» mi sentii dire da una voce che aveva un che di nebulosamente familiare.
Sollevai lo sguardo dai soldi che avevo raccolto e mi ritrovai a guardare negli occhi Logan Rush. Riconobbi immediatamente il suo intenso sguardo color nocciola che mi squadrava minuziosamente, un centimetro per volta. Il venticello che sferzava stava scompigliando anche i suoi capelli folti e castani. Lo vidi stringersi nella sua giacca di pelle.
Molti chiamano certi fortuiti avvenimenti semplici coincidenze. Ma chi lo dice che non sia in realtà uno strano scherzo del destino?
«Keira Towers? Che cosa ci fai tu qui?» mi chiese poi, sinceramente dubbioso.
Io feci spallucce. «Sai, da adesso ci abito» risposi con acidità, quasi fosse colpa sua. Intanto tenevo ancora i soldi trovati nella mano destra.
«Ci abiti?» aggrottò un sopracciglio lui.
«Aha» asserii, indicando con il capo l’edificio poco lontano dove ora abitavo con Catherine.
Lui sembrò non aver capito molto bene. Tuttavia non mi fece altre domande. Semplicemente, scrutò i miei – anzi, suoi – cinque dollari. «Cosa volevi farci, con quelli?» domandò poi, con un sorrisetto che gli affiorava sulle labbra. Non era un sorrisetto di scherno né d’imbarazzo. Semplicemente, era quello che era.
Mi posai una mano sullo stomaco. «Stavo andando a cena. A cena di ciambelle» specificai. Neanche a casa mi passava per la testa di consumare un pasto del genere. L’aspettativa di qualche dolciume zuccheroso stava facendo salire la mia emozione alle stelle, in un entusiasmo tuttavia era scemato poco più tardi nella consapevolezza che il proprietario del denaro di cui mi ero impossessata era di fronte a me.
Lui, forse guardando me e i miei occhi gonfi e ancora arrossati, o forse per semplice telepatia, o con più probabilità per puro caso, credo capì immediatamente cosa mi passasse per la testa. «Se vuoi ti faccio vedere un caffè qui vicino.»
Scossi la testa, porgendogli la banconota. «Ormai non ne ho più la possibilità» gli risposi con un sorriso amaro, del tutto al verde.
Lui ridacchiò. Quando rideva gli si sollevavano lievemente gli zigomi stringendo gli occhi dallo sguardo profondo in due fessure, in un’espressione molto più adorabile rispetto a quando era serio. Be’, non che Logan non avesse un brutto aspetto. Ma non badavo eccessivamente a questo tipo di cose. «Dai, andiamo, offro io» concluse infine.
In quell’istante avvertii la forte sensazione di sprizzare gioia da tutti i pori, ma di certo non lo diedi a vedere. Non mi posi alcun problema ad accettare, non ero il tipo da fare complimenti. Feci di sì con il capo e basta, piena di aspettative per la prima volta nella giornata.
 
Mi sedetti al tavolo da sola, una volta dentro il locale, e vidi Logan arrivare appena un minuto dopo con in mano una scatola di cartone contenente sei ciambelle disposte ordinatamente in due file da tre. Ne arraffai subito una con una zuccherosa glassa rosa sopra e la addentai voracemente, come se non avessi messo niente sotto i denti per giorni. Logan ne prese una al cioccolato, ma la mangiò masticandola con estrema calma, senza fretta.
Per qualche secondo nessuno dei due disse nulla, ma non ci volle molto prima che lui esordisse: «Dunque, spiegami, cosa intendevi quando hai detto che adesso abiti qui?»
Presi un tovagliolo e mi pulii le labbra dallo zucchero appiccicoso prima di replicare. «Intendevo dire che ora siamo coinquilini, vicini di casa
Preferivo di gran lunga Blake, come vicino, a dire la verità.
Lui parve sinceramente confuso. «Come sarebbe a dire vicini di casa? Stai delirando per caso, Towers?»
Feci di no con la testa. «Ho conosciuto tua madre. Una personcina davvero simpatica e deliziosa, devo dire. Mi ha fatto vedere le foto di quando eri piccolo. Che… carino» finii, in cadenza discendente. Sì, mi sentivo particolarmente loquace quella sera, specie dopo aver visto Logan Rush arrossire violentemente alle parole “che carino”. Fui incoraggiata a proseguire: «Sto al piano appena sotto il tuo, con mia zia Catherine» lo informai poi con tono che lasciava intendere che non ne fossi particolarmente entusiasta.
Gli raccontai di come i miei genitori non riuscissero più a starmi dietro, perciò mi avevano mandato dalla zia, una donna rigida e insopportabile, e gli raccontai della mia visita alla signora Rush e di come, dalle foto che mi aveva fatto vedere, avessi capito che eravamo diventati coinquilini a tempo indeterminato. Non so perché lo feci, visto che non mi aprivo mai con nessuno. Lo facevo con Blake, ma lui era il mio migliore amico. O forse era una cosa da vicini di casa?
Lui ascoltò in silenzio per tutta la durata del racconto, ma sapevo che anche se non diceva nulla, aveva l’attenzione focalizzata su di me. Si espresse solamente alla fine. «Quella donna la conosco abbastanza bene: deve essere un cyborg, una macchina da guerra, o qualcosa del genere» disse, con una naturalezza tale da farmi scoppiare in una risatina.
«Chi, mia zia?»
«Eh già» annuì lui, ridendo.
Agguantai la seconda ciambella, ripiena di crema, mentre gli esprimevo il mio consenso alle sue parole. In fondo, dovetti ammettere, non stava andando in maniera così pessima come mi aspettavo per la fine di quella giornata. Avevo avuto a che fare con Logan per tutti quegli anni al liceo parlandoci a malapena, ed ero convinta che fosse solamente una testa vuota, un altro di quei ragazzini pieni di sé che popolano gli edifici scolastici. Be’, che lo fosse effettivamente ancora non potevo saperlo, ma ciononostante stava facendomi ridere un po’, cosa che non avveniva spesso, e potevo dire di essergli già grata per questo. Per quanto potessi essere grata io a un essere umano.
«Quindi hanno deciso di mandarti qui perché ti sei chiusa in camera tua. Ecco perché non venivi più a scuola» comprese lui.
«Proprio così» confessai. «Ma come, si notava così tanto la mia mancanza?»
«Be’, non proprio» disse lui, puntando lo sguardo fuori dalla finestra. «Il fatto è che dopo qualche giorno c’è chi ha incominciato a fare strane ipotesi, costruendo delle storie romanzate, inventandole di sana pianta e facendole girare come pettegolezzo, così la voce si è un po’ sparsa. Sai, le congetture danno sfogo all’immaginazione.»
Corrugai la fronte, in un sospiro. «E tra quelli che hanno fatto queste congetture,scommetto che ci sei anche tu.»
Lui non riuscì a trattenere una risata. «Io però non ho reso pubbliche le mie supposizioni» disse, fiero di sé. Come se fosse stato un paladino della giustizia. Mamma mia, quanto era insopportabile quando era convinto di essere carino e simpatico. «Dai» continuò, vedendo la mia faccia seria. «Stavo solamente scherzando. Non mi sarei mai permesso di dire nulla su di te o qualcun altro.»
Questa fu una magra consolazione per me. Dopo che ebbi ingurgitato anche la terza ciambella, lasciando a Logan le restanti, mi decisi a sbirciare l’orologio. Imprecai quando vidi che mancavano due minuti alle dieci.
