Fuoco nero di Vivien L (/viewuser.php?uid=96680)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: un nuovo amore arriva e rovescia tutto con un gesto della mano ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 1 *** Prologo: un nuovo amore arriva e rovescia tutto con un gesto della mano ***
Sì, nient'altro
che l'amore. E come scrive un poeta, tutto il resto per me sono foglie
morte.
-L'amore nuovo-
Prologo
Luglio 1799
La luce del sole filtrava
attraverso le spesse tende color vinaccia che ornavano le finestre. Un
gelo innaturale scese intorno a lui.
Padre Merrik, vicario di Chaplam -l'unica contea cattolica
d'Irlanda- rabbrividì; l'aria si fece
improvvisamente tesa, un rantolo roco scivolò dalle sue
labbra sottili.
Mrs. Aming, la vecchia
perpetua che puliva regolarmente la cappella, emise uno squittio
eccitato e con tre brevi falcate lo raggiunse, afferrandolo per la
casacca e pregandolo di non abbandonarla. La donna iniziò a
farneticare, pareva terrorizzata. Merrik sobbalzò.
Padre del cielo, questi
irlandesi sono tutti uguali! Sempre a cialtrare di fate e spettri.
Basta davvero poco, un’ombra in movimento, un rumore
inspiegabile, per spaventarli. Sono sempre agitati, non stanno mai
fermi, pensano solo ad azzuffarsi fra loro,
rifletté cupamente.
Ma Merrik era un uomo di chiesa, e quando la donna si
aggrappò a lui strattonandolo per il colletto della tunica
non poté continuare a ignorarla. Sospirò
spazientito, voltandosi verso di lei. Gli occhi della perpetua erano
enormi nel viso pallido: il vicario pensò che non aveva mai
visto tanto terrore aleggiare sul viso di un essere umano. Una goccia
di sudore gli solcò la fronte quando Mrs Aming
iniziò a farneticare qualcosa sul diavolo che stava operando
in quel luogo sacro.
Merrik sperò che la razionalità gli venisse in
soccorso. Non fu così. Quando si voltò, il suo
sguardo fendette un'antica croce d'argento riccamente ornata. Era molto
diversa dalle croci cristiane, perché i bracci avevano la
stessa lunghezza e al centro della decorazione era incastonata
un'enorme ametista che scintillava in modo innaturale.
«Il Diavolo
è fra noi!» gemette la donna, e quando Merrik fece
per tranquillizzarla questa scosse il capo, raccolse una mano del prete
fra le sue e la avvicinò alla croce.
Merrik esitò, sbuffò sommessamente e premette le
dita sul simulacro. Un bruciore intenso gli lambì la pelle.
Balzò indietro, stupefatto, cercando di spiegarsi
quell'insolito fenomeno. Fu persino sul punto di credere che
sì, il diavolo si era davvero insinuato nella casa di Dio,
ma una voce che pareva lontana, roca e familiare, lo riportò
indietro nel tempo.
Suo
padre John era un uomo affettuoso, aveva mani gentili e un sorriso mite
gli aleggiava spesso sulle labbra. Merrik aveva dodici anni, era ancora
un bambino, gli piaceva sedere sulle ginocchia dell'adorato genitore e
lasciare che le sue parole lo cullassero nel limbo dell'incoscienza.
John lo aveva destinato alla carriera ecclesiastica, e Merrik non aveva
intenzione di ribellarsi: era convinto che Dio sarebbe stato felice di
accoglierlo nella Sua cerchia di servitori. Da tempo Merrik si era
accorto che il padre non godeva di buona salute: aveva smesso di
lavorare, passava intere giornate immerso nei libri e, eccezionalmente,
lo accompagnava in paese. Il ragazzo era convinto che il padre
soffrisse per la perdita della moglie, morta di tifo alcuni mesi prima.
Merrik cercava di riaffacciarlo alla vita, inutilmente.
Quella sera, l'atmosfera
nella sala da tè era particolarmente tesa. John lo cullava
dolcemente fra le braccia, attendendo che il sonno lo raggiungesse.
Quando non riuscì più a trattenersi, l'uomo
sbottò:
«Povero Spencer,
non invidio il suo triste destino»
«Che cosa volete
dire, papà?» chiese Merrik, incuriosito.
John sospirò.
«Non ti ho mai
raccontato questa storia, figliolo, perché ho sempre cercato
di proteggerti. Pensavo che vivere nell'ignoranza ti avrebbe reso
immune alle brutture del mondo. Tuttavia, sento che la mia fine sta per
arrivare ed è giusto che tu sappia che una
terribile maledizione incombe su questa terra» prese fiato
«Io sono inglese, e anche tu lo sei, ma l'Irlanda mi
è cara quanto la mia adorata Londra, e vederla dilaniata da
epidemie e povertà mi rende immensamente triste»
«Non
capisco» borbottò Merrik, turbato.
Suo padre sorrise
«Certo che no» sussurrò «Vedi,
Merrik, quando i Connor si impossessarono di queste terre, quasi
settecento anni or sono, dovettero pagare un prezzo molto alto. Ogni
primogenito avrebbe dovuto conquistare il cuore di una popolana di
origini irlandesi, sposarla e renderla padrona della contea. Solo
così gli irlandesi sarebbero stati ripagati della
defraudazione dei loro territori. Il geis,
così lo chiamano, è la punizione divina che
spetta a chi non riesce a conquistare il cuore della prescelta. Spencer
ha fallito, mio caro figliolo. La donna che amava, una certa Eveline,
è fuggita molti anni fa con un altro uomo. Il Barone ha
comunque deciso di sposarsi, ma detesta sua moglie e quasi non tollera
la presenza del figlio. Vive nel ricordo della sua adorata Eveline. E
la miseria si è abbattuta su Chaplam»
Merrik
rabbrividì, stringendosi al petto del padre e guardandolo
con occhi pieni di lacrime. Era un bambino ingenuo e fiducioso, e non
dubitò mai delle parole di John.
«Che cosa
possiamo fare, papà?»
L'uomo sospirò,
accarezzandogli i folti capelli castani «Nulla, mio caro.
Assolutamente nulla. Ma mi devi promettere una cosa, Merrik: quando
sarai vicario, potresti assistere a un fenomeno un po' insolito. Se la
croce celtica che custodiamo nella cappella s'illumina, dovrai
chiamare il figlio del Barone e riferirgli quanto ti ho
appena raccontato» il suo sguardo si perse nel vuoto; poi,
tornò a concentrarsi sul candido viso del figlio
«Promettimi che lo farai, Merrik. Spencer ha fallito, ma suo
figlio potrebbe riuscire nell'impresa, e finalmente la
prosperità tornerà a regnare in queste terre
benedette da Dio»
La
voce stridula della perpetua lo riscosse. Si guardò con
occhi allucinati il palmo arrossato della mano, per poi tornare a
concentrarsi sulla croce, che emetteva un luccichio sinistro.
Nella cappella si respirava un'aria insolita e minacciosa,
rabbrividì. Quando lo sfavillio della croce
aumentò, Merrik prese una decisione.
Un'ora dopo,
bussò alla porta della casa del Padrone. Una donna
dall'espressione istupidita lo accolse, sussultando sorpresa quando il
prete sibilò che doveva urgentemente parlare con il Barone.
La sguattera lo condusse di fronte all'ufficio di Richard Connor, sesto
duca di Chaplam. Richard aveva gli stessi occhi del padre; erano gelidi
come l'inverno, azzurri come i fazzoletti di un cielo estivo. I capelli
erano neri, identici a quelli della defunta madre, e gli sferzavano la
fronte in morbide ciocche ondulate.
Quando padre Merrik varcò la soglia dello studio, Richard
non si alzò.
Non ha rispetto neanche per un
uomo di chiesa, quel demonio!, pensò Merrik, figurarsi se riuscirà
a conquistare il cuore della prescelta.
Richard era identico a suo padre: un uomo freddo e crudele con la fama
di spietato libertino. Merrik dubitava che qualcuno avrebbe potuto
salvarlo dal baratro in cui era sprofondato.
«Fatevi avanti,
padre» mormorò svogliatamente il Barone. Merrik
obbedì, trascinandosi dietro la pesante croce d'argento. Per
evitare di bruciarsi le mani l'aveva avvolta in un sacco di juta.
