Ris Roma 3 - Absteria

di Absteria
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Ciao a tutti!
Benvenuti, questa è la mia nuova storia, questa volta una long per gli appassionati della serie tv RIS Delitti Imperfetti.
Nasce dal disperato bisogno di sapere come prosegue la storia dopo l'ultima puntata della seconda serie di RIS Roma e dal desiderio di poter pilotare gli eventi e portarli nella direzione che più mi piace xD Parte proprio dall'ultima puntata e arriva...be', questo lo scoprirete solo leggendola!
Detto questo, vi lascio alla lettura :)
Spero che l'apprezziate!

Absteria :)

PS: come sempre, le recensioni sono gradite ;)

 

***


Lunedì, 4 Luglio 2011. Ore 6:15 A.M. Casa del Capitano Brancato. Roma.
 
La sveglia suonò puntualmente, come tutte le mattine.
Uno squillo, due squilli, un terzo squillo troncato nel mezzo, come sempre.
Una mano pallida, curata, copriva l'orologio digitale che, finalmente, aveva smesso di suonare.
Il sole batteva sulla finestra, illuminando tutta la camera da letto. Nessun movimento. Il solito conto alla rovescia mentale partì.
Dieci, nove, otto.
Uno splendido paio di occhi verdi cominciò lentamente a fare capolino, lottando contro le palpebre serrate.
Sette, sei.
Braccia e gambe cominciarono ad allungarsi, come se cercassero di raggiungere l'infinito.
Cinque, quattro.
La bocca, incorniciata da un paio di labbra abbastanza carnose, si spalancò in maniera non troppo dissimile dal ruggito di un leone africano.
Tre, due, uno.
Un ultimo secondo di riposo.
Zero.
Con uno scatto deciso, il Capitano abbandonò il suo soffice cuscino e si alzò dal letto, ancora semi cosciente.
Il neon del bagno la accecò ancor più della luce solare. Si spogliò velocemente, con gesti meccanici.
Entrò nella doccia. L'acqua fredda le aveva sempre dato un sollievo istantaneo.
Sette minuti esatti ed era già fuori, completamente sveglia, interamente avvolta da un asciugamano bordò, intenta ad asciugare la corta chioma bionda.
Si vestì in fretta e, come tutte le mattine, prima di uscire si fermò davanti allo specchio posto accanto alla porta d'ingresso, osservò il suo viso pallido per qualche secondo e uscì afferrando il lungo soprabito rosso.
 
 
 
Ore 8:05 A.M. Sede del R.I.S. Di Roma.
 
Il Capitano Ghirelli varcò la porta automatica trascinandosi a fatica, aveva gli occhi semiaperti marcati da occhiaie profonde. Il confronto tra lui e il soggetto che lo seguiva era a dir poco comico.
Vispo e arzillo come non mai, con un sorriso a trentadue denti stampato sul volto e due caffè tra le mani, il Tenente Serra fece il suo ingresso trionfale al R.I.S., apparentemente immune alla sindrome invalidante da lunedì mattina.
“Buongiorno Ghire'! 'N'artra nottata bianca, eh?”, il sonnambulismo di Ghiro fu bruscamente interrotto dall'entusiasta voce del Sottotenente Cecchi, immune anche lui allo sfinimento preventivo consueto di ogni inizio settimana.
“Dacci un taglio, Milo, piuttosto torna a fare quello che stavi facendo”, fu la risposta secca di Ghirelli, visibilmente irritato.
“Ma 'nfatti io 'un c'ho da fa' niente. Che poi so' i primi de luglio, la gente va 'n vacanza, che ce stiamo a fa' noi ancora qui?”
Il Capitano si fermò, indietreggiò, si voltò a sovrastare il Sottotenente con la sua altezza. “I criminali non vanno mai in vacanza, Cecchi, mai. Ci siamo capiti?”, chiese lui, mentre Emiliano annuiva sconfitto, con lo sguardo basso.
Per un attimo la serietà del Capitano aveva prevalso sul sonno dell'uomo. Ma fu solo un attimo: “E, per tua informazione, se tutti mi chiamano Ghiro, un motivo ci sarà, no?”, aggiunse in fine Ghirelli tornando a trascinarsi ad ogni passo, più assonnato di prima. Avrebbe dovuto smetterla di giocare ai videogiochi fino alle tre di notte.
A Orlando non sfuggì questo scambio di battute e, sorridendo, scosse la testa costatando che, pur essendo passato un anno, né Ghiro né Milo erano minimamente cambiati. E forse erano le uniche cose rimaste immutate.
Era stato un anno molto duro, quello. Il Tenente Flavia Ayroldi, che lui conosceva appena, era morta, buttando a terra il morale della squadra, soprattutto di Ghiro (ormai divenuto Capitano al pari di Lucia), che teneva a lei come a nessun altro. La Banda del Lupo era stata finalmente neutralizzata e sciolta. Bartolomeo aveva messo la testa a posto e aveva sposato Eleonora Ravelli, sorella di Giordana Ravelli, membro della Banda.
Bianca ed Emiliano avevano simultaneamente deciso di rompere, e Milo, dopo tante peripezie, era tornato dalla sua famiglia. Ghiro, dopo aver affrontato con coraggio la morte della sua migliore amica, aveva scoperto che il suo migliore amico, Roberto Stincone detto Stinco, era anche lui un membro della Banda del Lupo e, nondimeno, un complice dell'omicidio di Flavia; be', a dirla tutta, in effetti, ormai Stinco era il suo ex migliore amico. E poi c'era lei, colei senza la quale nessuna indagine sarebbe andata da nessuna parte, senza di lei la squadra non sarebbe esistita: il Capitano Lucia Brancato; vittima di stalking, aveva subito da poco una tentata violenza carnale. Ma questo, differentemente da come sarebbe successo con una qualsiasi altra donna, non era stato sufficiente a scalfire la forte Lucia, che invece si era aperta ed aveva trovato conforto e sostegno in quello che credeva essere il meno fidato dei suoi colleghi del R.I.S.: il Tenente Orlando Serra.
Era proprio per merito suo se Lucia negli ultimi tempi era così felice.
Ed era proprio per Lucia che il Tenente riservava quello splendido sorriso sulle labbra e il caffè amaro nella sua mano destra. Ma questo era un dato noto soltanto a loro due... e a Ghiro.
“Buongiorno, Capitano”, disse sorridendole dolcemente dopo aver varcato la porta del suo studio.
“Buongiorno”, rispose lei un po' meno convinta, allungandosi per prendere il caffè che il Tenente le stava porgendo.
A Orlando il suo tono non piacque. “Ehi, che ti succede? Cos'è quella faccia?”, le chiese premuroso. Il sorriso scomparve istantaneamente dal suo volto.
“Niente, è che...”, Lucia esitò un momento, detestava mostrare le sue debolezze e, soprattutto, non amava parlare della sua vita privata, tanto meno in ufficio, nemmeno se l'interlocutore ne era il protagonista.
“E' che...?”, insistette Orlando, preoccupato, sedendosi sulla sedia di fronte a lei.
“E' che non mi piace quando non ci sei”, sputò Lucia velocemente alludendo chiaramente alla notte passata da sola, senza nessuno che la facesse sentire protetta. Abbassò subito lo sguardo sulla propria scrivania, fingendo di fare altro.
Serra sorrise. Era raro vedere il Capitano così palesemente volubile, e non poteva negare che gli piaceva questo lato di lei, così sincero. “Però adesso sono qui”, sussurrò ad un palmo dal suo volto, e lei alzò lo sguardo, prima lieto, poi severo.
“Infatti, Tenente, qui. Ti ricordo che qui sono il Capitano, e tu un mio sottoposto.”
Il sorriso di Orlando si allargò: rieccolo, il suo glaciale Capitano. “Comandi”, rispose. Si alzò in piedi e finì in un sorso il suo caffè. Era ad un passo dalla porta, ma si sentì richiamare.
“Ah, Orlando... buon lavoro.”
 
 
 
Ore 9:35 A.M. Sede del R.I.S. Di Roma.
 
“Capitano, è appena arrivata una chiamata dalla territoriale: è stato ritrovato un cadavere in un'auto all'incrocio tra via Igea e via Trionfale, Sasso è già sul posto. Sospettano un pirata della strada. La vittima aveva appena ventun anni”, Bianca, sensibile come al solito, non poté fare a meno di rabbrividire nel dare la notizia.
“Bene, vai tu con Cecchi e Dossena. Mi raccomando, Bianca: sii distaccata”, le ricordò la Brancato. Il distacco era indispensabile nel loro lavoro; senza di esso alla fine sarebbero impazziti tutti quanti.
Il Tenente Proietti annuì. “Sì, Capitano”.
 
 
 
Ore 12:08 A.M. Sede del R.I.S. Di Roma.
 
Bianca, Emiliano e Bart erano da poco rientrati dalla scena del crimine per analizzare gli oggetti repertati, quando il telefono della postazione di Ghiro squillò.
“La Brancato ci vuole tutti nel suo ufficio per un briefing. Subito”, annunciò dopo aver riattaccato. “Vuole che voi tre ci informiate sulla vittima e sulle prove raccolte”, aggiunse spostando lo sguardo sui tre appena tornati.
Proprio in quell'istante squillò anche il telefono di Orlando.
“Ragazzi, cominciate ad andare, io vi raggiungo tra un attimo”, disse lui ed al terzo squillo rispose, mentre gli altri entravano nell'ufficio del Capitano.
“Possiamo cominciare?”, la voce di Lucia richiamò tutti all'ordine.
“Sì. Veramente manca Serra”, le fece notare Ghirelli.
Ed ecco: la porta di vetro dell'ufficio si spalancò e l'atteso Tenente entrò con una faccia alquanto scoraggiata che a Lucia non sfuggì.
“Che succede?”, chiese lei preoccupata.
Orlando non si sedette nemmeno, preferì comunicare subito la notizia. “Hanno chiamato dall'ospedale”, esordì., poi esitò un attimo, ma si costrinse a proseguire dopo un cenno d'incoraggiamento da parte della sua Lucia. Quindi, più cupo aggiunse: “Mario Pugliese è scappato.”
“Che vuol dire 'è scappato'?”
“Ma quando?”
“Questa mattina”.
La notizia portata da Orlando aveva causato un clima di abbattimento generale all'interno della squadra. La demoralizzazione era palpabile, in fondo non avevano ancora finito di festeggiare per la sua cattura che Lupo era già scappato. Un'altra volta.
Lucia stava per riprendere in mano la situazione, ma non fece nemmeno in tempo ad aprire bocca, perché preceduta, anche lei, dallo squillo di un cellulare: il suo.
Fece qualche passo, allontanandosi dal lungo tavolo di vetro, e rispose.
“Si?”
“Capitano Brancato?”, chiese una voce maschile all'altro capo del telefono.
“Sono io.”
“Sono il Lupo. Presto verrò a prenderti”. Il Capitano sgranò gli occhi ed il suo viso, prima aggrottato, quasi scocciato per la fuga di Mario Pugliese, si tramutò in una maschera inespressiva.
La linea cadde.
Lentamente, in preda allo sconvolgimento, Lucia mise giù il telefono cellulare e si girò verso la sua squadra.
“Il Lupo è tornato”, annunciò tetra ai suoi uomini.
Era così, dunque. L'incubo era ricominciato.
Se prima i componenti della squadra erano abbattuti per la notizia della fuga di Lupo, ora invece erano paralizzati: non potevano, anzi, non volevano credere che Pugliese fosse scappato e tornato.
L'unica che, sebbene dopo un momento di esitazione iniziale, aveva realizzato ed accettato veramente la faccenda era proprio lei, Lucia, lo spavaldo condottiero della polizia scientifica di Roma. E adesso le toccava il fondamentale compito di non creare allarmismi all'interno del gruppo.
“Su, ragazzi, cosa sono quelle facce? A Lupo ci penseremo poi. Ora la priorità è il caso del ragazzo trovato morto all'incrocio, concentriamoci su quello.”
Orlando stava per aprire bocca, ma Ghiro lo precedette: “Si può sapere cosa ti ha detto al telefono poco fa?”
“Niente di cui ci sia bisogno di preoccuparsi in questo momento, a lavoro, forza!”, fu la sua risposta sicura, ma era palese che fosse turbata.
“Ma...”, Orlando stava per ribattere, ma venne nuovamente interrotto, stavolta proprio dalla Brancato.
“Serra, è un ordine!”, tuonò con un tono che non ammetteva obiezioni.
“Allora agli ordini, Capitano”, rispose risentito con un tono acido che, anche se lei non lo diede a vedere, riuscì a turbarla. Più tardi gliene avrebbe parlato, ma solo a lui e a Ghiro: non era il caso di far allarmare la squadra.
Chiusa, finalmente, la parentesi Lupo, Lucia spostò lo sguardo su Dossena.
“Bart, prego, mettici al corrente.”
Bart, anche se un po' incerto, cominciò. “La vittima si chiamava Carmela Tanzi, ventun anni; Sasso sta già indagando su di lei per trovare un eventuale movente, anche se per il momento l'ipotesi più probabile sembra quella di un pirata della strada. Sembra sia morta sul colpo per un trauma cranico, ma aspettiamo che Carnacina termini l'autopsia per avere la conferma.”
“Bene”, si complimentò il Capitano, “e cosa avete repertato sul luogo?”
A questo punto Bianca si inserì prontamente nel discorso. “Vicino la macchina della ragazza ho trovato del vetro; penso che provenga dall'auto pirata.”
“Perfetto. Analizzalo, magari è intatto il pezzo con il numero di targa”, intervenne entusiasta la Brancato. “Che altro avete trovato?”
“Io ho rilevato delle tracce di vernice verde scuro sulla fiancata dell'auto della vittima, sicuramente estranea ad essa”, aggiunse Emiliano.
“Be', non è molto, ma sempre meglio di niente”, si intromise Ghirelli.
“E' tutto?”, domandò Lucia ignorando saggiamente l'ultimo commento.
“Sì, penso proprio di sì”, terminò Milo con l'appoggio di Bart che annuiva accanto a lui
“Bene, cioè, male.”
“Lo sappiamo, Capitano, ma davvero non c'era altro di rilevante”, affermò Bartolomeo con sicurezza, tramutando il suo appoggio da astratto in concreto.
“Sì, Dossena, capisco. E come intendete procedere?”
Bianca, questa volta, rispose per prima: “io, Capitano, farò quegli accertamenti sul vetro dei fanali.”
“Io pensavo di analizzare la vernice, potrebbe sempre dirci qualcosa di più sulla macchina o sul pirata stesso”, sopraggiunse Emiliano che, nonostante tutto, non si era perso d'animo.
Adesso era il turno di Bart. “Ed io metterò il fiato sul collo alla territoriale e, soprattutto, a Carnacina per saperne di più sulla vittima e su come lo sia divenuta. E nel frattempo cercherò anche di capirci qualcosa di più sulla dinamica dell'incidente.”
“Mi sembra perfetto”, disse quindi il Capitano vedendo che anche Serra e Ghirelli annuivano, “procedete e tenetemi informata. La riunione è sciolta”, concluse; ed andò ad accomodarsi sulla sedia in pelle nera posta dietro la sua scrivania.
Detto questo tutti si alzarono e si diressero verso la porta dell'ufficio, decisi ad uscire.
“Ghirelli! Serra!”, li richiamò Lucia, “un momento, ho bisogno di voi”, ammise mordendosi il labbro: non le piaceva chiedere aiuto, non le piaceva per niente, lo detestava.
I due, quasi fuori dall'ufficio, si arrestarono e tornarono indietro chiudendo la porta. Quando guardarono gli occhi della ragazza che sedeva di fronte a loro non riconobbero in essi quelli del Capitano, ma quelli dell'amica (per uno) e quelli della propria donna (per l'altro); erano occhi trasparenti, che non si vergognavano di mostrare timore anche se, palesemente, non avrebbero voluto farlo. Si sedettero di fronte a lei e, sebbene entrambi lo sapessero già, le domandarono con aria apprensiva di cosa avesse bisogno di parlare.
“Poco fa, Lupo... Al telefono... Ha detto di volere me, ecco”, era incredibile quanto le costasse dire quelle parole, ammettere di aver bisogno di aiuto e conforto, ma prese coraggio, deglutì ed andò avanti: “le sue testuali parole sono state: 'presto verrò a prenderti'.”
Ghiro si passò la mano sulla faccia, a partire dalla fronte fino al mento, come se avesse voluto scacciare via quel pensiero; Orlando invece irrigidì: in un certo senso aveva più paura lui di lei, tanta da non riuscire ancora a parlare. Per fortuna l'amico arrivò in suo soccorso: “che cosa pensi di fare?”
“Niente”, rispose la Brancato, stavolta era calmissima, “aspettare, che posso fare? Non abbiamo idea di dove si trovi né di quali siano i suoi piani.”
A questo punto Orlando esplose. “Ma sei impazzita?”, chiese seriamente sorpreso, “un pazzo omicida vuole vendicarsi su di te e tu pensi bene di aspettare che ti ammazzi senza fare niente?!”, sperava davvero che metterla di fronte all'assurdità della sua affermazione sarebbe servito a dissuaderla, ma sapeva bene che convincerla non sarebbe stato affatto facile.
“Non è quello che ho detto”, rispose lei. Aveva stoffa, sapeva che il miglior modo per combattere una reazione violenta era sedarla con la calma e fingere di ignorarla, “e Mario Pugliese non è un pazzo, sa quello che fa.”
Ancora una volta aveva avuto ragione, infatti un attimo dopo Serra era già più controllato. “E questo non ti spaventa ancora di più? Se è così prudente è più difficile che commetta errori nel raggiungere il suo intento, no?”
“Non dico di non essere preoccupata, dico solo che la preoccupazione non serve a nulla. Se lui è così emotivamente misurato dobbiamo esserlo anche noi, non siamo infallibili, dovremmo ricordarcelo ogni tanto.”
“In ogni caso la domanda è sempre quella, Lucia: cosa pensi di fare?”, stavolta era Ghirelli che, su sollecitazione del proprio Capitano, aveva cercato di mettere da parte la preoccupazione eccessiva cercando invece di pensare razionalmente, “non puoi stare davvero aspettarlo senza reagire. Cerchiamo almeno di localizzarlo: è solo, senza soldi, senza mezzi per spostarsi, senza un rifugio; qualche errore dovrà pur commetterlo, qualche mossa azzardata dovrà pur farla, no?”
Lucia non ebbe nemmeno il tempo di ribattere che Orlando, che non aveva ancora accantonato il suo tipico piglio protettivo, propose di affidarle una scorta.
“Non se ne parla nemmeno”, esplose lei a quel punto, dalla sua faccia sembrava che Serra avesse appena detto la più grande cavolata della sua vita.
“Perché no? Perché sei così ostinata?”
“Una scorta darebbe troppo nell'occhio e vorrebbe dire mettere al corrente di tutto anche il resto della squadra, per non parlare di Abrami”, ora era più pacata, aveva bisogno di mostrare controllo se voleva che i due le dessero retta.
“Quindi fai sul serio? Davvero vuoi tenere Abrami all'oscuro di tutto?”, Ghiro rimase di stucco, anche se quello era un tipico comportamento alla Lucia, “non approvo,  mi dispiace, ma questa volta non posso darti il mio appoggio.”
“No, infatti, neanche io”, si aggregò il Tenente.
“Mi state lasciando sola?”, fece di tutto per nascondere lo sconforto.
“No, Lucia, sei tu che stai lasciando soli noi”, Orlando sceglieva con cura le parole, come al solito, cercava di essere persuasivo colpendo Lucia con le stesse armi che stava tentando di utilizzare lei, “questo non è un fatto che riguarda solo te, siamo tutti coinvolti. Noi”, aggiunse sicuro indicando a turno se stesso e Ghirelli con l'indice della mano destra, “rischieremmo le nostre vite per salvare la tua”, Daniele annuiva serio, “ed anche loro”, concluse infine indicando, senza voltarsi, verso la porta dell'ufficio del Capitano, al di fuori della quale si trovavano Bart, Milo e Bianca intenti a discutere di qualcosa, probabilmente riguardante il caso Tanzi.
“Orlando ha ragione, Capitano. E poi tu sai meglio di me che conoscere l'obiettivo di un criminale è un vantaggio a nostro favore.”
“Grazie ragazzi, davvero, ma preferisco non dire nulla al Generale, almeno per il momento”, Lucia era proprio ferma sulla sua posizione, non c'era niente da fare, “inoltre assegnandomi una scorta non faremmo altro che incoraggiare il Lupo: mi renderebbe un obbiettivo più difficile da raggiungere e quindi più ambito, ed inoltre concluderebbe che ho paura di lui, e queste sono due cose che bisogna assolutamente evitare.”
Contro ogni aspettativa, la ragione stava davvero dalla parte della Brancato. Li aveva affondati; loro sapevano ribattere, certo, ma lei era ancora più brava.
“Ad ogni modo, Daniele non aveva avuto una cattiva idea poco fa: Mario Pugliese commetterà sicuramente qualche errore prima di trovare una sistemazione ottimale ed un piccolo capitale da investire per il suo scopo, dobbiamo cercare di localizzarlo, e non è proprio il caso di perdere tempo.”
Ghiro sorrise accettando di buon grado il compromesso; la notizia sarebbe rimasta segreta, ma almeno lui avrebbe potuto indagare. “Allora io andrei subito, Capitano. Cerco di ricostruire i suoi movimenti dalla stanza d'ospedale dove era ricoverato fino a dove potrebbe ipoteticamente essere adesso”, mentre parlava Ghiro era già pronto ad alzarsi dalla sedia.
“Senz'altro, vai”, sorrise anche lei, contagiata dal suo migliore amico.
Senza voltarsi indietro Ghirelli abbandonò la stanza, lasciandovi soli i suoi amici più fidati.
“Sai già che con l'arrivo di questa storia non ti lascerò sola un momento, vero?”, Orlando non aspettò nemmeno che la porta si chiudesse: voleva lui la prima parola.
“Sì, lo immaginavo”, nel pronunciare queste parole Lucia esibì la sua migliore espressione scocciata. E Serra se ne accorse.
“Bugiarda!”, la accusò ridacchiando.
“Non ti sto mentendo, me l'aspettavo davvero!”, si difese lei, più sorpresa che offesa. Che il poligrafo incorporato del suo uomo stesse facendo cilecca?
“Non intendevo questo. Mi riferivo alla tua faccia: non ti dispiace per niente che io voglia proteggerti.”
“Ed anche se fosse? Tanto sono convinta che lo faresti lo stesso, mi sbaglio?”
“No, non ti sbagli”, il Tenente sorrideva, “ma veniamo alle cose serie”.
Lucia, che nel frattempo si era sporta sulla scrivania in modo da avvicinarsi ad Orlando, si rimise dritta sulla sedia, il suo sorriso divenne sempre meno marcato finché non scomparve completamente, come quello della persona che le sedeva di fronte. “Dimmi.”
“Pensavo di chiamare l'ospedale per informarmi sulle condizioni di Pugliese. In fondo ha subito parecchi interventi ed un mese non può essere bastato perché si rimettesse completamente.”
“Mi sembra un'ottima idea, tienimi informata, okay?”
“Agli ordini, Capitano. Se non le dispiace adesso andrei anch'io: ogni minuto è prezioso”, ed era vero: persino un secondo poteva fare la differenza, e più tempo perdevano più le speranze di localizzare il Lupo si affievolivano.
“Prego, Tenente, lasci pure la stanza”, concesse scherzando la Brancato.
Orlando non se lo fece ripetere ed uscì dal suo ufficio, lasciandola che ancora scuoteva la testa ridendo per quegli ultimi scambi.
 