Zia Catherine mi avrebbe ucciso.
Avrebbe detto ai miei genitori che ero una spregiudicata teppista e che dovevo rimanere a vivere con lei fino al giorno della mia laurea – ma mi sarei mai laureata?
Mi avrebbe reso la vita un inferno.
Dovevo tornare a casa entro due minuti – mi corressi, entro un minuto e cinquantatre secondi.
Mi alzai di scatto da tavola. «Scusa, ma devo andare, o mia zia mi ammazza» sbottai, prendendo a correre verso l’uscita senza nemmeno salutarlo.
«Keira?» lo udii prima di precipitarmi fuori dalla porta del locale. Ero appena uscita quando percepii una mano che mi afferrava saldamente per il polso, esattamente come quella volta, quando fui salvata dai rimproveri di Douglas Spear. «Ehi, calmati. Guarda, noi stiamo laggiù» disse Logan, dietro di me, indicando un grande edificio con il dito. «Due passi e siamo arrivati. Sta’ tranquilla.»
Ripresi la calma e lo costrinsi a lasciarmi. Dopo di che mi avviai verso casa, con il ragazzo che, ad un certo punto, mi affiancò. Rimasi meravigliata. «È sabato sera. Che fai, vai a casa alle dieci?» Non ci potevo credere. Io ero l’unica adolescente sulla faccia della terra che tornava a casa il sabato sera alle dieci.
«E tu?»
«Io sono un caso particolare.» Non andavo molto fiera della cosa, ma forse dal mio tono parve proprio così.
«E se volessi essere un caso particolare anch’io?» A quel punto calò il silenzio tra noi due. Entrambi non credevamo nemmeno un po’ a ciò che lui stesso aveva detto. «Devo tornare a casa a prendere altri soldi. Non ne ho presi abbastanza e in più le tue ciambelle, seppur di poco, hanno fatto la loro parte nel mio portafoglio» ammise poi.
Non mi sentii particolarmente in imbarazzo. Avrei dovuto esserlo un pochino, in teoria, visto che prima avevo scroccato un passaggio a un amico di Douglas, e adesso gli avevo fatto anche pagare la mia “cena”. Eppure no, mi sentivo tranquilla e in pace con me stessa. «Grazie per le ciambelle.» Almeno però non ero un’ingrata.
«Figurati. A me basta che non vai in giro a dire quanto ero carino da bebè – e mi riferisco alle mie foto compromettenti.»
Io ridacchiai, ancora una volta. «Ma a chi potrei mai raccontarlo?» Domanda retorica. Mi sembrava così scontato.
«A tutti i tuoi amici, che lo direbbero a tutti i loro amici, e così via. Forse non lo sai, ma i pettegolezzi si diffondono più velocemente di un’epidemia.» Si mise una mano distrattamente tra i capelli.
«Ah, sì, i miei amici.» La mia voce si abbassò morendo lentamente verso la fine della frase. Mi strofinai gli occhi, pensando “Certo, avere degli amici è così dannatamente normale”. Tutti ne avevano almeno un paio molto intimi, e un’altra ventina con cui uscire, come minimo. Io avevo un vicino di casa – ex vicino di casa – e Lydia. Anzi, no, non avevo più nemmeno lei. Ma perché proprio io, tra tutti gli esseri umani?
Una volta arrivati e oltrepassato la soglia del portone, ci dirigemmo verso l’ascensore. Appena dentro, premetti il tasto che ci avrebbe condotti al terzo piano, e quando le porte si chiusero realizzai che lì dentro c’era uno spazio decisamente troppo piccolo, al punto da costringere me e Logan da stare così vicini da sfiorarci. No, non ero abituata agli ascensori.
Al terzo piano le porte si riaprirono pigramente e mi sentii molto meglio in uno spazio più vasto. Feci un respiro profondo, e da fuori vidi Logan che stava premendo il tasto 4. Appena prima che le porte si incontrassero, chiudendosi di nuovo, lui le bloccò con le mani e vidi il suo viso sbucare da una fessura poco più grande di un palmo. «Buonanotte allora, Towers.»
«‘Notte» dissi appena e svogliatamente. Infine l’ascensore ripartì, ed io rientrai in casa. Sinceramente, avrei di gran lunga preferito la compagnia di Logan ancora un po’, benché nemmeno lo conoscessi, piuttosto che stare sotto lo stesso tetto, sebbene a malapena ci parlassimo, di zia Kate. Oh, chiedo perdono; zia Catherine.
«Era ora. Cominciavo a preoccuparmi» mi accolse calorosamente la zia quando fui davanti a lei. «È ora che vai a dormire, signorina. Domattina devi essere in piedi alle sette meno un quarto.»
Inutile descrivere la mia faccia sbigottita. «Come? Ma domani è domenica!»
«Essere mattutini è importante, signorina, e poi bisogna cominciare a darti delle regole, che non ti sono mai state imposte. Approfitterai della mattinata per fare i compiti.»
«Ma sei sadica!» mi uscì un’esclamazione che forse avrei fatto meglio a tenere per me. Infatti me ne pentii quando ancora non avevo terminato di dirla.
«Non parlarmi con quel tono, signorina!» mi rispose lei in tutto tono, con gli occhi sbarrati, grandi e a palla che da dietro gli occhiali mi incutevano timore. «Altrimenti ti faccio anche pulire il bagno e cucinare il pranzo!»
Ammutolii all’istante e, remissiva, strisciai nella mia stanza, adagiandomi sul materasso con le coperte ammassate in fondo e ancora da sistemare, ma non ne avevo voglia per niente. Eppure, se volevo dormire – e la zia pretendeva che dormissi – dovevo sistemarmi per bene il letto. Mi misi d’impegno e poco dopo, ancora con i vestiti addosso e le scarpe da ginnastica logore lanciate a casaccio sul pavimento, m’infilai sotto le coperte, inerme e pigra, attendendo solamente che il soggiorno dalla sadica e malvagia Catherine si concludesse.
 
Era ancora notte fonda, ma i miei occhi fissavano il soffitto, un soffitto che in realtà non riuscivano a mettere a fuoco a causa del buio.
“Sai, Lydia…”
Non so perché incominciai, tutto ad un tratto, a rivolgere a lei i miei pensieri.
“… guardo verso l’alto, un punto indefinito. Sono in questa stanza vuota, una stanza spoglia e senz’anima. Sì, perché camera mia, con tutte le mie cose dentro, aveva come assunto l’impronta della mia personalità. Le avevo regalato un pezzo della mia anima. Sai, penso che lì dentro ci fosse anche una parte di te. In fondo, tutto il tempo che vi abbiamo passato dentro insieme e tutti i regalini che mi hai fatto negli anni che ho messo lì dentro, devono pur contare qualcosa.
Per qualche ragione a me sconosciuta, prima di partire ho infilato uno dei pupazzetti che mi donasti un giorno, nella mia valigia. È quello arancione, a forma di gattino. Era ed è tutt’ora il mio preferito.
Non so perché l’ho fatto. Probabilmente è stato perché volevo portarmi dietro con me un ricordo dei momenti gioiosi.
I ricordi. Qualcosa che ci appartiene, ma che tuttavia rappresentano qualcosa che non possediamo più.
