Fear of the Dark

di Horrorealumna
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Dahlia Gillespie ***
Capitolo 3: *** L'Età Adatta ***
Capitolo 4: *** Tra Capelli e Bambine ***
Capitolo 5: *** Nuovi Incontri ***
Capitolo 6: *** Il Primo Giorno Di Scuola ***
Capitolo 7: *** La Più Fragile Delle Farfalle ***
Capitolo 8: *** Il Potere Della Morte ***
Capitolo 9: *** La Strega ***
Capitolo 10: *** Walter Sullivan ***
Capitolo 11: *** Una Pubblica Umiliazione ***
Capitolo 12: *** L'Uomo Nero ***
Capitolo 13: *** Incisioni e Vestiti ***
Capitolo 14: *** Un'Occasione Speciale: La Foto di Classe (Parte 1) ***
Capitolo 15: *** Un'Occasione Speciale: Il Riflesso e La Polizia (Seconda Parte) ***
Capitolo 16: *** Un'Occasione Speciale: L'Ultimo Rito (Parte 3) ***
Capitolo 17: *** Dura Punizione ***
Capitolo 18: *** Un Nuovo Mondo ***
Capitolo 19: *** 20 Giugno 1976 ***
Capitolo 20: *** Il Cerchio Magico ***
Capitolo 21: *** La Prigione ***
Capitolo 22: *** Il Liquido Della Vita ***
Capitolo 23: *** Vita Di Bugie ***
Capitolo 24: *** L'Inizio Dell'Incubo ***
Capitolo 25: *** In Trappola ***
Capitolo 26: *** L'Incendio ***
Capitolo 27: *** Un Barlume di Purezza ***
Capitolo 28: *** La Scelta Giusta ***
Capitolo 29: *** La Notte Più Nera ***
Capitolo 30: *** Casa Gillespie ***
Capitolo 31: *** 24 Giugno 1976 ***
Capitolo 32: *** La Finta Alessa ***
Capitolo 33: *** La Quiete Prima Della Tempesta ***
Capitolo 34: *** Quando L'Incubo Prese Vita ***
Capitolo 35: *** Proiettati Nel Passato ***
Capitolo 36: *** Due Madri Per Due Figli ***
Capitolo 37: *** Tra Rabbia e Gelosia ***
Capitolo 38: *** Il Sapore Della Libertà ***
Capitolo 39: *** Il Sogno di Alessa ***
Capitolo 40: *** Paura del Buio ***



Capitolo 1
*** Prologo ***



PROLOGO – “GIOCARE COL FUOCO”
 

- Salve principessa Scarlett. Come sta bene con quel vestitino rosso! Le dona molto. E … smack! Un bacino. Che ne dite di andare a cena in un posto romantico? Vi piacerà e le assicuro che stasera sarete l’orsacchiotta più bella e fortunata di Silent Hill. Accetta, amor mio.
 
Aggiustai le sedie attorno al tavolino e misi a sedere i due miei orsetti di peluche. Com’erano carini insieme: tra un po’ il principe chiederà a Scarlett di sposarlo, chissà se lei accetterà. Posai un fazzolettino ricamato e una margherita ormai appassita al centro del tavolino e poi mi guardai attorno, nella mia stanzetta buia; dovevo trovare qualcos’altro per rendere la serata della mia Scarlett indimenticabile. Mi alzai e guardai sul mio bianco lettino, le coperte sbrindellate. Niente. La scrivania è piena solo di miei disegni e di farfalle che devo aggiungere alla mia collezione. Ma sullo scaffale qualcosa attira la mia attenzione: una candela, piccola e color del latte. Sì, sarebbe perfetta per la serata dei miei orsacchiotti.
Mammina aveva lasciato una scatola di fiammiferi qui, ne ero sicura. Eccoli infatti.
Feci un po’ di fatica ad accenderne uno: ne sprecai almeno cinque. La stanza puzzava di fumo!
 
Ma alla fine: ecco il fuoco. Non sapevo come tenerlo in mano; lo punto verso il pavimento tenendolo fermo tra il pollice e l’indice ma il fuoco consumava velocemente il fiammifero e in pochi secondi la punta della fiamma raggiunse il mio pollice. Urlai. Faceva malissimo!!!
Soffiai. Il fuoco si spense e io mi precipitai in bagno per bagnare il dito. Corsi come non mai e, sotto un getto d’acqua gelata, misi il pollice e tirai un sospiro di sollievo. Quando però iniziai a non sentirne più la sensibilità, tolsi il dito dal lavandino e l’osservai: la punta dell’unghia era consumata e il polpastrello aveva un’inquietante sfumatura marrone.
Non riuscì a trattenere le lacrime da piccola bambina di cinque anni che non ero altro!
Chiamai mamma che arrivò e, esaminato il tutto, mi rifilò quattro ceffoni in piena faccia. Mi sgridò e continuò a picchiare: faceva sempre così quando facevo qualcosa che non le piaceva.
Diceva che ero forse la peggiore figlia che potesse mai capitarle e che ero buona a nulla.
Mi spinse dentro la mia cameretta e mi chiuse a chiave dentro.
 
Mamma …
Perché mi odi così tanto? Tanto lo so che domattina aprirai quella porta e abbracciandomi mi sussurrerai “scusa” promettendo che non lo farai più … e poi?!
Sei la mia mamma, sono nata dal tuo amore e da quello di papà.
Te lo ricordi?
 

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Capitolo 2
*** Dahlia Gillespie ***


DAHLIA GILLESPIE
 
Me la raccontavi tante volte la tua storia, come se fosse una favola. E a me piaceva molto ascoltare la tua vita. Peccato che in questo periodo hai smesso di raccontarmela; in realtà hai completamente smesso di narrarmi le favole da quando imparai a leggere e a scrivere: dicevi che quelle storie non erano più adatte a me, ma io penso che siano bellissime. Tanto tempo fa anche a te piacevano; quando ero piccolina anche tu ridevi e giocavi con me. Forse è per questo tuo “nuovo carattere” – così aggressivo e severo – che tu non racconti più le favole.
Comunque ora che tu mi hai insegnato a leggere e a scrivere posso annotare da qualche parte la tua fiaba, la tua vita. Ho paura di dimenticarla e so che non avrei mai più sentito questa storia da te.
Spero che non la legga mai.
 Mamma, la conosci troppo bene e ho paura che tu possa buttarla da qualche parte e …
Allora iniziamo!
 
 
In questa bellissima città, Silent Hill, vivevano due giovani che ebbero come figlia una graziosa bambina: aveva i capelli scuri e dei luminosi occhi azzurri. I suoi genitori non le dettero mai un nome perché a loro non piacevano i bambini e così decisero di abbandonarla in un orfanotrofio fuori città. Poi i due decisero di imbarcarsi su una nave per scappare via. La nave attraversò il lago Toluca ( molto famoso qui in città ) ma sparì misteriosamente e i corpi dei passeggeri non furono mai più trovati.
Quindi la bimba, crebbe in questo orfanotrofio insieme ad altri bambini e fu chiamata Dahlia Gillespie.
In quella struttura i bambini venivano cresciuti ed educati a seguire la religione locale: essa deriva da un antico culto indiano, legato alla comunicazione con gli spiriti che però nei decenni aveva assunto una brutta piega trasformando questo culto in riti e sacrifici legati al dolore e alla sofferenza. Gli adepti di questa “religione” erano proprio questi bambini che, seguiti dai sacerdoti e dalle sacerdotesse, eseguivano macabri riti, soprattutto nel bosco vicino alla città. Gli abitanti di Silent Hill erano spaventati: alcuni riuscivano persino a sentire le urla dei bambini sacrificati per quei riti … quindi insospettiti, “abolirono” quel culto e chiusero l’orfanotrofio. Ma quest’Ordine continuava ad esistere in segreto all’insaputa della cittadinanza.
Intanto Dahlia era cresciuta. Fin da piccola aveva sviluppato abilità strane: poteva leggere nel pensiero, muovere gli oggetti senza toccarli e altri poteri non comuni che la misero in risalto in modo negativo in città, ma positivamente all’interno dell’Ordine. Comunque, crebbe anche la sua bellezza, era probabilmente la più bella ragazza di tutta la città: tutti gli scapoli della città avrebbero tanto voluto sposarla ma lei rifiutava ogni pretendente e ogni proposta. Faceva ormai parte dell’Ordine, più precisamente era la leader della “Setta delle Sante Donne”, un gruppo formato da sole donne che aspettavano l’arrivo della Madre che avrebbe portato il Paradiso in Terra, e aveva promesso loro di non sposarsi; poco tempo dopo Dahlia diventò sacerdotessa di quella setta. Comprò una grande casa e andò a viverci ma si sentiva ogni giorno sempre più sola, anche perché la gente non le voleva bene per via dei suoi poteri e così … così …
 
Oh cielo, non la ricordo più nei minimi dettagli!
 
Bhè, l’importante è che lei conobbe papà e io nacqui dal loro amore.
Chissà come ti ho fatta soffrire quando mi portavi nel tuo grembo. Mi hai detto che papà non mi ha mai voluto bene e che era scappato quando seppe che eri incinta.
Le persone continuarono a guardarti con diffidenza e ad evitarti ma a te non importava molto; continuavi le mansioni sacerdotali come se niente fosse. Dovevi proprio essere forte.
Il tuo corpo cambiava, il tuo aspetto cambiava … quando mi portavi in grembo sicuramente vedesti, giorno dopo giorno, la tua bellezza sfiorire per colpa mia perché io, quasi come un parassita, prendevo la tua giovinezza, la tua bellezza …
Nacqui alle prime luci dell’alba di un fresco giorno d’estate, a casa mia.
So, mammina, che hai sofferto tanto per darmi alla luce.
Ma … come faccio a saperlo?
Chiedesti subito di vedermi e ti fui portata vicino; mi prendesti in braccio e mi baciasti la fronte. Sapevi già che sarebbe nata una femminuccia, io.
Come faceva mamma a saperlo? E come faccio IO a sapere tutto questo??!
Appena mi vedesti sussurrasti il mio nome: Alessa. Mi avevi da sempre desiderato, avevi sempre voluto una bambina … anche se in un certo senso sei venuta meno alla promessa fatta davanti alla tua setta, mamma. La gente da quel momento guardò male tutte e due: tu eri la “strega della città”, e io ero la figlia di una donna non sposata, nata nel peccato.
 
Chissà se papà qualche volta pensa a quello che ha fatto. Chissà se è ancora vivo.
 
A poche settimane di vita, mi portasti nella chiesa che tu frequentavi; tu e le altre mi “iniziaste” all’Ordine e, più precisamente, alla tua setta. La Setta delle Sante Donne.
Tu mi mostravi a loro quasi come un trofeo, quasi come un premio appena ottenuto.
Perché?
Perché la gente ora per strada mi guarda come se fossi feccia? Perché in quella chiesa non mi sento a mio agio? E’ per via di questa macabra religione?
Vorrei tanto che questa Madre arrivasse in fretta e portasse la pace nel mio cuoricino …
 
 
La porta della mia stanza si spalancò.
Era mamma: quelle guance pallide e magre e quei capelli non curati li avrei riconosciuti tra mille.
Aveva in mano un vestitino bianco, della mia misura.
Lo buttò sul mio lettino:
- Sbrigati a metterti quello! Dobbiamo andare.
- Dove?
Uscì sbattendo la porta, senza rispondermi. Osservai il vestitino: uffa! Era uno di quei vestiti buoni che si mettono nelle occasioni speciali, quelli col pizzo e il merletto che danno fastidio e prurito. Me lo infilai, controvoglia. Mi andava anche largo ma era lungo abbastanza: forse perché ero tutta pelle e ossa.
Che prurito!! Esco. Ecco mamma sull’uscio.  La raggiunsi e lei mise una mano sulla spalla destra guidandomi fuori di casa. In mezzo alla strada c’era un uomo robusto. Appena mi vide ci venne incontro e sorrise in modo strano.

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Capitolo 3
*** L'Età Adatta ***


L'ETA’ ADATTA
 
L’uomo era Micheal Kaufmann. Il primario dell’ospedale Alchemilla. Era sostenitore dell’Ordine ma non ne faceva ufficialmente parte; lo conoscevo bene perché spesso veniva a parlare con mia madre d’affari o cose che non mi interessano granché.
Il dottore mi venne vicino e pizzicò la mia guancia con fare affettuoso.
Ahia! Però fa male!
Rise e rivolgendosi a mia mamma disse:
- E’ davvero cresciuta questa piccola peste. Oggi viene con noi?
Mia madre mi squadrò:
- Sì. E’ abbastanza grande ormai per unirsi anche alle cerimonie sacre. Fino ad ora poteva solo visitare la chiesa senza il permesso di unirsi ai riti ma adesso … e poi è un disastro! Non fa altro che combinare guai! Pensa che se la lasciavo sola poche ore fa, era capace di incendiarmi l’intera casa.
 
Io vivevo nella periferia di Silent Hill, quasi fuori città. Qui era tutto tranquillo e a me piaceva così. E poi casa mia era davvero grande, forse troppo.
Il dottore parlò:
- Anche Wolf si unirà a noi stasera. Sembra che l’Ordine di Valtiel abbia concluso in anticipo la cerimonia, così ha deciso di “venirci a trovare, con un paio di ospiti”. Dopotutto è obbligato: sua figlia ha tutti i diritti di partecipare al tuo rito.
- Quella bambina è sempre stato suo oggetto di vanto. Leonard pensa che sua figlia sia la Madre che tutti noi aspettiamo!
- Perché? Tu pensi che non lo sia? Ha dimostrato poteri fuori dal comune …
- Non è la sola, Micheal! Non è la sola.
La figlia di Leonard Wolf? Claudia! Che bello! Verrà anche lei!
- Mamma, mamma! Verrà anche Claudia dove stiamo andando noi ora?
Mia madre non mi rispose. Perché la mamma non risponde mai alle mie domande. Aveva occhi e orecchie solo per quell’uomo.
- Io e mia figlia percorreremo la strada a piedi. Deve imparare la strada e memorizzarla. Ci vedremo là.
- D’accordo, Dahlia. Ci vediamo dopo. – e detto ciò l’uomo si allontanò nel buio della notte.
Mamma mi prese la mano e mi trascinò verso la città. Silent Hill. Era quasi deserta probabilmente per l’ora tarda. Ci avviammo sulle grigie sponde del lago Toluca e dopo un bel po’ di marcia arrivammo in via Nathan. Era una strada lunga ma molto bella poiché era completamente invasa dal dolce rumoreggiare dell’acqua del lago. Passammo davanti ad una chiesa, alla stazione dei pompieri della città e alla banca. Poi ci trovammo nel bellissimo parco “Rosewater”. Era pieno di cespugli verdi e di statue commemorative.
Io e mamma intanto, eravamo avvolte in un silenzio innaturale. Neanche un’auto che creava luce e suoni per la strada. Infransi io il silenzio:
- Questo parco potrebbe essere l’ideale per dei fidanzati. Così bello, semplice e romantico, con vista sul lago.
- Cammina! Ti sembra il momento di sognare!?
E ok, cammino mamma!
Superato il parco, già da un pezzo, ci trovammo vicino a quello che sembrava un locale: c’erano uomini, sicuramente ubriachi fradici, che amoreggiavano con donne davvero poco vestite.
Continuammo il nostro viaggio.  Dopo quella che sembrava un’eternità, avevo i piedi a pezzi e le gambe che facevano malissimo, ma non me la sentivo di chiedere a mamma qualche minuto di riposo. Tanto conoscevo già la risposta.
All’improvviso quel lungo tragitto in linea retta fu interrotto da un’inaspettata svolta a destra per Sendford Street. Camminammo e camminammo. Eravamo davanti al parco giochi Lakeside, quando mia madre parlò:
- Visto tesoro? La strada è davvero facile. Memorizzala, ne avrai bisogno in futuro.
L’avevo già fatto: e chi se lo dimentica un tragitto così estenuante?!
- Sì, mammina. Ma quando arriviamo?
- Siamo vicinissimi.
Infatti dopo qualche altro minuto svoltammo a sinistra e dopo qualche metro raggiungemmo il retro del luna-park ed entrammo in una piccola struttura in pietra. Era davvero piccolissima e strettissima. Mamma stava per aprire la piccola porticina che ci avrebbe fatte e entrare a prima parlò:
- Adesso fai attenzione: per di qua si scende in un corridoio sotterraneo e le scale che stiamo per prendere sono ripidissime. Potresti cadere e romperti l’osso del collo.
Aprì la serratura e iniziò la discesa. Io indugiai un poco ma poi, con i piedini che mi tremavano paurosamente, iniziai a scendere. Delle torce illuminavano il cammino e strani graffiti e disegni adornavano le pareti. L’aria divenne gelata. Eravamo davvero scese in basso, avevo perso il conto dei gradini; quando questi terminarono mamma si fermò e mi osservò, come per accertarsi se ero ancora viva: non mi aveva né degnata di uno sguardo, né parlato per tutta la discesa.
- Ora, invece c’è una piccola salita da compiere.
Sbuffai mentre si voltava, ma lei mi sentì e minacciosa si riavvicinò a me, mollandomi uno schiaffo in piena guancia.
- Cammina! Davanti a ME!
Odiavo quando mi diceva di camminare davanti a lei. Voleva tenermi d’occhio sempre e diceva che quando le andavo dietro sembravo un cane.
Iniziai la salita …
 
“Piccola salita”?! Arrivai in cima senza fiato!
Mamma sembrava abituata a tutti gradini perché non aveva il fiatone.
Davanti a noi si presentò un grande porta di legno, tutta decorata e intagliata. La riconobbi subito: mamma era solita portarmi ogni mattina del sabato, al sorgere del sole, nella Cappella del nostro culto.  Lei mi ordinava di stare in una specie di atrio interno, quello che si presentava davanti a noi. Questo atrio aveva due entrate: quella in cui di solito entravo ogni sabato,  e quello che io e mamma avevamo appena percorso.
Quei sabato, non era la mia mamma ad accompagnarmi ma dei membri dell’Ordine che nemmeno conoscevo: prendevano una barca per attraversare il lago e poi nella Cappella mentre io aspettavo la fine del rito per poter rivedere la mia mamma e tornare a casa. Non mi era, infatti, permesso di assistere al rito, ma potevo visitare la struttura dopo le celebrazioni che di solito presidiava mamma.
Ma non capivo? Perché mamma mi aveva condotto nel posto di sempre però percorrendo quella strada lunghissima?
- So cosa pensi – disse mamma. – D’ora in poi sarà questa la strada che percorrerai per recarti qui.
Bhé mamma, ne avrei fatto anche a meno, lo sai.
Mi fissò, con espressione feroce. Oh, caspiterina! A volte penso che tu riesca a leggermi nella mente!
 
Entrammo nell’atrio, vuoto, e lo percorremmo tutto fino a raggiungere la porta che porta alla Cappella. Mamma mi aveva sempre detto di chiamarla Chiesa della Santa Via, ma è troppo lungo come nome. I banchi era colmi di donne.
Mi era sempre piaciuto quel posto, adoravo i quadri appesi alle pareti e amavo ammirare la grande e colorata vetrata frontale. Perdevo la nozione del tempo quando la fissavo. Era davvero stupenda. Anche i quadri non erano niente male.
Percorremmo la navata mentre la gente mi osservava incuriosita.
Mamma indicò un banco, quasi vuoto, e disse:
- Siediti là, Alessa.
Al suono del mio nome tutti i presenti trattennero il fiato e iniziarono a bisbigliare fra di loro.
Senza farci molto caso mi sedetti. Guardai alla mia destra: vidi una lunga chioma bionda, un faccino tondo che mi fissava, occhi grigi e allegri: Claudia!
- Ciao sorellina – bisbigliai.
Ero solita chiamarla così perché ci volevamo davvero tanto bene, per me lei era come una vera sorella e viceversa. Ci conoscevamo sin da quando eravamo davvero piccolissime e condividevamo le stesse passioni e la stessa religione.
Claudia era un po’ più piccola di me, doveva avere quasi cinque anni, mentre io ne stavo per compire sei. Era dolce e amichevole. Era la mia migliore amica.
Lei e i suoi genitori facevano parte della setta di Valtiel, simile a quella in cui io facevo parte, ma loro avevano una particolare devozione per …
- Ciao, piccolina. Allora, Dahlia ha deciso farti assistere al rito. Ah! Povera illusa!
Un uomo mi aveva rivolto la parola: era Leonard Wolf, il papà di Claudia. Era seduto vicino a lei; portava un lungo cappotto nero che nascondeva una vistosa tunica rosso-sangue.
Iniziò a parlare con se stesso; era un po’ strano quel tipo.
- Cosa sarebbe quella megera senza di me?! Crede che così possa diventare importante! Possa invece essere divorata dal fuoco dell’Inferno.
Si alzò e uscì dalla Cappella, sbattendo la porta.
- Anche per me è la prima volta qua dentro. Papà non voleva portarmi, però la mamma l’ha convinto - mi sussurrò Claudia.
- Ti invidio, sai – le risposi.
-Perché?
-Perché tu hai un papà.
Cadde un lungo silenzio imbarazzante. Forse l’avevo fatta sentire a disagio
Sentivo gli occhi della gente puntati su di me; era una cosa che mi faceva star male. Mi sentivo come una specie d’ospite d’onore ma odiavo stare al centro dell’attenzione. Mamma, voglio andare a casa.
 
 
Quante ore erano passate?
Tante, cara mia.
Non riesco a rimanere concentrata; ho un mal di testa lancinante!
Passerà.
 
E’ finito il rito?
Sì. Ma la gente è ancora qua, aspettano…
Bhè, io non ho capito una parola di tutte le cose che mamma diceva.
Claudia invece sì.
Sono stata con lo sguardo perso, fisso sulla vetrata.
Ma ora alziamoci.
Perché?
Mamma ti ha appena chiamato all’altare.
 

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Capitolo 4
*** Tra Capelli e Bambine ***


TRA CAPELLI E BAMBINE

Cosa? Mia madre mi aveva chiamato? Dovevo andare da lei, all’altare?
Un gruppo di donne iniziò a ridacchiare, indicandomi; Claudia mi diede un colpetto col gomito:
- Alessa, vai! Tua madre ti ha chiamato.
Mi alzai, mi sistemai il vestitino e mi diressi verso mamma. Aveva lo sguardo severo, riuscii solo a bisbigliarle uno “scusa” e aspettai che succedesse qualcosa.
Un gruppo di donne uscì dalla Cappella chiudendosi la porta alle spalle; nei banchi erano rimaste poche persone, molte abbastanza giovani, e Claudia che mi guardava con aria preoccupata.
Mamma mi fece cenno di seguirla e ci trovammo in una stanzetta adiacente alla Cappella: i muri erano sporchi e il pavimento di legno scricchiolava ad ogni minimo movimento. Vicino ad una parete c’era un confessionale in legno, era l’unica cosa decorata e bella in tutto l’ambiente. Mamma continuava a camminare e io la seguii, in silenzio.
 
Dopo aver superato tre lunghi corridoi, intervallati da pesanti porte di legno, ci trovammo davanti a quello che sembrava quasi una casa in costruzione: sentivo nell’aria delle strane polveri che mi facevano prudere il naso, e si poteva percepire l’odore quasi di un piccolo cantiere. Sulla mia destra c’era il vuoto: immagino che lì si dovrà ancora costruire.
- Non ci sono i fondi, Alessa. Ma presto si continuerà a costruire ... - disse mamma.
Sembrava davvero che avessero grandi idee per la testa. Ma dove avrebbero trovato i fondi.
Continuammo a camminare. Questo posto sembrava un labirinto, senza mamma mi sarei sicuramente persa. C’erano tantissime porte e diramazioni del corridoio che chissà dove conducevano!
Girammo a sinistra, il corridoio terminò. Alla mia destra invece, c’era una porta.
- Dovrebbero già essere entrate – sussurrò mamma.
- Chi? – chiesi io
Mamma sembrò non avermi sentita: aveva in mano una grossa chiave dorata, la usò, aprì la porta e mi spinse dentro. Era una grande stanza ottagonale, con delle colonne a sorreggere la volta. Alla mia sinistra e alla mia destra c’erano due ritratti: a sinistra c’era una donna bionda, molto bella, inginocchiata a pregare, con le mani giunte e con lo sguardo solenne.
A destra, invece, era ritratto un uomo: indossava una tunica gialla e avevo lo sguardo stanco. Sembrava un dottore, aveva un’aria da sapientone. Sembrava seduto, le mani poggiate su un tavolo che reggevano una pergamena. Sul tavolo erano poggiate altre pergamene e ... un teschio.
 
Mamma richiuse la porta.
Calò uno strano silenzio. Mi accorsi che non eravamo sole: sentivo passi di altre persone, sempre più chiari. Lentamente dal buio sbucarono tre signore che subito riconobbi: erano presenti nella Cappella quando mamma stava celebrando il rito, erano le donne che avevano lasciato il loro posto. Ma come avevano fatto ad arrivare fino qui, se erano dirette verso l’uscita?
Si avvicinarono sempre di più verso mia madre, ignorandomi. Iniziarono a parlare tra loro e io mossi alcuni passi nella grande sala. Dalle colonne pendevano delle catene, arrugginite, e non riuscivo a vedere l’altro soffitto. Sembrava un campanile. I muri e il pavimento erano interamente in pietra.
Al centro si trovava una sedia, mezza rotta, e due torce spente.
Mi spaventavano un po’.
Sulla sedia era poggiato un lungo pugnale e dalla lama, alla vista, affilatissima e appuntita. Impaurita corsi dalla mia mamma, che stava ancora parlando con quelle donne.
- Lei lo è. Io la consacro come tale – sussurrò mia madre.
- Quindi sei consapevole di quello che potrebbe succederle un giorno? – sussurrò una delle donne.
- Lei è nata per questo!
Passò la sua mano fra i miei capelli.
Le donne mi fissarono, inviperite. Cosa ho fatto adesso?
La mano della mamma era, intanto, scesa lungo il mio collo e si fermò sulla mia spalla; la sentì spingere e mi guido nel buio fino alla sedia che avevo osservato in precedenza. Iniziai a tremare violentemente.
Una delle donne mi ordinò di star seduta.
- Non preoccuparti. Sarà più veloce di quello che pensi – sussurrò la mamma.
Cosa? Cosa!? Cosa sarà veloce?!
Mamma ho paura!
Ma so che tu non mi farai mai del male, sei la mamma, e la mamma ama i suoi bambini.
Mamma afferrò il pugnale affilato poggiato sulla sedia e mi lasciò sedere. Avevo lo sguardo rivolto verso il muro, non riuscivo a vedere mamma e le altre. Davanti a me solo il freddo e buio muro di pietra.
- Lo sai che da oggi tutti sapranno che sei una bambina speciale?  - disse mamma.
Tremavo come un pulcino al freddo.
Io non sono speciale, mamma.
Passò ancora una mano tra i miei lunghi capelli neri.
Perché lo fai, mamma?
Intanto le altre donne dovevano aver acceso quelle torce perché la stanza improvvisamente brillò dell’inconfondibile fiamma di un braciere. Che stavano combinando quelle? Sentivo che maneggiavano con dei pesanti utensili di ferro; ne sentivo solo il rumore metallico.
Invece mamma aveva tra le mani il pugnale.
 
Dopo qualche minuto piombò il silenzio, e come sottofondo la legna che ardeva dietro di me.
Ancora la mano di mamma tra i miei capelli.
Sentì la sua voce, un dolce sussurro:
- Uno ...
Mamma? Mamma?! Voglio andare a casa!
- Due...
Voglio vedere Claudia! Voglio stare con lei!! Mamma ho paura!
Chiusi gli occhi, tremando di paura, quando lei sussurrò:
- ...tre.
Fliiick!
Cosa è successo?
Fffllliiiiick!
Un rumore dolce, ma tagliente. Dietro di me. Mamma? Provai a girare la testa per osservarla ma lei subito mi ordinò di rimetterla dritta.
Con la coda dell’occhio vidi una di quelle donne, avvicinarsi e chinarsi vicino alla mia sedia, come se stesse prendendo qualcosa da terra.
Fliiiiiiiick!
Mamma? Mi...
Fliiiiiick!
Sentì freddo alla nuca. Un freddo inaspettato.
Mamma, mi stai tagliando i capelli?!!
Sollevai la mano destra e la posi sulle spalle, dove poggiavo i miei lunghi capelli quando li tenevo sciolti, come quella sera.
Non c’erano più.
- Giù le mani, Alessa! – urlò mia madre.
 
Dopo circa dieci minuti, finì.
Avevo le lacrime agli occhi. I miei capelli...
Mi alzai e li vidi ... per terra: lunghissime ciocche buttate sul pavimento formavano strani riccioli. Sentivo tanto freddo al collo e alla nuca. Mi toccai il capo: avevo i capelli cortissimi, sembravo un maschietto! Mamma mi guardava soddisfatta e le donne stavano raccogliendo i miei capelli, posandoli in un cofanetto dorato.
Un’altra signora, invece, mi porse un frammento triangolare di specchio.
Mi osservai: sembravo davvero un maschietto! Le lunghe ciocche erano diventati ciuffi scompigliati e disordinati, che andavano di qua e di là. Non mi piacevo, ero orrenda.
Io adoravo, ogni mattina, spazzolare i miei lunghi capelli neri. Li portavo lunghi fino alla vita, probabilmente mamma non li aveva mai tagliati, neanche quando ero davvero piccolina.
Perché ora ha voluto giocare alla parrucchiera proprio con me!?
 
- Andiamo adesso.
Mamma si diresse verso l’uscita e io la seguii. Le donne invece rimasero nella sala. I bracieri ancora vivi e accesi. Posai il frammento di specchio nella tasca del vestito bianco e chiusi la porta dietro di me.
Iniziammo a ripercorrere i corridoi, dirette verso la Cappella, quando all’improvviso udì voci... urla...
Urla femminili... dietro di noi. Tanti urli disperati e pianti.
Mamma e io ci fermammo e ci voltammo indietro, lo sguardo perso nel vuoto del corridoio.
Le urla non cessavano ma continuavano, sempre più forti e disperati.
Gli urli quasi disumani!
Quasi di mostri in agonia...
- Ehm... andiamocene via, Alessa. Torniamo alla Chiesa.
Mi spinse per una spalla. Io quasi non riuscivo a camminare per la paura e la tensione. Ma cosa sta succedendo in questo posto? Che stava succedendo a quelle donne?!
Ci affrettammo verso la pace, le urla quasi non si udivano più. Eravamo arrivate davanti all’ uscita secondaria che avevamo preso prima, mamma mi guardò e mormorò:
- Vedendoti così, la gente potrebbe comportarsi in modo piuttosto strano. Tu assecondali!
- Che vuol dire “assecondali”, mamma?
- Tu non parlare! Sorridi e fa quello che ti chiedono di fare!
- Va bene.
Aprì la porta. Ci ritrovammo nella familiare Cappella. La gente era ancora tutta là; appena varcai la soglia tutti si alzarono e dissero qualcosa in una strana lingua. Mi mossi verso la navata centrale, sentivo il loro sguardi e li udivo i loro bisbigli. Poi si mossero insieme verso di me.
Rimasi immobile... cosa vogliono?
Delle donne non fissavano me. Erano interessate ai miei nuovi capelli; altre mi toccavano la mano - con fare a dir poco adoratorio - , una invece mi pizzicò le guance, una vecchia mi baciò la fronte, ...
Una giovane si avvicinò a me e mi sussurrò all’orecchio:
- Finalmente sei qui!
Poi se ne andò, sorridendomi.
Un’altra donna, invece, non mi guardava negli occhi. Era forse interessata al mio vestito, o a qualcosa che ha a che fare con la mia pancia, perché mi guardava solo lì.
Che gente!
La folla poi finì. Quasi tutti se ne erano andati.
Dalla folla, controcorrente, vidi la piccola Claudia che cercava di raggiungermi. Tirò uno spintone a una vecchia in sovrappeso e i raggiunse, col sorriso.
- Finalmente, pensavo non tornassi più –disse sollevata.
- Ah.
Dette un’occhiata alla mia “nuova pettinatura” e rise:
- Ahahahahahah! Sembri un maschietto conciata così. Ma serve sai? Me lo stava raccontando ieri la mia mamma...
Indicò una donna dai lunghi capelli biondi, che stava parlando, insieme ad altre persone, con la mamma.
Ma il discorso di Claudia e quello degli adulti all’improvviso cessò.
Si sentirono le pesanti porte d’ingresso spalancarsi e Leonard Wolf entrando, rivolgendosi a mamma disse:
- Sono qua. Le faccio entrare?
Mia madre non rispose e Leonard tornò indietro, ma non chiuse la porta. Mamma avevo lo sguardo ... era davvero arrabbiata, sembrava indiavolata. Sussurrò qualcosa tra se e rivolse il suo sguardo su di me.
Dopo qualche istante, rientrò Leonard ma non era più solo: lo seguivano alcune bambine.
La mamma di Claudia la chiamò e la condusse via.
- Ciao, ciao – mi sussurrò, ma io avevo occhi solo per quelle bambine.
Erano un bel po’, tutte diverse in aspetto e sicuramente in età. Avevano i visi e i vestiti sporchi e l’aria non molto felice.
Una di loro catturò la mia attenzione. Aveva i capelli ricci e rossi, il faccino piccolo e tondo. Indossava un abito grigio, senza scarpe.
La osservai, muovendo alcuni passi verso quel triste corteo: quella ragazzina stava piangendo, in silenzio le lacrime le rigavano il volto.
Continuai ad osservarla e anche lei rivolse i suoi occhi verdi su di me.
 

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Capitolo 5
*** Nuovi Incontri ***


NUOVI INCONTRI

I nostri sguardi s’incrociarono per pochissimi istanti. Aveva dei bellissimi occhi verdi. Poi il suo sguardo tornò basso, amareggiato e sconsolato.
Anche altre di quelle ragazze e bambine mi stavano guardando, ma non con occhi luminosi come quelli di quegli adulti che mi fissavano prima: avevano gli occhi spenti e luccicanti alla luce delle torce, come se avessero appena finito di piangere. Mi suscitava molta tristezza a guardarle. Erano quasi una ventina, tutte femmine, col vestito logoro e gli occhi lucidi. Alcune sembravano della mia età, altre erano più grandi e alcune erano davvero belle.
Mi colpì una delle ultime ragazze ad entrare nella Cappella: sembrava grande, ma allo stesso tempo molto piccola. Aveva dei corti capelli, sul biondo cenere, e gli occhi neri e grandi. Questa teneva per mano una bambina che sembrava della mia età. La piccola aveva i capelli biondi come l’altra, ma più lunghi. Gli occhi erano gli stessi della sua compagna ... sembravano sorelle.
Che ci fanno qui tutte queste ragazze?
Mia madre, intanto, si era avvicinata a Leonard e gli sussurrava qualcosa. Leonard ascoltava, con uno strano sorriso stampato in faccia; mamma invece sembrava sul punto di sgozzarlo, per quanto era contrariata.
Le strane ragazzine nel frattempo, avevano preso posto tra i banchi e, incuriosite, si guardavano attorno. Le due sorelle si erano sedute avanti, lontano dalle altre che sembravano conoscersi. La più piccola delle due stava singhiozzando in silenzio mentre la sorella sembrava rassicurarla, accarezzandole il capo. La più grande forse poteva essere sui quindici anni. Invece la bambina dai capelli rossi si era seduta all’ultimo banco, da sola. Si toccava nervosamente i capelli; intercettò ancora una volta il mio sguardo, puntato su di lei. Timida distolse lo sguardo, ridacchiando silenziosamente.
Ma perché oggi, se la gente mi guarda, ride?
Mamma e Leonard erano spariti. Forse se ne erano andati e non me ne ero accorta. Anche Claudia e sua madre erano già uscite dalla sala. C’ero solo io con quelle ragazzine.
 
Ero curiosa. Volevo sapere il perché della loro visita e il motivo della loro tristezza.
Il silenzio era calato, inesorabile.
Mi avvicinai alle due sorelle. La più grande mi squadrò, minacciosa, mentre la più piccola, appena mi vide, smise di piangere. Erano davvero belle, tutt’e due.
- Avete degli occhi stupendi – sussurrai a loro due – Lo sapete che gli occhi riflettono la vostra anima? Si nota che non siete molto felici.
La più piccola guardò la sorella, in attesa di una risposta.
- Io mi chiamo Alessa Gillespie. E voi?
Rispose la sorellina:
- Ciao, io mi chiamo Noale e lei è la mia sorellona, Ifer.
- Avete dei nomi stranissimi!
Scoppiai a ridere.
- Bhè, non è che il tuo sia tanto normale come nome – sussurrò Ifer.
- Perché? – le chiesi.
- Non ho mai sentito nessuno chiamarsi così. Non è un nome comune, ecco.
- La mia mamma dice sempre che io non sono comune, ma non capisco che vuol dire.
- Vuol dire che sai o riesci a fare qualcosa che gli altri non sanno o non riescono a fare.
- Ah, capisco. Diciamo.
Arrivai subito al punto:
- Perché siete qui?
Loro mi osservarono curiose. Ifer rispose, sottovoce:
- Ci hanno obbligato a venire qui. Quell’uomo ci ha prima portate in uno strano edificio e poi condotte qui. Noi non siamo di Silent Hill. Veniamo da Brahms, una città lontana quasi... quasi 13 miglia. Ma queste altre ragazzine non le conosco; da quello che dicevano sono anche loro di Silent Hill. Vengono da un istituto, che adesso non ricordo. Nemmeno noi abbiamo i genitori; nella nostra città c’è un orfanotrofio e noi ne facevamo parte. Poi è venuto quell’uomo e ha portato via me e mia sorella; diceva che dovevamo esserne orgogliose e non dovevamo piangere, altrimenti lui ci faceva male.
Rimasi un po’ turbata. Cosa voleva Leonard, da quelle bambine? Lui aveva già una figlia.
La piccola Noale aveva perso il sorriso e abbassato lo sguardo i chiese:
- Tu sai quando potremo tornare a casa?
Non ebbi il tempo di risponderle: sentimmo una porta sbattere violentemente e dopo qualche secondo mi ritrovai lontano dalle sorelle. Sentivo due mani afferrarmi senza troppa premura per le spalle e trascinarmi indietro, facendomi inciampare e cadere sul freddo pavimento di pietra col sedere.
- Alzati, piccola peste. Qualcuno ti ha detto che potevi parlare con questa gente?!
Mia madre era davvero arrabbiata stavolta. In effetti nessuno mi aveva detto che potevo parlare con le ragazze; ma perché non potevo?
Leonard si avvicinò a me. Era vero che picchiava quelle bambine.
Iniziai a tremare di paura, seduta ancora per terra. Guardai mia madre. Aveva uno sguardo...
Leonard mi tirò su per un braccio. Quando fui in piedi e lui mi teneva ferma per il braccio ( la sua mano sembrava una morsa ), alzò l’altra sua mano, libera, come pronto a darmi un ceffone in piena faccia o chissà cos’altro...
- Sei una cattiva bambina!! – urlò Leonard.
Tutti trattennero il fiato.
Iniziai a piagnucolare:
- Scusa, scusa, non lo faccio più... la prego!
Mamma aiuto! Mamma!
- Lasciala – era la... la...
Mamma, mi hai...
Con un brusco gesto l’uomo mi spinse via. Corsi dalla mamma, che con un braccio mi cinse le spalle.
 
Leonard, infuriato, prese per una mano la piccola Noale.
Lei iniziò a dibattersi e a urlare. Sua sorella intervenne cercando di fermare l’uomo, fuori di sé. L’implorava di lasciarla andare, di prendere lei al suo posto.
- Allora verrete tutt’e due!
Le tirò entrambe con una violenza inaudita, facendole cadere con la faccia per terra. Una volta rialzate le trascinò verso una porta che non avevo ancora notato: era una porticina in legno scuro, vicino all’entrata principale. Le due bambine furono portate via.
Tremavo come non mai. Avevo paura.
Mamma mi lasciò andare e seguì le ragazze e Leonard. Riuscii ad intravedere mamma tirare fuori dal vestito un sacchetto di cuoio, che traboccava di quella che sembrava una fine polvere bianca.
 
Era tutta colpa mia. Chissà ora cosa sarebbe successo a Noale e ad Ifer.
 
Era tutto calmo e silenzioso, quando all’improvviso sentimmo tutte urlare. Un urlo straziante. Veniva da quella porta scura. Tutte iniziammo ad agitarci. Le urla continuavano inesorabili.
Oddio, cosa stava succedendo lì?
E poi, dopo qualche secondo, cessarono.
Silenzio.
Mi sedetti contro la parete di pietra. Scioccata. Spaventata.
Ma che posto è mai questo?
 
All’improvviso avvertì qualcosa appoggiarsi sulla mia spalla destra: una mano. Una piccola mano.
La bambina dai capelli rossi e ricci, con gli occhi verdi, era vicino a me. Mi stava consolando?
Io avrei dovuto consolarla!
Parlò:
- Non preoccuparti per noi, Alessa. Pensa a te piuttosto. E non aver paura del futuro: temi il buio, il silenzio, la vita, il mondo, i grandi ... e temi questo posto, questa città, Silent Hill.
Aveva la voce dolce come il miele.
Non avevo capito appieno le sue parole.
Mi lasciò: tornò a sedersi insieme alle altre, con lo sguardo perso.
 
Mamma tornò appena in tempo.
Volevo andarmene da quel posto.
 
 
Eravamo in cammino verso casa. Avevo sonno e fame.
Davanti a casa, mamma parlò:
- Quest’anno inizierai a frequentare la scuola. Lo sai.
Mamma non mi aveva mai mandata all’asilo: lei mi aveva insegnato a scrivere, leggere, disegnare e tante altre cose.
- Sì mamma – le risposi io.



CURIOSITA': per creare i nomi di quelle due bambine ho giocato un po' con due parole inglesi (male, lo ammetto, ma in queste cose sono un po' una frana XD), un po' significative e importanti per la nostra storia. Provate a trovarle:
                                                                       

         NOALE

         IFER

Fatemi sapere ;) e recensite!

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Capitolo 6
*** Il Primo Giorno Di Scuola ***


IL PRIMO GIORNO DI SCUOLA

- Veloci bambini! Veloci!
Seguivo la folla. La maestra voleva che accelerarassimo il passo.
Che emozione, non vedevo l’ora di...
- Svelti bambini, entrate in quell’aula! Veloci! Dai, dai!
Avevo fatto bene ad entrare per ultima perché tutti quei bambini davanti a me non facevano altro che spintonarsi a vicenda e urtarsi.
Rimasi fuori solo io.
- Forza piccina entra.
Era davvero una maestra carina: aveva i capelli bruni raccolti in una lunga treccia, il viso giovanile e allegro, le gote rosse; spero sia la mia maestra.
Entrai nella stanza: eccola, la mia aula. Era davvero grande e spaziosa. Tutti i banchi erano stati occupati tranne uno, in fondo all’aula, che aspettava solo me. Le mie compagne di classe sembravano felici, mi rivolgevano sorrisi a destra e a manca. Un bellissimo e normale primo giorno di scuola. Non avrei potuto desiderare di meglio. Non uscivo molto da casa e non conoscevo nessuno ma ero sicura che avrei coltivato nuove ed eterne amicizie qui, alla Midwich Elementary School.
Finalmente frequentavo una scuola pubblica. Ero stanca di essere educata a casa da mia madre.
La simpatica maestra si accomodò, davanti a noi. Tirò fuori da una cartella nera un foglio e lo esaminò. Lesse ad alta voce:
- Brown Lucy!
La bambina bionda alzò la mano, sorridendo a trentadue denti.
- Cooper Jessy!
Vidi una mano alzarsi. Dal mio posto la visuale era pessima.
La maestra continuò l’appello, sorridente:
- Clarke Lily!  Davin Nina!  Evans Mary!  Flores Alice!
Quando tocca a me?!
- Gillespie Alessa.
Era il mio turno! Alzai la mano, entusiasta. Incrociai lo sguardo della maestra: io ero sorridente, lei sembrava pietrificata. Poi si riprese, smise di fissarmi e continuò l’appello.
Che le era preso? Il mio nome l’aveva turbata?
Finito l’appello, toccò alla donna presentarsi:
- Buongiorno a tutte bambine e benvenute alla vostra nuova scuola elementare Midwich. Sono sicurissima che vi troverete benissimo qui. La scuola è grandissima, però, adesso vi faccio fare un veloce giro, giusto per orientarvi. Io sono la vostra maestra. Mi chiamo Kate Gordon.
Che bel nome Kate. Avrei voluto anche io un nome così semplice e grazioso. Il mio nome, “Alessa”, mi era sempre stato antipatico. Sembra un nome grezzo, brutto. Forse era per questo che la maestra si era un attimo prima incantata. Forse pensava “quanto è brutto il suo nome!”... probabilmente.
- Forza bimbe. Trovatevi una compagna, datele la mano e partiamo.
Ci fu un gran fracasso, sedie che si spostavano, rumori di grida e passi. Le altre avevano trovato la compagna e io rimasi vicina ad un’altra. Era rimasta solo quella bambina bionda, si chiamava ...  ah, Lucy Brown. Era la prima dell’elenco.
- Ehi. Vuoi darmi la mano? – mi chiese.
- Certo – le risposi.
Aveva la mano freddissima e sudaticcia. Che schifo!
 
La nostra classe si trovava al secondo piano, nell’ala sud, vicino i bagni per maschi e femmine. La mia classe era composta solo da femminucce, ma sicuramente altre classi ospitavano solo maschietti.
- Al piano terra, bambine, si trovano classi e sale docenti. C’è anche la segreteria e accanto l’infermeria, con qualche deposito e sale d’aspetto. Niente che vi possa interessare.
Ascoltavamo e camminavamo in silenzio, per il lungo corridoio strapieno di armadietti e bacheche.
- Qui al secondo piano, invece – continuò la maestra Gordon – ci sono i laboratori di chimica e un’enorme biblioteca. Oltre alla vostra e ad altre classi, inoltre, c’è la stanza degli armadietti e la stanza della musica. Andiamo a visitarla, vi va?
- Sì! – rispondemmo in coro.
La maestra aprì una porta pesante e ci ritrovammo in un altro corridoio, con sole due stanze. Entrammo nella prima: la stanza della musica.
Là dentro si respirava un’aria strana. Al centro della sala c’era un enorme pianoforte nero, tutto polveroso per la recente apertura post-estate della scuola.
La maestra parlò:
- Qui, bambine, canteremo e ci eserciteremo al pianoforte. A proposito, qualcuno di voi sa suonare questo strumento?
Nessuna alzò la mano o si fece avanti.
Dai vai tu!
Ma io non so suonare quell’aggeggio!
Ti ho detto di proporti!!
- Io.
Queste parole uscirono quasi involontariamente dalle mie labbra. Tutti si voltarono a guardarmi. Lucy mollò la presa, sbalordita.
La maestra spostò il suo sguardo su di me:
- Tu... sai suonare il pianoforte, Alessa?!
Annuì.
Ma che mi stava succedendo?!
- Accomodati allora.
La maestra mi invitava a suonare qualcosa. E adesso?!
Tremante mi sedetti sullo sgabello e osservai i tasti.
- Non so suonare molto bene, maestra. Ma posso sempre raccontarvi la favola degli uccellini senza voce, accompagnandola con la musica.
- D’accordo, Alessa.
Le mie dita si adagiarono sulla tastiera. Iniziai a suonare, la melodia così triste e rassegnata che frugava nella mia testa. Tutti erano a bocca aperta. Con la mano destra eseguivo la melodia principale, con la sinistra accompagnavo delicatamente il tema.
Poi iniziai a cantare, dolcemente, quasi sottovoce:
 
First flew the greedy Pelican,
Eager for the reward,
White wings flailing.
 
Then came a silent Dove,
Flying beyond the Pelican,
As far as he could.
 
A Raven flies in,
Flying higher than the Dove,
Just to show that he can.
 
A Swan glides in,
To find a peaceful spot,
Next the another bird.
 
Finally out comes a Crow,
Coming quickly to a stop,
Yawning and then napping.
 
Who will show the way?
Who will be the key?
Who will lead to
The silver rewards?
 
Silenzio.
Ma cosa avevo fatto? Io non sapevo suonare, eppure la musica e le parole mi erano uscite quasi di botto.
Applauso.
Sono loro. Sono felici. La maestra sorride, stupefatta.
La filastrocca degli “uccellini senza voce” l’avevo sentita tante volte da mamma prima di addormentarmi. Lei me la canticchiava sempre.
- Sai suonare davvero bene, Alessa – disse la maestra.
Sorrisi alle compagne. Mi guardavano intenerite. Com’erano tutte belle, coi proprio grembiulini blu e il fiocco rosso al collo.
 
Riprendemmo subito il giro della scuola, anche se non c’era molto altro da vedere.
Attraversammo il grande cortile interno e la sala-docenti al piano terra.
Poi tornammo in classe e... si parlò del più e del meno, discutemmo su quello che ci avrebbero insegnato. Io ero sempre vicino a Lucy: aveva un carattere forte ed era abbastanza robusta, incuteva un po’ di timore ma era anche dolce come il miele.
 
Alle due del pomeriggio potemmo uscire dall’edificio. Casa mia era parecchio lontana e mamma non aveva intenzione di venirmi a prendere da scuola ogni giorno. Mi misi in marcia, allora, col grembiule che svolazzava per il fresco vento autunnale.
- Alessa! Alessa, fermati!
Era Lucy! Ma non era sola: teneva a guinzaglio un cane, nero come la pece. Era un doberman.
- Alessa volevo farti vedere il mio amichetto. Si chiama Freddy. Ti piace?
Il cane non sembrava molto amichevole; anzi, mi ringhiava contro.
- E’ davvero adorabile – mentii io.
- A cuccia, bello. Lo so. E’ un amore. L’avevo legato al cancello della scuola...
- E si può fare?
- Non credo, Alessa. Ma che importa, in fondo.
- Giusto, Lucy.
- OK. Ora che vi siete conosciuti, è meglio tornare a casa. Ciao – e corse via col doberman.
 
Dopo quasi mezz’ora di corsa, varcai l’uscio di casa, senza fiato.
- Perché ci hai messo tanto?! – urlò mia madre.
- Scu... scusa ma più veloce di... così non corro, mamma.
Era seduta su una sedia, i gomiti appoggiati sul tavolo, le mani tra i capelli: sembrava preoccupata.
- Allora dimmi: che avete fatto a scuola?
Sorrisi: quante cose avevo da raccontarle.
- Abbiamo conosciuto la maestra che ci ha mostrato la nostra classe e poi ci ha fatto visitare la scuola. Poi siamo andate nell’aula di musica e ... mi ha chiesto di suonare qualcosa!
Mamma mi osservò, squadrandomi, con sguardo annoiato:
- Ma tu non sai suonare.
- Lo pensavo anche io, ma arrivata lì le dita... è, come... se avessero deciso da sole di suonare la melodia. E dalla mia labbra uscivano parole! Ho cantato e suonato davanti a tutti, mamma! E mi hanno applaudito!
Smise di osservarmi, spostò lo sguardo per terra e disse:
- Questo è un buon segno. Vai a dormire adesso.
Cosa?
- Ma, mamma, è ora di pranzo. Non è sera...
- VA NELLA TUA CAMERETTA, MALEDIZIONE!! VAI A DORMIRE!
Corsi spaventata su per le scale della mia grande casetta; arrivai nella mia stanza e, tremante, mi rannicchiai, ancora vestita, sotto le coperte.
Era come se mamma non si sentisse bene; aveva la voce strana e rauca, e gli occhi umidi.
Che stava succedendo?
Mentre pensavo questo l’occhio mi cadde sulla parete, vicino alle farfalle della mia collezione.
 
 
Valle a prendere.
 
 
 

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Capitolo 7
*** La Più Fragile Delle Farfalle ***


LA PIU' FRAGILE DELLE FARFALLE

- Dai, muovi le ali!
Sopra la scrivania della mia cameretta, appese al muro, si trovavano diverse bacheche piene zeppe di farfalle e altri insetti. D’estate adoravo acchiapparle e giocarci un poco prima di soffocarle dentro un barattolo. Lo so, può sembrare una cosa disumana e crudele; ma non per me.
Le rinchiudevo in un barattolo e ne osservavo le colorate ali leggiadre.
Le farfalle potevano agitarsi fino ad impazzire ma là sarebbero morte.
Una volta stecchite le trapassavo con un piccolo ago e le poggiavo delicatamente nella bacheca, infilzate.
Ma non collezionavo solo le farfalle: casa mia era ai confini di Silent Hill e di tanto in tanto si vedevano quei grandi scarafaggi e insetti che mi fanno venire la pelle d’oca. Li uccido e li aggiungo alla mia collezione comunque, ma continuano a farmi ribrezzo. Non capisco come certa gente, come mia madre, non provi disgusto per quegli esseri striscianti come serpenti e bruchi!
Nel mio mondo ideale tutti avranno paura di loro.
 
Ora ero seduta, davanti ad una delle bacheche. Avevo tirato fuori una farfalla e l’avevo posata sul tavolo. Qualcosa... qualcuno, dentro di me, voleva vederla volare. Ma cos’era?
Avevo per una buona mezz’ora continuato a ripetere all’insetto morto di muovere le sue graziose ali blu. Continuavo a fissarla, immobile. Poi le gridai:
- Torna in vita, e vola via da qui!
 
Un lieve sussulto.
Le ali si mossero. Le antenne vibrarono.
- Che bella che sei! Vola!
La farfalla non se lo fece ripetere due volte: spiccò il volo.
Era davvero un bello spettacolo. Ma come avevo fatto a farla risvegliare? Come aveva fatto a tornare in vita? Ricordo benissimo il giorno in cui la catturai e soffocai. L’avevo persino infilzata. Come...?
 
Devo farlo vedere a mamma?
E cosa mi direbbe?
Mi darebbe della pazza.
 