 
 
Ore 2:25 P.M. Via dei Volsci, Roma.
 
Una bambina di circa sette anni, accompagnata dalla madre, saltellava allegramente verso il cinema, eccitatissima all'idea di stare per vedere Cars 2.
“Emma! Emma, non ti allontanare!”, la richiamò più volte la madre, ma la piccola non voleva darle ascolto e continuava a saltellare imitando il rombo di un motore con un verso gutturale.
“Grrrrrrrrrrrrrr!!! Ops! Scusi signore!”, mentre giocava, la bambina aveva erroneamente urtato un signore; era alto e magrolino con dei capelli lunghi e neri e degli occhi verde smeraldo: il colore della speranza; sembrava piuttosto sciupato.
“Non preoccuparti, piccolina. Vai dalla mamma, su! Dalle la mano”, Mario sorrideva, quella bambina gli ricordava tanto sua figlia Erica. Emma obbedì allo sconosciuto senza pensarci nemmeno per un secondo. La sua ingenuità di bambina non le aveva impedito di scorgere qualcosa di strano negli occhi di quel signore, qualcosa di inquietante.
“Grazie, lei è veramente gentile”, la madre gli era veramente grata; in fondo era merito suo se la bambina adesso le stava tranquillamente al fianco.
“Si figuri signora, ha una bambina bellissima”, rispose lui gentilmente, sempre sorridendo, e si allontanò in fretta infilandosi un vicolo lì accanto, mentre la bambina, mano nella mano con la madre proseguiva in un'altra direzione.
Non appena fu certo di non essere visto tirò un sospiro di sollievo. Non era stato riconosciuto.
 
 
 
Ore 4:48 P.M. Sede del R.I.S. Di Roma.
 
“Evvai! Cell'ho!”
“Che succede Milo?”, le urla esultanti di Emiliano erano giunte fino alle orecchie di Bart che era subito accorso per saperne il motivo.
“Ho appena passato all'A.F.I.S. la targa che mi ha dato Bianca ed ho trovato la macchina. Guarda un po': è verde scuro, come la vernice che ho trovato sull'auto della ragazza.”
“Però risulta rubata da più di due anni.”
“Che cosa?”, l'entusiasmo del giovane Sottotenente si smorzò un poco dopo quella fondamentale rivelazione. Dossena se ne accorse.
“Dai Emiliano, non preoccuparti. Avvisa la territoriale, piuttosto, e fa' preparare i posti di blocco. Se quest'auto era su strada fino a ieri non dovrebbe essere difficile rintracciarla oggi, no?”
“Provvedo subito. Ma aspetta un attimo, a proposito di territoriale: hai scoperto qualcosa sul conto della ragazza?”, domandò Emiliano non senza un pizzico di curiosità.
“Niente di rilevante. Frequentava il terzo anno di giurisprudenza all'università e viveva da sola in un monolocale in affitto; a sentire le amiche era una ragazza generosa e solare, tanti amici e nessun nemico. Una ragazza come tante, insomma”, glaciale come sempre Bart finì il suo brillante rapporto sulla vita  della vittima.
“E Carnacina invece? Novità?”
“Non troppe. Carmela è morta tra l'una e le due di questa mattina per trauma cranico causato dall'urto della testa contro il poggiatesta dopo essere andata fuori strada ed aver sbattuto contro il palo di un semaforo. E' morta sul colpo.”
“Poveretta”, Milo, con gli occhi bassi, non seppe dire altro.
Bartolomeo gli diede una pacca sulla spalla per incoraggiarlo. “Forza Emiliano, lo becchiamo. Adesso rimettiti a lavoro, io vado ad aggiornare la Brancato”, detto questo Bart si allontanò, chiedendosi se sarebbe riuscito a scoprire qualcosa di più sulla misteriosa telefonata di quella mattina.
 
 
 
Un'ora dopo. Stanza interrogatori, Caserma S. D'Acquisto. Roma.
 
“Ve lo giuro, io non volevo!”, la voce agitata di Giovanni Monterosso bucava le orecchie al Tenente Sasso.
“E allora perché l'hai lasciata lì a morire come un cane sulla strada, Monterosso? C'aveva soltanto vent'anni!”
Dopo nemmeno un'ora dalla chiamata di Cecchi l'auto pirata era stata rintracciata grazie ad un posto di blocco ed il pirata era stato identificato e portato al R.I.S. Era pregiudicato per il furto dell'auto che guidava al momento dell'incidente, uscito di prigione appena quattordici mesi prima.
“Ve l'ho detto, ho avuto paura. Ho rimesso la testa a posto, e non mi andava di tornare in prigione per uno stupido incidente.”
“Peccato che nel tuo stupido incidente sia rimasta uccisa una ragazza. Mi sa che ci torni lo stesso in prigione. Portatelo via!”, concluse Sasso con la solita durezza che riservava ai criminali.
“Mi dispiace”, furono le ultime parole di Giovanni, poi venne condotto fuori dalla stanza da due Appuntati.
Il caso era chiuso.
 
Nel frattempo, nell'ufficio del Capitano, Lucia faceva il punto della situazione sulla fuga di Mario Pugliese con Daniele ed Orlando.
“Quindi Mario ha lasciato il Policlinico alle 11:45, come conferma il medico che ha sedato e a cui ha, successivamente, rubato gli abiti; ed era a piedi.”
“Esattamente”, confermò Serra.
“E poi, come ha dimostrato Ghiro, alle 12:08 si trovava in via Padova, da dove è partita la chiamata al mio cellulare”, proseguì il Capitano.
“Sì”, assentì Ghirelli, “ma purtroppo ha chiamato da una cabina telefonica, quindi da lì in poi non so più come rintracciarlo.”
“E all'ospedale hanno detto che stava per essere dimesso, pertanto non aveva bisogno di cure particolari e non perdeva sangue”, aggiunse Serra, “praticamente sta benissimo.”
Questo era un punto a loro sfavore. Contavano molto sull'instabilità delle condizioni fisiche del Lupo per tentare di localizzarlo; sapere che quella pista non li avrebbe portati da nessuna parte equivaleva a ricominciare da capo.
“Va bene, ma non perdiamoci d'animo: Pugliese è a piedi, senza un soldo e senza un cellulare, è disarmato e, per quanto ne sappiamo, non ha nemmeno un posto dove passare la notte. Ricordate che la sua foto ha circolato per settimane su giornali e telegiornali; non può andare lontano senza essere riconosciuto, e Rambaudi ha già fatto organizzare i posti di blocco nelle vie principali. Vi posso assicurare che...”
Due colpi alla porta interruppero l'arringa di Lucia nel suo punto cruciale. Era Bart.
“Avanti!”, urlò lei per farsi sentire attraverso al porta di vetro.
Il Tenente Dossena entrò velocemente nella stanza chiudendosi la porta alle spalle.
“Abbiamo risolto il caso, Capitano. Abbiamo arrestato il pirata della strada”, affermò entusiasta.
“Ottimo”, commentò la Brancato, “ha confessato?”
“Sì, Capitano.”
“Perfetto, stendi il rapporto. E quando finisci torna qui con Cecchi e Proietti: ho bisogno di parlare con la squadra al completo.”
“Comandi”, annuì Bart ed uscì velocemente com'era entrato.
“Hai cambiato idea, quindi?”, Ghiro sembrava sorpreso, ma con un po' d'attenzione si poteva notare nella sua voce anche una piccola punta di soddisfazione.
“Ne parlerò solamente a loro, per il momento. Le vostre parole di questa mattina mi hanno fatta riflettere.”
“Direi che come inizio non è male”, anche Serra era soddisfatto.
“Accontentatevi allora, perché non ho nessuna intenzione di farmi mettere sotto sorveglianza dal Generale”, come aveva appena detto Orlando: come inizio non era male, conoscendo il carattere della Brancato.
“Come vuoi”, affermò Ghiro con finta indifferenza, “ma sappi che nessuno qui dentro ti rispetterà di meno se per una volta ammetti d'aver bisogno di aiuto”, ci pensò un attimo, e poi aggiunse “e nemmeno là fuori”, alludendo al Maggiore ed al Generale Abrami, il cui giudizio per lei contava molto.
Ma era ovvio che non bastasse una rassicurazione del genere a placare la tenacia di Lucia: era se stessa che non voleva deludere più che i suoi superiori; voleva dimostrarsi di essere forte e di sapersela cavare da sola, anche se, poi, proprio sola non era. Orlando, che aveva capito tutto, si ripromise che ne quando si fossero trovati da soli ne avrebbe parlato con lei.
“Grazie Daniele, lo terrò a mente”, disse lei, glaciale come al solito, “riguardo Pugliese, dicevamo?”
“Be', praticamente ci stavi dicendo che anche se non abbiamo idea di dove sia, di dove sia stato e di dove abbia intenzione di andare lo prenderemo comunque”, rispose Ghirelli trattenendo a stento le risate.
“Già”, commentò il Capitano con una faccia piuttosto incerta, “detta così sembra un'assurdità, non è vero?”
“Sì!”, esclamarono all'unisono i due interlocutori ed a quel punto esplosero entrambi in una sonora risata.
Lucia li guardò male, ostentando una certa autorità, e loro si dettero subito contegno; ma poi scoppiò a ridere anche lei, e con lei ricominciarono inevitabilmente anche loro.
Ecco perché quelli che le stavano davanti oltre ad essere degli ottimi collaboratori erano anche, insieme a suo fratello Guido, le persone più importanti della sua vita. Perché non importava quale pericolo stesse correndo e quanto alto potesse essere il rischio: se era con loro avrebbe potuto comunque riderci sopra, non pensarci per qualche minuto o per qualche ora; con Orlando e Daniele non era solamente 'il Capitano Brancato', con loro poteva scegliere di essere Lucia, con i suoi pregi e con i suoi difetti.
 
 
 
Ore 7:38 P.M. Sede del R.I.S. Di Roma. Ufficio del Capitano Brancato.
 
Lucia aspettò che tutti avessero preso posto sulla propria sedia, dopo di che si alzò dalla propria ed iniziò a parlare con una calma solenne.
“Capisco che è tardi e mi dispiace di aver organizzato un briefing a quest'ora, ma vi ho convocati qui per parlarvi di una cosa abbastanza importante.”
A questo punto fece una pausa. Tutto taceva, ognuno dei suoi uomini aspettava in silenzio che continuasse a parlare. Solamente due di loro non erano impazienti, solamente uno di questi sapeva con esattezza cosa stesse succedendo nella mente e nel cuore del Capitano.
“Conosciamo l'obiettivo del Lupo”, finalmente parlò.
Un sorriso entusiasta prese posto sulla bocca di Emiliano ed una nuova luce animò gli occhi di Bianca, soltanto Bart aveva capito.
“E quindi? Qual'è quest'obiettivo?”, domandò con più timore che curiosità.
Lucia deglutì.
“Sono io.”
 
 
 
Ore 8:21 P.M. Casa del Capitano Brancato. Roma.
 
“Hai visto che non è stato poi così difficile?”, Orlando, intento a cuocere la pasta, dava le spalle a Lucia che stava comodamente rannicchiata sul divano di fronte la cucina.
“Sì, forse”, lei non era convinta, “sicuramente è più facile parlarne adesso, dopo averne già parlato con la squadra.”
“Come vuoi”, fu la sua risposta distratta. Aveva appena finito di cucinare la cena, distribuì la pasta in due piatti in modo tale che la sua porzione risultasse più sostanziosa e li inondò entrambi con della semplice salsa di pomodoro. Aspettò che Lucia si sedesse a tavola di fronte a lui per toccare il punto importante del discorso.
“Comunque sia, sono fiero di te”, avevano gli occhi incatenati l'una in quelli dell'altro, “non mi aspettavo che ne avresti parlato con il gruppo; cioè, non mi aspettavo che l'avresti fatto così presto.”
“Se devo essere sincera nemmeno io me l'aspettavo. Evidentemente dopo l'esperienza con Dettori ho imparato qualcosa.”
“Già, Dettori”, Orlando quasi sputò quel nome, “persone come Dettori non dovrebbero esistere”, continuò più disgustato di prima.
“Ehi, sono qui sana e salva grazie a te”, quasi senza accorgersene gli aveva preso la mano, “è passato, okay?”
“Sì”, si arrese Orlando buttando fuori la rabbia con un sospiro.
“Be', buon appetito!”, esclamò Lucia sorridendo, smorzando la tensione che si era creata.
“Buon appetito.”
 
Più tardi, nella camera da letto, alla luce più soffusa della luna, Orlando trovò il modo di dar voce ai pensieri che più gli premeva esternare.
Erano raccolti in un caloroso abbraccio. Lucia, accoccolata sul petto del suo uomo, aveva gli occhi chiusi ed un sorriso beato stampato in faccia, ma non dormiva; Orlando le carezzava dolcemente la schiena. Avevano appena fatto l'amore.
“Allora, che cosa devi dirmi?”, con sua grande sorpresa Lucia lo precedette.
“Ehi, un momento... Ma non ero io quello telepatico?”, la mano di Orlando si arrestò a metà del movimento sulle sue spalle bianche. Il respiro irregolare l'aveva tradito.
“Ho fatto un corso accelerato”, rispose ridendo sotto i baffi. “Su, avanti, spara”, lei, al contrario di Orlando, era molto tranquilla.
“Okay, bene. Hai presente quel bel discorso che ha fatto Ghiro oggi pomeriggio sul chiedere aiuto, sulla stima dei superiori, eccetera...?”
“Va be', adesso chiamarlo discorso mi sembra un tantino eccessivo, non è che abbia...”
“Lucia”, la richiamò, “non è quello il punto”. Stava cercando di cambiare discorso, probabilmente aveva già capito dove voleva arrivare.
“Scusa. Sì, ce l'ho presente.”
“Bene. E sai che è la verità, vero?”
Lucia ci pensò un attimo, poi rispose. “Sì, penso di sì.”
“E allora sai anche che devi avere fiducia in te stessa, e che devi avere il coraggio di ammettere a te stessa che hai bisogno di aiuto e di mettere da parte l'orgoglio, giusto?”
“Quindi secondo te è una questione d'orgoglio?”, chiese ironicamente lei.
“Rispondi alla mia domanda”, scandì Orlando con fare autoritario. Lucia sarà anche stata il Capitano del R.I.S., ma una volta tolta la divisa il Tenente prendeva il sopravvento.
“Forse”, si stava comportando come una bambina.
“Lucia...”
“Sì, sì, okay, d'accordo, hai ragione”, in cuor suo aveva già accettato le parole di Orlando ed aveva riconosciuto anche la verità che esse racchiudevano, ma rimaneva sempre quell'unico ostacolo da superare per ammetterlo anche a lui: l'orgoglio. Per fortuna lui capì e non insistette oltre.
“Brava”, disse, e dalla voce Lucia capì che stava sorridendo. Le diede un bacio sulla nuca e tornò ad accarezzarle la schiena liscia e morbida.
Ed ecco riapparire sulle labbra di Lucia quel sorriso beato che solo lui sapeva tirarle fuori. Era tutto perfetto. O quasi.
“Orlando?”, lo chiamò sottovoce, come se temesse di rovinare quella splendida atmosfera.
“Dimmi, tesoro”, anche lui parlava sottovoce.
“Ti amo.”
“Anche io ti amo.”
Ora sì che era tutto perfetto.
 
 
 
Ore 9:55 P.M. Nella pallida oscurità di un vicolo di Roma.
 
Un uomo dal fisico slanciato aveva appena forzato, con fare esperto, la porta di una casa priva di antifurto. Si muoveva furtivamente nel buio al suo interno, con passi misurati e precisi: c'era già stato.
“Bentornato a casa”, disse a se stesso senza badare al tono della voce.
Da una piccola finestra impolverata filtrava debole la luce della luna: due piccoli occhi verdi, visibili attraverso le lunghe e sottili ciocche di capelli neri, esibivano con eleganza la loro cattiveria.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Eccomi ancora qui, con il secondo capitolo :)
Pensavo di postarlo un po' dopo, ma oggi e S. Lucia, quindi... Eccolo qui!
Un grazie infinito a coloro che hanno recensito il primo (8giusy8, Axen, ludoNy e Clappy), che hanno messo la storia tra le seguite (Axen, Clappy, LadyLove99 e ludoNy) e tra le ricordate (Lisbeth17).
Se volete, visto che il titolo fa schifo (sì, ne sono perfettamente consapevole), potete propormene qualcuno voi man mano che la trama va avanti. Chissà che io non lo scelga :)
Grazie ancora a tutti e buona lettura! :D
Absteria.

