Le vecchie storie

di marguerite_murcielago
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La Sirenetta insanguinata ***
Capitolo 2: *** Febbraio 1904 ***
Capitolo 3: *** Amalia ***
Capitolo 4: *** La neve nell'acqua (prima parte) ***
Capitolo 5: *** La neve nell'acqua (seconda parte) ***
Capitolo 6: *** Imago mortis ***



Capitolo 1
*** La Sirenetta insanguinata ***


Even though I’m about to become seafoam.
I love you from the bottom of my heart,
After I dissolve in the ocean and sky,
I will watch you live life from above.

Benché lei avesse un nome, per tacito accordo le due ragazze rifiutarono sempre di pronunciarlo, sia tra loro che in presenza d’altri. Non l’avevano mai conosciuta da viva.

La prima volta, c’era solo Agata, intenta a forzare le porte del campanile, della canonica e della chiesa stessa, da tempo abbandonata, a incontrarla. Stava dando un calcio al saldo portone, quando era sbucata dal nulla, quasi fosse emersa dall’asfalto.
Era coperta di sangue: il sangue le impiastricciava i capelli biondi, il sangue le faceva aderire addosso i pantaloni e la maglietta che indossava, il sangue le riempiva perfino gli occhi, così la sclere e la pupilla erano rosso chiaro e rosso scuro, gonfie.
Agata lanciò un grido strangolato, cadendo dagli scalini; si puntellò sulle braccia, resistendo all’impulso di scappare, di voltare le spalle a quella cosa immonda che contorceva la bocca in una smorfia disperata.
« Oh, ti prego, aiutami! Dimmi cosa mi è successo, oh, oh, non ricordo niente! Nessuno mi vede, aiutami tu, voglio sapere cosa mi è successo. Perché ho tanto male alla testa?»
La ragazza si alzò e si avvicinò, allungò una mano, ma non aveva la forza di sfiorare la spalla dell’altra, insozzata com’era. Lei la vide e fece per afferrarla, ma le dita rossissime scivolarono nella pelle e nell’aria come nulla fosse.
« Sono morta, lo vedi? Ma chi sono? Cosa mi hanno fatto per ridurmi così?»
Agata sorrise e fece il gesto di prenderle le mani, anche se non strinse che un filo d’aria più freddo. Voleva che stesse tranquilla, che sapesse che lei l’avrebbe aiutata, perché quelle lacrime e quella sofferenza le laceravano il cuore e non ce la faceva ad andarsene.

Through the stormiest night in the waves,
I saw your sweet face, floating to the bottom that day, oh that day,

Tornò davvero, ma non riuscì a cavar fuori un solo ricordo alla ragazza insanguinata.
« Non posso farcela, così.» le disse un giorno, seduta con aria sconsolata dietro un vecchio frigorifero, « Forse, se chiedessi a qualcun altro, sarebbe più facile.»
L’altra cercò di asciugarsi i capelli, ma gocce di sangue grumoso caddero tra di loro e nulla si pulì. Allora Agata portò con sé una delle sue migliori amiche. La tenne stretta per la vita, quando lei vide la ragazza, impedendole di fuggire.
Dopo, le rivolse un’occhiata sconvolta, sgranando gli occhioni azzurri.
« Giulia, Giuli, mi aiuterai, vero? Vero? Non puoi lasciare che soffra così!»

L’estate era sempre più calda, era rovente; chiesero a chiunque, cercarono almeno la foto di una ragazza che avesse gli stessi lineamenti del povero fantasma, ma non ci fu nulla da fare.
Nessuno sembrava conoscere quella ragazza bionda.