Posò la croce sull'imponente scrivania di mogano, guardando
con occhi inquieti il volto del suo giovane padrone.
«Dunque?»
insistette Richard, annoiato, aspirando una boccata di fumo e
versandosi un'altra dose di liquore in una delicata coppa di cristallo.
Merrik sospirò,
scoprì la croce e disse «Vorrei raccontarvi una
storia, Richard»
«Non
capisco a che pro assecondare questa follia»
berciò Richard, facendosi strada nell'oscurità.
Merrik lo ignorò. Continuò ad
avanzare, lo sguardo fisso sull'inconsueto sfavillio della croce che
reggeva strettamente fra le mani.
Pochi metri lo separavano da una casupola di paglia che giaceva ai
piedi di una collina che gli abitanti del luogo chiamavano Colle del diavolo.
Dicevano che ci viveva una strega, una donna dall'aspetto spettrale e
dagli occhi vitrei come gelide palle di vetro.
Si chiamava Mary, non era sposata, non aveva nessuno che si prendesse
cura di lei. In paese era nota per il suo carattere schivo e taciturno.
Molti erano convinti che la vecchia fosse posseduta dal demonio.
Merrik sperò che non fosse lei la prescelta.
Sangue di Dio, quella donna aveva settant'anni! Come avrebbe potuto
ricambiare l'amore del Barone?
Scosse il capo, irritato, e quando si fermò davanti alla
baracca la croce iniziò a risplendere di una luce talmente
intensa che Merrik dovette distogliere lo sguardo per evitare di
rimanerne accecato.
Il Barone continuava a squadrarlo con espressione gelida. Richard lo
aveva seguito solo per dimostrare che il geis era
un'assurdità, una di quelle sciocche leggende a cui nessun
uomo sano di mente avrebbe creduto.
Merrik bussò
alla porta della casupola.
Passò un minuto, ne passò un altro e un altro
ancora; poi, una vecchia dall'aria smunta andò ad aprirgli,
guardandolo con occhi assenti e sconfitti. Aveva i capelli raccolti
sulla sommità del capo, indossava abiti impoveriti
dall'usura, stringeva fra le braccia un fagotto di coperte che si
dimenava freneticamente. Il pianto di un bambino riempì
l'aria.
«Che cosa
volete?» sibilò la donna, ma Merrik non le
prestava più alcuna attenzione.
Il suo sguardo era ipnotizzato dagli occhi più belli che
avesse mai visto. Erano grandi, azzurri come l'oceano, incastonati in
un ovale perfetto, la pelle di porcellana, le ciglia nere come la notte
che le sferzavano le guance arrossate dal freddo. La bambina
gorgogliò, doveva avere al massimo sei mesi. La croce
s'illuminò, il suo calore penetrò la stoffa
dell'involucro e Merrik sussultò, lasciandola rotolare sul
pavimento.
«È
lei» sussurrò incredulo, guardando la bambina con
occhi nuovi e consapevoli del destino che l'attendeva
«È lei la donna di cui
v'innamorerete»
Note storiche:
Nel 1171 il re Enrico II d'Inghilterra sbarcò a Waterford e
occupò le terre irlandesi divenendo il primo sovrano
d'Inghilterra a mettere piede in Irlanda. L'isola d'Irlanda
cominciò a cadere interamente in possesso delle forze
inglesi a partire dal 1500. Le infrastrutture antiche gaeliche caddero
definitivamente nel XVII secolo, come risultato di vari insediamenti di
forti comunità inglesi e scozzesi su terre strappate ai
cattolici irlandesi e affidate ai britannici. Intorno al XIV secolo la
popolazione anglo-normanna era integrata con quella nativa irlandese
tanto che la corona, nel tentativo di riprendere il controllo,
cercò di stabilire delle differenziazioni fra nativi e
colonizzatori. Il risultato furono gli statuti di Kilkenny,
che introdussero una serie di discriminazioni: dal divieto di contrarre
matrimoni "misti" al divieto di usare nomi, lingua, abbigliamento e
usanze irlandesi. Nonostante ciò, gli irlandesi sono sempre
rimasti molto legati alle loro usanze, tanto che gli scontri
d'identità fra inglesi e irlandesi si sono perpetrati per
secoli. Il XVII secolo fu comunque forse il più travagliato
della storia d'Irlanda. Due periodi di guerra civile (1641-53 e
1689-91) causarono grosse perdite di vite umane e si conclusero con
l'espropriazione dei beni della classe dei proprietari terrieri
irlandesi e la loro sottomissione alle discriminatorie Leggi penali irlandesi.
Intorno al 1790 iniziarono le prime ribellioni da parte degli irlandesi
per riprendere possesso dei loro territori.
Nella
mia storia, la famiglia Connor appartiene a una lunga dinastia di
sudditi inglesi che nel 1.200 circa si stabilì in Irlanda
conquistando la contea di Chaplam (il nome è di pura
invenzione). La contea e i possedimenti vengono tramandati di
generazione in generazione: in L'amore
perenne ho iniziato col raccontare le vicende di Spencer
Connor, padre di Richard; in Fuoco
nero proseguirò col narrare le
avventure del figlio.
(Da
Wikipedia)
Nda:
Come promesso, sono tornata con lo spin-off di L'amore perenne:
chi lo ha seguito ha il vantaggio di conoscere in anticipo le vicende
di Eveline e Spencer, ma non è necessario averlo letto per
potersi avventurare in questa storia. Fuoco nero
è tratto da un libro intitolato Spell of love, di
Megan McKinney. Capisco che il prologo potrebbe risultare un po'
noioso, ma era necessario per introdurre i principali personaggi.
Ovviamente spero che mi facciate sapere cosa ne pensate, le recensioni
sono sempre bene accette e... beh, penso di aver detto tutto. A presto,
Elisa.
Volete vedere il
video-trailer di Fuoco nero? Cliccate sul banner:
Volete
tenervi aggiornati sulle mie storie, leggere spoiler, anticipazioni e
curiosità? Io e Matisse, una validissima autrice di Efp che,
tra parentesi, consiglio a tutti voi, abbiamo creato una pagina
facebook in comune in cui troverete tutto questo. Se vi va fateci un
salto, sarete i benvenuti! :)
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Capitolo 2 *** Capitolo 1 ***
Capitolo 1
Tutti e due sputiamo tutti e due
su ciò che
abbiamo amato
su ciò che
abbiamo amato tutti e due.
Parlo al passato; ridete!,
se vi va, al suono delle
mie parole.
Sputiamo sull'amore
sputiamo se vuoi.
-Valzer di Siviglia-
Tredici
anni dopo
«Io dico che è uno stregone»
Un silenzio attonito riempì l'aria.
Tentando di mascherare il suo imbarazzo, Magnus si esibì in
una risata di scherno.
Il sole filtrava attraverso le spesse nuvole che slittavano sull'arco
celeste. Il vento frustrava le chiome degli alberi: si contorcevano,
ondeggiando e lamentandosi coi loro deboli fruscii. La testa di uno
scoiattolo spuntò da un basso cespuglio di more selvatiche,
restituendomi uno sguardo sospettoso. Il freddo pungente di fine
febbraio mi penetrò nelle ossa, facendomi rabbrividire.
Magnus se ne accorse.
Si accigliò, aggrottò la fronte e, esitando
imbarazzato, si sfilò il pastrano e me lo posò
sulle spalle. Arrossii.
I miei compagni di gioco saltellavano impazienti intorno a me,
guardandomi con occhi curiosi.
«Mia nonna non vuole che faccia queste cose!»
gridai serrando le mani a pugno e nascondendole dietro la schiena.
Magnus sghignazzò, una smorfia sarcastica gli
piegò le labbra.
Quando voleva, sapeva essere un vero demonio. Ma le sue labbra erano
così rosee, incredibilmente morbide e invitanti.
Voluttuose. Una volta gliele avevo toccate con la punta delle
dita; lui si era scostato, disgustato, balbettando che ero una
svergognata e che sarei finita all'inferno per questo.
«Sei una codarda, Annabelle
senza cognome» sibilò inviperito.