 

***




Sabato, 9 Luglio 2011. Ore 7:00 A.M. Casa del Capitano Brancato. Roma.
 
I due amanti giacevano ancora sul letto indisturbati. Un leggero raggio di sole, intrufolatosi dalla piccola  finestra della camera da letto, batteva insistente sul viso di Lucia che, essendo abituata a dare da sé il buongiorno al sole, si svegliò infastidita dalla luce.
Cominciò piano piano ad aprire i grandi occhi verdi, finché non riuscì a spalancarli completamente. Si girò lentamente verso la sveglia che aveva dimora sul basso comodino di vetro.
“Maledizione!”, esclamò sottovoce e balzò subito giù dal letto lasciandovi Orlando ancora profondamente assopito: avrebbe fatto tardi al R.I.S.
Senza pensarci un momento si infilò nella doccia e ne uscì fresca e sveglia dopo meno di cinque minuti. Mentre si pettinava i capelli, avvolta da un asciugamano, si fermò ad ammirare il suo uomo, che ancora dormiva beato sul suo letto, pensando con un po' di rammarico a quello che avrebbe dovuto fare di lì a qualche secondo. Prese coraggio. E tre, due, uno...
“Ahi!”, esclamò Orlando appena svegliato. Lucia gli aveva appena tirato in faccia un cuscino.
“Scusa”, lei ridacchiava.
“Ma che ti è preso? Come mai tutta questa gentilezza, oggi?”, chiese ironicamente mentre si stiracchiava ancora abbastanza assonnato. Non aveva alcuna intenzione di alzarsi dal letto.
“E' tardi”, gridò lei che nel frattempo era andata in cucina a preparare due caffè.
“Ma come è tardi? Sono appena le sette!”, si lamentava Serra che nel frattempo aveva dato un'occhiata alla sveglia digitale posta sul comodino di Lucia, “si può sapere che devi fare alle sette di domenica mattina?”
“Niente”, rispose lei semplicemente, sbucando dalla porta; si era appoggiata allo stipite, pregustando già quello che stava per succedere. “Peccato che oggi sia sabato”, aggiunse con finta innocenza.
Orlando sgranò immediatamente gli occhi e si costrinse ad alzarsi in piedi. “Come sabato?”, chiese smarrito, “ma allora tu che ci fai ancora qui? Non dovresti già essere al R.I.S.?”
“Te l'ho detto, Tenente, è tardi”, disse sorridendo mentre lo guardava muoversi in fretta per cercare di anticipare il tempo, “la sveglia non è suonata, e quindi eccomi qua. Per fortuna che mi sono svegliata, altrimenti mi sa che Ghiro non ce l'avrebbe fatta passare liscia un'altra volta”, ora ridacchiava pensando al suo migliore amico. Il Capitano Ghirelli infatti non era un tipo troppo discreto, e quando capitava che i due piccioncini tardassero in maniera evidente a lavoro scattavano immediatamente le battutine. Be', in realtà scattavano in ogni caso.
“Già, che fortuna”, Orlando era sovrappensiero, impegnato a raccogliere le sue cose. “Filo subito in doccia e arrivo”, promise e, stampato un piccolo bacio sulle labbra della sua donna, scappò subito in bagno.
“Sbrigati, il caffè è quasi pronto!”, gli urlò dietro scuotendo la testa; poi continuò a vestirsi mentre pensava ai commentini che le avrebbe riservato il suo amico Ghirelli.
 
 
 
Ore 7:58 A.M. Sede del R.I.S. Di Roma.
 
Il Capitano Brancato, fiera nel suo ordine impeccabile, varcava in quel momento la soglia del laboratorio, mentre Orlando, accampato giù nella sua macchina, sarebbe ufficialmente arrivato entro qualche minuto. Avanzava con il suo solito passo veloce, salutava tutti con un sorriso, finché non si fermò proprio davanti alla postazione del suo unico parigrado; apparentemente non c'era nessuno, eppure, da quel che sapeva (e lei sapeva davvero tutto quello che si svolgeva o meno in quella caserma), Daniele non era stato mandato da nessuna parte per missioni o sopralluoghi; che non fosse ancora arrivato? Magari era a casa a riposarsi, a dormire come si deve, in fondo se lo meritava: erano giorni che lavorava senza sosta.
E poi, era un post-it quello che penzolava dal retro del monitor?
Vinta dalla curiosità e dalla voglia di trovare una risposta a quelle domande, il Capitano decise di entrare.
Le bastò fare qualche passo per capire come stavano veramente le cose. I riccioli neri scompigliati, il camice stropicciato sulla spalliera, la camicia sgualcita ed un paio di cuffie nere a metà tra il collo e le spalle era tutto ciò che rimaneva del povero Ghirelli che, nascosto dal monitor del proprio computer stava schiacciando un pisolino. Per quel giorno, pensò Lucia, le avrebbe risparmiato le battutine.
Aveva passato l'ennesima notte al R.I.S. cercando di capire dove potesse trovarsi il nascondiglio del Lupo; aveva già visionato tutti i video provenienti dalle telecamere di sorveglianza delle banche e dei negozi nei pressi dell'ospedale per farsi un'idea di dove potesse essersi rifugiato, ma di Mario Pugliese non c'era nessuna traccia. Eppure non voleva arrendersi, doveva farlo per Lucia. E per Flavia. C'era proprio lui, Lupo, alla guida di quella macchina, il giorno in cui era stata ammazzata; Daniele non l'aveva dimenticato, ed era pronto a tutto pur di prendere, arrestare e punire colui che l'aveva strappata così brutalmente alla vita.
Il post-it che Lucia aveva notato prima di entrare nell'ufficio dell'amico non era altro che uno scherzo di Bartolomeo, la cui calligrafia ordinata, perfetto specchio del suo carattere e dei suoi modi di fare, era praticamente inconfondibile; la scritta che conteneva diceva solo 'sono un ghiro, lasciami dormire!', in perfetto stile Dossena.
Il Capitano, solitamente glaciale tra le mura del laboratorio, non poté fare a meno di intenerirsi davanti a quella scena.
Eh, già, pensava sorridendo con affetto,Ghiro è proprio un ghiro. Era proprio un peccato che bisognasse svegliarlo. E l'infallibile Lucia cominciava a pensare che quel giorno l'avrebbe passato a fare la sveglia per tutta Roma.
Gli diede una leggera carezza sulla guancia e cominciò a chiamarlo a bassa voce: “Daniele, sveglia. E' ora di lavorare. Daniele?”. Niente da fare, non rispondeva. Cominciò a scuotergli le spalle, dapprima piano, poi più violentemente, ma niente da fare, Ghirelli proprio non ne voleva sapere di alzarsi. Lucia detestava utilizzare le maniere forti con i membri del suo gruppo, ma dato che non c'era alternativa...o forse sì!
“Ghiro sveglia, c'è la Bellucci!”
“Cosa? Monica! Dov'è?”, Daniele era balzato subito giù dalla sedia, si era risistemato gli abiti in meno di un secondo e sarebbe stato già pronto per dare la caccia alla Bellucci se non si fosse trovato davanti il proprio Capitano con un'espressione a metà tra il divertito e il contrariato dipinta sul volto. Ma Ghiro era sicuro che fosse più sul divertito.
“Buongiorno, Lucia”, disse dopo aver deglutito ed essersi schiarito la voce, “come va?”
“Tutto bene, fortunatamente. E tu? Da quant'è che non ti fai una lunga e sana dormita?”
“Saranno...un due o tre giorni al massimo, non di più. Credo.”
La verità era che non lo sapeva più nemmeno lui. Da quando Pugliese era fuggito dall'ospedale si era buttato con anima e corpo dentro a quella faccenda; rischiava di non uscirne più.
“Credi, eh?”, lei, d'altro canto, era ancora meno convinta di lui. “Perché non vai a casa oggi?”, il suo sguardo era premuroso, il tono di voce apprensivo come quello che una madre avrebbe usato con il proprio figlio, “qui è tutto tranquillo, ce la caviamo anche senza di te.”
“Ma i video, il Lupo, io...”
“Quei video li avrai già visti almeno un centinaio di volte e se non hai trovato niente significa che probabilmente Mario non è passato di lì, o che è stato attento a non farsi riprendere.”
“Ma magari mi è sfuggito un particolare, qualcosa che potrebbe...”
“Li riguarderà Orlando più tardi, sei più tranquillo?”, ogni tanto Lucia doveva ricordarsi che non era l'unica testarda in quella caserma, “su, prendi le tue cose e vai a casa, ti aspetto qui lunedì mattina; ed esigo vederti riposato.”
Il sonno era davvero tanto ed il tono di Lucia sembrava non ammettere obiezioni; Ghiro si stava lasciando convincere. “Sei sicura?”, chiese ancora dubbioso.
“Sicurissima, vai!”, gli diede una leggera pacca sulla spalla e sorrise, felice che il suo amico finalmente si riposasse un po'.
Proprio mentre Daniele, col casco alla mano, si apprestava ad uscire, Serra decise di fare la sua consueta apparizione mattutina; erano passati esattamente dieci minuti dall'arrivo della Brancato. Ghirelli, assonnato com'era, quasi non si accorse di lui.
“Ehi, Ghiro! Ma mi senti?”, chissà da quanto tempo lo chiamava.
“Ah, sì, Orlando, ciao!”, faceva una fatica enorme per tenere gli occhi aperti.
“Ma sei sicuro di star bene?”, anche Serra si era accorto della particolare stranezza del suo amico, “dove stai andando conciato così?”
“No, da nessuna parte, è che la tua ragazza mi ha ordinato di...”
“Shh! Ma sei impazzito? Lo sai che non lo sa nessuno, no?”, ormai era evidente che Daniele non fosse nel pieno delle proprie facoltà mentali.
“Sì, scusa, è che...”
“Lascia stare, per fortuna non ti ha sentito nessuno. Piuttosto, che cosa ti avrebbe ordinato Lucia?”
“Dice che devo tornare a casa a dormire.”
“Ah, ecco. Non mi sembra tanto una cattiva idea, anzi, ti accompagno io, così mi faccio anche un bel giretto sulla tua moto; altrimenti mi sa che la prossima volta che ci rivedremo sarà sotto la sovrintendenza del nostro caro Mister Carnacina”,ovviamente Orlando scherzava, ma Ghirelli era veramente agli sgoccioli.
“Ahahah, simpatico”, rispose Ghiro per nulla divertito.
“Su, andiamo”, lo rimbeccò il Tenente, e lo trascinò fuori dalla caserma sostenendolo per un braccio onde evitare che cadesse a terra addormentato.
 
 
 
Appena un'ora dopo, mentre Bianca litigava con la macchinetta del caffè che si rifiutava di emettere il resto, il telefono della postazione di Emiliano squillò.
“Sottotenente Emiliano Cecchi, R.I.S. di Roma”, rispose automaticamente dopo aver sollevato la cornetta. “Ah, Fabrì dimme... Okay, e 'ndo sta?”. Con fare esperto incastrò il telefono tra il collo e la spalla, in modo tale da avere le mani libere; scrisse qualcosa su un fogliettino accanto a lui sulla scrivania. “Grazie, arriviamo subito”, concluse e poggiò la cornetta al suo posto.
Finita la conversazione, Bianca, avanzando lentamente per non far sgorgare il suo tanto agognato caffè lungo dal bicchierino, si avvicinò al tavolo di Milo. “Novità?”, chiese non appena gli fu di fronte.
“Sì, era Sasso. Dice che una signora ha ritrovato il proprio marito morto sul pavimento della cucina.”
“Ah, poveretta, non sarà stata una bella visione per lei.”
“E quando mai lo è?”, ripose lui ironicamente, “un cadavere è sempre un cadavere.”
“Eh, già...”
“Senti, io vado ad avvisa' er Capitano, te preparati che arriviamo io e 'n artro”, disse Milo e, dopo essersi infilato in tasca il post-it sul quale aveva segnato l'indirizzo, si alzò velocemente dirigendosi verso lo studio della Brancato.
Mentre lo guardava allontanarsi, Bianca si convinceva sempre di più che Emiliano era stato uno dei più grandi errori della sua vita. Non che non fosse stata bene con lui, anzi, era stata molto molto bene tra le sue braccia; e forse era proprio questo il punto: era stata fin troppo bene, si era innamorata e ora non riusciva più a toglierselo dalla testa.
Nel frattempo che il Sottotenente Proietti era persa nelle sue riflessioni personali, Emiliano era già tornato dall'ufficio del Capitano.
“Orlà!”, chiamò il collega che sembrava intento a mettere in ordine la propria scrivania; Orlando si voltò in direzione della voce, “ha appena chiamato la territoriale, dice che hanno trovato un cadavere in via...”, estrasse il piccolo foglietto giallo stropicciato dalla tasca del camice da laboratorio e lesse l'indirizzo, “via Suez, ar numero 35. La Brancato ha detto che dobbiamo anna' io, te e Bianca...”
“Sì, certo, arrivo subito”, rispose immediatamente il Tenente.
“Va bene, io e Bianca t'aspettiamo all'ingresso”, e detto questo Milo sparì dalla porta di vetro automatica insieme alla giovane collega.
Quando arrivò giù all'ingresso della caserma, il Tenente Orlando Serra si trovò davanti ad una scena tanto divertente quanto, purtroppo, consueta.
Giada, la moglie di Emiliano, con in braccio la figlia Marica, lo stava letteralmente assalendo con le parole parlando, come al solito, in dialetto romanesco stretto. Le uniche parole che risultavano comprensibili alle orecchie del povero Tenente erano: bambina, moglie, casa e chiavi.
Per fortuna Milo, vedendo arrivare il suo superiore si fece forza e riuscì a balbettare alcune parole sconnesse sul fatto di dover lavorare e sul non voler rischiare di avere guai con i propri superiori;  riuscì finalmente a congedarla con un bacio stampato sulle labbra ed una smorfia che voleva essere divertente per la piccola Marica. Il tutto sotto gli occhi diffidenti e gelosi di Bianca.
“Ciao amo'!”, tentò Emiliano speranzoso quando la moglie accennò finalmente a togliere il disturbo.
Per tutta risposta, Giada, con un'espressione abbastanza scocciata, accennò un saluto con la mano sinistra e si diresse velocemente verso la propria macchina masticando, come al solito, una gomma da masticare alla fragola.
Ovviamente Orlando non perse l'occasione di farsi un paio di risate; non appena la signora Cecchi si fu allontanata sufficientemente da non poter sentire le parole che si scambiavano, ridendo sotto i baffi, attaccò con la prima domanda: “Allora, Milo, a cosa era dovuto l'uragano di oggi?”
“Ma niente, è solo che per sbaglio ho confuso le chiavi de casa e me so portato pure 'e sue”, rispose il ragazzo ancora abbastanza scocciato per la sgridata appena ricevuta.
“Ahi, ahi”, fremette il Tenente, “mi sa che questa volta l'hai fatta proprio grossa. Qualcosa mi dice che non basteranno delle semplici scuse per farti perdonare.”
“Lasciamo stare, va'... Che fa', annamo o dobbiamo ancora perde' tempo a discutere di me e mi' moglie?”, superato l'abbattimento iniziale, ora Emiliano era spazientito.
“Agli ordini, Sottotenente!”, lo schernì prontamente Serra e, ridendo, cominciò ad avviarsi verso la macchina portando con la mano destra la valigetta nera contente gli strumenti da usare sulla scena del crimine.
 
Nascosto all'ombra dei pioppi, proprio dietro il cancello laterale inutilizzato che delimitava l'area della caserma, un uomo sconosciuto trafficava con una vecchia macchina fotografica, una polaroid.
Nella tasca posteriore destra dei suoi jeans albergavano alcune fotografie appena scattate. Immortalati sulla carta patinata vi erano il Sottotenente Cecchi, la moglie, ed un paio di primo piani della piccola Marica.
 
 
 
Ore 9:20 A.M. Via Suez, 35. Roma.
 
Una volta arrivati sulla scena del crimine, i Carabinieri del R.I.S., trovarono ad accoglierli il solito intrepido Tenente Sasso pronto, come sempre, a fornire loro notizie, sia rilevanti che non, sul conto della vittima, dei suoi amici, colleghi e familiari.
“Il signore schiattato si chiamava Oreste Sabatini e faceva l'ingegnere edile presso la Sabatini&Co., di sua proprietà. Era sposato, ma non aveva figli. Lo ha ritrovato la moglie, che sostiene di essere ritornata a casa più o meno mezz'ora o quaranta minuti dopo essere uscita: il tempo di arrivare al garage dove teneva la macchina e di accorgersi di aver dimenticato le chiavi a casa; è tornata e lo ha trovato steso sul pavimento che non si muoveva”, Sasso recitò il suo brillante monologo sulla vita della vittima senza fermarsi nemmeno un secondo per riprendere fiato; ora era, come sempre, arrivato il turno delle sue immancabili considerazioni personali: “oh, secondo me è stata lei.”
“Dov'è adesso?”, chiese impaziente Orlando, senza far caso a ciò che il collega aveva appena detto.
“E' su, in casa, l'ho trattenuta in modo tale che anche voi possiate ascoltare la sua testimonianza”, rispose Fabrizio Sasso, sempre efficiente. “Venite, seguitemi: vi porto di sopra.”
“Perfetto, Sasso, grazie”, commentò entusiasta il Tenente del R.I.S., e si avviarono insieme al terzo piano, dove si trovava l'appartamento della vittima; “ora qui ci pensiamo noi”, disse e, mentre parlava, oltrepassò i sigilli allestiti apposta dalla territoriale seguito dai suoi colleghi del laboratorio.
 
Mentre Orlando parlava con la moglie della vittima in un'altra stanza della casa ed Emiliano repertava con cura le tracce organiche presenti in cucina, Bianca si stava occupando di fotografare tutti gli oggetti presenti sulla scena del crimine; per un motivo che si ostinava ad ignorare, aveva una fretta tremenda di lasciare quella stanza e, soprattutto, il collega che la occupava insieme a lei.
“Io ho finito qui, vado a dare una mano ad Orlando di là”, disse; la sua agitazione era percepibile persino da lontano. Solo un tipo distratto come Milo poteva non accorgersi di nulla.
“Sei sicura di aver fotografato proprio tutto? Ogni singolo particolare? Lo sai che la Brancato ce uccide se se accorge che ce semo fatti sfuggi' qualcosa...”
“Okay, okay. Ricontrollo”, effettivamente Emiliano non aveva tutti i torti, e lei lo sapeva.
Ricontrollò le fotografie dal piccolo schermo posto dietro la fotocamera: erano perfette. Aveva immortalato ogni angolazione possibile con ogni gradazione dello zoom. Peccato che avesse scelto i soggetti sbagliati. Eccetto le primissime foto, che riproducevano l'esatta posizione della tazzina di caffè presente sul tavolo della cucina dell'appartamento della vittima, il resto era un vero e proprio servizio fotografico di Milo, del suo viso, delle sue mani coperte dai bianchi guanti in lattice...
Andavano rifatte tutte.
“In effetti ce n'è un paio un po' sfuocate, le rifaccio subito”, disse in fretta per coprire l'imbarazzo, anche se in realtà soltanto lei avrebbe potuto conoscerne il motivo.
“Ecco, brava, rifa' 'n po' 'ste foto, va'”, rispose lui distrattamente continuando a repertare.
Quando ognuno di loro ebbe finito il proprio lavoro sul luogo del delitto, tornarono al R.I.S. per analizzare i reperti raccolti ed informare il Capitano.
 
 
 
Ore 12:37 A.M. Sede del R.I.S. Di Roma. Ufficio del Capitano Brancato.
 