La farfalla si era, intanto, posata sul mio lettino. La contemplai:
- Come sei bella. Vuoi uscire vero?
Era uno spreco forse lasciarla qui. Se la vedeva la mamma, lei sarebbe andata su tutte le furie: mamma non voleva animali di nessuna specie in casa sua.
L’avrei fatta uscire, ma nella mia cameretta non c’erano finestre.
- Vieni qui, ti porto via.
La farfalla, come se avesse capito, si librò verso di me e l’accolsi nel palmo della mia mano destra;
- Andiamo adesso. E non scappare via.
Aprii la porta. Non dovevo fare rumore nel scendere le scale.
Tesi l’orecchio per sentire dove fosse la mamma, ma tutto era tranquillo, tutto taceva.
- Via libera!
Scesi di corsa le scale e corsi verso l’ingresso.  Girai la maniglia ed uscii.
- Vola adesso. Sei libera!
Detto fatto: spiccò il volo verso il cielo, ad est, lontano da Silent Hill.
 
In quello stesso momento vidi una figura avvicinarsi sempre di più. Correva. Era una bambina.
Gridò:
- Alessaaa!
Claudia!
Mi raggiunse, col fiatone.
- Che ci fai fuori casa, Alessa? Tua madre non...
- Tu che ci fai qui piuttosto!
Abbassò lo sguardo, mortificata. Si massaggiò delicatamente l’avambraccio destro e mi guardò, quasi supplicante.
- Posso stare un po’ qua, a casa tua? Me lo ha detto tua madre.
- Va bene.
Entrammo e subito ci dirigemmo nella mia cameretta.
Claudia si sedette sulla sedia, io sul letto.
- Cosa è successo a casa tua, Claudia?
Lei non mi rispose.
Notai le guance bagnate: stava piangendo in silenzio.
- E’ ... p-pap-papà...
Scoppiò a piangere.
Mentre singhiozzava si alzò le maniche del vestito per scoprire le braccia... piene di lividi e graffi.
- Perché ti ha fatto questo?
- N-on lo so. N-n-non ho fatto niente di male. Ne-anche mamma lo ha fe-rmato.
Non capivo il motivo; Claudia era una brava bambina.
- Sai, Alessa. Credo sia arrabbiato perché stavo scrivendo una ... una ... non posso dirtelo, mi prenderai per pazza.
Rispettai la sua scelta: rimasi in silenzio a fissare le macchie viola sul braccio.
 
Sentimmo sbattere la porta.
- Dev’essere papà!
Claudia ricominciò a tremare. La rassicurai:
- Non preoccuparti, ti accompagno io da lui.
Scendemmo lentamente le scale e attraversammo l’ingresso, mute e spaventate. All’uscio, in silenzio c’erano la mamma e Leonard Wolf. Erano parecchio arrabbiati: si guardavano negli occhi, in cagnesco.
Quando i due adulti ci videro arrivare, ci fermammo timorose.
 
Mamma mosse alcuni passi verso di me e mi spinse, violentemente via, verso il le scale del piano inferiore, i sotterranei.
- Porta via tua figlia, Leonard! – disse con tono grave mia madre – Sparite!
Leonard prese per un gomito Claudia e la trascinò fuori, minacciandola.
Tentai di tornare dalla mia sorellina:
- Mamma, asp-
Neanche il tempo di finire la frase che mia madre i rifilò uno schiaffo sulla testa.
- Vuoi stare zitta?! – mi gridò.
Con continui spintoni mi guidò verso lo scantinato.
Le scale erano ripide e taglienti. Se continuava a spingermi così sarei caduta.
Ma a lei non sembrò importarle più di tanto: mi spinse giù per le scale con noncuranza.
Verso metà strada persi l’equilibrio e caddi a terra.
- Ahia! Ma-mamma! Cos’ho fatto, mamma?
Non mi rispose.
Continuò a spingermi e a picchiarmi. Non ebbi la forza di trattenere le lacrime.
- Ma cosa ho fatto? Scusa!
 
Lo scantinato di casa mia era un composto da una sola stanza fredda e umida, col pavimento e i muri in legno. Avevo paura. Cercavo di fermarla perché il dolore oramai era insopportabile.
Ma invano.
 
Arrivati alla lugubre stanza sotterranea, mamma mi ci spinse dentro con violenza e i ci chiuse dentro, a chiave.
Rialzata dall’ennesima caduta, corsi verso la porta gridando :
- Mamma! Mamma! Fammi uscire!
Era tutto buio nella stanza. Solo un mozzicone di candela era poggiato su un tavolo in un angolo.
- Mamma, ti prego, apri! Fammi uscire!
 
Passai la tutta la notte, dormendo per terra, sotto il tavolo, sul nudo pavimento, come un animale.
 
Chissà cosa sarebbe successo alla piccola Claudia.
Ma cosa era successo a mamma?
 
 
 
- Sta facendo progressi.
 
- Sicuramente sì. Ma sei davvero sicura che...
 
- Certo. E ben presto mi darai ragione.

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Capitolo 8
*** Il Potere Della Morte ***


IL POTERE DELLA MORTE

Fui svegliata dalle urla della mamma. Avevo il corpo a pezzi: doleva dappertutto a causa della misera notte che avevo trascorso sotto il tavolo. Mi intimò di uscire subito dalla stanza e di filare in camera mia, senza fiatare o le avrei prese ancora. Corsi via e salite le scale mi diressi verso il bagno; mi posizionai davanti ad un grande specchio ed mi esaminai. Avevo graffi e lividi su tutto il corpo, anche sulla faccia, e un accenno di sangue era colato dal naso. Continuavo a guardarmi: ero davvero messa male. Cercai di pulirmi meglio che potevo. Cosa avrebbe pensato la maestra quando mi avrebbe vista conciata così?
Non volevo che incolpassero mamma; anche se sapevo che le ferite erano per causa sua, mi faceva star male l’idea che non mi volesse bene: mamma mi voleva bene, dovevo convincermi.
- Ma davvero? Io dico che ti odia!
Chi aveva parlato? Nel bagno, oltre me, non c’era nessun’altro.
Guardai lo specchio, la mia immagine riflessa. In un primo momento pensai di essermelo immaginato ma poi non potevo più negarlo.
La mia immagine riflessa stava parlando! Io, muta, la osservavo:
- Io penso che lei ti trovi inutile, Alessa. Non hai visto come ti tratta!? Lo sai che le altre mamme non fanno quelle cose alle proprie figlie?
Rimasi a guardarla: era davvero bella. In cuor mio, sapevo che non era il mio vero riflesso. Era perfettamente uguale a me, sì, ma vedevo in “lei” una specie di regalità e femminilità che non vedevo in me.
I miei capelli sporchi e arruffati, nel riflesso, sembravano morbidi e lucidi. I miei occhi spenti, in lei sembravano belli, perfetti e molto più azzurri dei miei. Eppure eravamo uguali.
Il riflesso non seguiva i miei movimenti: aveva un atteggiamento di sfida piuttosto strano e io non sapevo imitarla.
Quella me... quel riflesso, diceva che io non ero amata dalla mamma. Non era vero:
- Mamma mi vuole tanto bene – replicai, quasi insolente – Quando si arrabbia mi fa del male ma-
- Non è vero! Tu ieri non hai fatto niente di male, eppure ti ha picchiato e rinchiuso tutta la notte nei sotterranei! – mi interruppe lei.
Dopotutto era vero: io ieri non avevo combinato niente di male. Che quel Leonard avesse influenzato anche mia madre? Che anche lei avesse iniziato a picchiare me,  sua figlia, proprio come il papà di Claudia faceva con la sua piccola?
- Pensaci – disse il mio riflesso.
Uscii dal bagno, con questi pensieri per la testa. La mia vita era trascorsa così tranquilla... ma ora avevo come la sensazione che stessi per passare un sacco di guai.
 
Continuai la scuola e feci nuove amicizie. Le mie compagne di classe erano davvero socievoli e tranquille.
Con loro potevo parlare di tutto e le loro mamme erano sempre dolci e premurose nei miei confronti. Anche abbastanza invadenti, un po’ come tutte le mamme... tranne la mia.
La mia mamma non era mai venuta a prendermi dopo le lezioni, né mi aveva mai accompagnato la mattina al grande cancello della Midwich. Sapeva parlare solo del Paradiso, della Santa Madre e della chiesa.
Ogni notte del fine-settimana, ero costretta a partecipare al rito nella Cappella; ed era una noia mortale.
Preferivo passare il tempo con le mia amiche e le loro mamma così amorevoli... prima di quel giorno.
 
Quel maledetto giorno.
 
Ero uscita da scuola e, come ogni pomeriggio, mi incamminavo verso casa accompagnata da Lucy e la sua mamma.
Parlavamo del più e del meno ed era davvero piacevole stare con loro. Quel giorno parlavamo del nostro futuro.
- Io vorrei tanto diventare famosa. Vorrei che tutti si fidanzassero con me – diceva Lucy – Vorrei firmare autografi e diventare popolare in tutto il mondo. Vorrei anche avere tanti figli. E tu, Alessa?
Arrossii tutta. Queste domande mi mettevano sempre in imbarazzo; ma le risposi:
- Io vorrei diventare maestra. Ah, vorrei come figlio una bella femminuccia, da cullare e da accarezzare tutto il giorno.
- Già, tu sei bravissima a cantare, Alessa. Ricordi quella volta al pianoforte?
- Sì, Lucy.
La mamma colse l’occasione:
- Allora piccolette, come è andata oggi a scuola? – chiese affettuosa.
- Niente di speciale, mamma. Ma Alessa oggi ha fatto zittire la maestra! – rispose Lucy.
- In che senso? – chiese la donna.
- Non è niente di che – dissi io, velocemente.
- Mamma, Alessa ha letto perfettamente tutte le pagine assegnate, ha fatto i calcoli di matematica senza problemi e disegna benissimo! E’ un genio!
La madre di Lucy rimase a bocca aperta e mi fissò compiaciuta.
- E come fai ad essere tanto brava, piccola? – mi chiese.
- Mamma mi ha insegnato tutto quello che so. So leggere e fare i conti da quando avevo tre anni. Ah, e non ho frequentato altre scuole prima d’ora.
Lucy e sua madre si fermarono, stupefatte e sbigottite.
- Non è possibile, com- - rantolò la donna.
Dopo qualche secondo si riprese: la sua espressione di incredulità si trasformò in un largo sorriso, un po’ inquietante. Anche io le sorrisi incoraggiante.
Era vero: la mamma mi aveva istruito a casa. Le prime cose che lessi in vita mia furono Mamma Oca, Cappuccetto Rosso, Biancaneve e altre favole.
- E chi è tua madre Alessa? Non l’ho mai vista – chiese Lucy.
Perché risposi a quella domanda.
Quella risposta... quella frase fu la mia rovina.
- Mia madre si chiama Dahlia Gillespie.
Questa volta la donna si fermò bruscamente. La figlia, noncurante della madre, continuò a camminare.
- Qu- quella Dahlia Gi-Gillespie? – chiese tremante.
- Sì, perché? Ci sono altre Dahlia Gillespie a Silent Hill?
La donna sembrava scioccata. Tremava e sussurrava parole incomprensibili. Non erano quelle parole incomprensibili che sentivo durante i riti nella Cappella. Non l’avevo mai vista durante le funzioni della mamma; ma come faceva a conoscerla?
 
- Alessa! Vieni subito qui!
Quella voce. Mamma!
Stava camminando verso di noi. E non sembrava molto felice.
La mamma di Lucy aveva afferrato la figlia per un braccio e la trascinò via da me.
- Cosa stavi facendo, sciagurata?! Ti ho dato il permesso di venire a casa con quella... quella gente!?
Era davanti a me e mi aveva afferrata per una ciocca dei capelli.
Non le risposi, ma la guardai dritta negli occhi.
- Rispondimi! – sussurrò minacciosa e stringendo la presa sui miei capelli neri.
Cosa potevo fare?
- No – quasi le sputai in faccia.
Tutto taceva intorno a noi. Immaginavo la gente, ferma, che ci guardava e forse rideva di me.
- Lasciami! – questo fu il suono che, involontariamente, uscì dalle mie labbra.
La mamma, che sicuramente non si aspettava niente del genere, sbarrò gli occhi. Poi sorrise, malvagia:
- Parla! Forza, dimmi quello che pensi!
- Lasciami. Io posso parlare con chi mi pare e piace, madre!
- Continua, impertinente!
- Ti odio! Ti odio, madre! Vorrei che tu fossi morta!
- Non io, non io – continuava, sorridendo – vieni qua.
Mi trascinò via, fuori dalla vista della gente.
Mi portò vicino ad uno spazio verde dove, in una specie di cesto, c’erano dei gattini, appena nati. Sicuramente doveva essere la casetta di qualche mamma-gatta. Aveva lasciato i cuccioli incustoditi.
- Guardali, amore. Visto quanto sono carini? – sussurrò mia madre.
Teneva ancora in pugno i miei capelli; ne avevo sentiti molto spezzarsi, staccarsi dalla cute.
Li guardavo, erano davvero dolci. Miagolavano inermi.
- Allora, Alessa, mi odi ancora?
Strinse ancora di più la ciocca. Il dolore era insopportabile.
Le risposi... o meglio, la voce le rispose:
- Ti odio! Ti vorrei vedere agonizzante ai miei piedi, madre.
- Io non voglio, Alessa – disse decisa.
Uno dei gattini, il più intraprendente, si avvicinava a me. Mamma teneva lo sguardo fisso su di me e mi costringeva a guardare nella direzione del coraggioso micio.
Ma qualcosa andò storto: il micio iniziò a miagolare rumorosamente e cominciò a zoppicare.
Cosa gli stava succedendo? Non capivo; mamma continuava a ridere e io continuavo a fissare il gattino.
Passai qualche minuto così, ad osservare il gattino perdere le forze.
Si accucciò sull’erba di quello spazio verde e miagolò sommessamente.
Non potevo far altro che guardarlo: mamma non mi permetteva tanti movimenti.
Poi in un attimo, il gattino chinò il capo e non si mosse più... era morto!
Il panico mi invase:
- Oddio, no! Ahhh! No, no, no! Piccolo! – gridai io.
Mamma intanto cercava di portarmi via, ma ero come immobilizzata.
Mi rifilò uno schiaffetto sul collo e mi intimò di seguirla a casa.
 
Una volta arrivate, scoppiai a piangere e corsi nella mia cameretta.
La morte.
Non volevo morire.
Quel povero piccino era morto davanti ai miei occhi! Sentivo ancora i suoi miagolii, le sue preghierine. Il suo corpo esanime mi restava impresso nel cervello.
Ero priva di forze, mi sentivo male.
Ma cosa era successo?
Avevo paura.
Perché mamma rideva davanti a quella bestiolina morente.
Non ricordavo più nemmeno cosa le avevo detto spudoratamente in faccia.
Era come se non fossi io, quella voce non mi apparteneva.
 
Quella sera fui condotta al rito.
Quel rito.
C’era qualcosa di strano in tutto questo.
Ma cosa?
 
I giorni seguenti furono i più deprimenti e tristi della mia vita.
Quando il giorno seguente mi avviai verso scuola notai la madre di Lucy, che parlava con altre donne. Borbottavano e sembravano preoccupate. Insieme a loro c’erano i rispettivi figli.
Questi, amichevoli, fecero per correre verso di me ma i genitori li fermarono.
Lessi sulle loro labbra:
- Non ti avvicinare a quella bambina, tesoro. Con quella strega non ci devi più parlare.

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Capitolo 9
*** La Strega ***


LA STREGA

Le mie notti cominciarono ad essere tormentate da spaventosi incubi. Una notte, sognai delle corde che mi stringevano i polsi e le caviglie e un orrendo serpente che si mordeva la coda.
Ma con chi ne potevo parlare? Mamma era da escludere viste le circostanze; forse rimaneva solo la piccola Claudia, ma dopo quell’episodio strano a casa mia non l’avevo più vista. Forse era nei guai. Era così dolce, però. Mi ero davvero dispiaciuta vedendola là, seduta, inerme e innocente, che mi mostrava i suoi graffi e i suoi lividi.
Anche io adesso ne esibivo molti.
Ma i grandi erano impazziti? O no? Forse era tutta colpa nostra... mia.
 
Restavo, ogni pomeriggio, in silenzio nella mia cameretta a dannarmi l’anima con questi pensieri.
Ogni giorno.
E ogni sera ero costretta ad andare ai riti nella Cappella. Era la mamma che me lo imponeva. Sempre. Negli ultime sere, però, era Micheal Kaufmann che, bussando alla porta di casa, mi incitava a correre verso la Chiesa senza la mamma, che probabilmente era già andata via.
Odiavo quell’uomo. Odiavo quella sua finta gentilezza e tutto ciò che faceva. Sicuramente anche lui mi odiava; in quel periodo mi odiavano tutti. Odiavo perfino me stessa.
Odiavo tutto... forse, tranne quelle ragazzine che, finiti i riti, venivano sempre fatte entrare in una stanza da cui non uscivano più.
Non odiavo nemmeno Claudia, naturalmente.
Ma odiavo tutti gli altri bambini.
E la scuola.
Ma non la maestra! Lei no.
 
Dopo quella mattina, niente fu come prima.
Le mamme delle mie compagne di classe mi odiavano e dicevano alle loro bambine di non avvicinarsi a me.
Ma perché dovevo essere odiata in quel modo così...così...?
 
Quel lunedì mattina era un giorno speciale: era il compleanno di Lucy.
Verso la pausa pranzo, tirò fuori dalla cartella una piccola cesta piena di dolcetti e caramelle; io non avevo mai assaggiato nulla di simile - mamma non voleva - ma, dalle grida entusiaste delle altre intuii che dovevano essere proprio buoni. Dette qualche dolcetto alla maestra Kate e poi passò fra i nostri banchi dandoci un pugnetto a ciascuno.
Tranne che a me.
Eppure non capivo: Lucy era mia amica! Ricordo le nostre passeggiate verso casa; parlavamo e parlavamo tanto. Poi, era davvero dolce e simpatica.
Mentre tutti si gustavano i dolcetti e Lucy aveva finito le caramelle, si avvicinò a me e disse con aria altezzosa e superba – che non era da lei  :
- Niente caramelle per te, la mia mamma dice che tu non le meriti!
Mise le mani sui fianchi e se ne andò. Le altre compagne iniziarono a bisbigliare:
- Anche la mia mamma l’ha detto!
- Ora si mette a piangere, guarda!
- Lei non può stare con noi!
- Non viene a Messa la domenica!
- Ma cosa le prende?!
- Mamma e papà dicono che è strana!
 
Inesorabili, salirono le lacrime agli occhi, che cercai di nascondere in tutti i modi ma invano.
- Piange, piange!
- Bue bue! Vuole la mamma!
- Oh poverina piange! Piangi! Piangi!
Iniziai anche a singhiozzare, come una neonata.
Le compagne si erano disposte in cerchio, attorno a me. Io seduta al banco, chinai la testa sul duro legno scarabocchiato e, con le mani serrate sul grembiulino blu, iniziai a piangere e a gridare:
- Basta! B-Basta!!
Avevano in mano i loro quaderni e i loro libri.
- Vediamo se centriamo la testa – sentii.
- Sì, dai, tira.
Lasciai la leggera stoffa del grembiule e mi riparai la testa, pronta ad incassare i colpi.
Sentii come una raffica di mattoni cadermi in testa. Un libro, particolarmente pesante e ricevuto in piena testa, mi fece sbattere la faccia sul banco. Sentii l’inconfondibile sapore del sangue in bocca e notai che usciva anche del sangue dal naso.
Gridavano cose senza senso. Non le capivo.
 
Quando la raffica di colpi finì, mi alzai per dirigermi verso il bagno per darmi una ripulita, ma quelle avevano serrato il cerchio e mi era impossibile uscire. Le più robuste iniziarono a spingermi e a strattonarmi.
Altre mi tiravano il vestito o i capelli e mi facevo gli sgambetti.
Caddi a terra un bel po’ di volte e furono sempre quelle bambine a farmi rialzare.
- Vediamo che sai fare! Mostro!
- Perché non reagisci?!
- Finiscila di piangere.
 
Ma dov’era la maestra?
Doveva essere uscita. Lei non avrebbe permesso tutto questo.
 
Volevo, in quel momento, vederle tutte morte.
Non mi era mai capito niente del genere.
Le volevo vedere ai miei piedi, tremanti. Tutte quante. Avrei dato tutto quello che avevo per la realizzazione di questo desiderio.
- Maledette! – urlai contro quelle – Maledette! La pagherete cara. Sì! LA PAGHERETE CARA!
Rimasero in silenzio, immobili.
- Vi farò vedere io! Lo giuro sulla mia vita!
 
Dopo queste parole, corsi in bagno, senza più ostacoli: erano rimaste a bocca aperta, tutte quante; nel corridoio incrociai la maestra Kate. Mi seguì fino al bagno e cercò di tranquillizzarmi.
In quel momento successe qualcosa che non seppi spiegarmi: la maestra mi toccava delicatamente la faccia, dicendomi parole dolci come il miele. Mi accarezzava i capelli con fare materno.
Quanto avrei voluto che mamma fosse stata così.
Era una sensazione unica. Mi sentivo protetta. Al sicuro.
Avevo già scordato i compagni di classe e le loro ingiurie.
 
Nei giorni seguenti, la situazione non migliorò affatto.
Per le mie “maledizioni” cominciarono persino a chiamarmi “Strega di Silent Hill”.
Non parlavo più con nessuno, non ridevo più.
Mi sentivo a mio agio soltanto nella mia cameretta, davanti ad un foglio bianco con i pastelli colorati.
Mi piaceva, in quel periodo, disegnare soprattutto i miei sogni, i miei incubi popolati da mostri con le ali e dalle mie compagne di scuola che ridevano.
 
Ma nel mio mondo sarei stata io a ridere.
Sarei stata io... a ridere di loro.
Dovevano solo aspettare e le avrei fatte cadere nel loro peggior incubo.
Dovevano pazientare ancora un po’. 

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Capitolo 10
*** Walter Sullivan ***


WALTER SULLIVAN

- Cosa stai disegnando, Claudia?
- Disegno la Madre, Alessa.
- La Madre?
 
Eravamo stese per terra, nella mia stanzetta, sopra il grande tappeto. Davanti a noi erano sparpaglianti alcuni fogli bianchi o accartocciati, e nella nostre mani reggevamo matite colorate. Io e Claudia adoravamo disegnare e, se avessimo potuto, avremmo colorato e disegnato tutto il giorno. E poi, dopo tutti quei brutti episodi, stare con Claudia era una gioia, soprattutto, dopo quella sera in cui lei fu trascinata via da casa mia da suo padre; mi faceva ancora più piacere vederla illesa – si fa per dire: mostrava ancora parecchi lividi, graffi e cicatrici. Anche i miei non erano guariti del tutto.
Quella domenica pomeriggio eravamo sole in casa: suo padre e mia madre erano andati via, probabilmente, per qualche funzione religiosa o qualcosa del genere e Leonard Wolf non poteva lasciare altrove la figlia, se non qui, con me. Claudia aveva appena finito il suo disegno, che mi mostrò sorridente, rispondendo alla mia domanda: sul foglio, era raffigurata una donna vestita di bianco, con dei lunghi capelli rossi che le cadevano sulle spalle. In mano reggeva due spighe di grano; lo sfondo era rosso.
- Lei sarà la Madre che verrà e partorirà il Dio – mi disse Claudia, sorridente – che col fuoco ci purificherà e ricostruirà il mondo.
Quelle parole le avevo già sentite: le diceva sempre la mamma durante i riti a cui partecipavo. Non che l’ascoltassi, ma quelle parole erano rimaste nella mia mente. La Setta delle Sante Donne e la Setta della Santa Madre, in modo particolare, la veneravano parecchio.
A dire la verità, ci credevo fino ad un certo punto: ero stata educata, sin da piccolina, al culto – probabilmente si aspettavano che avrei preso il posto della mamma – ma non ci vedevo niente di così spettacolare e apocalittico. Quando la Madre si deciderà a venire ci libererà e ci darà il Dio. Punto.
- E chi è la Madre, Claudia? – le chiesi.
- E io che ne so! Forse mio padre lo sa... oppure non è ancora nata. So solo che la stanno cercando.
- Quindi è qui?! A Silent Hill?
- Credo proprio di sì. Ma Dio non ha bisogno solo della Madre per nascere, sai?
Afferrò un altro foglio e cominciò a disegnare freneticamente. Dopo pochi minuti, trascorsi in un silenzio tombale, mi mostrò il suo secondo disegno: un uomo, dai lunghi capelli ambrati, con una lunga tunica azzurra, che teneva nelle mani un lungo serpente.
- Serve anche lui – mi spiegò – ma l’hanno già trovato.
Mi voltai e continuai a disegnare per conto mio, annoiata più che mai.
- Che succede? Non ci credi più? – mi sussurrò.
- Sì, sì ci credo! Ma sapete pensare solo a quello? - le dissi nervosa, alzando un po’ la voce.
- Ma, Alessa... non c’è bisogno di prendersela. Non desideri anche tu il Paradiso a cui Dio ci porterà?
Feci finta di non ascoltarla. Cosa le era preso? Suo padre ...
- La Madre ci porterà al Paradiso, con le mani insanguinate. Un posto senza malattie, fame, vecchiaia, dove tutti potranno vivere in pace e comunione insieme agli altri.
- Non vedo niente del genere qui – dissi tra me e me.
- Certo! Perché prima il mondo deve essere purificato con le fiamme!
- Ed è una cosa bella?
Rimase in silenzio senza parole.
Probabilmente suo padre, in quei giorni, le aveva insegnato un bel po’ di cose. Anche io speravo nella venuta di questo “Paradiso”, ma perché tutti i miei pensieri, secondo mamma, Claudia, Leonard e tutti gli altri, dovevano essere incentrati sull’Ordine.
Avevo pregato così tante volte al Dio, che vedevo quasi ogni notte, dipinto sulla grande vetrata della Cappella, di portare indietro Papà e farlo tornare da me, ma le mie preghiere e le mie richieste non si erano mai esaudite. Ora lo trovavo quasi noioso quel semplice momento in cui Le confidavo le mie ansie e le mie paure.
La Madre, la Madre, la Madre!
Non sapete pensare ad altro? E poi come fareste a trovarla tra tutte le donne nate o che nasceranno a Silent Hill e dintorni?
E poi hanno trovato l’altro. Mi dispiace tanto per lui.
- Papà dice che presto lo conosceremo. Il Prescelto – disse piano Claudia, che intanto aveva cambiato soggetto nel disegnare – Anzi, credo siano andati a prenderlo. E’ della nostra età. Vive poco lontano da Silent Hill, in un orfanotrofio. La Wish House. Se non sbaglio lì ci è cresciuta anche tua madre.
Annuii.
L’avrei anche conosciuto. Perfetto.
- E tu, cosa stai disegnano? – mi chiese quasi con tono di sfida.
Non le avrei mentito:
- Le mie compagne di scuola. Morte.
Gli mostrai la mia opera d’arte: c’ero io, stilizzata, che sorridevo e sotto di me, sottoterra, c’erano tutte le mie compagne di classe, sotterrate e senza occhi, stecchite.
Rimase un po’ scossa, all’inizio:
- Ah, d’accordo. Meglio continuare.
Per i suoi sei anni appena compiuti, sapeva sempre qual’era il miglior momento per non aggiungere altro.
 
Passammo quasi tutto il pomeriggio in silenzio, con il piacevo fruscio delle matite sul foglio.
- Come sarebbe il mondo se fosse un foglio bianco nelle mie mani? – le chiesi sottovoce, verso sera.
- Sarebbe... interessante, credo.
- Sarebbe fantastico, invece!
Nel pieno di questa mia esclamazione, sentimmo la porta d’ingresso sbattere. Istintivamente ci alzammo e corremmo verso la fonte del rumore. Erano mamma, Leonard e il primario dell’Alchemilla Hospital... particolarmente sereni. Il dottore rideva mentre gli altri lo guardavano zitti.
- Papà! – esclamò Claudia che gli andò incontro, stranamente, sorridente.
Leonard non disse niente: si limitò a fissarla.
Provai a fare lo stesso con mia madre: imitando Claudia esclamai:
- Mamma! – e le andai incontro a braccia aperte e sorridente.
- Ferma lì, tu! – mi intimò e io ubbidii.
Tutti mi stavano fissando a bocca aperta.
- Hai la febbre, Alessa? – mi chiese preoccupata mia madre.
- No, almeno credo – dissi dolcemente senza smetterla di guardarla.
Il dottore ricominciò a ridere più rumorosamente di prima.
Cosa avevo fatto?
Notai però che non erano soli: dietro di loro potevo intravedere qualcuno, che gli adulti coprivano come se fossero un sipario.
Il Prescelto?
- Bambine – disse il dottore, dopo l’attacco di ridarella – vi presentiamo un amichetto. Sono sicuro che diventerete inseparabili. Vieni qui. Dai, non essere timido.
Dal buio della notte, venne fuori, con passo esitante e incerto, un bambino.
Era alto, dagli occhi verdi e i capelli a caschetto biondi. Dimostrava sette - otto anni.
Aveva addosso un maglietta a righe blu e bianche e dei pantaloni blu.
Guardava sempre la mamma, quasi incantato.
Fu proprio lei a presentarlo a me e a Claudia:
- Si chiama Walter Sullivan. Non ha il papà e la mamma, quindi...
- Ma mi hai detto che la mamma sta dormendo ad Ashfield! – la interruppe una dolce vocina, quella di Walter.
- Ah, giusto Walter, la tua mamma sta dormendo là! – riprese la mamma con tono noncurante.
Poi intervenne Leonard:
- Walter fa parte della Setta di Valtiel, l’Angelo di Dio, quindi non avrà molto tempo per venire qui a giocare. Oggi è un’eccezione. E poi lui vive nella Wish House.
- E’ un bambino speciale, quindi non comportatevi male con lui e trattatelo bene – riprese la mamma e rivolgendosi a me disse – Presentati adesso!
 
Sembrava un piccolo mocciosetto che non aveva mai visto la luce del sole.
E poi perché continuava a fissare la mamma?! Era mia! Non sua! La sua sta dormendo!
Presentarmi? Certo, mamma! Ti faccio vedere che anche se mi consideri la peggior figlia del mondo, sono molto meglio della dolce Claudia e del timido Walter.
Camminai verso il timoroso bambino e, alzate con fare regale ed elegante la gonna del mio vestitino blu, feci una piccola riverenza, quasi come se stessi salutando un re; sì, perché per quelle persone quel bambino era speciale!
Lo stavo salutando, con fare gentile. E’ così che si fa per le persone speciali, no?
Sentii il dottore scoppiare a ridere, ancora.
Mamma era rimasta, per la seconda volta a bocca aperta.
- Che ti sta succedendo oggi?! – mi chiese.
 
Ben presto quel bambino silenzioso divenne sempre più presente nella mia vita.
Era sempre con mamma che gli parlava sottovoce, come se lo stesse confessando.
Una notte rimasi sveglia solo per sentirli parlare, visto che quasi ogni sera si fermava a casa mia. Mamma gli rivolgeva sempre delle domande e Walter le rispondeva.
-E il signor DeSalvo? Lui cosa ti fa?
- Tante cose brutte. Sigh! A tutti i bambini. Ci tratta come schiavi.
- Uscite spesso dall’orfanotrofio?
- Ehm... i-io non tanto. Ma dei bambini il giorno prima ci sono e poi spariscono e nessuno li vede più.
- Chi ti fa stare male, oltre lui?
- Tante persone. Ma i bambini no! Non tutti, almeno. Alcuni sono più sfortunati di me.
- Quando hai imparato a leggere e a scrivere?
- Quasi due anni fa. Tengo anche un dia-
- Sì, sì. Non mi interessa questo. In questi due anni loro ti obbligano a-
- Leggere la Scrittura Sacra dell’Ordine? Sì, ogni settimana devo farlo.
- E... c’è un passo che ti interessa particolarmente?
- Sì, lo ricordo a memoria: “Con i 21 Sacramenti, la Santa Madre riapparirà tra i paesi del mondo e porterà la salvezza ai peccatori”. E’ un passo che mi è rimasto impresso.
- Walter, conosci un certo George Rosten?
- Sì, fa parte della mia setta: la Setta di Valtiel. Mi ha insegnato tutto quello che so. Dice che dentro di me c’è qualcosa di grande e potente. Dice che nel mio subconscio c’è un angelo. Io credo di sapere chi è.
- Chi è?
- Valtiel, ovvio.
 - Quindi, sai quali sono le sette principali dell’Ordine?
- Sì certo!
- Sai spiegarmele?
Tesi ancora di più l’orecchio in quel momento.
- C’è la Setta della Santa Donna, di cui tu sei la sacerdotessa. Voi aspettate la venuta di Dio sulla Terra e cercate la Donna che La partorirà. Credete il fuoco strumento di purificazione del corpo, dell’anima e del mondo. Poi c’è la Setta della Santa Madre, cioè, del Dio anche se comunque reputano la Donna che L’ha partorita Santa. Loro aspettano il prescelto che condurrà il rituale della nascita. Molti di loro vivono nel mio orfanotrofio. Infine c’è la setta di Valtiel. Quest’ultimi lo giudicano la persona più vicina a Dio e, come lui, svolgono il ruolo di esecutori. Gli adepti, a volte durante i riti di purificazione, indossano cappucci rossi e agiscono in onore di Valtiel.
- Bravissimo! Ti hanno insegnato proprio bene. Quindi sai bene chi è Valtiel?
- E’ l’Angelo più vicino a Lei, al Dio. E’ esecutore dei peccatori e guardiano della Donna che partorirà il Dio.
E...
 
Cielo, non finiva più quel bambino.
Lentamente tornai  nella mia cameretta e, sotto le coperte pensai:
“ Donna Santa, dai, vieni presto qui e svelati! Così col Dio potrai creare il tuo Paradiso. Speriamo sia buono però!”
E mi addormentai, speranzosa.

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Capitolo 11
*** Una Pubblica Umiliazione ***


UNA PUBBLICA UMILIAZIONE
 
Dopo quei giorni ebbi l’impressione di non essere più figlia unica: mamma passava tanto tempo con quel Walter e non faceva altro che parlare di lui. Io, sua figlia, sembravo arrivata al secondo posto nel suo cuore. Non che tenesse tanto a me, però... provavo un’invidia pazzesca per quel bambino: era sempre al centro dell’attenzione, aveva più cure lui, piccolo orfano, che io, figlia di un’importante sacerdotessa dell’Ordine!
Claudia, invece, lo adorava.
Le mie giornate scorrevano, perciò, all’insegna di quel bambino.
Walter, Walter e Walter. Sempre e solo Walter.
Andiamo a prendere Walter dall’orfanotrofio! Portiamo Walter al rito! Alessa, fa compagnia a Walter! Non disturbate Walter! Bla bla bla! Walter di qua e Walter di là. Stava iniziando a scocciarmi! Restasse nel putrido orfanotrofio da cui è venuto! Mamma è mia, e solo mia!
Mi rattristava vedere la mamma passare più tempo con Walter che con me. Lui le raccontava i suoi problemi; io non ne avevo il coraggio. O forse, i miei, li conosceva già.
Era un brutto periodo per me. Oltre Walter c’erano altre persone che mi facevano stare male. Le mie compagne di classe.
Ma presto sarebbe giunta l’estate e non le avrei viste per un bel pezzo. Adoravo l’estate! Potevo restare nella mia cameretta a leggere per ore e ore senza essere disturbata da nessuno, o potevo sedermi nel prato fuori casa e osservare il viavai delle automobili. Poi, durante l’estate, la città si animava: Silent Hill era una nota località turistica e i forestieri non tardavano ad arrivare con l’approssimarsi della bella stagione. E poi, in estate, avrei compiuto sette anni. Non vedevo l’ora! Quel giorno inviterò Claudia e giocheremo e disegneremo tutto il tempo! Che bello! Chissà cosa mi regalerà...
Avrei dovuto invitare anche Walter?Uffa.
Sicuramente inviterò anche l’altra me. Se la prenderà se non la invito. Dopotutto è anche il suo compleanno. Andavo a trovarla spesso: mi incantavo davanti allo specchio e lei appariva: bella, con dei grandi occhi molto più blu dei miei, con i suoi bellissimi capelli neri e le gote rosse. Parlavamo del più e del meno. Anche lei odiava Walter.
Quando le chiesi come si chiamava lei mi rispose “Alessa Gillespie”.
Io.
 Bhè, non potevo aspettarmi altro da un’altra me. Però era abbastanza divertente.
Lei mi mostrava la realtà. Mi aprì gli occhi riguardo a mamma e a Walter. Diceva che non dovevo fidarmi di nessuno, neanche di Claudia o di mamma e che, se le disobbedivo, ne avrei pagate le conseguenze.
Io non l’ascoltavo più di tanto.
Potevo benissimo fidarmi di mamma e Claudia. A chi altri avrei dovuto dare retta?
“A me” mi rispose quella volta, quando, stufa, le posi quella domanda.
Quell’altra me... così bella e accattivante. Sapeva tutto di me e degli altri. E io le volevo bene: con lei potevo parlare di tutto quello che mi pareva, cosa che con Claudia non potevo fare. Figuriamoci con le mie compagne.
Inoltre, sorrideva sempre e ascoltarla era sempre un piacere: quando mamma non c’era e io rimanevo sola a casa, le chiedevo di leggeri le favole, come “Biancaneve” o “Alice nel Paese delle Meraviglie”. Quest’ultimo racconta mi affascinava parecchio. Avrei tanto voluto un Paese delle Meraviglie tutto mio, con genitori e amici sorridenti, lontano da Silent Hill e dalla noiosa quotidianità che stava iniziando a stancarmi.
 
-Eccola, sta uscendo!
Stavo tornando a casa, dopo la scuola, quando mi vidi il passo bloccato da Lucy e altre ragazzine che non conoscevo.
- Permesso – dissi scontrosa – devo andare a casa.
Mi rispose una di quelle ragazze, molto più grandi di me:
- E cosa vuoi che ce ne importi?!
La guardai dritta negli occhi.
Aveva dei lunghi capelli bruni e gli occhi verdi, che mi fissavano, intimidatori.
La ragazza aveva nella mano destra una cinghia di pelle nera. Doveva essere una cintura.
- E’ lei. E’ Alessa Gillespie – disse Lucy alle altre che, sentito il mio nome, sussultarono ma, dopo pochi secondi, mi furono nuovamente addosso, con sorrisetti malvagi stampati in faccia.
- Sai cosa si dice di te, a Silent Hill? – mi chiese un’altra ragazza, che portava i capelli rossi raccolti in una treccia – Dicono che sei la figlia del Maligno.
Rimasi perplessa: Maligno?
- Il Diavolo, insomma! – mi sbuffò in faccia un’altra.
Cosa?!
- I-io? – balbettai – N-non è v-vero!
- Bugiarda! – disse – Lo sanno tutti, lo dicono tutti! Demone! Vattene via da questa città, mostro!
La ragazza dagli occhi verdi  si avvicinò lentamente a me e, con la mano libera, mi afferrò il braccio e mi trascinò lontano dalla scuola, per strada. Cercai in tutti i modi di oppormi: puntai i piedi, iniziai a gridare, le pestai un piede e le tirai i capelli, ma quella non demordeva. Continuava a trascinarmi con una forza impensabile per una ragazza come lei e, come se non bastasse, le altre mi spingevano e tiravano i miei corti capelli, procurandomi un dolore atroce. Ben presto caddi sull’asfalto e sentii forti fitte di dolore alle ginocchia: dovevo essermele sbucciate.
- Vieni strega! Vediamo che sai fare!
Le persone, che in quel momento stavano passando per quella strada, si girarono verso di me e incuriosite guardavano me e le mie “aguzzine”. Sentivo tanti occhi su di me, tanti sguardi e tanti pensieri.
Quando la ragazza mi lasciò cadere pietosamente sulla strada iniziò a gridare:
- Maledetta! Brucia all’inferno! Ti meriti solo quello!
La gente iniziò a bisbigliare.
Io? Cosa le avevo fatto? Volevo la mamma, lei non avrebbe mai permesso tutto questo.
Scoppiai a piangere, per terra, con lo sguardo basso.
Le lacrime sulle guance erano bollenti. Forse trattenute troppo a lungo.
Singhiozzai rumorosamente quando ricominciò a parlarmi:
- Strega! Ladra!
- Ma perché accusate questa bambina? – disse una donna, tra la folla.
Fu la ragazza con la treccia a risponderle:
- E’ una strega. Letteralmente, signora.
La ragazza dai capelli bruni continuò, rivolgendosi a me:
- Dicci un po’: dov’è il tuo papà?!
Papà. Papà.
Non ti avevo mai visto e tu non mi volevi bene. Sei scappato da me e dalla mamma. Codardo. Quanto potevamo essere felici, tutti insieme? Quanto mi avresti amata? Forse, se tu ci fossi stato, io non sarei qui, per terra, a piangere.
Non le risposi. Non volevo darle soddisfazione.
- Visto! Non lo sai neanche tu chi sia! Bè, ma lo sappiamo noi: il Male.
Non dissi niente, mi limitai a piangere più forte che potevo.
La gente non sapeva cosa pensare.
- Non è mai venuta a Messa. Mai. Non la si vede quasi mai per strada, tranne durante la notte, quando fa il giro del lago per andare a fare chissà quale Rito Oscuro. Poi la madre... sapete chi è? Dahlia Gillespie!
La gente intorno a noi si portò la mano alla bocca, spaventata.
Ma perché?
- Sì e lei – continuò, indicandomi – è sua figlia. Strana come la madre e... notate la somiglianza. E’ incredibile. Voi potete confermare, meglio di me, che SUA madre, alla sua età, era identica a questa bambina. Occhi blu e capelli neri. Stessa razza. Lucy?
Lucy sbucò fuori dalla folla.
- Dicci cosa fece la bambina insieme a sua madre tanto tempo fa. Ricordi?
- Sì – sussurrò Lucy – le ho seguite e... e ho visto Alessa uccidere un animale col pensiero.
Le persone si agitarono ancora di più.
Sentii uno sputo arrivarmi sulla guancia, già bagnata per le lacrime.
- Cosa?
- Impossibile!
- Una bambina come lei!
- Dio abbia pietà della sua anima!
- E’ persa, oramai.
- Piccola peste!
- Strega!
- Maledetta!
- Saluta tua madre da parte nostra, ahahah!
 
Aiuto, aiuto arriva la strega!
Mostro, demone e strega. Posso essere solo quello per voi?
No.
Posso essere di più. Posso essere il vostro incubo, un incubo senza vie d’uscita.
Tu.
Sì, tu che sai così bene quello che faccio e quello che sono, vuoi giocare con me?
Sei felice? Mi stai facendo sentire la persona più inutile al mondo.
Io posso farti sentire la ragazza più sfortunata del mondo.
Guardami negli occhi. Stai per entrare nel tuo incubo più peggiore.
 
Alzai lo sguardo, appannato per le lacrime, e scrutai quegli occhi verdi.
Peccato, sono davvero belli. Peccato che, presto, non ti serviranno più.
 
Ora spostai lo sguardo stanco su Lucy.
E tu? Credi di passarla liscia?
Nel mio mondo... tu... non meriteresti pietà. E io che pensavo di aver trovato un’amica.
Hai fatto la spia e ne pagherai le conseguenze.
Guardami, anche tu. Come sono belli i tuoi occhi neri.
 
-Aaaaaaaaaahhhh! – gridò Lucy, portandosi le mani agli occhi – Non vedo niente! Vedo tutto nero! Aiutatemi! Sono cieca!
Dei signori accorsero ad aiutarla. I suoi occhi neri...pietrificati per sempre.
 
Oh, la tua voce. La voce che mi ha tradito.
Perché urli? Considerati fortunata mia cara.
 
Silenzio.
Dalla bocca di Lucy non uscì più alcuna parola.
Muta per sempre.
La gente era attorno alla bambina.
Davanti a me, adesso, c’era solo la ragazza con la cinghia di cuoio, ancora in mano.
- Tu! Piccola...
Mi fu subito addosso.
Usava la cinghia come una frusta e cominciò, violentissima, a picchiarmi. Poi aggiunse anche i pugni e i calci.
Io, sempre a terra piangente, non avevo le forze per oppormi.
Tutto il corpo, ben presto, fu invaso da un dolore mai provato prima. Doleva dappertutto.
Sentii il sangue salirmi in gola e riempirmi la bocca. Colava sangue anche dal naso.
Girai la testa verso destra e cominciai a vomitarne una marea mentre lei, inesorabile, continuava a frustarmi la schiena e le gambe.
Non ce la facevo più.
Mentre continuava, imperterrita, la fissavo negli occhi. Volevo ricordarli bene.
Li avrei rivisti presto.
Forse stanca, finalmente, smise di picchiarmi. Mi sputò nei capelli e divertita se ne andò.
Per fortuna che durante tutto questo tempo non era passata neanche un’automobile o ci sarei rimasta secca.
Lucy era stata portata via. Era arrivata sua madre che, visto il macello, l’aveva portata via, lontana da quella che doveva essere Midwich Street. Però le sentivo... le sirene. Le sirene. Le sirene dell’ambulanza. Ma non erano venute per me; erano per Lucy.
La gente era sparita. Mi avevano lasciata per terra, sanguinante e stanca.
Che razza di mondo!
Ricominciai a piangere, più sommessamente, rannicchiata.
 
Vidi una figura nera avvicinarsi verso di me, a passo spedito.
Mamma? Sei tu?
Papà?
No.
Era una signorina. Non era presente durante la mia pubblica umiliazione.
Si avvicinava sempre di più.
Portava un lungo vestito rosso e mi fissava con aria preoccupata.
- Chi ti ha ridotto così? – chiese spaventata.
Com’era dolce la sua voce, dolce più del miele e dello zucchero.
Non era la mamma.
L’osservai: portava i capelli biondi a caschetto che le incorniciavano il grazioso viso. Com’era bella.
Più bella dell’altra me.
Sembrava così innocente e premurosa.
Mi colpirono molto i suoi luminosi occhi verdi, così diversi dagli occhi di quella perfida ragazza.
Sembrava emanassero luce propria. Sembravano stelle.
Mi alzò la testa con la mano e mi accarezzò i capelli.
- T-tule bisbigliai s-sei u-u-unangelo, v-vero?
Mi sorrise amichevole. Che bel sorriso che aveva.
- Tu hai bisogno di aiuto – sussurrò – Vieni con me. Puliamo queste ferite, eh.
Sorrise ancora.
Quant’era bello quell’angelo.
 

 
 
- Dove sei stata tesoro?
- Mamma lasciami in pace, Ok? Stavo solo dando una lezione a una strega!
- Strega?
- Mamma, una figlia di- vebbè hai capito. Ora, lasciami. Non mi sento molto bene!
- Che hai, tesoro?
- La vedo!
- Chi?
- La strega, mamma! La strega!
- E come faresti? Non è qui.
- Lo so ma è... come... è come se la sua faccia fosse stampata sulla mia retina. La vedo dovunque!
- Sei sicura di star bene?
- No! Mamma non sto bene! ECCOLA! Di nuovo! Continua a sorridermi! I suoi occhi. Li vedo ovunque.
- Vai a dormire, cara.
- Si MUOVE! MAMMA L’IMMAGINE... LEI SI MUOVE! DAVANTI AI MIEI OCCHI C’è LEI! IN CARNE ED OSSA!
-Va a dormire!
- Si sta muovendo! E mi fissa! Perché sorridi, mocciosa! Vattene!!
- Va a dormire, ho detto. Non costringermi ad entrare nella tua cameretta!
- Non toccarmi! Basta. Lascialo, mocciosa! Non toccarmi, ho detto! Lascia la cinghia! NO! Prometto che non ti picchierò più! Tu NON SEI REALE. Sei ancora agonizzante per strada! Sicuramente! Sei frutto della mia immaginazione! Lascia la mia cintura. Cosa stai dicendo?
- Sai faceva parecchio male...
- Non avvicinarti, maledetta. Mammaaaa! AAAAAAAHHH!
- Chi ha parlato prima con te, cara? Ho sentito una voce di bambina.Cosa... oddio! O MIO DIO! Brad, corri! CORRI! E’ MORTA! NOSTRA FIGLIA è MORTA! O MIO DIO! QUALCUNO... QUALCOSA... L’HA SCUOIATA. La cintura è sporca di sangue! O MIO DIO! E’ MORTA SCUOIATA!

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Capitolo 12
*** L'Uomo Nero ***


L'UOMO NERO


 
Il sorriso di quella ragazza era davvero dolcissimo; sarei potuta stare là, ad osservarla, per ore. Era diversa, lo sentivo: diversa da mamma, da Claudia, era diversa da ogni altra ragazza.
Mi aveva portato in un edificio, un appartamento. Doveva essere casa sua: tirò fuori da una tasca un mazzo di chiavi e cercò quella per il portone. Mentre la cercava, distoglieva lo sguardo e mi fissava, abbastanza preoccupata, esaminando le mie ferite.
Quando trovò la chiave giusta e aprì la serratura, mi incoraggiò a seguirla nell’abitazione.
La seguii, senza pensarci su.
Chissà cosa avrebbe detto mia madre, vedendomi entrare in una casa con una sconosciuta.
Ma cosa potevo fare? Quella ragazza mi aveva “stregato”; e poi, sembrava così premurosa e attenta. A prima vista, era impossibile non innamorarsene.
Casa sua non era granché, paragonandola alla mia che, in confronto, sembrava una reggia. O una gabbia d’oro. In compenso era arredata davvero bene.
C’erano, nel minuscolo soggiorno, molti scaffali stracolmi di libri. Doveva studiare molto.
- Vieni qua, bimba – disse, dal un’altra stanza.
Il sangue proveniente dalle ginocchia sfracellate era colato sempre più giù, tingendomi di rosso le calze bianche e le scarpe. Sentivo tutto il corpo irrigidito, dal dolore e, sicuramente, dalle infezioni delle ferite più gravi. Ebbi, quindi, un po’ di difficoltà a raggiungere la ragazza nell’altra stanza: trascinavo i piedi per non dover piegare le ginocchia e, ad ogni passo, mi mordevo le labbra per non urlare di dolore e fastidio.
Quando, però, la raggiunsi, notai di essere arrivata nel bagno.
La ragazza stava armeggiando con ovatta e alcool.
- Non ti preoccupare, piccola – mi rassicurò, sorridendomi – so quello che sto facendo. Sono infermiera io, sai? Cioè... non ancora, ma sto per diventarlo. Manca poco ormai.
Annuii.
L’odore dell’alcool e del disinfettante mi stava dando alla testa. Era più forte di me: le medicine e tutte quelle cose strane dei dottori mi facevano rabbrividire, e l’odore degli ospedali...
Ebbi un improvviso conato di vomito.
La ragazza non sembrava avermi sentito.
Un altro conato... più forte...
Stavo per rimettere di stomaco... sicuro.
Mi poggiai allo stipite della porta, essendo ancora ferma sulla soglia, e cominciai a tossire violentemente.
La ragazza aveva lasciato perdere le medicazioni e si era fiondata su di me, trascinandomi, delicatamente, verso un secchio.
Tossii ancora e ancora. Conati e conati.
Era come se stessi per vomitare l’anima.
Tosse, tosse e... sangue!
Stavo vomitando sangue. Il sangue, caldissimo, mi impediva di respirare. Era nella gola, nello stomaco.
Vomitai sangue. Tantissimo sangue.
Il secchio era pieno. Vedevo davanti a me solo quel maledetto liquido rosso.
Continuò così per un bel po’.
Poi il sangue iniziò a smettere, fino a fermarsi.
Non mi era mai successa una cosa del genere. Ero spaventata.
Anche la ragazza sembrava esserlo.
 
- Forse dovrei portarti in ospedale.
Restai In silenzio; sentivo che, se avrei iniziato a parlare, avrei vomitato ancora.
Sorrise:
- Non devi avere paura di me. Io sono qui per aiutarti – mi sussurrò, mentre mi passava il disinfettante sulle ginocchia e sui gomiti.
Ogni volta che lo faceva, volevo urlare di dolore. Sentivo la pelle bruciare, ma sapevo che, naturalmente, era un buon segno; la ragazza aveva una delicatezza unica, non riuscivo ad intimarle “ehi, fa piano, brucia”!
- Ma cosa volevano quelle persone da te? – disse, fissandomi – Ahh, questa città. Questa gente... prendersela con una bambina indifesa come te! E ti hanno ridotto davvero male.
Restati zitta. Mi limitai solo ad annuire piano.
- Dai, parla! – disse, sempre sorridendo.
Fu un attimo: sentii le sue mani sul mio pancino, che mi facevano il solletico dappertutto; fu più forte di me e, in pochi secondi, scoppiai a ridere.
- Soffri il solletico, allora! Comunque, forse è meglio presentarsi: mi chiamo Lisa. E tu?
- Alessa – sussurrai, con il sorriso ancora disegnato sulle labbra.
- Che bel nome. Piuttosto... originale. Ciò ti rende unica e speciale.
Detto il mio nome, Lisa non sussultò, come di solito accadeva con la maggior parte delle persone. Mi sentivo a mio agio con lei.
Comunque, pensandoci, forse avevo fatto bene a non dirle il mio cognome...
 