Sentii un rossore imbarazzato inondarmi le guance. Gli abitanti del
villaggio mi disprezzavano: dicevano che ero la figlia del peccato, che
nessuno avrebbe dovuto avvicinarmi, che sarei dovuta marcire
all'inferno, io e la lurida sgualdrina che mi aveva messa al mondo. La
reputazione di mia madre mi avrebbe perseguitata per il resto dei miei
giorni. Quella sporca
puttana, la chiamavano, e io non avevo il coraggio di
difendermi dai loro insulti. Sapevo che erano veri.
Ma Magnus... Magnus era l'unico che mi trattava come una persona
normale e non come la disgraziata che ero; il pensiero che anche lui
potesse sentirsi disgustato da me...
Un moto d'indignazione mi fece tremare, strinsi i denti: se la nonna fosse qui gliela
farebbe pagare, pensai incollerita lanciandogli uno
sguardo torvo. In paese correva voce che Mary fosse una strega, ma io
sapevo che erano tutte fandonie. Nonna Mary era la persona
più dolce, saggia e altruista di questa terra. La dedizione
con cui si prendeva cura di me, l'affetto che mi riservava, la dolcezza
con cui mi diceva che no, non ero una derelitta, ero una bambina
speciale, e le porte di un meraviglioso futuro si sarebbero spalancate
davanti ai miei occhi... non ero nulla senza di lei.
Mary era la madre che non avevo mai avuto. Era il mio oggi e il mio
domani, il mio tutto. Era le mie radici, il mio unico legame di sangue.
Si era sempre fatta carico dei miei problemi, aveva guarito le mie
ferite, asciugato le mie lacrime, non mi aveva mai fatto mancare nulla.
A parte... beh, a parte un padre. E una madre. Una vera famiglia, dei
genitori. Quelli non ce li avevo mai avuti. Nonna diceva che mamma e
papà si amavano molto ma che erano morti quando ero troppo
piccola per capire. Per questo motivo non serbavo alcun ricordo di
loro. Gli abitanti del villaggio conoscevano una storia
diversa: si bisbigliava che mia madre fosse una cortigiana, una donna
impudica e corrotta, e che mio padre l’avesse messa incinta
abbandonandola al suo triste destino.
Per questo Magnus -e con lui tutti gli altri- aveva preso l'abitudine
di chiamarmi Annabelle
senza cognome. Io non avevo un cognome e nessuno voleva
avere a che fare con me, neanche i figli dei contadini e delle
sguattere del maniero. Persino il Barone faceva finta che non
esistessi. Le poche volte che l'avevo incontrato, nei suoi occhi
vibrava un tale odio da costringermi a indietreggiare, terrorizzata.
Una volta l'avevo sentito pronunciare il mio nome. Annabelle, aveva
detto, e la sua voce era così sprezzante, come se detestasse
il solo pensiero di me, come se contaminassi l'aria che
respirava.
Richard Connor aveva trentatrè anni ed era il padrone della
contea di Chaplam. Era alto e scuro; i suoi capelli erano neri come la
notte, gli occhi azzurri brillavano di un'intelligenza inquieta e
calcolatrice. Aveva l'ossatura di un gigante, le spalle larghe, il
petto possente, la pelle diafana -quasi trasparente-, lineamenti
algidi, aristocratici, ciocche corvine che gli sferzavano la fronte
aggrottata in un'espressione impenetrabile. La gente pensava che il
Barone fosse posseduto dal demonio: le puttane e il gioco d'azzardo
erano il suo pane quotidiano.
«Io so cosa fare»
Magnus mi prese per i capelli, facendomi contorcere dal dolore. Mi
voltai a guardarlo infuriata, e lui sorrise. Quel sorriso mi avrebbe
fatto perdonare qualsiasi sua malefatta.
«Belle è l'unica femmina del gruppo»
continuò sprezzante «E, in quanto tale, se il
Barone la trova nella sua stanza non le farà nulla di
male»
«Mi ucciderà» piagnucolai
dibattendomi, tentando di sfuggire alla sua presa. Odiavo la sua
prepotenza. Quando eravamo soli mi trattava come una fragile bambola di
porcellana. Era delicato, quasi adorante. Ma quando era in compagnia
dei suoi amici indossava la maschera di ragazzaccio collerico e
ignorante, e io ero costretta a tollerare i suoi sconcertanti sbalzi
d'umore.
Magnus scosse il capo, alzò gli occhi al cielo e il suo viso
si tese in un'espressione stizzita.
Voleva dimostrare che Connor era uno stregone, un figlio del demonio.
Incoraggiato dai suoi compagni di malefatte, pretendeva che
m'intrufolassi nella camera da letto del Barone e che gli rubassi
alcune ciocche di capelli. Solo così, diceva, avrebbe potuto
provare che Richard Connor era un'anima malvagia e che sarebbe presto
marcito all'inferno. Io non credevo a quelle fandonie. Il Barone era
soltanto un uomo dal carattere altero e schivo, una creatura solitaria,
nulla più. Poteva anche non essere una brava persona, ma
questo non significava che il diavolo si fosse impossessato di lui.
Il diavolo, riflettei cupamente, si nutre di queste sciocche credenze.
Opera il male convincendo i suoi servi di fare del bene. Distorce i
concetti di giusto e sbagliato. Il diavolo sente gracidare il
dolore del mondo, e se ne nutre, come una linfa
vitale e corroborante.
«Se non vai non ti sarò più
amico».
Incrociò le braccia al petto, le labbra tese in un sorriso
testardo. Spalancai gli occhi, scioccata. Magnus sghignazzò,
conscio di aver centrato il bersaglio.
Scacco matto, Magn,
avrei voluto urlargli, inviperita. Lui era il mio unico amico, l'unica
persona cui cui potevo giocare e confidarmi, coltivando i miei sogni e
le mie speranze per il futuro, immaginando i miei genitori, i loro
visi, la loro vita, il loro amore. Soltanto Magnus sembrava capirmi.
Soltanto lui riusciva a farmi sorridere. Il pensiero di perderlo, di
vederlo allontanarsi da me mi faceva piombare in uno stato di profonda
angoscia.
Mi riscossi, raddrizzando la schiena e lanciandogli uno sguardo
omicida, tentando di non fargli capire quanto le sue parole mi avessero
turbata.
«Come vuoi» borbottai con voce tremante.
Mi sfilai un nastro color vinaccia dai capelli e lo gettai ai suoi
piedi «Mi introdurrò nella sua stanza. Se non
dovessi tornare, porta questo alla nonna e dille che le ho voluto tanto
bene»
Una risata divertita abbandonò le sue labbra socchiuse.
Era gongolante: la mia disfatta lo aveva reso più spavaldo
che mai «Non sarà così terribile,
Belle! Connor non ti ucciderà»
«Invece sì» sillabai.
«Vai, vai!» presero a gridare gli altri
bambini e, incoraggiata dalle loro urla, iniziai a correre verso il
ripido pendio del castello. I miei piedi nudi sfiorarono i fazzoletti
d'erba selvatica. Li guardai: erano sporchi e raggrinziti dal freddo.
Anche il mio abito era sudicio, le maniche sgualcite, le gonne
consumate.
Alzai le spalle, cacciai un sospiro sommesso e continuai a correre.
Entrare nel castello si rivelò un'impresa più
facile del previsto. Nessuno sembrò accorgersi di me, i
servi parevano tutti molto impegnati nelle loro faccende quotidiane.
Persino la governante, una certa Mary, sembrò non notare la
mia presenza, impegnata com'era a scrutare con occhi malinconici il
ritratto di un uomo che non conoscevo. Ipotizzai che fosse il
precedente Barone di Chaplam: aveva folti capelli biondi che gli
sferzavano la fronte in morbide ciocche ondulate, gli erano occhi
gelidi, le labbra stette in una smorfia infelice.
M'introdussi nella cucina del maniero, sentii una serva mormorare che
il Barone non sarebbe rientrato prima del giorno dopo e sospirai di
sollievo.
Rischiai di perdermi un paio di volte: il castello era enorme, aveva
moltissime stanze e infiniti corridoi che non sembravano portare da
nessuna parte.
Mi piacerebbe vivere in
un posto del genere, pensai con occhi sognanti. Essere
ricca, bellissima e amata, mangiare tartine al salmone e pasticci di
carne, indossare abiti costosi e sventolarmi il ventaglio davanti al
viso con fare civettuolo... era una prospettiva invitante,
sì.
All'improvviso raggiunsi la stanza del padrone. Un moto di paura mi
assalì.