Sai una cosa però, Lydia? Preferisco pensare a qualcosa che non ho più, piuttosto che a quello che mi aspetta adesso, nella vita vera, nel presente, e alla fortuna che sembra avermi del tutto abbandonata. Perciò, sai cosa farò? Cercherò di addormentarmi pensando a tutti i momenti belli passati insieme, così s’imprimeranno meglio nella mia mente. Ti auguro buonanotte, Liddy”.
Così abbassai le palpebre, pesanti, senza nemmeno accorgermene.
Ero così arrabbiata con Lydia, che involontariamente avevo iniziato a scindere i miei ricordi che la riguardavano in belli e brutti, suddividendo così la mia ex migliore amica in due persone completamente diverse. La Lydia che mi era amica e fedele, allora, per la mia mente, semplicemente non esisteva più, mentre quella che mi aveva tradito mi stava facendo soffrire senza alcun motivo preciso.
I miei pensieri si fecero man mano più offuscati, finché mi addormentai, esausta.




I deliri pensieri di Camelia:
vi chiederete ora perché ho cambiato banner e, soprattutto, nickname nella foto. Ecco, in realtà sto per cambiare nickname su EFP. D'ora in poi, anzi, non appena la mia richiesta sarà accettata, mi chiamerò Camelia Jay ;D
Scusate, ma pubblico questo capitolo davvero di fretta e non ho il tempo per i miei soliti fronzoli! Mi farò sentire presto. Ringrazio infinitamente tutte coloro che mi hanno lasciato e che mi lasceranno un commentino - si spera ;D. Ciaoooo! A presto!
Cam

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Capitolo 5
*** Insinuazioni impetuose ***



Spazio iniziale che l'autrice esige si concede di prendere: vorrei, prima che vi addentriate nel nuovo capitolo, vorrei ringraziare tutti. Sì, tutti, anche chi in questo momento non è qui e non sta leggendo. Perché ogni pezzo di questa storia è stato ispirato da qualcuno e da qualcosa che ha detto o fatto. Può ispirarmi chiunque: sono stata ispirata dalle mie amiche, che mentre parlavano magari io stavo zitta ma loro mi avevano appena dato una meravigliosa idea, e sono stata ispirata persino dalla statua di Garibaldi a Bologna e da un barbone. Sono stata ispirata da una cassiera del MacDonald, sono stata ispirata dagli Skillet, che mi hanno suggerito il titolo della storia. E chissà, magari uno di questi capitoli è stato ispirato a qualcuno di voi che un giorno ho incontrato per caso per la strada. Non si sa mai! Ergo, grazie a tutte quelle persone che non lo sanno, ma hanno contribuito a rendere utili i miei viaggi nell'iperuranio. E ora, buona lettura ;)




[Capitolo Cinque]
[Insinuazioni impetuose]
 



Spensi la sveglia e mi rimisi a dormire, il lunedì successivo. Tuttavia, Catherine non tardò ad irrompere nella mia stanza spoglia, strillando e lanciando ordini a destra e a manca.
Non credo di essermi mai tuffata così rapidamente giù dal letto prima di allora.
Alle sette e venti avevo già terminato di prepararmi, un bel po’ di tempo in anticipo rispetto al solito – la zia mi metteva fretta, oltre a svegliarmi presto.
A quell’ora, la donna mi comunicò che stava uscendo di casa e che sarebbe tornata tardi, a causa di un impegno lavorativo che l’avrebbe trattenuta. Io, da brava bambina e non dalla scapestrata quale ero, avrei dovuto recarmi alla fermata dell’autobus in orario e andare a scuola senza fare storie né tentare di fregarla: lei se ne sarebbe accorta.
Io, tranquilla, feci finta di star per uscire di casa a mia volta finché Catherine non se ne andò, e dalla finestra vidi la sua automobile sparire dal mio campo visivo dietro l’angolo. In seguito, controllai l’orologio e notai che mancavano ancora una ventina di minuti prima del bus.
Scrutai il letto della mia nuova camera. Dio, ero ancora stanchissima. Quelle otto ore di sonno sembravano non essere servite a nulla. Be’, se mi riposavo ancora dieci minuti, non sarebbe accaduto nulla, giusto? Non aveva senso aspettare l’autobus al freddo, quando avevo il calore confortevole del mio materasso.
Mi buttai così di nuovo sul mio letto disfatto da una notte in cui mi ero rigirata parecchie volte e, senza nemmeno alzare le coperte, chiusi gli occhi.
Oh mio Dio, che bello potermene stare sdraiata, sola, come se fossi l’ultimo abitante sulla Terra, impossibile da disturbare. L’unico rumore percepibile era quello delle lancette di un orologio. L’unica cosa di cui ero consapevole era il mio respiro. Tutto ciò di cui m’importava, ce l’avevo lì a portata di mano, adesso. Sentivo che non mi sarei mai mossa da quel punto, se solo avessi potuto. E senza che me ne accorgessi, il tempo stava letteralmente volando.
Trasalii nello stesso istante in cui ricordai, molti minuti più tardi, che dovevo andare a scuola.
Pochi secondi dopo mi ero già catapultata fuori di casa, ricordandomi appena di prendere lo zaino. Corsi a perdifiato attraversando il parcheggio lì vicino, ma una volta che controllai l’orologio a polso, mi resi conto che non ce l’avrei mai fatta ad arrivare in tempo alla fermata dell’autobus. «Merda!» esclamai, fuori di me, e calciando l’aria. Mi misi le mani tra i capelli, e mentalmente incominciai a disperarmi, facendomi fantasie drastiche e pessimiste su cosa mi avrebbe fatto la zia al suo ritorno. Perché, anche se fossi stata bravissima a nascondere la mia assenza, prima o poi l’avrebbe comunque scoperto.
«Cos’hai da agitarti tanto?» udii una voce nota alle mie spalle.
Ricordai solo allora che io e Logan adesso abitavamo ad un piano di distanza. Quando mi voltai e lo vidi con le chiavi della propria auto in mano, il mio cuore si colmò di speranza. Non ero mai stata più contenta di vederlo. «Io… ho perso l’autobus!» mi affrettai a dire, arrivando direttamente al punto.
Vidi Logan buttare un momento lo sguardo sulla sua auto, la stessa che mi aveva scortata a casa non molto tempo prima, e farmi un cenno. «Okay, ti do uno strappo» mi disse solo, con estrema naturalezza.
Mi sentii un po’ approfittatrice ad accettare per la seconda volta un passaggio da lui, specie dopo che mi aveva persino pagato le ciambelle il sabato precedente. Ciononostante, non ci diedi molto peso, e pensando alla zia e alla minaccia che rappresentava, non esitai a seguirlo, ringraziandolo a dovere.
Salii per la seconda volta sul sedile anteriore della vettura.
«Ci incontriamo di nuovo» mi disse Logan dopo che fummo partiti.
Ora che ero più tranquilla, mi abbandonai allo schienale, del tutto rilassata. «Aha. Siamo coinquilini, in fondo, cosa credevi?»
«Sì, lo so. Solo che è un po’ strano: non ci siamo quasi parlati per tutti questi primi anni del liceo, e adesso improvvisamente abitiamo nello stesso palazzo.»
«Già» dissi, concisa e determinata a interrompere il dialogo.