Le medicazioni continuarono ancora per un bel po’. Lisa era sicura che in qualche settimana le ferite sarebbero scomparse completamente grazie alle sue cure.
- Presto lavorerò all’Alchemilla Hospital. Sarà dura. Ma, sai, tutta la mia famiglia ha passato la maggior parte della sua vita in un ospedale, a lavorare. Mia madre era un’infermiera, così come mia nonna, quindi... il mio destino era già segnato. Ma lo devo ammettere: mi piace lavorare per aiutare la gente bisognosa. Ce l’ho nel sangue ormai. Però, avrei voluto fare anche l’attrice. Tu?
- Io voglio diventare maestra o... forse, scrittrice.
- Interessante.
Era quasi il tramonto. Chissà se mamma s’era iniziata a preoccupare. Non volevo farla arrabbiare, ma non volevo lasciare Lisa.
Inoltre mi aveva offerto cioccolatini e pasticcini, delizie che non avevo mai mangiato e che non avrei mai visto a casa mia; era tutto squisito e tutto intorno a noi “sprigionava” eleganza, grazia e vivacità. Tutto sembrava scaturire da quella ragazza, Lisa: sembrava irradiare bellezza e luminosità attorno a lei. Tutto iniziava dai suoi occhi, due bellissimi e puri occhi verdi.
Sorrideva.
Io le sorridevo.
Avevo trovato un’amica?
Forse.
Amica o no, Lisa era molto meglio di Claudia, che aveva perso la sua gioia e il suo sorriso per colpa di suo padre.
- Forse è ora che tu torni a casa – disse con aria preoccupata – Chissà come saranno preoccupati i tuoi genitori!
- Oh, non preoccuparti Lisa – le risposi, con ancora metà di uno squisito pasticcino alle mele in bocca – mamma non si cura di me. Forse non si è neanche accorta della mia assenza.
- Ah, ma tuo padre...
Ecco il tasto dolente.
Dovevo dirglielo?
- Papà... Papà? Io non ho il papà. Se n’è andato quando ero piccolina e...
- Scusa, Alessa, non lo sapevo – sussurrò dispiaciuta.
- Non fa niente, non preoccuparti.
Silenzio.
Un lungo silenzio imbarazzante.
- Mi piacerebbe tanto conoscerti meglio, Alessa – disse, più serena.
Dietro Lisa c’era un grande specchio, attaccato alla parete. Essendo seduta di fronte a lei, mi vedevo riflessa. Però, quello che vidi riflesso nello specchio mi turbò.
Non era riflesso il grazioso soggiorno dove stavamo parlando: tutto, nel riflesso, era distorto e scuro. Le pareti erano state sostituite da grate, così come il pavimento. Riuscivo a vedermi in quelle tenebre ma... era come se quella non fossi io. Davanti a me c’era il mio riflesso, l’altra me. Era cambiata.
Aveva i capelli lunghi fino alle spalle, disordinati.
Le guance e le labbra non erano più rosa, ma avevano una spaventosa sfumatura grigia.
Gli occhi erano spalancati verso di me. Erano rossi.
Portava un vestito intero, bianco, lungo fino ai piedi, come una tunica.
Quella non ero io!
Quello non era il mio riflesso!!
Dischiuse le labbra esangui e, continuando a fissarmi, disse con un filo di voce:
- Sta arrivando.
 
Toc   toc
Qualcuno aveva bussato alla porta.
Distolsi, spaventata dall’improvviso rumore, lo sguardo dallo strano specchio per poi accorgermi che il mondo e la bambina distorti nel riflesso erano spariti, lasciando il posto al riflesso grazioso dell’appartamento.
Toc   toc   toc
Quel rumore aveva infranto quell’atmosfera, ma anche quell’incubo.
Una voce arrivò dall’ingresso:
- Lisa! Lisa? Io apro... Lisa, dove sei, stellina?
Quella voce mi era stranamente familiare.
Fin troppo.
Lisa, vicino a me, sussultò, spaventata, e si alzò velocemente dalla sedia per andare incontro a quell’inaspettato ospite; ma l’ospite la precedette venendole incontro con un sorriso stampato in faccia, di corsa, entrando nel soggiorno.
Era lui. Come immaginavo.
Era Micheal Kauffmann, il dottore, l’amico di mamma.
Andò incontro a Lisa, con un pacchetto bianco in mano.
- Ti ho portato la ... – disse l’uomo senza notarmi.
Lisa sospirò rumorosamente.
Poi, lo sguardo del primario cadde su di me. Forse, pensando di essere pazzo per vedermi lì, piena di lividi e graffi, in casa di sconosciuti, fissò la parete dietro di me; ma dopo pochi secondi non poté negare l’evidenza.
Sgranò gli occhi e spalancò la bocca, incredulo:
- Oddio! Tu!? Che ci fai tu qui?!
Lisa intervenne:
- Non prendertela con lei, ti prego. Le ho detto io di venire qui. L’hanno pestata... e le ho pulito e disinfettato le ferite. Stava per tornare a casa!
Il dottore sembrò non averla sentita:
- Hai idea di quanto tua madre sia in pensiero?! Stava per chiamare la polizia!
Mamma? Chiamare la polizia?! Adesso stava esagerando.
Restavo zitta e lo guardavo negli occhi.
Quell’uomo... non mi era mai piaciuto. Che ci fa a casa di Lisa? Si conoscono? Forse il dottore sarà il suo capo quando andrà a lavorare all’Alchemilla.
Posò il pacchetto che aveva in mano sopra un tavolino e si diresse verso di me, velocemente.
Mi afferrò il braccio e lo strinse forte, riaprendomi i graffi appena medicati e procurandomi altro dolore.
Gridai. Questa volta gridai di dolore.
Far sgorgare lacrime dai miei occhi fu naturalissimo.
Iniziai anche a tossire e a singhiozzare.
- Lasciala. Dai, non farle male! – implorava Lisa.
- Devo portarla da sua madre!
Mi strattonò con forza, costringendomi ad alzarmi dalla sedia.
Il dolore era aumentato.
- Che ci facevi qua, piccola peste?!
- Ahia! – urlai – Lasciami stare!
Era inutile: non riuscivo a tener testa a ragazzine di quindici anni, figuriamoci con un adulto! Mi trascinò verso l’uscita, sotto gli occhi di Lisa.
Sull’uscio ebbi il tempo e la forza di voltarmi per guardarla, un’ultima volta. Guardare quegli occhi luminosi e bellissimi. Le mancava il sorriso, altrimenti avrei puntato i piedi a terra solo per ammirarlo. Lisa era rimasta pietrificata, con lo sguardo nel vuoto.
Chissà se l’avrei rivista...
 
Kauffmann mi trascinò fuori dall’appartamento verso la strada.
Era sera.
- Tu ancora non hai capito?! - mi disse – Non hai capito che ora per tua madre sei speciale?! Lo fai apposta?
- Lasciami! Basta! Non voglio andare a casa!
I lampioni per le strade erano ancora spenti. Tutto era oscuro. Non riuscivo a vedere la punta del mio naso!
Quante me ne erano successe oggi!
- Ora vedrai, quando tornerai a casa, come sarà arrabbiata tua madre!
 
Una sensazione strana sembrò scorrermi, in quel momento, nelle vene.
Mi sentivo ribelle e potente.
- Sei una bambina incosciente e disubbidiente, Alessa. – continuava il dottore.
Entrati nel distretto commerciale di Silent Hill, vicino casa mia, sussurrai all’uomo, col pugno serrato sul mio polso:
- Boogeyman.
Non mi sentì e dopo qualche altro passo gli ridissi:
- Boogeyman!
- Cosa stai farfugliando, svitata?! Parla bene!
Rimasi zitta per qualche minuto, continuando a seguirlo verso casa ma poi:
- Boogeyman!
- Cosa?! – sbraitò fermandosi di colpo, sul marciapiede deserto – Come mi hai chiamato?!
- Boogeyman! Boogeyman!
- Piccola strega! Ci penserà tua madre a tapparti la bocca, una volta per tutte. Non ametto che una mocciosa di soli sei anni si rivolga così a me.
- Ti sbagli, Boogeyman: sto per compiere sette anni.
- Meglio strega: più giorni passano, e più ti avvicini al feretro.
Scoppiai a ridere, non per la battuta!
Era come se qualcosa dentro di me, mi obbligasse a farlo.
Inarcai il collo all’indietro e risi, risi e risi.
Risate... ma con qualcosa di diverso...
- Ridi, ridi! – riprese il dottore – Vedrai arrivata a casa come riderà tua madre!
 
Arrivati a casa, mamma i spedì in camera mia e mi chiuse a chiave dentro, senza cena: non sapeva che ero già sazia dei pasticcini di Lisa.
La sentii gridare qualcosa contro di me e contro la mia costante ricerca di guai.
A notte fonda riaprì la serratura per permettermi di andare con lei alla Cappella per il solito rito.
 
Chissà cosa ha pensato Lisa, vedendo quell’uomo portarmi via così violentemente.
Avrei tanto voluto rivederla...
Ma lo trovavo impossibile.
 
 

 MY CORNER:
Wow, finito anche questo capitolo. Devo dire che portare avanti sue storie della stessa serie conteporaneamente si sta rivelando una vera fatica XD (ma è anche un piacere).
Per questo vorrei ricevere recensioni (sia pure neutre o negative) per sapere, comunque, il vostro parere :) e se vale la pena continuare.
Comunque, grazie per la lettura e per le vostre recensioni future ;) (thank you 
Kaida :)  la prima a recensire questo mio umile lavoro XD)
ciau ciau
alessa7

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Capitolo 13
*** Incisioni e Vestiti ***


INCISIONI E VESTITI

Stavo entrando in classe, purtroppo, come ogni giorno. Inutilmente avevo pregato la mamma di non frequentarla più, ma lei non ne voleva sapere.
Dopo quell’episodio per strada, la scuola e le mie compagne avevano perso ogni attrattiva.
Per tutto il corridoio, il vocio degli altri bambini al mio passaggio... dicevano cose brutte su di me e sulla mia mamma, ne ero sicura. Cos’altro potevano dire di gente come noi? E i loro genitori, poi...
Varcai la soglia, con passo svelto e corsi al mio posto.
Le mie compagne erano sedute ai rispettivi banchi e mi guardavano con uno strano sorriso stampato in faccia; le lasciai perdere e continuai a camminare.
Arrivata davanti al mio banco notai qualcosa di diverso: qualcuno aveva inciso delle scritte sul mio banco!
“STREGA”, “VATTENE”, “MUORI”, “CADI MORTA”, “LADRA”, “BRUCIA”.
Sentii le altre ridere forte.
- Cos’avete fatto?! – urlai loro, con i pugni serrati – Perché lo fate?!
Alcune si alzarono dalla sedia:
- Guardate! La strega si è arrabbiata!
- Oh, aiuto! Ci ucciderà tutte!
- E come farebbe ad ucciderci?! – intervenne Jane, una bambina alta con i capelli biondi – Non riesce neanche a trasportare i suoi stessi libri! Non riuscirebbe mai ad ucciderci! Non ne ha il coraggio, comunque!
La mia rabbia prese il sopravvento:
- Ignoranti! Non è vero: ho letto che alcune persone con poteri telepatici riescono ad uccidere solo immaginandolo!!
Tutte scoppiarono a ridere e, presto, mi circondarono.
- Perché ridete?! E’ vero!! – gridai.
Ridevano e ridevano; guardai ancora la superficie di legno incisa dai loro coltellini. Perché...? Avrei voluto scrivere IO sui loro banchi tante belle paroline, in loro onore!
Non avevo detto bugie: mamma m’aveva sempre detto che delle persone speciali riescono ad uccidere col pensiero. Perché non mi credevano? Pensavano si essere superiori a me? Tutto quello che dicevo io era sbagliato?
Continuavano a ridere.
Jane mi lanciò addosso i suoi libri, che mi colpirono in piena faccia.
Le risate aumentarono.
Sentii del sangue colare dal naso copiosamente.
Le altre iniziarono ad imitarla, lanciandomi tutto quello che potevano e colpendomi dappertutto.
- Ba-basta!! – urlai – Siete dei mostri!!
Quante volte le avevo sognate, tutte quante, deformate o morte ai miei piedi!
Quante volte avrei tanto voluto non svegliarmi mai da quegli incubo!
“Gli incubi sono buoni” diceva spesso la mamma, quando da piccola le raccontavo i miei sogni, “ti fanno crescere forte e meno paurosa”. A quel tempo, quando me lo disse, la considerai pazza.
Ora le davo pienamente ragione.
 
- Ragazze? Ragazze!! Basta, lasciatela stare!! – sentii, da lontano.
Era la voce della maestra.
Le spinse lontano da me.
- Andate a sedervi! Forza!! Che aspettate?! – le sgridò.
Tutte le obbedirono. Tranne me: rimasi in piedi con le braccia ancora sulla faccia, per proteggerla dagli urti dei libri, ormai cessati. Tremavo.
La maestra mi fu subito vicina e mi cinse le spalle con gentilezza.
Poi, notato il mio banco e i suoi graffiti, mi scostò lo braccia dal viso per guardarmi in faccia.
Mi osservava, impietosita.
Oh, ma non avrei mica pianto! Stavolta no.
Avevo lo sguardo fisso, nel vuoto.
- Stai bene, Alessa? – mi chiese la donna, premurosamente.
- Voglio andare a casa. Mi hanno fatto male; voglio andarmene! – dissi piano, con tutta la calma possibile.
- Oh... ok, Alessa. Se... vediamo... d’accordo, per questa volta sei giustificata anche senza permesso. Raccogli le tue cose e... vai a casa. Cercheremo di contattare tua madre.
Detti un’ultima occhiata al mio banco.
L’avrebbero pagata.
Se non qui, nei miei incubi.
Non aspettavo: volevo addormentarmi solo per sognarle agonizzanti.
Iniziai a dirigermi verso l’uscita della classe. Passai, senza gli occhi gonfi per le lacrime, tra i banchi delle altre; prima di salutare la maestra, feci dietrofront e incontrai lo sguardo di Jane, solo per qualche frazione di secondo.
Bastavano.
Iniziò a tossire violentemente. Troppo forte.
Chissà... avrebbero mai sospettato di me?
Tutti si voltarono a guardarla.
Jane chinò la testa in avanti, appena la tosse cessò. E spirò.
Tutti iniziarono ad urlare.
Che piacere immenso sentire le loro urla d’orrore, tutte le urla e i gridi che per troppo tempo m’avevano tormentato... ora era così piacevole.
Tutti ad agitarsi, ad alzarsi a gridare aiuto.
La maestra aveva lo sguardo sbarrato verso il cadavere.
- Le auguro buona giornata, maestra! – le dissi io, sempre calma, mentre varcavo la soglia.
Mi sentii.
Forse sospettò qualcosa.
Percorsi la hall con noncuranza. Grida e urla dappertutto.
Là, incrociai un’altra delle mie compagne: Lucy. Aveva una benda sugli occhi, che non avrebbero mai più visto la luce del sole. Le passai davanti; lei, naturalmente, non vedendomi, non seppe che le passai accanto. Comunque si fermò davanti a me, come se avesse captato la mia presenza; voltò la testa nella mia direzione e sussurrò qualcosa:
- Strega! Maledetta strega! Hai trasformato tu la mia vita in un inferno! Ora noi trasformeremo la tua esistenza in un incubo.
Non le detti conto e corsi fuori, per strada, verso casa.
 
Dopo un po’, a qualche metro dal mio spoglio giardino, notai qualcosa, che subito attirò la mia attenzione: un coniglio bianco era fermo, in un campo incolto accanto a casa mia che si trovava, praticamente, al limite di Silent Hill.
Mi guardava, incuriosito ma, allo stesso tempo, spaventato.
Subito, guardandolo, mi venne in mente la mia favola preferita:
- Vai nel Paese delle Meraviglie, signor Coniglio? – sussurrai avvicinandomi a lui e sorridendogli, mostrandoli una mano – Non aver paura.
Ma l’animaletto, impaurito, fece qualche balzo in avanti:
- Ahh! Vuoi che ti prenda? Ok, vediamo se riesco ad acciuffarti... o forse vuoi solo portarmi alla tua tana! Così potrò prendere il tè con il Cappellaio e-
Il Signor Coniglio scattò fulmineo, verso la direzione che immaginavo; gli fui subito alle calcagna, veloce. Balzava gioioso a destra e a sinistra senza fermarsi, mentre io mi divertivo un mondo.
Continuammo a correre, sempre più veloci, fino a quando mi ritrovai davanti a casa mia; il coniglio continuava a balzare tra le erbacce e le siepi; fu più forte di me: non mi fermai e continuai a rincorrerlo.
Ben presto, però, ci trovammo davanti al grande cartello, al grande confine:
 

STATE LASCIANDO
SILENT HILL
VENITECI PRESTO A RITROVARE

 
Il coniglio bianco lo superò senza esitazioni.
Io restai lì, a contemplare quella scritta bianca, su sfondo blu notte.
“Anche se abitiamo qui, Alessa, non devi MAI lasciare la città! Per nessun motivo al mondo devi superare quel grande cartello!” usava dirmi mia madre, quando ero piccola e giocando per strada –col rischio di essere uccisa schiacciata- mi spingevo oltre, verso i confini della città; le avevo sempre obbedito. Non avevo la minima idea di come fosse il mondo oltre quel grande cartello, e andava bene così: cos’altro poteva esserci al di fuori di Silent Hill?!
“Un mondo pieno di pazzi e criminali, che prendono le bambine come te e le portano via da casa”.
Rividi il coniglio bianco che si era voltato a guardarmi, non sentendosi più rincorso.
Era fuori Silent Hill.
- Ehm, io non posso venire là! Sei fuori Silent Hill! – gli dissi, sperando che capisse.
Restò lì, immobile, per qualche secondo e poi, balzò via; io indietreggiai, invece, verso casa.
 
- Sapevo che saresti arrivata ora – mi accolse la voce di mia madre, appena varcai la soglia, dal soggiorno. A volte proprio non la capivo.
Mi avviai verso le scale:
- No! Non andare in camera tua! Vieni qua! – mi riprese. Sbuffando, le obbedii.
Non era sola in soggiorno: con lei c’era una bella donna, dai lunghi capelli biondi e lisci, molto simili a quelli della piccola Claudia; doveva essere sua madre, le somiglianze erano impressionanti.
Mamma non mi presentò alla donna, né io le dissi il mio nome.
- Maleducata! Saluta!! – mi urlò mamma.
Sorrisi, con grande sforzo:
- Buongiorno, signora! – dissi alla donna.
Mamma si avvicinò a me e disse:
- Ora: alza e le braccia, Alessa. Corri!! – con le braccia tese verso me.
Le obbedii ancora e in un attimo la vidi sfilarmi il grembiule blu, lasciandomi in biancheria. Posò l’abitino su una sedia e andò verso la donna che reggeva un fagottino.
Sentii la pelle d’oca, per il freddo primaverile sulla pelle.
Cosa stava facendo?
Il mio unico vestito era quel grembiule: i vecchi vestiti, di quando ero piccolina, non mi stavano più e mamma aveva deciso che quel grembiule blu sarebbe stato il mio unico capo d’abbigliamento, oltre la biancheria, naturalmente, e le scarpe; ne aveva due capi di quello stesso grembiule (orribile) e con quello addosso mangiavo, andavo a scuola, giocavo, dormivo...
E ora?
- Vieni qua!
Le andai incontro, le braccia strette al petto, tremante per il freddo sulla pelle.
Mamma mi indicò, con un piccolo cenno della testa, uno sgabello e io ci salii sopra, diventando molto più alta delle altre donne.
- Guarda mamma – dissi divertita e sorridente – sono più alta di te!
Non mi rispose, ma si limitò a lanciarmi un’occhiataccia che mi spense il sorriso.
- Stavo scherzando... – sussurrai, più a me che a lei.
- Alza le braccia
Vidi che la donna aveva qualcosa di bianco sul braccio, un lungo...
Dopo un secondo mi sentii qualcosa di liscio e morbido cadere dalle spalle, fino ai piedi: un vestito bellissimo ed elegante! Una tunica senza cuciture, le maniche e la gonna troppo lunghe mi facevano somigliare a un fantasma.
- Quanto è bello! – esclamai alle donne.
- Non abituarti a vederlo spesso, Alessa – mi spiegò con tono piatto la mamma – è per un’occasione speciale.

 
 

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Capitolo 14
*** Un'Occasione Speciale: La Foto di Classe (Parte 1) ***


UN’OCCASIONE SPECIALE: LA FOTO DI CLASSE (Prima parte)
 
L’occasione speciale per indossare quello strano vestito arrivò qualche settimana dopo.
Quello era un giorno speciale: era l’ultimo giorno di scuola; ma non avrei mica indossato l’abito lì, in classe, davanti a quelle galline! La morte di Jane era stata definita una tragica fatalità, per fortuna. Avevo, in quel momento, perso il controllo, avevo lasciato spazio alla mente e i suoi oscuri poteri, avevo lasciato libero quel mostro... quel potere! Non ero allora una normale bambina! Ero una strega davvero? No, non giravo su manici di scopa e non preparavo pozioni o cose del genere! Ma allora cos’ero?
Mamma lo sapeva di sicuro ma non me l’avrebbe mai detto o avrebbe negato tutto.
Eppure sapevo fare cose strane anche davanti a lei: una volta chiusi tutte le finestre della casa per l’arrivo di un temporale; un’altra volta feci fluttuare Scarlett per tutto il giorno davanti a Claudia, tanto tempo fa. Anche lei era a conoscenza dei miei poteri, eppure non mi prendeva affatto in giro come le altre bambine facevano; forse perché anche Claudia era in possesso di alcuni poteri...
Comunque, torniamo al giorno speciale.
Mi svegliai presto quella mattina e corsi subito giù, di sotto, per vedere la mamma. La trovai seduta su una sedia di legno attorno al tavolo, che contemplava le sue mani.
Feci alcuni passi verso di lei, calma: la maestra, il giorno prima, ci aveva avvisate di portare a scuola il nostro vestito più bello, perciò volevo chiedere a mamma di poter indossare quella bella tunica bianca come la neve.
Sentendomi arrivare, mamma inclinò leggermente la testa verso di me e disse con voce rauca:
- Cosa vuoi, Alessa?
Abbassai lo sguardo e dissi piano:
- Ehm... oggi è l’ultimo giorno di scuola e... mi chiedevo se potessi indossare quel vestito bianco... lo ha detto la maestra!
Restò zitta. Lasciò delicatamente cadere le braccia davanti a lei; la sua mano destra si chiuse attorno a un bicchiere pieno d’acqua poggiato sul tavolo.
- Mi farebbe molto piacere... – continuai - e... ehm, forse farei anche una bella impressione in classe... anche perché non ho altri vestiti oltre il gremb-
Splah!
Un getto d’acqua gelata mi arrivò dritto in faccia, entrandomi nella bocca aperta e nel naso.
Mamma m’aveva rovesciato l’acqua del bicchiere in faccia, evidentemente contrariata ai miei propositi.
Restai a bocca aperta.
Mamma mi stava fissando.
- Tu andrai a scuola come tutti i giorni! – disse scandendo bene ogni parola.
Sentivo piccole goccioline calare giù dalle mie guance... e non era solo acqua.
- Ma mamma! – dissi tremante – N-non posso fare ancora la pa-parte dell’esclusa! La maestra lo ha detto e io devo obbedirle!
- Tu obbedisci solo a tua madre! – gridò alzandosi di scatto.
- Ma cosa mi diranno, cosa mi faranno quei mostri vedendomi arrivare con...
- Zitta!
Sentivo la sua influenza, come se mamma stesse esercitando una sorta di ipnosi su di me e sulla mia mente.
Mi colpì improvvisamente un forte mal di testa.
- Lasciami!! – gemetti. Sapevo che era lei!
Non disse una parola.
Portai le mani sule tempie, il dolore era insopportabile.
Gemetti ancora, più forte, e mi inginocchiai sul freddo legno urlando.
Che sensazione orribile.
- Lasciami stare!! – urlai.
Sentivo tante voci nella testa.
Tante facce...
Me ne dovevo liberare!
Pam!
Il bicchiere sul tavolo andò in frantumi.
Sì, ero stata io! Proprio io!!
La pressione nella mia testa iniziò a diminuire.
Mi rimisi in piedi, dolorante, e scappai via, lontana da mamma, nella mia stanza.
Cos’avevo fatto?
Il dolore aveva liberato la mia forza nascosta!
Ora mi sentivo debolissima.
Chiusi la porta alle mie spalle e mi buttai sul letto, che cigolò forte.
 
Fui, quel giorno, una delle prime ad entrare nella classe. La maestra Gordon era seduta sulla cattedra. Mi vide ed esclamò:
- Alessa, perché hai indosso il grembiule?
Rimasi zitta, non volevo risponderle, ma ripensando a quello che era successo con la mamma poche ore prima, mi fece salire pesanti lacrimoni agli occhi, che cercai in tutti i modi di trattenere.
Mi sedetti al mio posto.
La maestra si fece vicina:
- Ve l’avevo detto! Oggi dob-  Alessa, stai piangendo?
Scossi la testa mentre le lacrime iniziarono a scendere.
- Cosa è successo? – chiese preoccupata.
Dovevo dirlo?
- M-mamma ha de-detto che n-non po-posso  indossare il v-vestito a scuo-scuola! – sussurrai piangendo.
- Quale vestito?
- U-un abito b-bellissimo! Bi-bianco e l-lungo.
- La mamma l’ha detto? E quando dovresti indossarlo?
- Per le occasioni speciali, ha detto. Credo sia per il rito.
- Quale rito? – chiese inarcando le sopracciglia.
- Il rito che fanno di notte con altra gente! Portano le bambine e ...
La maestra iniziò a preoccuparsi:
- Quali bambine?! – disse forte.
- Portano delle bambine che entrano in una stanza e poi non escono più.
La maestra era agitata, sudava e tremava; m’afferrò un braccio.
- Ahia! – gridai. I lividi e le ferite sul mio corpo era a causa, come diceva mamma, della mia disubbidienza: per esempio, quando tornavo tardi a casa da scuola, magari perché ero stanca, mamma era sempre a casa pronta a ricordarmi che bisognava sempre tornare a casa presto. Io non mi opponevo. Non ancora.
Al mio grido, la maestra mi alzò la manica del grembiule per scoprirmi il braccio e, scorgendo i lividi e i graffi, sembrò agitarsi ancora di più.
- Chi è stato?
- La mamma.
- E perché lo fa?
- Dice che sono disubbidiente. Dice che sono un demone.
Kate Gordon si portò una mano alla fronte, come per controllare la sua temperatura.
Si allontanò da me, cauta.
- E’ st-stata tua madre, Alessa?
- Sì.
Andò verso la cattedra e si sedette, pensierosa.
- Tra queste bambine ce n’era una dai capelli scuri, dagli occhi verdi? Sui quattordici anni – riprese sottovoce.
Cercai di ricordare:
- No, non l’ho mai vista.
La maestra respirò profondamente:
- E’ mia figlia. E’ scomparsa. Non la vedo da parecchio tempo. Scusami.
Si alzò. Questa volta era lei che piangeva. Uscì dalla classe velocemente.
Mi sentivo in pena per lei.
 
La classe dopo qualche minuto fu al completo.
Ogni bambina indossava un bellissimo vestito. Tutte erano allegre e parlottavano tra loro. Come al solito io ero al mio banco in silenzio, ad osservare i graffiti incisi sul legno.
Naturalmente tutte si erano accorte del mio grembiule blu ma nessuna m’aveva detto qualcosa.
Scoprii che un fotografo ci avrebbe scattato delle foto individuali e di classe.
Non ero particolarmente eccitata a quell’idea.
Le foto non mi piacevano: ne avevo un po’ nella mia stanza, che mi raffiguravano in fasce sorridente o seduta sul prato davanti casa.
Chissà cos’avrebbe detto mamma della mia nuova foto...
 
Uscite in cortile, ci posizionammo davanti alla torre dell’orologio.
Non essendo molto alta il fotografo mi spostò in avanti, all’estrema sinistra.
- Guardatemi tutte bambine! – esclamò l’uomo – E sorridete!
Tutte sfoggiarono le loro migliori facce... tranne me.
Rimasi col mio solito sguardo, ancora con la testa tra le nuvole.
- Sorridi strega! – mi sussurrò Hanna, alla mia destra.
Non l’ascoltai.
Dopo qualche scatto con lo strano apparecchio, ognuna di noi, in ordine alfabetico, doveva avvicinarsi alla torre e farsi fare qualche foto.
Vidi le bambine sorridere raggianti all’uomo, con i loro colorati vestitini. Avrei fatto una figura un po’ strana, in effetti, con la tunica bianca.
- Alessa! Tocca a te! – disse una maestra.
Feci alcuni passi, sotto gli occhi di tutti. La bambina che aveva appena finito di posare, si fece vicina e mi tirò il nastrino rosso che, nella nostra uniforme, era allacciato come fiocco attorno al colletto, con il risultato di sfilacciarlo tutto.
- Vai strega! – mi sussurrò.
Arrivata alla piccola torre, rivolsi lo sguardo alle mie compagne: tutte ridevano, perfide, con i capelli curati che rimbalzavano di qua e di là, attorno alle loro facce; io, con lo sguardo imbronciato, con l’uniforme scolastica e con i capelli corti e spettinati, sembravo scesa da un altro pianeta. Ma io avevo qualcosa che loro non possedevano... ecco in cosa ero diversa da loro.
Il fotografo non pensava fossi un soggetto particolarmente interessante e non mi diede le direttive per far riuscire bene la foto.
Sentì che le scattò mentre io, con lo sguardo sognante, rivolgevo lo sguardo alle altre.
- Fatto! Un’altra! – esclamò l’uomo.
 
Finito il servizio, rientrammo in classe. Il fotografo sarebbe passato per consegnarci le copie delle nostre foto. Prima che arrivasse, però, andai in bagno per rinfrescarmi, dato che era una giornata molto afosa.
Il bagno delle ragazze sarebbe stato completamente vuoto se non ci fosse stato un uomo.
Non l’avevo mai visto a scuola ma dall’uniforme che indossava doveva essere un bidello.
Non mi vide entrare: stava spiando in uno dei cubicoli da cui provenivano delle risate di bambina.
Rimasi pietrificata. Cosa stava facendo?!
Mi notò ma un secondo dopo ero già fuori dal bagno. Corsi in classe più veloce che potetti.
Oddio, non sarei mai più entrata in quel bagno!
Mamma m’aveva sempre proibito di frequentare persone di sesso maschile da sola. Diceva che potevo solo frequentare la classe e Claudia; ogni compagnia maschile era proibita, figuriamoci questo!
Entrata in classe notai che le foto erano state già consegnate.
Tutte le mie compagne erano riunite attorno al mio banco.
Oh no!
Un nauseante odore di bruciato proveniva da lì.
- Ecco, arriva la strega!
Spinsi violentemente via, alcune che mi bloccavano la via.
Una candela era posata sul mio banco... era accesa.
Hanna teneva tra le dita una delle copie della mia foto individuale: ne stava bruciando i bordi.
La foto, color sabbia, era incenerita ai lati, lasciando intatta la mia faccia e il mio corpo.
- Questa sarà la tua fine, strega! – esclamarono – Al rogo!
Piombai su Hanna, facendole cadere tre mie foto individuali sul pavimento e spingendola verso il muro.
- Sei un mostro! – esclamai spingendola – Tutti voi! Mostri!!
Raccolsi le mie foto da terra, stringendole al petto. In più tra loro, c’era la foto di gruppo.
Mi avvicinai alla candela e posai la foto di classe sulla fiamma, mandandola a fuoco e gettandola a terra.
- Mostri!! – urlai – Mostri!!
 

 
 

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Capitolo 15
*** Un'Occasione Speciale: Il Riflesso e La Polizia (Seconda Parte) ***


UN’OCCASIONE SPECIALE:  IL RIFLESSO E LA POLIZIA (Seconda Parte)


- Ti hanno fatto una foto?
- Sì, mamma. Era per la fine dell’anno scolastico. Ecco, ne ho altre identiche.
Mamma stava osservando la mia fotografia.
- Il vestito serviva, infatti – sussurrai.
- Non te lo farei mai indossare davanti a loro. Lo porterai stasera invece – disse mamma.
- Davvero?
- Sì. Al rito.
- Oh, d’accordo.
Lasciai una copia della foto per mamma; le altre le portai nella mia stanzetta e le poggiai sulla piccola scrivania.
Che bello! La scuola era finita!
Non avrei visto quelle bambine per tutta l’estate!
Mi sentivo libera!
Mi stesi sul letto e chiusi gli occhi, rilassata come non mai.
Eppure qualcosa affliggeva la mia anima.
Ma cosa?
 
- Non manca molto.
Eccola! Davanti a me c’era il mio riflesso.
Dalle movenze eleganti e raffinate, mi fissava con gli occhi blu quasi fuori dalle orbite. Quel particolare sembrava renderla un mostro.
- Cosa ci fai qui? – esclamai alzandomi dal lettino e guardandola sbalordita – Nella mia stanza non... sei uscita dallo specchio?!
- Intendi dire, SONO uscita dallo specchio! – rispose muovendosi verso la porta.
- Io non sono uscita da nessuno specchio! Io sono reale!
- No! Lo specchio riflette la realtà!
Quelle parole mi lasciarono sbigottita.
Ma, allora, cos’ero io?
- Io non sono come te: non sono bella come te... io... non sono come te – dissi, più a me stessa che al mio riflesso.
- Impossibile! IO sono TE!
Si avvicinò a me, tendendo la mano verso la mia guancia. Sembrava emanasse calore e luce.
- Non manca molto – ripeté, sorridendomi e facendo tornare sul suo viso quella intrigante bellezza che la caratterizzava.
- Mamma non ti ha mai vista? – chiesi curiosa.
- Mi conosce da sempre... come te.
Sembravamo gemelle. Era stranissimo.
- E io conosco te, dopotutto – continuò.
Il mio sguardo, finora abbassato, incrociò il suo. Non c’era paragone: il mio riflesso era la bambina più bella e attraente che avessi mai visto.
- Ti stanno usando – sussurrò.
La fissai e solo in quel momento notai che portava quella lunga tunica bianca che volevo indossare quella mattina.
- Quello è mio! – esclamai puntandolo con un dito.
- Nostro! – mi corresse lei.
Le stava davvero a pennello: sembrava una principessa.
- Torna nel tuo mondo, nel tuo specchio! Questa non è la tua realtà! – le gridai addosso con un inaspettato impeto di coraggio.
- Hai ragione. Ma là, non c’è posto per me: posso aiutarti.
- Non ho bisogno del tuo aiuto! Cioè del mio aiuto... no, del tuo... ehm...
- Hai mai desiderato che i tuoi sogni diventino realtà? – continuò.
Rimasi zitta.
- Posso davvero aiutarti. Presto, se desideri...
- E come? – chiesi.
Sorrise e mi afferrò le mani.
Sentii un calore insopportabile al suo tocco, una strana energia, una strana emozione. Poi, improvvisamente, le sue mani sembrarono entrare nelle mie, come se fosse stata un fantasma. Stava attraversando la mia carne, ma invece di provare brividi di freddo, le mie mani iniziarono ad ardere.
Urlai e chiamai mamma con tutta la voce che avevo in petto.
Vidi la faccia del fantasma avvicinarsi molto alla mia.
- Vedrai: posso aiutarti! – disse continuando a sorridermi serena.
Mi dibattevo e mi opponevo ma non c’era niente da fare: ero immobilizzata e il bruciore sembrò raggiungere ogni centimetro del mio corpo.
Era l’inferno.
 
- Alzati immediatamente!
Quella voce...
- Vuoi muoverti?! Sbrigati!
Ero stesa su qualcosa di morbido.
- No. No! – furono le parole che uscirono dalla mia bocca.
- “No” cosa?! Alzati! Presto saranno qui!
Quella voce...
Mamma?
Aprii gli occhi lentamente. Davanti a me, chinata in avanti, c’era la mamma.
Cosa voleva?
- Chi sta arrivando? – chiesi mettendomi a sedere e stropicciandomi gli occhi ancora stanchi.
- La polizia! – urlò mentre si muoveva verso la porta.
Sgranai gli occhi, incredula:
- La polizia? Cosa vuole?
Ma la mamma era già scesa di sotto in fretta e furia senza darmi spiegazioni.
Mi misi in piedi sbadigliando. Sentii le voci di Leonard Wolf e del dottore. Cosa ci facevano qui che loro.
Stiracchiandomi raggiunsi il gruppetto di persone, indaffarato a girare senza una meta per tutta la casa. Mamma stava appendendo delle strane croci sulle pareti.
- Cosa sono quelle croci? – chiesi curiosa.
- ZITTA! – urlò Leonard, arrabbiatissimo – E’ per colpa tua che sta succedendo tutto questo!
Colpa mia?
- Cosa ho fatto? – gli urlai di rimando con voce stranamente forte.
- Non mentire! Bugiarda! – urlò l’uomo.
- Non ho fatto NIENTE! – urlai fortissimo.
Bam!
Il vetro di una finestra andò in frantumi. Tutti i presenti si voltarono verso di me.
- Cosa. Sono. Quelle. Croci. Mamma? – chiesi ancora scandendo bene ogni parola.
Ne aveva in mano decine e decine e le metteva un po’ dappertutto.
- Te lo spiega lui, Alessa – rispose accennando col capo al dottore.
Lui?
Oh no!
- Vieni Alessa, ti dico subito tutto quello che vuoi – disse sorridendomi; eppure vedevo in lui l’odio che provava per me.
Leonard era ancora paonazzo, con lo sguardo perso nel vuoto.
 
- Niente domande, mocciosa – mi disse l’uomo guardandomi in faccia.
- Mamma ha detto che... – risposi ma fui subito interrotta.
- Non t’importa niente di quelle croci!
Restai zitta.
Mamma ne aveva messa una anche nella cucina in cui io e l’uomo stavamo parlando.
Notai che c’era un uomo appeso alla croce, seminudo, con chiodi nel polsi e nelle caviglie. Portava sul capo un specie di ramo spinoso. Faceva un po’ paura.
- Tra un po’ arriveranno dei poliziotti e ti faranno qualche domanda. Tu non devi ASSOLUTAMENTE menzionare i riti a cui ti portiamo di sera, ok? Non parlare di quello che ti ha insegnato tua madre su Dio e cose del genere. Non nominare il nome della Chiesa e, se qualcuno ti dice d’averti vista girare di notte fonda da sola, digli che si sbaglia, d’accordo? Dimenticati chi sei e cosa fai di solito per qualche ora e poi tutto tornerà alla normalità.
Non capivo: perché dovevo mentire. Non c’era niente di male nei riti che svolgeva la mamma.
- D’accordo – promisi.
Tornammo vicino alla mamma che stava discutendo con Leonard ma, appena ci videro ritornare, entrambi si zittirono lanciandosi solamente sguardi a dir poco velenosi.
 
Io mi diressi in camera mia in silenzio, aspettando che arrivassero quei poliziotti.
Chissà perché erano tutti così agitati...
Certo, era proprio una giornata strana quella!
Poi quell’incubo...
Dovevo vederla!
Cambiai bruscamente direzione e filai in bagno, davanti al grande specchio.
- Vieni – sussurrai dolcemente e, come previsto, la mia immagine mutò in una bambina molto più bella di me: il mio riflesso, così diverso da me.
Non era naturale.
- Sei spaventata? – mi chiese piegando la testa a destra.
- No. Sono confusa – ammisi.
- Presto capirai... temo.
- E’ così brutta la realtà?
- Come posso saperlo. Io vivo nel mio mondo. Ma... se tu mi facessi uscire... forse
- E come posso farti uscire?
- Oh, non farlo. Non credo sia il momento più propizio.
- Sei solo... un riflesso – dissi sorridendo – Spaccare lo specchio servirebbe a qualcosa?
- Non credo.
- E io? Io posso entrare là dentro? – chiesi, fantasticando nel mondo dello specchio, un mondo dove tutto era più bello.
Il riflesso sorrise furbescamente.
- Tu puoi! Dopotutto è anche il tuo mondo, perciò...
- E cosa c’è oltre lo specchio?
Il suo sorriso strano si fece ancora più grande:
- Tante, tantissime cose...
Quanto doveva essere bello e invitante!
- E il mio mondo? Ti piace? – chiesi curiosa.
- No – rispose secca.
- Se io, quindi, posso entrare nello specchio... posso anche farti uscire?
- Sì, certo! Sarebbe meraviglioso! – disse velocemente.
Si vedeva che le sarebbe piaciuto uscire dallo specchio.
- Avvicinati – disse piano.
Le obbedii. Volevo entrare nello specchio.
- Di più... di più...
Il mio naso sfiorava lo specchio.
Poggiai le mani sulla superficie e... sembrarono entrare nello specchio.
Era come me l’ero immaginato!
Stavo entrando nello specchio!
- Così... forza...
- Alessa! Alessa! Dove sei?!
Era mamma.
 
- Devo andare! – dissi al riflesso che mi guardava, deluso, uscire dal bagno.
- Dove sei? – gridò.
- Sono qui! Mamma, cosa c’è? – chiesi raggiungendola.
- Sono arrivati gli agenti. Ti faranno qualche domanda e io non ci sarò. Ti ricordi quello che ha detto...
- Sì, mamma.
- Vieni qua, allora.
 
 

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Capitolo 16
*** Un'Occasione Speciale: L'Ultimo Rito (Parte 3) ***


UN’OCCASIONE SPECIALE: L’ULTIMO RITO  (Terza Parte)
 

- Ciao! Tu devi essere la piccola Alessa, giusto?
- Sì.
Ero nella mia stanzetta con una poliziotta.
Sì, a casa nostra era arrivata la polizia. Non sapevamo ancora il perché. In quel momento ero lontana da mamma, che stava parlando con un altro agente. A me era toccata una signora. Portava l’uniforme e aveva i capelli scuri legati a coda di cavallo. Aveva un viso dolce.
- Io mi chiamo Nicole.
Eravamo sedute una di fronte all’altra: io ero sul letto, lei sulla sedia leggermente piegata in avanti.
- Piacere – sorrisi io.
- Sai perché siamo venuti a casa tua? – chiese dolcemente Nicole.
Scossi la testa.
- No? – continuò lei – Sai, ci hanno detto cose brutte su te. E sulla tua mamma.
- Bugie – risposi secca io.
La donna alzò le braccia:
- Oh, certo. Non lo metto in dubbio, Alessa. Però, lascia che ti dica cosa ci hanno detto; poi ti farò alcune domande a cui tu devi rispondere sinceramente, ok?
- Ok.
Avevo in testa ancora le parole di Kaufmann e della mamma.
L’avrei fatto per il mio e il loro bene.
Nicole aveva tirato fuori dalla tasca un piccolo taccuino e, con una matita nella mano, ricominciò a parlare:
- Ci hanno detto che esci fuori casa e giri per le strade di Silent Hill ad un’ora... non adatta ad una bambina come te. Lo hanno detto moltissime persone; ti hanno visto, Alessa.
Ricorda, Alessa. L’hai promesso.
- Mentono.
- Non si può mentire alla polizia; credi che tutti abbiano detto delle bugie, Alessa?
- Sì. Io non esco di notte.
Mi sentivo una criminale, mentre dicevo quelle cose; mi sentivo parte di qualcosa più grande di me.
A perché dovevo mentire?
Non ero molto brava a raccontare bugie.
Però, Nicole sembrò credermi.
- Adesso – riprese – parliamo della tua famiglia.
E adesso?
- Tu vivi a Silent Hill da... ?
- Da quando sono nata – risposi calma.
- Ok. E vivi con tua madre. Tuo padre dov’è?
Era la domanda che avrei tanto voluto evitare.
- Mio padre... non l’ho mai visto e...
Iniziai a tremare per la paura di dire qualcosa di sbagliato e Nicole se ne accorse:
- Va tutto bene? – chiese dolcemente.
- Sì. E’ solo che...
Cosa dovevo fare? Cosa dovevo dire?
- Va tutto bene. Ho capito – continuò la poliziotta – Non intendevo... sì, bhè... scusami.
Non dovevo piangere, ma le lacrime... era più forte di me!
Quando parlavo di papà riuscivo sempre a piangere; io volevo il mio papà al mio fianco. Non riuscivo a capire il perché avesse lasciato me e la mamma... paura, timore... avrei dato tutto quello che avevo per vederlo!
Cercai di pensare a cose buffe per trattenere i lacrimoni, inutilmente.
- Andiamo avanti se vuoi – disse Nicole.
Annuii.
Mi lasciò qualche minuto per riprendermi e poi continuò:
- Vivi con la tua mamma, allora. E dimmi, lei come ti tratta?
- Mamma? Oh, la mia è la mamma migliore del mondo. Mi tratta benissimo.
- Ti ha mai sgridata?
- Sì, solo quando disobbedivo.
- E picchiata?
- Mamma? No! Mai! Non l’ha mai fatto!
Bugie e bugie.
- Però sappiamo che presenti diverse ferite su tutto il corpo.
Come facevano a...
Improvvisamente la verità si fece chiara nella mia testa e nei miei pensieri come un fulmine a ciel sereno: sapevo benissimo chi aveva chiamato la polizia.
Solo ad una persona avevo mostrato i lividi sulle braccia.
- Questi? – inventai alzando le maniche del mio grembiule e mostrando le diverse ferite a Nicole – Questi me li sono procurati fuori, in giardino. Esco spesso qui attorno, col permesso della mamma naturalmente, e mi diverto un sacco a catturare le farfalle.
Nicole dette una rapida occhiata alle tante e colorate farfalle appese alla parete dietro di lei.
- Però qualche volta inciampo e... niente. Sono solo graffietti – dissi, sperando che non mi chiedesse di mostrarle anche altre ferite.
Se potevo camuffare i graffi con semplici cadute, come avrei giustificato le contusioni e i lividi provocati dopo quella notte nello scantinato?
- D’accordo – rispose la donna.
Tirai un sospiro di sollievo senza farmi notare e il mio cuore sembrò riprendere a battere tranquillamente.
- Comunque, Alessa. Sai cosa sta succedendo a Silent Hill e nei paraggi in questo periodo?
Scossi la testa.
- Stanno scomparendo un sacco di bambini qua intorno, sai? – continuò – E’ meglio non uscire di sera e restare sempre con un genitore, perché i bambini scomparsi non sono mai stati trovati e... capisci, è una questione di sicurezza!
- Sì, capisco. Starò molto attenta.
La donna mi sorrise:
- Stiamo per terminare qui, Alessa. Però devo chiederti se sai qualcosa su riti o altre cose strane che, probabilmente, avrai sentito...
Restai zitta un attimo.
I riti... quella sera ce ne sarebbe stato uno. Quella sera, dovevo andare con la mamma alla Cappella.
- ... so quello che pensi. Probabilmente non ne vorrai parlare con me; ma se sai qualcosa ti prego dimmela, anche in un altro momento, alla stazione di polizia!
La donna stava continuando a parlare? Non l’avevo seguita, così iniziai a sorridere e ad annuire.
- Bene. Alessa. E’ stato davvero piacevole passare del tempo con te. Non verremo più a disturbarvi, promesso.
Nicole fece per uscire dalla stanza, ma prima di attraversare la soglia, si voltò e sussurrò:
- Mi raccomando. Fai attenzione.
- Va bene – risposi io.
La donna sorrise e uscì dalla stanza, chiudendosi la porta alle spalle.
 
Cosa avevo fatto?
Perché mi ero lasciata andare così alla mia maestra?!
Se mamma lo avesse saputo...
Non osavo immaginare...
 
L’agente che stava interrogando la mamma se ne stava andando via con la collega, quando scesi di sotto per vedere mamma. Era seduta al tavolo, con le braccia incrociate e osservava rabbuiata il pavimento.
- Com’è andata? – mi chiese vedendomi arrivare.
- Bene, credo – riposi calma – Mi ha fatto un sacco di domande, anche abbastanza inutili.
- Hai per caso detto qualcosa di brutto su di me? Hai menzionato l’Ordine? – continuò a chiedermi mamma, timorosa.
- No. Ho risposto come mi avevate detto.
- Bene – sospirò mamma – Io ho risposto ad alcune domande su di te.
- Tipo? – chiesi.
- Dicono che tu ti sia lasciata scappare qualche particolare sui nostri riti...
Iniziai a sudare freddo.
- Ho detto che ti eri immaginata tutto. Ho detto che ti avevo fatta diventare pazza a causa di tutte quelle fiabe e a tutti quei mostri che disegni dalla mattina alla sera; ti ho cresciuta male, in effetti. Non sei ancora pronta per la realtà, per il mondo reale. Vivi ancora nella tua dimensione personale; per te, oltre Silent Hill, non esiste più niente.
Aveva detto tutte queste cose su di me?
Mi stavo sentendo male: quindi, ora , per la polizia ero una bambina mentalmente malata ?
Però quelle ultime sue frasi m’avevano ferito nell’anima.
Non ero pronta per il mondo, è vero, ma ero ancora piccola.
- Stanotte andremo in Chiesa, chiaro? E voglio che tu indossi quella tunica bianca. D’ora in poi indosserai sempre quella per i riti.
- Sì, mamma – dissi piano tornando nella mia stanza.
 
Quando il sole calò completamente indossai la lunga tunica, più bianca della neve. Mi stava a pennello e poi io adoravo gli abiti lunghi; non che ne avessi indossati granché ma sapevo che la gente famosa e importante li indossava nelle occasioni speciali.
In effetti, quella sera doveva essere un’occasione speciale.
Arrivati nella Cappella, facendo attenzione per strada a non incontrare gente e polizia, presi posto al primo banco assieme a Claudia.
Appena la vidi, sbarrai gli occhi: Claudia era vestita come me. Anche lei fu abbastanza sorpresa vedendomi vestita così, ma poi scoppiammo a ridere.
- Stai bene – sussurrai a lei.
- Grazie. Anche tu. Ehi, ricordi che giorno è domani? – rispose la piccola.
- Certo! E’ il tuo compleanno – dissi sorridendole.
- Presto anche tu festeggerai il tuo compleanno – continuò Claudia.
Annuii.
Il rito iniziò presto quella sera e, come al solito, passai la maggior parte del tempo ad osservare la grande vetrata dell’Uomo, della Donna e di Dio. Non prestai attenzione alle parole della mamma, anche perché erano tutte cose che già conoscevo e sapevo benissimo: la Creazione, la Morte e la Promessa del Paradiso.
Cose a cui credevo... a modo mio.
Non mi cambiava certamente la vita sapere che prima o poi la Donna sarebbe arrivata e avrebbe aperto la porta della Felicità per tutti quelli fedeli e puri di cuore.
I minuti volarono in fretta e non avevo ancora afferrato una parola di tutta la cerimonia, al contrario di Claudia che ascoltava e annuiva ad ogni frase pronunciata da mia madre.
Io fissavo semplicemente la vetrata.
Quanto era bella.
 
Come al solito, finito il rito, Leonard Wolf faceva entrare nella Cappella un gruppetto di bambine e ragazzine. Quel giorno stetti particolarmente concentrata su di loro.
La maestra aveva perso la figlia ed ero quasi certa che l’avrei vista arrivare oggi, in quella mesta processione.
Ed infatti la vidi: la somiglianza con la maestra Gordon era evidentissima, portava i capelli scuri legati in una treccia e aveva gli occhi verdi pieni di lacrime. Poi, non dimostrava più di quattordici anni. Era una delle ultime nella fila.
Subito catturò il mio sguardo.
Dovevo parlarle.
Claudia e le altre donne, intanto, avevano lasciato la Chiesa. Eravamo solo io, mamma, Leonard e le bambine. Come sempre, iniziarono a chiamarle, una ad una, e le facevano entrare in quella porta con dei sacchettini bianchi nella mani.
Aspettai che ne entrassero un bel po’ e poi mi avvicinai alla figlia della maestra.
La ragazza aveva uno sguardo triste e malinconico.
- Ciao – sussurrai chinandomi verso di lei – tu sei la figlia di Kate Gordon?
Alla ragazza si illuminarono gli occhi:
- Sì – disse con voce rauca.
- E’ in pensiero – continuai.
- Mi manca la mamma – disse tra se e se.
- Io mi chiamo Alessa.
- Io Helen.
- Se posso fare qualcosa... – dissi piano.
- Salvami. Ti prego – sussurrò per evitare di essere ascoltata dalle altre – E se proprio non puoi salvarmi, ti prego, se morirò, prega quei signori di riportare il mio corpo dalla mia famiglia...
Rimasi sconcertata da quelle parole:
- Non dire così – sussurrai.
Mi faceva stare male.
 
Tornai al mio posto, in silenzio, ma sentivo lo sguardo di Helen e delle altre su di me.
Cosa potevo fare?
Non c’era verso di ragionare con Leonard. Avrei chiesto a mia madre.
 
Helen doveva essere l’ultima ad entrare nella strana stanza.
La seguii con lo sguardo quando mi passò davanti.
Dovevo sapere. Mi alzai e mi diressi verso la porta misteriosa, appena chiusa da Leonard.
Spiai attraverso il buco della serratura ma non si vedeva granché.
Così, delicatamente, aprii la porta e mi infilai nella stanza.
Le pareti erano in muratura eppure nella stanza faceva veramente caldo. Strano: eravamo quasi sottoterra.
Davanti a me non c’era nessuno perché era presente un’altra porta. L’ambiente era completamente al buio.
Mi avvicinai all’altra.
Il calore sembrò aumentare.
Dov’era Helen? La mamma?
Mi sentivo male.
Il calore era insopportabile.
Spiai attraverso il buco della serratura.
Una profonda luce...
Cos’era?
Aprii delicatamente la porta, sperando di non farmi notare da mamma o da Leonard.
 
E lo spettacolo che trovai mi fece, a dir poco, salire la nausea.
 
Vidi un grande fiamma.
Sentii un urlo d’agonia.
Non era la mamma.
Mi sporsi ancora di più... e rimasi pietrificata.
Lì... stavano dando fuoco a Helen...
Urlai come non avevo mai urlato in vita mia.
Urlai e gridai di terrore e paura; i miei gridi si unirono a quelli della ragazza.
- Alessa?
Era la mamma. Dietro di me.
Mi voltai di scatto e iniziai a correre via, urlando.
Mia madre non riuscì a prendermi.
Corsi via, velocissima, senza smettere di urlare e gridare neanche per le strade di Silent Hill.
 
Avevo visto il corpo di quella ragazza carbonizzato nel fuoco, contorcersi nella fiamme!
Le sue parole ancora nella mia testa.
Ero lontana dalla Chiesa quando inciampai cadendo a terra.
Piansi.
Piansi.
Piansi.
 
Non sarei mai più entrata in quel posto.
C’era qualcosa di strano in quella religione... l’avevo sempre sospettato.
Piansi.
Quello era stato il mio ultimo rito.