Strinsi i pugni, determinata, ignorando il brivido d'inquietudine che
mi percorse tutta quando varcai l'uscio della camera.
L'interno, con i pannelli di legno scuro e la moquette verde giada, era
molto elegante. Una lunga panca imbottita, ricoperta di velluto, girava
intorno a un immenso letto a baldacchino; dalla parte opposta c'era un
divano, strategicamente sistemato davanti a uno scrittoio.
Ai lati del letto intravidi due poltrone di pelle: una era vecchia e
usurata dal tempo; l'altra sembrava talmente nuova che dubitai fosse
mai stata usata.
E all'improvviso lo vidi, addossato alla parete, largo, imponente,
minaccioso e austero: uno specchio impreziosito da intarsi dorati che
s'intrecciavano in fantasiosi ghirigori. La toeletta del Signore era
ingombra di ninnoli: un portachiavi, un fermacravatte d'argento, un
pennello da barba, una ciotola di legno e una spazzola di ceramica. Fra
i nodi del pettine s'incastravano ciocche di peli neri e leggermente
arricciati. Sorrisi trionfante, avvicinandomi e strappandone alcuni
fili, nascondendo le braccia dietro la schiena.
In quel momento accadde. La porta della stanza si socchiuse. Sentii una
voce cupa risuonare nell'aria. Il calore defluì
dal mio viso.
Il Barone. Qui. A Chaplam. Nel suo
castello, nel suo
corridoio, che camminava sul suo
pavimento, che parlava con le sue
cameriere, che varcava la soglia della sua camera da
letto. Proprio dove non avrebbe dovuto essere. Proprio dove io non avrei dovuto
essere.
Imprecai silenziosamente, fuggii verso l'anta del guardaroba e mi
nascosi dentro l'armadio. Lo vidi entrare, guardarsi intorno con aria
circospetta, le labbra piegate in una smorfia inquieta. Trattenni il
fiato, sperando che non si accorgesse di me. Appena si fosse
sufficientemente distratto, me la sarei data a gambe.
Quando lo vidi sedere sul letto e tentare di sfilarsi gli stivali,
borbottando a mezza voce, pensai che Richard Connor non somigliasse
affatto al figlio del demonio. Era tremendamente buffo. La risatina che
mi abbandonò le labbra fu la mia condanna. L'uomo
drizzò le orecchie, allarmato. Mi morsi il labbro inferiore
con tanta forza che un piccolo gemito risuonò nell'aria, e i
suoi occhi si puntarono sull'anta socchiusa dell'armadio.
Aggrottò la fronte, perplesso, e poi si alzò,
incamminandosi verso di me. Mai come in quel momento pensai che, se il
Barone mi avesse scoperta, sarei sicuramente morta. Mi avrebbe fatta
impiccare o, peggio ancora, mi avrebbe sbattuta in uno dei suoi
terribili sotterranei. Correva voce che il padre di Richard ci avesse
rinchiuso il fratello pazzo e completamente fuori controllo, e che il
fantasma di Anthony Connor vagasse fra quelle prigioni come un'anima in
pena...
Richard aprì l'anta dell'armadio, e i suoi occhi
incontrarono i miei.
Ecco il secondo capitolo.
Un grazie di cuore a jakefan
per averlo betato e per avermi bacchettata quando era necessario :)
Grazie davvero, J! Ringrazio anche tutte le persone che hanno inserito
la storia fra i preferiti, seguiti e ricordati: aumentate ogni giorno
di più, e questo mi fa molto piacere! *___* Grazie ai 4
lettori che hanno commentato lo scorso capitolo, sono stata felice di
sapere che il prologo vi è piaciuto e che siete disposti a
seguire la mia storia. Alla prossima, Elisa.
Quasi dimenticavo! Mando un bacio enorme alla mia cara mogliA,
che come al solito è troppo indulgente con me, nonostante i
miei difetti e le mie dimenticanze! Ti adoro, Vale! *__*
Volete ricevere spoiler,
anticipazioni e curiosità sulle mie storie? Volete sapere
che aspetto hanno Annabelle e Richard, stare al passo con gli
aggiornamenti, sapere a che punto sono con la stesura dei capitoli? Io
e Matisse abbiamo creato questa paginetta in comune:
Volete
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Capitolo 3 *** Capitolo 2 ***
Capitolo 2
L'amore, essendo l'esperienza sconvolgente del nulla, dimostra di
esistere solo se muore e dunque deve sparire, annullarsi, per
testimoniare di esserci davvero stato.
-L'amore nuovo-
I
suoi occhi fiammeggianti di furia m'inchiodarono sul posto.
Una ciocca di capelli corvini, così simili ai miei, gli
solcava la fronte, le labbra strette in una smorfia sprezzante, le
narici frementi d'indignazione. Un moto di paura mi
sopraffò. Non riuscivo a muovermi, ero paralizzata, la mente
che esplorava una vasta gamma di conseguenze provocate dal mio folle,
insensato gesto. Maledii la mia incoscienza: com'ero potuta essere
così avventata da intrufolarmi negli appartamenti del
Barone? Con che coraggio avevo frugato fra le sue cose, violando la sua
intimità, impicciandomi di affari che non mi riguardavano?
Tutto per una stupida scommessa, tutto perché non avevo il
coraggio di contrariare il mio migliore amico, l'unica persona che mi
era vicina, che sembrava capirmi e apprezzarmi per ciò che
ero. Imprecai silenziosamente, stringendo le mani a pugno, tentando di
nascondere il ciuffo di capelli di cui mi ero appropriata. Per un
attimo pensai di lasciarlo andare, di lasciarlo cadere sul pavimento,
ma neanche l'inquietante presenza del Barone riuscì a
scacciare dai miei pensieri l'immagine del volto deluso di Magnus,
della sua espressione contrariata, delle prese in giro di cui sarei
stata vittima.
Richard mi afferrò per le spalle, scuotendomi come una
bambola di pezza. Mi costrinse a barcollare in avanti, ignorando il mio
gemito terrorizzato. Il sudore iniziò a bagnarmi
la fronte, le mani tremanti si accostarono alle sue, implorandolo di
lasciarmi andare.
«Posso sapere che cosa ci fai qui, ragazzina?» la
sua voce era cupa, ombrosa. Rabbrividii, sentendomi così
piccola in confronto a lui, così insignificante. Era una
sensazione che conoscevo bene: Annabelle
senza cognome non era degna di rispetto, di comprensione,
di considerazione. Nessuno voleva avere a che fare con me, la figlia di
una sgualdrina, una bastarda, rifiutata dai suoi genitori, dalla vita,
dallo stesso destino. Ma il Barone riusciva a farmi sentire ancora
più misera degli sguardi sprezzanti dei contadini, dei
mormorii indignati che mi seguivano quando mi avventuravo in paese, dei
risolini affettati dei figli delle sguattere.
«Io... non stavo rubando, lo giuro» presi fiato
«Lo giuro, non...»
Alzò un sopracciglio, squadrandomi con aria indagatrice.
«No?» ghignò «Non ricordavo di
averti dato il permesso d'intrufolarti nelle mie
stanze» mi lanciò un'occhiata intensa.
Nella profondità dei suoi occhi azzurri scorsi una scintilla
di qualcosa che non seppi decifrare: rabbia, paura, indignazione?
Guardò i miei piedi nudi, laceri e sporchi, salendo sul mio
abito sgualcito, macchiato d'erba e fuliggine, sulle mie mani ruvide,
piene di calli e duroni, sullo stretto scollo del corpetto rovinato da
anni di rammendi e cuciture.
Aggrottò la fronte, perplesso, e un silenzio agitato scese
su di noi. Le sue dita indugiarono sulle mie, avvolgendole in una presa
ferrea. Il calore della sua pelle mi fece fremere; avvampai, smarrita,
tentando di arretrare, di non lasciarmi sopraffare dalla prepotente
dolcezza del suo profumo, che sapeva di menta e tabacco e aria pulita.
Una fragranza nuova, inaspettata e inebriante. Ero ipnotizzata dalla
durezza del suo sguardo, dalla forza delle sue braccia che mi
stringevano a sé, dalla determinazione che modellava i suoi
lineamenti. I suoi occhi scesero sulla mia mano sinistra, quella che
avevo nascosto dietro la schiena.