Nell'ufficio del Capitano Brancato l'aria era tesa: da un lato c'era la mancanza di Ghiro, che era solito smorzare la tensione con qualche battuta, dall'altro lato la rigidità momentanea della Brancato che era riuscita a paralizzare tutta la squadra. Prima il briefing sarebbe finito e meglio sarebbe stato. Per tutti.
“Bene, ragazzi”, cominciò l'unico Capitano presente nella stanza cercando invano di smorzare la tensione, “che ne dite? Possiamo cominciare?”, chiese quasi retoricamente.
Orlando annuì debolmente, gli altri fecero lo stesso dopo di lui. Nessuno parlò.
Emiliano sembrava incerto, si mordeva il labbro inferiore e respirava in maniera irregolare come se stesse per parlare, ma poi ci ripensasse ogni volta. Alla fine si decise: “Ghirelli dov'è?”, non appena ebbe pronunciato queste parole, però, sembrò che avesse voluto poterle ritirare immediatamente.
“Daniele era molto stanco, l'ho mandato io a casa a dormire”, rispose Lucia senza nemmeno chiedersi il perché dell'agitazione di Milo, “sta bene,  non preoccupatevi, aveva soltanto un po' di sonno”, si sciolse un momento nel tentativo, seppur goffo, di tranquillizzare i propri uomini, ma l'attimo dopo aveva già riacquistato tutta la rigidità che aveva man mano accumulato in quei pochi minuti. “Allora, cominciamo?”
Questa volta erano tutti d'accordo; forse avevano preso coraggio per via dell'improvviso scioglimento di poco prima, o forse si erano rassegnati all'assenza del 'Capitano in seconda', oppure ognuno di loro, chi per tornare alle indagini, chi per non avere più brutte notizie da comunicare, semplicemente non vedeva l'ora di togliersi questo dente.
Un unanime “sì”, detto all'unisono, risuonò nella stanza del Capitano.
Licia annuì per farsi coraggio ed infonderlo, nello stesso tempo, a tutto il gruppo e sorrise, “benissimo!”, esclamò entusiasta di vedere tutti se non più sereni almeno più preparati ad affrontare la riunione. “Allora, Serra, a te la parola”, disse e, nonostante la tensione, sulle bocche di entrambi affiorò un sorriso di pura complicità; se gli altri se ne accorsero non ne diedero l'impressione.
“Sì”, assentì lui e poi cominciò a parlare. “La vittima si chiamava Oreste Sabatini, quarantadue anni, sposato con Elena Sabatini. La moglie sostiene di essere scesa da casa alle 7:45, prima che il marito si svegliasse, abbiamo chiesto conferma al portiere che attacca alle 8:00 e dice di non averla vista uscire, ma soltanto rientrare, quindi probabilmente Elena dice la verità. Una volta uscita da casa si sarebbe quindi diretta al garage dove tenevano la macchina; per arrivare lì a piedi ci vogliono venti minuti. Arrivata lì si sarebbe poi accorta di avere dimenticato le chiavi dell'auto a casa e sarebbe quindi tornata indietro. Anche questo coincide, perché il portiere dice di averla vista rientrare verso le 8:30. Quando è salita in casa dice di averlo trovato steso sul pavimento della cucina che non si muoveva, per come l'abbiamo trovato.”
“Va bene, questo comunque prova soltanto che la moglie non fosse in casa in quell'intervallo di tempo, ma non che non abbia avuto modo di ucciderlo”, disse il Capitano, “ora e causa della morte?”
“Questa è una domanda molto interessante”, concordò Orlando attirando maggior attenzione di quella che aveva già ottenuto precedentemente, “purtroppo Carnacina non era ancora arrivato quando ce ne siamo andati, quindi abbiamo raccomandato a Sasso di farci chiamare non appena finisce l'autopsia sul corpo di Oreste. Comunque per quel che ho potuto vedere sul corpo non erano presenti né ferite da arma da fuoco né da taglio.”
“Vorrà dire che aspetteremo Carnacina, allora”, ora la Brancato era un po' scocciata, “la casa com'era?”
“Ma, l'arredamento era in stile moderno, però aveva poche finestre. A me personalmente non  è piaciuta granché.”
Anche Emiliano era d'accordo: “sì, è vero non era proprio la casa dove andrei a vivere con...”
“Okay, okay, ora basta”, disse Lucia spazientita, mettendo fine a quei commenti inopportuni sull'abitazione della vittima, “io intendevo chiedere lo stato della casa dopo il delitto”, disse e poi aggiunse a voce più bassa, quasi tra se e se: “se di delitto si tratta.”
“Oh”, sia Serra che Cecchi erano leggermente imbarazzati dopo questa rivelazione: effettivamente avrebbero dovuto aspettarselo.
Dopo nemmeno un secondo di smarrimento, Orlando riprese in mano la situazione: “la casa era in ottimo stato, era tutto in ordine, la porta non è stata forzata e secondo la moglie non manca niente. Inoltre in cucina non ci sono impronte che non siano appartenenti alla vittima o a sua moglie.  In effetti è tutto molto strano, sembrerebbe quasi una morte naturale, ma per saperne di più dobbiamo comunque aspettare l'autopsia.”
“Già”, concordò il Capitano, “in effetti è strano”, ma non aveva tempo per soffermarsi su un'indagine che, per il momento, non poteva portare da nessuna parte: c'erano questioni più importanti di cui le premeva informare la squadra. “Ma andiamo avanti”, disse, prese un respiro profondo, poi continuò, “dopo che voi tre siete andati a casa Sabatini, la territoriale ha chiamato di nuovo per una rapina, un po' fuori Roma...”
“Ma perché adesso si chiamano i R.I.S. anche per una rapina?”, chiese Bianca impazientemente.
“Teoricamente no”, rispose calma la Brancato, quasi a voler contrastare la leggera agitazione del Sottotenente, “ma la territoriale ha ricevuto una chiamata anonima di un signore che diceva di aver visto un uomo con una maschera da lupo nei pressi della villa, aveva letto sul giornale della fuga di Mario Pugliese e quindi ha pensato bene di chiamarci.”
“Ma non l'avete preso, giusto?”, chiese cautamente il Tenente Serra, il quale non aveva dimenticato l'aria tesa che si era creata fin dall'inizio del briefing.
“No, Orlando, siamo arrivati troppo tardi ed il Lupo era già scappato”, rispose Lucia con un'espressione frustrata.
“Ma siamo sicuri che si tratti proprio di Mario Pugliese? Non potrebbe essere stato un emulatore che magari ha davvero letto della fuga del Lupo sul giornale ed ha deciso di colpire chiamando poi il 113 e facendo ricadere la colpa su di lui?”, era un ragionamento perfetto quello di Serra,  ma purtroppo la faccia di Bart diceva chiaramente che quella era la pista sbagliata.
“Ci abbiamo pensato anche noi, ma sulla cassaforte della casa abbiamo trovato un'impronta di Pugliese. Non ci sono dubbi, era proprio lui”, glaciale come sempre quando si trattava di comunicare spiacevoli notizie, il Tenente Dossena scacciò via ogni dubbio dalle menti dei presenti.
“Quanto ha rubato?”,chiese subito Emiliano.
“Secondo i signori Zummo, i proprietari della villa, dalla cassaforte mancano 30.000 euro”
“Ammazza, oh! E come oggetti?”
“Niente. Sembrerebbe che il Lupo abbia rubato solamente contanti, trascurando quindi ogni sorta di gioielli ed altri oggetti di valore”, spiegò Bart.
“Se ci pensate ha senso”, intervenne Lucia notando le facce stupite di Bianca ed Emiliano, “Mario non vuole i soldi per il gusto di averli, non gli interessa la refurtiva, a lui servono i soldi semplicemente come mezzo per raggiungere il suo obbiettivo.”
“Ucciderti”, sussurrò piano Orlando, con gli occhi pieni di rabbia.
“Già”, commentò Lucia, sempre tranquillissima, “sembra che sia questo quello che vuole fare”.  “Ad ogni modo”, riprese poi, “Bartolomeo ed io non abbiamo trovato nient'altro che ci possa far risalire ad un possibile covo del Lupo quindi, per il momento, siamo punto e a capo. Dobbiamo scoprire come pensa di utilizzare quei soldi.”
“Sì, mi sembra la priorità”, concordò Orlando.
“Benissimo”, concluse il Capitano, “la riunione è sciolta. Ci aggiorneremo quando avrete novità importanti.”
Detto questo tutti si alzarono ed uscirono velocemente dalla stanza. Tutti tranne il Tenente Serra.
Per circa cinque secondi i due, rimasti soli nella stanza, si limitarono a fissarsi; sembrava che si stessero sfidando silenziosamente, ma in realtà ognuno di loro stava cercando delle parole adatte, l'uno ad avanzare una richiesta, l'altra a respingerla. Alla fine il Tenente parlò.
“Vorrei essere spostato sull'altro caso.”
“Non se ne parla, tu seguirai l'indagine Sabatini”, Lucia sembrava irremovibile.
“Ma siete solo in due sull'altra e mi sembra che abbiamo concordato sul fatto che scoprire le intenzioni del Lupo sia la priorità”, insistette Orlando.
“Assolutamente, ma su quel caso ci vuole il tuo appoggio: non posso lasciare soli due Sottotenenti, soprattutto se si tratta di Bianca e Milo.”
“Ma ancora non siamo nemmeno sicuri che sai tratti di omicidio”, in verità il Tenente era completamente sicuro del contrario.
“Allora facciamo così: aspettiamo che telefoni Carnacina; se la morte di Sabatini è stato un omicidio indagherai su Sabatini, in caso contrario sarò più che felice di spostarti sull'altro caso, che ne dici?”, il compromesso era l'arma migliore tra quelle a disposizione del Capitano Brancato o, perlomeno, era quella che lei preferiva utilizzare.
“Mi sembra perfetto”, acconsentì Orlando che sentiva già di avere la vittoria in pugno.
Sbrigate le questioni lavorative, Lucia diede un'occhiata all'orologio che teneva al posto sinistro: era l'una proprio in quel momento. “Io avrei un po' di fame adesso...”
“Anch'io”, si affrettò a dire Orlando precedendola, “e visto che le mie indagini sono ad un punto morto... Pranzetto?”, le chiese con un sorriso.
“Sì”, rispose lei ridacchiando; il suo uomo sapeva sempre di cosa avesse bisogno.
 
 
 
Ore 3:23 P.M. Sede del R.I.S. Di Roma.
 
Mocassini neri, pantaloni grigi e camicia celeste; il tanto atteso Carnacina era in piedi nell'atrio del Reparto Investigazioni Scientifiche, teneva in mano alcune cartellette aspettando che qualcuno gli desse conto. Per sua fortuna dopo pochi minuti il Sottotenente Cecchi venne preso da un incontrollabile voglia di caffè che lo portò a sfilare proprio accanto al bizzarro dottore.
“Ah, Carnacina!”, esclamò sorpreso di trovarselo davanti, “certo che te del far aspetta' noi del R.I.S. ne stai facendo 'na scienza proprio, un'arte.”
Carnacina sbuffò.
“Caffè?”, chiese il Carabiniere facendo cenno di seguirlo mentre si dirigeva alla macchinetta.
“Amaro, grazie.”
Dopo che ebbero finito di bere l'infuso salvavita, Emiliano decise di passare alle cose serie.
“Allora, che me sai di' del cadavere che t'abbiamo mandato stamattina?”, chiese interessato.
“Ah già, quello... E' morto verosimilmente tra le sette e mezza e le nove di questa mattina.”
“La causa?”
“Ehi, con calma! Overdose. Nell'intestino gli ho trovato una quantità impressionante di pillole, di quelle che vengono prescritte per combattere la pressione alta; probabilmente le ha ingerite ieri sera durante la cena. Evidentemente stamattina quando ha preso anche la dose normale non ha retto più”, spiegò il medico legale.
“Poveretto, quindi è stato ammazzato...”
“A  meno che non crediate che abbia volontariamente sbriciolato più di due scatole di pillole nella cena, quella dell'omicidio rimane l'ipotesi più probabile.”
“Grazie Carnacina”, lo liquidò Milo, e scappò di corsa per avvisare Bianca.
“Ciao Cecchi”, salutò Carnacina quando ormai Emiliano non poteva più sentirlo. Si voltò e vide Serra spuntare dalla porta automatica.
“Ma guarda un po', chi non muore si rivede!”, esclamò Orlando un po' sorpreso, un po' divertito.
“Tenente Serra”, lo salutò il dottore.
“Carnacina”, rispose il Carabiniere. “Qual buon vento?”
“Guarda, fatti aggiornare dal tuo collega Cecchi, io devo scappare.”
“Sei sempre di fretta, Carnacina, sempre di fretta. Fammi indovinare, un altro cadavere?”
“Una donna”, rispose il medico legale, “viva.”
“Complimenti allora, e buona fortuna”, gli augurò il Tenente mentre lo guardava andare via.
Curioso di vedere se ci fossero svolte del caso e, soprattutto, di sapere se avrebbe potuto dedicarsi alla ricerca del Lupo, Orlando si diresse subito a cercare Emiliano per farsi aggiornare: lo trovò alla postazione di Bianca, intento a riferirle ciò che Carnacina gli aveva appena comunicato.
“Quindi è morto stamattina, ma è stato 'ucciso' ieri sera. La prima indiziata rimane comunque la moglie”, riassunse Serra non appena tutto gli fu chiaro.
“Me sa che ce tocca cerca' l'arma del delitto”, disse scocciato Emiliano.
Orlando annuì.
“Ma come l'arma del delitto? Insomma, chissà dove sono andate a finire ormai queste scatole, la gente le butta e...”, Bianca si arrestò a metà frase: si era accorta che i due colleghi la guardavano come se avesse appena detto qualcosa di ovvio; all'improvviso capì: la spazzatura. “Oh.”
“Eh, sì”, disse Serra, “andate voi due, io vi aspetto qui.”
“Ma...”
“Tranquilli, non mi muovo mica!”, ridacchiò il Tenente, e detto questo scappò velocemente verso la propria postazione.
 
Mezz'ora dopo il Sottotenente Cecchi era già di ritorno dall'abitazione della vittima in via Suez 35 con in mano quattro sacchi dell'immondizia.
“Tutti questi?”, chiese Bianca sorpresa.
“Nah! Che me stai a piglia' in giro?”, rispose Milo retorico, “adesso arriva Sasso co' gli artri.”
E infatti pochi secondi dopo ecco spuntare il Tenente, anche lui carico di spazzatura.
“Bianca che fa', annamo?”, la chiamò Emiliano dal laboratorio in fondo al corridoio.
“Sì, arrivo subito!”, rispose la collega e si affrettò a raggiungerlo.
Una volta vuotati tutti i sacchi, i due Sottotenenti armati di guanti cominciarono a rovistare in mezzo agli scarti.
Bianca spostava regolarmente lo sguardo dagli oggetti che stava controllando a Milo che le stava di fronte, soffermandosi più sul secondo.
Ancora non era riuscita a rassegnarsi alla loro rottura, anche se era stata lei a stabilire che sarebbe stato meglio così per tutti e due. Ogni volta che lo guardava, che incrociava il suo sguardo, che la sua mano sfiorava la sua spalla, bastava un gesto, una parola, un semplice sguardo e la fiamma si riaccendeva immediatamente, bruciante come all'inizio.
Emiliano, di contro, sembrava non avere questo problema, sembrava che avesse superato perfettamente quel 'momento di debolezza', come usava chiamarlo lui; diceva di essersi riinnamorato della moglie dopo  l'esperienza con l'amante. Aveva rimesso la testa a posto, pensava alla piccola Marica adesso, e nella sua vita non c'era posto per altre donne che non fossero lei e Giada.
Bianca l'aveva capito, se ne era resa conto, ma era ancora innamorata di Milo; al contrario di come era stato per lui, quella per lei non era stata una semplice scappatella. Ed ora le sarebbero toccate le conseguenze. A meno che non...
“Ammazza quanta roba!”, la voce di Emiliano distolse Bianca dai propri pensieri.
“Trovato niente?”, chiese lei.
“No, ancora niente, te?”
“Nemmeno io; continuiamo a cercare, dai”, in realtà cerava solo una scusa per riimmergersi nel suo mondo.
Il tempo concessole da Milo le bastò a mala pena per decidere che avrebbe dovuto parlare con il Capitano, poi ancora una volta la sua voce fece violentemente irruzione nella testa della ragazza.
“Beccate!”, esclamò Cecchi entusiasta guardando sorridente le proprie mani che evidentemente contenevano qualcosa di interessante.
“Fa' vedere”, lo sollecitò Bianca.
Emiliano le mostrò le scatole, chiuse e vuote: sopra vi erano due serie di impronte; le prime erano probabilmente della vittima, le altre presumibilmente dell'assassino.
Milo le rilevò e le passò all'A.F.I.S.; un mezzo sorriso affiorò sul suo volto: il nome dell'assassino lampeggiava intermittente sul monitor del suo computer.
 
 
 
Ore 4:44 P.M. Stanza interrogatori. Caserma S. D'Acquisto. Roma.
 
La donna sedeva elegantemente di fronte al Tenente Serra, dall'altro lato del tavolo. Teneva lo sguardo impertinente fisso nel suo: lo stava sfidando. Il Tenente Sasso stava in piedi proprio dietro l'investigatore della scientifica e, calmo, osservava la scena.
“Allora, ce lo dice che cosa ci facevano le sue impronte sulle scatole dei farmaci per la pressione del signor Sabatini?”
“Non mi sembra una cosa così assurda, visto il lavoro che faccio, no?”, sorrideva, era proprio insolente.
“Certo, lei era la farmacista della vittima, niente di strano trovare delle sue impronte sulla scatola di un farmaco. Ma vede, noi abbiamo rilevato delle sue impronte anche all'interno delle scatole, e c'erano solamente impronte appartenenti alle sue mani. Questo come ce lo spiega?”
Il sorriso sparì lentamente dalla bocca della signorina De Luca, l'evidenza la inchiodava; Orlando l'aveva in pugno.
“Okay, confesso”, si arrese, “l'ho ucciso io. Ieri sera, mentre sua moglie era uscita sono andata a casa sua, stava cucinando, allora gli ho detto che dovevo andare in bagno, in realtà ho preso le pillole, le ho sbriciolate e le ho messe nel cibo, stando attenta a non lasciare impronte da nessuna parte. Quando me ne sono andata ho gettato le scatole vuote nel cassonetto sotto casa sua: le prove sarebbero dovute sparire prima di questa mattina.”
“Ma non aveva tenuto conto dello sciopero dei netturbini, signorina”, le ricordò Sasso.
“E quindi noi abbiamo potuto trovare l'arma del delitto”, concluse Orlando al posto suo. “Solamente una cosa non mi è chiara: perché si trovava lì? Perché ha voluto ucciderlo?”
“Io ed Oreste eravamo amanti”, rispose rassegnata, sorprendendo il Tenente, “per me era una storia seria e lui diceva che era la stessa cosa per lui, ma non voleva saperne di lasciare la moglie. Andava avanti così da tre anni, mi ero stufata ed ho deciso di farlo fuori.”
“Per me può bastare”, disse il Tenente della Territoriale, “portatela via.”
Mentre l'assassina lasciava la stanza scortata da due Carabinieri, Orlando la guardava con commiserazione: non era affatto pentita di quello che aveva fatto, anzi, ne andava quasi fiera, era solo un po' scocciata del fatto che l'avessero presa. Nonostante il lavoro che faceva ancora riusciva a sorprendersi davanti a soggetti del genere.
Lei gli mandò un ultimo sguardo provocatore, poi sparì dietro la porta blindata.
 
 
 
Ore 6:00 P.M. Sede del R.I.S. Di Roma.
 