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Capitolo 17
*** Dura Punizione ***


DURA PUNIZIONE
 

Arrivata a casa mi fiondai nella mia cameretta e, affondata la testa sul cuscino, ricominciai a piangere, l’immagine di quella povera ragazza carbonizzata ancora nella mia mente. Sapevo che l’avrei rivista nei miei incubi peggiori.
Tutto era chiaro, adesso. Dietro quel culto si celava un’orribile e macabro segreto.
Ma perché?
A cosa serviva bruciare e uccidere povere ragazzine strappate via dalle proprie famiglie? Come si poteva continuare a vivere con quell’immenso rimorso?!
Non avrei mai più messo piede in quel posto, in quel macello!
Il mio riflesso aveva ragione! Il mondo dello specchio sarà gran lunga migliore di questo.
Sentii dei passi, al piano inferiore. Doveva essere tornata la mamma.
Io non le sarei andata incontro.
La sentivo avvicinarsi.
- Alessa! – gridò. Era vicina.
Alzai la testa dal cuscino e fissai intensamente la porta.
- Chiuditi – sussurrai con una voce che non suonava mia.
Sentii la mano della mamma tirare la maniglia... ma la porta era bloccata. Ero stata io.
- Cosa? Apri la porta! – urlò mamma.
- Ma io non ho la chiave, mamma – risposi calma.
- E allora come hai fatto a chiuderla?!
Si stava davvero infuriando; io rimasi zitta.
- Non parli, eh? D’accordo. D’ora in poi il tuo mondo si limiterà a quella stanza...
Mi stava bene, non volevo più guardare in faccia quell’assassina.
- ... e alla Chiesa!
- NO! – strillai – Io là non ci torno!!
- Oh, sì che tornerai – insistette.
- MAI! Non voglio diventare come VOI!
Scarlett ciondolava accanto al letto; l’afferrai e l’abbracciai.
- Andrà tutto bene Scarlett. Il mago cattivo non distruggerà il tuo regno, mia signora – sussurrai al pupazzo.
- Sì! – esclamò l’assassina – Resta nel tuo mondo di favole e giocattoli! Devi crescere! La realtà non è così bella come credi!
Si allontanò velocemente.
- Io non voglio crescere, Scarlett. Se la realtà è così brutta, preferisco vivere nel mio mondo.
Mi avvicinai alla scrivania e afferrai qualche foglio e dei pastelli.
- Domani è il compleanno di Claudia. Le farò un bigliettino d’auguri.
Claudia adorava i fiori, perciò disegnai rose, margherite e tulipani sulla piccola copertina di colore verde con in giallo la scritta “AUGURI CLAUDIA”.
Poi scrissi un piccolo augurio all’interno:
 
Alla piccola Claudia,
Auguri di buon sesto compleanno.
Ti voglio bene come se tu fossi la mia vera sorellina.
Con amore,
Alessa
 
Era perfetto, eppure sentivo che non avrei potuto consegnarle il biglietto di persona.
Quindi come fare a recapitarlo?
Guardai l’orologio: era l’una di notte.
Era già il suo compleanno!
Ebbi un’idea...
 
Posai lo sguardo sulla porta e quest’ultima si aprì, sbloccandosi. Cercando di fare il meno rumore possibile arrivai alla finestra più vicina e l’aprii delicatamente. Sentii la fresca brezza notturna sul viso.
Fissai il cielo nero e sussurrai:
- Soffia...
Sorprendentemente il vento iniziò a farsi più forte e impetuoso.
Funzionerà, mi dissi calma.
Con uno scatto lanciai il biglietto d’auguri per Claudia nel buio e lo vidi, dopo qualche secondo, fluttuare lontano da casa, guidato dal vento.
Sarebbe arrivato, ne ero certa.
Richiusi la finestra pianissimo e ritornai nella mia stanzetta che chiusi col potere della mia mente.
Io ero speciale... e non c’era più posto per me in questo mondo.
Avevo addosso ancora quella maledetta tunica bianca che avevo imparato ad odiare; mi cambiai indossando quel grembiule blu e i misi sotto le coperte.
La mia cameretta sembrava davvero buia, quel giorno, ma non volevo accendere la candela.
Adesso vedevo il fuoco come un...
Oh, povere bambine...
 
I miei occhi si fecero sempre più stanchi e le palpebre si chiusero da sole per la stanchezza.
Ma quella sensazione di quiete non durò molto a lungo.
 
Mi sentii tirare forte per un braccio.
Caddi dal letto e aprii gli occhi.
Per quanto tempo avevo dormito?
Davanti a me c’era la mamma; cominciai a gridare:
- Lasciami! Lasciami stare!!
Lei, afferrati i miei polsi, mi trascinò via dal letto e dalla mia cameretta portandomi alle scale.
Ogni gradino sulla mia schiena...
Un dolore insopportabile.
Gridai ancora ed ancora.
Bam!
Tutte le finestre di casa si spalancarono contemporaneamente.
- No! NO! – continuavo io.
Bam!
Le porte iniziarono ad aprirsi e chiudersi senza tregua, come se fossero impossessate.
Sentii nell’aria quel dolciastro odore di pioggia e sentii chiaramente il suono di tuoni in avvicinamento.
La casa diventò buia. Ero stata io! Com’ero brava!
In quel momento, non riuscivo a pensare ad altro, come al dolore; mi sentivo una stupida!
La mamma doveva essere entrata nella mia stanza quando avevo preso sonno e il mio potere sulla porta d’ingresso si era sciolto.
Ero stata incosciente! Non potevo scapparle per sempre.
Ero stata trascinata al sotterraneo, davanti a quella maledetta porta.
Fui spinta nella stanza buia e fui chiusa a chiave dentro. Cercai in tutti i modi di uscire, chiesi scusa inutilmente e feci promesse assurde. Battevo i pugni alla porta e la calciavo con tutta la forza che avevo, anche se sapevo che mi sarebbe toccata più di una notte in quello stanzino.
- Fammi uscire!! Lasciami andare! Basta!
Ma gridare e strillare sembrava non servire a niente; dopo qualche minuto m’ero già calmata.
Sedevo sul tavolino di legno presente nella camera e rigiravo nelle mani un pennarello nero che avevo in tasca.
- Papà, anche se non mi vuole bene, non l’avrebbe mai permesso... – continuavo a ripetere a me stessa.
Era impossibile vedere qualcosa oltre il proprio naso in quel buio, eppure volevo passare il tempo in qualche modo. Non volevo mostrarmi debole davanti a mia madre!
Tolsi il tappo al pennarello nero, con una mano davanti a me per orientarmi nelle tenebre, raggiunsi il muro e iniziai a scriverci sopra quello che sentivo dentro di me... quello che sognavo d’evitare... quello che avevo nell’anima...
Disegnai alla cieca molti occhi spalancati che mi guardavano minacciosi. Pastrocchiai un po’ dappertutto, anche sul tavolo e sul pavimento. Scrissi il mio nome tantissime volte e disegnai anche i simboli di quel macabro ordine. Disegnai il simbolo buono di Metratron, il simbolo che mia madre odiava, e il simbolo cattivo di Samael, che mia madre adorava e che io odiavo.
Disegnai anche il demone, Samael nei miei sogni: un mostro volante con la faccia di capra e col corpo di donna.
Scrissi parecchie volte frasi poco amichevoli su mia madre e sull’Ordine e ci sputai sopra, disprezzante della sua vendetta.
Poi, sulla porta scrissi a caratteri cubitali: PAPA’, VIENI A SALVARMI.
Non potevo ammirare la mia opera per via dell’oscurità ma sicuramente ne sarei stata soddisfatta.
 
 
I giorni passarono lì, in quella buia stanzetta nel sotterraneo.
Mamma passava ogni mattina solo per lasciare sul pavimento un bicchiere d’acqua e una fetta di pane raffermo. Quello era stato la mia colazione, pranzo e cena per tutta la giornata.
Il pavimento scarabocchiato era diventato il mio letto.
Non vedevo la luce del sole da settimane.
Quella era la punizione, lo sapevo, ma non demordevo anche se mi sentivo spossata, debole ed affamata.
Pensavo che conclusa la scuola avrei vissuto l’estate in pace... e invece... dalla padella alla brace.
Anche la voce stava dando i primi segni di cedimento, anche perché sottoterra faceva parecchio freddo: avevo cercato di canticchiare qualcosa, una filastrocca o una ninnananna, per allietare un po’ quei momenti bui e oscuri, ma dalla mia gola usciva solo un mormorio spento e triste.
Volevo uscire... eppure restavo buona e calma...
Per quanto sarebbe andata avanti questa situazione?
Iniziai ad auto lesionarmi con la punta del pennarello scarico procurandomi graffi e cicatrici sulle braccia; avevo bisogno di parlare, di correre, di respirare aria pulita.
 
Per quanto ancora...?
 
 
- Allora, come va nel tuo “mondo”, Alessa? – chiese sarcastica mia madre da dietro la porta – Ne hai abbastanza?
Ero stesa sul pavimento. Feci forza sulle mani e mi spinsi in avanti come un verme.
Ero debolissima. Non riuscivo a stare in piedi.
Avevo perso il conto dei giorni passati là. Dovevano essere passate intere settimane dal compleanno di Claudia.
Arrivata strisciante accanto alla porta, tirai su la mano destra e detti un colpetto leggero al legno, comunicandole che ero viva... ancora.
 - Sbalorditivo – sussurrò.
Respiravo aria viziata e il mal di testa era lancinante. Dovevo uscire.
- Vuoi uscire, lo so – disse mia madre – Ma ad una condizione.
- No – gemetti. In quella Chiesa non volevo più entrarci.
- Ascoltami! Voglio... devi sapere una cosa... tu esci da qui se prometti di ascoltarmi, almeno adesso.
Qualunque cosa, purché non sia il rito, per una boccata d’aria nuova!
Aprii la porta. Eccola la luce.
Quanto mi era mancata.
Ero ancora a terra, la faccia sul pavimento.
- Forza! Alzati. Ti aspetto nella tua stanza.
Se ne andò.
 

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Capitolo 18
*** Un Nuovo Mondo ***


UN NUOVO MONDO
 
 “Quello che abbiamo fatto a quelle ragazze è sempre stato fatto, sin da tempi antichissimi a Silent Hill. Può sembrarti una malvagità, lo so. Ma non sarà la compassione di una bambina insulsa come te a far cambiare idea a tutti noi”.
Erano queste le parole della mamma che continuavano a rimbombare nella mia testa, come un eco infinito. Mi aveva fatto una bella ramanzina, una volta salita nella mia camera, per il mio comportamento impulsivo e ribelle che dovevo, secondo la sua opinione, sopprimere per fare spazio a cose molto più importanti e reali. Solo in questo modo, diceva, il sacrificio di quelle ragazze non sarebbe avvenuto invano.
“Smettila di vivere nel tuo Paese delle Meraviglie e affronta la realtà a testa alta”.
Perché?
La sola colpa di quelle ragazze... era essere sé stesse? Morte per il solo fatto di essere nate?
Mia madre sembrava convinta di sì.
 
Si fece sera.
Ero nella mia camera, a contemplare la mia collezione d’insetti, quando si affacciò mamma sull’uscio:
- Pronta? – chiese calma.
Mamma, ancora non hai capito? Io in quel posto non ci metterò mai più piede.
Comunque, feci la vaga:
- Pronta a cosa? – dissi senza guardarla.
- Lo sai benissimo – rispose scontrosa – Al rito, forza!
- Te lo sogni!
Avevo sputato fuori quella frase sprezzante e senza paura.
Mia madre fece qualche passo verso di me:
- Cosa? – chiese come se non credesse alle sue orecchie.
- Io non vengo – dissi secca.
Silenzio.
- Stai scherzando? – chiese accennando un sorriso.
Scossi la testa.
- Tu verrai! – affermò la donna alle mie spalle.
- Mai più.
Crac!
Il vetro della piccola bacheca appesa al muro, che conteneva due bellissime farfalle colorate, andò a pezzi: mi stavo agitando.
- Ti piace avere il “potere” di decidere, vero? Avevo proprio ragione: ti ho educata male. Ma brava! Rimani a casa. Stai facendo un torto a quelle ragazze, ricordalo – sussurrò spietata.
Si voltò ed uscì dalla stanza, chiudendomi a chiave.
- Sono morte per te! E come le ricambi tu?!
Si allontanò.
Erano morte per me?
Le sue solite bugie persuasive.
Non mi faceva cambiare idea.
Mi alzai dalla sedia per iniziare a camminare avanti e indietro per tutta la stanza, nervosa e arrabbiata.
- Bugie e bugie... sette anni di bugie... – continuavo a sussurrare a me stessa.
Era strano: mamma non mi aveva obbligato più di tanto ad andare al rito; che stesse escogitando qualcosa? Probabilmente stava pensando ad una punizione ancora più dura ed esemplare.
 
Click!
La porta si aprì, come per magia.
Eppure non ero stata io, ne ero sicura.
- Tanto meglio – sussurrai – Sono libera!
Mi sentiva sola. Avevo bisogno di parlare con persone che sapevano davvero ascoltarmi e capirmi. E, in quella casa, solo un riflesso incantato era in grado di comprendere ciò che sentivo dentro.
Prima ancora di posizionarmi davanti al grande specchio, la chiamai a gran voce:
- Riflesso! Riflesso, vieni! Ho bisogno di parlarti.
Ma arrivata nel bagno, rimasi sconcertata da quello che vidi riflesso: io ero... ero bellissima, con gli occhi grandi e blu, le guance di un rosa acceso e i capelli lunghi e pettinati bene.
Quella non potevo essere io, anche se seguiva alla perfezione tutti i miei movimenti!
Ma non era l’altra me!
Ero davvero io, quella bambina riflessa?
Impossibile!
Mi toccai il viso... anche lei lo fece.
Perché avevo i capelli lunghi? Erano corti!
Passai una mano sulle spalle e li sentii, lunghi capelli pettinati e neri che cadevano mossi sulla mia schiena.
- Incredibile... – sussurrai pietrificata.
Ricordavo benissimo di essere stata rinchiusa nel sotterraneo con i capelli corti! E adesso...
La mia pelle sembrava emanare luce propria, nel riflesso.
Ero io, questa volta, ad essere bellissima.
Mi feci avanti, cercando di entrare nello specchio, come stavo facendo qualche settimana fa, ma niente: sembrava un normalissimo specchio.
Rimasi là, a guardarmi, per quasi mezz’ora. Mi piaceva essere così bella.
Sentirsi potente e bellissima erano sensazioni inspiegabili, in quel momento.
Mamma non m’avrebbe più fatto paura.
Ero “nuova”; la piccola e indifesa Alessa era morta, per lasciare il posto ad un’Alessa che non aveva paura di rispondere a sua madre, una nuova bambina.
Risi tanto davanti alla mia immagine.
Non ero più in me.
Ma era bellissimo sentirsi finalmente rinati.
Stavo impazzendo?
Può darsi.
 
- Alessa! Alessa!
Un grido in lontananza mi fece bruscamente tornare alla realtà.
- Alessa! Affacciati, dai!
Claudia! Riconoscerei la sua voce tra mille.
Corsi via dal bagno alla finestra più vicina; la aprii e mi sporsi fuori.
Riconobbi subito la sua folta chioma bionda.
Ma che ci faceva fuori da sola, a quell’ora?
- Claudia! Torna a casa! Se tuo padre... – la avvertii.
- Non preoccuparti. E’ fuori città per ora – disse la bambina.
- Cosa vuoi?
- Volevo ringraziarti... per il biglietto – esclamò tirando fuori il bigliettino d’auguri.
- Era l’unica cosa che potevo fare in quel momento...
- Ma mi è piaciuto un sacco, Alessa. Lo conserverò per sempre!
Sorrise.
- Perché non vieni più al rito? – chiese.
- Perché quel posto mi fa paura e orrore – dissi semplicemente.
Claudia pregava molto. Non volevo rovinarle la vita raccontandole ciò che avevo visto.
Restò zitta, non capendo.
- Mi dispiace. Infatti sentivo papà dire cose del genere su... – ricominciò Claudia, per poi fermarsi di scatto.
- Credo di essere nei guai, Claudia. Guai seri – dissi solenne – Non credo potrò uscire a giocare presto con te.
- E allora quando vengo io a giocare con te, Alessa?
Quanto era ingenua!
- Non... non venire, ti prego.
Lo dissi amaramente. Mi piangeva il cuore pensare che forse non sarei più riuscita a riabbracciare Claudia e giocare con lei.
- Non puoi dire sul serio! – esclamò – La Santa Madre ascolterà le tue preghiere e ti farà uscire a giocare.
Scossi la testa rapidamente.
Conoscendo la mamma, se continuavo a rifiutare di partecipare ai riti, mi avrebbe negato l’opportunità e la libertà di uscire di casa.
- Non può fare niente Lei per me, Claudia. Vai a casa, adesso.
- E quando ti rivedrò?
Aveva la voce rotta dal pianto che cercava di trattenere.
Non parlai. Non volevo nutrirla di false speranze.
- Io verrò ancora! Per il tuo compleanno, per esempio! Non m’importa! – gridò, liberando le lacrime.
Scappò lontana da casa.
Povera Claudia.
L’avrei rivista per il mio settimo compleanno?
 
Mamma continuava a cercare di convincermi di partecipare ai riti. Povera illusa! Rifiutavo categoricamente di seguirla e di pregare.
Lei sembrava, ogni giorno, sempre più nervosa e arrabbiata.
Come mi sentivo felice!
Spesso, quando lei non era in casa, scappavo.
Una notte raggiunsi il teatro di Silent Hill e assistetti alle prove di uno spettacolo: La Tempesta di Shakespeare. Fu davvero bello osservare gli attori danzare e contorcersi con quegli strani costumi – anche un po’ paurosi – senza pensieri e preoccupazioni, attenti solo a rispettare le proprie battute.
Come li invidiavo!
Io vivevo con l’angoscia e la paura per il domani.
 
La tristezza invadeva le mie grigie e spente giornate, in casa, molto spesso sola.
Il riflesso era scomparso, adesso c’ero solo io.
Sola.
Come sempre.
Ricominciai a chiudermi sempre più in quello che mamma definiva “il mio mondo”, disegnavo e leggevo per far passare il tempo e arrivare, di sera, a urlare con mamma rifiutandomi di prendere parte ai riti. Quello era il mio universo, la mia Silent Hill.
 
Il mio compleanno arrivò troppo velocemente.
Mi svegliai presto quel dì, triste più che mai.
Sapevo che i bambini, il giorno del loro compleanno, si alzano col sorriso sul viso e piombano giù dal letto ad abbracciare il papà e la mamma; organizzano una festa di pomeriggio e invitano gli amici a fare merenda e a giocare, poi scarta i regali felice come non mai.
Perché tutto questo non mi era mai accaduto? Ero sicura che non sarebbe mai capitato...
Mai un regalo, o una festicciola...
Perché?
Allora ero davvero diversa!
Forse...
Mi stiracchiai sbadigliando e mi diressi verso la scrivania; osservai i vari disegni del giorno prima e ne afferrai uno: io e mamma, sorridenti, per mano.
Ci scrissi sopra un TI VOGLIO BENE, e lo piegai a formare un aereo.
Ero rimasta sveglia quasi tutta la notte a progettare questo: io volevo davvero recuperare il rapporto con mia madre. Dopotutto era la donna che mi aveva messa al mondo! Le ero riconoscente di questo.
Lei mi aveva cresciuta, m’aveva visto sorridere per la prima volta... era stata la prima a prendersi cura di me... forse l’unica. Era la mia mamma. Non potevo negarlo: avevo bisogno di lei.
Erano giorni interi che non la guardavo in faccia, sentivo solo la sua voce aldilà della porta.
Sì dovevo farlo...
Ma poi... quella ragazza nella mia testa... le sue urla d’agonia...
Era la mia mamma... ma aveva ucciso tante e tante di quelle bambine.
Sapeva lei che aveva spezzato il cuore di tante altre madri che non avrebbero visto mai più le loro figlie? Potevo perdonarla? Sì... no...
Mi sentivo divisa all’interno.
Una parte di me voleva la sua approvazione e il suo affetto.
Un’altra avrebbe tanto voluto vederla bruciare al posto di quelle ragazze.
Era qualcosa che mi faceva star male.
Il mio riflesso non l’avrebbe perdonata.
Ma io volevo stare con lei. Senza quei riti.
Solo e soltanto con lei.
 
 
Dovevo farlo!
 
No!
 
Sì invece!
 
Scesi lentamente le scale, dopo aver aperto la porta col pensiero.
- Calma, Alessa – sussurrai piano – Tanto perdonerei mia figlia se facesse una cosa del genere.
Arrivai dove di solito usava sedersi mia madre.
La vidi.
Anche lei mi vide, ma non disse niente.
Gli lanciai l’aereo vicino e poi scappai di nuovo sopra.
L’aveva letto?
Quasi piangevo di felicità e di coraggio per quello che avevo appena fatto!
Tornata in camera mi sedetti e aspettai che succedesse qualcosa.
Dopo pochi minuti la sentii avvicinarsi.
- Ci siamo! – sussurrai.
Aprì la porta, affacciandosi.
Mi precipitai su di lei, a braccia tese... e l’abbracciai.
Forte.
Com’era bello, sentire quel calore umano invadermi le braccia e il petto.
La mamma era immobile.
- Buon... compleanno... Alessa – disse piano, con voce fioca.
- Oh, mamma scusami!
Perché? Cos’avevo fatto? Ero davvero una stupida! Chiedevo scusa per qualcosa che non avevo fatto!
Maledetta!
Doveva essere lei a chiedermi scusa per quello che avevo passato!
- Forse... dovrei spiegarti... qualcosa – disse incerta.
Strofinai la fronte contro il suo petto:
- Oh, mamma! Non...
Non riuscivo a parlarle.
 
Sciolto l’abbraccio, si sedette accanto a me sul lettino.
- Sai perché è successo tutto questo?
- No, mamma.
- Perché non ti ho mai detto la verità... eri piccola, non potevi capire. Ma adesso...
Cosa?
- Quelle bambine sono morte per... un qualcosa di superiore...
Superiore?
- Noi La cerchiamo. Devi capirci.
- Chi?
- La Donna. E loro non lo erano... e sapevano troppo. Troppo.
- Non m’importa. Adesso non pensiamoci. Mamma...
Non volevo più sentire parlare dell’Ordine.
Avevo perdonato tutto.
 

Forse...
 
 

 
 

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Capitolo 19
*** 20 Giugno 1976 ***


20 GIUGNO 1976
 
Le lacrime e l’indifferenza per la vita avevano lasciato il posto al dolore dell’anima e alla sofferenza interna di quel periodo.
Odiavo me stessa con tutto il cuore: l’avevo perdonata... e ora? Cos’altro mi restava da fare? Stare lì, seduta sul letto tutto il giorno, cercando di non immaginarmi mia madre come un’assassina di bambini? Anche io ero una bambina. Come poteva guardare i volti di quelle ragazze che bruciavano, solenni, per un bene superiore?
Io non avevo ancora dimenticato quell’orribile scena. Quel corpo... lo rivedevo bruciare nei miei incubi e cercare di afferrarmi per portarmi nel posto in cui era diretta.
L’inferno?
Mi sentivo inutile in quella casa.
Ma non piangevo più.
C’erano cose migliori per cui piangere.
Il giorno del mio compleanno Claudia non si fece vedere.
Allora sì che piansi.
Piansi perché ebbi l’oscuro presentimento che non l’avrei rivista presto.
 
E le giornate diventavano monotone e lunghe. Mi esercitavo, sempre più, a controllare i miei poteri.
Scoprii per caso di possedere l’abilità di controllare l’acqua, e riuscivo qualche volta ad ascoltare i pensieri della mamma. Mi capitò, un giorno, inavvertitamente, di levitare di qualche centimetro da terra e di riuscire a parlare con le farfalle che, come per magia, tornavano a vivere ogni volta che lo desideravo e che morivano tutte le volte che finivo di parlarle.
Dovevo essere concentrata per dare libertà ai miei poteri, oppure dovevo trovarmi in una condizione di stress o di tensione e paura.
Non era difficile. Bastava formulare il pensiero nella mente e il gioco era fatto!
Avrei tanto voluto insegnare tutto questo a Claudia.
Ma qualcosa mi diceva che era meglio tenere tutto questo con me, fino alla fine.
E forse era giusto.
Ma mi faceva stare male tenere tutto quello che di speciale possedevo dentro di me.
 
 
 
20 Giugno
 
Il giorno dopo il mio compleanno.
Avevo la preziosa spazzola d’argento nelle mani. Mi stavo pettinando. Cielo, quanto mi era mancato questo piccolo gesto quotidiano! Era davvero rilassante, stare seduta davanti allo specchio a curare il mio corpo. Mi specchiavo, canticchiando, e mi ammiravo per quella che ero. Inutile chiamare il mio riflesso, oramai scomparso: adesso sembravo molto più bella dell’altra me. Qualcosa... mi aveva fatto diventare così. Ma cosa?
Continuai a spazzolare i lunghi capelli neri, con dei gesti quasi automatici e involontari.
Sentii un brivido lungo la schiena. Un lungo brivido gelato.
Poi mi sentii afferrare, come da una mano invisibile, dalla spalla destra.
Mi fermai.
In silenzio fissai lo specchio: non c’era nessuno dietro di me.
Ma non me lo ero immaginato!
Posai delicatamente la spazzola e mi guardai intorno.
Sentii una risata.
- Chi c’è? – dissi con voce tremante a nessuno in particolare.
Mamma era al piano di sotto e la voce non era sua!
Uscii subito dalla stanza, tornando nella mia cameretta di corsa.
Ma la porta era chiusa.
- Cosa... ? – sussurrai – Apriti!
Niente. Restava immobile.
Buio.
Tutte le luci si spensero contemporaneamente, lasciandomi nell’oscurità totale.
Provai a raggiungere mamma al piano inferiore... ma le scale erano sparite, inghiottite dalle tenebre.
Restai a bocca aperta.
- Mamma!- urlai invano.
Vedevo una luce.
Sì, uno spiraglio di luce.
La raggiunsi in fretta, ansimando per l’affanno e la paura.
Sentivo le orecchie fischiare... un suono metallico... come il dondolare di una vecchia altalena... mi faceva venire la pelle d’oca.
Raggiunsi la luce per trovarmi... ancora nel bagno. Era illuminato.
Ma vuoto... ad eccezione del grande specchio.
Ma non poteva essere il mio specchio. Non riproduceva la realtà!
Le pareti del riflesso erano incrostate di sangue e il pavimento sembrava fatto da ferro arrugginito.
Mi stava venendo da vomitare!
C’ero anche io nello specchio.
Mi stavo spazzolando i capelli.
La mia pelle era bianca come la neve... un pallore quasi mortale.
I miei vestiti erano macchiati di sangue, come le mie mani.
Le labbra erano di un rosso innaturale e gli occhi erano spalancati.
Guardava verso di me, ma sembrava vedere qualcosa che io non potevo osservare.
Le sue mani si muovevano con una velocità sovrannaturale, non umana.
Gridai.
 
 
- Ahh!
Avevo aperto gli occhi.
- E’... stato il peggior incubo della mia vita... – mormorai, mettendomi a sedere ancora sconvolta.
Nessuno specchio. Le luci erano tutte accese.
Solo uno stupido ma spaventoso incubo.
Mi stropicciai gli occhi assonnati  e mi guardai intorno. Un nuovo giorno...
Mamma...
La sentii arrivare e subito aprii la porta col pensiero.
Si affacciò sull’uscio e mi guardò:
- Cos’hai deciso? – disse semplicemente con tono piatto.
Si riferiva alla Chiesa e al rito.
Sapeva già la mia risposta... ma non rifiutava mai di chiedermelo.
Scossi la testa, rimettendomi stesa e guardando le crepe sul soffitto. Non volevo guardarla negli occhi.
Silenzio. La porta si chiuse delicatamente dietro di me e mamma scese le scale.
Se ne era andata.
Ero sola ancora.
Ma ci ero abituata, purtroppo.
Avevo la casa tutta per me.
Vestita, corsi giù e uscii all’esterno e, seduta sull’erba, osservavo il via vai delle automobili.
Raccolsi qualche fiorellino e qualche filo d’erba e ne feci una bellissima coroncina floreale che posi sul mio capo. Afferrai un rametto abbastanza lungo e dissi alla strada:
- Ecco, la regina di Silent Hill. E voi, forestieri, come osate invadere il mio regno? Manderò il mio esercito a sterminarvi, insieme a tutti i rivoltosi e i ribelli.
Mi piaceva molto giocare alla “Regina”. Mi sentivo potente come non mai in quel ruolo.
- Vostra Maestà, mi conceda l’onore di questo ballo! – esclamai mettendomi in piedi lasciando lo “scettro” per terra.
Sentii come un carillon risuonare nella mia testa; una musica rilassante e dolcissima.
Feci finta d’avere davanti un bellissimo cavaliere.
Feci una piccola riverenza e cominciai a danzare regalmente con “lui”.
Eppure sembrava così vero. Era fantastico.
Volteggiavo e roteavo elegantemente senza sosta, sorridendo.
Come mi divertivo nel mio universo.
Il vento nei capelli e il sole su viso... mi erano mancati troppo, chiusa in quel lugubre sotterraneo.
Sentire di nuovo gli uccellini cinguettare felici era un’emozione inspiegabile.
Perché rinchiudersi in quella Cappella, se il mondo era così bello e invitante?
I grandi proprio non li capivo!
Perché stare là, ad uccidere e portare morte nei cuori della gente, e a pregare la venuta di un Paradiso che non volevo più?
Se per Paradiso intendevano un luogo raggiungibile solo con il sacrificio di povere bambine, preferivo l’Inferno!
Perché pregare quel Samael, quel “Dio”, che tanto non ascoltava neanche le preghiere di me, una bambina sola e spaventata?
Non credevo più a tutte quelle cose!
Io volevo vivere senza questo peso sulle spalle!
Avrei dato di tutto per lasciare questa città con la mamma, dimenticarci dell’Ordine e vivere da qualche altra parte.
Via da Silent Hill... avrei dovuto dirlo a mia madre... un giorno...
Ma non ne avrei mai avuto il coraggio, probabilmente: non riuscivo nemmeno a guardarla negli occhi.
 
Non chiusi occhio quella notte. Il solo pensiero di tornare nel mondo degli incubi mi dava il mal di testa.
Non volevo più sognare cose del genere.
Chissà come doveva essere... sognare cose belle.
 

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Capitolo 20
*** Il Cerchio Magico ***


IL CERCHIO MAGICO
 
Fu la mattina del 21 Giugno.
Come previsto non ero riuscita a dormire; ero rimasta stesa a guardare le mie farfalle appese alla parete. Ad illuminare la stanza solo una piccola candela che si era spenta producendo una quantità di fumo immensa, che aveva inondato la mia cameretta facendomi prudere il naso per tutto il tempo.
Avevo scarabocchiato un po’ per far passare il tempo e avevo creato un piccolo quaderno dei disegni con tutte le mie opere più belle.
Alle prime pagine c’ero disegnata io insieme a Claudia, mano nella mano, sorridenti. Poi c’era la mamma, anche lei sorridente, e papà. Sapevo benissimo di non conoscere il suo vero aspetto ma me lo ero sempre immaginato bello, alto, molto simile a me... e felice.
L’avevo disegnato vicino a me, seduto su un verde prato. Io ero al suo fianco, con una margherita in mano. Sarebbe stato proprio bello avere un papà; ma non come Leonard! Volevo immaginarmelo gentile, comprensivo e... sorridente. Tutto il contrario della mamma. Chissà come hanno fatto a conoscersi...
 
Verso l’alba, uscii dalla stanzetta e mi lavai per benino, cercando di non guardarmi allo specchio e di non pensare a quello spaventoso incubo. Poi scesi verso la cucina, per mangiare qualcosa: sgranocchiai qualche biscotto e bevvi un grande bicchiere di latte, poi mi sedetti rilassata su una delle sedie più comode e osservai fuori dalla finestra.
Dal silenzio tombale, dedussi che la mamma non era in casa. Meglio.
Eppure, vedevo alla finestra delle figure arrivare dal bosco fuori città; erano due figure, si stavano avvicinando. Verso di me, verso casa.
Rimasi là, a contemplare quelle due piccole ombre diventare sempre più grandi e definite.
Riconobbi subito il profilo della mamma; era seguita da una piccola ombra... l’ombra di un bambino.
Pensai subito a Claudia... ma non era lei... non aveva i capelli lunghi...
Ben presto, mamma e il piccolo ospite entrarono in casa.
L’ospite si rivelò essere quel noiosissimo Walter Sullivan, l’orfano.
- Cosa ci fai, in piedi? – chiese mamma, leggermente sorpresa di vedermi in piedi.
- Perché? Non posso...? – dissi nervosa.
- Fila in camera tua! – urlò.
Vidi Walter ridere sotto i baffi. Piccolo mostriciattolo!
Corsi verso camera e mi chiusi a chiave.
Ora, chissà cosa avrebbero fatto loro due?! Quando Walter entrava in casa, potevo anche sparire! Mamma aveva occhi solo per lui. Ah, già! Perché lui dovrebbe essere il Prescelto! Ah! Il prescelto dei piagnucoloni! A suo confronto, io ero inutile feccia?! Io avevo i poteri! Lui no!
Crac!
Il vetro di uno degli espositori delle farfalle si ruppe, ma non cadde a pezzi: una grossa crepa divideva i poveri insetti stecchiti.
Uffa! Di nuovo io!
Ero sotto stress! Ero nervosa. Ed ero “esplosa”.
- Devo imparare a controllarmi – dissi prendendomi la testa fra le mani – Ma non ci riesco! Come si fa!?
Spostai lo sguardo sulla sedia, che iniziò a ballare e roteare su se stessa, come una trottola.
“Ferma” pensai, ma quella continuava la sua danza. Forse ero ancora nervosa...
Le gambe della sedia producevano un frastuono pazzesco.
... Mamma!
Cercai di bloccare il mobile in tutti i modi: provai a sedermi sopra, col risultato di finire a terra; cercai di bloccare l’incessante rumore ma era impossibile. Così mi concentrai: chiusi gli occhi e pensai intensamente “Fermati!”.
Bam!
La sedia atterrò con un pesante tonfo sul pavimento.
C’era qualcuno sull’uscio della mia stanza.
- Cosa stai facendo, Alessa?
Era Walter. Mi guardava abbastanza spaventato. L’avevo sorpreso.
- C-cosa stavi facendo? – ripeté, tremante.
Gli voltai le spalle e restai zitta. Che ne voleva sapere lui?!
- Lo dico alla tua mamma! – continuò il biondino.
Voleva fare la spia, eh?
- Mamma già lo sa, impiccione. Fatti gli affari tuoi, adesso, e lasciami in pace! – dissi scontrosa.
- Veramente è stata tua madre a dirmi di controllarti! – si difese Walter – E poi, vuole che ti dica una cosa!
- E perché non viene lei?
- Forse perché è impegnata!
Impegnata?
Mi voltai verso di lui, con sguardo interrogativo.
- Vai giù – disse il bambino, incrociando le braccia.
Cosa mi stava nascondendo?
Corsi fuori dalla cameretta, spingendo via Walter, che bloccava la strada.
- Ehi! – esclamò quando si ritrovò a terra.
Gli feci una linguaccia e scesi da mamma, velocemente.
Rimasi a bocca aperto quando arrivai in cucina.
Il piano terra di casa mia era completamente invaso da... bambini?!
Non si riusciva neanche a camminare! Dovevano essere almeno una cinquantina di ragazzi e ragazze, sparsi per tutta la casa. Tutti indossavano la mia stessa tunica bianca.
Ero, a dir poco, pietrificata.
Scorsi mamma, bloccata anche lei da quella strana folla.
- Mamma! – chiamai, ma i bambini producevano un chiasso infernale – Mamma! Sono qui!
Lei mi vide e fece un cenno con la mano.
- Permesso! Fatemi passare! – dissi a tutti quelli che mi bloccavano la strada verso mia madre.
Mi sentii tirare per un braccio e mi lasciai trascinare, per ritrovarmi davanti a Leonard.
- Tua madre è qui, mocciosa! – mi disse nell’orecchio, per poi spingermi verso l’uscita, dove c’era la mamma con altri signori che non avevo mai visto.
- Mamma ! Cosa succede? – dissi raggiungendola.
Lei mi quadrò da capo a piedi ed esclamò:
- Walter non ti ha avvertito?! Perché non porti la tunica bianca?
Cosa? Di nuovo?!
- No! – gridai, puntando i piedi – Io non vengo al rito!
Un uomo esplose in una fragorosa risata:
- Ahahahah! Dahlia, e questa sarebbe tua figlia!? Ah!
Poi si aggiunsero gli altri:
- Capricciosa la piccola, eh?
- Dai non abbiamo tempo da perdere!
- La figlia della sacerdotessa che non partecipa alle funzioni? Bell’erede!
Mi sembrava di essere tornata a scuola. Tutti ad ingiuriarmi e a ridere di me!
Mamma lo sapeva benissimo: io non avrei mai più partecipato ai riti.
- Non capisci, Alessa? Non andiamo in Chiesa. Ti chiedo solo di partecipare a... questo. Poi andrai via, d’accordo? – disse mia madre, prendendomi il polso e stringendolo fortissimo.
Cosa dovevo fare?
Rifiutare per poi essere odiata a morte... o accettare e andare via dopo un poco?
- Magnifico – aggiunse un uomo alle mie spalle – Se tua figlia non adempie ai suoi doveri adesso... figurarsi quando crescerà!
- Zitto! – sibilò mamma, con uno sguardo che pareva di fuoco. Poi mi fisso, aspettando una risposta.
- Vengo – sussurrai scoraggiata.
 
Perché? Perché!? Io non volevo andarci!
Ma è stato più forte di me.
Adesso la mamma mi vorrà bene.
No! Non sarà questo a far cambiare la mamma.
Sbagliato! Credo che stia iniziando a capirmi.
Forse è una trappola.
O forse sta cambiando.
Sei ingenua.
Mamma...
La mamma non ti vuole bene, in realtà.
Cosa...?
Non preferiva Walter?
Forse... no!
Pensa quello che vuoi...
 
Leonard fece uscire i ragazzi in bianco e li condusse dietro casa, verso il bosco adiacente alla città. Io seguii mamma e Walter che si stavano dirigendo verso l’orfanotrofio del bambino: la Wish House.
C’ero già stata un paio di volte con mia madre e Claudia.
Era un “normale” orfanotrofio dove educavano i bambini alla macabra religione della mamma.
Avevo sentito, però, che i custodi erano davvero spietati e crudeli. Rinchiudevano i bambini in una specie di prigione e li lasciavano lì a marcire, se si rifiutavano di eseguire riti e sacrifici.
Meno male che non ero orfana!
 
Doveva essere primo pomeriggio quando, dopo essere entrata nella struttura, la mamma ci condusse verso gli alberi, verso Leonard.
La foresta, nonostante il sole, era buia e tetra, piena di ombre strane e alberi giganteschi.
Fummo condotti in una specie di ampia radura, dove trovammo il papà di Claudia con quelli strani tizi e quei bambini.
Notai che al centro dello spazio aperto ero stato scritto qualcosa... no, era stato disegnato qualcosa.
Mi avvicinai curiosa, lasciando dietro me, mamma e Walter.
Era un simbolo, scritto con quella che sembrava vernice rossa... almeno, speravo lo fosse.
Era un simbolo che conoscevo molto bene.
Mamma, durante i riti, lo chiamava Scaro Sigillo, o Sigillo di Samael.
Samael, il loro dio.
Il dio a cui avevo rivolto tante volte le mie povere preghiere... e che lui non aveva mai esaudito o ascoltato; il dio per cui cercavano la Donna; il dio che avrebbe purificato il mondo con le fiamme e che, con sua Madre, avrebbe aperto i cancelli del Paradiso.
Stupidaggini!
Delle strane rune erano disposte attorno al sigillo.
- Alessa, torna qua! – disse mamma.
- No, Dahlia! Lasciala avvicinare – disse Leonard.
Mi guardai attorno.
Nei volti di quei ragazzi, sereni e vestiti in bianco, mi sembrava di scorgere tutte quelle bambine che erano morte in quella Cappella. Loro avrebbero fatto la stessa fine delle altre?
Cercai Claudia...
Ma non c’era. Per fortuna. Non volevo le capitasse qualcosa di brutto.
 
Al centro del sigillo c’erano tre cerchi: il passato, presente e futuro.
Mamma disse che io dovevo posizionarmi nel cerchio del passato; Walter doveva raggiungere quello del futuro. Cosa significava?
Riguardava l’Ordine, sicuramente... mamma mi aveva ingannata?
I bambini bianchi, senza aspettare ordini, a differenza mia e di Walter, si disposero lungo l’ampia circonferenza e si presero per mano, chiudendoci in una specie di girotondo.
Walter tratteneva a stento le risate.
Non vedevo più Leonard e la mamma. Non mi sentivo molto sicura, lì in mezzo a perfetti sconosciuti.
 
Aspettammo che succedesse qualcosa. Anche Walter sembrava abbastanza confuso, anche se si comportava da scemo.
Poi all’improvviso, i bambini iniziarono a danzare, uno dietro l’altro, attorno a noi.
Il moccio setto iniziò a ridere sguaiatamente.
Non sembrava più se stesso.
Si buttò a terra, quasi rotolandosi dal divertimento.
- Alzati, idiota! – sussurrai, ma era molto lontano da me, non mi sentii. Grazie al cielo, si ricompose dopo pochi minuti.
Alcuni di quei bambini erano scomparsi.
Il numero dei danzatori si andava diminuendo.
In effetti era uno spettacolo abbastanza strano... e ridicolo.
Urlavano come pazzi e producevano strani suoni.
Credo siano in trance. Perché sei entrata nel cerchio?
Dov’era la mamma?
 
Dovevano essere passate un paio di ore.
Io ero seduta per terra e strappavo qualche ciuffo d’erba. Walter era sul punto di addormentarsi.
Mamma era ricomparsa e stava seduta su un masso. Sussurrava qualcosa. Probabilmente stava pregando. O stava solo impazzendo.
Le urla dei pazzi si erano spente, per lasciare il posto a strane lamentele, davvero lugubri e oscure, in una lingua strana.
Dei ragazzi erano caduti sfiniti, su alcuni simboli, a forza di girare in cerchio senza fermarsi mai. Nessuno li aveva spostati.
Se avevo capito bene, dovevano cadere sfiniti tutti.
Non ci volle molto a vederli svenire, in preda a strane convulsioni, sulla fredda terra.
 
Quando l’ultimo cedette, la mamma accorse. Si accasciò vicino a tutti quei ragazzi caduti in prossimità delle rune e esaminò i loro corpi.
- Possiamo andarcene? – chiese Walter alla mamma, aspettandosi una risposta. Lei non disse niente.
Ah!
- LEONARD! – urlò mia madre, esaminato l’ultimo ragazzo – Presto!!
L’uomo si fece subito vicino a lei.
Rimasero pietrificati, là, a guardare quello spettacolo piuttosto pietoso.
- Credo... – disse piano Leonard - ... che tu non debba più farla uscire di casa.
Chi?

Stanno parlando di me...

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Capitolo 21
*** La Prigione ***


LA PRIGIONE
 
 
Eravamo a casa, io e la mamma. Mi aveva chiuso a chiave nella mia stanza, come sempre, urlandomi di non uscire per nessun motivo. Non l’avevo mai vista così agitata e spaventata.
Qualcosa di quel magico cerchio doveva averla turbata.
Nel tragitto verso casa, fummo accompagnate da Leonard che aveva discusso con mamma per tutto il tempo. Parlavano di uno strano ospite in arrivo.
Era tutto qui?!
Gli adulti non riuscivo proprio a capirli.
Dicevano che era un forestiero, un impostore e un eretico. Era stato il Marchio a suggerirlo. O meglio, era stato quel ragazzino caduto sulla runa a suggerirlo.
Era stato davvero un macabro rito; era un qualcosa di così primitivo e strano... ma non faceva altro che accrescere la mia convinzione: quella religione aveva qualcosa che non quadrava.
Come facevano i grandi, più maturi e saggi di me, a continuare a praticare questo culto?!
Dovevano essere pazzi!
Tutti, tutti pazzi!
O mostri...
I mostri, nella favole, rapiscono le principesse. Solo il vero amore del principe azzurro può salvarle. Ma quelle bambine non avrebbero mai avuto nessun cavaliere dall’armatura splendente, pronto a battersi, per salvare le loro vite.
Io l’avevo, probabilmente, da qualche parte, nel mondo, fuori Silent Hill... il mio papà.
Lui mi avrebbe salvato, se fossi stata in pericolo.
Papà... lui non amava la mamma... ma amava me!
Altrimenti come sarei potuta nascere?!
 
Mamma sembrava non capirmi, chiusa nella mia stanza.
 
Sentivo molte voci provenire dal piano terra. Ma non potevo uscire, l’avevo promesso. Dovevo stare qui, buona, ad aspettare. Sì, ma cosa?
Stavano gridando parecchio.
Mi avvicinai alla porta e, accostato l’orecchio, cercai di capire di cosa stessero parlando.
- Non capisci?! Verrà qui!
- Ma ci vorrà tempo!
- Cosa importa! Potrebbe arrivare oggi, domani o tra cinquant’anni... ma arriverà! E sai per cosa!
Non capivo niente: l’ospite stava venendo a prendersi qualcosa?
- Sarà un eretico. Merita la morte!
Era Leonard Wolf.
Il vociare divenne sempre più confuso. Molte voci non le conoscevo.
- Dahlia, decidi tu.
- Ma siete impazziti? Deve essere una decisione comune!
- Stupidaggini.
- Ma non ci siamo mai sbagliati.
Click.
Involontariamente, avevo aperto la porta e, siccome mi ero appoggiata abbastanza pesantemente, finii a terra, fuori dalla mia stanza.
Ahia! Che male...
 
 
Bhè, adesso potevo avvicinarmi un altro po’ agli adulti; non dovevo farmi vedere, così mi sedetti sugli scalini e ascoltai quello che dicevano con più chiarezza.
- Mettiamo a rischio tutto! Tutto! – urlò un uomo dalla voce acuta.
- Ecco perché dobbiamo fidarci di ciò che è successo – rispose un altro dalla voce rauca.
- Dahlia... ? – disse una donna – Cosa... ?
- Dahlia? Dahlia?! – questo era Leonard – Perché lei? Sempre e solo lei! Possibile che tu debba essere interpellata per ogni singola decisione?
- Sono una sacerdotessa... – disse calma la mamma.
- E io? Solo perché facciamo parte di due sette diverse? – continuò l’uomo – Noi tutti adoriamo lo stesso Dio, ricordalo!
Silenzio.
Gli altri avevano capito, probabilmente, che era una questione tra l’uomo e mia madre.
- E tu ti ostini, Leonard, a portare quelle bambine ogni dannata sera! – gridò mamma.
- Cosa... ? Non dovrei... ?
- No! No! Mi hai messa nei pasticci per colpa di quelle ragazze!
- Lo faccio per i tuoi interessi. Per i nostri!
- Ammettilo: lo fai perché mi odi! Vedo la tua sciocchezza!
- Allora... lo ammetti! Ancora?!
- Sì, te lo dimostrai anche sette anni fa.
- Ti sbagli!
- Ma davvero?! Allora, ascoltami bene: prendi la tua marmocchia e nascondila; non permetterle di uscire di casa, rinchiudila da qualche parte e proteggila da questo straniero!
Ancora silenzio.
Stavano parlando di Claudia. Volevano rinchiuderla in casa? Era in pericolo?!
- Se davvero credi che tua figlia sia Lei, allora, ti conviene proteggerla! – continuò mia madre.
Lei?
Lei chi?
- Oppure dai luogo alla cerimonia per conto tuo! E non essere così clemente solo perché è tua figlia! E se si rivela essere la persona sbagliata, dovrai sacrificarla alla Madre di Silent Hill, proprio come abbiamo fatto per tutte quelle bambine! Tutte imperfette! Tutte indegne!
Mi portai una mano alla bocca. Non riuscivo a crederci.
Non potevano uccidere Claudia.
Dopo tutte quelle ragazzine, senza volto e senza nome, orfane o strappate alle proprie case e ai propri genitori, bruciate per chiedere misericordia ad un Dio, non avrei mai sopportato di vivere col pensiero di un’esistenza senza la piccola Claudia.
La folla era muta.
Leonard si fece sentire, dopo un po’, con voce fioca:
- Tu parli e mi dai ordini. Ma siamo pari. Fai come ti pare, donna; ma ricorda che anche tu non sei da sola, in questa grande casa.
La gente iniziò a bisbigliare.
- Sai come la penso, Dahlia? Penso che anche tu dovresti provare... – continuò.
Non era sola... perché c’ero io!
Adesso si stava riferendo a me.
- Pensa a tua figlia, Leonard – lo interruppe mamma.
- Giusto. E ti consiglio di fare lo stesso  – bisbigliò l’uomo.
Silenzio.
Poi, ad un tratto:
- Via! Fuori. Tutti!! – urlò mia madre – Parlatene in un’altra parte! Via!
Sentii le persone uscire, piano piano, fuori da casa mia; io mi affrettai a chiudermi in camera mia, e a far finta di non aver sentito niente.
 Dovevo cancellare dalla mia testa tutto quello che era appena accaduto.
Dovevo.
La mamma era entrata nella mia stanza, si era seduta sulla sedia, accanto al lettino. Io ero con la faccia sul cuscino... e aspettavo.
- Hai sentito tutto... – mormorò.
Non era una domanda. Lei sapeva.
- Faranno del male a Claudia? – dissi soffocando il suono sul cuscino.
- No. Non ne avrà il coraggio – disse calma mia madre.
Non volevo piangere, ma sentivo comunque le lacrime bollenti scendere sulla mia guancia e bagnare le lenzuola bianche. Ma non frignavo, no: era un pianto silenzioso.
- Chi sta arrivando? Chi arriverà? – chiesi piano.
- Un pazzo, un assassino... pronto a farci del male – rispose – Pronto a chiudere i cancelli della Gioia.
Uffa! Ancora con la storia del Paradiso...
- E chi è?
Mamma restò zitta: non lo sapevano neanche loro.
- Il Sigillo del Sole non ha mai mentito... ha detto che sarà un eretico... un po’ come te, Alessa...
Ero un’eretica?
- Tu... pensi sia una cosa malata... ma il mondo gira e la vita arriva e va via... ed è più strano di quanto tu possa mai immaginare.
Ma il mondo dava loro la possibilità di strappare via la giovane vita di povere bambine?
- La Donna deve essere trovata, Alessa. Ne va della nostra salvezza, e anche della tua. Tu non vuoi bruciare nelle eterne e roventi fiamme dell’Inferno, vero?
Cosa? No!
Scossi la testa, mettendomi a sedere e guardandola negli occhi.
- Ecco perché ci serve la Donna, che La porterà al mondo. La Donna che con le mani sporche di sangue ci spianerà il cammino verso l’Eternità e verso il vero Paradiso.
Tantissime volte avevo sentito questa frase. Ma adesso sembrava vuota e priva di significato... io non volevo il Paradiso raggiunto con la morte di innocenti.
- Ma è necessario, Alessa – disse mia madre – Non vuoi la felicità?
- Scuoti la testa.
Era là... ero là.
 
Dietro la mamma, mi guardava... mi guardavo.
Una bambina dai capelli neri e dagli occhi blu mi fissava. Immobile. Le labbra piegate in un leggero e furbo sorriso. La faccia era piena di sangue e sporcizia. Indossava il grembiule, anch’esso sporco di sangue.
Il tempo sembrava essersi fermato.
Il mio riflesso era tornato.
- Tu non vuoi la felicità.
- Ma voglio farla felice.
- Vuoi far felice un’assassina?
- E’ la mia mamma...
- Scuoti la testa. Tu non vuoi la sua felicità. Tu vuoi vendetta.
- No.
- Se non ora, in futuro. Pensa, pensa a tutto quello che ti è successo. Puoi fidarti?
- Lasciami!
- No...
 
No! No!
- No... – risposi.
Mamma sembrò sorpresa:
- Eppure, pochi mesi fa anche tu eri convinta che il mondo andasse purificato dai malvagi!
- No  – ridissi.
- Devo occuparmi anche di te, Alessa? – disse in tono minaccioso mamma, alzandosi dalla sedia.
Sorridile, tu non hai paura.
Sorrisi, io non avevo paura.
- Leonard ha ragione. Credo tu sia... nata per questo... – continuò.
Il suo sguardo si rabbuiò. Anche il mio.
Poi si fece vicina, accanto a me:
- Questa casa... sarà la tua prigione – sussurrò.
- Cosa... ? – dissi io, spaesata.
- Tu... non uscirai mai più da qui.
Mamma saettò via dalla mia cameretta, lontana da me. Cercai di raggiungerla, correndo, ma invano.
Mi chiuse a chiave, ancora, dentro.
Eppure sentivo che questa volta era diverso.
- Mamma!!- urlai.
Cosa avevo fatto?! Io volevo essere felice, con lei.
- Quella non ero IO! – gridai, battendo i pugni contro la porta – Mamma! Ti prego!
- Devo proteggerti. Sta arrivando lo straniero! – la sentii mormorare.
- Mamma!! Non ero io, mamma! Non ero in me!
Era diverso... stavolta.
- Ecco perché devo proteggerti... va’ a pregare adesso, ti servirà! – disse a se stessa.
Si allontanò.
- Mamma! Voglio stare con te mamma!
La sentivo dietro di me, c’era “lei”.
Le mani sporche di sangue si posarono sulla mia spalla.
- Mamma!
 