On the last night, my sisters’ voice rang so desprate,
threw a knife that landed right inside the ship,
“Kill him little sister,”
“But I cannot do that, I”

Il 12 Agosto, Agata era andata a trovare il fantasma, se era quello; dentro di sé vomitava per il ribrezzo, di fuori versava lacrime vere e trasparenti per lei, accarezzandole il capo d’aria.
« Se scopro qualcosa, spero che tu te ne vada. Non posso vederti soffrire così, no.»
Alla fine, pensò di andare al bar lì vicino per rinfrescarsi il viso in fiamme.
Scostò la tenda di perline, si sedette al bancone e ordinò qualcosa da bere, cercando un volantino con cui farsi aria: davvero, le sue guance bruciavano e la gola le doleva.
Strinse tra pollice ed indice un foglio bianco e lo portò al volto, senza guardarlo davvero; eppure, dovette abbassare la testa, anche se non riusciva a distogliere lo sguardo dall’orologio a muro. Le lettere nere, in maiuscolo, le ferirono gli occhi.

ATTENZIONE! NOSTRA FIGLIA **** è scomparsa da due settimane! la polizia ha trovato la sua auto sull’argine del collettore, dicendo che **** aveva probabilmente avuto un incidente la notte del 24 luglio. speriamo che si sia allontanata da sola, ma non siamo riusciti a ritrovarla, né viva né morta.
per favore
, se qualcuno ha qualsiasi informazione, o ha visto qualcosa, ci contatti! vi preghiamo!

seguivano due numeri di telefono ed una foto a colori, probabilmente scattata in un ristorante; la ragazza che vi era ritratta – era lei! era lei! – sorrideva all’obbiettivo, con i capelli biondi lunghi fino alle spalle e una maglietta a righe.
Buttò giù un sorso d’acqua, aggrappata al bancone.
« Giulia, vieni in bar, vieni subito.»

Un incidente; doveva essere finita in acqua, si era ferita alla testa. Mille possibilità si affollavano nella sua testa, mentre faceva leggere l’avviso all’amica; ragionò perfino sul fatto che forse il suo corpo era stato trascinato via dalla corrente: aveva sentito dire che un vecchio canale scorreva proprio sotto la chiesa, poteva essere rimasta lì, sotto l’asfalto e tutto il resto? Giulia le riconsegnò il foglio.
« Dobbiamo dirglielo.»

Come and sing, come and sing, come and sing with us,
Come and sing, come and sing, at the bottom of the sea,

« Io… io capisco. Devo essere uscita di strada, povera me, non lo so. Come faranno i miei genitori, senza sapere che sono morta? Non si daranno mai pace, mai. Ah! Io adesso posso, devo andare, ma non voglio! Che ne sarà di me? Che ne sarà di loro? Agata, posso lasciarti solo questa,» si tolse il ciondolo a forma di stella che portava al collo « perché vi ricordiate di me. Sono morta così, ora lo so, ma non fatemi mai ricordare il mio nome. Addio, addio, e che Dio abbia pietà della mia anima e del dolore di tutti voi.»
La ragazza continuava ad asciugarsi le dense lacrime rosse che le scorrevano sulle gote, mentre camminava verso i quattro cipressi striminziti, dietro il frigorifero rovesciato, e Agata e Giulia le corsero dietro, ma sembrava sempre troppo lontana.

La, la la, lala, lala
La lala, lalalalala,

Mi piange il cuore, ma non posso tenerlo. Non posso, non posso.
Al telefono, le avevano detto di presentarsi a quel numero civico. Non appena suonò, un uomo con i capelli corti e gli occhiali aprì la porta, guardandola con una speranza ed un timore che la fecero ammutolire.
In lacrime, gli mostrò il ciondolo – lucido, minuscolo nel suo palmo.
Mentì.
« Io l’ho trovato per strada, vi-vicino al ponte. Ho visto dall’annuncio che sua figlia ne indossava uno come questo, perciò ho pensato di riportarve-velo. Mi dispiace… mi dispiace tantissimo, signore, m-ma credo… credo che non ci sia più.» inspirò, singhiozzante.
« Lo sai? Sai dov’è?» chiese lui, stringendo il ciondolo nella mano.
« S-sì, cioè… no, non per voi. Sono così dispiaciuta, mi creda, non posso dirglielo. Lei non avrebbe voluto, mi ha detto che vi ama tanto, non voleva morire. Lo so, lo so, mi creda.»
Il padre della ragazza prese un fazzoletto dalla tasca e lo schiacciò sugli occhi.
Agata scappò da Giulia e le poggiò la testa sulla spalla.