Il laboratorio era semi deserto; non c'erano uomini, solo due donne.
Una volta chiuso il caso Sabatini, Emiliano era scappato a casa dalla moglie e la figlia che non vedeva l'ora di riabbracciare, Orlando invece aveva lasciato il rapporto sulla scrivania del Capitano, era passato alla casa al mare a cambiarsi (trovando un Ghiro ancora dormiente) ed era corso a casa di Lucia per prepararle una sorpresa; Bart, infine, sotto sollecitazione della Brancato, aveva acconsentito a lasciar perdere il lavoro sull'ultima rapina del Lupo ed era andato anche lui a casa dalla moglie. In fondo era sabato sera, si meritavano tutti un po' di riposo.
Le uniche rimaste erano quindi Lucia che da buon Capitano, abituata ad uscire per ultima dal R.I.S., si sentiva quasi in colpa se abbandonava l'edificio prima del resto dei membri della sua squadra, e Bianca che, seduta alla propria postazione, sembrava concentrata davanti al computer.
Il monitor era illuminato, occupato interamente da un bianco foglio di word. Da più di mezz'ora andava avanti così: la ragazza scriveva una parola e subito dopo la cancellava. Quando finalmente ebbe finito, mordendosi il labbro inferiore cliccò sul tasto 'stampa', ed il rumore della stampante, l'unico presente, cominciò ad echeggiare nell'edificio. Sicura di quello che stava per fare, Bianca estrasse lentamente il foglio stampato e lo annusò: amava il profumo dell'inchiostro fresco; poi, con passi grandi e decisi si diresse verso l'ufficio del Capitano.
Due colpi secchi alla porta riscossero Lucia che, immersa nei propri pensieri, cercava di immaginare quello che Orlando le avrebbe fatto trovare a casa.
“Avanti”, disse.
Bianca fece capolino sulla porta. “La disturbo, Capitano?”
“No, figurati, ti stavo aspettando.”
“Come sarebbe a dire che mi stava aspettando?”, chiese sorpresa.
“Eri rimasta solo tu, se non fosse stata una questione di lavoro a quest'ora saresti già uscita e dato che il tuo caso è stato risolto e non avevi alcun dubbio in merito ho dedotto che volessi parlare con me; mi sbaglio?”
“No, ha ragione come sempre, Capitano.”
Lucia sorrise. Per qualche strano motivo che non ancora non aveva capito i suoi uomini la credevano un mito. Persino Orlando e Daniele per scherzare la chiamavano 'Super Capitano'.
“Dimmi, allora”, la incoraggiò.
“Ecco, io... Francamente non so come la prenderà, ma... Il fatto è che vorrei presentare una richiesta di trasferimento, vorrei tornare a Perugia, al N.O.E.”, ecco: l'aveva detto.
“Ah”, questa volta il Super Capitano rimase spiazzato, “e come mai?”
“Credo che questo lavoro non faccia per me: io sono una naturalista, io scovo e combatto i disastri ambientali, non i serial killer, io...”
“E' per Emiliano, vero?”, dopo l'attimo di smarrimento dovuto alla notizia Lucia era tornata all'attacco.
“... Come scusi? E lei come fa a saperlo?”
“Non credo che fosse un così grande segreto: se n'è accorto tutto il R.I.S.”, rispose schietta.
“Oh. Be', sì: è per lui.”
“Sei sicura della tua decisione?”, chiese il Capitano, ora era serissima.
“Sì, Capitano. Non riesco più a lavorare, mi distraggo in continuazione; già sono distratta di mio, se dobbiamo contare pure il tempo che se ne va quando penso a lui, allora...”
“Capisco, se ne sei proprio sicura allora accetterò la tua richiesta di trasferimento, ma ti chiedo solamente di pensarci bene: non lasciare che la sfera personale prenda decisioni così importanti al posto tuo. Oggi è sabato; lunedì mi darai la tua risposta, okay?”
“Grazie, Capitano”, Bianca annuì, sorrise ed uscì dopo averle consegnato la lettera.
Per Lucia quel trasferimento non era un grande problema: si era accorta che ultimamente il rendimento del Sottotenente Proietti non era buono come all'inizio dell'anno; inoltre, se se ne fosse davvero andata, aveva già un'idea di chi avrebbe potuto sostituirla. E quell'idea le piaceva.
Uscita Bianca, il Capitano cominciò a raccogliere le proprie cose: infilò di fretta il cellulare, le chiavi di casa e della macchina nella borsa, indossò gli occhiali da sole e uscì anche lei dall'edificio del  R.I.S.
Giù, al cancello, il Tenente Serra la attendeva appoggiato alla fiancata di una BMW nera; nella mano destra stringeva una rosa rossa. Non appena la vide arrivare i suoi occhi si illuminarono; non appena lo vide un sorriso felice affiorò sulle labbra della sua amata.
Quando fu abbastanza vicina la baciò senza nemmeno preoccuparsi di poter essere visto; le loro mani si intrecciarono e Orlando ne approfittò per passare la rosa dalla propria alla sua.
“Credo questa sia per lei, Capitano”, sussurrò con voce roca ad un centimetro dalla sua bocca. Lei stette al gioco.
“Chi la manda?”, chiese sorridendo.
“Un povero Tenente rompiballe e senza speranze.”
Lei rise e continuò a baciarlo come se quella stessa sera il mondo sarebbe dovuto finire.
 
 
 
Ore 7:38 P.M. Villa al mare del Capitano Ghirelli. Roma.
 
Daniele dormiva praticamente da quando il suo buon amico nonché convivente Orlando gli aveva fatto la gentilezza di riaccompagnarlo a casa e di metterlo a letto quella mattina stessa. Aveva già dormito sonni tranquilli per quasi dodici ore, troppo stanco per poter sognare. Ma prima o poi si sarebbe dovuto svegliare comunque; era questo che non gli piaceva.
Passare una notte senza sogni era il massimo che potesse desiderare, in quell'ultimo periodo: qualche ora di pace, qualche ora di evasione, per poi tornare alla realtà che nel frattempo rimaneva totalmente immutata. In verità da un po' pensava anche all'eventualità di non tornare più.
Da un anno a quella parte odiava anche i sogni. Nei sogni era sempre tutto così perfetto; i suoi inoltre erano sempre particolarmente realistici, tanto da non riuscire ad etichettarli come tali. Nei sogni entrava davvero in un mondo tutto suo, un mondo dove gli sarebbe piaciuto poter restare. Vedeva Flavia sorridere, parlare con lui, cercare di insegnargli i nomi impronunciabili delle farfalle, imprecare in giapponese... La vedeva mentre entusiasta dava i grilli da mangiare ai camaleonti, la vedeva recitare quelle buffe poesie giapponesi, realizzare i suoi sogni uno ad uno: andare a Madrid, sposare Marcella, riuscire a costruire un origami a forma di baco da seta, insegnare a Ghiro il modo giusto per preparare il sushi... C'erano così tante cose che avrebbe voluto ancora fare, ma molte di più erano quelle che non avrebbe fatto mai.
A volte gli sembrava di vederla anche da sveglio. Era lì accanto a lui che lo rimproverava per il disordine o che gli ricordava la sua promessa di tenere la barba costantemente curata. Ma gli bastava girarsi un momento, rispondere al telefono, chiudere gli occhi, per perderla di nuovo di vista, perchè in realtà era soltanto un riflesso, un'immagine proiettata dalla sua mente, solo un'ombra della Flavia che aveva conosciuto... e che aveva perso.
Doveva svegliarsi, anche da sveglio doveva tornare alla realtà. Una realtà in cui, dalla morte di Flavia, il rumore delle onde che si infrangevano sulla banchina era diventato la sua unica compagnia, il rosso del tramonto il suo unico conforto. Si sentiva perduto.
Aveva fatto l'unica cosa che non doveva fare: aveva messo da parte la sofferenza; in quei momenti, quelli in cui si sentiva più vulnerabile, si rendeva conto di non aver mai affrontato seriamente la morte della sua piccola sorellina orientale. E, come gli aveva detto una volta il suo caro Orlando, la sofferenza prima o poi esce fuori e ti presenta il conto.
Era arrivata Selvaggia e aveva portato con sé mille distrazioni, Ghiro pensava di avere ricominciato a vivere. Non che pensasse di essersi innamorato, ma Flavia ormai sembrava più lontana; gli mancava, certo, ma sentiva di poter ricominciare a sorridere, finalmente. Non aveva capito che quella realtà era soltanto un diversivo, non si era reso conto di aver costruito uno scudo e di essercisi rifugiato dentro. Lo capì solamente una volta sceso dall'aereo che tornava da Londra.
Erano stati dei bei dieci giorni, quelli trascorsi con Selvaggia nella capitale inglese. Avevano riso, scherzato, avevano festeggiato la cattura della Banda, Ghiro aveva visitato il Big Ben, l'osservatorio di Greenwich, aveva persino fatto una fila assurda per poter vedere i gioielli della corona...
Alla fine della vacanza si erano salutati come buoni amici; tra loro era tutto a posto.
Purtroppo però anche quel sogno era destinato a finire.
Una volta sceso dall'aereo, Daniele si accorse di non avere più uno scopo.
Quando era tornato a casa, nella villa al mare, si era guardato intorno e si era trovato completamente solo. Il passato esitava a voltargli le spalle, bloccando ogni punto d'accesso al futuro, e il presente era sfuggente, nebuloso, si nascondeva dietro l'incapacità di andare avanti, diveniva astrattezza, gli faceva perdere quel suo precario contatto con la realtà.
Nel giro di pochi mesi aveva perso per sempre i suoi amici più cari; una era morta e, talvolta, Ghiro pensava che forse sarebbe stato meglio se fosse morto anche l'altro.
Invece l'aveva deluso, Stinco, il suo amico d'infanzia, colui con il quale aveva passato pomeriggi con gli occhi fissi su un monitor a testare nuovi virus e videogiochi, avevano condiviso la stessa tastiera, erano cresciuti insieme; come aveva potuto fargli una cosa del genere? Come aveva potuto voltargli le spalle in quel modo, voltarle alla madre, al proprio mondo? Come si poteva decidere di unirsi ad una Banda di spietati criminali? Ma la domanda che più lo tormentava: come aveva fatto il suo amico a non avere  rimpianti dopo aver strappato alla vita così tante persone, dopo essere stato complice del Lupo nell'uccisione di Flavia?
Credevano che sarebbero stati amici per sempre; avevano stretto un patto, si erano imposti tre semplici regole, ma Stinco, in un colpo solo, le aveva infrante tutte.
Numero uno: corri dietro ai tuoi sogni finché non li acchiappi.
Numero due: nel frattempo non scordarti di cazzeggiare.
Numero tre: comunque vada resta sempre te stesso.
Puf! Svanite, spazzate via da una furia omicida, così come il suo migliore amico.
Eppure se in quel momento, quando, stringendosi a vicenda la mano, avevano decretato l'eterna durata della loro amicizia, qualcuno avesse osato rivelare loro come sarebbe finita nessuno dei due gli avrebbe creduto.
Daniele aveva sempre pensato che la vita fosse bella perché imprevedibile, adorava le sorprese, adorava imboccare una strada senza sapere dove l'avrebbe portato. Ora invece il mistero non lo entusiasmava più: aveva perso fiducia nella vita, si sentiva smarrito, solo in quel mondo che per lui da un po' di tempo ruotava sempre nella stessa direzione. Se solo ci fosse stata Flavia...
Ghiro si svegliò un po' intontito; aveva ancora sonno, ma era stanco persino di dormire. Uscì lentamente dalla camera da letto, aveva voglia di respirare un po' d'aria marina. Il caso volle che la prima cosa che vide fu proprio il tramonto.
Il sole rosso, semicoperto da una nuvola rosa, declinava adagio verso la spiaggia; i gabbiani volavano alti nel cielo gridando al mondo il valore della propria libertà.
Ghiro si rannicchiò sulla sabbia.

 

Ancora qualche minuto ed il sole si sarebbe spento nelle acque al di là dell'oceano. Dall'occhio destro di Daniele sgorgò una minuscola lacrima salata che, lenta come il sole che tramontava sulla spiaggia, gli accarezzò dolcemente la guancia; una brezza impalpabile si alzò scompigliando i suoi lunghi capelli ricci. Nello stesso momento, una farfalla gialla, piccola e leggera gli si posò sul dorso della mano destra, per poi volare via non appena l'uomo si accorse della sua presenza. Non aveva dubbi: era una Papillionide, come quella che aveva liberato con Marcella appena cinque mesi prima, in quella stessa spiaggia, come quella cui aveva detto addio, no anzi, sayonara. Con la stessa mano su cui Flavia si era appena posata asciugò quell'umida goccia salata sulla sua guancia. Chiuse gli occhi; poi esplose in un amaro pianto liberatore.                                                                                                        
 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Ciao a tutti!
Scusatemi per il tremendo ritardo, spero che vorrete perdonarmi... Purtroppo tra impegni vari è venuto meno il tempo per la scrittura, scusatemi, davvero, credo che la vergogna mi stia divorando... Quindi, meglio non pensarci e andare avanti!
Un grandissimo grazie a coloro che hanno recensito il secondo capitolo (ludoNy, Axen, Clappy e Mixi_), che hanno messo la storia tra le seguite (8giusy8, Axen, Clappy, Dubhe92, ludoNy e Twenties Girl) e un ringraziamento immenso a Breastroke e  Lisbeth17, che hanno messo la storia tra le preferite. 
Ora vi lascio alla lettura, avete aspettato anche troppo! 
Spero che il capitolo vi piaccia, l'ho scritto di getto, quindi non sarà un granché...
Buona lettura! :D
Absteria


***



Lunedì, 11 Luglio 2011. Ore 6:45 A.M. Villa al mare del Capitano Ghirelli. Roma.

 
Traccia 1 – Chop Suey, System of a Down.
Fu questa la rumorosa ed efficacie sveglia del Capitano Ghirelli.
Orlando ormai era diventato praticamente un fantasma: passava quasi tutte le sere a casa della Brancato, ma quando dormiva a casa di Ghiro – il che avveniva quasi ogni domenica e solo  occasionalmente di settimana – si faceva letteralmente sentire.
A Ghiro non dispiacevano le canzoni che ascoltava il suo coinquilino invisibile, ma odiava due cose: essere svegliato e che qualcun altro gli rubasse il posto di dj in casa propria.
Spaparanzato, come al solito, sul letto a due piazze della propria camera da letto, Daniele Ghirelli si svegliò di soprassalto disturbato dal frastuono della musica che, più efficacie di una doccia fredda, lo fece resuscitare da quella morte apparente in cui era piombato qualche ora prima.
“Orlando!”, urlò con la voce impastata dal sonno, “la musica!”
“Come?”, rispose quello fingendo di non capire, “non ti piace la musica?”
“La musica, Orlando! Spegni la musica!”
Questa volta invece gli lanciò un messaggio abbastanza chiaro: “ti alzi e la spegni da solo”, ovvero: ti devi svegliare immediatamente.
“Ma perché me lo sono messo in casa questo?”, si chiese il Capitano, ma non riuscì nemmeno a sentirsi a causa della musica; ripeteva quella frase praticamente ogni volta che Orlando metteva piede nella sua villa al mare. Ma in fondo gli voleva bene.
Capendo che il suo amico non avrebbe mai spento la musica e che, finita quella traccia, ne sarebbero partite altre che con tutte le probabilità sarebbero state decisamente più chiassose, il padrone di casa ormai rassegnato abbandonò il letto e spense lo stereo facendo un grande regalo alle proprie orecchie.
“Almeno il caffè lo hai preparato?”
“Certamente, Capitano”, rispose Orlando dalla verandina fuori dalla stanza del Ghiro, dove era intento a fare colazione.
“Ah, ecco, almeno questo...”, il Capitano Ghirelli parlava ancora tra se e se mentre si sedeva fuori al tavolino anche lui per fare colazione; poi, rivolto all'amico Tenente, aggiunse a voce alta: “ma da quand'è che sei così mattiniero? E' prestissimo: non sono nemmeno le sette...”
“Ma tu lo sai a che ora suona la sveglia di Lucia?”, chiese lui cercando di nascondere l'orgoglio per lo spirito responsabile da buon Capitano del R.I.S. della propria ragazza.
“No, a che ora?”
“Alle sei e un quarto”, disse Serra scandendo bene ogni parola.
A Ghiro il caffè andò di traverso. “Cosa? Alle sei e un quarto?!”, ripeté con un tono di voce a metà tra il sorpreso e lo scioccato. “Ma quella è pazza.”
“No, è il Capitano”, la giustificò Orlando, “e tu dovresti prendere esempio da lei.”
“Che cosa?! Tu sei matto...”, cominciò a blaterare, “io! Prendere esempio da lei, arrivare presto la mattina, io?! Tu non ci stai più con la testa...”
“Sì, certo”, rispose lui senza pensarci troppo, tanto per accontentarlo. Era evidente che l'amico si fosse svegliato male, ed era proprio quella la questione che più gli premeva discutere ma, per la prima volta, non sapeva se sarebbe stato meglio parlarne subito o aspettare ancora un po'. Poi gli tornarono in mente le parole che Lucia gli aveva detto la mattina prima: 'sono un tantino in ansia per Daniele, da un po' non mi sembra più lo stesso, sai che cosa gli succede?', gli aveva chiesto con voce tremula ed una piccolissima ruga sulla fronte, proprio in corrispondenza del naso; non aveva saputo risponderle, anche se si era posto lui stesso quella domanda qualche giorno prima; ora era arrivato il momento di fare un bel discorsetto con il proprio migliore amico.
“Senti, Ghiro, sai che di me ti puoi fidare, giusto?”, gli chiese con cautela non appena ebbe finito di addentare una fetta biscottata con del burro spalmato sopra.
Daniele esitò un momento: non capiva dove l'amico volesse andare a parare con quel discorso; poi, con espressione dubbiosa, rispose “sì, certo Orlando”, la voce tutto sommato sembrava sincera.
“Allora cosa aspetti a parlare?”, incalzò obbligandolo a guardarlo negli occhi.
“A parlare? E di che?”, non era finzione, Daniele era veramente confuso dalle parole del coinquilino.
“Di te, di quello che ti sta succedendo. Quante volte te lo devo dire? Fa male tenersi tutto dentro. Lucia ed io siamo preoccupati per te...”, poi si interruppe notando l'espressione di Ghiro, confusa e sorpresa allo stesso tempo, “...o pensavi che non ce ne fossimo accorti?”
“Be', sinceramente sì, ero convinto che non vi foste accorti di nulla”, rispose. Si era sentito abbandonato durante quell'ultimo periodo, perché credeva che i suoi amici più cari non si fossero accorti completamente di quello che gli passava per la testa. Era un sollievo scoprire che in realtà non era così, ma ora si trovava anche in un bel pasticcio: come avrebbe fatto a spiegare tutto ai due quando nemmeno lui sapeva bene che cosa gli stesse accadendo.
“Ghiro”, disse con voce un po' delusa, un po' incoraggiante, un po' sorpresa e con un pizzico di rimprovero, “ma certo che ce ne siamo accorti: noi siamo i tuoi amici, ci siamo sempre per te, lo sai. E' solo che pensavamo che ti servisse un po' di tempo e che poi ti sarebbe passato tutto o che ce ne avresti parlato. Non pensavamo che ti saresti chiuso in te stesso in questo modo; rischi di esplodere se vai ancora avanti così.”
“Sì, forse hai ragione: la situazione mi è un po' sfuggita di mano”, disse con sguardo basso; non si vergognava di parlare di se con lui, si vergognava di aver pensato che lui non si fosse accorto di niente o, peggio, di aver pensato che non gliene fosse importato niente. Anche perché sapeva che, anche se Orlando non glie l'avrebbe mai detto, questa era una cosa che lo feriva e lo offendeva. “Possiamo parlarne in un altro momento, però: rischiamo di fare tardi al R.I.S.”, si salvò così, per quella volta, ma non avrebbe retto a lungo: prima o poi avrebbe dovuto parlare con i suoi amici.
“Ghiro”, lo richiamò il Tenente.
“E Dai, Orlando! Non ho mica detto 'no', ho detto soltanto 'in un altro momento'”, insistette Ghirelli.
“Va bene, Capitano”, si arrese, “ma bada che non me ne dimentico!”, lo avvertì, e la sua espressione confermava in qualche modo ciò che dicevano le parole.
“Tranquillo, ne riparliamo”, lo rassicurò Daniele, “parola di boy scout”, disse ed entrambi sorrisero. “Ora però, se permetti, mi vado a sciacquare la faccia: ho promesso a Lucia che oggi mi avrebbe trovato riposato, e non è mia intenzione non mantenere la parola.”
“Come desidera, Capitano”, lo sfotté Orlando. “Ci vediamo alla macchina tra venti minuti”, disse infine, e sparì verso la cucina prima ancora che Daniele potesse avere il tempo di alzarsi dalla sedia.
 