 
 

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Capitolo 22
*** Il Liquido Della Vita ***


IL LIQUIDO DELLA VITA
 

 
Mi stavo solo immaginando tutto, o era la realtà? L’altra me, sanguinosa e malvagia, non era dietro di me, eppure sentivo ancora la puzza di sangue. Per quanto mi sforzassi non riuscivo ad esercitare più i miei poteri; mi sentivo svuotata, priva d’anima.
Continuavo a colpire e calciare quel maledetto pezzo di legno che mi separava dal mondo.
- Mamma, ti prego! Voglio solo stare con te! – continuavo ad urlare.
Stavo perdendo la voce a furia di strillare.
 Non sentivo nemmeno lei.
Quanto tempo sarei rimasta là, chiusa, sola?
Non potevo immaginarlo.
Era stata davvero un pessima giornata; niente poteva andare peggio di così.
Leonard... chissà cosa avrebbe fatto alla povera Claudia. E chissà mamma cosa avrebbe fatto a me! Eravamo accumunate, io e la mia piccola e unica amica, da dei genitori estremamente religiosi, che ci hanno imposto di credere nella Santa Madre sin da quando eravamo piccine; ma credo che se avessimo avuto famiglie diverse saremmo state amiche lo stesso.
Tra me e lei... c’era una specie di filo... che ci univa e ci teneva strette l’una all’altra. Ecco perché soffrivo: volevo rivederla e parlarle ed ero sicurissima che anche lei lo desiderava.
Gli adulti non potevano comprenderle questo legame, e si ostinavano a tenerci separate.
E forse, adesso non l’avrei mai più rivista!
Solo il pensiero mi faceva salire le lacrime agli occhi.
E se fossi morta io? Avrebbe sentito la mia mancanza?
Forse solo lei.
Tutta la città mi odiava, io ero la strega, secondo loro; ma Claudia non era piena di pregiudizi.
 
Le mie forze si esaurirono molto velocemente. Restai, piangente, accoccolata sul pavimento, accanto alla porta che tanto avevo colpito. Avevo le mani piene di graffi e le ginocchia sanguinavano.
Sangue...
Il mio sangue colava copioso bagnando il pavimento.
Com’era rosso...
Il vestiti si erano sporcati.
Stavo ancora singhiozzando, agitata e confusa.
E come scendeva lento...
Aveva formato una bella pozza scura, per terra.
Mi ci specchiai dentro. Eccomi là, lo sguardo distrutto e gli occhi lividi. Non sembravo più io.
Mi sporcai le mani di quel liquido denso e bollente... e le ammirai.
Siamo fatti di sangue e carne; sentivo che molte persone avevano ribrezzo e terrore davanti al liquido vitale che mi bagnava le mani.
- Come possono aver paura di te? – sussurrai – Se hanno paura di te... hanno paura di loro stessi. La carne è bagnata dal sangue... hanno paura della carne? Della loro stessa carne? Io non ho paura di te...
Portai le mani, bagnate, sul viso.
Mi tinsi tutta la faccia di rosso e poi passai ai capelli, rendendoli appiccicosi.
Poi tinsi le labbra, quasi come se usassi un rossetto.
Il sangue continuava a colare, inesorabile... avevo una grande scheggia di legno conficcata nel polpaccio sinistro
Trovai l’odore del mio sangue abbastanza piacevole, stranamente.
Fu con quasi un gesto involontario che portai le mani ancora alla pozza per prendere un altro po’ di sangue; raccolto abbastanza liquido lo portai alla bocca e lo bevvi, come se fosse acqua.
Tossì un po’, non essendo abituata al sapore pungente.
Ma cosa importava?!
Ero completamente sporca di sangue.
- Loro hanno paura di te, vero? – mormorai con una voce che non sembrava la mia – Ora che sono coperta di te, tutti mi temeranno e mi tratteranno con ribrezzo. Il mio nome li farà tutti tremar di paura e le loro anime apparterranno a me!
Mi alzai in piedi, trionfante, con la scheggia ancora nel muscolo.
Alzai le braccia, come di solito faceva la mamma durante i riti.
Ma...
- Ma cosa sto facendo? – dissi, tremando.
Cosa stavo facendo?
Ero impazzita?
Ricominciai a piangere.
Perché? Qualche volta non mi riconoscevo, facevo cose che non avrei mai fatto! Io non avrei mai voluto ridurmi così! A me il sangue non piaceva!
Era come se, a volte, qualcosa prendesse il controllo di me.
 
Non ce la facevo più.
 
Mi rimisi a sedere per terra e mi tolsi i pezzi di legno dalla gamba, con immenso dolore; poi mi misi sotto le coperte, a letto, sporcando le bianche lenzuola, e cercai di addormentarmi.
 
 
Correvo, scappavo via da non so cosa.
Avevo il fiatone, correvo nell’oscurità.
Poi... la luce... e una bambina, simile ma, allo stesso tempo, molto diversa da me, che si dondolava senza sosta su un’altalena.
Ma non mi importava, dovevo scappare.
Una bambina che entrava in uno specchio d'acqua... ed un'altra, identica a me, che usciva dall'acqua.
Cosa significava?

Una donna, dai lunghissimi capelli rossi, che mi guardava altezzosa e cercava di avvolgermi in un mantello rosso.
Ma io mi divincolai: dovevo correre.
Un bambino nella culla che piangeva forte e un uomo incappucciato che lo prendeva in braccio.
Cosa... ?
Una ragazza che mangiava oggetti...
Che paura, ma io dovevo correre.
Cinque simboli, davanti a me.
 
Una stella a sei punte, l’amuleto di Salomone.
Ecco ciò che unisce il cielo e la terra, l’acqua e il fuoco, la donna e l’uomo, la vita e la morte, l’essere umano e la divinità.
 
Uno strano bastone con un serpente attorcigliato sopra, il bastone di Mercurio.
L’alchimia, la medicina,la morale, la scienza... la vita nell’uomo che avrà il potere di scatenare e porre fine al caos.
 
Un pugnale dorato e decorato con pietre preziose, il coltello di Melchiorre.
La violenza contro la fede. Una lotta continua nell’uomo, e molto spesso nessuna delle sue contendenti ne esce vincitrice.
 
Un talismano egiziano, l’Ankh.
La vita dopo la morte, il più grande mistero. Ecco perché l’uomo cerca l’eternità. Eppure, l’uomo ignora che l’eternità è a portata di mano, ogni alba ed ogni tramonto, al sorgere della vita e al tramontare di un’altra. Non sa, che l’eternità, come indica l’antico simbolo, è raggiungibile solo nel grembo materno.
 
E infine un serpente che si morde la coda, il disco di Ourboros.
Il giro senza fine: l’immortalità.
La rinascita.
Come il bruco che si addormenta e che ricomincia a vivere come una bellissima farfalla.
Un cerchio non ha fine, non ha inizio... come l’anima nel suo nuovo corpo, che vaga in cerca di pace, che ignora quando è nata e quando è morta, perché sa solo di essere viva in un eterno presente.
 
Questi... i cinque riti.
 
Dovevo scappare ma questi strani simboli mi bloccavano la strada.
Oh no, sono spacciata!
Mi voltai, per scoprire chi mi stava dando la caccia.
Una coltre rossa e gialla.
Un caldo insopportabile.
Le fiamme, alle mie spalle...
Cosa potevo urlare?
- Papà! Aiutami!
Dalle lingue di fuoco uscivano tante persone... tutte carbonizzate ma sorprendentemente vive, che si avvicinavano lente verso di me.
I capelli erano spariti, gli occhi erano più rossi del sangue e la loro pelle era nera.
Respiravano a malapena ed emettevano spaventosi rantoli.
Erano venuti per me.
Mi afferrarono e mi spinsero nell’incendio.
- Aiutami!!
 
 
Mi svegliai di soprassalto, la mattina seguente.
Che incubo spaventoso, avevo il batticuore.
Il cuscino era rosso, come tutto il letto, e la puzza era indescrivibile.
Avevo sangue rappreso ovunque ma non potevo lavarmi. Sentivo ogni muscolo facciale lottare contro il sangue che mi impediva la gran parte dei movimenti.
Dovevo sembrare un mostro.
 
Sentivo delle voci, poco lontane da me; mamma stava parlando con qualcuno, accanto alla porta della mia stanza.
Mi alzai e andai ad origliare cosa stavano dicendo.
- ... non capisci. Nessuno di voi capisce! Eppure ve lo dissi quasi sette anni fa! – disse la mamma.
- E questa è solo la conferma! – assentì il dottor Micheal Kaufmann.
- Spero tu sappia a cosa stiamo andando incontro, Dahlia! – disse piano un uomo di cui non riuscivo a riconoscere la voce – Se qualcosa non va per il verso giusto...
- Ve l’ho detto. Ho tutto sotto controllo – lo interruppe mamma.
Volevo parlare, farli smettere di discutere, ma non trovavo le forze.
Mi avvicinai ancora di più alla porta. La grande pozza del mio sangue della sera prima aveva lasciato una grande chiazza marrone sul legno.
- Allora siamo d’accordo? – chiese un altro uomo.
Ci fu un attimo di silenzio, poi mamma aggiunse:
- Sì, possiamo stare sicuri. Nessuno verrà mai a salvarla. Tanto meno, verrà mai un forestiero pronto a chiudere i cancelli del Paradiso!
Salvarla? Chi?
- Tu – continuò mia madre – sai cosa fare. E tu, Micheal, trova una bambina di circa sette anni, alta circa come lei, e... non so, organizzati con Leonrad e...
- Sarà difficile, Dahlia – la interruppe il primario – Lo sai quante ragazzine di quell’età di Silent Hill, abbiamo ucciso?
Mi venne da vomitare.
- Va’ fuori Silent Hill, allora! Non mi importa, trovane una !– urlò lei.
Cosa stavano architettando?!
Dovevo intervenire:
- State parlando di me, vero?! – urlai, con voce rotta dall’imminente pianto.
Silenzio.
- Fammi uscire!! – continuai.
Dovevo rivedere la luce del sole e dovevo respirare aria pulita; avevo anche fame.
- Andate via, tutti! – sussurrò lei.
Sentii gli altri scendere le scale e uscire di casa. Ora eravamo io e lei.
- Cosa volete fare?! – gridai – Mostri!!
- Non capisci – replicò mamma.
- Allora, fammi capire! – urlai – Volete ucciderci tutti!?
Rise:
- Tu sei perfetta. E non l’avevo capito.
Un brivido lungo la schiena.
- Verranno a salvarmi. Verrà lui a salvarmi.
- Chi? – chiese.
- Verrà Papà! – urlai.
Questa volta mamma esplose in una fragorosa risata:
- Oh, certo! Come no! Adesso vieni con me! Andiamo in Chiesa, sono stanca dei tuoi giochetti.
Aprì la porta ed io, caddi a terra, ai suoi piedi.
Mi afferrò per i polsi, velocissima, e iniziò trascinarmi, di pancia, verso l’uscita.
Io puntai decisa i piedi:
- No! – urlai.
- No? – ripeté lei, con uno sguardo strano.
 
 
 

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Capitolo 23
*** Vita Di Bugie ***


VITA DI BUGIE
 
- No! – dissi ancora, più convinta.
Lasciò andare i miei polsi, facendomi sbattere violentemente le mani sul pavimento. Ero a terra e lei, davanti a me, in piedi, m’osservava minacciosa.
- Perché ti rifiuti? E’ il tuo destino! – esclamò lei.
- Non voglio!
- Tu verrai con me!
Cerco di afferrami ancora, ma questa volta mi scansai giusto in tempo. Stavo sudando parecchio... e non era per il caldo.
- Ma che ti prende?! – urlò, evidentemente nervosissima – Qualche mese fa non avresti opposto alcuna resistenza e, da brava bambina, avresti fatto ciò che ti dice la mamma!
- Non capisci... – dissi, triste.
- La mamma capisce sempre i propri figli – replicò.
- Non è vero!
- Invece si. Io ti capisco. E so che sei perfetta, perciò verrai con me.
Indietreggiai, trascinandomi sulle ginocchia finché le mie spalle toccarono la parete.
- Da quando sei andata in quella maledetta scuola, non ti riconosco più! – disse forte, fissandomi – Ti hanno fatto venire in testa strane idee. Sapevo che non dovevo mandarti tra quella gente...
- Mi hanno fatto capire cosa sono! – urlai – Tu non me l’avresti mai detto!
- Ti avrei detto dei tuoi poteri quando si sarebbero manifestati apertamente!
- Bugie!
“Vedevo” le sue menzogne, affiorare nella sua mente e raggiungere la mia: le stavo leggendo nel pensiero.
- Vieni con me – disse più dolce, tendendomi la sua mano – Fallo per la mamma...
- Lasciami in pace! Quello che fate è orribile! – gridai.
Il viso della mamma cambiò bruscamente.
- Vieni con me – ripeté.
- No!
Si avvicinò a me e mi assestò un calcio nella pancia. Anche se era a piedi nudi, fece comunque parecchio male.
- Cattiva piccola peste!
Rimasi là, inerme.
- Io ti voglio bene, mamma – sussurrai.
Altro calcio, che mi tolse il respiro.
- Vieni con me, in Chiesa e poi ti vorrò bene anche io – urlò mamma.
 
Ma cosa fai?! Non vedi come ti tratta?!
E tu hai ancora il coraggio di dirle “ti voglio bene”?!
Ma cosa ti prende? Io so cosa pensi davvero di lei, Alessa.
 
- No... voglio stare qui...
Mamma si chinò e mi afferrò il braccio in una morso potentissima e dolorosa:
- Te l’ho già detto! Tu sei perfetta – sussurrò, cercando di essere convincente ma autoritaria.
- Non m’importa – dissi decisa.
- A me sì, invece – continuò.
Restai un po’ immobile, a fissarla, per scorgere anche un briciolo di lucidità nei suoi grandi occhi chiari... ma non la trovai.
Scossi leggermente la testa e abbassai lo sguardo.
Io ero perfetta... ? Per cosa?
- Lo faccio solo per proteggere la mia bambina da quell’eretico  – continuò mamma, sfiorandomi la guancia.
- Tutte quelle povere bambine... e Claudia... – mormorai.
- C’è un motivo...
- No! Siete tutti pazzi! – urlai.
Silenzio.
Un motivo?!
- Devo ammetterlo: forse, vedendole morire così, ti sei spaventata parecchio ma...
- Non farmi pensare! – la interruppi, con la vivida immagine mentale di quel corpo carbonizzato accanto alla Chiesa  – Quegli occhi... quelle povere vite...
- Se tutto questo non stesse per accadere... – disse mamma - ... se un giorno tu avresti preso il mio posto come sacerdotessa...
- MAI! – strillai in preda al terrore al solo pensiero di fare quei gesti macabri e terribili che facevano gli adulti.
- Effettivamente quello non è il tuo destino – sospirò – Ma non mi sarei mai aspettata di avere una figlia così disubbidiente...
No, non dovevo piangere!
Ma era così difficile resistere.
 
Non mostrarle le tue debolezze, Alessa.
Tieni duro e stringi i denti; presto questo senso di vergogna, tristezza e paura svanirà...
 
- Io non sono perfetta per niente! – esclamai, rannicchiandomi lontana da lei.
- Rifiuti il tuo futuro?!
- Sì... Ahia!
Uno schiaffo sulla guancia che prima stava accarezzando...
- Lo sapevo. Sei una vergogna! La figlia peggiore che potesse mai capitarmi. Rifiuti il volere di Samael! – urlò alzandosi.
Non l’avevo mai visto così fuori di sé.
Faceva davvero paura.
Io rimasi a terra, immobile.
- Non mi importa niente di Lui! Rifiuto il suo volere! – sputai fuori, con tutto l’odio che avevo celato per anni.
Sembrava che a mia madre stesse per venire un infarto.
- Vergogna! Blasfema! – gridò, con gli occhi fuori dalle orbite – Strega!
Anche lei adesso?
 
Troppo tardi, ormai...
 
- E’ Metratron! E’ lui! E’ dentro te! – continuò con le mani tra i capelli per la disperazione.
Metratron era un angelo, odiato dall’Ordine.
Metratron si era ribellato al volere del Dio ed era stato punito per aver cercato di fermare la Creazione del Paradiso. Conoscevo bene il Sigillo di Metratron, un sigillo malefico che impediva il compiersi del Suo destino.
Ora mamma pensava che fossi impossessata da quell’angelo “cattivo”.
- Metratron non c’entra, mamma. Sono io che mi oppongo – dissi calma, con la faccia rigata dalle lacrime, accennando un mezzo sorriso.
- Ma tu non lo sai, bambina mia. Non sai quando è dentro di te. E’ stata una tentazione... non hai pregato abbastanza!
Non capiva.
- No.
Si fermò.
 
- Lo sapevo... l’ho sempre sospettato. Ed ora ecco la prova. Sapevo a cosa andavo incontro, ma ora...
- Mamma... ?
Mi guardò dritta negli occhi:
- Dovevo ucciderti da subito, appena ti misi al mondo.
Cosa potevo fare? Cosa potevo pensare? Cosa... ?
Iniziai a tremare, ma le lacrime smisero di cadere.
- Papà non avrebbe mai pensato cose del genere – mi ritrovai a dire queste parole...
Mamma scoppiò a ridere, poi si butto verso di me e riprese a trascinarmi via.
- Vieni! Vieni con me! – insisteva.
- No!!
- Sei speciale! Lo sai anche tu. Voglio solo un briciolo del tuo immenso potere, lo sai benissimo.
- No! Non ho nessun grande potere! Quella che ho è telecinesi!
- Basta!
- E’ vero mamma! Anche altre persone possono farlo, l’ho letto...
- Cosa vuoi che me ne importi!?
- Lasciami!
Affondai le mie unghie nella sua mano destra e, per il dolore, mi lasciò, ancora una volta, cadere a terra.
- Maledetta! – urlò, rifilandomi qualche calcio – Non vuoi farmi felice? Te l’ho già detto: è per il tuo bene!
- Non è vero! – le risposi.
Il mio cuore accelerò i battiti a dismisura. Sarebbe successo presto qualcosa... ne ero sicura.
- Non pensare all’Ordine, Alessa. Pensa come mi potresti rendere felice! – esclamò.
Quella non era la mia mamma... non la riconoscevo più...
- Mamma, ti prego! Ascoltami – sussurrai pietosamente mentre mi misi in ginocchio con le mani giunte, cercando di non pensare al dolore allo stomaco.
- Cosa... ?
- Mamma! Mamma! Va bene, dimenticherò tutto! Il fuoco e il sigillo! Ma andiamocene!
Mamma era spiazzata.
- Andiamo via da questo posto; vivremo lontane da Silent Hill e staremo sempre insieme, lontane da questo inferno. Dimentichiamoci dell’Ordine e di tutto il resto. Solo io e te, mamma. Non chiedo altro che la tua comprensione.
Ripresi a piangere, silenziosa. Lei rise:
- Oh certo! – disse sarcastica – Mamma non aveva capito che volevi andare via da questa città! Ah! Povera illusa! Qui ci sei nata e qui morirai, Alessa.
Ricominciò a picchiarmi.
- Disgrazia!
- Mamma...
Quando finì, incrociai di nuovo i suoi occhi freddi come il ghiaccio. Lei continuava a ridere:
- Perché non me ne sono accorta prima?
- Mamma...
- Quelle ragazze sono morte... e solo per colpa mia... per colpa tua...
- Mamma...
Non riuscivo più a muovere il braccio sinistro con cui avevo cercato di parare i colpi ben assestati della mamma; per di più, vedevo tutto annebbiato.
 
- Eccola! – esclamò spaventandomi – Eccolo il ventre della Madre, che contiene il potere di creare la vita!
Cosa... ?
No...
No!
Spalancai gli occhi.
Mamma si avvicinò parlando in una strana lingua e mi afferrò le caviglie, trascinandomi giù per le scale.
- Ahhhhhhh!
Urlai fortissimo.
Sentii molti vetri infrangersi e, improvvisamente, sentii l’inconfondibile rumore dei tuoni nella notte.
Era notte? Avevo perso la nozione del tempo, chiusa in quella stanza senza finestre?
 
Io ero la Madre?
 
Improvvisamente il motivo di tutti quei rapimenti e di quei brutali omicidi vennero effettuati si parò chiaro dentro di me.
 
Cercavano la Donna che avrebbe partorito Samael.
E io ero una potenziale aspirante a questo titolo!
 
Ma sapevo benissimo cosa sarebbe successo alla Madre: avrebbe aperto la porta del Paradiso e, dopo aver messo alla luce il Dio sarebbe morta tra dolori e sofferenze oltre ogni immaginazione.
 
- Mamma! – urlai disperata cercando di mettermi in piedi e pensando ad un modo per farla calmare.
- Lo sapevo, sei nata per questo.
- Cosa... ?! Papà...
- Papà, papà... – mi fece lei, imitando il mio tono di voce – Tuo padre non c’è.
- Bugiarda! – esclamai furiosa. Non doveva azzardarsi ad offenderlo!
- Ah sì? Vuoi sapere la verità, Alessa? Tu un padre non ce l’hai!
 
Cosa?
 
- E’stato un rito, finanziato da Micheal. Tu sei mia, e di nessun uomo. Non hai un papà. L’unico scopo del rito è stato quello di far nascere una bambina che sarebbe diventata la perfetta Incubatrice, coi miei stessi poteri, solo più giovane. Ed eccoti qua. Sei nata solo grazie a me, senza alcun aiuto. Nel mio grembo!

 
Ero pietrificata.
 
- Ho dovuto sopportare umiliazioni e maledizioni per tutta la gravidanza. Ah, la figlia del Peccato, dicevano. Ma loro non comprendono quale gioia è stata per me vederti crescere perfetta, fino ad oggi. Quelle ragazze sono morte solo per precauzione, ma tu...
 
Era pazza...
 
Papà...
Io non avevo un papà...
Ero solo la copia di mia madre.
 
Eccola, mi venne vicina.
- Non mi toccare! – gridai.
Mi afferrò di peso e mi condusse verso il tanto familiare sotterraneo, imbrattato, dall’ultima mia visita, di tanti scarabocchi.
- Lasciami! Aiuto!
Lei restò zitta. Mi buttò nella stanza e mi chiuse a chiave.
- Prega, figlia mia – disse prima di allontanarsi.
 
 
 

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Capitolo 24
*** L'Inizio Dell'Incubo ***


L’INIZIO DELL’INCUBO
 

Non avevo un papà!
Ero solo nata per dare gioia, non per riceverla. Questo pensiero mi rendeva pazza, ero cresciuta solo per questo? Tutto quello che avevo subito, passato e sopportato erano solo il preannunciarsi di un progetto più grande di qualsiasi aspettativa. Poi, d’altronde, come avevo fatto a non pensarci prima?! Vedevo quelle bambine bruciare e non pensavo che presto sarebbe arrivato anche il mio turno?
Mi avevano fatto il lavaggio del cervello e solo ora mi ero risvegliata da quell’incantesimo?
La risposta, probabilmente, era affermativa.
Ma era tardi ormai.
Ero chiusa nello scantinato di casa, al buio, con l’acre odore dell’inchiostro dei pennarelli, con cui avevo imbrattato il pavimento e le pareti nella mia ultima visita, nella testa. I miei occhi dovevano ancora abituarsi a quelle tenebre così incombenti, perciò non riuscivo a vedere neanche la punta del mio naso.
E avevo paura.
Sentivo tanta energia scaturire dalla mia rabbia e dalle mie stesse lacrime.
Avevo udito il rombo dei tuoni. E il cielo era sereno.
Ero stata io.
Ma era diverso, questa volta. Era una forza incontrollabile, la stessa identica forza che avevo sentito scorrere nelle mie vene quando la mamma mi aveva obbligato ad uccidere quel povero micino e quando avevo ucciso quella la bambina della mia classe.
Ed era una forza... bellissima. Me ne ero innamorata e, come fosse stata una specie di droga, adesso, ne sentivo i potenti effetti: adrenalina a mille, l’impressione di poter farla pagare a tutti, una strana euforia... la consapevolezza di poter vedere le loro facce contorcersi per il terrore solo al mio nome.
Oh, quante allegre visioni nella mia testa!
Non mi serviva la mamma... né il papà.
Ma mi sentivo così sola in quella buia e fredda stanza. Avrei gradito solo Claudia al mio fianco. Ma lei non c’era; probabilmente non stava neanche pensando a me.
- Perché? – sussurrai a me stessa, mettendomi a sedere a terra per poi rannicchiarmi in posizione fetale.
Io potevo essere la Santa Donna.
Perché ora?
Perché dirmelo ora?
E’ normale desiderare di morire a sette anni?
Portavo, se ero la prescelta, un qualcosa di sacro dentro di me.
Ma non volevo! Io non volevo portarlo al mondo, né tantomeno aprire i cancelli del Paradiso che intende mia madre con tutti i suoi soldatini!
Il Paradiso creato con lo spargimento di sangue innocente non sarà altro che la venuta dell’Inferno.
E loro patiranno gli stessi atroci dolori e sofferenze che quelle bambine hanno provato prima di spirare.
Quello sarebbe stato il MIO Paradiso, ma il LORO Inferno.
Non volevo essere sacrificata! Avrei tanto preferito morire per mia stessa mano.
 Ma era una cosa inconcepibile in quell’angusta stanza.
I capelli erano ancora tutti sporchi e appiccicaticci di sangue rappreso. Il mio sangue. Perché non mi ero piantata quel pezzo appuntito di legno dritto nel cuore?
Quanto sono stupida...
Avrei potuto soffocarmi fino alla morte ingerendo il pennarello posato chissà dove sul pavimento.
Ma non mi andava.
Avevo perso, dopo quelle rivelazioni, ogni barlume di speranza e spensieratezza. A questo, avrei preferito andare a scuola.
Lisa... lei era il mio angelo custode. Avrei dato tutto quello che avevo per averla come madre. Il suo sorriso così radioso e il suo aspetto... sarebbe stata una perfetta principessa delle favole, la più bella delle fate. Volevo rivederla, ma ora sembrava un’utopia.
“ Magari, a quest’ora starà aiutando le persone a stare meglio. Magari è davvero diventata un’infermiera a tutti gli effetti. Però sarebbe stata molto più felice se fosse diventata un’attrice famosa”.
Lisa...
Anche lei, come Claudia, probabilmente stava pensando a cose più interessanti di me.
 
 
Sentii uno strano formicolio al polpaccio sinistro. Anche se era buio e non vedevo, doveva trattarsi di uno scarafaggio.
 
Muori pensai, e dopo qualche secondo era già stecchito ai miei piedi.
 
 
Toc toc toc toc
Mamma?
Sei venuta a liberarmi... ?
- Passi la notte lì, Alessa? O vieni con me in Chiesa? – gridò con tono minaccioso.
- Mai – sussurrai con una strana voce rauca.
Mamma si allontanò in fretta.
 
Dovevo ancora continuare a chiamarla mamma?
Quella parola mi sembra così vuota! E poco meritata nei suoi confronti.
Mamma...
Una parte di me ancora l’amava.
Ma l’altra...
 
Mamma...
 
Mi sentii stanca, improvvisamente. Vedevo strani riflessi volteggiare per la stanza.
 
Doveva essere la fame.
 
Quanto tempo sarei rimasta lì?
 
Mi lasciai andare: chiusi gli occhi, mi rannicchiai ancora più stretta e cercai di non pensare a quello che avevo scoperto.
 
Inutile dire che il mio sonno fu tormentato da orribili incubi. Da insetti che si trasformavano in membri dell’Ordine, a Claudia rinchiusa in una specie di gabbia.
Mi alzai di soprassalto quasi sette volte e, ogni volta, mi sentivo sempre più strana.
Cominciavo davvero a sentirmi male: sarei morta di fame o di stanchezza.
Avevo in bocca una ciocca di capelli e sentivo sulla lingua il disgustoso sapore del sangue, presente ancora sulla mia pelle, sui vestiti e sui capelli.
Dovevo anche andare in bagno.
Ero in profondità ma riuscivo a sentire benissimo i rumori all’esterno. Sentivo persino il rumore dello sfrecciare delle automobili. Ciò voleva dire che era mattina.
Sentii i passi della mamma.
Strisciai alla porta e aspettai che succedesse qualcosa.
Mamma stava parlando, ma non capivo bene cosa stava dicendo. Stava parlando normalmente, questo era certo. Forse pregava. Ma non riuscivo a capire io.
Cosa stava dicendo?
Stavo morendo?
- Fa-me... – sussurrai in risposta a quella che doveva essere stata una domanda.
- Hai fame? Dovevi pensarci prima! Hai pregato?
Pregato?
Pregato di morire, sì.
- A-cqua... – sospirai.
Anche solo poche gocce, per liberare la bocca dal sapore di ferro del sangue.
- Zitta! E prega!
Sospirai con suono quasi innaturale. Era davvero finita.
Ma allora perché continuavo a respirare?
 
Dovevo sembrare un mostro. Non mi sarei mai riconosciuta allo specchio.
Specchio... ?
Sapevo che dovevo entrarci e lasciarmi alle spalle questo mondo di dolore.
Chissà l’altra me cosa stava pensando della mia patetica figura, stesa sul pavimento di un sotterraneo, coperta di sangue in procinto di morire per fame e sete.
 
Wuuuumm
Wuuuuuuuuumm
Wu-Wumm
Quante persone sopra di me; tutte ignare della mia condizione così pietosa e orribile.
Chissà se fuori Silent Hill, le bambine vengono trattate come me...
No, certo.
Ecco perché volevo andare via da questa città! Volevo vivere!
 
 
Respiravo a fatica quando, chissà come, ebbi la forza di riaddormentarmi.
Era diverso.
Non feci incubi.
Fu un lungo sonno senza sogni, per fortuna.
O forse ero semplicemente morta.
No, no.
Mi svegliai.
 
Non ero morta...
 
Lo stomaco brontolava senza sosta e la testa iniziava a far male.
 
Sbadigliai silenziosamente prima di stropicciarmi gli occhi ancora assonnati.
 
Strano.
Faceva caldo.
 
Troppo caldo.
 
Il via vai delle auto sembrava essersi fermato.
 
Mi puntellai coi gomiti e alzai il capo.
 
La porta era aperta!
 
Ma una strana luce rossastra invadeva le scale che portavano al piano superiore.
 
 

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Capitolo 25
*** In Trappola ***


IN TRAPPOLA
 
Un calore pazzesco proveniva dal piano superiore.
- Mamma...? – sussurrai fiocamente.
La luce danzava sulle pareti. Era uno spettacolo davvero impressionante.
Mi misi in piedi dopo una fatica enorme e mi diressi, barcollando, verso le scale, ad esaminare cosa stava succedendo. Ad ogni passo, faceva sempre più caldo; era una temperatura innaturale.
Non so cosa mi spinse a salire quei gradini, precisamente. La fame? La disperazione?
Mi sentivo frastornata.
Ma stavo bene.
Ero viva.
 
Primo gradino.
Respiro uno strano odore, opprimente. Mi invade i polmoni.
 
Dov’è la mamma?
Cosa sta succedendo qui?
 
Terzo gradino.
Sento dei sussurri sibilanti. Ma attorno a me non c’è nessuno.
 
Settimo gradino.
Il calore è insopportabile. Rinuncio?
 
Tredicesimo gradino.
Ora sento anche strani e striduli rumori metallici. I sussurri non si fermano...
 
Diciassettesimo gradino.
Ho quasi finito. Dov’è la mamma?
 
Tossii.
Lo strano odore si faceva sempre più forte... come il calore.
Mi iniziarono a lacrimare gli occhi. Ero in una nube di fumo! Fumo?
- Mamma! – chiamai con voce un po’ più chiara.
Nessuna risposta.
Stavo davvero iniziando a preoccuparmi.
 
Finiti gli scalini, fui colpita da un altro violento colpo di tosse.
 
- Mamma! – urlai.
I sussurri sembrarono tramutarsi in una malinconica ninnananna, che non faceva che aumentare il male alla testa.
Mi trovavo vicino alla cucina; forse lì potevo capire cosa stava succedendo.
Anche se sapevo benissimo di aver già sentito quel calore così intenso... da qualche parte
 
Eccola.
Mamma?
Stava salendo le scale, verso la mia cameretta, lontana dal calore.
- Mamma! – la chiamai.
Lei si voltò e mi fece cenno di avvicinarmi.
Le obbedii: qualunque cosa pur di scappare da quell’inferno! Corsi verso di lei, che intanto era già sparita e aveva socchiuso la porta alle sue spalle. Durante il tragitto, mi scesero alcuni lacrimoni: mi aveva perdonato? Era tornato tutto normale? Ce ne saremmo andati da Silent Hill?
Oh, lo desideravo tantissimo!
Seguii il suo tragitto ma, improvvisamente, mi voltai: qualcosa aveva catturato la mia attenzione.
 
 
Roventi lingue di fuoco divampavano dal soggiorno.
Il tavolo era in fiamme e le scintille dorate minacciavano di bruciare tutto quanto.
E la nostra casa era costruita in legno!
 
- Mamma!! – urlai, fiondandomi verso la mia stanza – Mamma! Mamma! Un incendio!
Spalancai la porta e la vidi seduta sul mio letto.
Stava allisciando il lenzuolo.
Ma...
Cos’era successo?
La mia stanza era... in ordine!!
Non l’avevo lasciata così! Per terra c’era un’impronta di sangue, la porta era scheggiata e il letto era disfatto.
Era stata mamma?
 
Aveva gli occhi chiusi e sussurrava qualcosa, col capo leggermente all’insù.
Stava pregando?
Non vedevo le sue mani, probabilmente dietro la schiena.
 
- Mamma! Di sotto! Il fuoco! – urlai.
Lei non reagì.
Continuai ad urlare e ad urlare... ma invano.
Sembrava in trance.
Ma il tempo scorreva... e l’incendio si propagava.
- Cosa devo fare?! – urlai.
 
Acqua.
Corsi verso il bagno e raccolsi un po’ d’acqua in una bacinella. Non potetti fare a meno di guardarmi allo specchio. Ero orribile, proprio come mi ero immaginata.
La faccia incrostata di sangue e i capelli sporchi. Gli occhi gonfi e cerchiati.
Dov’era l’altra me?
Volevo rivederla così ardentemente. Volevo ammirare la sua incredibile bellezza e la sua dolce eleganza; dov’era? Io vedo soltanto un mostro dalla faccia sporca e spaventata a morte.
Il fuoco...
Cosa poteva fare una bacinella d’acqua contro le fiamme che ormai dovevano aver invaso anche la cucina. Saremmo morte?!
 
Tornai amareggiata ed agitata dalla mamma; stava ancora pregando.
- COSA DEVO FARE?! – urlai con tutta la voce che avevo.
Mi raschiai la gola per quanto lo dissi forte.
Con uno scatto spaventoso della palpebre, mamma mi fissò, con uno sguardo orribile.
- Prega... – disse semplicemente.
Pregare? Non mi avrebbe salvato qualche preghiera, mamma!!
Eravamo spacciate.
 
Scoppiai a singhiozzare, come una neonata.
- Prega – ripeté lei.
 
Afferrai il suo vestito e mi strinsi forte al suo petto; lei sembrava incapace a muoversi, così dovetti muovermi da sola per arrivare ad abbracciarla. Che sensazione meravigliosa... sentire il calore umano contro il tuo, sentire un cuore pulsante accanto a te, sentire braccia pronte a proteggerti attorno a te...
 
Mamma stava sussurrando qualcosa di incomprensibile.
Mi sollevò di peso e mise in piedi, accanto a lei, ma ancora ben stretta al suo corpo.
Continuavo a piangere, perciò con capii bene cosa mi stava sussurrando nell’orecchio.
 
- Dobbiamo andarcene, o moriremo – sussurrai tra le lacrime, abbastanza forte da farmi capire.
- Abbiamo vinto...
- Cosa... ?
- Ti ho trovata.
Stava delirando?
- Dobbiamo scappare! Mamma, ti prego! Andiamo via! – gridai.
 
 
Ti ho trovata?
Mamma, tu non vuoi sacrificarmi per Samael...
 
 
- Abbiamo vinto...
 
Non la vidi in tempo.
 
Zac!
 
Sussultai e gemetti per lo spavento...
Qualcosa era piantato nella mia schiena. Un... pugnale. L’avevo visto brillare per un secondo sopra la mia testa. Aveva avuto un gesto involontario e il pugnale si era ficcato nella mia spalla sinistra... altrimenti sarebbe arrivato dritto al cuore, uccidendomi.
- Ma- ma – bisbigliai mentre cadevo a terra per il colpo.
Mamma aveva emesso un lungo sospiro durante l’atto e ora mi guardava cadere con aria quasi dispiaciuta. Toccato il pavimento sentii il manico dell’arma sbattere contro il legno e la lama farsi sempre più profonda nella mia carne. Ma non sentivo dolore... non ancora.
Cominciai ad ansimare, mentre le ultime lacrime scendevano sulle mie guance.
- Mamma – dissi ancora tendendo la mano destra verso di lei; sapevo che non l’avrebbe mai afferrata.
Mamma si chinò e con un gesto fluido ma lento estrasse il pugnale dalla spalla, facendo iniziare a sgorgare fiumi di sangue.
Mi sentivo debolissima.
Sarei morta così?
Non riuscivo a muovermi e sotto di noi divampavano le fiamme!
 
Vidi con la coda dell’occhio l’arma tornare nella tasca del giubbotto della mamma.
- Non vo-glio mo-rire – sussurrai col sangue in bocca.
- Non morirai, sei nata per questo. Stavolta il rito funzionerà, Alessa – mi assicurò lei con un sorriso.
- Ma-ma...
- Tu partorirai un Dio, Alessa. E restaurerai il Paradiso, distruggendo e purificando l’umanità – continuò.
Scossi la testa fino a quando le ultime forze non mi abbandonarono, non consentendomi alcun movimento.
Non volevo morire.
- La mia bambina... – sussurrò mamma mentre si allontanava, chiudendo a chiave la porta, lasciandomi in trappola.
- Mamma... – gemetti.
Stavo perdendo troppo sangue. Mi sentivo troppo male.
- Mamma, voglio vivere...
Sarebbe stato meglio per me non nascere affatto.
 
 

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Capitolo 26
*** L'Incendio ***


L’INCENDIO
 
Ero sola. Sola. Nessuno poteva più aiutarmi; sarei morta qui, nella stanza in cui amavo tanto stare sola e fantasticare. Poi, il solo pensiero del fuoco che sta distruggendo tutto, sotto di me, mi procura male alla pancia.
Verrà qualcuno a salvarmi?
Papà... perché ci speravo?! Io non ne avevo uno! Però mi ritrovai a sussurrare quella parola più e più volte, con un filo di voce senza sosta, chiudendo gli occhi e cercando di immaginarmelo lì, davanti a me, che mi porta via da questo inferno.
- Non voglio morire – mormorai, iniziando ad ansimare. Il caldo, il fumo e il dolore mi opprimevano i polmoni; sarei morta soffocata, prima di bruciare.
Pensai a tutte quelle ragazzine, morte tra le fiamme, solo perché non avevano dentro di loro un “qualcosa” di terribile, quanto “divino” per l’Ordine. Stolti... mi avrebbero trovata carbonizzata, senza vita e allora mamma si sarebbe sicuramente pentita del suo gesto.
Avrebbe perso una figlia. La sua unica figlia. A meno che non volesse prendere Walter e crescerlo come suo! Disgustoso!
E Claudia... cosa patirà se io morissi? Sarebbe arsa viva anche lei, per colpa dei nostri genitori?
Poverina...
Pensai al sole, al cielo azzurro, alla brezza del vento... alle farfalle, così belle che svolazzano nel cielo, destinate a morire poche ore dopo la loro nascita.
Da bruco in farfalla.
Una morte per un’altra vita.
La bella farfalla... l’altra me.
E il bruco... io, destinata a morire contro la mia volontà.
Spero che il mio riflesso continui a vivere. Ma come potrebbe?
 
Sento un rumore, sotto di me. E’ il fuoco, deve aver fatto cadere qualcosa. Lo sento, si sta avvicinando. Presto sarò in balia delle fiamme!
Preferivo morire soffocata, che bruciata.
Mi mancava l’aria, mi veniva da vomitare. Tutto questo faceva parte del rito? Far sentire la Prescelta più morta che viva?
 
Quanto tempo era passato?
Qualche minuto, qualche ora?
Sembrava un’eternità.
 
Chinai la testa da un lato, per esaminare la spalla colpita dal pugnale; mamma doveva avermi fatto qualcosa di grave, perché l’intero arto era più bianco di un lenzuolo e non riuscivo a sentire le dita. Ma, dopotutto, a cosa mi sarebbe servito più il braccio?
 
Chiusi gli occhi, nella speranza di non aprirli mai più, ma qualcosa mi fece sobbalzare.
Probabilmente, il tetto doveva essere già in fiamme. La mia cameretta era all’ultimo piano... come aveva fatto a non andare a fuoco? Ero stata io? I miei poteri, seppure inconsciamente, mi stavano salvando la vita?
Non lo sapevo.
Fatto sta che sentii qualcosa di rovente cadermi sulle gambe.
Fu un attimo.
Cominciai ad urlare per il dolore. Chiamai la mamma, conscia che oramai lei era al sicuro. Chiamai anche il papà... se solo ne avessi avuto uno...
- Papà!! Aiutami! – strillai, trovando le forze, grazie alle recenti scariche di adrenalina.
Un tizzone sulle mie gambe, scoperte, senza protezioni. Solo il misero grembiule a coprirmi.
Rivolsi il pensiero a quella strana tunica bianca, l’abito che dovevo indossare durante i riti. Ora solo un cumolo di cenere.
Il pezzo di legno arroventato caduto su di me era una delle assi del tetto. Era gigantesco e davvero pesante, impossibile da smuovere.
Mi stava ustionando i polpacci. Non volevo nemmeno guardarli, o sarei scoppiata a piangere, in crisi.
Dal dolore, immaginai di vederle nere come il carbone.
Muoverle era impossibile.
Ora, sopra di me, vedevo uno squarcio di cielo... ma nessuna stella... era notte.
 
Voglio morire velocemente, non voglio soffrire.
 
L’orlo del mio vestito era in fiamme.
 
Tutta la mia stanzetta era in fiamme.
 
Ero in balia del panico.
 
Il sangue che ancora colava dalla mia spalla...
 
- No – sussurrai mentre osservavo le lingue di fuoco avvicinarsi sempre di più alla mia faccia. Se solo fossi riuscita a mettermi in piedi.
Vidi Scarlett e le mie adorate bambole di pezza consumarsi davanti ai miei occhi. I miei disegni su mostri, compagne di classe morte, famiglie felici... solo cenere.
 
Cenere... cenere nell’aria.
Sembrava nevicasse.
 
Il mio piccolo armadio, pieno di libri, anziché di vestiti.
Alice nel Paese delle Meraviglie...
Il Mago di Oz...
Cenerentola...
Biancaneve...
Cappuccetto Rosso...
La Bella Addormentata...
Il Mondo Perduto... di Conan Doyle... c’erano tante creature in quel libro... come mi piacevano!
Peccato, non li avrei mai più letti. Avrei dovuto regalarli alla piccola Claudia quando potevo.
Troppo tardi...
Ah, lì c’era anche il Libro dell’Ordine... l’unico che non ho letto.
Li odio.
Li odio tutti.
 
Anche il mio lettino e la mia scrivania sono in fiamme.
Tocca solo a me, adesso.
 
- Voglio vivere... – singhiozzai tenendo d’occhio le fiamme – Voglio vivere...
Era il fumo? O stavo piangendo ancora?
Le lacrime non mi avrebbero mica salvata.
 
Allungai il braccio ancora funzionante e immersi la mano sana nella pozza di sangue sopra la mia testa. Ebbi l’occasione di osservare la mia pelle: aveva assunto uno strano colorito rossiccio. Brutto segno. Il calore mi stava quasi squagliando?
Richiamai tutte le energie e cercai di mettermi seduta, cosa quasi impossibile senza l’utilizzo delle gambe. Infatti, eccole: completamente carbonizzate. Non avevo neanche le scarpe. La sola visione di quello spettacolo mi procurò diversi conati di vomito.
- Voglio vivere...
Mi voltai e con sorpresa notai che la schiena era ustionata. Come avevo fatto a non accorgermene?
Mi restava poco tempo.
Col sangue disegnai, dove prima era poggiata la mia testa il Sigillo di Metratron, l’angelo “cattivo”.
Ora basta.
- Voglio vivere...
Mamma diceva sempre di non usarlo mai, era un simbolo malvagio e le magie che si potevano compiere grazie a quel simbolo andavano contro la volontà di Sameal. Quello che faceva a caso mio!
- Voglio vivere... ahhhhh!
Le fiamme erano arrivate proprio mentre stavo ultimando il simbolo magico. Il mio grembiule andò a fuoco, ma non si usurò del tutto. Le maniche in pochi secondi si carbonizzarono, iniziando a colpire la pelle debole e sudata.
- Ahhhhhhhh! Mamma!!
Le fiamme... attorno a me...
Le sentivo...
Tornai stesa con un tonfo, solo per sentire le braccia contorcersi contro la mia volontà. Non riuscivo più a respirare.
- Voglio vivere... non voglio più morire... ahhhhhhhhhhh!
 
Il fuoco.
Lo sentii sulla faccia. Chiusi gli occhi e urlai con tutto il fiato che mi restava.
Perché... ?!
Sentii l’inconfondibile odore di carne bruciata.
 
Fa’ in fretta. Voglio morire.
- No! Voglio vivere... Papà!
 
I capelli... li sentii bruciare... svanire...
Non dovevo aprire gli occhi!
Anche il busto iniziò a bruciare. Avevo voglia di tirarmi fuori il cuore dal petto... non volevo soffrire così. Ma le braccia non rispondevano più ai miei comandi.
Respiravo solo cenere e fumo. Mi stavo davvero sentendo male...
La gola... la sentii ardere...
Riuscivo solo a gorgogliare parole incomprensibili.
 
Ecco... ora sono... letteralmente... in fiamme.
Non c’è una sola parte del corpo che non urli di dolore.
 
Diciamo fine alle sofferenze.
Io voglio vivere.
Lo so... ma cosa puoi fare?
Vai.
 
Cosa?
 
Aprii gli occhi...
Eccola.
Quanto era bella.
 
Era il mio riflesso.
No...
Era meglio chiamarla... anima.
La mia anima.
Quanto era bella. Era l’altra me.
In fondo ero sempre stata io...
 
Capelli lunghi e curati.
Faccia pulita.
Occhi blu.
Vestiti integri.
Le fiamme... le non le sentiva.
 
Sentii gli occhi bruciare.
Dovevo chiuderli.
Dovevo addormentarmi.
 
- Vai... sussurrai, certa che quella sarebbe stata la mia ultimissima parola.
 
Ma prima di crollare la sentii:
 
 
- Ora tocca a loro.

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Capitolo 27
*** Un Barlume di Purezza ***


UN BARLUME DI PUREZZA
 

 - Ora tocca a loro.
 
Eccomi là, quasi morta sul pavimento. Io non sono più dentro quel patetico guscio, dentro quella conchiglia. Ora sono finalmente libera!
Sette anni in quel corpo e adesso...
Sono uscita dalla specchio.
Ora Alessa è solo un pezzo di carne senza anima. Io sono la sua anima.
E senza di me... riuscirà a sopravvivere: l’ha chiesto lei stessa! Voleva vivere. Ma che vita?
Faceva davvero pena. Sembrava un pezzo di carbone: pelle ustionata, senza capelli, gli occhi di una strana sfumatura gialla. Non riuscivo a distinguere neanche le labbra.
Avevo sentito il suo dolore.
So cosa stava provando.
Riusciva a mantenersi sveglia; mi guardava con gli occhi fuori dalle orbite. Accennò anche un sorriso, scoprendo i dentini bianchi per un secondo.
- Ora la nostra vendetta è a portata di mano – le dissi – Tutti loro passeranno ciò che abbiamo passato noi, capisci? Vuoi farlo?
Probabilmente non pensò alle conseguenze della sua scelta. Era senz’anima! Senza emozioni!
Annuì impercettibilmente.
Anche il movimento più leggero le procurava un dolore immenso; lo sentivo. Ero pur sempre la sua anima.
- Resisti, Alessa – sussurrai, allontanandomi da quella stanza.
Ah, Dahlia aveva chiuso a chiave.
Pensai intensamente “Apriti” e... click... porta aperta.
Adesso ero in possesso di tutti i suoi poteri, anche quelli che un tempo erano nascosti nel subconscio di Alessa. Mi sentivo potente più che mai.
E tutto grazie a questo rito. Prontamente interrotto.
Sapevo che c’era qualcosa dentro quella bambina, adesso; ma uscendo dalla carne ho diviso anche i nostri poteri. Quel corpo è solo una marionetta a cui sono stati tagliati i fili. Io... sono qualcosa di molto più: sono il suo sangue, le sue emozioni, la sua essenza... e sono uscita da quella prigione prima della morte!
Tutti i nostri poteri si concentravano su di me, ma con la separazione ho avuto modo di salvarla dalla nascita di quel... quel... mostro? L’Ordine lo chiamava dio.
Ma non aveva più importanza.
Uscita dalla camera constatai che tutta la casa era in preda delle fiamme.
Non potevo sentire il calore...
Né il freddo... né il profumo dei fiori... né il vento tra i capelli...
Ma potevo sentire benissimo l’immenso dolore del mio corpo a contatto col fuoco.
Comunque, mi avvicinai al pianerottolo, dove c’era una finestrella. Era tutto distrutto. Sulla parete c’era un buco. Ci spiai dentro.
Si vedeva l’esterno di casa mia.
Ma...
Cosa?!
Perché c’era tutta quella gente?!
Un folla abbastanza numerosa, composta da uomini, donne e bambini,  si accalcava davanti al giardino; ammiravano spaventati la casa in fiamme. Sapevano perfettamente che lì abitava la signora Gillespie con sua figlia.
Notai la presenza di alcune mie compagne di classe.
C’era anche la maestra Gordon Kate.
E poi lei... Dahlia. Madre del corpo, ma non dell’anima.
Si manteneva a distanza dalla folla; urlava qualcosa, recitando a meraviglia la parte della mamma preoccupata. La sentivo, parlava con dei poliziotti:
- No! Io non ero a casa mia! Mia figlia era scappata ed ero andata a cercarla a Silent Hill! Quando sono tornata a casa per vedere se era tornata, ho trovato tutto così!!
Li avrebbe convinti, lo sapevo. Era molto brava a mentire.
- Si calmi! Vuole dire che sua figlia si trova lì dentro? – urlò un agente.
- Sì, sì! Salvatela!
Emisi un potente urlo, spaventoso, da far raggelare il sangue nelle vene:
- Ahhhhhhh! Aiuto!
Sembrarono sentirmi. Colsi per un secondo l’espressione sorpresa di Dahlia.
- E’ viva! Chiamate aiuti!
 
Un rumore assordante mi inondò, come un terremoto. No.
Erano delle sirene. Sirene della polizia.
Che tremendo rumore. Poteva darti alla testa.
 
Lo avrei risentito nei miei incubi.
 
Le fiamme guizzavano attorno a me, non causandomi dolore. Anche la sofferenza del mio corpo sembrò diminuire, ma non c’era motivo di preoccuparsi: Alessa non sarebbe morta per il fuoco.
 
Dovevano salvarla, comunque!
La carne è debole...
Perché non si sbrigano?!
Semplice, perché a nessuno importa di te e del tuo corpo.
Allora avrei dovuto fare tutto da sola.
 
Sbirciai per l’ultima volta tra la folla e...
- No...
Vidi chiaramente una ciocca di capelli biondi uscire dalla fodera del mantello che quella minuscola figura indossava. Si scoprì il volto e notai che fece cadere a terra, per il terrore, un oggetto che aveva tutta l’aria di somigliare ad un piccolo carillon.
Claudia.
Gli occhi spalancati e la bocca socchiusa.
Sentii la sua paura crescere a dismisura nel suo cuore.
Sussurrò il mio nome.
Era venuta per darmi il regalo di compleanno. Era tornata, l’aveva promesso.
Mi venne da piangere.
Claudia sembrò risvegliarsi da quell’incubo e scappò via, senza raccogliere l’oggettino. Corse verso la strada. Via da Silent Hill.
 
Dovevo seguirla!
 
E bam!
Ero per strada, a qualche metro di distanza dalla folla che non mi notò minimamente.
Ed eccola la mia sorellina. Correva e piangeva.
- Claudia! – urlai. Non mi sentii.
 
Superò il familiare cartello di benvenuto della città e si incamminò ancora più lontano. Io non ci ero mai stata là fuori, ma mi limitai a seguirla.
Svoltò rischiando di cadere da un precipizio, e si fece largo tra degli alti cespugli, senza fermare le lacrime.
Pensava di avermi perduta.
O forse piangeva perché, ora che Alessa poteva essere morta, sarebbe toccato a lei diventare la Santa Madre?
 
Inizio a diluviare...
Amavo la pioggia...
 
Per altri interminabili minuti continuai a seguirla fino a quando Claudia uscì dallo spazio verde e attraversò la strada senza prestare attenzione ai veicoli.
In realtà, di mezzi, ce n’era solo uno.
Un gigantesco camion.
Che stava per metterla sotto le sue possenti ruote.
Inciampando nel suo mantello, Claudia cadde dritta dritta sull’asfalto, prossima alla morte.
 
Fu un lampo.
Vidi il conducente.
Travis Grady. 24 anni, camionista.
Un uomo dal passato orribile, che aveva dimenticato. Ma dal cuore puro: non “vedevo” niente di sbagliato in lui. Era un uomo coraggioso, ma solo.
Capelli e occhi scuri... occhi che esprimevano solo serenità e solitudine.
 
Dahlia mi aveva sempre messa in guardia sugli uomini.
Diceva che non dovevo nemmeno avvicinarmi a loro... tranne a Kaufmann.
Ma lui... Travis... aveva qualcosa di diverso.
Era diverso...
 
Che ingenua che sono!
Come se potrei piacergli! Sono un’anima, vero, ma ho l’aspetto di una bambina di sette anni.
Lui è grande.
Ma è diverso...
Sarebbe bello averlo con me per sempre a Silent Hill.
Sì... proprio bello.
 