La, la la, lalalalala
La la, lalalalala.

« Dov’è andata, ormai? Dov’è?»

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Capitolo 2
*** Febbraio 1904 ***


Era il Febbraio del 1904, e non si era mai visto un mese più nebbioso e cupo: le sagome degli edifici più grandi emergevano dalla foschia a bocca aperta, sgranando mille occhi neri. Un coraggioso fotografo dilettante, appena arrivato dalla città, aveva raccontato a chiunque fosse stato disposto ad ascoltarlo, che intendeva catturare la poesia del cimitero del paese al crepuscolo.
« Non capisso mina cossa ca ghe sia de cussì beo.» borbottò il custode del camposanto, lasciando cadere il mazzo di chiavi nel palmo aperto del fotografo, e scosse la testa, fissandolo mentre scompariva nella nebbia fitta.

 

Le copie delle foto appese alla facciata della chiesa divennero in breve tempo un’attrazione per tutti gli abitanti. Si diceva che il fotografo le avesse portate al parroco in maniche di camicia, tutto sudato nonostante il freddo, e, dopo essersi fatto il segno della croce, fosse partito in tutta fretta. Già quello inquietò i contadini; ed inquietò le loro famiglie, quando i mariti tornarono a casa e raccontarono cos’avevano visto: tremule sagome scure, invisibili ad occhio nudo, che fissavano l’obbiettivo con bianchi occhi sgranati, quasi fossero state colte di sorpresa mentre si aggiravano tra le tombe.

 

Si chiese al parroco di bagnare mura e porte del camposanto con acqua benedetta, così da impedire agli spiriti inquieti di tormentare anche loro, ma prima che il sant’uomo potesse intervenire, accadde il fatto.

 

Due settimane dopo lo scatto delle agghiaccianti fotografie, una ricca famiglia che soggiornava lì denunciò la scomparsa della primogenita, un’adorabile ragazzetta di neanche quattordici anni: l’avevano lasciata andare a vedere «i fantasmi del cimitero» da sola, ed il giorno dopo la domestica non aveva più trovato la piccola. La polizia intervenne: il letto era sfatto, la sedia che di solito era accanto alla scrivania era stata spostata, quasi che qualcuno si fosse introdotto nella stanza per assistere un malato.

 

Un’anziana invalida confessò, sì, di aver visto la giovane davanti alla chiesa, ma aggiunse anche che accanto a lei era apparsa, per un fugace secondo, l’ombra di un uomo alto e magro, e ciò liquidò la sua testimonianza come fasulla.
Era Febbraio, e non s’era mai visto un mese più triste e irrigidito dall’orrore: il parroco, a occhi bassi, andò a togliere le foto dalla parete, e s’accorse con gelido stupore che ve n’era una di troppo: un ritratto della giovane scomparsa, che fissava lugubremente l’obbiettivo, i capelli scuri e ondulati sciolti sulle spalle. L’uomo nascose il tutto in una cassetta, consapevole della figura minuta che gemeva, le mani tra i capelli, nell’oscuro camposanto.

 

« Padre Antonio, venite a benedire il cimitero, scacciate le forze Maligne!»
La fanciulla vagava tra le lapidi, con urla flebili, cercando l’uscita nella nebbia di Febbraio.

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Capitolo 3
*** Amalia ***


E nel mare è rimasto; nel fondo
     del mare che grave sospira:
una stella dal cielo profondo
     nel mare profondo lo mira.