Mi ero sfogata con lui due sere prima, e ciò gli era bastato per farsi un’immagine del tutto sbagliata di me: solo perché ero stata loquace una volta, non significava assolutamente che lo fossi sempre. Eppure non l’aveva ancora capito, e continuava a cercare di conversare. Be’, forse anche io mi ero sbagliata, sul suo conto, non sentendo quasi la sua voce quando lui mi aveva riportata a casa dopo lo scontro con Lydia e il suo ragazzo.
«Che brutta faccia» constatò poi lui. «Zia Catherine ti ha fatto il quarto grado, l’altra sera?» scherzò, provocando la mia irritazione.
«No. Hai intenzione di chiedermi altro o posso iniziare a pensare a come superare la giornata senza essere disturbata?» risposi. Bruscamente, come era mio solito fare quando ero infastidita.
Peccato che fosse un vizio che non riuscivo a togliermi. Lo facevo con Blake, con tutto il bene che mi voleva; lo facevo e mi sentivo malissimo subito dopo. E adesso lo stavo facendo anche con Logan, che avrei solamente dovuto ringraziare per l’aiuto che mi stava offrendo. Che stupida, che ero.
«Scusami. Ho risposto male. È che sono stressata.»
«Non importa. Capita anche a me.» Con la mano destra, iniziò a maneggiare qualche tasto dello stereo. «Mi è venuta voglia di musica.»
«Bene, siamo in due» dissi io. Finalmente; la prima bella idea della giornata.
 
Non parlai con Blake, se non per qualche breve frase, durante la giornata scolastica, ma approfittai del viaggio di ritorno in autobus per dirgli tutto ciò che stava succedendo.
Accanto al finestrino, con la fronte appoggiata alla sua spalla, risposi a tutte le sue domande.
«Come mai non ti ho vista in autobus questa mattina?»
«Mi ha dato un passaggio Logan Rush.»
«Chi? Cosa? E perché era lì da casa tua?»
«No, in realtà ero io ad essere nella sua zona.»
E allora ero partita in maniera fluida con la mia spiegazione. Non mancai di esprimergli quanto stessi male in quel momento, di quanto ardentemente desiderassi tornare a casa, e poterlo vedere di nuovo. Già, perché, a parte a scuola, non potevo più sognarmi la sua compagnia.
«Sul serio?» mi mormorò poi lui, incredulo.
«Sì» risposi con un sospiro di rassegnazione. «La zia ha detto che mi concede una telefonata al giorno a un amico, o a chi voglio, più una da fare a casa; ma credo che quest’ultima me la potrei risparmiare.»
Dal seggiolino di fianco al mio, Blake mi strinse a sé, forte, con tutto l’affetto che riuscì a trasmettermi. Era in quei momenti che potevo sentirmi il più vicino possibile alla felicità che mi sembrava così lontana e negata. «Su, Keira. È tutto okay. Se ti demoralizzi adesso, sarà sempre peggio. Perché invece non provi ad andarle incontro, forse così il tempo in cui ti terrà con sé si accorce…»
«Scherzi?» lo interruppi di scatto. «Ancora con questa storia del cercare compromessi? Ma non hai un consiglio migliore da darmi?»
Lui non rispose. Sospirò e basta, con un’espressione serena, ma dura allo stesso tempo. E allora capii che l’avevo fatto di nuovo. Avevo risposto male a Blake, che cercava di darmi dei consigli e di tirarmi su di morale, solamente perché ero nervosa. Mi scusai, ma non penso che fosse servito a molto. «Mi telefoni, questa sera?» mi chiese poi, dopo un paio di minuti di quiete imbarazzante, nonostante fossimo amici da una vita e ormai ci fossimo abituati ai lunghi silenzi.
«Certo» gli risposi, con un tono che voleva essere più dolce. Ma non so se vi riuscii.
Poi scesi dal bus.
E, al contrario di tutte le altre volte, non ero insieme a lui.
 
Quel pomeriggio, sul tardi ma prima di cena a causa della volontà della zia, avevo telefonato al mio migliore amico, ma non c’era molto di più da dire di quello che non gli avessi già comunicato in precedenza. Avevo paura che se avessi continuato ad esprimergli il mio dolore, ripetitiva, avrei finito per annoiarlo, e non avremmo concluso niente. Invece, quel poco tempo che potevo passare parlando con lui, volevo servisse a qualcosa. Dunque lo avevo fatto parlare di tutto quello che voleva lui, senza freni, anche se qualche volta non esitava a chiedermi come stavo.
Dopo venti minuti, Catherine era venuta da me e mi aveva fatto cenno di interrompere la chiamata: dovevo tornare a studiare.
Non credevo di aver mai studiato tanto come quel giorno. E, di giornate come quelle, me ne aspettavano ancora parecchie. Ma il solo pensarci mi faceva venire il mal di testa e lo sconforto, dunque decisi di tentare almeno di concentrarmi sui libri di testo.
A fine cena, Catherine mi concesse di nuovo di fare un giro fuori. Me lo meritavo, avendo passato il pomeriggio dedicandomi allo studio.
Uscii e mi sedetti su un muretto appena davanti al palazzo, che contava i dodici piani. Era autunno, dunque faceva già abbastanza freddo, e per di più le giornate si accorciavano man mano. Erano le nove di sera, e faceva già buio pesto; riuscivo già a scorgere intorno a me i fiochi coni di luce arancione dei lampioni. Mi strinsi dentro la mia giacca per non rabbrividire, e il mio sguardo si perse nell’ammirare l’ambiente circostante, la mia mente che vagava.
“Liddy…” Mi meravigliavo ancora di pensare a lei. Anzi, in quel momento mi sembrava quasi di averla davanti, che mi ascoltasse. Sarebbe stato meraviglioso. Peccato che quella Lydia ormai non esistesse più. “Mi manchi davvero tanto. Cosa non darei, pur di poterti sentire ancora ridere con quella tua risata squillante. E adesso, come se non bastasse, mi manca anche Blake. Ero così abituata ad averlo vicino, che ora la sua distanza ha aperto una voragine dentro di me. Sento che vederlo a scuola e fargli una telefonata di pochi minuti al giorno non mi basta. Ma stavo pensando, Lydia, può esistere davvero l’amicizia tra maschio e femmina? Ricordo che ne parlammo, una volta. Tu ti sorprendesti nel sapere che il mio migliore amico era un ragazzo, eri stupita perché eri convinta che stessimo insieme. Be’, lo devo ammettere, io per lui provo un affetto incontrastato. Ma non è quel tipo di affetto, giusto?”
Sussultai. Ripensai a quel bacio rubato che mi ero concessa per mera curiosità. Ultimamente mi capitava di pensarci, ma ero ancora sicura che si trattasse solo di quello che era, non poteva essere altro. Solo un’altra volta, in passato, era accaduto un episodio del genere. Avevamo quindici anni, e avevo tentato di baciarlo. Però quella volta era stato più che altro un gesto di sfida, Blake mi aveva detto che io non tenevo veramente a lui, che non lo volevo; avevo cercato di dimostrargli il contrario, baciandolo. Alla fine, a pochi centimetri di distanza, mi aveva fermato. «Te lo ripeto ancora una volta: tu non mi vuoi. Okay? È solo la tua impressione. Io ci sono sempre per te, anche se non mi controlli; fattene una ragione.» Quelle erano state le sue parole. Ed io mi ero offesa a morte. Ma era qualcosa che era accaduto molto tempo prima…
“Naa… Lydia, io e Blake siamo amici da una vita. Se doveva nascere qualcosa, sarebbe sbocciato prima, non credi? Sì, certo, ammetto che se dovessi scegliere di baciare un ragazzo qualsiasi sceglierei di nuovo lui, ma è semplicemente perché è l’unico che conosco. È solamente una questione di circostanze. Davvero, non serve preoccuparsi. Tre me e Blake non c’è assolutamente nulla, sì, è proprio così”.