 
 
Ore 7:00 A.M. Sede del R.I.S. Di Roma. Ufficio del Capitano Brancato.
 
Nonostante fossero trascorse solo un paio d'ore dal sole sorgente e i passeri sugli alberi della caserma avessero appena cominciato a cantare, Lucia Brancato era già seduta sulla sua comoda poltrona nera, davanti alla scrivania del proprio ufficio al R.I.S. a smistare carte e documenti. Odiava dover risolvere le questioni burocratiche, era noioso; ma lei era il Capitano, e sapeva bene che questo non significava soltanto portare tre stelline sul petto o dare ordini a destra e a manca: essere il Capitano comportava grosse responsabilità...e qualche firma sui documenti per ferie, licenze e libere uscite. Mentre tutti fuggivano dalle città per andare in vacanza, solamente lei ed i suoi uomini,  eccetto Bartolomeo, che dopo la cattura di Mario Pugliese si era sposato ed aveva preso una licenza di tre giorni per la luna di miele e Ghiro che era andato a trovare Selvaggia a Londra, non avevano ancora preso nemmeno un giorno di ferie. Colpa del Lupo, ovviamente.  E questa era l'ennesima dimostrazione di quanto i suoi collaboratori tenessero a lei; come diceva Orlando: avrebbero sacrificato la loro stessa vita per salvare la sua, ed in qualche modo Lucia sapeva che era la verità; si fidava di loro ciecamente, e se un tempo il Tenente Serra era stato un'incognita, ora costituiva il suo punto più fermo. Inoltre anche lei non avrebbe esitato a sacrificare la propria vita per salvarne una qualsiasi di un membro della sua squadra, sopratutto se si fosse trattato del Tenente Serra. Era questo il bello di lavorare in gruppo; all'interno della sua squadra ormai non c'erano più semplici colleghi, erano tutti amici e per alcuni, come per Daniele, lei stessa aveva sviluppato un amore fraterno, per altri invece una forte amicizia, un profondo rispetto, o ancora un amore un po' meno fraterno...
Mentre compiva meccanicamente i gesti di timbrare e firmare, lo squillo del cellulare interruppe il filo dei suoi pensieri. Guardò il nome sul display: Mag. Rambaudi. A quanto pare anche lui si svegliava presto la mattina.
“Capitano Brancato”, rispose.
“Buongiorno Capitano, scusi per l'ora...”
“Non si preoccupi, sono già in ufficio. Mi dica pure.”
“Ha chiamato la centrale: hanno ritrovato il cadavere di una donna accoltellata al numero 22 di via Cavour. Serve qualcuno dei suoi uomini sul posto.”
“Certo, ne mando subito un paio”, acconsentì efficientemente il Capitano, “arrivederci Maggiore, e buona giornata.”
“A lei, Capitano. Arrivederci”, la salutò e chiuse la conversazione.
Il Capitano Brancato sapeva già chi chiamare. Compose in fretta il numero sulla tastiera del cellulare: lo conosceva a memoria.
Il destinatario della chiamata rispose al primo squillo.
“Pronto, amore!”, disse, Orlando era felice di sentirla. Ghiro, accanto a lui sul sedile della macchina, alzò gli occhi al cielo: detestava le sdolcinatezze.
“Ciao Orlando, stavi dormendo? Mi rendo conto che sono solo le sette e mezza e magari...”
“Ma no, che dici?”, la rassicurò lui, “sono già in macchina, stavo per mettere in moto per venire al R.I.S. proprio in questo momento”, le spiegò e poi, sorridendo, aggiunse: “inoltre penso che tu mi abbia contagiato l'abitudine a svegliarmi presto.”
“Purtroppo è così!”, urlò lamentandosi Ghiro per farsi sentire anche da Lucia.
“Vedo che sei in compagnia”, constatò il Capitano sentendo la voce del suo migliore amico dall'altra parte. “Di' a Daniele che gli mando un bacio.”
“Certo tesoro.” Ghiro sbuffò: un'evidente reazione alla parola 'tesoro'.
Mentre riordinava i documenti già firmati, Lucia sentì chiaramente Orlando che mandava i suoi saluti a Daniele e poi, più meno distintamente il suo tono scocciato mentre diceva al Tenente di ricambiare.
“Ricambia”, le comunicò il compagno.
“Grazie”, disse sorridendo. “Ora però veniamo al dunque: ha chiamato Rambaudi, ha detto che è stato ritrovato il cadavere di una donna accoltellata in via Cavour, numero 26.”
“Non c'è problema: andiamo io e Daniele”, rispose subito con spirito di iniziativa.
“No, preferisco che andiate tu, Bart ed Emiliano, Daniele lo voglio qui al R.I.S., gli devo parlare.”
“Va bene, allora io vado direttamente lì e Ghiro prende la moto e viene da te in ufficio. Ci vediamo dopo.”
“A dopo”, disse Lucia ricambiando il saluto, poi riattaccò.
Avvisati anche il Tenente Dossena ed il Sottotenente Cecchi, il Capitano tornò ad occuparsi delle sue tanto amate firme sulle licenze.
 
 
 
Ore 8:27 A.M. Via Cavour, 26. Roma.
 
Sasso arrivò come sempre in anticipo sul luogo del delitto. Il cadavere si trovava in cucina, l'aveva trovato uno dei figli della vittima, la signorina Raimondi, prima di uscire per andare a lavorare, aveva avvertito il fratello che viveva anche lui con la madre e poi insieme avevano chiamato un'ambulanza ed i Carabinieri. Sembravano entrambi disperati per la perdita della madre.
Pochi minuti dopo la territoriale, gli uomini del Capitano Brancato, a breve distanza di tempo l'uno dall'altro, onorarono con la loro presenza la scena del crimine.
Il primo ad arrivare fu Serra che, dopo aver posteggiato con una manovra perfetta, uscì dalla macchina con sguardo fiero, deciso e sicuro di sé; più che un Carabiniere sembrava un agente segreto. Per ingannare il tempo nell'attesa degli altri due colleghi cominciò a fare quattro chiacchiere con i figli della signorina Raimondi.
Dieci minuti dopo il Tenente Bartolomeo Dossena, con gli occhi chiari coperti da un paio di occhiali da sole, scese dalla macchina con la sua solita aria da 'bello e impossibile'. Solo un minuscolo dettaglio, ma non per questo trascurabile, lo smentiva rovinandogli l'immagine: un piccolo anello d'oro bianco posto sull'anulare della mano sinistra, brillava alla luce del sole, irradiando lucentezza come se volesse farsi notare. La fede di matrimonio, la perfetta concretizzazione del proprio amore per la sua Eleonora.
Non passarono nemmeno sessanta secondi dall'arrivo di Bartolomeo, che un'altra automobile, sicuramente più modesta, occupò l'ultimo posto rimasto davanti il portone di casa Raimondi. Con le sue consuete occhiaie, dallo sportello anteriore sinistro sbucò Emiliano Cecchi che, nonostante la stagione pienamente estiva, indossava il solito giubbotto in pelle marrone.
Mancava solo il medico legale, ma gli investigatori, una volta al completo, decisero di cominciare comunque a fotografare e repertare gli oggetti sulla scena del crimine e ad esaminarne le condizioni.
“La porta di casa non è stata forzata”, constatò il Tenente Serra.
“Buono”, commentò Sasso, “questo restringe il campo: vuol dire che la vittima conosceva l'assassino e l'ha fatto entrare.”
“Sì, Sasso, lo sappiamo....”
“E l'ho capito, scusa!”, esclamò offeso, “era solo per farti capire che stavo attento pure io. E comunque, se ti interessa saperlo, Giovanni, uno dei figli della Raimondi, dice di essere stato svegliato dal suono del campanello alle sette meno venti; dice di aver controllato l'orario e di essere tornato a dormire, e dato che l'altro figlio, Alessio, sostiene di non aver sentito niente e di non essere mai uscito dalla stanza fino al momento del ritrovamento, la porta la deve avere aperta lei.”
“Questo è interessante, Sasso, grazie”, gli rispose il Tenente Serra sorridendogli, come per tentare di farsi perdonare.
“Prego”, rispose il Tenente Sasso ancora un po' offeso per ciò che Orlando aveva detto poco prima.
Mentre Orlando e Fabrizio controllavano l'ingresso, nella stanza accanto (la cucina) Bart ed Emiliano repertavano tutti gli oggetti interessanti. Bart trovò un coltello appena lavato nel lavandino; bastò un semplice esame con il luminol per etichettarlo come arma del delitto. Purtroppo però sopra non c'erano impronte. Milo nel frattempo fotografava ogni singolo schizzo di sangue con l'intenzione di utilizzare il B.P.A. per stabilire orientativamente l'altezza dell'assassino una volta  in laboratorio. Purtroppo sul pavimento non c'era nessuna impronta, e sul cadavere e sui vestiti di Silvia Raimondi non albergava alcuna traccia organica dell'assassino.
Quando ognuno ebbe finito la propria parte di lavoro, si ritrovarono tutti nella camera da letto della  vittima. Dopo che si furono accertati che nemmeno lì ci fossero tracce che non ci dovevano essere, cominciarono la loro riunione.
A turno, ognuno riferì ciò che aveva trovato; a cominciare da Orlando.
“La porta d'ingresso non è stata forzata, ma non ci sono impronte sulla maniglia, né dalla parte esterna né da quella interna. L'assassino deve aver indossato dei guanti.”
“Nemmeno io ho trovato impronte sulla maniglia della porta in cucina”, intervenne Emiliano, “ed inoltre ho notato che la vittima c'aveva le presine, quelle che si usano per cucinare. Questo spiega perché non ci sono nemmeno le sue di impronte: non ne ha lasciate e quelle che c'erano le deve aver cancellate passandoci sopra le mani coperte dalle presine.”
“Chi ha fatto le foto?”, chiese il Tenente Serra.
“Io”, si fece avanti Milo, “gli schizzi di sangue almeno c'erano, appena arrivo in laboratorio inserisco i dati nel B.P.A.”
“Perfetto. Bart?”
“Io ho trovato l'arma del delitto”, disse, e la mostrò da dentro la busta di plastica dove era stata inserita durante il repertamento, “è un semplice coltello da cucina, l'ho trovato nel lavandino dove era stato appena lavato. Anche qui niente impronte. Ma Carnacina?”
“Buongiorno a tutti”, disse una voce alle loro spalle. Si voltarono in sincrono e scorsero lui, Mimmo Carnacina, appoggiato allo stipite della porta che ricambiava loro lo sguardo un po' compiaciuto di averli colti di sorpresa. “Aspettavo il momento giusto per la mia apparizione”, disse semplicemente.
“Parli del diavolo...”, commentò tra sé e sé Bart sottovoce. 
“Buongiorno Carnaci'”, disse Emiliano rispondendo al saluto.
“Hai già esaminato il cadavere? “, chiese interessato Bartolomeo.
“E me lo chiami cadavere quello?”, chiese ironicamente il medico legale, “quella è morta da un'ora al massimo!”
“Carnacina...”, lo esortò Orlando.
“Sì, l'ho esaminato. La donna è stata letteralmente pugnalata alle spalle: presenta un solo colpo inferto alla schiena, al lato sinistro esattamente all'altezza del cuore; è morta immediatamente.”
“E l'arma del delitto....”
“Sì, i contorni della ferita coincidono perfettamente con il tipo di lama del coltello repertato dal nostro caro Bartolomeo”, rispose a Serra prima ancora che finisse di porre la domanda; poi si rivolse a Dossena: “e se quello è sporco di sangue mi sa che hai fatto centro.”
Bartolomeo annuì.
“Bene, non penso che vi serva altro, per il momento. Tolgo il disturbo”, disse. Si voltò ed uscì dalla stanza mimando un cenno di saluto con le mani.
“Arrivederci”, ricambiarono gli investigatori, quasi tutti nello stesso momento.
Dopo l'uscita di Carnacina, la riunione riprese. Fu ancora Orlando che, nonostante fossero parigrado, batteva Bartolomeo per anzianità di servizio, a prendere in mano la situazione.
“Mi sembra che abbiamo fatto il punto della situazione. C'è altro?”, chiese.
“'Un me pare, no”, rispose Milo dopo averci pensato due secondi.
“Purtroppo no”, sospirò Bart un po' scoraggiato.
“Nemmeno io ho altro in mano, purtroppo”, disse infine il Tenente Serra, “va be', andiamo al laboratorio; magari lì riusciamo a mettere insieme qualcosa”, azzardò; era molto speranzoso, ma per niente fiducioso.
“Vado a recuperare Sasso e andiamo”, assentì Bart. “Gli dico di portare in caserma anche i figli della signorina Raimondi per la deposizione.”
“Buona idea”, commentò Orlando: “per il momento è l'unica 'pista' che abbiamo.”
Detto questo riposero tutta la strumentazione nelle apposite valigette nere da lavoro, caricarono i reperti sulle auto e lasciarono il numero 22 di via Cavour scortati dalle gazzelle che trasportavano Sasso ed i due quasi testimoni.
Prossima destinazione: Raggruppamento Investigazioni Scientifiche.
 
 
 
Ore 11:14 A.M. Sede del R.I.S. Di Roma. Ufficio del Capitano Brancato.
 
Quando aveva visto arrivare i colleghi in trasferta, Lucia convocò subito tutti i membri della propria squadra nel suo ufficio per il primo briefing della giornata: voleva subito essere informata sull'assassinio in casa Raimondi ed informare i propri collaboratori su un fatto altrettanto importante.
“Cominciamo?”, esordì, quando finalmente furono tutti presenti.
Ognuno di loro annuì con convinzione.
“Allora, Bartolomeo, cosa abbiamo?”
“Una donna accoltellata...”, disse, e proseguì mettendo tutta la squadra al corrente dei fatti.
Non appena il Tenente Dossena ebbe finito di relazionare tutto il lavoro già svolto e precisato e concordato quello da svolgere, Lucia decise che era arrivato il momento di mettere tutti quanti al corrente della situazione sul Lupo, nota, fino ad allora, solamente a lei ed al Capitano Ghirelli.
“Ragazzi, prima che vi mettiate al lavoro, c'è una cosa di cui mi preme informarvi”, iniziò con cautela il discorso.
“Ci sono novità su Mario Pugliese?”, chiese Orlando speranzoso.
“Non proprio”, rispose secco il Capitano Ghirelli.
“No”, confermò Lucia, “è proprio questo il punto: non c'è nulla di nuovo e noi con quello che abbiamo possiamo fare ben poco, quindi...”
“Quindi ci arrendiamo?”, chiese ancora Orlando con un certo disappunto. Sia Lucia che Daniele si voltarono di scatto verso di lui, con una strana luce negli occhi. Più che una luce forse era una scintilla; una pericolosa scintilla che avrebbe dovuto mettere in guardia il Tenente.
“No”, rispose ancora Lucia punta nell'orgoglio, aggressiva come tigre che difende i propri piccoli, “no che non ci arrendiamo!”, piuttosto che arrendersi e dargliela vinta avrebbe preferito continuare a brancolare nel buio.
“Quello che Lucia vuole dire è che per ora lasciamo fare alla territoriale, tutto qui”, spiegò Daniele con toni più pacati.
“Tutto qui?”
“Tutto qui.”
“Questo non vuol dire arrendersi”, precisò Lucia, forse più per se stessa che i suoi interlocutori.
“No, assolutamente no”, confermò Ghiro. Era serio, ma la reazione dell'amica e collega aveva messo a dura prova il suo autocontrollo da Capitano; se avesse potuto, sarebbe scoppiato a ridere abbandonando qualsiasi forma di contegno che fingesse di possedere.
“Quindi siamo a posto, no?”, chiese Bart un po' incerto, “insomma, voglio dire, non c'è nulla che possiamo fare per trovarlo, per cui... Va be'”, disse accorgendosi che era meglio lasciar stare quel punto, “io vado a controllare le fotografie del luogo del delitto a casa Raimondi, se non avete nulla in contrario.”
“Assolutamente Bart, vai pure”, acconsentì il Capitano Brancato, “andate tutti. Non poter fare una cosa non è assolutamente un buon motivo per non portare a termine quelle che si possono fare.”
Evidentemente il non poter agire di persona per tentare di fermare Mario Pugliese la turbava, ma ancora di più la turbava il fatto che la sua squadra se ne accorgesse. Per fortuna la conoscevano tutti quanti abbastanza bene, quindi non esitarono a togliere il disturbo; nemmeno Orlando; lui forse più di tutti sapeva che era meglio lasciarla sola con se stessa per un po' in certe situazioni: se avesse voluto si sarebbe sfogata con lui la sera stessa.
Ad uno ad uno, quindi, il gruppo di Lucia si dileguò disperdendosi nei meandri del laboratorio. Soltanto Bianca esitava incerta sulla porta, sembrava abbastanza combattuta, sperava forse che la risposta al suo dilemma le arrivasse dal cielo: parlare adesso o lasciarla sola?
Per fortuna Lucia le venne in aiuto: “Sì, Bianca, dimmi pure”, la esortò con fare incoraggiante.
“Io avrei preso la mia decisione, Capitano”, le comunicò. “Vado via, torno al N.O.E.”
“Capisco, allora questo sarà il tuo ultimo giorno al R.I.S.?”, chiese Lucia; appariva fredda e distaccata, ma in realtà le dispiaceva un po' che Bianca avesse preso questa decisione. Però sapeva anche che in fondo era un bene per la squadra: avere un elemento così era come non averlo affatto.
“Penso proprio di si”, rispose Bianca, anche lei era abbastanza dispiaciuta di lasciare quel lavoro: a parte quel piccolissimo incidente con Milo si era trovata davvero bene con quella squadra.
“Allora chiudi in bellezza, su!”, la incitò la Brancato sorridendo. “A lavoro, forza!”
“Agli ordini, Capitano”, rispose il Sottotenente sorridendo suo malgrado.
Il Capitano firmò la richiesta di dimissioni, la ripose nelle mani della diretta interessata e la congedò continuando a sorriderle.
Quando fu di nuovo in procinto di andarsene, Bianca si arrestò di nuovo sulla soglia. “Capitano, io... Be', se lei è d'accordo preferirei non parlarne al resto del gruppo.”
“Non ho nulla in contrario, Bianca, ma il Capitano Ghirelli dovrà controfirmare la tua domanda, per cui...”
“Certo, ci penserò io stessa a parlarne con Ghirelli, ma preferirei comunque non dire nulla agli altri”, ribadì. Entrambe in quella stanza sapevano che in realtà 'gli altri' voleva dire Emiliano.
“Come preferisci”, acconsentì.
“Grazie Capitano”, disse e, finalmente, lasciò la stanza.
Non appena la porta fu chiusa il Capitano sospirò: Bianca stava proprio scappando.
 
 
 
Ore 11:39 A.M. Sede del R.I.S. Di Roma. Ufficio del Capitano Ghirelli.
 