 

 

Sulle rocce che costeggiavano un braccio d’acqua salmastra, verde di giorno e blu di notte, c’erano due gambe bianche e dritte come stecche e sopra le gambe c’era un vestitino azzurro e sopra il vestito c’era una ragazzetta con il volto di gesso.
Miranda l’aveva osservata per notti intere, da quando era iniziata quella parte d’estate in cui i numeri del calendario si confondevano e lei si sentiva autorizzata a fare quel che voleva, dalla mattina alla sera. E alla notte profonda.
Per notti, insomma, Miranda osservò la ragazza che sedeva sulle rocce: a volte, notò con perplessità, si metteva carponi e faceva qualcosa… forse infilava la mano nell’acqua, ma non si vedeva bene, dalla sua finestra.
E una sera andò da lei.

 

C’era un sentiero di erba gialla e secca, che cominciava appena dietro il suo giardino, e si snodava attraverso un aborto di boschetto, con alberi neri come il carbone e silenziosissimi anche nelle giornate di vento.
Quella notte, in pantaloncini corti e canottiera, dopo aver infilato frettolosamente le infradito di suo fratello, Miranda scese in giardino attraverso la porta sul retro.
Aprì il cancelletto con mani tremanti, nella speranza che nessuno avesse udito il rumore.
Quando lo richiuse, piano, cominciò a respirare più lentamente. Poteva andare dalla ragazza ma, prima di girare intorno alla recinzione per raggiungere il sentiero, rimase a lungo con la testa reclinata indietro e il naso puntato verso il cielo.
- Che bello – sussurrò; quella notte non era come le altre: c’era la luna nuova, eppure il cielo era azzurro e limpidissimo e costellato di tantissime stelle scintillanti, e le dipingeva le mani di una tenera luce azzurrina. Non aveva mai visto nulla del genere.
Guidata dalla luce delle stelle imboccò il sentiero, benché i rami degli alberi si incrociassero sopra la sua testa formando, per così dire, un tunnel buio e fresco. Avanzò a tentoni verso l’apertura irregolare, simile ai bordi frastagliati di una fotografia che comprendeva la schiena della ragazza seduta sulle rocce.
- Ciao – azzardò, la gola improvvisamente secca.
La ragazza non sobbalzò, né diede segno di essersi sorpresa: doveva aver sentito il fruscio dell’erba sotto i suoi piedi, decise Miranda. Semplicemente si voltò verso di lei, sorridente.
- Ciao! – rispose e si alzò in piedi, spazzolandosi l’abito con le mani bianche e strette.
- Non volevo disturbarti… mi chiamo Miranda, ti vedo sempre dalla finestra della mia camera – disse e le indicò la finestra con una mano, imbarazzata.
- Piacere Miranda. Oh! Io mi chiamo Amalia! – le rispose lei.
Rimasero in silenzio per qualche secondo.
- Facciamo una passeggiata assieme – propose Amalia, in tono dolce, e la guardò dritto negli occhi per la prima volta; Miranda si irrigidì, poi esalò un sospiro tremulo: il cielo stellato si rifletteva negli occhi di Amalia come in uno specchio.
- D’accordo – soffiò, distogliendo lo sguardo dal suo volto.

 

Si incamminarono lungo il braccio d’acqua, su strisce di sabbia bianca e fine e rocce levigate, lilla e grigio scuro nella notte luminosa. Era davvero una notte stupefacente e Miranda pensò che non avrebbe desiderato altro che trascorrerla con una persona bella come Amalia… la guardò di sottecchi: camminava piano, quasi reticente, e i riflessi dell’acqua facevano risplendere come diamanti i suoi occhi azzurri; i riccioli scuri le rimbalzavano sulle spalle ad ogni passo, la bocca bianca si socchiudeva e si apriva in piccoli sospiri.
- Ho perso il mio anello – disse ad un certo punto, torcendosi le mani con ansia.
- Dove?
- Là, nell’acqua. È per quello che siedo là, tutte le notti, per riprenderlo. Mi aiuteresti?
Miranda si schiarì la voce: - E come faccio?
- C’è una luce tale, stanotte, che dev’essere ben visibile nell’acqua! – replicò Amalia, convinta. La prese per mano, e lei scosse il braccio come scottata, tanto era gelido il suo tocco, e la condusse indietro, sulle rocce, correndo sulla rena.
- Qua – le indicò un punto nell’acqua stellata e Miranda si chinò.
Le onde si frangevano sulla riva lentamente, quasi delicate, non sollevavano sabbia: alla luce delle stelle, Miranda vide un granchio spostarsi di lato, accanto alla sua mano, delle conchiglie bianche sul fondo, ma dov’era l’anello?
- Amalia, io non… - alzò la testa dall’acqua e rimase senza fiato: lei piangeva.