Quella in cui stringevo il ciuffo di capelli che gli avevo
rubato.
Mi divincolai, inorridita, e lui me lo permise. Arretrai, sperando che
la mia riluttanza lo annoiasse, convincendolo a lasciarmi andare. Il
Barone era noto per i suoi scatti di rabbia, per il suo carattere
ostinato e irremovibile. Nei confronti di tutti tranne che di se
stesso, considerando le voci che circolavano sul suo conto: era un
dissoluto, proprietario di numerose case di gioco, guardava gli altri
dall'alto in basso, testardemente convinto di essere l'uomo
più illuminato d'Irlanda.
Si diceva che, in uno dei suoi numerosi eccessi d'ira, avesse ucciso la
prima moglie, tale Scarlett Patchett, e con lei il figlio che portava
in grembo. Non sapevo se credere a queste voci: nonostante tutto, non
riuscivo a immaginare Richard Connor nei panni di un assassino.
«Cos'hai lì?» indicando con un
cenno del capo la mano che tenevo nascosta dietro la schiena. La sua
voce mi colse di sorpresa, sobbalzai. Le mie guance divennero
scarlatte. Maledii ancora una volta la mia arroganza: come avevo potuto
essere così sciocca da...
«Sto parlando con te, maledizione!» i
suoi occhi, adesso, erano socchiusi in un'espressione irata. Un brivido
gelido mi scosse tutta.
«Non è nulla. Io non ho...»
«Voglio sapere perché sei qui»
ringhiò. Un lampo d'odio illuminò il suo sguardo.
Non riuscii a spiegarmi il perché di tanto fervore; la
consapevolezza che quell'uomo bello e irraggiungibile mi detestasse mi
causò una fitta di disappunto allo stomaco.
«Non volevo rubare, ve lo giuro»
«Signore» mi corresse con voce sferzante,
corrosa da rabbia e risentimento. Spalancai gli occhi.
«Cosa...»
«Sono il tuo Signore, esigo rispetto e considerazione. Tua
nonna non ti ha insegnato l'educazione, bambina? Non ti ha detto come
rivolgerti ai tuoi superiori?»
Cercai di trattenere la rabbia nascondendomi dietro una maschera di
affettata compostezza.
«Non stavo rubando, Signore»
il mio tono questa volta era serio, rispettoso, talmente
compìto che il Barone intuì l'ironia che
trasudava dalle mie parole. Un moto di irritazione gli fece tendere la
mascella.
«Fammi vedere cosa nascondi»
ordinò.
Scossi il capo, risoluta «Io... vi prego. Signore, giuro che
non stavo rubando. Non ho fatto nulla di male. Lasciatemi andare
e...»
La sua risata sferzò l'aria, uno strano scintillio gli
oscurò il volto «Che io sia dannato se ti
permetterò di uscire da questa casa prima di sapere il
motivo per cui sei qui» sbottò.
Mosse un passo in avanti, ignorando il mio debole ritrarmi. Sentii la
schiena addossarsi alle gelide pareti della camera e rabbrividii.
Iniziai persino a pensare che il Barone mi avrebbe uccisa,
perché l'odio che sfigurava la sua espressione era tanto
incomprensibile quanto terrificante.
«Dimmi cosa nascondi dietro la schiena»
sillabò.
Scossi il capo, confusa, decisa a non rivelare il motivo per cui mi ero
intrufolata nel maniero, conscia che non sarei stata l'unica a pagarne
le conseguenze: Magnus si fidava di me, mi aveva accolta nella sua
cerchia di amici e io non potevo tradirlo. Non lo avrei fatto.
Il mio diniego fece infuriare Connor.
Un sibilo roco abbandonò le sue labbra. Mi
afferrò per le spalle, scuotendomi leggermente, ma io non
cedetti. Scalciai, mi dibattei, urlai persino, lo colpii sul petto,
ignorando il suo profumo che mi penetrava le narici, il rassicurante
calore della sua pelle, la sua forza, la prepotenza con cui mi
trascinò sul baldacchino e m'imprigionò i fianchi
fra le sue grandi mani, immobilizzandomi.
Un singhiozzo attonito esplose nell'aria. M'impietrii, guardandolo con
un misto d'odio e implorazione. Il cuore mi batteva all'impazzata nel
petto, le guance bagnate di lacrime di disappunto, gli occhi fissi nei
suoi, che all'improvviso si socchiusero, facendosi impenetrabili come
la notte.
«Fammi vedere cos'hai in quella mano, maledizione!»
«Non stavo rubando!» ripetei come un
mantra «Lo giuro, Signore, io...»
«Fammi vedere» le sue mani raccolsero le
mie; erano calde, morbide e vellutate. Richard Connor non conosceva il
significato della parola lavoro.
Quando mi aprì a forza le dita, sollevando con aria
perplessa alcuni ciuffi di capelli corvini, una risata sarcastica gli
scivolò fra le labbra.
«Cos'avevi intenzione di fare con questi?»
Arrossii, imbarazzata.
«Io non.... non stavo...»
«Non stavi rubando» ripeté
Connor, annoiato «Questo lo avevo capito. Ciò non
toglie che ti sei intrufolata negli appartamenti del tuo Signore senza
il mio permesso. E che hai spulciato fra le mie cose. Se vuoi
che ti lasci andare» i suoi occhi scintillarono maliziosi
«Devi prima dirmi perché eri qui e a cosa ti
servono i miei capelli»
«Non posso...»
«Ora» m'intimò minaccioso.
Presi un respiro profondo, guardandolo dubbiosa. Non volevo tradire
Magnus, ma quali altre alternative avevo? Non potevo finire al patibolo
per una simile sciocchezza!
Sospirai «I miei amici sostengono che voi siate uno stregone.
Sì» continuai prima che Connor potesse
interrompermi «Dicono che avete ucciso vostra moglie e che
vivete nel peccato, che è colpa vostra se a Chaplam la gente
muore di fame. Io non ci credo» borbottai,
ricordando le risate di scherno dei miei compagni. Misi il broncio, e
il Barone strinse le labbra spostando lo sguardo sulla finestra, come
se all'improvviso il panorama del giardino fosse divenuto
straordinariamente interessante
«Ma Magnus non voleva darmi ascolto, e mi ha costretta a
intrufolarmi nelle vostre stanze e a rubarvi una ciocca di capelli.
Solo così avrebbe potuto rivelare la vostra vera
identità. Mi ha minacciata!»
piagnucolai, tentando di impietosirlo.
Serrò la mascella «Cosa ti ha detto?»
«Che non sarebbe più stato mio amico»
Lo sentii ridere e lo guardai, incuriosita.
«Tu... tu non dovresti neanche...»
cominciò, ma poi s'interruppe, lasciando la frase in
sospeso. Uno strano silenzio scese su di noi, e il Barone
s'irrigidì. Il suo sguardo vagò lentamente sulla
virginale scollatura del mio corpetto, e vidi una scintilla rancorosa
illuminare il suo viso.
Pochi istanti dopo mi aveva di nuovo afferrata per le spalle. Confusa,
lo vidi spingermi frettolosamente verso la porta, come se la mia
presenza lo avesse disgustato al punto da non poterla sopportare un
minuto di più.
«Vattene» disse con voce
distorta dall'ira «E non osare mai più mettere
piede in questo castello»
Mi sbatté la porta in faccia, letteralmente.
Quando rientrai a casa ero ancora in uno stato di trance. La confusione
si era impossessata dei miei pensieri. Perché il Barone mi
odiava? Non poteva essere solo a causa dei miei sordidi natali. Gli
abitanti del villaggio mi disprezzavano, certo, ma non avevano mai
mostrato un tale risentimento, un così appassionato rifiuto
della mia persona.
Nonna Marie mi accolse con un abbraccio caloroso.
«Belle! Oh, Belle, ero così
preoccupata...»
Non riuscii a prestarle attenzione. Tremavo di ansia e paura e
preoccupazione: se il Barone avesse deciso d'impiccarmi? Rabbrividii.
Se...
«Ti ho aspettato per oltre un'ora,
signorina» disse con voce improvvisamente seria.
La scrutai, insospettita dalla sua espressione tesa, dalla smorfia
inquieta in cui si erano piegate le sue labbra.
«Io... nonna, temo di aver... » non
riuscii a continuare. All'improvviso, una presenza che non avevo notato
si palesò nel piccolo, malandato salotto. Era Padre Merrik,
il vicario di Chaplam.