«Già, impossibile…» dissi tra me e me, scuotendo la testa.
«Che fai, parli da sola?» Qualcuno che parlò dietro di me mi costrinse a voltarmi, sobbalzando dalla sorpresa.
«Logan» dedussi, con voce incolore. Non potevo starmene un attimo in pace, evidentemente: lui doveva sempre spuntare fuori dal nulla.
Il ragazzo, coperto dalla giacca, mi raggiunse, posizionandosi in piedi di fianco a me. «Come mai qui fuori?» mi chiese.
«Affari miei.» Avrei potuto chiedergli la stessa cosa anch’io, ma il mio interesse per la questione rasentava lo zero.
«Capito.» Probabilmente anche lui voleva dirmi che era venuto fuori per fare un giro, o prendere una boccata d’aria, ma non lo fece, avendo quasi certamente compreso che non me ne fregava assolutamente niente. «Come va?»
«Da cani.» Ormai non c’era più speranza che potessi tornare ai miei pensieri.
«Wow. Va così male con Catherine? A vederla così, dall’esterno, non sembra male come donna. Forse un po’ fredda…»
«Altroché» affermai, senza volermi spingere più in là di una o due parole alla volta.
«Cos’è, sei in astinenza da libri?» scherzò poi, ridacchiando – e dava davvero l’impressione di quello che non sapeva che cosa dire. Ma io non ci trovavo assolutamente nulla da ridere.
«Come diamine fai a saperlo?» domandai meravigliata, con diffidenza.
Lui parve perplesso. Si mise una mano tra i capelli, aggiustandosene qualcuno che gli era andato davanti agli occhi. «Me l’hai detto tu sabato sera. Sai, in mezzo alle tante altre cose…»
«Oh. Vero.» Ora che ci pensavo, mi infastidiva non poco sapere che adesso lui era a conoscenza di così tante cose su di me. Cos’altro gli avevo detto, dei miei fatti privati?
«E comunque si vede che hai l’umore a terra» cercò di fare lo psicologo della situazione. Assunse anche il tono di quello cui importava qualcosa, ma io non gli credei.
Forse, se gli avessi rivolto una frase più lunga, anzi che di soli due vocaboli, si sarebbe accontentato e mi avrebbe lasciata in pace. Trovavo il suo tentativo di socializzare molto irritante. Decisi così di tentare. «Sì, mi manca poter avere un bel romanzo sottomano prima di dormire. Mi manca un racconto da consultare mentre sono stesa sul divano. Mi manca un libro da leggere quando voglio estraniarmi dalla realtà.» “Va bene così?!”
Lui mi fissò, probabilmente stupito dalla serietà delle mie parole e dal modo in cui le pronunciai. «Be’, pensandoci, forse io non sembro il tipo da possedere certe cose, ma ho qualche romanzo che credo…»
«Zia Catherine li troverebbe subito! Sai, non sono così facili da nascondere» mi alzai di scatto, inviperita sia per la sua insistenza che per la consapevolezza che la lettura di un romanzo nella stessa casa della matrona era un sogno ben lungi dall’essere realizzato, per ora. Gli voltai le spalle, decisa ad andarmene. E non importava se lui mi avrebbe definita misantropa, irascibile, o qualsivoglia aggettivo gli fosse venuto in mente. Poi però, all’improvviso, mi balenò uno strano pensiero in testa. «Che cos’è questo, un tentativo molto cretino di provarci con me?»
Mi mettevo ad insinuare certe cose proprio nei momenti meno opportuni, nelle situazioni in cui avrei semplicemente dovuto essere più cordiale e stare zitta.
Vidi Logan ancor più sorpreso, e anche io mi resi conto che ciò che avevo detto non aveva nessuna base di fondamento, ma era solamente il frutto del seccatura che stavo provando. «Ma che diamine stai dicendo?» La nota scherzosa che c’era prima nella sua voce era del tutto svanita. «Bah. Ma che ti passa per la testa?»
Logan mi sorpassò, dirigendosi di nuovo verso l’entrata. Lo vidi sparire insieme alla speranza di poter recuperare all’ultimo secondo. Ma cosa c’era da recuperare?
D’un tratto mi vergognai per l’errore che avevo commesso. Intanto ero stata brusca ancora una volta, abitudine che dovevo decisamente perdere. In secundis, come avevo potuto anche solo concepire una cosa del genere? Logan Rush che ci provava con me? Era più probabile che mia sorella Gwen si lasciasse col suo fidanzato storico – e in tutto il tempo in cui erano stati insieme, mai una volta in cui li abbia sentiti litigare.
Ero stata una perfetta idiota. Insomma, Logan era uno dei migliori amici di Douglas, per quanto ne sapevo, ed era abbastanza carino da avere sempre qualche ragazza che gli ronzava intorno. Conduceva una normale vita da liceale della sua età: partecipava alle feste cui nessuno mai mi invitava, beveva tutto l’alcool che io nemmeno osavo elaborare nella mente, frequentava un numero di amici così ampio che superava anche quello dei miei semplici conoscenti – anche se per quello non ci voleva molto.
Ero sfigata? No, io non sentivo di esserlo. Vivevo in un modo, fino a pochi giorni prima ero una piccola reclusa nella mia stanza, ma non mi ero mai reputata neanche per un secondo una sfigata. Io penso che chi è “sfigato” sia consapevole, almeno un po’, di esserlo. Non che fossi contenta di essere senza amici, ma ero orgogliosa di essere me stessa. Pensavo che il fatto che nessuno volesse mai simpatizzare con me, fosse perché nessuno vedeva mai oltre la mia apparenza. Ero una specie di anonima, se non emarginata, cui raramente qualcuno si avvicinava… ma ero convinta che non fosse colpa mia.
Dunque, non ero io, era lui. Sì, era lui che sapeva che io non ero il tipo che potesse piacergli, dato il suo stile di vita sì diverso dal mio. Ecco perché avevo sbagliato completamente nella mia insinuazione spontanea.
Be’, comunque, non me ne importava più di tanto. Logan non era, per me, la simpatia personificata, quindi sapevo che non era una gran perdita averlo allontanato da me.
Ma c’era da dire che lui mi aveva fatto dei favori, in precedenza. E inoltre, speravo che in futuro avrebbe potuto farmene altri! Come avrei fatto se avessi perso di nuovo l’autobus? Oh, dannazione, dovevo trovare un modo per riconciliarmi – da come lo pensai sembrava che fossimo amici per la pelle… – con lui.
Detestavo ammetterlo, ma avevo sbagliato io ed ero io che dovevo rimediare.
Osservai la luce tremolante di un lampione che illuminava un pezzo di strada dal quale passava ancora qualche automobile.
“Domani, Keira, domani”, pensai, in uno sbadiglio.
 
«Keira!»
«Uff…» sbuffai leggermente, senza farmi però sentire da Catherine. Ancora non mi ero abituata a quel suo tipo di regime, e facevo fatica ad alzarmi.