 

- Mi ricordo un giorno… - iniziò, incerta, asciugandosi gli occhi con il dorso della mano.
- Un giorno che venni qui per lavare l’anello. Aveva una macchia e io volevo pulirla, pensavo che l’acqua del mare l’avrebbe lavata via subito! Come potevo pensarlo?!
Cadde! Cadde in acqua e io tuffai la mano, ma non lo trovai!
- Era tanto importante? – chiese Miranda, accondiscente, ancora accovacciata sulla roccia.
Amalia annuì.
- Allora cercherò di riprenderlo, va bene?
Tuffò ancora una mano nell’acqua e tastò ovunque, incuneando le dita nelle fessure tra le rocce e smuovendo la sabbia: sbuffò e faticò, finché non incontrò qualcosa di rotondo.
- Ah!-  esclamò, afferrando l’anello nell’acqua limpida.
Lo strinse nel pugno, che poi aprì: ciò che vi trovò la sorprese: era stato un anello, su questo non c’era dubbio, ma quello che lei teneva sul palmo lucido era un cerchietto rovinato dall’acqua e dall’azione della sabbia. Lo girò, in modo da poter osservare il castone; la gemma non c’era più e l’oro era macchiato di rosso scuro.
Amalia si inginocchiò accanto a lei e lo studiò brevemente; un lampo verde le passò negli occhi, quando lo sfiorò con l’indice della mano destra. Dopo, sospirò.
Miranda osservò l’acqua, sentendosi di troppo in quel momento: sull’acqua c’era il riflesso della sua testa, nera contro le stelle, ma non quello della testa di Amalia, che pure era vicino a lei!
- Lascialo cadere, non è ancora pulito – osservò Amalia con una punta di tristezza.
- Prendilo tu – ordinò Miranda, celando a malapena il terrore. Amalia rise.
- Sai che non posso.
- Io non so niente di te.
Amalia si alzò in piedi, bianca e furiosa: i suoi occhi non riflettevano né acqua né stelle – erano verdi. Alzò una mano come se volesse colpirla, mordendosi le labbra, dopodichè la lasciò ricadere lungo il fianco: - Ascoltami e taci, Miranda – mormorò, stringendosi la radice del naso tra pollice ed indice.
- Quell’anello ha una storia: mio padre morì indossandolo e lo ebbi io, in eredità. Ebbene, è macchiato di sangue, come tu puoi vedere! Eppure lo tenni al dito per tanto tempo e non ci fu modo di ripulire il segno di quell’omicidio efferato!
Lavarlo nel mare, sì, mi parve una così buona idea… l’avrei poi donato al mio amore, quell’anello, ma non fu possibile. Lascialo cadere, dov’è stato per tutto questo tempo.
- Dove sei stata tu per tutto questo tempo? Dev’essere caduto qui anni e anni fa!
La voce di Miranda tremava, eppure le mostrò il pugno, in cui aveva nuovamente inglobato l’anello.
- Cento.
Sbatté le palpebre: - Come?
- Cento anni. Morii, morimmo cent’anni fa.
- Come? – ripeté, inebetita.
Amalia le sfiorò il pugno ancora alzato con le dita leggere: - Credo che anche lui mi amasse. Fatto sta che, quando ero folle d’amore per lui, oh avrei fatto qualsiasi cosa mi avesse chiesto, mi condusse nel suo paese: c’era uno stagno nascosto in un boschetto che desiderava farmi vedere, ben conoscendo il mio amore per l’acqua.
Guardai.
Era limpida, l’acqua, la notte chiarissima: mi sporsi: l’anello era in fondo allo stagno, finalmente ripulito dal sangue di mio padre. Lui si tuffò, per prenderlo, per me.
- Cosa successe dopo?
Amalia si strinse la gola con una mano e scoppiò in un pianto disperato.
- L’anello nell’acqua… ma non c’era alcun anello. E l’acqua era così fredda…
Miranda chiuse gli occhi, intuendo il finale. Il tono della voce di Amalia valeva più di quanto dicessero le sue parole. Guardò l’anello che teneva in mano, incapace di separarsene.
- Tornai qui, per vedere l’anello. Volevo sapere, chissà perché, se era già pulito… speravo che ne fosse valsa la pena, di cercare quel miraggio in fondo ad uno stagno.
Prima di pentirsene, Miranda scattò e gettò l’anello lontano, nel mare.
- Cosa fai? Non lo troverò mai più, mai più!
- Amalia! Forse quell’anello non si pulirà mai e nessun altro verrà a tirarlo fuori dall’acqua per te, così come non ci sarà mai una notte così limpida per cercarlo nel mare. Capisci? Va’ via e non tornare più: sono cent’anni che non lo baci, il tuo amore.
Lei rise, come se avesse appena compreso una cosa ovvia.
- Allora addio, Miranda, sei stata molto dolce ad interessarti per me.
La luce delle stelle cominciava ad affievolirsi, la notte a sbiadire.
Capendo che Amalia non sarebbe mai sparita sotto i suoi occhi, Miranda le fece un cenno di saluto e imboccò di nuovo il sentiero buio e aprì il cancello ed entrò dalla porta sul retro e salì in camera. Guardò dalla finestra: il cielo era viola, l’acqua nera come inchiostro.
- Ciao, Amalia.