In altre circostanze sarei stata felice della sua venuta: Merrik era un
uomo saggio e compìto, non era bigotto, non m' imputava le
colpe dei miei genitori, mi aveva sempre trattata con gentilezza e
sapevo, anche se la nonna non lo avrebbe mai ammesso, che era lui a
pagare la mia istruzione. Ogni giorno un precetto veniva a
farmi visita e mi insegnava a leggere, scrivere e comportarmi, ma i
precetti erano costosi e Marie non avrebbe mai potuto permettersene
uno: qualcun'altro se n'era dovuto assumere l'onere, e questo qualcuno
era quasi sicuramente il vicario.
Tuttavia, la sua espressione dispiaciuta mi fece immobilizzare: sapevo
che i miei sospetti stavano per divenire realtà.
Una fitta di dolore mi trafisse lo stomaco e fui costretta a piegarmi
su me stessa, tentando di non stramazzare al suolo. Era successo,
dunque. Il Barone aveva deciso la sua punizione. E aveva affidato a
Merrik il compito di metterla in atto.
Forse sarei stata impiccata. Probabilmente mi avrebbero mandata via.
Non sapevo cosa mi riservasse il futuro, ma il pensiero di allontanarmi
da Marie era insopportabile.
«Devo andarmene, vero? Lui ha detto che devo lasciare
Chaplam» dissi con voce amara.
Merrik scrollò il capo, impietosito dalla mia espressione
implorante «Il Barone non c'entra assolutamente nulla,
bambina. Hai tredici anni, stai crescendo, è ora che trovi
il tuo posto nel mondo. Sei una signorina, ormai, e prometti di
diventare una grande bellezza: è giunto il momento che tu la
smetta di avventurarti con quegli straccioni dei tuoi amici.
Abbiamo trovato un collegio che sarà felice di accoglierti e
educarti ai dettami della cristianità e del savoir faire. Avrai
una bella divisa, una camera accogliente, professori premurosi che ti
insegneranno le meraviglie dell'arte, della letteratura, della
matematica e del rammendo.»
«Dove...» tremai, strinsi i denti e
continuai: «Dov'è questo collegio?»
Le sue labbra si piegarono in un tremulo sorriso «In
Inghilterra»
Il mondo parve crollarmi addosso. L'Inghilterra era il posto
più infimo in cui potessero mandarmi. Quei bastardi inglesi,
come li chiamava Magnus, erano persone fredde, crudeli e spietate, le
loro terre aride e inquinate, non come le lussureggianti campagne
irlandesi, le distese di girasoli e le scintillanti cascate, i boschi
folti e pieni di vita, di leggende secolari, tradizioni che neanche il
più violento degli invasori sarebbe riuscito a sradicare.
E io stavo per essere spedita in un luogo che non conoscevo, proprio
come se fossi un pacco postale. Risi istericamente: per Richard Connor
la mia vita non valeva più di quella di uno dei suoi
cavalli. Cosa poteva importargliene se la punizione che mi aveva
inflitto mi avrebbe gettata in un baratro d'infelicità?
Quando capii che le suppliche, i pianti e le invocazioni non sarebbero
serviti a nulla, se non a peggiorare la situazione -sarei andata in
Inghilterra, punto. Il Barone aveva deciso e io dovevo obbedire ai suoi
ordini- mi rassegnai al mio destino.
Il mattino dopo Marie mi rammendò in tutta fretta l'unico
vestito da viaggio che possedevo: nero, bordato da nastri di seta color
zaffiro, accompagnato da una cuffietta di velo grigio e da un ombrello
recuperato chissà dove. Mi diede anche una
lettera, raccomandandomi di aprirla solo quando fossi giunta a
destinazione, mi strinse a sé per quelli che mi parvero
secondi, e che invece si rivelarono ore. Poi mi fece fare colazione, mi
prese la mano e mi portò fuori.
Tutto si svolse come a rallentatore: una carrozza nera si
fermò davanti alla porta di casa. Marie mi prese in braccio,
mi diede un bacio sulla guancia e mi fece accomodare sul sedile della
vettura. Mi rannicchiai su me stessa, guardandola lottare contro le
lacrime e la commozione, la paura e la nostalgia. Perché
già mi mancava, nonostante non l'avessi ancora lasciata, ed
ero certa che quegli stessi sentimenti avrebbero tormentato anche
lei.
Ero intontita, quasi non udii il suo saluto, il suo ti amo sussurrato.
Tutto ciò che sapevo era che odiavo Richard Connor. Lo
odiavo con tutta me stessa, e forse Magnus aveva ragione, Connor era
davvero un figlio del demonio, gli piaceva seminare dolore nel mondo.
Una lacrima mi bagnò la pelle, strinsi i pugni.
In quel momento, una voce ansiosa s'intromise nel caos dei miei
pensieri.
«Belle! Belle, dove stai andando? Belle!»
Era Magnus, correva così veloce che per un attimo pensai
avrebbe tenuto il passo con la carrozza. Mi sporsi dal finestrino,
guardandolo con occhi angosciati.
«Mi mandano via, Magn!» urlai a mia
volta, e le sue labbra si tesero in una smorfia incollerita.
«E' stato lui, vero? E' stato il Barone!»
Mi chiusi in un eloquente mutismo, e lui serrò la mascella.
«Gliela farò pagare, Belle, te lo giuro! E quando
tornerai...» la sua voce si faceva sempre
più lontana. Lo stavo perdendo. Chissà quando ci
saremmo rivisti...
Un singhiozzo sconsolato mi nacque nel petto.
Ora o mai più, pensai. Al diavolo la timidezza, non
m'importava se Magnus avrebbe giudicato le mie parole roba da femminucce.
«Ti voglio bene, Magn!» urlai, e lui
s'immobilizzò, sorpreso. Un dolce calore si accese nei suoi
occhi.
Il cocchiere colpì i cavalli con il frustino, e la carrozza
accelerò.
Continuai a guardare il viso di Magnus, che si faceva sempre
più lontano e sfocato.
L'angoscia minacciava d'impadronirsi di me, ma un debole raggio di
speranza mi fece fremere in un impeto di orgoglio misto a fiera
determinazione.
Tornerò, pensai. Tornerò e riprenderò
in mano la mia vita, i miei affetti, il mio futuro. Tornerò
e Richard Connor si pentirà del male che mi ha fatto.
Babbo Natale quest'anno mi
ha portato un regalo davvero gradito: l'ispirazione. Ed eccomi quindi a
postare il terzo capitolo di Fuoco nero. Come vi avevo già
anticipato, questi primi capitoli sono puramente introduttivi: dal
prossimo entreremo nel cuore della vicenda. Ringrazio le cinque persone
che hanno commentato lo scorso aggiornamento, chi segue, preferisce,
ricorda e anche chi legge soltanto. Spero abbiate
passato un buon Natale, pieno di risate e regali e persone che vi
vogliono bene. :) Alla prossima, Elisa.
Mi dimentico
sempre di farlo, ma ci tenevo a lasciarvi il link del mio profilo
facebook. Se volete chiedermi l'amicizia sarò felicissima di
accettarvi :)
Se invece volete cercarmi
su altri social network, nella mia pagina autore troverete i miei
profili twitter, tumblr, blogger e youtube.
Volete
ricevere spoiler, anticipazioni e curiosità sulle mie
storie? Volete sapere che aspetto hanno Annabelle e Richard, stare al
passo con gli aggiornamenti, sapere a che punto sono con la stesura dei
capitoli? Io e Matisse abbiamo creato questa paginetta in comune:
Volete
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Capitolo 4 *** Capitolo 3 ***
Fuoco nero, capitolo quattro
Capitolo
tre
Se
ci pungete non sanguiniamo? Se ci fate il solletico non ridiamo? Se ci
avvelenate non moriamo? E se ci fate un torto, non dovremmo vendicarci?
-Il mercante di Venezia-
Quattro anni dopo
E'
con mani tremanti che
ti scrivo questa lettera. Mia cara Annabelle, dolce bambina, la notizia
è giunta così inattesa; il pensiero di separarmi
da te mi
sconvolge, ma il Barone ha deciso di allontanarti da Chaplam e
né tu né io avremmo avuto la forza di
contrastarlo. Ci
sono così tante cose che vorrei dirti. Vorrei raccontarti
dei
tuoi genitori, della tua nascita, della gioia che ho provato
accudendoti e prendendomi cura di te. Hai riempito le mie giornate,
attenuato la solitudine, mi hai fatto scoprire cosa significhi amare
qualcuno con tutta me stessa.