«Keira, subito in piedi! Non battere la fiacca!» squillò. «Oggi devo trattenermi al lavoro più del solito, tornerò per l’ora di cena. Ordinerò del cibo italiano sulla via del ritorno. Al mio arrivo mi farai trovare la tavola apparecchiata e mi dimostrerai che anche se non c’ero hai riempito quella zucca vuota con qualcosa. E credimi, non faccio fatica a capire se mia nipote ha studiato o meno.» Sì, il suo tono appariva molto minaccioso, e infatti lo era, ma quello stava già per diventare la routine. Era tirarmi su dal letto che mi creava non pochi problemi.
Obbedii a tutti gli ordini della zia, e quella per me fu un’altra giornata di scuola come le altre. Incrociai Lydia un paio di volte per i corridoi, accompagnata a braccetto dal suo ragazzo. Tutte le volte, una rabbia difficile da controllare mi saliva infuocata riempiendo il petto. A stento riuscivo a tollerare quel peso.
Avevo sperato fervidamente per tutto il giorno di poter avere qualche minuto per scambiare qualche parola con Blake, ma questi non si presentarono, tranne che nel viaggio di ritorno in autobus. Al momento della separazione, con un vuoto che iniziava a riformarsi nelle mie membra, ero scesa e avevo guardato il mezzo pubblico scomparire dietro la prima curva. Dell’auto di Logan, nel parcheggio sotto il palazzo, ancora non c’era traccia, ma non vi feci troppo caso.
Come mi era stato imposto, mi diedi da fare e, incredibilmente, studiai. Avevo un terrore morboso di mia zia e delle possibili domande a bruciapelo che avrebbe potuto farmi sugli argomenti che avrei dovuto studiare.
Ero intenta a dare una sfogliata al libro di trigonometria, quando il campanello della porta suonò. Mi strinsi nelle spalle. “Diamine, un rompiscatole”.
Non avevo per niente voglia di aprire la porta e ritrovarmi davanti ad un altro essere umano, molto probabilmente sconosciuto dato che in quel palazzo ci abitavano molte famiglie. Tuttavia, non potei ignorare il trillo che si ripeté un’altra volta, e alla fine, restia, andai a controllare.
Davanti mi ritrovai il viso paffuto e sorridente della signora Rush – fui animata da una nota di sollievo – che se ne stava lì a guardarmi con quei suoi due occhi vispi e dello stesso colore di quelli del figlio. «Buon pomeriggio, Keira!» mi salutò affettuosamente, benché ci conoscessimo appena da pochi giorni. «Per caso c’è Catherine in casa? Sai, ho preparato una torta di mele, modestamente, davvero ottima!» esclamò tutta contenta, sventolando una mano dalle dita tozze in aria. «Volevo offrirne un po’ a tutt’e due!»
«Oh» risposi io, gentilmente – la signora Rush mi stava particolarmente simpatica, rispetto alla maggior parte della gente che conoscevo, quindi mi veniva naturale comportarmi come si deve. «Mi spiace, ma mia zia non c’è, ha detto che aveva un impegno e che doveva fermarsi al lavoro più del previsto.»
«Oh no, che peccato!» disse la donnina. «Però tu vieni ad assaggiarla, la mia torta; mi farebbe molto piacere. E poi, con tutto lo studio che tua zia mi ha detto che stai facendo, ti farà bene mettere qualcosa sotto i denti. Magari con una tazza di tè, che cosa ne dici?» mi propose, sempre più fremente d’entusiasmo.
Ma la zia le aveva detto che tutto l’intenso studio era stata una sua idea, e non mia?
Comunque sia, mi emozionai eccessivamente, alle parole “assaggiare la mia torta” e “tazza di tè”. Dio, penso fosse da sabato che non mettevo nulla sotto i denti che contenesse quantità elevate di saccarosio. Il mio organismo ne sentiva un enorme bisogno. Così, gentilmente, accettai l’offerta – di nuovo, dimostrazione che io non ero tipo che faceva molti complimenti.
Appena un minuto più tardi mi ero già accomodata allo stesso tavolo dove l’ultima volta avevo preso il tè insieme anche a mia zia. Ma adesso che lei non c’era, si respirava un’atmosfera decisamente più tranquilla. Almeno, questo valeva per me. La mia felicità raggiunse il picco massimo quando la signora Rush mi servì, su un piattino bianco da dessert, un pezzo di torta enorme e fumante. Di fianco avevo un tovagliolo di carta, sotto una piccola tovaglietta. Mi portò anche una capiente tazza di tè, che preparò anche per sé.
«Sono contentissima della tua compagnia» mi confessò la signora Rush, mentre metteva un cucchiaino di zucchero nella propria tazza e mescolava. «Con mio figlio sempre fuori di casa, il padre al lavoro e nessun animale domestico, la vita da casalinga può diventare noiosa e insoddisfacente. E invece guarda che brava ragazza che sei! Cucinare per te è davvero una gratificazione, guarda come ti stai gustando la mia torta!»
Parve sinceramente appagata del fatto che stessi divorando con voracità la torta, come se non avessi mai mangiato qualcosa di simile prima. In realtà, quella era la miglior torta di mele che avessi mai assaggiato. «È davvero buonissima» non feci fatica a dire, con la bocca mezza piena e le papille in fibrillazione.
Finché si parlava di torte e zucchero, non c’era nulla che poteva infastidirmi. Ripensai alla sera prima, quando avevo risposto male a Logan e, oltretutto, avevo insinuato che ci stesse provando con me. Ancora una volta, mi sentii idiota e in imbarazzo, nonostante la persona oggetto di quel pensiero non fosse in casa. La signora Rush però era così carina, che non potevo pensare di farmi giudicare male anche da lei.
Spazzai via il dolce in pochissimo tempo, e subito dopo presi a bere dalla mia grossa tazza di tè. Il liquido del primo sorso stava ancora scivolando giù per l’esofago lentamente, quando udii un telefono squillare.
La signora Rush, muovendo a destra e a sinistra i suoi fianchi abbondanti, saltellò verso il telefono e rispose. «Sì, pronto?» la sentii dire con la sua voce mielosa. «Oh, salve, signora Shelley! Di che cos’ha bisogno? Oh, certamente, no, no, si figuri, mi fa molto piacere aiutarla. Arrivo immediatamente
La donna mise giù la cornetta mentre io la osservavo di sottecchi.
«Keira cara, scusami tanto, non ti offendi se ti lascio per cinque minuti, vero? L’anziana signora Shelley ha bisogno di aiuto per portare un paio di borse giù dalle scale, siccome l’ascensore si è bloccato. Tu rimani pure qui e finisci il tuo tè, sarò di ritorno in men che non si dica.»
Io acconsentii. Vispa come suo solito, la signora Rush si diresse poi fuori dalla porta e sentii i suoi passi salire le scale, finché non fu troppo lontana.
Con tranquillità e per nulla a disagio, da sola in una casa pressoché sconosciuta, terminai di bere il mio tè caldo, sentendomi così del tutto ristorata dopo una giornata di studio. In seguito mi abbandonai allo schienale della sedia e, senza nulla da fare, mi guardai intorno. Si respirava nell’aria ancora il profumo di torta di mele, infatti questa era proprio in cucina, ancora tiepida, in bella mostra.
Pensai che un paio di porte più in là dovesse esserci il bagno. In attesa che la madre di Logan tornasse, così, decisi di andare in esplorazione a cercare la toilette.