“Oh, Ghire'! Che stai a fa'?”, quasi gridò Emiliano per farsi sentire dal Capitano che, con le cuffie e la musica ad alto volume nelle orecchie, se ne stava quieto nel suo ufficio. La voce del Sottotenente lo tirò fuori dal vortice dei propri pensieri.
“Cecchi, che cosa vuoi?”, si lamentò lanciandogli un'occhiata freddante.
“No, io niente”, rispose cauto, tentando di non peggiorare la propria situazione.
“E allora perché mi stai disturbando?” chiese Ghiro con una finta tranquillità; in realtà era soltanto scocciato.
“No è che dato che non stai facendo niente, magari potresti anche veni' di là ad aiutarme co' er B.P.A.”, propose lui, ancora cauto.
“Cecchi, ti sembra che io non stia facendo niente?”, chiese il Ghiro con voce minacciosa.
“No”, si affrettò a rispondere Milo, “per carità, certo che no, però...”
“Però cosa, Cecchi?”
“E dai, Ghire', e famme 'sto favore!”, insistette il Sottotenente.
Proprio in quel momento il telefono di Ghiro squillò.
“Capitano Ghirelli, R.I.S. di Roma”, rispose lanciando ad Emiliano certe occhiate false alla 'pazienza, è andata così'. Milo, dal canto suo, continuava a guardarlo male.
“No, non ho altro da fare”, disse all'interlocutore dall'altro lato del telefono. Lo sguardo di Milo si fece più tagliente.
“Arrivo subito”, disse infine e mise giù la cornetta.
Si alzò dalla scrivania disordinata lasciando tutto com'era; compreso Emiliano che ancora continuava a fissarlo con uno sguardo velenoso.
“Come vedi, Cecchi, ho altro da fare, disse. E sparì dalla porta lasciando deluso il povero Sottotenente.
 
“Eccomi qui”, disse entrando nell'ufficio del Capitano Brancato, la quale lo aveva appena convocato.
Lucia sorrise non appena lo vide comparire sulla porta; ormai era diventato un gesto automatico.
“Vieni”, gli disse; si alzò e si andò a sedere sul divanetto nero posto sulla parete sud della stanza.
Ghiro ebbe immediatamente una sorta di deja vu: lui e Lucia che parlavano su quello stesso divano, era stato al massimo un paio di mesi prima, Ghiro se lo ricordava ancora; erano faccia a faccia con Lupo e Scimmia, in un tempo in cui ancora non conoscevano le loro vere identità, erano stati faccia a faccia con tutta la Banda, vicini come mai erano riusciti ad essere e se li erano fatti scappare. Tigre aveva puntato la pistola contro Lucia, lei pensava che sarebbe stata la sua fine, e invece niente. Non c'era niente di male ad aver paura, le aveva detto Daniele, ma lei non aveva avuto paura, era quello il punto.
Ora però non si trattava più di Lucia, Ghiro lo sapeva; lei non amava parlare di sé, e non lo faceva mai di sua spontanea volontà, quindi se lo aveva chiamato era per parlare di lui.
“Devi dirmi qualcosa?”, chiese innocentemente dopo essersi seduto accanto a lei sul divano. Dopo la chiacchierata con Orlando avvenuta la mattina stessa, il Capitano Ghirelli aveva già qualche ipotesi sull'argomento della discussione.
“A dire la verità speravo che tu volessi dire qualcosa a me”, disse Lucia scoprendo subito le carte in tavola.
“Ah, ed a proposito di cosa?”, chiese Ghiro, sempre con aria innocente. Nell'affrontare questo tipo di discorsi, non la guardava mai negli occhi quando parlava; solamente quando la ascoltava; sia che si trattasse di lei che di lui.
“Dai Daniele, sai di cosa sto parlando. Che cosa ti sta succedendo?”, andò dritta al punto, come al solito. Si era stancata della sua aria da finto tonto.
“Ma niente, Lucia, che mi deve succedere?”, chiese sarcastico, “è solo che mi scoccia un po' il fatto che Lupo sia scappato, tutto qui.”
“Mi dispiace, ma non me la bevo. Guardami”, disse poi prendendo un piglio più deciso, “tu non sei più tu; e da prima che il Lupo scappasse. Vuoi dirmi come stai?”
A questo punto si arrese. Aveva capito che non sarebbe uscito da quella stanza se prima non avesse  parlato seriamente con Lucia.
“Non avevo più uno scopo”, confessò a mezza voce, come si confessa un reato. Non l'aveva mai detto a nessuno. L'espressione di Lucia si fece immediatamente comprensiva, una piccola ruga fece capolino sulla sua fronte pallida, testimone della preoccupazione che la avvolgeva in quel momento.
“Tu sai che, dopo la cattura della Banda, io ho chiamato Marcella per darle la notizia, no?” Lucia annuì.
“Ecco, poi sono partito, sono andato a Londra, da Selvaggia, ti ricordi? Dovevo dare la notizia anche a lei.” Lucia annuì una seconda volta.
“Penso che sia stato lì che è cominciato tutto.”
“Quando hai rivisto Selvaggia?”, tentò il Capitano Brancato.
“No”, rispose deciso il Ghiro, “dopo, quando sono tornato qui. Non avevo più nulla da fare. Ho guardato quel che era rimasto della mia vita ed ho trovato solamente una vecchia casa sulla spiaggia. Nient'altro che un logoro ammasso di mattoni sporchi.”
“Ma...”
“Ma cosa, Lucia?”, disse alzando sensibilmente la voce; Lucia, accanto a lui, si immobilizzò. “Scusa”, si pentì poi, accorgendosi del tono brutale che le aveva riservato, “ti ho mai parlato di una certa Veronica?”, le chiese più calmo.
“No”, rispose debolmente lei.
“Era, anzi, è una psicologa specializzata in sette, l'ho conosciuta a Parma quando lavoravamo al caso della Setta degli Eletti”, cominciò, poi aspettò un secondo. “Mi sono innamorato di lei”, dichiarò
Lucia rimase a bocca aperta, sorpresa. Stavolta fu Ghiro ad annuire.
“Innamorato bene, tra l'altro”, continuò. “era incinta, sai?”, le chiese con un sorriso amaro sul volto; parlare di quel periodo della propria vita gli faceva sempre lo stesso effetto, un po' di dolore non ancora patito tornava sempre, puntuale, a tormentarlo. L'espressione di Lucia ora, oltre la sorpresa, tradiva un po' di curiosità; ma non era curiosità morbosa, era una curiosità diversa, interessata, una curiosità inquieta, quasi tormentata. Sì, Lucia sembrava tormentata, come Daniele.
“Non so nemmeno se il bambino fosse mio: un pazzo, uno della Setta, un certo Adler, le aveva praticato l'inseminazione artificiale, quindi... Ma avevamo deciso di tenerlo comunque, l'avremmo cresciuto come se fosse stato nostro, ed in un certo senso lo sarebbe stato davvero”, sussurrò il Ghiro guardando in alto, sicuro delle parole che affermava.
Ci fu un secondo di silenzio. A Lucia riusciva difficile immaginare quel Daniele. Era completamente diverso da quello che aveva conosciuto lei, ma non per questo, pensò, meno autentico.
“E poi...?”, Lucia lo esortò atona a proseguire, l'istinto le diceva che il seguito non sarebbe stato esattamente un favola da 'e vissero tutti felici e contenti'.
“E poi è finito tutto, così come era iniziato”, disse semplicemente sbattendo le palpebre, spostando lo sguardo dal soffitto al pavimento.
“Il primo ad andarsene fu proprio lui, il bambino”, spiegò. “Era un normalissimo pomeriggio, io stavo uscendo dal lavoro e lei mi doveva venire a prendere al laboratorio, con la moto. E invece è successo che un idiota al telefono le è andato addosso con la macchina”, deglutì, “è così che lo ha perso.”
Lucia strinse gli occhi e le labbra, cercò la mano di Daniele per stringerla nella propria. La trovò sulle sue ginocchia, stretta in un pugno distruttore; la aprì e la avvolse nella sua, accarezzandone dolcemente il dorso.
“Da quel momento in poi le cose tra noi non fecero altro che peggiorare... E adesso non so nemmeno che fine abbia fatto”, continuò il Ghiro con un po' di rammarico.”Sai chi c'era in quel momento con me? Chi mi ha aiutato a superarlo?”
“Flavia”, rispose sicura Lucia con un sorriso.
“Già”, anche Ghiro adesso sorrideva. “Quando mi hai chiamato dicendo che mi offrivi questo posto qui a Roma sei stata la mia salvezza: non ce la facevo più a rimanere a Parma”, confessò.
“Ancora una volta devi ringraziare Flavia, è stata lei a segnalarti quando ero alla disperata ricerca di  un perito informatico”, precisò Lucia. “E probabilmente quella di convocarti qui è stata una delle migliori decisioni che io abbia mai preso”, disse sicura e convinta di ciò che stava affermando. Daniele ignorò l'ultima parte del discorso.
“Vedi? Flavia. Flavia era lì quando non sapevo cosa fare, quando ho perso Veronica, quando volevo mollare... Ci pensava sempre lei a tirarmi su il morale, era una costante della mia vita, ed ora che lei non c'è io...”
“Ti senti perso, vuoto, come se la tua vita non avesse più alcun senso, come se svegliarti la mattina e vedere la luce del sole sia una colpa e dormire senza sognare uno stupido premio per essere sopravvissuto a qualcosa per la quale in realtà eri destinato a morire. Ti senti ingrato verso la vita e responsabile davanti alla morte. Ti senti un ibrido a metà tra i vivi e i morti, tra dove sei e dove pensi di dover essere. Un errore del caso, fortunato per te, fatale per qualcun altro”, concluse Lucia per lui, con sguardo distante anni luce dalla realtà. Ghiro la guardava sorpreso.
“Ci sono passata dopo la morte di Alex”, spiegò l'amica, sempre con sguardo lontano; era incredibile che, senza nemmeno aver guardato il volto del suo amico, avesse indovinato l'espressione sbalordita che vi era dipinta, “ma ora sono di nuovo felice”, disse sorridendo, voltandosi verso Daniele, “con Orlando ho ricominciato da capo, mi ha aiutata a superare Alex e adesso siamo felici insieme.”
“Ma io non voglio dimenticarmi di Flavia”, protestò Daniele.
“Non devi farlo, mai; non dovrai mai dimenticarti di lei”, lo rassicurò Lucia, “ma devi andare avanti e accettare che lei è morta e che tu non puoi farci niente, non hai mai potuto farci niente, nemmeno quando era ancora viva.”
“Ma io... Insomma, io non ero capace di fare praticamente niente senza di lei nemmeno quando era viva, come faccio a superare la sua morte da solo?”
“Daniele tu non sei solo”, gli disse Lucia guardandolo negli occhi. “Non sarai mai solo. Ci siamo io e Orlando, Emiliano, e Bart ti vuole bene, anche se non ha un modo di dimostrarlo esattamente normale”, disse con una risatina. Bartolomeo faceva tanto il gradasso, ma in realtà aveva un cuore d'oro.
Ghiro ci pensò su un attimo; poi, finalmente, parlò: “Lucia, tu sei la mia migliore amica, lo sai vero?”
Il colore verde degli occhi del Capitano Brancato divenne liquido per un momento, un velo d'acqua salata si frappose fra la palpebra e la pupilla di entrambi. Le parole di Ghiro l'avevano fatta commuovere; nessuno gliele aveva mai dette prima.
Di slancio, inaspettatamente, lo abbracciò e lo tenne stretto a sé; con gli occhi chiusi, sorrideva. Erano rari gesti così avventati e palesemente affettuosi da parte sua, anche verso Orlando; Ghiro avrebbe dovuto fare tesoro di quell'abbraccio.
Sorpreso, un po' frastornato, ma sicuramente felice ricambiò l'abbraccio della sua più cara amica, stringendola anche lui altrettanto forte.
“Mi sembra tutto molto poetico, ragazzi, ma non vi sembra di esagerare?”
Il Tenente Serra aveva proferito quelle parole nel momento più inadatto possibile. Era entrato nell'ufficio del Capitano senza bussare né chiedere permesso e adesso era lì, in piedi davanti ai suoi diretti superiori e li fissava calmo, con le braccia incrociate sul petto ed un sorriso sincero stampato sul volto.
“Sta' zitto”, si lamentò Lucia che, resasi conto anche lei del gesto bello quanto raro che stava compiendo abbracciando Daniele, non voleva in alcun modo e per nessun motivo vedersi rovinato quel meraviglioso momento. Orlando ridacchiò, ma rispettò il volere del proprio Capitano.
Qualche secondo ancora, poi i due finalmente si staccarono. Il primo a parlare fu Ghiro.
“Grazie, ad entrambi. Per quello che fate per me”, disse ed aveva un'aria seria, tanto seria che forse in tutta la sua vita l'aveva avuta solo due o tre volte, oltre questa. Lucia ancora sorrideva, un po' commossa, un po' imbarazzata.
“Non c'è bisogno di ringraziare, Capitano”, rispose Orlando, l'unico, forse, che non aveva ancora perso l'uso della parola, “lo sai che tutto quello che facciamo lo facciamo con piacere e, soprattutto, perché ti vogliamo bene.”
Dopo aver sorriso ad Orlando, essersi alzato, avergli dato la mano ed aver abbracciato anche lui velocemente, lo sguardo di Ghiro corse nuovamente a Lucia che era rimasta sola sul suo divanetto nero.
“Lucia!”, esclamo Daniele sorpreso, “stai piangendo?”
Colta sul fatto di strofinare leggermente gli occhi le palpebre e le guance nel tentativo di eliminare le piccole gocce salate (quasi fossero nocive), alla Brancato non rimaneva che un'unica opzione, la più odiosa e falsa: negare l'evidenza.
“No, certo che no! E' solo che uno dei tuoi ricci mi ha punto l'occhio quando ti ho abbracciato, tutto qui”, rispose arrampicandosi palesemente sugli specchi.
“Mmm”, commentò Ghiro, “'uno dei tuoi ricci mi ha punto l'occhio quando ti ho abbracciato'. Ti sembra una spiegazione plausibile?”, chiese poi rivolgendosi ad Orlando.
“Certo, come no; plausibilissima”, rispose lui trattenendo a stento una risata. Poi, a voce più bassa, rivolto solo al Ghiro, aggiunse: “che ti dicevo qualche settimana fa? Anche lei ha il suo lato tenero.”
“La smettete di prendermi in giro voi due?”, pregò Lucia infastidita, che pure non aveva sentito ciò che Orlando aveva detto sussurrando.
“Agli ordini, Capitano”, la schernì ancora quest'ultimo; lei lo guardò male, Ghiro soffocò una risata per non offenderla ulteriormente. Ciononostante, meno di due secondi dopo, tutti e tre, a cominciare proprio da Lucia, stavano già ridendo a crepapelle.
Ci fu ancora qualche scambio di battute, qualche riso e qualche lamento, ma anche qualche altra confessione di paura, di bisogno e di affetto; poi tutti e tre tornarono ordinatamente al proprio lavoro. Avrebbero conservato per sempre il ricordo di quel giorno, di quei pochi minuti passati insieme nell'ufficio di Lucia durante i quali erano ritornati bambini; non già perché i loro discorsi fossero ingenui o puerili, ma perché la sincerità, la libertà e la spensieratezza che caratterizzavano quelle risa e quelle confessioni potevano scaturire solamente da animi buoni e leali come quelli dei più piccoli. Soltanto le loro carte d'identità avevano qualche riserbo in proposito, ma quella era tutta un'altra storia.
 
 
 
Ore 3:01 P.M. Sede del R.I.S. Di Roma.
 
Dall'esame effettuato con il B.P.A., l'unica cosa che Milo era riuscito a stabilire era che l'assassino era alto non più di un metro e settantacinque, ma che doveva avere un'altezza assolutamente superiore al metro e sessantacinque; il che scagionava solo uno dei due fratelli, che era alto poco più di un metro e ottanta, ma non l'altro, il minore, imprigionato nel suo inchiodante metro e sessantanove.
E' da loro, dai fratelli Raimondi, che partirono le indagini. Bartolomeo li interrogava separatamente, mentre Orlando li osservava da dietro il lo specchio-vetro della sala interrogatori con occhi attenti ed esperti, Sasso assisteva dall'interno. La versione dei fatti raccontata in quel momento non era differente da quella che Alessio, il primogenito, aveva già raccontato a Sasso la mattina stessa.
“Allora?”, chiese Bart uscendo dalla stanza.
“Sono sinceri, nessuno dei due ha ucciso la madre; ma sono più che sicuro che nascondono qualcosa”, rispose Orlando convinto di ciò che diceva.
“Quindi mentono?”, chiese Dossena leggermente confuso.
“No, non proprio. Sono sinceri, ma ad un certo punto... zac! Adoperano una specie di taglia e cuci all'interno della storia: non mentono, loro semplicemente omettono una parte di quello che è accaduto in quella casa”, chiarì Orlando metodico.
“E se è vero che non l'hanno uccisa loro, probabilmente allora sanno chi è l'assassino”, concluse Bartolomeo chiedendosi il perché del silenzio dei due fratelli.
“Sì, è probabile”, assentì Serra, “ma se non hanno ancora parlato non parleranno: devono avere degli interessi davvero importanti per tacere il nome dell'assassino della propria madre.”
IL Tenente Dossena sarebbe volentieri rimasto ad ipotizzare la natura di quei curiosi interessi, ma fu distratto da una figura piuttosto bassa e leggermente stempiata che aveva varcato in quel momento la soglia del laboratorio: l'immancabile flemmatico dottor Carnacina.
“Senti, io vado dal nostro ospite”, disse accennando con la testa in direzione dell'ingresso dove sostava tranquillo il medico legale, “tu vai a parlare con Sasso, vedi se ce la fa a trattenerli in qualche modo: dobbiamo prendere tempo per scoprire che cosa nascondono.”
Orlando annuì e si diresse in sala interrogatori per parlare in privato con il collega della territoriale, Bartolomeo invece raggiunse Carnacina all'ingresso.
“Allora, Dottore, come andiamo?”, chiese amichevolmente.
“Non c'è male, direi; grazie dell'interessamento.”
“Novità sulla signorina Raimondi?”
“Novità? Non proprio”, dichiarò il medico, “piuttosto ho delle conferme”, proseguì.
“Spara”, lo esortò il Carabiniere.
“La morte è stata causata davvero da quella ferita da arma da taglio che aveva sulla schiena, l'unica tra l'altro. Però posso dirti che la coltellata è stata inferta con molta violenza, quindi probabilmente è stato un uomo.”
Seppur con altri mezzi, gli uomini del R.I.S. erano giunti alle medesime conclusioni.
“Grazie, Carnacina. C'è altro?”
“In effetti, sì”, affermò a sorpresa il medico. “Ho trovato questa sulla bocca della vittima”, disse estraendo dalla tasca una fialetta in vetro.
“Che cos'è?”, chiese interessato il Tenente.
“Saliva”, rispose Carnacina compiaciuto. “A giudicare dalla concentrazione nella quale era presente, mi sentirei di escludere che sia della vittima: sembra più uno sputo, probabilmente qua dentro è racchiuso il DNA del vostro assassino.”
Gli occhi di Bart si illuminarono. “Grande, Carnacina! Grazie mille.”
“Dovere, Tenente”, rispose ancora una volta il medico legale; purtroppo però il suo interlocutore era già sparito.
 
“Ho parlato con Carnacina: qui abbiamo il DNA del nostro assassino”, dichiarò entusiasta il Tenente Dossena, che nel frattempo aveva raggiunto Orlando davanti alla sala interrogatori.
“Bingo!”, commentò il collega, “Speriamo solo che non sia incensurato.”
“Già”, concordò Bartolomeo, “Sasso che dice?”
“Dice che con quello che abbiamo anzi, che non abbiamo non può trattenerli.”
“Non può richiedere nemmeno una custodia cautelare?”, insistette Dossena.
“Nemmeno”, confermò Serra sconfitto.
“Possiamo almeno pedinarli?”, tentò Bartolomeo ancora speranzoso.
“Ho già chiesto, ma il magistrato non ci autorizza”, sembrava che non ci fosse proprio speranza. “Va be', almeno chiediamo loro un campione di DNA e speriamo che vogliano darcelo volontariamente.”
“Ma scusa, non erano sinceri?”, chiese Bart nuovamente confuso.
“Sì, ma non abbiamo altro in mano che la loro testimonianza. Non si sa mai”,ribatté Orlando.
“Va bene, io intanto vado ad analizzare questa”, disse mostrando la fialetta contenente la saliva.
“Ci vediamo dopo”, lo salutò Orlando imboccando a il corridoio a destra.
“A dopo”, replicò Bartolomeo. La sua strada era più lunga: in fondo, poi a sinistra.
 