Non ti ringrazierò mai abbastanza per l'affetto che mi hai
regalato, e che spero di averti restituito in egual misura. Nutro il
presentimento che non potrò mai dirti queste parole ad alta
voce, per cui perdonami se i miei ti sembreranno i vaneggiamenti di
un'anziana signora.
E troppo tardi, Belle,
troppo tardi per tutto. Ma avevo bisogno di ricordarti quanto tu sia
stata una presenza fondamentale nella mia vita. Sei una bambina
speciale: le porte di un meraviglioso futuro si apriranno dinnanzi ai
tuoi occhi, ma dovrai guadagnarti il tuo lieto fine poiché
scoprirai presto che sono poche le persone di cui ci si può
davvero fidare. Non smettere mai di combattere: il potere risiede
dentro di te, le tue scelte determineranno le sorti di Chaplam e della
nostra amata Irlanda. Il potere, mia Belle. Il potere è
tutto
ciò che conta, la sola arma che avrai a disposizione per
portare
a termine la tua missione.
Con amore, Marie.
Aggrottai
la fronte,
perplessa. Le parole di Marie erano così enigmatiche, e io
non
riuscivo a spiegarmene il significato. Pensai che il dolore l'avesse
accecata al punto da farla uscire di senno: Marie era sempre stata una
donna piuttosto particolare, molti la definivano eccentrica, altri
pensavano fosse una strega, ma non si era mai profusa in
inutili
farneticazioni. Sfiorai i solchi che la penna aveva lasciato
sulla carta; un tremulo sorriso mi fiorì sulle labbra. Erano
passati quattro anni dalla prima volta in cui l'avevo letta. Quando
sentivo nostalgia di casa la recuperavo dal fondo del materasso,
l'unico posto in cui i miei effetti personali potevano considerarsi al
sicuro. Nulla sfuggiva al controllo delle insegnanti di Frieding House.
In fondo alla lettera una piccola incisione vergata con mani tremanti: Mors tu vita mea.
La tua morte è la mia salvezza.
«Belle?
Belle, dove ti
sei cacciata?» Bridget, la mia compagna di stanza, mi
apostrofò con voce petulante, guardandomi con occhi
sospettosi.
Non potevo biasimarla: avevo la pessima abitudine d'isolarmi, sola coi
miei pensieri, lontana da tutto e da tutti, forse persino da me stessa.
Insegnanti e studenti mi consideravano una ragazza strana, bizzarra,
solitaria. La verità è che non mi ero mai sentita
naturale, mi ero impegnata per esserlo, tentativi striduli,
perchè impegnarsi per sentirsi naturali è
già una
sconfitta.
Frieding House
era un collegio
destinato ad accogliere fanciulle appartenenti all'antica
nobiltà inglese: creaturine graziose, compite, con un
parlato
colto e affettato. Conoscevano tutte le regole del savoir faire,
guai a sbadigliare senza coprirsi la bocca col ventaglio o a lasciarsi
sfuggire un'imprecazione. Il rito della mescita era considerato
l'evento più eccitante della giornata, quando un' insegnante
diceva inchinati
tu ti dovevi inchinare, quando intimava silenzio!,
nell'aria si potevano udire il ticchettio dell'orologio e il fruscio
delle gonne che si sfregavano contro le cosce nude. Io ero considerata
un pesce fuor d'acqua: quando ero arrivata a Frieding House avevo solo
tredici anni, non sapevo inchinarmi né servirmi il bianco
mangiare - gli inglesi sembravano prediligere i cibi insapore- con le
giuste posate. Non avevo una forchetta personale, nessuno mi aveva
avvertita che a Frieding House fosse obbligatorio possederne una.
Quando le insegnanti lo avevano scoperto, ero stata esposta a pubblica
umiliazione. Tutti avevano preso a deridermi: i primi giorni avevo
cercato di combattere la fame, ma quando questa aveva avuto il
sopravvento sull'orgoglio mi ero accontentata di piluccare fette di
pane rappreso aiutandomi con la punta delle dita. Mangiavo tenendo la
testa alta, sfidando chiunque a bistrattarmi, avvelenata dal
risentimento, fiera del mio essere una bastarda irlandese senza amici.
E i giorni erano passati, scanditi dall'incessante brontolio del mio
stomaco vuoto, finché una cameriera mossa a pietà
aveva
deciso di prestarmi una forchetta e un cucchiaio ammaccati appartenuti
a chissà chi prima di me. Tre mesi dopo, un misterioso
donatore
mi aveva inviato un intero set di posate d'argento con sopra incisa una
sola lettera, una C,
e nient'altro.
«Allora,
ti vuoi
sbrigare?» Bridget contrasse le labbra in un sorriso
sprezzante
«I tuoi amici sembrano ansiosi di salutarti»
Le
lanciai uno sguardo colmo
di disprezzo. Era semplicemente gelosa, Bridget, e con lei la maggior
parte delle mie compagne di corso.
Nonostante non fossi ancora riuscita a dare un senso alla lettera di
mia nonna, le sue ultime parole mi avevano affascinata: il potere.
Il potere rende
le persone
invincibili. Invulnerabili. Nel corso degli anni mi ero appropriata di
quella bizzarra filosofia di vita, e avevo constatato che Marie aveva
ragione: nessuno sarebbe riuscito ad ammansire il mio spirito, se io
non glielo avessi permesso. Le insegnanti mi definivano una creatura
ribelle: avevo scoperto che bastava un'occhiata sprezzante per
allontanare le mie indisponenti compagne di corso. Il potere. Erano
anni che nessuno si azzardava a prendersi gioco di me. Al tempo stesso,
crescendo mi ero accorta che gli uomini non erano indifferenti alla mia
presenza. Il potere. E allora sbattevo le ciglia, contraendo la bocca
in un tremulo sorriso, assecondando la vanità dei
miei
corteggiatori, e in quel modo ero riuscita
ad abbindolare alcuni giovani signorotti che frequentavano
clandestinamente il collegio, facendomi regalare la maggior parte degli
effetti personali di cui avevo bisogno -spazzole, ninnoli e sali
profumati-, e che nessuno, dalla scomparsa di Marie, aveva
più
provveduto a procurarmi. Mia nonna era morta, sì.
In un
caldo pomeriggio di fine giugno mi era stata recapitata una lettera in
cui si annunciava la dipartita di Marie Anne Chandler. Con lei avevo
perso non solo l'unica persona su cui sapevo di poter contare, ma anche
la possibilità di rivedere la mia amata Irlanda. Per poi
scoprire che, in mancanza di parenti che si prendessero cura di me, al
compimento dei miei diciassette anni -l'età in cui una
signorina
dabbene debutta in società, ed è quindi costretta
ad
abbandonare il collegio- il padrone della Contea avrebbe
dovuto
riportarmi a casa, accollandosi il ruolo di tutore. Ma io non avevo
intenzione di piegarmi ai voleri del Barone. Nessuno aveva ascoltato le
mie proteste, costringendomi a rassegnarmi al mio
destino: sarei
stata scortata a Chaplam dall'uomo che detestavo più di ogni
altra cosa, l'uomo che mi aveva rovinato la vita, esiliandomi
in
un Paese che non conoscevo, precludendomi la possibilità di
dire
addio a mia nonna, di assistere al suo funerale, di poterla vedere
un'ultima volta.
Mancavano poche
ore, e Richard
Connor sarebbe venuto a prendermi. I bagagli erano pronti: non avevo
nessuno da salutare, se non alcuni giovani contadini che mi avevano
aiutata nei momenti di sconforto. Non sapevo cosa sarebbe successo
dopo, e non avevo nessuna intenzione di scoprirlo.