Camminando lungo il corridoio, scelsi a caso una porta e la aprii, sperando di trovarvi il gabinetto. Invece, quando misi a fuoco la mobilia all’interno, capii che quello doveva essere l’habitat di Logan: poster di band non meglio identificate alle pareti, vestiti sparsi sul letto e per terra, grovigli di coperte giacenti sul letto. E una marea di libri sparsi ovunque.
Il mio cuore mancò un battito.
Libri?!” Una vocina nella mia mente gridò a squarciagola, e senza pensarci due volte mi ero precipitata all’interno della stanza, ignorando del tutto le violazioni della privacy.
Mio Dio, libri ovunque. Non ci credevo. Logan me l’aveva detto, ma avevo pensato, nell’impeto del momento, che fosse solo una scusa per provarci con me. Dovetti ricredermi, mentre curiosavo nella sua collezione, sfogliando qualcosa ogni tanto, ma sempre rimettendolo nella posizione dove l’avevo trovato.
La signora Rush sarebbe tornata da un momento all’altro, però. Dovevo affrettarmi ad uscire.
Eppure non ce la facevo: essere di nuovo in mezzo a tutti quei libri mi mancava. Incuriosita, cercai di sfilare un libro dal fondo di una pila posizionata orizzontalmente su uno scaffale. Avevo scelto il fondo perché la cima era così alta che non riuscivo ad arrivarci, e mentre tiravo il volume con forza, non mi accorsi della massa di fogli di carta che vi era nascosta sotto. A forza di tirare sotto il peso degli altri libri, quello che m’interessava si sfilò, ma la catasta di fogli sottostante mi cadde addosso.
Sussultai, nel vedere una pioggia di fogli bianchi volarmi sulla testa, e lasciai cadere il libro per terra.
Improvvisamente mi ritrovai a guardarmi intorno, in quella stanza già disordinata di per sé, in più adesso, sul pavimento, erano sparsi almeno un centinaio di fogli formato A4, tutti stampati a computer. Sentii la preoccupazione salire, e mi morsi un labbro. “Dannazione, questa non ci voleva”.
Mi chinai per raccogliere il tutto, accumulando i documenti tra le mani. Notai poi che, in basso ad ognuno, era annotato il numero di pagina. Questo fu un sollievo per me, e sperai di poter rimettere tutto come prima, precedendo il ritorno della padrona di casa.
Poco dopo avevo già concluso, fortunatamente, e per curiosità diedi un’occhiata alle prime pagine: non c’era titolo al lavoro, e nemmeno autore, ma in alto potei vedere a chiare lettere la scritta “Capitolo primo”. Mi bastò dare poi uno sguardo alle prime righe per capire che si trattava di un romanzo stampato. La formattazione era corretta e precisa, la punteggiatura al punto giusto, e tutto lasciava pensare all’aspetto e alla forma di un romanzo vero e proprio. Sì, non c’erano dubbi, Logan aveva stampato un romanzo su fogli di carta e l’aveva messo lì, da parte, sotto tutti quei libri.
Senza volerlo, mi venne in mente un’idea strana.
“Be’, questo manoscritto anonimo e senza titolo era lì, sotto tutti quei volumi, dimenticato, e probabilmente Logan nemmeno si ricorda che era lì. Mmm… pensandoci, zia Catherine potrebbe facilmente trovare un romanzo, in mezzo alla mia roba, ma…” Dio, che idee che mi venivano, certe volte! “Se si parla di un gruppo di fogli, allora è tutto diverso. Dei fogli sono infatti molto più facili da nascondere. E Logan quasi certamente non se ne accorgerà neanche, se spariscono! Quindi, perché non… prenderli in prestito?”
L’idea, dapprima così bizzarra, mano a mano cominciava a prendere forma, diventando cosa sempre più plausibile ad avverarsi. Finché alla fine, esasperata dalla mancanza dei miei libri, non decisi: sì, avrei preso in prestito quel romanzo stampato, tanto cosa c’era di male? Bastava solo che, una volta finito, glielo restituissi nuovamente di nascosto, no? Si sarebbe certamente presentata di nuovo l’occasione.
Udii dei passi appena fuori dall’appartamento. La signora Rush, sicuramente.
Ora però dove infilavo tutti quei fogli?
Mi guardai: indossavo una felpa nera, del mio colore preferito, e molto larga. Piegai i fogli tutti insieme, non senza un po’ di difficoltà, e li infilai tutti sotto, premuti tra il tessuto e il mio reggiseno. Me li aggiustai alla meno peggio, in modo che non fosse così palese che nascondevo qualcosa. Uscii dalla stanza appena in tempo prima di sentire il rumore della porta che si apriva. «Signora Rush?» la chiamai. «Scusi, mi potrebbe dire dove si trova il bagno?» mi inventai la scusa più veloce per giustificare il mio essere nel corridoio.
Silenzio.
«Che cosa?!» si sentì dall’altra parte una voce fortemente sorpresa.
Una voce maschile.
Trasalii all’istante quando vidi Logan fare d’un tratto capolino, ritrovandomelo davanti con una faccia che così sorpresa non gliel’avevo mai vista prima. Mi squadrò da capo a piedi come aveva fatto il sabato sera prima. «E tu che cazzo ci fai qui?»
La sua mancanza di cortesia mi aizzò non poco. Tuttavia, pensai che dovesse essere a causa della meraviglia. E forse anche un po’ per come ci eravamo lasciati la sera precedente. «Ehm… ero qui con tua madre. È andata un attimo a dare una mano all’anziana signora Shelley – è così che l’ha chiamata.»
Lui si grattò distrattamente il capo, confuso. «Oh.»
Non disse altro, per il resto. Tutto d’un colpo, era tornato taciturno. Capivo che doveva essere per la sera prima, e sebbene io di imbarazzo non ne provassi nemmeno un po’, potevo comunque percepire la tensione che aleggiava nell’aria adesso. Era palpabile e perfettamente comprensibile. Non tanto per quando avevo creduto che stesse tentando un approccio con me – forse quello era perdonabile e afferrabile come una battuta – ma per il comportamento che ultimamente dimostravo di avere. Non solo con lui, ma anche con Blake.
Mi resi conto dei danni che stavo provocando.
Oggi Logan poteva ignorarmi senza dire nulla, ma magari il giorno dopo sarebbe toccato al mio migliore amico che, stanco del mio perenne nervosismo, avrebbe potuto decidere di tagliare i rapporti con me.
Qualcosa doveva cambiare, finalmente l’avevo realizzato. E non doveva cambiare nel comportamento degli altri nei miei confronti, ma nel mio.
Intanto, però, mentre tornavo a sedermi a tavola davanti al mio piattino e alla tazza vuoti, non mi veniva in mente nulla che potessi dire. Delle scuse semplici sarebbero sembrate troppo tirate via.
Sentii Logan che maneggiava con qualcosa in camera sua. Per un attimo fui assalita dal panico di aver lasciato qualcosa di mio e di compromettente là dentro, ma erano preoccupazioni senza senso, lo sapevo.
Appoggiai i gomiti sulla superficie del tavolo, aspettando che un’illuminazione arrivasse, mentre io me ne stavo lì, completamente passiva.
No, non mi stavo impegnando molto.
Ormai avevo iniziato a sperare in un arrivo parsimonioso della signora Rush, che salvasse la situazione. Poi, senza preavviso, Logan iniziò a parlare. «Scusami, per ieri sera.»