Entrai nella sua testa e gli ordinai di fermarsi, così da non uccidere Claudia.
Mi obbedì senza proteste.
 
Claudia era sparita intanto.
 
Lui...
Ti ho scelto.
Travis.
Allora le favole sono vere! Sei venuto a salvarmi.
 
Attraversai la strada e mi fermai davanti al camion.
La pioggia era finita.
Travis uscì dalla vettura.
Sbucai sullo specchietto laterale.
All’inizio si spaventò un po’.
Fece qualche passo al centro della strada, per vedere se la figura incappucciata stesse bene... ma trovò solo me.
 
Mi ero mostrata a lui, perché doveva salvarmi.
Lui... dal cuore puro e grande.
Avrei voluto stare con lui per sempre.
E lo sarà.
 
Per l’eternità.

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Capitolo 28
*** La Scelta Giusta ***


LA SCELTA GIUSTA
 
Per sempre, solo mio. Ero un'anima... il mio amore verso quell'uomo era puro e innocente; non ero intaccata dalla mente dell'essere umano e non ero legata alla carne e ai piaceri. Ero molto più.
Vieni da me...
Mi scrutava ed io, lentamente, mi voltai e ricambiai il suo curioso sguardo. Avevo grandi cose in serbo per lui. I suoi occhi erano color nocciola; portava un berretto sulla testa.
Naturalmente, lui non aveva idea di quello che gli stava per accadere.
Era stato così facile entrare nella sua testa e dirgli di fermarsi; non doveva avere segreti. Io glieli avrei fatti rivivere.
Vieni...
Gli sorrisi. Lui sembrò ancora più confuso di prima.
Il tempo scorreva: dovevo fare in fretta!
- Travis... - sussurrai prima di girarmi e scappare verso Silent Hill.
- Ehi... torna indietro! - gridò lui, vedendomi correre via.
Attorno a noi si levò dello strano fumo. No, non era nebbia. Proveniva da casa mia.
Lascia il camion e la tua vita. Vieni con me...
Mi obbedì.
- Adesso, vedrò... se sei meritevole o no...
Corse per un bel po' ma, non vedendomi più, decise di sedersi su un masso, al ciglio della strada e di riprendere fiato. Qualcosa non andava col suo respiro: prendeva aria a fatica, e non era stanchezza. Era successo qualcosa.
Dopo qualche preziosissimo minuto si rimise in piedi e si voltò, via da me.
- Travis... - sussurrai nel buio.
Sussultò. Probabilmente si stava chiedendo come facessi a sapere il suo nome.
Eccolo: tornò a camminare nella mia direzione, dopo il mio richiamo.
- Travis...
Era quasi arrivato. Non sapeva quello che stava facendo: seguiva semplicemente la voce che lo chiamava, che lo distraeva dalla realtà.
 Mi mostrai ancora una volta; una innocua bambina nel suo grembiulino che saltellava felice davanti ad un uomo che avrebbe preferito non essere passato per quella strada in quel preciso momento. Mi vide solo per un secondo, dritta in faccia.
- Ma cosa... ? - sussurrò sorpreso, quando sparii ancora davanti ai suoi occhi. Poi qualcos'altro catturò la sua attenzione.
Il cartello. Lo fissò.
 
 
WELCOME TO SILENT HILL
 
Solo pochi altri passi, Travis.
Per sempre.
E il tuo destino sarà scritto.
 
Sì, vieni a salvarmi.
 
Era entrato.
Ed una volta entrati qui, non si esce mai più.
O almeno... non del tutto.
 
Il fumo si faceva sempre più intenso.
Travis era vicinissimo al mio corpo.
Ora la più difficile delle prove lo attendeva impaziente.
 
- Corri! - bisbigliai e lui mi ascoltò.
Cosa frullava nella sua testa? Ero così curiosa, e ci avrei messo pochissimo a saperlo. Eppure mi sentivo un po' in colpa: quando era Dahlia ad entrare nella mia mente, mi sentivo a disagio e impaurita. Per non parlare del dolore...
Eccola. Casa mia.
In fiamme.
Ma non solo: anche altre case erano invase dalle fiamme. L'incendio si era propagato inesorabilmente. Cinque. Cinque case in fiamme.
Tra tutte, la mia era quella messa peggio.
Entrare lì era un suicidio.
 
Sorprendentemente, c'era molta gente ad assistere al macabro spettacolo. Forse non si rendevano conto che all'interno dell'abitazione c'era ancora una bambina!
E comunque, a loro, cosa poteva importane? Ero la strega, il demone. Nessuno mi avrebbe pianto se fossi morta.
Ma io non dovevo morire. Mi ero staccata dalla carne proprio per salvarmi. Salvarci.
 
I pompieri non erano ancora arrivati, anche se l'incendio aveva raggiunto proporzioni gigantesche.
 
Ero invisibile; mi avvicinai alla folla di curiosi, tutti in vestaglia e pigiama. Notai tra loro anche parecchie mie compagne di scuola.
Nessuna di loro sembrava spaventata o preoccupata.
Lì, poco fa, c'era anche la piccola Claudia. Chissà adesso dov'era finita. La mia sorellina... mi crederà morta.
Ero la sua unica amica.
Poverina...
 
La gente parlava tra loro.
- Ma cosa diavolo sta succedendo? - urlò un uomo, correndo sul posto, alla moglie.
- Mary mi ha detto che è iniziato da casa Gillespie - rispose lei.
- Sono morte due persone. Sembra che il fuoco si sia propagato in fretta. I morti, infatti, provenivano da quelle case laggiù. I vigili del fuoco non riescono a domare le fiamme. Hanno paura tutta la città inizi a bruciare - si intromise un ragazzo.
- Credi che...? - chiese un'anziana signora.
- Quella strana religione! Ecco qual è il problema. E tutte quelle sparizioni - ricominciò la moglie dell'uomo.
Silenzio. Solo un leggero parlottare nell'aria che poteva essere confuso per lo scoppiettare del fuoco.
Dov'era Dahlia?
Non voleva chiamarla "mamma". Lei non era colei che mi aveva dato la vita.
E Travis?
 
Ah, era arrivato qualcuno. La polizia della città. La sirena mi dava alla testa: odiavo quel suono.
Sfrecciarono a tutta velocità e due agenti si catapultarono, quasi letteralmente, fuori dalla vettura a tenere lontani i curiosi.
- Indietro! Indietro, gente!
- Non vogliamo altri problemi!
Un terzo agente si avvicinò ad una donna, la più vicina alla casa. La prese per le spalle e la trascinò via di alcuni passi, lontana dal fuoco.
Lei gridò qualcosa:
- Non capite!? Chiamate un'ambulanza! Non ci servono i poliziotti!
Dahlia.
La forza dell'uomo la portò a scontrarsi contro la folla di curiosi, che gli altri poliziotti tenevano a bada.
Dahlia opponeva resistenza e la gente l'osservava preoccupata.
L'agente parlò:
- Si calmi, signora Gillespie. Quella è casa sua, giusto?
- Sì, ma adesso chiamate un'ambu-
- Calma, calma! Ci deve dire come è scoppiato l'incendio.
- NON LO SO! Sarà stata la caldaia: è vecchia, si sarà rotta.
- Non è quello che ci risulta! - sbottò un altro poliziotto.
- Cosa... ? - sussurrò lei.
- L'incendio ha avuto origine al primo piano. Si vede benissimo.
- Ve l'ho già detto! NON LO SO! Ero fuori, ero uscita! E quando sono tornata era tutto così! - gridò.
Bugiarda. Avrebbe pagato a caro prezzo ogni sua menzogna.
Accorsero altre persone.
- Dovete chiamare un'ambulanza!! - continuò.
- Ma lei non è ferita - intervenne l'agente.
- Non per ME!
Strattonò via l'uomo e fece qualche passo verso casa, gli occhi fissi in direzione della mia cameretta.
- E per chi? - chiese un uomo in divisa afferrandole forte una spalla.
Dahlia indicò la mia stanza e sussurrò:
- Là c'è la mia bambina.
 
La folla cominciò ad agitarsi e a parlare sempre più forte.
Dahlia aveva recitato a perfezione la parte della mamma in pensiero. Ora doveva solo aspettare che i pompieri tirassero fuori quello che restava della sua unica figlia.
Tutti fissarono la casa in fiamme. Sapevano, in cuor loro, che una bambina non sarebbe mai riuscita a farcela in un incendio di quelle proporzioni, da sola.
C'era poco da fare.
 
Mi allontanai. Dovevo trovare Travis, ma una conversazione attirò la mia attenzione.
- Hai sentito, Sam? C'è una bambina in quella casa. Lo sai chi è?
- No, Chris. Chi è?
- La figlia di Dahlia Gillespie. Quella pazza. Dicono che la figlia sia una strega.
- Ah, già. Ora ricordo. Che strane persone. Praticano l'antico culto di Silent Hill, giusto?
- Sì. Credo che quella strana religione abbia a che fare con l'incendio di stanotte.
- Che gente! Ora parleranno di questo evento per settimane e settimane.
E mesi.
E anni.
E secoli.
 
Ecco Travis. Era vicino alla gente e osservava inorridito casa mia.
 
Mi mostrai, solo a lui.
Mi vide.
 
C''era una confusione incredibile, non riuscivo a sentirlo. Lessi il labiale:
- Chi sei? Perché?
Indicai la casa, poi Dahlia, infine gli sorrisi. Doveva ricordarsi del mio volto... e di quello di Dahlia.
Era stata la scelta giusta.
 Lui l'avrebbe fatto... per me...
 
 
- Là dentro c'è una bambina - disse una donna di mezz'età ad una sua amica.
- Ah, e con questa qui, sono tre vittime - rispose l'altra.
Travis udii le loro parole e si intromise.
- Cosa?! C'è una bambina in quella casa?!
Le due annuirono, abbastanza infastidite; una disse:
- Non dispiacerti troppo, ragazzo. Era una mela marcia e finalmente se ne è andata.
- Mela marcia? Una bambina?! - disse lui, incredulo.
- Era un mostro. La figlia del Male. Meglio vederla bruciare nell'inferno da cui è nata, che tenerla in città e vederla crescere e tentare ogni singolo uomo e portare al peccato ogni singola donna.
L'altra rise; poi all'unisono, sputarono per terra ed esclamarono:
- DEMONE!
Travis aveva gli occhi sbarrati.
- Ma se è una bambina... come fate a dire cose del genere?! - urlò.
- E' da quando è nata che succedono cose strane a Silent Hill. Ora vivremo in pace - gli rispose la prima - Ovviamente è meglio così: il diavolo era in lei, lo abbiamo sempre saputo.
- Voi siete pazze! - urlò Travis spingendole via e facendo qualche passo avanti, verso la polizia.
Sorrisi.
 
Sì, Travis...
 
E' stata la scelta giusta. Lo sapevo.
 

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Capitolo 29
*** La Notte Più Nera ***


NOTE TECNICHE XD:
Allora: comunicazione a tutti quelli che seguono e/o leggono le mie storie... ANNUNCIO: la prossima settimana - precisamente da sabato - sarò assente dal sito e dalle storie in corso --- >motivazione: Francia :D
Ebbene sì, vado in Francia per la prima volta coi miei e mia sorella. Chissà se lì troverò alcuni spunti originali per la serie “Fear of... “ e altro ;)
Quindi... non datemi per dispersa: aspetterete un po’ di più per i prossimi capitoli.
Questo break può essere utile, anche per chi legge ma non recensisce, di risfogliarsi (termine mioooo XD) la storia la storia e prendersi tutto il tempo per commentarla.
Come sempre, ringrazio
lucia1997 che ha messo tra le preferite/seguite la storia; soprattutto ringrazio la fantastica rogflam che ha la pazienza di recensire ogni capitolo appena ha tempo :D e Kaida  che ha recensito splendidamente il primo capitolo ma che poi non si è più fatta sentire. Ma io la ringrazio lo stesso, insieme a tutti i timidoni che leggono e che non recensiscono.
In parole povere, quindi, il prossimo capitolo inizierò a scriverlo tra quasi due settimane. Che dire, mi prendo una pausa. MA POI TORNO! XD
Buone due settimane! Cercherò di aggiornare anche le altre storie prima di partire.
Stay tuned! ;)
Alessa7

 
 
LA NOTTE PIU’ NERA
 
Travis si avvicinò ad un agente:
- Là dentro c'è una bambina! - esclamò il camionista - Perché non la tirate fuori?!
Dahlia sbarrò gli occhi alle parole dell'uomo e replicò:
- No! Quando arriverà l'ambulanza con i pompieri ci penseranno loro!
Travis si voltò verso Dahlia. Lei sospettava qualcosa, ne ero certa.
Voleva aiutarmi; quell'uomo, però, non sapeva che stava per salvare la bambina che gli sorrideva misteriosa, la bambina che gli avrebbe dato un grande dono...  prima o poi.
Travis cercò di farsi largo, col risultato di beccarsi un bello spintone da parte di un poliziotto.
- Cosa fa?! Vuole restarci secco?!
- Bisogna fare qualcosa! Salvatela‼
La gente, dietro di loro, iniziò a borbottare: era giusto o no lasciare morire una bambina così, senza reagire?
Naturalmente, Dahlia non aveva la minima intenzione di “salvarmi”: era il suo rituale. Tutto per l’Ordine; ero nata solo per questo, giusto? Per dare gioia... non per riceverla.
Ma presto avrei cambiato il mio stesso destino.
 Il rituale di Dahlia era conosciuto bene, in tutto l’Ordine: bruciare bambine per trovare la Santa Donna; se la bambina sopravviveva sarebbe stata la donna che avrebbe partorito Samael sulla Terra per purificarla. Era un antico rito, io non potevo fermarlo. Il mio corpo, tecnicamente, era incinta.
Partorire un demone distruttore e morire nei più atroci dolori, era l’ultimo dei miei desideri. Ecco perché avevo Travis con me. Lui doveva fermare tutto questo. Era stato scelto.
- E allora perché non arrivano?! - urlò Travis.
Era un uomo giusto e buono, solo ma gentile. Non poteva neanche accettare l’idea di vedere morire un’innocente davanti ai propri occhi. Doveva reagire. Poteva. Il corpo era il suo. Potevo solo influenzare la mente, ma la scelta ricadeva sulle sue spalle.
- Dai loro tempo, ragazzo - sbottò l’agente che lo teneva per le spalle - L’incendio ha avuto origine da questa casa e sono già morte due persone, a metri di distanze. Cosa ti aspetti di trovare là dentro?! Che razza di bambina potrebbe mai sopravvivere a tutto quel fumo e a tutto quel calore?!
- Cosa significa?! Anche se è morta, bisogna prenderla! - disse Travis.
Dahlia sembrava scioccata: i suoi piani stavano per andare in fumo.
Dovevo fare qualcosa.
Cosa... ?
Mi allontanai da loro. Ero davanti alla porta d’ingresso di... quella che sembrava casa mia.
Dovevo... ?
Era per me... e per quel pezzo di carne martoriato dalle fiamme.
 
Strillai... come se provassi anch’io quell’infernale dolore...
Là... avvolta dal fuoco e dal fumo...
 
Tutti i presenti si voltarono, cercando invano la fonte dell’angosciante suono. Neanche Travis riusciva a vedermi.
L’agente e Dahlia avevano gli occhi spalancati; Travis sembrava sul punto di esplodere.
- Poteva essere lei! La salvi! - urlò il ragazzo al poliziotto.
- NO! Chiamate i dottori!! - replicò Dahlia.
Era una lotta verbale.
- Cosa... ? Non può essere... - balbettò un altro agente, avvicinandosi.
Gli occhi di tutti erano rivolti verso la casa. Il fumo doveva essere insopportabile per i loro polmoni: Travis tossì parecchie volte e a molta gente iniziarono a bruciare gli occhi. Il calore, poi, doveva essere insopportabile: l’inferno a Silent Hill.
Quella gente non aveva assaporato neanche una briciola del terrore e del dolore di Alessa. Di me. Della mia carne e del mio sangue.
Ma presto...
 
Strillai ancora.
Più forte.
 
Tutti, ancora una volta, furono percorsi da un brivido e molti ragazzini andarono via, spaventati. I curiosi, però, non accennarono a diminuire. Ormai, casa Gillespie, era quasi circondata da mezza città.
Era strano pensare che pochissimi di loro avrebbero pianto per quello che mi stava accadendo. O almeno... dispiaciuti un poco. Kaufmann... lui sarebbe stato felicissimo di vedermi bruciare... anche Leonard. Ma Claudia... e... Lisa?
Quell’angelo...
Avevo due angeli al mio fianco.
I miei protettori. Persone che sapevano vedere oltre le apparenze e che...
No.
Adesso Lisa non era con me. Non avrebbe più asciugato il sangue delle mie ferite, né medicato i lividi...
Ora c’era Travis con me.
 
Ed era ora di agire.
 
- FATE QUALCOSA! - continuò lui, cercando di spingere il poliziotto da un lato, per passare.
Cosa potevo... ?
Oh.
 
Il poliziotto.
 
Mi bastava entrare nella sua mente e il gioco era fatto!
 
Solo un...
 
Eccomi.
 
Si chiamava... Brad Jenkins. Poliziotto da nove anni. La sua mente... era stipata di cose inutili. Era sposato con una donna di nome Eveleen, in stato interessante.
 Lo aspettava a casa... ignara... di tutto.
 
Quest’uomo stava mandando a monte i miei progetti. E non potevo permettermi simili errori o distrazioni ora!
NO! Non farlo... intendo... non facciamolo! Perché?!
Solo qualche minuto sprecato così e diremo addio al nostro corpo.
Ma è sbagliato! Perché fare una cosa del genere!?
Perché...
Anche se abbiamo passato sette anni da incubo, non è giusto far del male ad una persona in questo modo.
La bontà... una cosa troppo sottovalutata... e pericolosa.
Ti reputi il male. Sei solo una metà. Senza di me non saresti in grado di fare tutti i tuoi trucchetti.
Non mi importa. E poi perché dovrei lasciarti andare? La separazione dal corpo non è stata abbastanza per te.
Ne soffro. Come te.
Devo agire. E questo è l’unico modo.
 
Bum.
Brad Jenkins cadde al suolo, davanti a Travis e a Dahlia. Morto.
 
Era stato facile.
Contenta? Non ti rendi conto che così stai diventando il mostro di cui tutti parlavano? La strega!? Uccidere?! Ah! Per te è cosa da niente, veder morire un uomo e sapere che è tutta colpa tua?!
Zitta!
 
Travis non si avvicinò al morto. Dahlia fece qualche passo indietro, come se avesse paura di toccarlo e rivolse lo sguardo altrove, abbastanza disgustata.
 
- Travis... - sussurrai; l’uomo, come un bravo soldatino, “sentì” la mia presenza e fece qualche passo verso l’abitazione. Era molto agitato. Gli erano capitate così tante cose in così poco tempo...
- FERMO! - urlò Dahlia vedendolo avviarsi verso casa sua.
Avrebbe potuto urlare tutta la notte: lui non si sarebbe fermato. Aveva me al suo fianco.
 
Mi mostrai.
Incrociò il mio sguardo. Quegli occhi...
Il mio angelo.
 
- Ecco la porta. Entra - sussurrai con una leggera nota di scherno nella voce.
Sorrisi.
 
Eccolo lì. Travis... in mezzo alle fiamme.
Era lì.
Il suo cuore l’aveva spinto sino a quel punto.
Mi avrebbe salvata, oramai. E poi non aveva altra scelta.
 
 
 
 
 

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Capitolo 30
*** Casa Gillespie ***


CASA GILLESPIE

 
Le fiamme lo avevano circondato ma c’ero io al suo fianco; lo dovevo condurre da lei, non era certo il caso di farlo avventurare da solo per casa mia. Tutto, attorno a noi, era irriconoscibile: mobili completamente distrutti, libri in fiamme... qualche altra ora e tutto sarebbe diventato nient’altra che cenere.
E il mio corpo...
Vidi, sparse un po’ ovunque, decine e decine di candele bianche.
Candele adatte al rito...
Dahlia...
 
Travis era confuso, anche per via del calore; si guardava intorno, muovendo la mano davanti ai suoi occhi, che cominciavano a lacrimare, per farsi strada tra le volute di fumo.
Tossì.
Ero dietro di lui. Allungai la mano e gli afferrai il polso, come per guidarlo verso Alessa.
Al mio tocco, Travis si voltò spaventato verso di me. Era ora di calmarlo... ma dovevo fare in fretta. Parlai ai suoi pensieri:
- Non aver paura. Con me non corri alcun pericolo.
Continuammo a fissarci.
Non volevo ascoltare i suoi pensieri. Era una sofferenza per lui... e per me stessa; così, ripresi:
- Ti prego salvala. Verrai ricompensato, prometto. E’ al piano di sopra e ha bisogno di te.
Non parlai con tono superiore; quelle parole erano impregnate di freddezza ma convinzione. Nessuna nota di supplica o di preghiera. Non ero più la debole bambina spaventata e piangente di un tempo; ero una parte di lei e non potevo certo negare questo... ma le cose erano cambiate.
Scossi il braccio dell’uomo, come per invitarlo a sbrigarsi e con un cenno del capo gli indicai le mie tanto familiari scale. E pensare che solo pochi istanti fa, mi trascinavo debole e affamata su quei gradini, diretta nella mia cameretta... senza sapere che sarebbe stata l’ultima volta. Anche guardando in faccia la realtà e pensando positivamente, non riuscivo a vedere vie di scampo per il mio corpo. Chissà com’era ridotto adesso...
Travis recepì il messaggio e con un balzo, che mi fece quasi sussultare, si diresse verso il primo piano. Scansando bracieri e pezzi di legno crollati arrivò davanti ai primi scalini, prese un lungo respiro e cominciò a salire. Io ero rimasta sempre nello stesso punto, ad osservarlo, quando balenò davanti ai miei occhi, una terribile e vivida immagine.
 
C’era Travis, per terra. I suoi occhi erano spalancati e privi di luce. Un rivolo di sangue che spuntava da sotto il suo berretto. Steso sul pavimento, in una posizione scomodissima, sembrava avere parecchie ossa rotte. Era, inconfondibilmente morto a causa di una caduta.
 
Ma... ?
Prescienza.
Questa parola era ignota alla piccola Alessa... ma io la conoscevo bene.
Era uno dei nostri poteri, uno dei più affascinanti: chiare e spaventose immagini che, senza preavviso, arrivavano ai nostri occhi. Le immagini delle nostre visioni ci mostravano il futuro.
Queste visioni erano più ricorrenti nei nostri incubi, ma adesso che possedevo il controllo dei miei poteri, aumentati per mille grazie all’Ordine e al distacco dalla carne, erano più frequenti e forti.
La sensazione di potere che sentivo scorrere dentro di me era niente in confronto a quello che avrei potuto fare e sprigionare.
In ogni caso, quella visione mi aveva turbata. Durata meno di un secondo, sapevo che si sarebbe avverata. I fragili gradini di legno avrebbero ceduto per il calore e, sotto il peso dell’uomo, sarebbero crollati, portando Travis ad una caduta spaventosa che l’avrebbe ucciso. E io non potevo permettere che succedesse qualcosa del genere.
- ATTENTO! - urlai rivolto all’uomo.
Travis... se si fosse voltato verso di me, in effetti, sarebbe caduto lo stesso.
Perciò, significava che dovevo fare tutto da sola.
 
Chiusi gli occhi.
 
Ed eccomi là: davanti a Travis, in cima alla rampa di scale. Gli afferrai la mano, velocemente, e lo tirai verso di me. Lui non sapeva... probabilmente non se ne era neanche accorto.
 
In un attimo vidi crollare i gradini su cui era pochi secondi fa.
 
Era davvero pesante!
 
Lo spinsi ancora più su.
 
Riuscii anche a farlo anche inciampare e farlo cadere di faccia sul pavimento.
 
Resosi conto di quello che stava accadendo attorno a lui, Travis si mise in piedi e lanciò un’occhiata a quello che restava della rampa di scale: un enorme varco rosso-fuoco rendeva impossibile poter tornate al piano terra. Restò con le labbra schiuse, consapevole di essere scampato a morte certa e di essersi ritrovato in cima ai gradini spinto da una strana forza... la mia; se non fossi intervenuta sarebbe morto!
Gli tenevo ancora la mano stretta.
Tremava.
 
Come pochi minuti fa, sembrò quasi disgustato vedendomi tranquilla stringergli la mano. Si divincolò dalla mia stretta con un potente strattone e io lo mollai e cominciai a fissarlo accigliata. Non era il momento di litigare. Non qui!
Avremmo potuto chiarire le faccende dopo.
- Lasciami! Vattene! - urlò prima di spingermi per farsi strada nelle stanze successive.
Era arrabbiato. Certamente, aveva capito che io ero “speciale”: Travis non avrebbe mai permesso ad una bambina di seguirlo dentro una casa in fiamme. Ciò che stava facendo per salvare Alessa lo provava.
Ma cosa credeva di fare senza di me?! Gli avevo persino salvato la vita!
 
Travis attraversò la prima porta che si trovò davanti, ustionandosi la mano alla maniglia bollente e... finendo in bagno.
Io gli andavo semplicemente dietro, osservando i suoi patetici tentativi di raggiungere la bambina. Combattendo contro il calore e le fiamme altissime e roventi, riuscì a raggiungere la porta della mia stanza.
Con la mano sinistra cercò di aprirla.
Ma...
- Chiusa?! - gemette, asciugandosi il sudore con la manica della camicia.
Non riusciva neanche a respirare, l’ossigeno finiva presto e il fumo era capace di dare alla testa. Ciò non faceva altro che peggiorare la situazione: non potevo salvarlo da una morte per asfissia.
Alessa era a qualche metro da lui, tenuta al “sicuro” grazie alla porta che Dahlia aveva chiuso a chiave dopo avermi lasciata per terra in una pozza di sangue.
Il tempo scorreva... e con esso le speranze iniziavano ad affievolirsi.
Ogni secondo era prezioso.
 
La porta.
Quella porta più chiusa che aperta. Ci abbiamo versato accanto molte lacrime, Alessa. A volte ho persino provato a distruggerla o romperla. Sette anni passati in quella triste cameretta...
Forse persino il destino, come in questo caso, aveva deciso di farmi passare le ore più buie della mia vita accanto a quel pezzo di legno preso a pugni e calci tante volte. La libertà era oltre la soglia e mi era sempre stato negato raggiungerla.
Forse se quella porta fosse stata aperta più spesso, non sarei qua, tra le fiamme.
 
 
Qualche passo... ed fui accanto a Travis, a fissare la porta bloccata.
Girai la testa verso destra, per guardarlo.
- Cosa c’è? Non parli più? - sbraitò voltandosi. Si passò una mano tra i capelli e dopo aver tossito violentemente aggiunse - Non fai niente?! Non capisci!? Non posso fare niente IO!!
Fece un gesto con le braccia, come per invitarmi a prendere il suo posto e trovare una soluzione.
 
Ruppi il contatto dei nostri sguardi e posai una mano sulla porta.
Sarebbe stato semplicissimo entrare: bastava teletrasportarmi dentro e il gioco era fatto. Potevo portare con me Travis ma la porta sarebbe rimasta bloccata.
Lui non aveva i miei poteri; non potevo biasimarlo se si sentiva impotente e sempre più debole.
Era facile.
La porta cominciò a vibrare.
- Sì, posso provarci -sussurrai a me stessa.
- Cosa... ? - chiese Travis.
A porta ebbe uno scossone e sul legno, davanti ai nostri occhi, apparve un sigillo. Il simbolo che tanto odiavo e che ora faceva parte di me.
- Samael...
- Chi... ? - disse Travis, portandosi una specie di fazzoletto alla bocca; appena vide il simbolo rosso, oscuro e minaccioso, incombere su di noi sgranò gli occhi - Quel simbolo l’ho già... !
 
Click!
 
La porta si aprì, rivelandoci uno spettacolo tremendo.
La mia stanza...
 
Alessa giaceva lì. Considerarla ancora una bambina era quasi impossibile e non mi sarei stupita se Travis non l’avesse notata.
Mi avvicinai, superando l’uomo e avvicinandomi a lei.
Era priva di sensi, probabilmente: non apriva gli occhi. I nostri...
I vestiti erano ridotti a piccoli cumoli di cenere.
No...
Il suo aspetto...
 
Ero una parte di lei. Sono sempre stata con le, in lei. Era me. E vederla soffrire così, silenziosa come sempre...
Io e Alessa avevamo vissuto la nostra intera esistenza cercando di nascondere il dolore e le ferite. Ora, vederla così...
Mi resi conto che se fossi rimasta a guardarla troppo a lungo sarei scoppiata a piangere.
Anima... sentimenti... ecco cos’ero. Era normale provare cose del genere?
 
La pelle era completamente ustionata. Non riuscivo a distinguere niente del suo corpicino. Il nero della carne bruciata invadeva ogni singolo centimetro della pelle.
Il viso era anch’esso scuro come la pece.
E i suoi occhi?
Non aveva più capelli. Oh, da piccola adorava spazzolarli; lo faceva ogni mattina e ogni giorno erano fluenti e più scuri di quanto si potesse immaginare. Questo prima che Dahlia li tagliasse corti per “iniziarmi” alla setta della Sacra Donna.
La Sacra Donna... anni e anni di preghiere per poi scoprire che...
Il mondo è davvero più strano di quanto si possa immaginare.
 
Alessa...
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 31
*** 24 Giugno 1976 ***


24 GIUGNO 1976
 

Cosa avrebbe fatto, davanti al corpo carbonizzato, ma pieno di vita, di una povera bambina? Travis Grady l’avrebbe, senza esitazioni, salvata. Era quello che stava per fare, sicuramente.
Stava là, in piedi, a fissarla, quasi con la paura di combinare una sciocchezza.
Poi si decise: fece qualche passo verso il corpicino e...
Si tirò indietro, barcollando.
 
Aveva notato lo strano simbolo: il sigillo di Metatron, scritto col sangue, sotto il capo della bambina. Chissà cosa stava frullando nella sua testa...
Non era un marchio nocivo, anzi: era l’unico modo di tenere a bada Samael.
Samael... quel demone che... ora era dentro lei... Alessa... grazie a sua madre.
Ero anche io una parte di quel suo rito. Io non potevo minimamente sfruttare il potere buono di Metatron, fin quando ero fuori dalle mie membra mortali! L’avevo scelto io, vero, ma non potevo combatterlo in queste condizioni: era una guerra contro me stessa.
 
Se prima di crollare esausta per terra non avessi tracciato quel simbolo, col mio stesso sangue... sarei già morta.
Morta di dolore.
Morta partorendo un demone.
 
- Cosa aspetti?! - urlai a Travis, inorridita solo al pensiero del mio lugubre e incombente destino - Salvala!!
Travis mi rivolse uno sguardo accigliato: probabilmente non aveva intenzione d’abbandonarla, forse stava capendo come tenerla con sé, senza causarne la morte per bruciature.
Il corpo di Alessa era nero come la pece. Sangue e pus erano dappertutto, e non era un bello spettacolo. 
 
Lo fece.
Si fece, cautamente avanti. Il fumo e il calore l’avevano ridotto ad un ragazzo, coperto di sudore e con tracce di cenere sui vestiti. Ansimava parecchio.
Poi... sussultò.
 
 
 
- La... lasciatemi. Brucia-re... ah...
 
 
 
Un flebile filo di voce ci aveva raggiunto. Sembrava essere entrato direttamente nelle nostre menti, perché la frase continuava a riecheggiare nella mia testa.
 
Anche se aveva sussurrato appena quelle parole, mi erano risultate chiarissime.
 
Alessa aprì gli occhi e il suo petto cominciò a gonfiarsi e sgonfiarsi ad una velocità impressionante; evidentemente, non riusciva a respirare. Emetteva strani suoni ad ogni respiro e...
Cercai, per pochi secondi, di incrociare i suoi occhi semi-aperti; il colore azzurro-cielo aveva lasciato il posto ad un tetro color grigio e giallo.
Il suo occhio sinistro! Sembrava... no... ero sicurissima di averlo visto lampeggiare di rosso!
 
Parlare le era costata una fatica immensa. Adesso, che si era svegliata, quasi morta, in quell’inferno, non poteva desiderare altro che morire. Credo che l’avrebbe desiderato chiunque.
Mi faceva una gran pena.
- Travis... ? - sussurrai, tornando a guardare il ragazzo.
Ma lui aveva occhi solo per il mio corpo: si chinò accanto ad Alessa e disse, convinto:
- Tu verrai via con me!
Le parole di Alessa, invece di scoraggiarlo, sembravano averlo determinato ancora di più. Pochi secondi dopo, era ancora in piedi, col il mio corpo mortale tra le braccia. Alessa aveva richiuso gli occhi e il suo respiro si era fatto lieve e quasi impercettibile.
Però... anche salvare un innocente comporta un prezzo da pagare.
Una morte sulla coscienza... o dolore?
Travis reggeva la piccola Alessa, piena di sangue e ustioni. Al solo tocco delle sue esili braccia o gambe, si poteva assaggiare solo un po’ del suo immenso dolore tra le fiamme.
Non ci volle molto tempo: a contatto con Alessa, i palmi delle mani di Travis cominciarono a riempirsi di vesciche, che diventarono, scottature, che diventarono piaghe.
Non si lamentò, né accennò al dolore atroce che stava vivendo: teneva salda la bambina, al petto, e le sussurrava parole rassicuranti.
- Usciremo da questo inferno, te lo prometto.
Se Alessa gemeva o emetteva deboli squittii, Travis la stringeva ancora più forte e continuava a sussurrarle dolci parole di speranza.
Ad un certo punto, la bambina alzò la mano sinistra e afferrò la camicia dell’uomo, come spaventata che possa abbandonarla da un momento all’altro.
 
Io non c’ero. Ora esistevano solo loro due.
Io ero parte di quella bambina: tutti i suoi sussurri e le sue premure erano dirette anche a me, che li osservavo, ma mi sentivo... come un’estranea.
Quella visione... mi ricordava qualcosa.
O meglio... volevo...
Papà.
No, Travis non era papà. Lui era... come un fratello, in quel momento.
 
Erano così belli, assieme.
“Sentii” uno strano formicolio agli occhi. Piangere? Piangere per tristezza o per felicità?
Non lo sapevo?
 
Sapevo solo di non aver mai sentito tutto quell’affetto, quel calore, che solo un abbraccio, o una carezza, o un bacio, che non avevo mai ricevuto per sette anni. Per tutta la mia vita.
E ora, ero lì: nella mia cameretta in fiamme, abbracciata da un uomo che mi prometteva di liberarmi dall’inferno.
 
Caddi in ginocchio e lasciai che le lacrime iniziassero a rigare il mio volto.
Un volto finto. Io non sono così.
Io sono quella bambina priva di coscienza, ustionata, in braccio a Travis.
Non sono... me!
 
C’era un disegno, accanto a me. E’ stato quasi completamente ridotto in cenere e fumo ma la rappresentazione a pastelli e visibilissima. Io, mamma e papà, per mano. Sorridenti.
 
 
Mamma? Papà? Una famiglia felice? Degli amici affettuosi? Una scuola accogliente?
Tutto quello che non avevo... ora... erano solo un lontano ricordo.
Ora che sapevo di essere sotto la protezione di qualcuno che, anche se mi aveva conosciuto in modo rocambolesco e veloce, voleva salvarmi. Perché lui riusciva a vedermi per quello che ero: una bambina che non ha mai saputo cosa vuol dire “amore”, “affetto”...
Tutti gli adulti che ho conosciuto mi hanno solo usata.
Lui voleva bene davvero.
 
Dovrei...
 
Alzai gli occhi, appannati. Lo vidi, mi stava osservando.
Mi stava regalando la salvezza.
Affetto.
 
Dovrei...
Dovevo
 
- Grazie - sussurrai, prima di affondare la faccia tra le mani.
Ero un’ingrata.
 
 
Corse fuori dalla stanza e si precipitò fuori l’abitazione. Si faceva sempre più lontano.
La scala!
 
Mi bastò pensarlo per farla riapparire, probabilmente davanti ai suo. Non volevo alzarmi. Non ora.
 
 
 
 
Quanto tempo è passato?
 
La stanza è irriconoscibile ora. La porta è sparita. Tutto è cenere, attorno a me.
Travis è uscito da casa mia?
Non mi resta che scoprirlo.
 
Bam!
Ed eccomi fuori casa. Non ci tornerò mai più dentro. La mia gabbia; non sono sicura che mi mancherà.
 
Travis era appena uscito e mi precedeva di qualche metro.
Ad aspettarci fuori c’era la stessa folla di curiosi. La polizia, invece, sembrava sparita, insieme a Dahlia.
 
Alla vista del povero Travis e del mio corpo, la gente iniziò a parlare ad alta voce.
- Oddio!
- Cos’ha?!
- E’ la piccola!
- No! Fate qualcosa!
 
Travis esausto, poggiò il corpo per terra, cercando di metterla in una posizione comoda. Ci volle un po’ per allentare la presa di Alessa sui suoi vestiti, ma alla fine rilassò le dita e lo lasciò. Si osservò le mani ustionate. Nessun presente si degnò di andare a dare una mano: rimanevano tutti lì, a far niente, e ad osservare quello che accadeva.
Fu Travis a gridare loro:
- COSA FATE?! AIUTATELA!! Dov’è sua madre! HA BISOGNO DI AIUTO! - poi si rivolse al corpicino - Andrà tutto bene. Ora ti salveranno!
 
 
Nessuno si mosse.
 
- MUOVETEVI! COSA STATE FACENDO?! - ripeté, ancora più arrabbiato.
Una ragazza tra la folla sussurrò:
- Stanno arrivando. Li sento.
 
Era vero. Vedevo delle luci in lontananza. Sempre più vicini.
Le ambulanze.
I pompieri.
Erano arrivati.
 
Allo loro vista, Travis sembrò emettere un grande sbuffo e poi crollò, al fianco di Alessa.
Era svenuto. Ma Alessa... ?
 
I vigili del fuoco si precipitarono verso casa mia e iniziarono a domare le fiamme, senza riuscirci molto.
 
I medici si fiondarono su Alessa, mentre quelli che sembravano due infermieri spostarono da parte il corpo di Travis, ritenendolo un caso lieve.
 
Scorsi mia madre tra la folla di curiosi, che intanto gridava ai medici di sbrigarsi e portare in salvo la bambina.
Mi avvicinai ad un gruppo di signori che si erano radunati attorno alle mie membra. Riconobbi Kaufmann, lo strano dottore dell’Alchemilla.
Era proprio lui che si chinò accanto al mio petto e gridò ai suoi aiutanti di allontanarsi per lasciarla respirare. Dei volontari gli passarono strani congegni medici.
 
La folla aspettava.
 
Passò un minuto di silenzio, rotto solo dalle grida dei pompieri.
Dopo aver controllato il debole ma presente battito cardiaco e accertatosi che i miei polmoni funzionavano ancora, il dottore si alzò.
Ah, dovevano ammettere la loro sconfitta. Ero ancora in vita, contro ogni aspettativa, anche se ero ad un passo dall’oblio.
Fece qualche passo verso la folla, sempre più curiosa e agitata, e si guardò l’orologio da polso che indossava; poi disse, lugubre:
- La bambina non ce l’ha fatta. Morta alle ore 2:06, adesso, del 24 Giugno 1976, a sette anni. Mi dispiace. Portatela via.
Un infermiere raccolse il corpo ustionato in un lenzuolo bianco e lo caricò delicatamente su una barella che trascinò fino all’ambulanza.
 
Morta.
Che significa?
 
Alessa era viva!
 
 

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Capitolo 32
*** La Finta Alessa ***


LA "FINTA" ALESSA
 
Seguii il dottore che stava trasportando il mio corpo sull’ambulanza. Fatta salire la barella sul veicolo si allontanò e, dopo aver bisbigliato qualcosa a Kaufmann si diresse verso Travis, che giaceva ancora a terra privo di sensi.
Ora ero sola con Alessa; non c’era neanche il conducente sebbene la sirena fosse ancora accesa; ma che sorta di emergenza potevano segnalare, ora che tutti credevano Alessa morta?! Scostai piano la coperta dalla sua faccia e la osservai: aveva gli occhi sbarrati e la bocca semi-aperta. I suoi occhi di fumo e fuoco sembravano vuoti e spenti, ma comunque attivi. Non era certo morta!
E se... fosse stato tutto parte di un piano?
E se Kaufmann avesse... ?
 
- L’uomo sta bene, si riprenderà tra un po’ - esclamò lo stesso infermiere di prima, chino su Travis; rivolgendosi al suo collega chiese - Lo portiamo in ospedale oppure... ?
Micheal Kaufmann fece spallucce:
- Se si riprenderà presto e sta bene, non vedo perché dovremmo portarlo via. Per farlo agitare solo di più?! Lasciatelo lì, si sveglierà solo.
Erano davvero meschini. Brutti bugiardi!
Alessa continuava a tenere gli occhi aperti; chissà per quanto tempo avrebbe ancora avuto la forza di farlo. Sembrava debolissima e doveva soffrire parecchio, essendo ustionata dalla testa ai piedi. Tese la sua mano verso di me, come se cercasse di afferrarmi; ma io non le detti tanta importanza.
Uscii dall’autoambulanza e guardai la gente: alcuni si tenevano la testa, altri avevano gli occhi sbarrati, altri ancora sussurravano tra loro.
Dahlia era tra di loro. Si fece largo e arrivò vicina al dottor Kaufmann, singhiozzando e urlando come una disperata, senza neanche una lacrima che scendeva sulle sue guance.
Falsa.
Chiedeva di vedermi: fu condotta accanto ad Alessa e io la seguii, naturalmente invisibile ai loro occhi. Prima però, rivolsi un ultimo sguardo a quella che un tempo era casa mia, ancora tra le fiamme. Scorsi anche il corpo di Travis, ma di lui mi sarei occupata dopo.
 
Risalita sul veicolo appena in tempo sentii le porte dell’abitacolo chiudersi con un potente tonfo alle mie spalle.
E tutto mutò.
Dahlia riassunse quel suo sguardo di disprezzo e superiorità di sempre. Kaufmann, afferrato un fazzoletto, si asciugò la fronte grondante di sudore. Quell’infermiere era seduto in fondo e teneva tra le mani alcune banconote, che fissava avidamente.
Nell’aria si sentiva uno sgradevolissimo odore di carne bruciata.
Dahlia scostò il telo ospedaliero dal viso di sua figlia e la osservò, sorridendo. Alessa teneva ancora gli occhi spalancati; le sue pupille si fermarono a scrutare la madre, il suo respiro si fece sempre più irregolare.
- Peccato sia arrivato quel guastafeste, vero Alessa? - sussurrò Dahlia - Se non fosse stato per lui il rituale sarebbe stato già compiuto. Ma non fa niente. Lì o in ospedale... nascerà lo stesso.
- Non cantare vittoria - la rimproverò Micheal - Dobbiamo prima convincere la città.
- Hai fatto quello che ti ho chiesto?! - rispose lei.
- Sì. Solo che...
Kaufmann fece un gesto all’infermiere; quello si alzò, evidentemente seccato, e tirò fuori da una specie di involucro un fagotto di stoffa bianca. No, non era un...
Appoggiò il tutto su un’altra barella, accanto ai presenti e ne scoprì il contenuto: una bambina.
Doveva avere circa la mia età e mi somigliava molto. Aveva corti capelli corvini ma non potevo sapere di che colore erano i suoi occhi. Erano chiusi. E non si sarebbero mai più aperti.
- Non è ustionata! - esclamò Dahlia.
- Lo so! - rispose lui - Ma è la più somigliante ad Alessa che abbiamo trovato; poi, non ci hai dato abbastanza tempo. E’ morta per il fumo delle fiamme, ma non è stata intaccata molto dal fuoco.
- E credi che la gente la berrebbe?
- Forse! Dai, tutti la credevano una strega! Ora arriviamo in ospedale e...
- E? E cosa?
- La nascondiamo.
- Ok, lasciale la stanza più piccola e isolata che avete.
- E’ impossibile... a meno che... c’è il sotterraneo. Senza finestre, nessun infermiere a ficcanasare.
- Perfetto.
 
Avrebbero sostituito il mio corpo con quello di quella bambina?
Era orribile!
Certo, erano stati previdenti. Avevano preso in considerazione ogni eventualità.
 
Quella bambina, probabilmente strappata via dalla sua famiglia, sarebbe stata Alessa Gillespie per tutta la città! A vederla così stranamente piccola e bella, addormentata nel torpore della morte, sembrava davvero me. Stessi capelli, stessa corporatura.
E se qualcuno se ne sarebbe accorto? La sua famiglia... ?
No, sicuramente non veniva da Silent Hill, non l’avevo mai vista a scuola.
Chissà come si chiamava.
 
La coprirono completamente e, subito dopo, tutti gli sguardi si puntarono sulla vera Alessa; rantolava ancora, allo stremo delle forza.
Dahlia pensava di avermi in pugno. Povera illusa!
Non poteva immaginare che io ero già evasa da quella “conchiglia”, da quel patetico guscio chiamato “carne”. E se io non tornavo nella mia conchiglia, Samael non sarebbe mai nato.
Ma ero ancora troppo vulnerabile: un incantesimo da parte sua e sarei dovuta tornare mortale, volente o nolente. Lei era molto più potente di me. Dovevo pensare anche a questo.
 
Il tragitto verso l’Alchemilla Hospital fu abbastanza lungo, essendo casa mia situata all’estrema periferia di Silent Hill. Una volta vicini all’ospedale il mio corpo fu coperto per bene e la bambina morta fu caricata stesa su un’altra barella. La spogliarono e la misero in una posa che sembrava davvero scomoda.
 
Fermi. L’ambulanza era arrivata.
E le porte si aprirono.
 
Dahlia riprese il suo finto tono addolorato mente Kaufmann e l’infermiere scesero dal veicolo con il cadavere.
Cosa dovevo fare: seguire la finta me, o restare con la vera me?
Sentii un’infermiera accorrere verso di loro e chiedere agli uomini:
- E’ la bambina delle fiamme? Morta, eh?
- Sì - rispose uno dei due.
- Ma... wow! Sembra non essersi per niente ustionata! - riprese sorpresa la donna - Era davvero una bambina strana.
- Ci vorrà comunque un’autopsia - disse calmo Kaufmann.
- Sì, signore. Chi la può effettuare? Ci sono...
- IO! Lo farò io! - esclamò il dottore.
Probabilmente si era offerto volontario per mascherare ancora di più il tutto e continuare a infangare la faccenda.
Dahlia rimase nell’autoambulanza; decisi di restare con lei.
Affacciandomi nella notte vidi sparire la piccola bambina tra la moltitudine di dottori e infermiere.
Ora rimaneva da sistemare la vera Gillespie.
 
Dopo pochi minuti, Kaufmann tornò e sussurrò al conducente, porgendogli anche uno strano sacchetto:
- Va’ sul retro. Dobbiamo arrivare al sotterraneo senza essere visti.
Il veicolo si mise in moto e, pochi metri dopo, si spense ancora.
Eravamo dall’altra parte dell’Alchemilla.
 
La barella di Alessa fu trascinata fuori, nella notte umida di pioggia, e portata delicatamente nell’edificio. Seguendola mi ritrovai in un corridoio buio e puzzolente, pieno di attrezzi medici in disuso e prodotti strani. C’era un piccola porticina di metallo davanti a noi. Una strana donna che non avevo notato nella stanza prima, la aprì consentendo al lettino di passare senza troppe storie.
Ci attendeva una lunghissima scalinata, anche abbastanza ripida, che tutti affrontammo con non poche difficoltà.
Attorno a noi, dopo la sfacchinata, c’erano solo porta flebo e scatoloni vuoti e polverosi; la mia attenzione, però, colpii una botola, larga abbastanza per far passare la barella.
Scendemmo.
Eravamo sottoterra solo da pochi secondi ma sentivo che già a tutti mancava il fiato.
 
La stessa infermiera di prima ci condusse verso un’altra porta, l’unica.
 
Una stanzetta d’ospedale.
Spoglia di tutto. Senza luce. Senza aria.
Solo un lettino bianco ad occuparla.
 
Quella sarebbe stata la mia nuova prigione?
 
Adagiarono il corpo ustionato proprio dove avevo immaginato. Altre infermiere, con sguardo cupo, entrarono e m’osservarono a lungo, probabilmente capendo la gravità della mia situazione.
- Mantenetela viva! - le ammonì Kaufmann - Iniziate con l’ORT. La riabilitazione orale e la fasciatura completa.
Tutte annuirono.
- E tu! - tuonò ad un’altra infermiera, più piccola e mingherlina delle altre - Tu devi starle sempre accanto! E’ tuo compito primario curarla. Fai il tuo lavoro qui, è la tua unica paziente. Voi altre, invece, verrete qui solo ad orari prestabiliti e non dovete farne parola con nessuno o saranno guai.
La fragile infermiera fece qualche passo avanti e annuì tremante.
Quindi quelle donne, quei pochi dottori, Dahlia, Travis e l’Ordine sapevano che io ero ancora in vita. Tutti gli altri mi credevano morta. Claudia...
Chissà se le avrebbero nascosto la verità.
 
La mia nuova infermiera era di media statura, dai lineamenti eleganti e proporzionati. Era anche abbastanza bella: aveva dei corti capelli biondi e i suoi occhi sembravano color del mare.
 
Aspetta! Io l’avevo già vista.
Sì, era lei! Era il mio angelo! Lisa! Che mi aveva soccorso dopo la rissa fuori la scuola!
Lisa.
E lei sapeva chi ero io?
 
In quel momento entrò nella stanza un’altra infermiera, robusta e grassoccia, che passò nelle mani del dottor Kaufmann uno strano sacchetto, simile a quello del conducente dell’ambulanza.
- White Claudia. PTV - sussurrò l’uomo, scambiandosi uno sguardo con Dahlia - Siamo d’accordo a somministrargliela?
Dahlia fissò Alessa:
- Sì, se serve ad accelerare il rituale del parto dategliela pure. Quanta ne volete.
 
Volevano drogarla! Drogarmi.
 
Lisa ebbe uno strano tremito.
 
- Questo rimarrà il nostro segreto - continuò Dahlia.
 
- O.R.T., sbrigatevi! Oral Rehydratation Teraphy. Volete vederla crepare davanti ai vostri occhi?! Datevi una mossa e somministratele i liquidi - urlò Kaufmann.
- Per quanto durerà? - squittì Lisa, nell’ombra, impaurita dalla sua stessa domanda - A me fa paura...
- Non tanto, dolcezza - rispose l’uomo - Giusto il tempo di farla partorire e poi morirà per conto suo.
 
Sì, quella sarebbe stata la mia nuova prigione.
 
E presto l’Alessa che tutti conoscevano sarebbe stata vista, dall’intera Silent Hill, come la bambina trovata morta ma intatta nella sua bellezza e innocenza tra le fiamme.
 
La strega.
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 33
*** La Quiete Prima Della Tempesta ***


LA QUIETE PRIMA DELLA TEMPESTA
 
- L’ho trovata in mezzo alla strada, qui, a Silent Hill. La tenevo con me da ieri mattina. L’ho portata nella Cappella e ho cercato di ucciderla col fuoco; Dahlia mi aveva avvisato: se qualcosa andava storto col rito della Nascita, avrei dovuto portarla con me e lasciarla davanti a casa sua. E l’ho fatto, più o meno. Il problema è... la gente non è stupida! Testimoni l’hanno vista completamente ustionata! Tutto per colpa di quell’uomo!!
Kaufmann era seduto nella sala selezionata per l’autopsia di quella povera bambina, che ora tutta la gente conosceva come Alessa Gillespie, e parlava con un’infermiera pagata profumatamente per stare zitta.
Avevo letto nei pensieri dell’uomo e sapevo perfettamente chi fosse quella poveretta stesa sul lettino, bianca e fredda per il torpore mortale: si chiamava Jenna Borrie, della mia stessa età e incredibilmente somigliante a me. Per lui era stata una vera fortuna trovarla, inerme e sola, tornare a casa dopo la scuola.
- Era in un vicolo, l’ho rapita senza storie. Non c’era nessuno. Credo che la famiglia la stia ancora cercando.
- Cavolo... - si lasciò sfuggire la donna mentre stendeva un leggero telo trasparente su Jenna.
- Puoi dirlo, dovevi vedere come si dibatteva!
Quell’uomo era un mostro! Un autentico mostro.
Probabilmente l’infermiera faceva parte della Setta, perché non sembrava affatto turbata dalle parole di Kaufmann, anche se non l’avevo mai vista durante i riti.
- Le somiglia tanto. Volevo fare anche un bel lavoretto: sai, bruciarla a dovere! Ma è morta soffocata dal fumo... ed era tardi, l’ho dovuta caricare sull’ambulanza e partire verso casa di Dahlia.
- E’ successo qualcosa di strano. Qualcosa è andato storto - ammise l’infermiera a bassa voce.
- Quel bastardo! Stava rovinando i nostri piani. L’ho lasciato lì a crepare! Spero si dimentichi di Alessa!
- Ma il rito è andato a buon fine, no?
- Non del tutto. E’ dentro di lei, riposa nel suo ventre. Ma non è riuscito a nascere!! Eppure stava andando tutto a meraviglia!
Stare in quella stanza con quei due individui era troppo, anche per me. Mi facevano pena e terrore allo stesso tempo. E povera Jenna, in balia di quelle sadiche persone. Non meritava di morire.
 