Si
fece sera, e finalmente una
carrozza giunse ai cancelli del collegio. Ignorando i mormorii
indignati della governante «Che il diavolo ti porti, Annabelle
senza cognome!», i borbottii affettati delle mie
compagne di
corso «La bambolina se ne va, era ora! Chi la sopporta,
quella
sgualdrina dagli occhi spiritati!», i sussurri a denti
stretti
con cui mi apostrofarono le insegnanti «Cerca di non
comportarti
come una languida servetta, Belle: il barone è un uomo
importante e andrà su tutte le furie quando vedrà
che
razza di creaturina svenevole sei diventata», afferrai
l'unica
valigia che possedevo e mi precipitai da basso. Il maggiordomo mi
rivolse un cenno di commiato che non ricambiai.
La pungente aria
autunnale mi
sferzò il viso, strinsi le labbra, socchiudendo gli occhi e
incamminandomi verso l'austero profilo della carrozza. Il veicolo messo
a disposizione dai Connor era di gran lunga il più
lussuoso in cui avessi viaggiato, coi finestrini coperti da tende di
velluto, l'esterno laccato decorato con motivi ornamentali in oro e
l'interno foderato di pelle.
Il valletto mi
fece entrare
nell'abitacolo, non prima di avermi lanciato un lungo sguardo ammirato.
Il cuore mi batteva all'impazzata: non vedevo l'ora di affrontare
Richard Connor, di guardare in faccia la causa della mia
infelicità. Tuttavia, quando mi accomodai all'interno
incontrai
gli occhi supplichevoli di una fanciulla che non doveva avere
più di diciotto anni.
Ero stupita, e
lei dovette
notare la mia espressione stranita poiché si
affrettò ad
allungarsi verso di me. Mi strinse le mani fra le sue, e un pallido
sorriso fiorì sul suo volto. Aveva i denti ingialliti, i
capelli
sporchi, neri come la notte, dita ruvide e nodose, nonostante la
giovane età.
«Mi
chiamo Francine e sono qui per servirvi, Madame»
Scossi il capo
«Piacere
di conoscerti, Francine» fece per parlare, ma io continuai
«Ti prego di chiamarmi semplicemente Annabelle. Non
c'è
bisogno di darmi del voi: sono soltanto una serva, esattamente come te.
Immagino sia questo il motivo per cui il Barone si è
premurato
di venirmi a prendere»
Si
rilassò,
afflosciando le spalle «Come ti pare, Belle»
partì a
tutto spiano «Sono contenta di non aver trovato una
spocchiosa
signorina inglese. Proprio non le sopporto, le inglesi» una
fossetta le solcò il mento.
«A
proposito, come mai lui non è qui? Pensavo si sarebbe
precipitato di persona» mormorai sarcastica.
Francine
sghignazzò e tacque. Non c'era bisogno di aggiungere altro;
era una domanda retorica, la mia
, e nonostante la giovane
età Francine pareva sapere che alle domande retoriche non
si doveva rispondere.
Il silenzio scese su di noi, intensificato dal nitrire dei cavalli e
dalla pioggia che aveva preso a ticchettare sul tetto della carrozza.
Fu col cuore in subbuglio e la mente piena di angosciosi ricordi che
dissi addio all'Inghilterra.
Il
viaggio si rivelò
stancante, ma ero talmente ansiosa di tornare a casa che quasi non me
ne accorsi. Ci fermammo un paio di volte; in entrambe le occasioni il
cocchiere insistette per farmi entrare in una locanda e consumare un
pasto caldo. L'eccitazione non mi impedì di approfittare
della
generosità del mio accompagnatore. Mi mancava tutto della
mia
terra, persino le cose più elementari come il cibo -non
più insipido pane bianco e fettine di vitello, ma ceci e
fagioli
e carne generosamente speziata- e la torbida aria autunnale che
frustrava le chiome degli alberi, sibilando minacciosamente.
La contea di
Chaplam e i suoi
dintorni erano esattamente come li ricordavo, con grandi pascoli,
terreni incolti e paesini con ponti che scavalcavano le rive dei fiumi.
La carrozza abbandonò la strada principale per
imboccarne una
molto più piccola, costeggiò la periferia di
Chaplam e s'introdusse in una
lunga strada privata. Superammo i cancelli della tenuta dei
Connor che, come spiegò Francine, aveva
un'estensione di
circa ottocento ettari. Mezz'ora dopo la carrozza giunse in paese, e
anche lì i luoghi mi erano così familiari, tutto
sapeva
di casa, di appartenenza, del dolce sapore dei ricordi: la bottega del
pescivendolo, la piazza costeggiata da arcate di cemento, il mercato
dei fiori, le bancarelle di frutta e verdura, i portici gremiti di
ambulanti, aristocratici, ladri, gente di teatro e prostitute.
Lacrime di
nostalgia mi
riempirono gli occhi, ma non mi lasciai sopraffare dalla tristezza.
Pensai che il cocchiere mi avrebbe scortata sino alla vecchia capanna
in cui io e mia nonna avevamo abitato, ma non fu così.
Sentii
l'agitazione farsi
strada dentro di me, e guardai Francine con espressione atterrita. La
ragazza sorrise: «Non pensavi che ti avremmo portato
in quella lurida capanna, vero?» disse
«Per tutti i
diavoli dell'inferno, certo che no! Annabelle, il Barone non ha
intenzione di mettere in pericolo la tua vita e la tua reputazione: non
puoi vivere da sola. Sua Signoria si è rivelato un uomo
previdente, considerando la bellezza che sei diventata»
ridacchiò «Il Barone è stato
così buono da
chiedere a una sua lontana parente di ospitarti. Lady Philippa
è
vedova e non ha figli, sarà felice di prendersi cura di te.
Non
è particolarmente ricca e la sua tenuta non è
neanche
lontanamente paragonabile a quella del nipote, ma...»
«Non
preoccuparti, Francine
»
mormorai a denti stretti. Apprezzai le premure del Barone, nonostante
il mio odio non si fosse affatto attenuato. Il pensiero di dover
abitare in una casupola isolata senza la protezione di nessuno mi
atterriva. Fu così che, venti minuti
dopo, varcai la
soglia di una piccola abitazione tutt'altro che lussuosa, ma
dall'aspetto caldo e confortevole. Una donnina vestita di nero mi
accolse stringendomi in un abbraccio materno, guardandomi con occhi
prima curiosi, poi ammirati. Resistetti all'impulso di scostarmi: non
ero abituata agli abbracci, né a simili slanci di
benevolenza.
«Una
vera
bellezza-ah» mormorò con voce accorata. Il suo
tono aveva
una cadenza singolare, quasi pomposa. Notai una vaga somiglianza coi
lineamenti decisi di Richard Connor, ma i modi della donna erano molto
più amichevoli «Vallo a sapere che saresti stata
così attraente, bambina!» ridacchio, incurante
della mia
espressione smarrita «Ti dovrò nascondere se non
vorremo
avere a che fare con un'orda di giovanotti innamorati»
notando la
mia confusione le sue labbra si schiusero in un dolce sorriso
«Io
sono Philippa, la tua nuova tutrice. Conoscevo tua nonna, anche se solo
per sentito dire» sghignazzò «E adesso
vieni con
me» raccolse le mie mani fra le sue e mi fece fare un giro
della
casa, cincischiando sugli abiti che mi avrebbe voluto confezionare
«Sono un'ottima sarta-ah» disse, «e tu
saresti un
modello perfetto per le mie creazioni», sul fatto che avesse
proprio bisogno di qualcuno che vivacizzasse le sue giornate
«Da
quando è morto mio marito mi sento così
sola-ah!»,
su libri e musica e argomenti che non conoscevo. Fu così che
conobbi la mia protettrice, la donna che si sarebbe presa cura di me
solo come mia nonna avrebbe saputo fare. Fu così che il
pensiero
di riprendere in mano le redini della mia vita fece divampare una
scintilla di speranza nella mia mente.
Non mi sono
mai sentita naturale, mi sono impegnata per esserlo [...], frase tratta
dal libro Venuto al
mondo, di Margaret Mazzantini.
L'idea di enfatizzare le parole di Philippa mi è venuta in
mente leggendo un libro di S.King, Cose preziose.
E' tardissimo e sto praticamente crollando sul pc, quindi rimando i
convenevoli al prossimo capitolo. Un grazie speciale a chi legge e
recensisce, a chi preferisce, segue e ricorda e ai lettori che mi hanno
inserita fra gli autori preferiti. Il prossimo capitolo sarà
il
vero inizio di questa storia.
Risponderò ai commenti entro domani sera, giuro :). A
presto, Elisa.
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