Cosa? Era lui che si scusava? Per un attimo provai soddisfazione nel credere che fossi io ad aver subito un torto, ma sapevo che non era così. In gran parte la colpa era mia. «No, scusami tu, ho reagito male.»
Arrivò a mettersi seduto di fronte a me, sporgendosi in avanti. «Be’, ed io ho contribuito a farti aumentare il nervosismo» rispose, stavolta con una nota scherzosa nella voce, incurvando le labbra all’insù.
Sì, stavamo diventando ripetitivi. Sembravamo proprio due bambini dell’asilo che si chiedevano scusa sotto costrizione delle maestre. Così patetico. «Okay, finiamola con le scuse, va bene?»
Lui annuì. «Ah, e per la cronaca, io non stavo affatto…»
«Lo so» risposi fredda e ferma, pur di non sentire il termine della frase. «Lo avevo insinuato solo… così, tanto per dire. Non lo pensavo davvero.»
Ancora silenzio. Fissai le briciole nel mio piattino come se da un momento all’altro potessero dirmi qualcosa.
«Senti una cosa… mi stavo chiedendo, quindi, se io domattina o nei prossimi giorni dovessi per caso perdere di nuovo l’autobus…»
Logan scoppiò a ridere fragorosamente. «Ma certo. Ti porto io. Anzi, facciamo che domattina ti aspetto nel parcheggio. Così guadagni dieci minuti in più di sonno, se non devi affrettarti per prendere il bus.»
Mmm… nessuno era mai così spontaneamente gentile, con me. Tuttavia, gli fui grata. «Be’, questo non credo: zia Catherine esige che io mi alzi sempre e comunque alle sette meno un quarto. “Devi imparare ad essere mattutina, signorina!”, dice lei.»
Ancora una volta, rise, stavolta per l’imitazione che avevo fatto di zia Kate.
Ma guarda un po’, avevamo ricominciato a parlare. Che gran conquista.
«Dove hai detto che era, mia madre?» mi domandò poi Logan.
Stavo per rispondere, quando la porta si aprì nuovamente, con tempismo perfetto. La signora Rush richiuse poi dietro di sé, ansimante. «Keira, tesoro, scusami tanto, ma dopo aver caricato le borse in auto la signora Shilley non riusciva a farla partire!»
Scorsi Logan che assunse una smorfia di cui interpretai il significato: “Keira? Tesoro?!”
«Oh, bentornato, Logan, cucciolotto
Lui si diede una sberla sulla fronte, tremendamente in imbarazzo e chinando il capo. Si alzò di scatto. «Ciao mamma, io torno fuori.»
Io ridacchiai, divertita. Logan, scontento di come la madre aveva esordito una volta in casa, uscì nuovamente sbattendo la porta, ma avrei scommesso che sarebbe tornato non appena me ne fossi andata io. Be’, comunque non avevo fretta.
«Ah, che caratteraccio, il mio bambino» commentò la donna scuotendo la testa. «Mi pare di aver capito che avete molte lezioni in comune, dico bene Keira?»
Io annuii. Tuttavia, se mi avesse chiesto di dirle se era simpatico o meno, non avrei saputo cosa dire. A parte qualche recente conversazione, io e Logan non avevamo quasi mai interagito in quegli anni di liceo.
«Dimmi, vuoi un’altra fetta di torta, cara?»
Con la mano sinistra tastai la superficie della mia felpa. Giusto per ricordarmi che avevo ancora dei fogli, lì dentro. L’appetito che avevo perso bevendo la tazza di tè ritornò, e non feci fatica ad accettare, impaziente di mettere un altro pezzo di dolce sotto i denti.
«Oh, aspetta un momento, però» si fermò poi la signora Rush prima di consegnarmi la mia seconda portata. «Ora che ci penso, Catherine mi aveva raccomandato di non rimpinzarti di dolci! Me ne ero completamente dimenticata!»
Zia Catherine. Il mio odio nei suoi confronti saliva esponenzialmente.
Abbassai lo sguardo sul tavolo, delusa.
Credo che la signora Rush abbia provato compassione nei miei confronti, o forse era solo perché voleva vedere di nuovo la soddisfazione nei miei occhi mangiando ciò che cucinava. Infatti, ignorando ciò che aveva detto la matrona, mi mise il piattino davanti agli occhi. «Facciamo così, tesoro: questo sarà il nostro piccolo segreto. D’accordo?» mi disse in modo dolce e comprensivo.
Quanto adoravo quella donna.
Ringraziandola infinitamente, mi fiondai sulla mia seconda merenda del pomeriggio senza indugi e senza sensi di colpa per aver disobbedito.
 
Dopo aver finito di mangiare, la signora Rush mi raccomandò di tornare a studiare, perché era già molto tardi e, involontariamente, mi aveva trattenuta a farle compagnia più del previsto. Non appena varcai la soglia di casa, corsi a nascondere l’ammasso di fogli di carta in mezzo a uno dei miei quaderni di scuola, lisciando per bene le pagine che si erano accidentalmente spiegazzate.
Se stasera avessi acceso la luce dopo che la zia si fosse addormentata, ero certa che non se ne sarebbe accorta e avrei potuto leggere in pace.
“Ho riflettuto su una cosa, Lydia. Sapevo già che la fortuna non poteva essere dalla mia parte, ma non doveva farmi uno scherzo così: sono costretta a vivere con questa vipera che sembra sia stata reclutata da Alcatraz, quando appena al piano di sopra soggiorna quell’angelo della signora Rush. Già desidero ardentemente liberarmi di mia zia, in più con una donna così vicina a me, la mia voglia si intensifica. Perché il destino si prende gioco di me? Perché non ho una zia che mi ingrassa di torta di mele, anzi che una che mi impedisce persino di leggere, che tu sai è sempre stata la mia più grande passione? Perché devo sempre cercarmele da sola, le vie di fuga? Sai che sono pigra per natura. Comunque penso di aver trovato qualcosa che fa al caso mio. Mi servirà a non pensare a quanto mi manchi, Liddy”.
Com’ero contraddittoria. Ignoravo Lydia, poi le dedicavo i miei pensieri.
Ma non potevo fare a meno di pensare che la ragazza che mi aveva tradito e quella che aveva migliorato così tanto la qualità della mia vita negli anni fossero due entità pienamente diverse.
 

 
 
I deliri pensieri di Camelia:
Per quanto riguarda l’episodio accennato da Keira, quello di quando lei e il mio tesoro Blake avevano quindici anni e si erano quasi baciati, ho intenzione di metterlo per iscritto un po’ più nei dettagli, in un futuro flashback ;D si sa, andando avanti nei capitoli… eh sì, perché sono già arrivata a scrivere il tredicesimo, mie care!
Ma che ne pensate di questo capitolo? Secondo voi il mio amore Logan ci stava veramente provando con Keira o aveva ragione lei, dicendo che era troppo senza cervello popolare per badare a una come lei, così anonima, così senz’amici?
Ringrazio tantissimo per le 27 recensioni ricevute finora, per le 10 persone che hanno aggiunto la storia tra le preferite e per le 15 che l’hanno messa tra le seguite. Grazie mille ^^ Bene, detto ciò, vi lascerei in attesa del prossimo capitolo, e se volete lasciarmi una recensione, anche piccola piccola piccola, ne sarò felicissima :3
Cam

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