La vera Alessa Gillespie riposava nel sotterraneo dell’Alchemilla. Andavo spesso a vedere come stava.
Era attaccata ad uno strano e inquietante macchinario, che segnava i suoi valori vitali; l’ORT stava funzionando probabilmente: aveva un tubo trasparente infilato nella bocca, che le mandava giù acqua, zuccheri e medicinali. Farle assumere cibo solido per via orale era impossibile perché le fiamme non avevano risparmiato l’interno del suo corpo: la lingue era solo un ammasso di carne bruciata e avevo sentito che probabilmente molti altri organi interni erano rimasti gravemente danneggiati... tranne l’apparato riproduttore...
Polmoni e gola era pieni di cenere e il fumo sembrava averla “inquinata” all’interno. Respirava a malapena, e ogni suo respiro sembrava il peggiore dei rantoli, era uno strazio starle accanto.
I piedi erano gravemente ustionati, probabilmente non si sarebbe più rimessa in piedi.
Non aveva più capelli, le labbra erano sparite, la pelle era nera...
Un’infermiera aveva annunciato che avesse perso la vista dell’occhio sinistro, troppo esposto al calore. Eppure ero sicura che quelle sue iridi così blu e profonde non fossero perdute... non per ora.
Starle troppo vicina era rischioso: una mossa sbagliata e sarei ritornata dentro di lei. Dahlia non sapeva ancora della nostra separazione, per fortuna.
 
Lisa lee... mi... stava vicina, più di una madre. Era grazie a lei, che puliva il “mio” corpo ogni giorno e mi trattava con gentilezza e amore, che riuscivo ad andare avanti. Senza di lei...
Negli ultimi giorni, iniziò a comportarsi in modo strano... forse, perché le facevo schifo. Non era facile accudire una bambina ustionata dalla testa ai piedi, che rantola e geme ad ogni respiro e che l’intera città conosceva come “strega”.
Kaufmann l’aveva minacciata: se non sarebbe rimasta zitta e avrebbe raccontato in giro che Alessa era ancora viva, l’avrebbe uccisa. Povera Lisa... la drogava... lei nemmeno lo sapeva.
Quell’uomo avrebbe pagato per tutto quello che ci stava facendo.
 
Travis.
 
Travis.
 
Sì, Travis era sotto la mia protezione. L’avevo nascosto, nessuno l’avrebbe trovato.
Era in un posto che solo io potevo raggiungere, un posto dove gli adulti non potevano fermarci. Travis era diverso: non era pazzo, era semplicemente solo. Ed era buono, gli dovevo la vita.
L’avevo tenuto addormentato per giorni. Era in una specie di coma...
Presto si sarebbe svegliato.
 
Presto.
Quel ragazzo era speciale.
 
 
 
Ero seduta accanto ad Alessa, contavo i suoi respiri, lenti, soffocati e fiochi. Avrei dato tutto, pur di assaggiare solo un briciolo del suo immenso dolore. Sarei tornata volentieri nella mia “conchiglia” se la gente non fosse impazzita.
- I nostri incubi sono realtà. Siamo quello che loro volevano diventassimo, Alessa - sussurrai.
Era nuda, solo le bende insanguinate la coprivano.
- Perché... perché non cambiare... ?
Emise un gemito stridulo. Non si sarebbe svegliata... e probabilmente stava avendo un incubo. Decine e decine di aghi erano ficcati nelle sue braccia, iniettandole la vita.
La mamma era venuta a trovarla poco prima di me, insieme a qualche membro dell’Ordine. Aveva cercato di invocare Samael e indurla a partorirlo... ma non ci era riuscita. Per la disperazione l’aveva anche drogata. La White Claudia fu messa nella flebo e condotta dritta dritta nel suo sangue. Non c’era stato niente da fare per lei. Alessa aveva preso ad agitarsi e l’Ordine l’aveva lasciata.
Quella sostanza l’aveva fatta andare in trace... e quel feto doveva aver trasformato, per qualche secondo, il sogno, o meglio l’incubo, in realtà: per qualche istante mi era parso di sentire un suono stridulo in lontananza e mi era sembrato di aver visto gocce di sangue colare dalle pareti.
Se era questo che Samael era in grado di fare... non...
 
Alessa gemette. Non sembrava più la piccola bambina di sette anni di qualche giorno fa... sembrava un vero mostro.
- I mostri sono gli altri - dissi calma.
 
Perché... ?
Perché... ?
Perché non sfruttare il potere distruttivo di quel “bambino” dentro di me, per... vendicarsi? Vincere, per una volta?
Oltre alle visione e al sangue sarebbe stato in grado di ridurre le loro vite ad un Inferno sulla Terra.
- Potremmo fargliela pagare... ma non abbiamo fretta. Aspettiamo che Silent Hill mi credi perduta per sempre. Aspettiamo il funerale. Poi...
Fissai lo strano macchinario accanto al suo letto: c’era una mia foto poggiata sopra. Era la foto di classe: avevo lo sguardo triste e assente, rivolto a sinistra, infastidita dalle mie ex-compagne di classe che non facevano altro che prendersi gioco di me. Se qualcuno doveva pagare, per aver reso la mia vita un inferno... loro sarebbero state le prime! Nella foto avevo i capelli cortissimi e spettinati... li odiavo.
La mia infanzia è stata davvero orribile. Se non fosse per Claudia... forse sarei completamente sola.
Ah, c’era anche Travis. Lui non mi avrebbe mai abbandonata.
 
- Nessuno lo verrà a sapere. Gliela faremo pagare - promisi al corpicino sofferente.
Avrebbero vissuto nei miei incubi! Samael li avrebbe resi “vivi”!
Naturalmente, non tutti erano colpevoli! Non volevo dar vita ad una strage; chissà come avrei fermato tutto questo, una volta iniziato...
In effetti, l’idea di un’intera città ridotta ad un infermo mi spaventava un po’.
 Non ce l’avrei mai fatta da sola.
 
Travis... ?
 
 
NOTE AUTRICE :D
Eccomi XD dopo un'eternità!! Questo è un capitolo un po' più piccolo degli altri, lo so... ma ora inizia il bello XD
Diciamo che è un capitolo di transizione, la continua del precedente. Spero di riuscire ad aggiornare prima la prossima volta... ma la scuola mi sta uccidendo XD
Alla prossima :D    
        

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Capitolo 34
*** Quando L'Incubo Prese Vita ***


QUANDO L’INCUBO PRESE VITA

Osservavo due uomini vestiti completamente di nero, sollevare di peso il corpo della piccola Jenna per posarlo delicatamente tra morbidi cuscini e veli bianchi, dentro una semplice bara.
Io non dovevo nemmeno esserci, lì. Quella cassa apparteneva a me.
Il coperchio fu lasciato aperto e le braccia bianche furono dolcemente spostate sul petto della bambina, le mani all’altezza del cuore si intrecciavano; sembrava stesse pregando.
Era davvero bella: i capelli le erano stati sistemati per bene e ricadevano a riccioli curati sulle spalle mingherline; il viso e le membra, seppur irrigidite dalla morte, sembravano essere stati puliti, a nascondere eventuali bruciature o ferite.
Indossava una tunica bianca, che la faceva assomigliare terribilmente ad un angioletto addormentato.
 
I presenti continuavano a fissarla, seduti sui banchi della chiesa di Silent Hill. Tutti li sguardi erano per lei... e anche tutti i borbottii.
 
Secondo i giornali, le vittime dell’incendio di quella notte furono cinque, con un totale di sette case andate in cenere, alla periferia della città. Affermarono, nei giorni seguenti l’incidente, che tutto era stato dovuto alla caldaia di casa Gillespie; ignari, quindi, della verità, non avevano certo accusato Dahlia, la vera artefice di tutto. Anzi, l’avevano persino consolata... per una figlia che non aveva mai perso.
Dopo gli accertamenti e l’”autopsia”, il corpo di Alessa, preparato al pubblico, che pensava di essersi tolto finalmente di mezzo la strega di Silent Hill, fu esposto in una specie di camera ardente nell’Alchemilla.
Inutile dire che nemmeno un cane andò a visitarla.
 
Quella mattina, si era discusso se allestire un funerale. Dahlia, giocando il ruolo della madre addolorata, aveva supplicato il pastore della città di lasciare che Alessa venisse portata nella chiesa cattolica, per l’ultimo saluto. La proposta fu subito respinta, al principio, dall’uomo di Chiesa, sapendo perfettamente che la bambina non era stata battezzata.
Ma col sostegno del sindaco, che aveva tratto da questa vicenda solo fortuna e fama -seppur oscura, si decise di allestire un funerale con rito cristiano per tutte le vittime dell’incendio, indipendentemente dalla loro religione.
Alle quattro del pomeriggio, a rito concluso, fu dato qualche momento ai parenti per dire addio ai morti.
 
Ero lì, ma sin dall’inizio. Non volevo lasciare quella bambina, nelle mani di quei...
 
Donne con veli scuri sul viso e fazzoletti ricamati tra le mani, uomini composti ma con lo sguardo malinconico... tutti seduti tra quei banchi, davanti a me.
Riconobbi tanti volti familiari... persone che erano lì per me!
Essendo stato proclamato lutto in tutta la città, i bambini, vestiti di tutto punto coi loro grembiuli blu, sedevano accanto ai proprio maestri. Vidi la maestra Gordon, le mie vecchie compagne di classe e le loro madri.
Neanche una lacrima...
Dahlia era seduta al primo banco, accanto a... Kaufmann. Cosa?!
Vestita a lutto, faceva finta di piangere e singhiozzare... o forse piangeva per la felicità, non lo sapevo. Era comunque orribile!
 
Tutti fissavano la presunta Alessa. Avevo colto anche un paio di frasi in suo parere. Una donna, per esempio, fissando la mia bara, la più piccola, sussurrò al marito:
- Te l’avevo detto che quella bambina aveva qualcosa di strano! Giuro, l’ho vista completamente ustionata quella notte; e adesso guarda che pelle, bianca e liscia! Non aveva i capelli! Ora sì. Strega...
Una bambina, probabilmente più piccola di me... somigliante a Claudia in maniera impressionante, sussurrò alla maestra:
- Quella non è Alessa! - prima di essere zittita.
 
Le altre persone morte, recavano terribili segni d’ustioni sulla pelle... tranne un uomo. Ah, già. Brad Jerkins, il poliziotto... a cui ho fermato il cuore, quella notte.
Perché... ? In fondo, stava facendo il suo lavoro. Mi sentivo terribilmente in colpa; prima che morisse frugai anche nella sua mente. Mi stavo...
Una donna piangeva e strillava, accarezzando l’uomo esanime.
Doveva essere sua moglie. Era anche incinta.
 
Condotte tutte e cinque le bare al cimitero appena fuori città, attraversato il parco Rosewater in una strana marcia di dolore e silenzio infranto solo dal fruscio degli alberi e dall’infrangersi delle onde sulla riva, la piccola finta Alessa si separò dal gruppo e portata verso un appezzamento di terra spoglio. La fossa era già stata scavata e una piccola lapide bianca recava scritto:
 
Ivi riposa:
Alessa Gillespie
* 19/06/1969 - † 24/06/1976
 

Era il mio umile e falso epitaffio.
La cassa fu stipata dentro senza troppe cerimonie, senza troppi sguardi indiscreti.
Vidi la cenere e la terra piovere sulla bimba... fino a farla sparire.
E tale gesto, nei suoi... e nei miei confronti... non poteva rimanere impunito. Tutte le bambine morte... le famiglie infrante...
Anch’io avevo le mie colpe. Ma loro...
Avrei dovuto lasciarli vivere, così?
 
No. La mia vendetta sarebbe stata esemplare.
 
Scuola.
La cara Midwich Elementary School di Silent Hill.
In quel maledetto posto, dove cominciai a sentirmi diversa ed odiata.
Avrei iniziato da lì.
Fortunatamente quel giorno, nella mia scuola, era un giorno di festa, la celebrazione della chiusura dell’anno scolastico. Occasione perfetta.
 
Presentarsi la mattina, come ogni normale bambino, nella propria classe, ad attendere l’insegnante, nel mio casa, era qualcosa di sbagliato? Inconcepibile per Alessa, per me?
Non lo sapevo.
Come se fossi tornata nella prigione della carne, mi mostrai tra i corridoi, camminando sicura e con uno strano sorrisetto stampato sulle labbra.
La notizia della mia “morte” doveva aver colpito l’intera città: al mio passaggio i bambini cominciarono a indicarmi, a sbarrare gli occhi, a tremare e a piangere.
Erano passati pochi giorni dall’incendio... ma adesso sembrava che la gente sembrasse ricordarsi perfettamente del mio viso.
Arrivata in classe, sedetti come di consueto al mio posto, davanti al banco martoriato di coltellini e inchiostro. Le mie ex-compagne di classe... le loro facce.
Forse, pensarono di avermi soltanto immaginata... altre cominciarono a tremare violentemente, come scosse da interminabili brividi infernali. Io mi limitavo a fissarle negli occhi, una ad una. La maestra arrivò, con lo sguardo assente ed andatura sbilenca. Non mi vide, e forse era meglio così: si sedette alla cattedra e intimò alle alunne di sedersi.
Nessuna obbedì.
Hanna, la ragazza che bruciò la mia foto, accortasi di me, si lasciò sfuggire un gridolino di sorpresa; si portò la mano alla bocca e indietreggiò di qualche passo.
Le sorrise radiosa.
- Cosa c’è che non va? - chiesi raggiante.
Ora avevo l’attenzione proprio di tutti, persino della maestra Gordon.
Silenzio.
Il silenzio più assoluto.
Continuai a sorridere. Poi, afferrai il legno del mio banco.
- Ho bisogno di reggermi - giustificai dolcemente - Qua le cose si agiteranno un po’.
 
Le bambine e i bambini, che mi presero a spintoni, a calci, ad insulti... che mi fecero sentire un mostro insignificante ed invisibile, ma pericoloso... sapranno cos’ho provato per tutto quel tempo. Si sentiranno inutili ed impotenti, ma letali -proprio come volevano apparire, sentiranno la mia angoscia, il mio dolore.
Saranno ributtanti, nessuno si vorrà più avvicinare a loro.
 

La prima ad urlare fu proprio Hanna. Cadde a terra, in ginocchio, davanti a tutti. Il suo micidiale urlo d’agonia portò molte altre alle lacrima, ma non era ancora finita: la ragazzina si afferrò le mani, l’una con l’altra, e sbarrò gli occhi... mentre le cadevano le unghie e le falangi si allungavano e si allungavano sempre di più, formando strani artigli affilati. I capelli le caddero e la cute si trasformò in uno strato di pelle rossa e marrone, ustionata. Gli occhi rientrarono nelle orbite e sparirono, mentre le sue grida non suonavano già più umane. Sebbene fosse stata una bambina abbastanza alta, adesso era di bassissima statura. Le labbra erano sparire: un buco sormontato da dentini affilati aveva preso il suo posto.
Emetteva strani rantoli e grugniti, simili a quelli di una bestia. Ma in fondo... cos’altro era, adesso?
 
Fu il caos. La gente urlava, scappava... inutilmente. Come Hanna, pian piano, tutti i presenti affrontarono la loro macabra trasformazione. Tutte le mie compagne di classe, in pochi minuti, diventarono i mostri che erano sempre stati.
Le porte erano bloccate, non sarebbero più scappati.
 
Io ero rimasta seduta, tranquilla a godermi lo spettacolo. La mia vendetta, in parte era compiuta.
 
Kate Gordon era ancora immobilizzata, alla cattedra. Sembrava sotto shock.
Non l’avevo toccato. Lei non era un mostro, no.
 
E pensi che possa essere risparmiata, Alessa? La città intera deve pagarla.
 

No!
Non potevo fare del male a lei.
No!
 
La tua volontà non potrà certo salvarla! Come fonte dei tuoi poteri, invece, solo io posso.
 
La vidi trasformarsi in un mostro.
Anche lei.
Contro la mia stessa volontà. Io non volevo farle del male!
 
Questo non è solo il loro incubo. E’ anche il tuo.
 
La donna era diventata una strana creatura grigia, senza naso, occhi e bocca. Mugolava e tentava di urlare... facendomi...
Non avevo fatto niente!!
 
Tocca a me. Anzi, a noi.
Noi due... faremo grandi cose.

 
Un lungo suono si propagò, sicuramente non solo per la scuola, ma per l’intera Silent Hill.
 
Già.
Come quella notte, sull’erba, completamente ustionata, volevi lasciarti il mondo alle spalle, il suono delle sirene della polizia e delle ambulanze ti riportò alla realtà.
Così come adesso, questo suono preannunzierà l’arrivo delle mie Tenebre. Alla gente tremeranno il cuore e le membra a questo lamento angosciante... e spereranno sia l’ultima cosa che udiranno.

 
Una fitta di dolore attraversò il mio addome. Bè, non il mio. Quello delle vera Alessa, che riposava in ospedale. Io l’avevo solo percepito.
 
Vidi i muri grondare sangue e ruggine, il pavimento diventare una grata...
Non ero stata io!
Io non volevo tutto questo! La vendetta, sì. Ma non avevo mai chiesto di trasformare la città in un Inferno.
Quella cosa viva e demoniaca, però, dentro di me, c’era riuscita.
Si agitava, fremeva nel nascere... e controllava i miei poteri.
La sentivo.
 
 
Un boato attraversò l’aria. La gente si era riversata urlante per le strade dell’altra Silent Hill.
Una Silent Hill diversa.
La stessa dei miei incubi.


ANGOLO AUTRICE:
Buoooon Halloween! E quale modo migliore di festeggiarlo alla Silent Hill maniera, se non con un capitolo??!! :D
Ed eccomi qua, appena uscita dal cinema. "Silent Hill Revelation 3D" *___*
STUPENDO, al contrario di quello che molte recensioni dicevano. L'ho amato!! :)
Cooomunque... a prestissimo!!!
:D

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Capitolo 35
*** Proiettati Nel Passato ***


PROIETTATI NEL PASSATO
 
Non era il mio sogno.
Era il mio incubo. Il peggiore che avessi mai vissuto, che ora sembrava persino concretizzarsi, davanti ai miei occhi.
Perché ero stata io, o meglio, qualcosa dentro di me a far accadere tutto quello!
Ma era pur sempre colpa mia!
 
Era la mia dimensione, il mondo dove solo un’anima tormentata come me poteva rimanere.
Eppure... non era la realtà.
La sentivo, ma leggera e lontana: sentivo il mondo, ma lo percepivo in maniera distorta.
 Ed eccomi, immersa negli incubi che hanno da anni popolato le mie notti tormentate.
Ma non tutto sembrava perduto: riuscivo a controllare quella falsa realtà, come fossi imperatrice, e riuscivo a comandare tutti i suoi strani abitanti, a mio piacimento. Conoscevo le mosse di uno, le parole dell’altro...
Un potere... e una dannazione allo stesso tempo.
 
Il blu del cielo era svanito, lasciando il posto ad un lugubre velo bianco.
Nebbia. Uno spesso strato di lattiginosa nebbia avvolgeva la mia “Silent Hill”. Ne rendeva quasi impossibile la vista, anche per strada... il paese che mai avevo conosciuto del tutto, grazie a Dahlia. Ora era mia. Completa, seppur maledetta.
Persone? Quasi tutte tramutate in orribili creature: mostri dei miei disegni, esseri orrendi provenienti da libri di favole... erano questo nella mia dimensione nebbiosa... ma li sentivo, pur sempre, vivi e vegeti, nel loro mondo, un mondo che sembrava avermi cacciata via.
Tutti.
Era il mio incubo, perciò ognuno di loro soffrì in maniera smisurata.
Le mie compagne di classe, gli abitanti, gli animali... ognuno era, adesso,  una specie di mio servitore.
Oh non osavano nemmeno avvicinarsi a me, tanto era il loro timore che guaivano e gemevano come neonati al mio passaggio... perché ero concreta. Almeno in quella folta coltre bianca.
Quasi...
Non tutti erano sfuggiti. C’erano persone, come i membri dell’Ordine, che avevano percepito la nascita della mia nuova Silent Hill... e che, chissà come, ci erano entrati. In realtà, era proprio un mio desiderio: una parte di me avrebbe fatto di tutto pur di portare quelle orribili persone nel mio incubo... e ora che c’erano entrati di loro spontanea volontà, con qualche strano rito... o forse involontariamente...
Forse li avevo trascinati io.
Ma non me ne pentivo di certo.
Sentivo la presenza di quell’uomo, Kaufmann...
Mia madre... Dahlia, Leonard... e Claudia. Era anche lei nel mio regno e ne soffriva.
Non avrei mai lasciato che qualcuno potesse farle del male, né nella mia, né nella vera dimensione...
Poverina...
Si trovavano in luoghi sicuri, dove il mio potere non poteva esistere come i loro luoghi di culto. Vivevano lì, in una dimensione senza tempo, mentre forse nella realtà conducevano la vita di sempre.
 
Eppure, con mia grande sorpresa, quella gente non si era tramutata!
Vedevano i mostri e li evitavano, ma non sembravano afflitti dall’influenza della città: erano tutti con sembianze perfettamente umane.
Persino Dahlia... forse l’unica persona che una parte di me avrebbe salvato, anche dopo tutto quello che aveva fatto... sembrava immune, soprattutto, dai miei poteri e la mia devastante forza.
Gli altri... non lo sapevo... forse erano già mostri di per sé ...
 
 
Poi anche...
Travis!
Quel ragazzo!
L’avevo un po’ trascurato, e me ne pentivo.
Chissà per quanti giorni l’avevo lasciato da solo... o ore... o minuti... o semplicemente secondi: nella mia dimensione il tempo non esisteva. Ma c’erano momenti, in cui, il feto che avevo il compito di portare in grembo prendeva il completo controllo sulla mia mente, trasformando la silenziosa città in un inferno di sangue e disperazione, un anticipazione, evidentemente, del Paradiso che intendeva mia madre.
In quei momenti il tempo sembrava addirittura scorrere più veloce; tra la ruggine e rumori metallici mi sentivo impotente e frastornata, sul punto di perdere il controllo. In fondo, non avevo chiesto un incubo di sangue... e mai lo chiederei.
Quindi, Travis... sì, sentivo la sua presenza.
Era stato inglobato nella mia realtà, nella nebbia.
Ma lui era speciale, l’avevo da sempre saputo.
 
Travis nacque in quella che sembrava una famiglia amorevole, fino a quando sua madre, Helen, non cominciò a soffrire di severi disturbi mentali. Qua veniva il bello: la madre diceva di essere stata incaricata dalla “gente dello specchio” di uccidere il bambino, considerato da lei e da quelle persone un... demone.
 
Travis... come mi somigliava. Avevamo lo stesso passato...
 
Quando Richard, suo marito, uscì di casa, la donna cercò di suicidarsi insieme al piccolo Travis, col gas. La polizia per fortuna li fermò giusto in tempo e rinchiusero Helen in un manicomio. Il bambino sopravvisse, anche se con gravi problemi di salute. Lui e suo padre, spesso, andavano a fare visita alla povera donna, al manicomio... di Silent Hilll.
 
Aveva dimenticato tutto? La città è importante per lui, quanto per me!
 
Ma dopo piccole fughe da parte del bambino e un trasferimento provvisorio a Silent Hill, il signor Grady, accecato dal dolore che provava pensando a sua moglie, si tolse la vita. Fu Travis a trovarlo.
Si chiuse nella stanza insieme al cadavere, parlandogli per ore... fino a quando gli addetti alle pulizie lo trovarono.
Un bambino. Al funerale di suo padre, tutto solo.
Cercò di dimenticare il passato.
 
E ora io glielo stavo facendo rivivere.
 
La mia “maledizione” prevedeva anche una pena comune: chiunque entrasse nel mio regno, sarebbe stato costretto ad affrontare i proprio demoni e le proprie paure, magari anche compiendo una specie di cammino spirituale... sempre se sopravviveva, e questo dipendeva solo da me.
Travis era il mio favorito: per lui avevo in mente qualcosa di veramente speciale. E dovevo, naturalmente, sorvegliarlo sempre, affinché non sviasse.
 
Ora era davanti ai miei occhi. Lo avevo teletrasportato accanto all’ospedale Alchemilla e tra qualche secondo si sarebbe finalmente svegliato dal suo sonno senza tempo.
E così fu.
Era confuso e spaventato. Con un sussulto si mise a sedere, aprendo gli occhi:
- Dove sono? - sussurrò guardandosi attorno preoccupato - ... deve essere Silent Hill... ma cosa è successo la scorsa notte?
Si alzò con movimenti meccanici e bruschi, aguzzando lo sguardo per riuscire a focalizzare qualcosa in quella nebbia. Mosse anche qualche passo, per poi bloccarsi nuovamente ed esclamare:
- Quella ragazza! L’incendio! Ce l’ha fatta? Devono averla portata in ospedale... - disse. Alzò il capo... l’ospedale era proprio davanti a lui.
Allora... si preoccupava davvero per me! Nessuno, prima d’allora... e lui...
 
Comunque, non era stupido: doveva aver notato che quel silenzio innaturale e quella strana nebbia non erano tanto normali, soprattutto per la fantomatica meta turistica che era la vera Silent Hill.
Entrato in ospedale, poi, ed accertatosi che in giro non c’era anima viva, si dette un pizzicotto sul braccio scoperto, spalancando gli occhi:
- Possibile che non ci sia nessuno... in un ospedale? Devo sapere cos’è successo a quella bambina.
 
Per fortuna, proprio in quel momento, una figura umana fece la sua comparsa: il sudicio dottor Kaufmann.
Com’era brutto.
Più di prima.
 
- Ehi! Lei è un dottore? - chiese il ragazzo, camminando in direzione dell’altro.
Il dottore riconobbe sicuramente il camionista e, guardandolo con circospezione, disse piano:
- Posso aiutarla?
- Quella ragazza, la scorsa notte, dell’incendio... è stata portata qui?
- Una ragazza? - mentì Micheal - Non abbiamo ricevuto nessun nuovo paziente in questi giorni. Era ferita?
Bugie... e confusione. Ecco cosa trasmetteva.
Sì, era anche confuso... ma meschino: sapeva perfettamente cosa era capitato al mio corpo a causa del fuoco, ero l’unica paziente dell’ospedale della mia dimensione.
La prigione di carne mi “seguiva”, probabilmente, essendo io la sua essenza. Era intrappolata anche lei nel mio incubo... nostro incubo.
- Era completamente ustionata! - ribatté Travis, alzando leggermente il tono di voce.
Il dottore si voltò e mosse qualche passo verso l’ascensore, alle sue spalle:
- Lei è un parente? Come ha detto che si chiama?
- Non so come si chiama...
- No, intendo... lei, qui davanti a me, come si chiama?
- Non ha importanza! Devo solo accertarmi che stia bene. E’ in questo ospedale?
Bravissimo.
Se solo avesse detto all’uomo il suo nome, sicuramente, ne sarebbe venuta a conoscenza anche Dahlia e l’Ordine. Loro, che temevano l’arrivo di un semplice uomo che avrebbe cercato di distruggere i loro piani apocalittici.
Che fosse proprio Travis Grady, quell’uomo, neanche io potevo saperlo.
Sapevo solo che io portavo quel bambino, quel demone... e che la sua morte, molto probabilmente avrebbe comportato anche la mia. E se fosse nato... cosa sarebbe successo?
. Mi spiace - annunciò Kaufmann entrando nell’ascensore, indifferente - Forse qualcuno alla reception l’aiuterà. Ho una faccenda importante da sbrigare. Addio.
Si congedò così, col ragazzo a bocca aperta, che stava probabilmente ricordando che all’accettazione... non c’era nessuno.
Secondo piano, ecco dove l’uomo si stava dirigendo.
Naturalmente Travis lo seguì.
 
- Quel tizio non me la racconta giusta. Che succede qui?
 
Era venuto il momento.
Quell’uomo non poteva aiutarmi, se prima io non lo aiutavo a ricordare la sua infanzia.
 
Era ora di mostrarsi.
 
E quale luogo migliore, per incontrare sé stessi, di uno specchio.
Possiamo scrutarci quanto ci pare. Anche Alessa riusciva a parlare con me tramite lo specchio del bagno.
La madre di Travis, anche.
 
Arrivato perciò al secondo piano, ancora in lavorazione, si diresse verso l’unica stanza aperta: la 206, la stanza dove era stato portato il mio corpo ustionato.
C’era un grande specchio lì.
L’occasione perfetta.
 
Non trovò niente d’interessante, là dentro, se non qualche flebo e una barella coperta di sangue. Il mio.
 
Fece per andarsene.
Io comparii, accanto a lui, nel riflesso. Un riflesso falso.
Per raggiungermi doveva superare anche Samael e il suo mondo di sangue. Attraversare lo specchio, come Alice: era facile!
La sua radio cominciò ad emettere suoni fastidiosissimi.
 
Si voltò.
Mi vide.
Gli sorrisi.
- Tu... - sussurrò stupefatto di vedermi in quello che aveva tutta l’aria di essere un portale per l’inferno. E lo era, in un certo senso.
Risi forte:
- Raggiungimi.
Posai la mano sulla superficie fredda, lasciando un’impronta di sangue, un invito.
 
Travis si avvicinò sospettoso:
- Tu sei la ragazza dell’incendio. Che ci fai... ? Come... ? - mormorò piano.
- Raggiungimi - dissi ancora.
Allungò la mano, a toccare il suo riflesso. Pochi centimetri e...
Sarei dovuta stare in guardia, non ero più nel mio regno: il sangue  e i mostri reclamavano la sua carne e la sua anima. Io potevo solo guidarlo e dargli indizi, ma presto avrei dovuto lasciarlo in pace, a seguire i fantasmi del passato.
Dovevo fermare quell’orrore. E per fermarlo dovevo imprigionare quel male. E solo un oggetto era in grado di riuscirci; un oggetto magico, custodito da mia madre... che probabilmente l’avrà scomposto in più pezzi.
Io non potevo riuscirci da sola.
Per liberarmi dallo specchio e dalla sua maledizione, Travis doveva ricomporre i pezzi. Solo allora Silent Hill sarebbe stata semplicemente e completamente mia, per davvero. Solo allora avrei, quindi, potuto fermare quel demone.
Il Flauros, la prigione perfetta.
 
Eccolo: le sue dita andarono a posarsi sull’impronta di sangue.
Il vero Travis si bloccò. Il riflesso prese a muoversi da solo.
Sorrisi ancora.
Solo insieme ce l’avremmo fatta.
 
Il primo pezzo era qui.
L’avrebbe trovato, e me l’avrebbe consegnato, sì.
 
 

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Capitolo 36
*** Due Madri Per Due Figli ***


DUE MADRI PER DUE FIGLI
 

“Cos’era quella cosa?”
Erano state queste le parole che Travis mi aveva rivolto al nostro primo incontro... ma nell’Otheworld, appena ucciso un mostro, una creatura ripugnante, senza braccia, viso o altre fattezze normali, dal cui petto faceva fuoriuscire una specie di acido ustionante. Come avevo fatto a crearlo? Probabilmente infestava i miei incubi e quelli di Travis. Insieme.
Aveva raccolto il primo pezzo ed ero arrivata io... a metterlo a dormire.
Lo feci svegliare lontano da lì, nella “realtà”. Anzi, fu Lisa Garland a svegliarlo, in sala d’attesa.
Lisa... Travis... non li vedevo male quei due. Ma Lisa sembrava quasi assente, distaccata.
E Travis parecchio imbarazzato, in effetti non aveva molta esperienza con le ragazze. Poi Lisa era decisamente carina per i suoi diciassette anni: una giovane ragazza, formata, bella, sorridente... ma sempre con quell’aria sognante.
Travis le chiese di me, naturalmente. Lisa mantenne il segreto, esattamente come Kaufmann le aveva comandato di fare: rispose all’uomo che io, Alessa, ero morta qualche giorno fa nell’incendio in periferia. Finse bene, ma Travis non le credette. E come poteva? Era stato lui a salvarmi!
Lisa alla fine lo congedò, scusandosi che il dottor Kaufmann desiderava incontrarla al manicomio, e che se faceva tardi l’avrebbe sgridata. Palese bugia: cosa avevano intenzione di fare, quei due nella mia dimensione nebbiosa, in un manicomio, ora vuoto, visto che erano circondati solo da mostri?
Droga? Probabilmente.
Anche Travis non la bevve; in verità era chiarissimo che Lisa stesse nascondendo qualcosa. Perciò la seguì e aiutandosi con la mappa raggiunse il “CEDAR GROVE SANITARIUM”.
Un manicomio. Lo stesso manicomio dove fu chiusa sua madre, quando impazzì e cercò di uccidere il suo unico figlio col gas. Lo sapeva, aveva dei ricordi? Probabilmente no, visto che il nome non gli risultava familiare. Ecco perché dovevo aiutarlo a ricordare.
In più, “sentivo” la presenza di un altro frammento di Flauros nell’edificio.
Due piccioni con una fava. Perfetto.
 
L’atmosfera lugubre, anche all’interno, faceva da padrona. Un silenzio... per me. Ma ero sicurissima che Travis riuscisse ancora a sentire il bisbigliare di mille persone.
I suoi piedi andavano, senza fermarsi. Perlustrava i corridoi, raccolse una pistola per sicurezza, esaminò cassetti e armadi, e soprattutto cercava l’infermiera.
Ma invece della dolce biondina, ebbe un incontro molto più spiacevole.
Mia madre, Dahlia, lo incrociò per un lungo corridoio. Travis la riconobbe senza indugi e le rivolse la parola:
- Tu eri presente quella notte, all’incendio! Ti ho vista!
Forse cercava testimonianze per confermare la mia non-dipartita.
Dahlia gli sorrise:
- Certo, era casa mia quella... che bruciava. E mia figlia, Alessa.
Dahlia, Kaufmann e Lisa in un posto isolato e vuoto, quasi.
L’Ordine. E la PTV.
Travis ridusse gli occhi a delle fessure; potevo quasi sentire il suo cervello ronzare, a ricordare.
- Tu... sei l’uomo che l’ha salvata - continuò la donna.
Una persona normale l’avrebbe ringraziato, e forse era anche quello che si aspettava Travis. Ma niente. La sua era stata un’osservazione.
- Sì! - esclamò il ragazzo - Ed era tua figlia? Perché l’hai lasciata là dentro, sola, a morire? Perché nessuna le ha dato una mano? Avete lasciato quella bambina bruciare!
Era rabbia. E confusione.
Diceva che ero morta. Ma non poteva spiegarsi il motivo per cui continuava a vedermi riflessa negli specchi.
- Ed è così che è stato, e così che doveva andare! - rispose Dahlia - Il mondo è più strano di quanto tu possa pensare...
- Sei pazza. Dov’è? So che è viva.
Il corpo di Dahlia ebbe un fremito di paura e sorpresa.
Se continuava così, Travis mi avrebbe fatto scoprire! Cosa stava facendo? Dahlia sapeva che il corpo di sua figlia riposava sottoterra, ma non aveva idea che io, anima, fossi uscita da quella stanza, da quella carne ustionata, per guidarlo.
Ora avrebbe avuto strani sospetti... o già li aveva. Sorrise. Come sempre. Un sorriso che avevo imparato ad odiare.
- So che è viva, l’ho vista. Ma Lisa mi ha detto che è morta. Cosa le è successo veramente? - continuò.
- Alessa? Alessa è insieme a coloro che tengono a lei - disse lei.
Lo sapeva. Ora.
Ero vicino a Travis. Lo guidavo, lo sorvegliavo, li seguivo. Ero al suo fianco.
Dahlia fece per svoltare l’angolo quando aggiunse:
- Non fidarti di lei, Travis. Non sa quello che sta facendo.
Travis sussultò:
- Come conosce il mio nome?! Ehi!
Ma la donna era sparita nelle ombre, di lei non c’era più traccia.
 
Ero nei guai.
Ma potevo ancora farcela, se giocavo bene le mie carte.
 
Infermiere demoniache.
Cercarono più volte di uccidere Travis, ma non erano in grado di ferirlo, grazie ai suoi riflessi pronti e alla capacità d’attaccare. L’uomo utilizzava qualsiasi cosa per colpire: pezzi di legno, cacciaviti, metallo, coltellini, porta flebo. E i mostri in pochi secondi crollavano ai suoi piedi. Erano sue e mie paure, le sconfiggeva anche per me e le ero grata.
Comunque, arrivati nella sezione femminile del manicomio, Travis cominciò a sentirsi debole e dolorante, non per stanchezza. Ma a causa di voci. Voci che riuscivo a sentire anch’io.
 
“Ti ho sempre odiato! Te e quel demone di tuo figlio!”
“Helen, no! Non andare, no!”

 
Come faceva a non ricordare? Travis si limitava ad accasciarsi e ad aspettare che i suoni cessassero.
Non ero io a farlo stare così, era Silent Hill stessa, ma tutto ciò facilitava il mio lavoro.
Altre voci... sempre più vicini alla cella d’internamento di Helen Grady.
Un dottore e lei, sicuramente.
 
“Cosa, Helen?”
“Dovevo farlo.”
“Doveva farlo? Fammi capire... “
“E’ così che ci si comporta con la gente cattiva.”
“Ed è così che ti sei comportata tu. Era stato cattivo?”
“Oh, sì che lo era. Lo è sempre stato. Ho cercato di far finta che non lo fosse... Ma loro erano là per assicurarsi che non me lo dimenticassi mai.”
“Loro?”
“Le persone dello specchio. Loro vedono tutto. Ciò che succede... “
“Ed è stata una loro idea?”
“Sì. Hanno visto il diavolo dentro di lui. Dovevo ammazzarlo. Io, la responsabilità era mia. Mia carne, mio sangue. Io l’ho dato alla luce, l’ho messo al mondo... quindi dovevo essere io a togliercelo! Anche i ventri buoni possono partorire figli cattivi, dicono loro. So che pensa che ciò che ho fatto sia sbagliato.”
“Voglio solo capire... Helen...”
“No. Lei vuole tenermi rinchiusa qui, dottore. Ma non può; io esco quando mi pare. Posso attraversare lo specchio ed entrare nel loro mondo. Questo mondo è solo un sogno ad occhi aperti.”
“Helen... “
“Quando mi porteranno il mio bambino?”

 
Ma fu Travis a venire da lei, ad intrufolarsi senza il consenso paterno nel manicomio per arrivare da sua madre. Non dette retta al padre, non accettò la sua morte. Ed aveva ragione.
Un po’ come stava capitando ancora, nei miei confronti però.
 
Davanti alle cellette femminili dell’Otherworld, c’era Lisa, seduta su uno sgabello, con la mano sulla fronte e sguardo assente.
Travis dovette chiamarla più e più volte per disincantarla.
- Lisa! Lisa? Rispondimi. E’ importante: anche tu vedi... questi... questa... roba? E’ tutto buio, pieno di ruggine e voci anche per te?
Lo era sicuramente...
Tornata lucida, Lisa borbottò:
- Io... oh, è così triste. Non possono fare niente per lei. E’ seduta lì, a non far niente. Rivuole il suo ragazzino, così disperatamente.
- Chi? Lisa, chi? Di chi parli? - chiese lui agitato puntando la porta al fianco della ragazza, i ricordi che cominciavano probabilmente ad affiorare - Alessa? C’è Alessa là dentro?
Lisa ebbe un cambiamento d’umore: s’alzò in piedi, furiosa guardando negli occhi Travis.
- No! NO! Tu sai chi c’è dentro! - gridò fuori di sé, prima di lasciarsi tutto alle spalle ed uscire dalla stanza.
 
Non le bastavano le transizioni tra realtà deserta e realtà mostruosa. O il suo cervello cominciava a dare i primi segni di cedimento. O Kaufmann l’aveva sgridata.
Lisa non era quella che conobbi qualche tempo fa, per strada.
 
Travis...
Nella cella... c’era sua madre. E la trovò... non come si sarebbe aspettato.
 
Un ammasso di carne puzzolente e marcia, dentro una gabbia da cui spuntavano aculei di ferro, roventi ed appuntiti. La creatura aveva ancora quasi le sembianze di una donna. E un buco, su quello che doveva essere il viso, era la sua bocca.
 
- Mamma... papà dice che sei morta - sussurrò un bambino della mia stessa età, al mio fianco. Aveva i capelli scuri e portava un berretto.
- Non sono morta, amore. Solo lontana. Lontana dagli occhi, dai pensieri. Ma non morta - disse il mostro con voce mielosa - Ho detto allo specchio di portarmi il mio bambino e...
- ... mamma.
- Vieni, piccolo. Lascia che mamma ti dia uno sguardo...

 
Travis cercò l’uscita ma la porta si era come volatilizzata.
Helen era pochi metri da lui, minacciosa e spaventosa.
 
L’affrontò.
Fu uno sforzo tremendo, fu anche ferito. Ma riuscì ad evitare i colpi con tenacia, proprio come mi aveva dimostrato, e la mise in stallo, in un angolo, riempendola di pallottole.
Lo faceva senza battere ciglio, sapeva che era la cosa giusta da fare. Certo, uccideva la sua paura nei confronti della madre... ma chissà se l’illusione di star uccidendo la sua vera madre si era insinuata nella sua mente.
 
Quando la gabbia crollò e il mostro lanciò il suo ultimo grido di dolore, il pavimento cominciò a tremare.
Paura affrontata e sconfitta.
Pezzo di Flauros.
Davanti a lui.
 
Con le mani rosse di sangue lo raccolse e lo avvicinò al viso sudato.
- E’ come prima - sussurrò sospettoso.
Mi resi visibile finalmente ai suoi occhi, come l’altra volta. E l’osservai.
Ci era riuscito.
Mi osservò furioso... anche lui sospettava:
- Cosa sta succedendo, eh? Quella cosa... che ho visto e... non è possibile! E’ causa tua? Sei tu che mi stai facendo tutto questo?
Rimasi zitta.
La sirena suonò: si torna nel mio regno, Travis.
Iniziò a barcollare:
- No, non an-cora... devo... sapere...
E cadde a terra svenuto, ai miei piedi, con la piramide stretta in pugno.
 
Ora... il terzo pezzo.
- Si và a teatro - sussurrai.
 
 
 

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Capitolo 37
*** Tra Rabbia e Gelosia ***


TRA RABBIA E GELOSIA
 
Fu abbastanza difficile condurre Travis al teatro della città. Ricorsi a numerosi segni, suoni ed indizi per riuscire a portarlo sulla strada giusta; in più la presenza dei mostri per le vie nebbiose non faceva altro che spingerlo verso vicoli stretti e silenziosi, lontano dal posto designato. Comunque, una volta entrato, il Teatro Artaud si presentò in tutto il suo splendore davanti ai suoi stanchi occhi. Colori vivaci e locandine di spettacoli... un normale teatro, all’apparenza.
La sala col palcoscenico e i posti a sedere, però, era buia. Tanto che l’uomo, catturato dalle tenebre, quasi non distinse una figura umana, accanto a lui. Per fortuna ebbe il buon senso di accendere la torcia.
La bella infermiera, Lisa, sorridente rilassata, diversa dall’ultima volta che il ragazzo l’aveva incrociata, sedeva sulla morbida poltrona rossa, con gli occhi puntati sul palco, come se aspettasse l’arrivo degli attori o l’inizio dello spettacolo. Lisa mi faceva pena. Cosa le stavano facendo?
- Lisa! - esclamò sorpreso Travis quando la riconobbe, facendosi vicino - Che ci fai qui?
La mia infermiera lo riconobbe subito. Ammiccò, senza smettere di sorridere, per poi dire calma:
- Scusa se ti ho spaventato. Ma... credevo di essere sola qua dentro.
- E’ pericoloso - fece serio Travis.
- Pericoloso?! - rise lei - Stai scherzando, vero?
Le gambe accavallate si sciolsero con un gesto morbido, fluido e sensuale. Si mise in piedi, lentamente, guardando negli occhi il camionista e passandosi una mano tra i lisci e corti capelli biondi, sfiorando appena la cuffietta bianca sulla testa.
Travis si accigliò, curioso e ancora più confuso di prima. La ragazza che prima sembrava sparare idiozie o frasi senza senso, che era rimasta sola nel manicomio, ora sembrava così... strana, forse, da non capire nemmeno cosa stava accadendo attorno a lei. Se era rimasta, con me, nella mia dimensione doveva esserci un motivo. Ma lei sembrava non accorgersene.
Chissà se riusciva a vedere i nostri mostri...
- La porta era aperta, così sono entrata - sospirò Lisa, ridacchiando.
Travis annuì distratto. Forse non l’aveva convinto.
Ma la ragazza continuò, con fare sognante:
- Io amo il teatro, Travis. Volevo diventare un’attrice, famosa... bella, acclamata. Ma mia madre era un’infermiera, così come sua madre. Quindi... sono infermiera anch’io. Ho tutti i requisiti.
 
Detto questo, la bionda si avvicinò a Travis, allungando le braccia attorno a lui, al suo collo, stingendolo e accarezzandogli i capelli bruni; si avvicinò a lui, fino a quando il suo naso non fu a pochi centimetri da quello dell’altro. Travis si immobilizzò, non abituato a quegli strani gesti affettivi o qualcosa di più. Aveva gli occhi sbarrati, ed era rigido e senza parole, mentre Lisa gli sorrideva a suo agio, in quell’atteggiamento strano.
Io non capivo, ma sentii qualcosa nascere dentro di me.
Chiamarla gelosia, però, era troppo.
Io volevo bene ad entrambi e non mi sentii affatto tradita dall’infermiera, né dal ragazzo, visto che uno mi credeva lo spirito di una morta e l’altra un ammasso di carne bruciacchiata; ma se avessi avuto un corpo, qui e ora, non avevo idea di cosa avrei combinato...
Erano così carini insieme, ma sentivo che Travis era mio e né mia madre, Kaufmann o Lisa sarebbero riusciti a portarmelo via. Poi lui non mi considerava nemmeno... come possibilità. Imprigionata nelle sembianze di una povera bambina di sette anni. Non potevo certo competere con la bellezza di quella ragazza, di quell’infermiera.
Lei era tutto.
Io il nulla.
Dolcezza, bellezza e femminilità. Tutto quello che il mio corpo ustionato, probabilmente, non avrebbe mai conosciuto.
Il suo era un corpo di giovane donna, attraente come una farfalla. Io ancora no.
Ma Lisa era la farfalla più fragile che avessi mai “catturato”, capace di non accorgersi del pericolo a cui andava incontro e che non sarebbe durata molto, senza protezione; questo doveva averlo capito anche Travis. Anche se vederla là, così vicina a lui... sembrava sicura di sé. Doveva essersi innamorata, ma non volevo scoprirlo né saperlo; solo la certezza dei sentimenti che Travis provava per lei e per me... avrebbe chiarito ogni dubbio.
E  in quell’istante, desiderai crescere, diventare ragazza e poi donna, solo per stare insieme a lui, anche a costo di soffrire, di abbandonare Silent Hill e partire insieme a lui; lo desideravo tanto...
Lisa parlò, dopo quella che mi parve un’eternità, dolce come il miele:
- Non riesco a smettere di pensare a te, Travis. Rivolgo a te ogni mio è pensiero, sei la mia ossessione. Andiamocene insieme, via da questa folle città, solo noi due. Insieme. Staremo benissimo... insieme.
Gli accarezzò piano la guancia, per poi scoppiare a ridere divertita, sciogliere l’abbraccio e fare una giravolta davanti ai suoi occhi. Si portò entrambe le mani sui fianchi e disse forte:
- Visto? Potrei diventare una stella!
Anche Travis rideva. Rideva...
- Sì...
Lisa trotterellò accanto a lui, ma in direzione opposta, verso l’uscita della sala. Alzò la mano in segno di saluto, sempre ridendo:
- Bene. Ci vediamo, Travis.
E rimanemmo ancora soli.
Nemmeno la patetica recita di Lisa Garland riuscì a farmi cambiare idea sul loro conto. Secondo me, riuscì solo a far ancora più male a Travis, già confuso di suo...
 
Le locandine sparse dietro le quinte e per tutto il teatro indicavano che lo spettacolo che si sarebbe messo in scena in quei giorni doveva essere “La Tempesta” di Shakespeare. Avevo letto il libro tempo fa e non potevo che esserne felice. Rividi tra gli oggetti di scena molti costumi e accessori a me familiari.
Manichini piccoli come bambini, appesi per i piedi, li associai allo spiritello Ariel, aiutante nella storia. Peccato che Travis li vide animate dal mio potere: le manine, improvvisamente animate di vita, cercavano il suo collo che ancora profumava di Lisa.
Gli stetti dietro, trasportandolo dentro e fuori gli specchi parecchie volte, alla ricerca di chiavi e documenti. Ma riuscì a farsi una buona idea del guaio a cui andava incontro - e in cui lo stavo inesorabilmente spingendo - solo quando capì che gioco stavamo giocando.
Era la fine dello spettacolo.
Travis era sul palcoscenico dell’altra realtà. Vere rocce lo circondavano, così come la luce bluastra che filtrava da fessure da strane crepe in alto. Lo sentii rabbrividire per il freddo improvviso.
Finalmente, anche se a mio svantaggio, comprese che ero la burattinaia: lui, il mio piccolo e caro pupazzo, era sotto la mia influenza perché avevo bisogno di lui per ricomporre il Flauros, come le profezie dicevano quando ero piccola. Ora lui si ribellava, anche se troppo tardi.
Gli altri pezzi della piramide giacevano inutili nelle sue tasche e solo sentendo le punte aguzze graffiargli le braccia... gli fecero ricordare.
Ma l’arrivo del mio mostro, il più grande di tutti, il più orribile, simile ad un dipinto che avevo visto tempo fa nella chiesa dell’Ordine, raffigurante l’Angelo del dio, il mio Calibano, costrinse i suoi pensieri e le sue idee a smettere di tormentarlo. La grotta sembrò rimpicciolirsi di molto col suo ingresso, viste le dimensioni, e sapevo che Travis soffriva leggermente di claustrofobia a causa di sua madre. Io, invece, ero stata educata dalla mia agli spazi angusti, sottoterra o negli sgabuzzini, quindi la visione e il luogo non mi turbarono molto. Poi, erano frutto dei miei incubi. Della mia stessa testa, quindi.
Orribile incubo, di una notte passata ad immaginare quanto mi sarebbe piaciuto assistere ad alcune rappresentazioni teatrali. Adoravo Shakespeare; avrei dato qualunque cosa per fare da spettatrice a “La Tempesta” o a “Romeo e Giulietta”...
Anche se, dovevo ammetterlo, quello che stavo vivendo e che stavo facendo passare al camionista, superavano di gran lunga tutto quello che si poteva trovare qui, a teatro.
Calibano... disgustoso essere.
Enorme, alto e pesante. Un ammasso di carne, le cui braccia cadono a terra e, insieme alle zampe posteriori, sfigurate e contorte stranamente, gli permettono di muoversi. In effetti, la testa è proprio posizionata là, in mezzo alle “gambe”, con occhi neri come la notte e strani tatuaggi scarlatti sul muso, che mi ricordavano incredibilmente i simboli della setta. Lui, il mostro, nascondeva il pezzo; ora dovevo solo aspettare... solo aspettare di vederlo crollare morto ai piedi di Travis.
Ma il ragazzo non reagiva, per la paura. Così gli resi più facile il lavoro, a mie spese; gli occhi della creatura lasciarono le zone orbitali accompagnate dai lamenti orribili della creatura, cadendo a terra, inutilizzabili. Cieco, avrebbe avuto modo di “sentire” Travis solo con l’olfatto.
L’uomo afferrò la pistola, la ricaricò... e cominciò lo scontro.
 
“Non aver paura. L’isola è piena di rumori, di suoni e di dolci arie che danno gioia e non fanno male.”
 
Calibano caricava Travis con incredibile velocità: dopo una breve rincorsa, visto lo spazio ristretto, si scaraventava addosso a lui, con tutto il suo peso; lo atterrò un paio di volte, ma non potevo fare più niente per lui. Mi limitai ad osservarlo.
Per quanto mi importasse di Travis, della sua vita e della nostra esistenza ero ancora debole. Avevo bisogno del Flauros per essere capace di tutto e avere il controllo di questa realtà e di Silent Hill.
 
“A volte mille e mille strumenti vibrano e ronzano nelle mie orecchie; a volte sono voci che, anche se mi sono destato da un lungo sonno, mi invitano a dormire ancora.”
 
Cadde ancora, più vicino a me.
Chissà se sarebbe crollato...
E se lo faceva per me?
Comunque, anche Calibano presentava i primi segni di cedimento: correva più lentamente e gemeva spaventosamente. Una lotta impari che però...
 
- “Allora, nel sogno, vedo le nuvole che si aprono e mostrano tesori pronti a cadere su di me - e quando mi risveglio, piango per sognare ancora” - sussurrai. E finalmente l’abominio a cui io stessa avevo dato la vita esalò l’ultimo respiro e cadde ai nostri piedi.
Travis respirava faticosamente: la lotta lo aveva sfinito. Lo vedevo... umano, diverso da come lo ricordavo quando mi tirò fuori dalla casa in fiamme: un livido sulla guancia e parecchi graffi.
E furioso...
Aveva capito. Non era stupido, dopotutto.
Il pezzo di Flauros risplendeva di luce propria accanto al cadavere del mostro; una volta raccolto, Travis lo agitò sopra la testa:
- Tu! - mi chiamò - Vieni fuori. Ti servono questi, non è così?!
E io mi mostrai. Camminai tranquilla, guardandolo negli occhi, finalmente, aggirando il Calibano deceduto.
Sì, era decisamente arrabbiato.
E anche io lo ero.
Sia per quello che avevo visto, sia per Lisa, che per i suoi modi. Aveva bisogno di urlarmi contro ogni volta? Presto sarebbe tutto diventato più chiaro per lui; ma fino a quel momento doveva pazientare.
Detti un potente calcio all’arto freddo del mostro che mi ostruiva il cammino, lasciando correre via tutto il mio orrore e la mia rabbia.
La mia guerra intestina...
Intanto, abbassato lo sguardo, mandai a “nanna” il camionista. Portandolo via dal Teatro, con la chiave del Motel del Lago Toluca nella sua mano.
L’ultimo pezzo.
E la chiave del potere.
 