 
 
Ore 4:19 P.M. Via Gioberti, Roma.
 
Un uomo sulla cinquantina alto, robusto, dai corti capelli brizzolati, camminava tranquillo per la strada. Non si era accorto che qualcuno, da lontano, lo stava seguendo.
Erano due ragazzi, entrambi biondi con gli occhi castani, entrambi non potevano avere più di venticinque anni; a giudicare dalla forte somiglianza dovevano essere fratelli. Entrambi stringevano in mano due pesanti mazze da baseball.
L'uomo continuava a camminare con passo leggero, i due continuavano a seguirlo con gli occhi animati da una luce particolarmente inquietante. Dopo pochi minuti e qualche svolta a destra, l'uomo giunse finalmente alla propria destinazione: una portineria abbastanza grande e, a giudicare dall'aspetto, anche piuttosto antica; non c'era portiere. L'uomo si fermò ad estrarre le chiavi del portone con i vetri scuri dalla tasca e i due ragazzi, poco più indietro, ne approfittarono per ridurre il distacco, ormai gli erano praticamente alle costole. La chiave girava lentamente nella serratura; le mazze da baseball sfregavano dolcemente sulle mani dei rispettivi possessori.
Il portone si aprì.
L'uomo entrò lasciando che la porta si richiudesse da sola dietro di sé; continuò a camminare, salendo le scale, aspettando un frastuono che non poteva arrivare. Una converse nera taglia 43 aveva bloccato prontamente la chiusura dell'uscio, permettendo al suo proprietario ed al suo complice di introdursi nel condomino; accostata la porta per non fare rumore, si apprestarono a salire le scale, seguendo quell'uomo come un leone affamato farebbe con la sua gazzella.
L'inseguito fermò davanti all'ascensore: era il momento. Il ragazzo con le converse nere, quello che poteva passare per il più giovane tra i due, tamburellò sulla sua spalla destra. L'uomo si girò; ebbe appena una frazione di secondo per riconoscere i suoi pedinatori, poi le mazze si alzarono: era la fine.
 
 
 
Ore 4:27 P.M. Sede del R.I.S. Di Roma.
 
I fratelli Alessio e Giovanni Raimondi avevano fortunatamente acconsentito a lasciare in laboratorio un campione ciascuno del proprio DNA, che Orlando aveva finito di analizzare proprio in quel preciso istante; ora avrebbe dovuto portare le due sequenze di DNA da Bartolomeo perché le confrontasse con quelle dell'assassino.
Così, tanto per togliersi il pensiero, continuava a ripetersi in mente; non voleva nemmeno pensare all'eventualità che avesse sbagliato a giudicare innocenti i due fratelli, o avrebbe cominciato a dubitare seriamente di se stesso.
Arrivato alla postazione del collega, lo trovò in piedi con le braccia conserte intento a fissare il monitor del computer, si avvicinò: i volti di centinaia di pregiudicati si susseguivano sul monitor a grande velocità durante il confronto con l'archivio dell'A.F.I.S. Alla fine delle immagini, una scritta rossa lampeggiò sullo schermo: 'NO MATCH'. Dossena sbuffò.
“Bene”, disse invece Orlando tentando di distrarre il collega, “ora proviamo con questi”, e mentre parlava uscì dal taschino del camice una piccola pen drive contenente i DNA dei figli della Raimondi.
“Buona idea”, commentò Bart che non ci teneva a perdersi d'animo, “ci vorrà solo un secondo.”
E un secondo passò, e un'altra scritta, identica alla prima, prese a lampeggiare sullo schermo. Del computer.
“Hai provato a vedere se la saliva è della vittima?”, chiese allora Orlando, ancora  meno fiducioso di come era arrivato in quella stanza.
“Certo, è la prima cosa che ho controllato”, confermò Dossena.
“ Allora mi sa proprio che dobbiamo riconvocare i fratelli Raimondi: devono dirci chi poteva avercela con la madre, visto che dalle indagini di Sasso non è risultato niente di rilevante.”
“Sì, lo penso anche io. Vado a chiamare Sasso...”
“Non ce n'è bisogno”, disse una voce inconfondibile alle loro spalle prima che Bart potesse muovere un solo passo. Fabrizio Sasso sostava immobile sulla porta, a giudicare dalla faccia portava brutte notizie.
“Ah, ciao Sasso”, esclamò il Tenente Serra, “arrivi al momento giusto, cercavamo te per prelevare i figli della signorina Raimondi.”
“Li stanno già portando qui: un testimone li ha visti mentre aggredivano un uomo con delle mazze da baseball”, comunicò calmo ai due Carabinieri della scientifica.
“Alla faccia dei due fratellini innocenti”, commentò Bartolomeo.
“Ecco che cosa nascondevano. Scommettiamo che il DNA del poveretto che hanno picchiato coincide magicamente con quello del nostro assassino?”, propose Serra ironicamente. Bart annuiva.
“A proposito, lui chi è? E come sta?”, chiese quindi Dossena rivolgendosi a Sasso.
“Si chiama Emanuele Cervi, cinquantaquattro anni, commercialista. Era il compagno della vittima...”
“Quindi è morto?”, interruppe Orlando.
“No, è in ospedale in gravi condizioni, lo stanno operando proprio adesso. Dico 'era' perché i due si erano lasciati qualche mese fa”, concluse finalmente Sasso. “Ecco i fratelli Raimondi”, disse poi indicando verso l'ingresso del laboratorio, “ci devono spiegare un po' di cose”, proclamò, e cominciò a dirigersi in sala interrogatori.
 
Alessio e Giovanni Raimondi, rispettivamente di anni venti e diciotto, entrarono ordinatamente a testa bassa nella sala interrogatori della caserma S. D'acquisto di Roma. Questa volta sarebbero stati interrogati insieme.
Fuori dalla stanza, attraverso la pellicola riflettente, il testimone li guardava e diceva ad Emiliano e Orlando che sì, erano proprio loro quelli che avevano picchiato il signor Cervi. All'interno Bartolomeo conduceva l'interrogatorio.
“Allora, parlate voi e ci dite cosa è successo senza farci perdere tempo o dobbiamo estorcervi le parole di bocca?”
“Emanuele era il compagno di nostra madre”, iniziò il più piccolo dei due, “ lei lo aveva lasciato circa due mesi fa, ma lui non voleva rassegnarsi e continuava a insistere, voleva convincerla a tornare con lui.”
“Quindi veniva spesso a casa vostra?”
“Abbastanza, sì”, stavolta fu Alessio a parlare.
“Stamattina cosa è successo?”, domandò Sasso.
“Stamattina l'ho sentito bussare alla porta, ho guardato l'orario e mi sono rimesso a dormire, come vi ho detto prima. Solo che poi mi sono svegliato ancora perché sentivo mia madre che litigava con Emanuele e allora mi sono alzato per farli smettere, ma quando sono arrivato in cucina ho trovato mia madre a terra che perdeva sangue ed Emanuele che sciacquava un coltello nel lavandino”, rispose con voce piatta.
“E perché non ce l'hai detto subito?”
“Perché volevamo vederlo morto”, intervenne l'altro.
“Quando ho visto... quello che ho visto, ho subito chiamato un'ambulanza ed Emanuele è scappato, poi ho svegliato Giovanni e abbiamo chiamato i Carabinieri, ma prima che arrivaste avevamo deciso che ci saremmo fatti giustizia da soli.”
Il telefono di Sasso squillò. Dopo una telefonata breve e concitata il Tenente tornò a sedersi al proprio posto.
“Volevate la vendetta, Raimondi? Ci siete riusciti”, annunciò Sasso. “Era l'ospedale: Cervi non ce l'ha fatta, quindi vuoi due siete colpevoli di omicidio, premeditato per giunta”, sentenziò.
“Portateli via”, ordinò infine Bartolomeo rassegnato.
Alessio e Giovanni si alzarono elegantemente dalle rispettive sedie e si consegnarono alle guardie a testa alta, guardando avanti con gli occhi di chi non conosce il rimorso.
Orlando, fuori dalla stanza, sospirò. Un'altra famiglia distrutta, pensava, e l'unica innocente era stata la prima a morire; ma chissà, forse è proprio per questo che era rimasta innocente.
 
 
 
Ore 7:36 P.M. Sede del R.I.S. Di Roma. Ufficio del Capitano Brancato.
 
La giornata volgeva ormai al termine, i rapporti sui vari casi erano già tutti sulla scrivania, l'ultimo briefing della giornata era concluso; rimaneva ancora poco meno di mezz'ora di servizio e  nel giro di un'ora il sole sarebbe tramontato e la luna avrebbe preso il suo posto nel cielo.
Il Capitano Lucia Brancato sedeva tranquilla sulla propria sedia di pelle nera. Aveva finalmente finito di firmare documenti per quel giorno e, dato che la territoriale non aveva novità su Mario Pugliese, adesso si stava semplicemente godendo un po' di tranquillità dondolando sulla sedia. Quel movimento lento e costante le ricordava tanto i tempi del liceo, quando il pomeriggio, stanca di studiare, si allontanava un poco dai libri e dalla scrivania in legno e cominciava a dondolare in quello stesso modo in una sedia molto simile a quella del suo attuale posto di lavoro.
Ricordava che a quei tempi avrebbe voluto fare l'insegnante, non sapeva bene perché. Poi era arrivata al terzo anno, e lì era cominciata la fisica; le era piaciuta molto la fisica, tanto da averne fatto il suo indirizzo di studi all'università. Una volta laureata, suo fratello Guido (allora Tenente), le fece sapere di un concorso per giovani fisici che avevano l'opportunità di diventare ufficiali nell'Arma dei Carabinieri; il suo sogno di diventare insegnate aveva avuto vita alquanto breve.
Il concorso prevedeva che venissero presi solamente coloro che, tra test scritti e psicoattitudinali, si fossero piazzati nei primi cinque posti. Fu così che Lucia iniziò la sua carriera come Sottotenente al R.I.S. di Roma.
Ricordava ancora i suoi primi mesi da Carabiniere, quando la sera andava a cena a casa di suo fratello Guido e sua moglie e sparlavano i colleghi; era un modo per abituarsi a quel tipo di lavoro, a prendere le distanze. Ricordava ancora la prima volta che aveva visto un cadavere: era rimasta paralizzata a fissarlo per circa due minuti pensando a quali fossero i suoi sogni da vivo, le sue ambizioni, le cose che era abituato a fare... La aveva aiutata proprio suo fratello Guido, che era lì per seguire anche lui l'indagine, a superare lo shock.
Dopo quattro anni Lucia era già diventata Tenente, e qualche anno dopo arrivò la promozione a Capitano da parte del Generale Abrami, che le offrì l'opportunità di creare un gruppo tutto suo: così nacque la squadra del Capitano Lucia Brancato.
Ogni tanto Guido le mancava ancora, ma non si sentiva più così sola come dopo i primi tempi dalla morte di Alex. E come avrebbe potuto? Ora aveva Daniele... e aveva Orlando.
A riscuoterla da questi pensieri ci pensarono due leggeri colpetti alla porta; era l'ormai ex Sottotenente Bianca Proietti.
“Avanti, Bianca”, disse Lucia a voce alta, invitandola ad entrare.
“Io starei andando, Capitano e...”
Il Capitano non le diede nemmeno il tempo di finire la frase: sapeva già cosa stava per dire, ed anche lei ci teneva a salutarla; infatti era già in piedi di fronte a lei dall'altra parte della scrivania. Senza dire niente l'abbracciò, e quando si staccarono le accarezzò una guancia dicendole soltanto “buona fortuna”.
Dopo un breve sorriso, Bianca uscì da quell'ufficio, passò velocemente attraverso il laboratorio e si fermò un secondo davanti alla porta scorrevole. Le immagini di quell'anno passato al R.I.S. si susseguirono una dopo l'altra nella sua mente; alla fine, una lacrima le bagnò il volto.
Si voltò indietro e trovò il suo Capitano che dall'ufficio la guardava mentre usciva dal R.I.S. per l'ultima volta.; ancora oggi le piace pensare che in quel momento Lucia Brancato le stesse sorridendo. Si voltò ancora una volta, l'ultima volta, e sparì dietro il muro passando davanti al piantone.
Il suo ultimo pensiero fu rivolto a Milo. Lì le loro strade si dividevano.
 
 
 
Ore 8:00 P.M. Sede del R.I.S. Di Roma. Ufficio del Capitano Ghirelli.
 
Immersi nel totale disordine dell'ufficio del Capitano Ghirelli, Ghiro e Orlando, tra risate e battutine, non si erano nemmeno resi conto che l'orologio segnasse le otto in punto, ovvero l'ora in cui staccavano dal lavoro di lunedì.
A ricordarglielo ci pensò la provvidenziale Lucia, che irruppe nell'ufficio di Daniele armata già di borsa e soprabito.
“Ragazzi, che ci fate ancora qui? Per oggi abbiamo finito”, annunciò sorridendo.
“Davvero?”, chiesero in coro i due colleghi. Lucia annuì.
“Finalmente”, si sfogò Ghiro, “non c'era più niente da fare!”
“Eh, già”, concordò Serra.
“Allora, ragazzi, io vado a casa”, disse Ghirelli, “ci vediamo domani.”
“Non se ne parla”, lo contraddisse lei, “oggi pizza tutti e tre insieme”, propose. Era strano vedere Lucia organizzare serate fuori casa con altra gente, era come un'altra Lucia: quella che aveva imparato ad amare senza aver paura di mostrarsi fragile.
Orlando si disse subito d'accordo: gli piaceva l'idea del Capitano.
“Pizza? Stasera?”, chiese sorpreso il Ghiro, “ma domani si lavora!”
“E dai! Ti prometto che finiamo presto”, insistette Lucia come una bambina, “Daniele, ti prego! Offre Orlando”, aggiunse poi per convincerlo.
“Che cosa?”, chiese Serra sentendosi chiamato in causa. “Vi ricordo che qui dentro io sono quello che guadagna di meno, Capitani”, disse calcando particolarmente la voce sull'ultima parola. Sia Daniele che Lucia scoppiarono a ridere a quell'affermazione, non perché non fosse vera, ma perché in quel contesto, proferita con quel tono di voce era risultata comica. E poi perché erano sicuri che Orlando stesse scherzando.
“Va bene, accetto”, disse infine il Ghiro, “ma Orlando ha ragione, dividiamo io e te”, aggiunse rivolgendosi a Lucia.
“Ci sto”, approvò subito lei.
“No, ora sono io che dico che non se ne parla”, protestò il Tenente mentre si apprestavano ad uscire dal R.I.S., “io stavo scherzando; mi fate sembrare avaro se dite così. Offro io!”
“No, davvero Orlando al massimo dividiamo io e te...”, continuava ancora l'instancabile Ghiro. Ed andarono avanti così per tutto il tempo fino a che non arrivarono al parcheggio della caserma.
Il verdetto? Esclusa forzatamente Lucia, avrebbe pagato il conto chi dei due fosse stato più veloce nell'estrarre il portafogli. A quella condizione, Ghiro non avrebbe avuto speranze.
 
 
 
Ore 11:44 P.M. Casa del Sottotenente Cecchi. Roma.
 
Giù al portoncino Emiliano e Giada si scambiarono un ultimo bacio prima di rientrare in casa, dove li aspettavano i genitori di lei e la loro splendida bambina; insomma, la fine della loro pace da piccioncini.
Avevano passato la serata fuori casa: i genitori di Giada avevano assicurato che potevano occuparsi loro di Marica per quella sera, e così lei aveva pensato di prenotare una cenetta romantica in un ristorantino per sé e per Milo. Anche lui aveva gradito, e non aveva pensato a Bianca nemmeno una volta per tutta la serata: si stava davvero riinnamorando della propria moglie, sebbene quello che era successo con la collega non si potesse più cancellare.
Persino sua moglie si era accorta che qualcosa era cambiato negli ultimi tempi: Milo era più presente, più ben disposto nei suoi confronti e anche in quelli di Marica. Sembrava quasi che fossero ritornati ai tempi del liceo, quando nessuno dei due avrebbe saputo cavarsela senza l'aiuto ed il sostegno dell'altro; erano ritornati ad essere una coppia indivisibile, proprio come allora.
Ma una volta giunti la porta di casa, un problema di gran lunga maggiore che la vicinanza della famiglia provvedette a rompere quel tanto cercato idillio.
Giada si immobilizzò davanti alla porta, non riusciva nemmeno più a parlare; l'unica cosa che sembrava rimasta in grado di fare era fissare, con movimenti alterni, ora la serratura della porta, ora il volto di suo marito. Il suo primo pensiero corse immediatamente alla figlia, poi ai genitori; la sua espressione era il frutto di un perfetto cocktail di sorpresa, sconforto, paura e rabbia.
La porta di casa loro era stata forzata.
Quanto ad Emiliano, stava a lui mantenere la calma. E infatti non la perse.
Sentiva dei rumori provenire dall'interno: forse i ladri non avevano ancora lasciato l'appartamento; in quel momento, Milo ringraziò la propria fissazione di andare in giro armato anche quando non era in servizio. Dopo aver fatto segnale di fare silenzio e di non muoversi a Giada, estrasse la pistola ed entrò furtivamente in casa propria.
Il salone d'ingresso era completamente al buio; con un colpo sicuro della mano sinistra, Milo premette l'interruttore, mentre con la mano destra continuava a tenere la pistola puntata contro il nulla. La stanza, finalmente illuminata, risultava vuota ed in perfetto ordine: i ladri non dovevano aver toccato nulla in quel punto della casa.
Forse per effetto della luce accesa, il rumore che il Sottotenente aveva avvertito primo di entrare in casa aumentò di frequenza ed intensità: Emiliano avrebbe dovuto sbrigarsi a trovare i ladri, prima che questi trovassero lui. Un colpo più forte degli altri gli consentì di individuarne la fonte, il frastuono proveniva dalla cucina.
Emiliano attraversò velocemente il salone finché non si trovò davanti la porta socchiusa della cucina, lì la luce era accesa. Doveva fare irruzione.
Uno, due, tre.
“Fermi, Carabinieri!”, urlò spalancando la porta con una spallata. Ma la scena che gli si presentò innanzi agli occhi non era certo quella che si sarebbe aspettato di vedere.
I genitori di Giada, legati e imbavagliati, si dimenavano sulle sedie di legno cercando di liberarsi. Non appena udirono il grido di Milo e lo videro spuntare davanti a sé smisero immediatamente di muoversi, intimiditi dalla pistola.
Il Carabiniere, riconosciuti gli autori dei rumori sospetti, mise giù l'arma e si precipitò a slegarli.
“Claudia! Gino! Ch'è successo? Marica dov'è?”, chiese agitato.
“Se ne sono andati da meno di mezz'ora”, disse la suocera cercando di farsi capire nonostante il respiro accelerato. “Erano in due, mi sembravano stranieri.”
“Marica, dov'è Marica?”, insistette Emiliano.
“L'hanno... l'hanno portata via”, rispose Gino con voce rotta dalla disperazione, “non abbiamo potuto fare niente.”
Dopo aver sentito quelle parole, dopo averne realizzato il significato, tutti i buoni propositi di rimanere lucido furono resi vani. Emiliano barcollò un momento, poi rumori, odori,  luci e colori si ridussero ad un mucchio di percezioni indistinte. Forse era stato tutto un brutto sogno.
 

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