 ANGOLO AUTRICE:
Come sempre... in ritardo XD
DOVEVO aggiornare, ma questa settimana è stata un inferno. Finalmente qui, però :D
E non so più cosa dire. Spero vi sia piaciuto, fatemi sapere e... alla prossima!
Besos ;)
 
PS: Ah, le citazioni in corsivo sono di Shakespeare, naturalmente <3 "La Tempesta", atto III, il discorso di Calibano, uno dei più struggenti :)
 

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Capitolo 38
*** Il Sapore Della Libertà ***


IL SAPORE DELLA LIBERTA’
 
Il bambino che Travis doveva essere stato, anni fa, attraversava il buio corridoio, diretto verso la stanza che suo padre aveva preso per loro due, al Riverside Motel di Silent Hill. L’aveva fatto per Helen, sua moglie, era certo, ma il bambino non poteva saperlo.
Richard Grady aveva fatto di tutto per far dimenticare a Travis di sua madre, sin dal giorno in cui suo figlio si intrufolò nel reparto femminile del Cedar Grove Sanitarium.
Comunque, la stanza dei due era la numero 500. La porta bianca della loro camera non era chiusa a chiave e bastò una leggera spinta per entrare nello spoglio ma accogliente piccolo ambiente, diventato stranamente familiare per Travis dopo una settimana passata là.
Il silenzio che accolse il giovane era, a dir poco, cosa spettrale, ma suo padre lo aspettava là dentro, ne era certo. Il sorriso era ancora stampato sul viso del bambino: tornava da una bella passeggiata attorno alla piscina del motel e da un sacco di partite al flipper dei Kiss. Aveva vinto così tante volte, che aveva perso il conto e il proprietario dei minuscoli tavoli da biliardo e della macchina elettronica gli aveva persino intimato di abbandonare la postazione, forse solo invidioso della sua innata bravura.
- Papà! - chiamò lui - Papà!!
Stringeva un quarto di dollaro. Il suo futuro portafortuna, tutto quello che gli rimaneva dei soldi che suo padre gli aveva dato per divertirsi nella piccola sala giochi... forse l’unico modo per distrarsi dal pensiero di Helen, la donna che aveva tentato di ucciderlo, sua stessa madre.
- Papà! Dove sei? - continuò il bambino correndo a controllare in bagno.
Vuoto.
Tornò, quindi, sui suoi passi, confuso come non mai. E poi... eccolo là: suo padre pendeva dal soffitto, con una spessa fune attorno al collo, sospeso come una marionetta impiccata nei suoi stessi fili. Aveva gli occhi aperti... respirava... ed era davanti a noi: ero stata io a farlo “tornare”.
Le pareti si sporcarono all’improvviso di sangue e ruggine, mentre il pavimento spariva insieme ai mobili, lasciando al loro posto grate di ferro e puzza di corpi in decomposizione. Ma il piccolo Travis sembrava non essersene accorto: sorrideva placido al padre, contento d’averlo trovato.
- Papà - disse tutto contento - Ho vinto il gioco! Ho vinto tutto! Ma mi è rimasto questo quarto di dollaro.
Porse la monetina al corpo penzolante, ma Richard non rispose.
- Lo vuoi, il quarto? Papà! Papà! - riprese Travis più forte, ingenuo, e non aveva idea di quello che era successo a suo padre - Papà, per favore, rispondimi. Sveglia, papà!
Il sussurro di suo padre riempì la stanzetta di tensione:
- Non sto dormendo, figliolo.
- Cosa... ? - si domandò il ragazzino, abbassando la mano, ritirando l’offerta e stringendola forte.
La stanza tremò:
- Tu sapevi che non avrei dormito. Dove sei stato per tutto questo tempo? Non si fa così - mormorò l’uomo, dondolando in avanti e rendendo la scena ancora più disturbante.
- Papà...
- Non è stata una buona decisione. Dovevi tornare... e saremmo stati insieme per sempre - continuò Richard. Le sue parole vennero accompagnate da uno strano fremito, come se fosse stato investito da una potente scarica elettrica, così potente da fargli cadere gli occhiali dal naso.
Naturalmente non andò così tanti anni fa.
Era successo tutto prima che nascessi, quando il mio salvatore era alto la metà di ora, innocente come solo i bambini possono essere. Dopo aver rischiato la morte col gas, essere entrato in manicomio per sua madre, tempo fa, Travis, di ritorno dalla piccola sala giochi del Riverside Motel, trovò il corpo senza vita di suo padre in camera. Suicida per impiccagione. Si era salvato, il piccolo, ancora una volta; se fosse stato accanto al padre, si sarebbe lasciato probabilmente condizionare e si sarebbe ammazzato insieme a lui.
Comunque, auto - convinse sé stesso che il suo papà, sebbene legato al soffitto, pallido e silenzioso, fosse ancora vivo e per giorni e giorni dormì accanto al cadavere, lo toccò e ci parlò. Lui e il corpo di suo padre, a marcire in un camera d’albergo.
Solo dopo parecchio tempo, i camerieri insospettiti dalle continue richieste del bambino che ordinava loro di non pulire la stanza, scoprirono la macabra e triste realtà e provvidero a Richard e all’incolumità e allo spostamento dell’orfano.
 
Travis, ora, era faccia a faccia con lui, proprio come ai vecchi tempi. Stava parlando a lui, non più bambino naturalmente; sembrava scosso, molto più di quanto lo fu con sua madre Helen, e tremava senza controllo.
Richard e l’ultimo pezzo di Flauros erano una cosa sola, a questo punto. Stavo per essere liberata interamente!
- Questa è follia! - esclamò Travis al padre, un ammasso di carne e tentacoli, occhi e sangue. Una mia nuova creazione.
- E’ora di affrontare il passato - ruggì la bestia, il suono irregolare e cupo che usciva fuori da un grosso buco su quello che una volta era il suo petto - Tua madre e io... ti rivedremo in Paradiso, figlio mio...
Ruggì forte, rivelando la sua nuova sete di sangue. Il suo stesso sangue, stessa carne.
Ero lì, ad assistere, come sempre, allo scontro “generazionale”. Non sopportavo il fatto di essere una semplice spettatrice, ma non avevo la minima intenzione di dargli una mano, per ora: era proprio ora di affrontare i fantasmi del passato, per quanto i ricordi possano averlo ferito e provato... per quanto i ricordi possano bruciare dentro di noi.
Richard contro Travis...
E in fondo non mi preoccupavo. La sconfitta del giovane Grady era inconcepibile: aveva dato prova di coraggio, astuzia e forza fisica, perciò sapevo che sarebbe uscito vincitore. Promisi a me stesso che quella sarebbe stata l’ultima battaglia coi suoi ricordi e i suoi mostri, proiezioni del nostro Otherworld.
Sentivo crescere la sua ira e la sua rabbia... contro Richard e contro di me e avrei dato qualunque cosa per riappacificarmi con lui. Forse pensava fossi solo una bambina capricciosa, anzi, un fantasma che non faceva altro che impartirgli ordini e missioni. Che si approfittava di lui per recuperare un oggetto dai poteri soprannaturali.
Oh, solo un altro po’...
 
Quando il mostro cadde a terra, morto, infradiciato del suo stesso putrido sangue e pallottole nella carne, Travis aveva un pesante fiatone e traballava, scosso e sfinito dalla battaglia.
Lasciò cadere le braccia lungo i fianchi, sospirando e ansimando, con la pistola ancora stretta nella destra:
- Papà... com’è possibile... - sussurrò nervoso - Come ha potuto fare una cosa del genere?!
 
Mi resi nuovamente visibile, proprio alle sue spalle. Silenziosa e calma, azzardai qualche passo in avanti, mentre il ragazzo raccoglieva l’ultimo pezzo di Flauros necessario, che si trovava ai piedi del mostruoso genitore. Lo girò tra le mani, sentendone lo strano calore, il potere celato nell’oggetto piramidale. Lo sentì ribollire dentro, in attesa del mio arrivo. Non mi sarei sorpresa se mi avesse lanciato contro il pezzo: il suo respiro affannato, i movimenti veloci e il suo tremare... erano per me, e io stessa ne ero la causa.
Si rivolse a me, urlando e con l’oggetto bene in vista, sopra la sua testa, lontano dalla mia portata data la sua altezza:
- Perché lo fai? Perché non vuoi farmi dimenticare?! Perché mi tormenti! Come ci riesci?!
Gridò davvero forte, tanto che esitai; anche nella mia invulnerabilità e nella mia volontà di uscire dallo “specchio” per entrare nel mondo reale, mi sentivo piccola, insensibile e paurosa... come se fossi tornata ad essere la patetica bambina di qualche giorno fa. La sua rabbia mi travolse, comunque, come un treno in corsa. Ero preparata, ma ne provavo comunque timore.
- Vieni fuori! - gridò con gli occhi lucidi e spalancati - Non vedi? Ho la tua, tua... COSA per te. Vieni a prenderla!
Ero già dietro di lui. Così passai velocemente le mani sul grembiule, provocando un debole sfruscio di tessuto blu. Bastò quello a farlo voltare verso di me.
Mi vide con lo sguardo basso, i capelli sulla spalla e le mani dietro la schiena.
Ero preoccupata, sì, ma forse lui pensava che stessi ancora giocando alla povera ed innocente bambina, perché si avvicinò con passo minaccioso, tremante di rabbia. Si muoveva a scatti. Questo mi costrinse ad alzare il capo per cercare di guardarlo negli occhi: bruciavano di odio, dolore e sofferenza.
- Contenta? - mi chiese in modo sarcastico. Vidi le sue labbra curvarsi in un sorriso incerto, una smorfia d’ira e di collera - Hai “dissotterrato” i miei genitori. E ora cosa avresti intenzione di farmi?!
Si avvicinò di più, sempre più veloce. Per un attimo rividi mia madre, che cercava di convincermi a seguirla; una visione orribile ma istantanea. Mi limitai ad accennare anche io un mezzo sorriso, ma questo mio gesto sembrò alterarlo ancora di più: allungò la mano libera dal frammento di Flauros, quella destra, e la tese verso di me, sempre continuando ad avanzare e spingendomi contro la parete alle mie spalle. Cercò di afferrarmi per un braccio, furioso, sibilando:
- Parla! E io? Quando potrò finalmente entrare nella tua piccola mente malata?!
La mano era ancora tesa per afferrarmi, quando sentii il muro di sangue e ruggine dietro di me. Ci sbattei violentemente contro, sussultando per la sorpresa; Travis, a quella vista, sembrò calmarsi e ritrasse l’arto,
limitandosi a fissarmi in cagnesco. Ai suoi occhi ero pur sempre una bambina, la stessa che aveva salvato dalle fiamme e, forse, la mia impotenza contro gli adulti, che senza dubbio mi caratterizzava, aveva placato per un po’ la sua collera.
La frase, la domanda, mi colpì come un pugnale, doloroso quanto le fiamme che avvolsero il mio corpo. “Piccola mente malata”? Erano le parole che non avrei mai voluto sentire pronunciare da parte sua.
Mi costrinsi a guardare per terra, mentre lo addormentavo contro la sua volontà. Perse in sensi velocemente: succedeva sempre così quando ero triste o arrabbiata.
Ero tornata debole come un tempo. E quella metà debole e sensibile non era fatta per restare qua, insieme a “me”, a Silent Hill, anche se era parte di me.
Il Flauros rotolò a qualche metro di distanza dalla mano dell’uomo, proprio ai miei piedi. Lo raccolsi riluttante e confusa, ma in fondo felice, e avvicinandomi al corpo privo di sensi e lo posi nella mano dell’uomo, stringendo le dita rilassate affinché non lo perdesse ancora.
“Piccola mente malata”.
Lo sentivo ancora ringhiarmi contro quella parole. Forse lo ero veramente, malata.
E fu proprio la parte innocente, insignificante ma così forte, dentro di me, a farmi salire le lacrime agli occhi. Ma erano lucciconi così falsi... inutili...
Chiusi i falsi occhi, cadendo sulle false gambe... per terra, accanto a lui.
“Esco dallo specchio, l’Otherworld raggiungerà la vera Silent Hill” pensai, cercando di rincuorarmi da sola.
 
Portai Travis e me all’ospedale Alchemilla, nel deposito più precisamente. Mi sentivo più vicina al mio guscio, il mio corpo... ma ero vicina anche a mia madre. Avrei dovuto sbrigarmi.
Infatti quando l’uomo ritornò in sé, col i pezzi di Flauros raccolti, la stanza senza via d’uscita, solo, capì ciò che doveva fare per uscire da quella situazione.
Il Flauros.
Il puzzle fu risolto nel giro di pochi minuti: gli bastò incastrare i pezzi l’uno con l’altro, fino a quando l’oggetto sembrò tremare di vita propria. Fluttuò, dalla mano del ragazzo, nell’aria, davanti a lui, roteando e illuminando il buio ambiente.
Sentii il mio potere crescere insieme a quello dell’oggetto magico. Il Flauros continuò a volteggiare, privo di peso, per qualche istante, fino a quando un boato e il suono di una sirena non invasero l’area: il manufatto si spezzò, in piccole piramidi, che andarono a scagliarsi attorno al camionista che, spiazzato e sorpreso, cadde a terra per la sorpresa.
 
Tornò il buio.
Il Flauros era sparito.
Ma io ero libera.
Ero a Silent Hill. Quella vera. Priva, per ora, dei mostri della mia “piccola mente malata”.
E sicuramente anche Travis lo capì perché, per la prima volta, gli apparvi nel mondo reale, senza sangue o ruggine. Lo osservavo, dall’altro verso il basso. Rimase seduto dov’era, sul freddo pavimento, alzando pigramente il capo per riconoscermi.
Lo fissai di rimando, sorridendogli.
- Sei tu... - sussurrò rassegnato.
Mossi le braccia, alzandole, già pregustando ciò che stavo per far accadere. Potente e sicura di me, mi diressi verso la porta d’uscita, chiusa a chiave.
- Aspetta! - mi urlò Travis mettendosi in piedi.
Ma era troppo tardi. Non mi voltai, né gli risposi. Questa volta la parte innocente non avrebbe prevalso sull’altra mia “metà”. Fissai la porta, concentrandomi, e il sigillo di Metatron apparve su di essa, scarlatto e brillante.
Continuai la mia marcia, imperterrita e mi sembrò quasi di sentire il sussurro di sorpresa di Travis, che mi vide attraversare la superficie di legno tranquillamente, come se fossi stata un fantasma.
Libera.
 
ANGOLO AUTRICE:
Non mancano molti capitoli alla fine della storia :) 
Da questo episodio in poi, comincia la mia parte preferita xD quindi non vi farò attendere molto. Detto questo, passo e chiudo! Alla prossima! :D

 
 

 
 

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Capitolo 39
*** Il Sogno di Alessa ***


IL SOGNO DI ALESSA
 
Avere un’intera città di bambole e pupazzi, tutta per me, era una cosa straordinaria.
In fondo, non volevo fare del male a chi non lo meritava, ma dovevo ammettere che la tentazione era troppa. Libera nella dimensione che avevo lasciato dal momento dell’incendio, finalmente senza più vincoli; se non fosse stato per il mostro che riposava nel mio corpo, giù, nelle profondità dell’Ospedale Alchemilla, avrei già spezzato le catene che mi legavano al mondo dello specchio, il mio Otherworld. Un regno, il mio, che avrebbe sfiorato l’intera città di Silent Hill.
Travis aveva trovato l’uscita, ma non mi aveva più incrociato. Confuso, ma stranamente composto, raggiunse l’uscita della struttura.
Fu proprio sugli scalini dell’uscita di emergenza che il camionista incontrò mia madre, Dahlia.
- Tu... - sussurrò Travis. Era come se non vedesse l’ora di saltarle addosso, pieno di rabbia.
- Cos’hai fatto?! - gli sputò in faccia la donna.
 - Vorrei tanto saperlo anche io! Cosa avrei combinato?! - le domandò Travis, alzando le braccia, esasperato.
Dahlia sapeva benissimo cosa era in grado di fare il Fluros e che magia potente poteva esserci imprigionata dentro. Anche solo un briciolo di quell’immenso potere mi aveva fatta uscire dagli specchi, mi aveva permesso di invadere la città. Per ora, potevo accontentarmi della “dimensione nebbiosa” della mia cara cittadina, ma ben presto le cose sarebbero completamente cambiate, a cominciare dalla mia precaria situazione; un grande potere, in un così piccolo corpo... e se il potere derivava anche da un mostro, il demone dentro di me, non potevo avere altra scelta: prendere possesso della città, era prendere possesso dell’Ordine, di Kaufmann, di Dahlia... e impedire loro di far nascere il demone.
Sembrava divertente. Avrei fermato Samael, usando il potere che quest’ultimo mi continuava ad infondere.
Giusto.
- Hai rotto l’incantesimo! - spiegò mia madre - Hai riunito i frammenti. Non capisci? E’ libera!
Sì. Ero libera.
E ben presto se ne sarebbero accorti.
- Volevo solo finirla. Finirla qui - ammise Travis guardandola negli occhi e avanzando - Pensavo lo desiderasse anche lei! Voglio andarmene via!
Non appena Travis affermò di “conoscere i miei desideri”, Dahlia si ritrasse, lontana di qualche passo e con gli occhi fissi verso l’ospedale.
- Non puoi aiutarmi? - chiese, infine, il ragazzo. Probabilmente conosceva già la risposta. “Tale madre, tale figlia”, pensò. Non poteva permettersi di pensare qualcosa di più sbagliato.
- Vuoi andartene? Ah-ah - rise la donna alla bizzarra richiesta d’aiuto - Troppo tardi, ormai. Puoi anche averla aiutata, ma non ti permetterà di scappare. E lei non potrà fermarci. La cerimonia inizierà presto!
Cerimonia?
Mi materializzai, quasi senza accorgermene, proprio dietro Travis, sotto gli occhi di Dahlia. La cerimonia? Non potevo... ? Non poteva essere troppo tardi! Era tutto programmato!
Mi sentii cadere il mondo addosso. Avevano le mie membra, avevano il mio cuore e, soprattutto, avevano il demone. Tutto dentro di me, nel mio corpo completamente ustionato.
Sentii la rabbia crescere dietro di me. Mi sembrò di bruciare, ancora una volta.
Dahlia mi sorrise, continuando:
- Finalmente, lei partorirà dio! Eccola che arriva! Guarda ciò che hai combinato!
Puntò un dito nella mia direzione, senza abbandonare quell’orribile sorriso.
Potevo ancora oppormi? Ero uscita dal mio sogno, ma in questo modo ero anche andata di mia spontanea volontà tra le grinfie di mia madre e dell’Ordine. Nelle loro maledette spire. Ecco dove riposava il mio corpo.
Ero l’ospite d’onore per la loro festicciola. Aspettavano solo me, per la realizzazione dei miei sogni.
Non potevo tornare indietro e Travis non poteva salvarmi.
 
Ribollii di paura, agitazione e timore. Cosa mi avrebbero fatto? Avrei seguito Dahlia al macello o mi sarei opposta? Fu la prima volta che desiderai, veramente, vederla morta.
Morta come le mie compagne di classe.
E, come cullata da questi pensieri, mi lasciai trasportare, nell’onda di queste strani ed inebrianti emozioni. Non era la prima volta che mi succedeva, ma mai qua, nella vera Silent Hill.
Mossi qualche passo verso lei e verso Travis, che si era voltato, incuriosito. Mi aveva individuata, ma questa volta non ricambiai il suo sguardo: chiusi gli occhi appena in tempo, per sentire, poi, una forte e lunga folata di vento liberarmi i capelli dal nastrino rosso che li teneva legati. Percepii, anche sotto le palpebre serrate, il cielo farsi nero come la pece, e uno strano ticchettio metallico invase l’area, sempre più forte e martellante.
Bruciava la città.
Per il mio potere e la mia rabbia. Succedeva sempre così, e quando mi lasciavo trasportare da emozioni o sensazioni troppo forti, più paura e stress, la realtà, attorno a me, mutava forma, assumendo le sembianze del mio incubo.
Era proprio quello che stava accadendo.
I miei piedi si staccarono dolcemente dal suolo. Fluttuai in alto, leggera come una piuma, mentre il pavimento e i gradini di marmo dell’ospedale si decomponevano come la carne di animali morti, dieci volte più rapidamente del normale.
L’Otherworld divenne concreto, prendendo il posto della dimensione nebbiosa.
Era il potere del dio. E il mio.
Il mio odio e la mia rabbia non facevano altro che facilitare il lavoro al demone. Una volta passato per questo “mondo”, sarebbe stato un giochetto da ragazzi invadere la realtà.
Quando aprii gli occhi, velocemente, vidi Travis disorientato, ancora immobile a fissarmi. Non poteva restare lì! Il pavimento assunse l’aspetto di una grata arrugginita e ogni oggetto presente divenne una massa informe di sangue e carne ancora pulsante di vita.
Allora, per allontanarlo, allungai una mano verso la sua direzione, mentre lo guardai minacciosa.
“Scappa” gli avrei voluto urlare, ma non era il caso in compagnia di mia madre, che ancora rimaneva lì, a fissarmi sbalordita ma sempre sorridente. Non veniva toccata dal potere, nemmeno sfiorata, tanto che sembrava neppure essere in grado di scorgere le tenebre andarle incontro.
Travis di era finalmente mosso: corse via, ansimante, verso il buio orizzonte, nel cuore della città, lontano da noi.
- Meglio smettere di giocare, Alessa - mi sussurrò Dahlia, la mano destra tesa verso di me, come se volesse portarmi via.
Restai immobile, sospesa in aria come una farfalla, ad osservarla, per qualche strano motivo che non riuscivo a spiegare. Dovevo seguirla? Non avevo potere su di lei e, da quel momento in poi, sarebbe sempre stata alla mia ricerca. Aveva Alessa... aveva me...
Forse potevo capovolgere la situazione: annullare la cerimonia non sarebbe stato semplice, ma non potevo restarmene qui, conscia che avrebbero fatto qualunque cosa per riavermi. Non potevano rovinare ancora la mia vita: avevo toccato il fondo, sotto quel frangente. Avrebbero potuto, però, rovinare la vita di Claudia... sapevano quanto quella bambina mi stava a cuore... o avrebbero fatto del male a Travis, per non parlare dei mostri!
Atterrai dolcemente sul ferro arrugginito, mentre, guardinga, mi avvicinai alla donna. Deformò ancora di più il suo sorrisetto e mi sussurrò:
- Stai imparando l’obbedienza, Alessa.
Mi fece tremare di rabbia; così, per nascondere le mie vere e pure intenzioni, le chiesi, col tono più smielato e infantile che riuscii ad emettere:
- Dove andiamo, mamma?
Bastava prenderla in giro e salvarmi dalle grinfie di quei pazzi. Travis non mi avrebbe abbandonato, non in questo momento. Ma in quel momento era lontano, troppo distante. Come poteva scoprire il luogo della cerimonia e fermarla in tempo?
“Niente panico”... ma ero davvero curiosa... e anche insicura: mia madre possedeva abilità speciali, quasi potenti e grandi quanto le mie, e non potevo rischiare di rovinare il mio piano e farmi scoprire aprendo troppo la mente e lasciando correre i pensieri. Cercai di non pensarci più, per proteggere me e Travis e tutte le poche cose che ancora mi erano care a questo mondo.
Ci incamminammo, con fare solenne e lentamente, per le vie della città irriconoscibile. Le strade erano disseminate di mostri e creature, tutte nati dalla mia immaginazione e da quella di Travis e ora concreti e reali; non si avvicinavano a noi due, come intimiditi dalla nostra presenza e dalla nostra sicurezza.
Naturalmente, avevo accettato la sua richiesta, la stavo seguendo, ma non stringevo la sua mano, né le parlai più per tutto il tragitto. Mi limitai a starle dietro, a pochi passi di distanza, e con fare calmo e composto. Avrei tanto voluto gridare. Sapevo a cosa stavo andando incontro, e mamma pensava che mi fossi finalmente decisa a lasciar perdere le mie assurde idee; non potevo scappare, secondo lei, al destino che gli adulti avevano deciso per me. Era proprio qui che si sbagliava.
Ogni volta che il mio piede toccava la fredda grata di ruggine, sentivo la paura crescere sempre più forte. Se fossi scappata, non se ne sarebbe accorta. Ma che senso aveva mollare tutto?
Sentii quasi, presa da uno strano rimorso, che quello che stavo causando all’intera Silent Hill fosse stato sbagliato: assecondavo il demone, Samael, ma in cambio avrei avuto il potere assoluto. Invece mi trovavo a seguire la mia aguzzina, ad aprire le porte del loro “paradiso”. Che fosse proprio questo il loro Eden? Un mondo di sangue e mostri, fuoco e paura?
 
Finalmente, una volta arrivati a destinazione, riconobbi il posto: Simmons Street. Era là che si trovava il negozio d’antiquariato di mia madre, “Il Leone Verde”. Non ricordai molto di come mi trovai, improvvisamente, nel sotterraneo del negozietto; il nero dell’oscurità più totale e il freddo mi colpirono, come se fossi stata di nuovo in grado di percepirli grazie ai sensi.
Ci trovammo presto a varcare la soglia di un enorme salone, dai muri di pietra antica e il pavimento lucido e nero, pulito e che rifletteva una strana luce rossa, di cui ignoravo totalmente l’esistenza. Com’era possibile che quella struttura, così grande e spaziosa, simile ad una cappella, si trovasse sottoterra? Mi sembrava di essere entrata in uno di quei sogni, nei quali si passa con facilità in luoghi del tutto sconnessi tra loro senza alcun nesso logico.
Sotto le nostre scarpe, un enorme Halo of the Sun brillava di luce propria; e proprio sul sigillo demoniaco rosso sangue, era posto un altare in pietra, accerchiato da un bel po’ di gente, tutta coperta da mantelli neri e dai visi nascosti da maschere di ossa. Osservavano qualcosa, posto sull’altare, ma non riuscivo a capire cosa: le loro alte figure, da adulti, si ergevano immobili e bloccavano la mia visuale.
C’era anche quel viscido verme, Kaufmann, che camminava verso la parte opposta della sala, dandoci le spalle, parlando forte e con la maschera deforme nella mano sinistra:
- Ti ha davvero fatto lavorare per benino, eh?
Stava parlando con qualcuno. E quando sentii l’altrettanto potente voce di Travis rispondere alla provocazione, tirai un sospiro di sollievo. Ma come aveva fatto a scoprire il nascondiglio dell’Ordine?
- Cosa stai dicendo?! - chiese il camionista.
- Lei - rispose il dottore indicando l’altare - Ti ha usato per bene, per poi lasciarti da solo!
E capii cosa giaceva sul freddo e scomodo altare, accerchiato da membri dell’Ordine: Alessa. E la vidi... ci vidi: una bambina dalla pelle completamente annerita, senza capelli, gli occhi chiusi e un lenzuolo a coprirle il corpo ustionato.
- Siamo sorpresi di vederti qui. Pensavamo che te ne fossi andato! - riprese Kaufmann, il tono piatto e calmo - Era quello che ti avevo suggerito di fare, no?
In effetti il loro ultimo incontro era stato parecchio movimentato. Si erano visti al Riverside Motel, nella suite dedicata a Cleopatra; era stato mentre il camionista cercava la stanza 500: entrato nella stanza da un buco del soffitto, in cerca di risposte, si era invece imbattuto nel dottore e nell’infermiera Lisa, seduti sul letto, nell’atto di rivestirsi.
Lisa non rivolse una parola a Travis e si limitò ad uscire in fretta dalla stanza con un sacchetto di polvere bianca in mano; Kaufmann invece gli suggerì, coi suoi soliti modi viscidi e duri, di lasciare la città prima di saggiare la sua ira. Non che Travis gli dette molto ascolto: quel ragazzo non era stupido, aveva capito cosa era disposta quella strana infermiera per una manciata di droga. Aveva un lato oscuro che forse nemmeno poteva immaginare. E io sapevo che c’era altro: la PTV era la sua ricompensa per occuparsi di me. Lo sarebbe sempre stato, credo. Le facevo schifo...
In ogni caso, in quell’istante, il mio corpo non era all’Alchemilla Hospital.
- Ora... - concluse Kaufmann - E’ ora di mettere le vostre pedine a dormire. Buonanotte...
“Le vostre...?”
Uno strano gas narcotizzante invase la stanza, rendendo ancora più difficile per Travis riuscire a respirare. Immobile, lo vidi tossire violentemente e cadere a terra, ma con gli occhi ancora aperti. Sembravamo immuni a quel vapore tossico.
Mia madre intervenne:
- Lei è qui. Dobbiamo iniziare, ora!
- Non preoccuparti, Dahlia. Con lui fuori dai piedi, non riuscirà mai ad accrescere il suo potere - la tranquillizzò Micheal.
E notai qualcosa che mi sembrava sfuggito in precedenza: sopra il mio corpo, sospeso in aria, c’era una creatura... o almeno lo sembrava. Pensandoci bene, però, rassomigliava ad una donna...
Brillava di luce scarlatta e sembrava attrarmi, sembrava volermi invitare a toccarla. Mi sussurrava “Vieni, più vicina”... e per quanto ci provassi a trattenermi, la curiosità prese il sopravvento e mi ritrovai a camminare verso l’altare.
- Mamma! - chiamai, capace di muovere solo le labbra - Mamma?
Non ero io a muovermi! Mi sentivo trasportare, attrarre...
Il mio sguardo si fermò nuovamente su Travis, che teneva ancora gli occhi aperti e sembrava ancora assistere a quella cerimonia. I membri dell’Ordine continuavano a fissare il mio corpo, quasi in adorazione, e si spostavano, lasciandomi passare.
- Mamma? - richiesi - Ma che cos’è questa cosa?
Allungai la mano destra e, stranamente riuscii a toccare quella luce rossa. Strano, perché si trovava molto in alto e io poggiavo i piedi a terra. Le mie dita si protesero, desiderose di sentire se quel bagliore fosse concreto o no, sopra il mio corpo addormentato. E ci riuscii proprio nell’istante in cui mia madre mi urlò:
- Stai ferma!
Era incandescente. E lo percepii! Non poteva essere! Era come se fossi tornata una vera bambina.
Gridai per il dolore, ma con una voce strana, animalesca, cupa, simile a un ruggito:
- Owww! E’ bollente!
- E’ la gabbia per il demone. Imprigionato, i suoi poteri si uniranno ai tuoi. Ma se lo liberi, bruceremo tutti tra le fiamme dell’Inferno! - mi rispose, mentre ritiravo la mano.
 
La cerimonia era davvero iniziata, allora. Cosa mi stavano facendo?
Kaufmann si mise la maschera sul viso, mentre i membri dell’Ordine tirarono su il cappuccio, cantando qualcosa in parole che non comprendevo. Ero vicinissima all’altare, ma riuscivo a scorgere il corpo di Travis, percorso da strani tremiti. Stava combattendo contro qualcosa... ma non potevo saperlo in quel momento.
Dahlia mi spingeva, sempre più vicina al mio corpo.
Anche lei stava parlando...
Il demone... era qua?
Non c’era modo per imprigionarlo?
L’avevo fatto con i miei poteri: perché non riuscivo a rifarlo? I suoi poteri si stavano davvero unendo ai miei? Non riuscii più a muovermi, né a parlare. Mi sentivo stanca. I miei incubi erano niente, in confronto a quello che mi stava capitando: ero in balia dell’Ordine, proprio come mia madre aveva sempre desiderato; usata... ecco come mi sentivo. Tutto questo non sarebbe mai successo... se avessi avuto più tempo.
“Travis!” avrei voluto urlare, perché sapevo che sarebbe corso in mio aiuto. Poteva avercela con me, per tutto quello che gli avevo fatto passare, ma lo avevo fatto anche per il suo bene.
 
Il corpo del camionista sembrava essere stato colpito da potenti convulsioni: si agitava, urlava, muoveva le mani, chinava il capo...
Stava combattendo... stava combattendo per salvarmi, pensai. “Vincilo”.
Poi, un’idea mi balenò per la mente: il Flauros poteva contenere il potere del dio. Poteva salvarmi.
Mi concentrai, prima di perdere me stessa in quel delirio: Flauros... Flauros... Flauros...
Continuarono a spingermi, a sussurrarmi cose strane, spaventose... ma non potevo lasciare che il demone nascesse.
Flauros... Flauros...
Ero disperata.
“Travis” continuai a pensare “Il Flauros... il mio sogno... svegliati... svegliati! Il Flauros... imrpigionalo!”...
 
E quando capii che cosa stavano cercando di fare... fu troppo tardi per scappare o rimediare.
 
All’improvviso divenne tutto ovattato. Il corpo iniziò a dolermi e persi la vista. Persi conoscenza... e mi addormentai.
Ero tornata a essere quello che ero.
Ero stesa sull’altare di pietra, con la luce rossa sopra di me, e decine di persone attorno a me.
 
“Fa che non succeda” fu il mio ultimo pensiero.
 
Non ricordo altro.
Ah, no... forse riesco a ricordare qualcosa: urla di terrore. E la voce di mia madre che intima a Kaufmann di scappare. Un sibilo lontano... e una luce. Così forte da imprimere mille colori sulla mia retina, anche a palpebre serrate.
Mille passi in lontananza, risate infantili e un ruggito spaventoso.
La terra che trema. Il mio sobbalzare, quando sento uno strano e piacevole senso di calore in direzione del mio petto.
 
E fui libera, ancora.
Travis si era svegliato e reggeva il Flauros nelle mani; l’oggetto emanava un raggio di luce, che finiva dritto nel mio corpo.
 
Ricordo, prima che la mia anima mi lasciasse ancora, di aver sentito il dio scalpitare nel mio ventre e di aver pensato “E’finita”. Poi, ricordo anche di aver considerato, ingenuamente “Allora, è così che ci si sente. E lo sapranno anche quei “mostri”. Devo fare in modo che questo non accada mai più”.
“Ma come?”
“Certo, se avessero da cercare due pezzi invece di uno, per formare l’intero, il loro compito non sarebbe tanto semplice.”
“Ed è possibile? Sono capace di farlo? Sono potente, ma quanto basta?”
“Cosa dovrei scindere?”
 
E appena mi alzai dall’altare, lasciando il mio corpo nel sonno più profondo, avevo qualcosa tra le braccia. Qualcuno.
Tutto divenne buio.
 
 
NOTE D'AUTRICE:
E anche Fear of the Dark giunge al termine, con un altro capitolo e l'epilogo di questa storia :)
Un  grazie a tutti quello che seguono, leggono e recensiscono ;) Eeeeeee, alla prossima :D

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Capitolo 40
*** Paura del Buio ***


PAURA DEL BUIO
 

Solo dopo aver lasciato la sala della cerimonia, capii cosa realmente tenevo stretto tra le braccia: una bambina vera. In carne ed ossa. Era davvero minuscola, ma comunque non riuscivo a tenerla per bene; si dimenava e scalciava, debole ma vispa, con gli occhi ancora chiusi. Parte di me e di quel corpo incenerito era contenuta in quel corpicino. Io tenevo stretta... una parte di me stessa.
Poteva essere considerata, a grandi linee, la figlia di Alessa?
Mia figlia?
No.
No. Lo avrei impedito con tutte le mie energie.
No. Perché io avevo solo sette anni e portavo già avanti la... la... quel demone...
La mia anima si era scissa e lei custodiva il pezzo mancante. Quello che l’Ordine avrebbe preso a cercare con insistenza, una volta scoperto il mio giochetto. In quel momento, stavo garantendo vita sicura all’Alessa mortale e a quella nuova vita: senza l’altra metà, un’anima non può considerarsi completa. E quel corpo sprovvisto di anima completa non potrà mai arrivare a dare la luce a quel bambino.
Camminai con lei, lontano dalla città.
Mi sembrò di essere tornata indietro di anni e anni: percorrere quelle strane vie era diventato il mio incubo da piccola; essere sempre stata sotto gli occhi della gente era stato il mio tormento e la paura di essere dimenticata o, peggio ancora, considerata una creatura demoniaca mi aveva perseguitato. Ora tutte quelle persone, inconsapevolmente, erano i miei burattini, dalle sembianze mostruose. Le controllavo, in un certo senso. E chissà se anche quella neonata che stringevo al me poteva avere qualche sorta di influenza su di loro.
Al posto di garantire ad un potere sovrannaturale e incredibilmente malvagio di controllare Silent Hill e il mondo, pensai mentre mi dirigevo lentamente verso l’entrata della città, avrei preferito morire. Scomparire. Tutto, pur di non garantire la venuta di quel demone. E ci ero stata così vicina, poco fa; ero stata ingannata, per l’ultima volta.
Finalmente la bambina aprì gli occhi. I nostri sguardi si incrociarono per un attimo: aveva le iridi scure, grandi e luminose. Non aveva molti capelli sulla testa, ma quelli che possedeva, corti e sottilissimi, erano scuri; probabilmente saremmo diventate gocce d’acqua crescendo; non avrei mai potuto saperlo con certezza: lei e io non potevamo stare insieme. Tenevo tra le mani una bomba ad orologeria, perché se fosse rimasta con me, al sicuro, ma a Silent Hill, prima o poi, avrebbe scoperto il segreto delle sue origini e sarebbe stata in pericolo. Questa città non era per lei e mai sarebbe stata casa sua.
Un’ombra, alla mia destra, nascosta dalla nebbia, mi superò a gran velocità, come se scorgendomi da lontano, avesse cercato di non farsi notare. Camminava nella mia stessa direzione, verso la strada. E sapevo esattamente di chi si trattava.
Ridacchiai quando passai davanti a casa mia: era completamente intatta, come se nessun incendio ci fosse mai stato. La nebbia non riusciva a coprirla abbastanza; la finestra accanto alla mia cameretta era spalancata... mentre una bambina la guardava con ostinata insistenza. La figura era esile e coperta di cenere, vestita completamente di grigio. Guardava la casa nello stesso modo in cui un amante fissa la finestra dell’amata, sperando che quella si affacci a salutarlo; Claudia Wolf continuava a chiamare il mio nome, cercandomi tra quelle mura maledette e alzando le braccia come fossero piccole e fragili ali.
Sola. Io non potevo fare più niente per la mia dolce sorellina; la bambina tra le mie braccia...
Poi, senza alcuna risposta, scoppiò a piangere, invocandomi ancora, ed ancora.
La superai, cercando di evitare il suo sguardo. Lei non poteva vedermi, ma mi sentivo davvero in colpa a lasciarla là, al suo pianto; non ci saremmo mai più riviste e questo mi spezzava il cuore. La sua vita sarebbe cambiata, insieme a quella dell’Ordine: probabilmente si sarebbero dovuti nascondere, magari sottoterra, lontani dai mostri e da quella nebbia, dalla cenere e da me.
I tempi della caccia erano finiti. Non li avrei toccati, lasciavo ai nuovi abitanti di Silent Hill il divertimento. Eppure, la mia ira sarebbe stata orribile e spaventosa, se qualcuno di loro avesse alzato un dito sul mio corpo o su quella neonata.
- Tu non puoi stare qui - le sussurrai piano, giocando con la sua manina.
La figura adulta, che mi aveva sorpassato pochi minuti prima, era ora al confine estremo della città: era poggiato contro un cartello, che recava scritto “State lasciando Silent Hill” e lo leggeva ad alta voce, sempre più contento. Ansimava per la fatica e per la corsa.
Travis.
Nello stesso posto in cui l’avevo visto per la prima volta e lo “obbligai” a salvarmi dalle fiamme.
Mi resi visibile a lui, insieme alla neonata, diramando la nebbia. Non fu sorpreso di vedermi; sorrise debolmente alla mia vista, ma quella strana felicità sembrò abbandonarlo quando i suoi occhi si posarono sul quello che tenevo tra le braccia. Si aggiustò il berretto sulla testa e mi guardò, curioso.
- Devo nasconderla - gli annunciai piano, senza altre informazioni. Se lo conoscevo davvero bene, quel camionista mi avrebbe capita.
- E io devo andare - mi rispose lui, piano, quasi cercando di dosare bene le sue parole.
- Per entrarci basta volerlo... ma nessuno esce senza il mio permesso - gli sorrisi dolcemente. Lo sentii rabbrividire; probabilmente doveva aver avuto un piccolo déjà vu, o forse lo stavo semplicemente spaventando.
Ma non erano certo le mie intenzioni.
Lasciò la presa sul cartello e fece qualche passo avanti.
- Ti lascio andare - gli dissi infine, anche per evitare inconvenienti - Ma ad una condizione, Travis.
Rimase in silenzio, curioso di sentire cosa avevo in mente per lui.
- Promettimi... che tornerai. Che tornerai a Silent Hill - annunciai infine.
Stette ancora zitto. La città gli aveva garantito una vita di incubi e tormenti, ma io sarei rimasta qui, prigioniera di una mia stessa magia, e sapere che, prima o poi, lui sarebbe tornato, anche solo per un attimo, magari anche a cercarmi... e l’avrei rivisto. Il mio salvatore. Gli dovevo la vita parecchie volte. Senza di lui...
- Io sarò qui - continuai, cercando di convincerlo - Non vedrai nessuno tranne me, non permetterò che tu entri in questa dimensione.
Improvvisamente gli occhi di Travis si illuminarono e il suo capo si alzò. Gli occhi puntarono il cielo. E poi sussurrò una parola, un qualcosa che io non avrei mai più rivisto: “sole”.
Non ebbi una vera e propria risposta.
La nebbia si dissolse rivelando proprio dietro di lui il suo camion. Lo accompagnai fino all’abitacolo, guardandolo salire, con un briciolo di invidia nel mio cuore.
Una volta seduto al posto del conducente, si voltò indietro ad afferrare una coperta macchiata e me la porse, indicandomi la neonata:
- Coprila - mi disse, mentre accettavo il “regalo” - Sentirà freddo.
Feci come mi aveva detto lui; ebbi un po’ di difficoltà, dato che rimanevo nell’aspetto una bambina e non ero abbastanza forte, ma alla fine riuscii ad avvolgerla quasi completamente. Il fagottino si agitò un attimo. Mosse la manina paffuta e mi afferrò il fiocco rosso che portavo al colletto del grembiule, tenendolo stretto e gingillandoci.
Travis stava andando via.
Chiuse lo sportello.
Continuai a fissarlo, aspettando una risposta, o un addio...
- Promettimelo - gli ripetei forte, affinché mi sentisse.
Avevo paura.
Perché ero davvero sola. Sola e potente, contro una Setta di pazzi. E contro mia madre.
Mi aveva salvato. Solo quando c’era lui, in città, non avevo davvero temuto la morte... non avevo mai temuto...
Al suono della mia voce, al mio grido, la bambina cominciò a singhiozzare. O forse aveva solo fame...
Allora, Travis ricambiò il mio sguardo, si tolse il berretto e mi sorrise piano; sentii la sua mano cercare il cruscotto e... girare la chiave. Peccato, perché la vettura non si mise in moto.
Continuammo a guardarci.
Mi disse qualcosa, che non sentii bene...
- Promettimelo - dissi ancora. Ricevetti un cenno del capo. Mi sorrise ancora...
E finalmente lasciai che il motore del camion riprendesse a funzionare. E gli sorrisi anche io. Perché sarei stata qui, ad aspettarlo. Questo era solo l’inizio della mia storia. Avrei fatto di tutto, pur di rivederlo.
Abbassò il finestrino e mi urlò:
- Vieni via con me! Posso portarti dove desideri...
No.
C’era un motivo per cui non gli avevo lasciato la bambina. E un altro per cui non potevo seguirlo.
Scossi piano il capo, continuando a sorridergli.
Allora alzò la mano e chinò piano il capo, come gesto di saluto, per poi togliere il freno e partire... lontano da me e da Silent Hill. Sapevo che avrebbe mantenuto la sua promessa, era un uomo di parola... Travis.
 
La nebbia, invece, continuava a circondarmi, anche dopo aver lasciato Silent Hill; ma mi sentivo debole, quasi spossata... lontano dalla mia città d’origine. Avevo camminato per davvero troppo tempo...
Dovevano essere state ore...
Perché sentii che la bambina che cadeva addormentata tra le mie braccia e un leggero vento alzarsi a muovermi i capelli. I campi sui quali camminavo, anche se era piena estate, erano spogli e privi di foglie. Probabilmente dovevo essere io e farli appassire; ciò mi riempii il cuore di tristezza: quello non era il mio mondo. Il sole, il cielo, gli animali... la piccola sarebbe vissuta lontano dal mio inferno e dalla mia maledizione.
In quel momento, dopo il sonnellino, aveva cominciato a lamentarsi e a piagnucolare. Quel suono, forte e martellante, mi aveva stufata: la scossi bruscamente, guardandola negli occhi... facendola calmare.
- Hai fame? - le chiesi, guardandomi attorno, vicino all’autostrada - O sei triste? Sei triste perché sei lontana da casa? Non ti preoccupare. Andrà tutto bene.
Aveva occhi solo per me.
E mi inquietava abbastanza.
Così, cercai di coprirle il viso con la coperta, ma quella ricominciava a piangere ogni volta che ci provavo. Le coprii giusto il collo e il petto, abbastanza per non lasciare che il vento le colpisse la pelle nuda; poi, presi a canticchiare una canzone. Una bellissima canzone, che ricordo, cantai a scuola, durante la lezione di musica.
 

First flew the greedy Pelican,
Eager for the reward,
White wings flailing.
 
Then came a silent Dove,
Flying beyond the Pelican,
As far as he could.
 
A Raven flies in,
Flying higher than the Dove,
Just to show that he can.
 
A Swan glides in,
To find a peaceful spot,
Next the another bird.
 
Finally out comes a Crow,
Coming quickly to a stop,
Yawning and then napping.
 
Who will show the way?
Who will be the key?
Who will lead to
The silver rewards?
 

 
Proprio in quel momento, qualcosa mi disse di fermarmi; mi trovavo in una radura spoglia, e alla mia destra c’era il via vai delle automobili. Presi la piccola e l’allontanai dal petto, solo per vederla ricominciare a frignare; la baciai sulla fronte e le dissi piano:
- Non piangere, non piangere. Tornerò da te, ci rivedremo.
Sembravo prossima alle lacrime... lo ero veramente. Posso davvero piangere, per un semplice addio?
- Shhh - le dissi ancora, poggiandola delicatamente sul suolo - Tu resta qui. Presto... presto... e giocheremo insieme. Lo giuro. Ma tu... devi andare via. Devi stare lontana da me, piccola.
Fu più dura di quello che pensassi. Stavo abbandonando me stessa... o mia figlia... ?
Mi guardò implorante, cominciando a singhiozzare ancora più forte, mentre le toccavo la guancia destra, calda... sentii il suo calore... la baciai ancora... e poi, le coprii il viso col lembo di tessuto. La verità era che non sapevo se le nostre strade si sarebbero incrociate ancora... ma dire quelle parole mi aveva fatto stare meglio.
I sensi di colpa minacciarono di uccidermi quel giorno.
E ritornai a scoprire cosa voleva dire essere umana, dentro un corpo, quando scoprii lacrime scendermi lungo il viso.
- Cosa sto facendo? - chiesi a me stessa, allontanandomi dal fagottino e nascondendomi dietro un piccolo cespuglio morto. Mi asciugai le lacrime con le mani, pentendomi di quello che avevo appena fatto.
Eppure li avevo visti. Loro.
Due persone, marito e moglie, avvicinarsi a quella bambina e portarla via con loro. E sapevo che erano persone affidabili; lo si poteva leggere nei loro volti che erano pronti ad accudire una bambina.
E quanto tempo attesi il loro arrivo? Quanto fino a sentire la voce di una donna, chiamare il proprio compagno?
Lei si chiamava Jodie... era malata e non poteva avere figlia. Era bella, dolce e tranquilla; i capelli neri le cadevano sulle spalle, sulla pelle pallida. Ma fu suo marito a colpirmi di più. Lui era Harry Mason, un aspirante scrittore, che amava la moglie e che soffriva con lei a causa della malattia. Era giovane, forte... e in un certo senso mi ricordò Travis.
Si avvicinò alla moglie, prendendo in braccio la bambina:
- E’ stata abbandonata qua? Meglio cercare la madre, potrebbe essere nei paraggi.
Ebbi un fremito. Dovevo essere considerata io... sua madre?
Mi abbassai, nascondendomi e sorridendo. Erano loro, sì.
- E’ una bambina, Harry. Ed è bellissima - disse Jodie, distogliendo il marito dalla ricerca.
- Qui non c’è nessuno - annunciò lui, avvicinandosi alla neonata, che ora aveva finalmente smesso di piangere - Chiunque l’abbia abbandonata sarà lontano, ormai. Come si fa a lasciare una bambina come lei tutta sola?!
Sbirciai.
Si tenevano per mano... ora la mia piccola era tenuta in braccio da Jodie.
Fu lei a parlare... a riempirmi il cuore di serenità:
- Cheryl... la chiamaremo Cheryl.
Cheryl...
Mi sentivo davvero circondata da un padre e una madre... ora.
Cheryl.
 
 
 

Ero una ragazza oramai. Il mio corpo, così come il mio aspetto era mutato.
Sedevo nella stanza dell’Alchemilla Hospital, accanto ad Alessa Gillespie. Non aveva più parlato dopo il giorno dell’”incidente” e per capirla dovevo entrare nella sua mente; non era completamente guarita, ma non era orribilmente sfigurata come quasi sette anni fa: i capelli le erano lentamente ricresciuti, così come le pelle. Il viso era per metà ricoperto di piaghe e striature rosse e il corpo ancora avvolto dalle bende, cambiate ogni giorno dall’infermiera Lisa Garland. O da quello che ne era rimasto.
Sette anni nell’inferno.
Sette anni a ridere contro mia madre che tentava in ogni modo di dare alla luce il “dio”.
Io stavo relativamente bene. Ma stare accanto al mio corpo mi nauseava. Ero orribile.
Mentre Cheryl viveva con Harry. Jodie era morto circa quattro anni fa, per la malattia; la piccola non poteva essere molto influenzata dalla scomparsa della madre, data la sua età. Ma in quel momento, doveva avere avuto sette anni...
Ma c’era qualcosa che turbava Cheryl. Sebbene andassi molte volte in visita, nel suo paese, non voleva mai dirmi niente; mi confessò, però, un giorno, di aver avuto per quasi una settimana incubi orribili, popolati da strane creature e il suono di una sirena...
Dietro tutto questo c’era mia madre. Aveva scoperto il mio trucchetto? Sapeva dell’esistenza di Cheryl?
Solo un notte mi resi conto che l’incubo stava ritornando; sentii Dahlia e Kaufmann parlare di una bambina da riportare in città a qualunque costo... poiché grazie a lei sarebbe arrivato il paradiso e il demone sarebbe venuto al mondo.
Non bisognava essere geni per capire che stavano parlando della metà perduta dell’anima di Alessa.
Fino ad oggi, mia madre non mi ha mai trovata, ma continua a riempire le notti di Cheryl di incubi sulla sua città natale. Perché immagina che verrò allo scoperto se Cheryl tornasse in città, o nelle grinfie dell’Ordine. Stanno preparando qualcosa, è sicuro...
- Sarebbe stato meglio per me, morire - ammisi al mio corpo. Alessa si voltò verso di me, roteando gli occhi azzurri - Forse è stato uno sbaglio lasciare quella bambina. Forse avrei dovuto ucciderla... quando ne avevo l’occasione. Ucciderci e porre fine a questo inferno.
Il suicidio.
Solo la morte avrebbe potuto liberarmi e alleviare le nostre sofferenze.
- E perché no? - chiesi sconsolata, alzandomi dalla sedia.
Sentii anche Dahlia riferire all’uomo che uno straniero sarebbe arrivato in città, scatenando l’apocalisse. Avevo una vaga idea di chi si poteva trattare.
- Se lo faccio... potrei davvero liberarci - continuai solennemente - Tanto siamo già morte.
Potevo arrivare ad uccidere quella bambina, per il bene dell’umanità?
Alessa alzò la mano bendata e la tese verso di me. Avremmo prima dovuto riunirci nel suo corpo, col rischio di far nascere il demone... per poi porre fine alla nostra esistenza.
Le sorrisi.
- Stiamo tornando a casa... - le sussurrai prima di svanire, ridendo come una bambina per la contentezza.
 
L’incubo sarebbe finalmente finito.
Insieme alla mia vita e alla sua.
L’incubo sarebbe finalmente finito.
Con la nostra morte.
Dopotutto non c’è niente da temere.
Perché temere la morte quando si ha già paura del buio?

 
 
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ANGOLO AUTRICE
Ed eccoci alla fine di Fear of the Dark :)
Che dire... ogni storia ha la sua fine. E mi rendo conto che questo epilogo fa decisamente schifo, rispetto agli altri capitoli, dato che nemmeno siamo a Silent Hill; ma poco importa, dato che, naturalmente, la fine di questo capitolo da inizio a Fear of Silence e all’avventura di Harry Mason.
E sono contenta così. Perché adoro la saga, adoro questa storia e mi stupisco di me stessa, perché non avrei mai immaginato, più di un anno fa, di riuscire a finirla :D
E ora passiamo a voi, lettori, che mi avete seguita in questa avventura. E che, spero, siate cresciuti insieme a me e a questa storia. E i ringraziamenti mi sembrano d’obbligo - anche perché siete grandi ;)
Allora, ringrazio Kaida, che con la sua prima - ed unica xD - recensione mi ha dato l’impulso di proseguire con questa storia e che mi ha caricata di entusiasmo; e rogflam che mi è stata accanto per davvero tanto tempo, dandomi spunti e consigli! :D A SempaiAkira e a Leo. E a clif, naturalmente, e alle nostre teorie su Silent Hill in pomeriggi d’estate che mi hanno tenuto compagnia.
Ringrazio coloro che hanno messo tra i preferiti: Franny_chan e lucia1997; tra le ricordate: sempre lucia :D e tra le seguite: ancora clif, ancora Franny, ancora Leo, ancora rogflam e Gaara97 ;)
Ringrazio i lettori silenziosi e non :)
Davvero, non sarei mai arrivata fino qua senza i vostri consigli e i vostri supporti.
Non mi resta altro che salutarci. Ma non dirci addio, spero, visto che la raccolta avrà una continua ;)
 
Vi saluto tutti :) grazie ancora e attenti agli specchi e all’oscurità: non si sa mai dove potrebbero condurvi...
:3

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