 

Quella macchia! S’adopra a lavarla
     il mare infinito; ma in vano.
E la stella che vede, ne parla
     al cielo infinito; ah! in vano.

(L’anello, G. Pascoli)

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Capitolo 4
*** La neve nell'acqua (prima parte) ***


Allora sentii che non c’era,
che non ci sarebbe mai più....
La tenebra vidi più nera,
più lugubre udii la bufera....
 

 

Fissò l’acqua scura che gli lambiva la punta delle scarpe nere.
Scendeva una neve farinosa, dal cielo scuro e opaco, che gli si posava sulle spalle e tra i capelli: coagulava in piccole macchie bianche sul pelo dell’acqua, prima di colare a picco.
Crepitio di piedi sull’erba ghiacciata, Morosina che gli si affiancava, digrignando i denti.
- Assassinio! – soffiò, incredula.
Filippo chiuse gli occhi.

 

- Assassinio! assassinio!
Un grido salì dal giardino nebbioso, attraversò la finestra socchiusa e lui abbandonò il libro che stava leggendo, seduto alla scrivania, per precipitarsi all’ingresso, dove erano già confluiti, spontaneamente, il giardiniere e la governante.
Il grido si ripeté, più stridulo e lancinante.
- Santa Maria,
sior Avezzù! – esclamò la donna, facendosi il segno della croce.
I due uomini spalancarono la porta della cucina, l’unica che dava direttamente sul giardino posteriore; si inoltrarono nella nebbia, sollevando la ghiaia del sentiero mentre correvano: gli alberi e i cespugli emergevano dalla foschia, scuri e gocciolanti, e sparivano non appena se li lasciavano alle spalle.
Filippo vide i quattro pioppi che crescevano appena oltre il muro e una figura china sulla riva del laghetto delinearsi mano a mano che si avvicinava. Si lasciò superare dal giardiniere e portò una mano al petto, il cuore impazzito per il terrore.
- Cos’è successo? – domandò in tono perplesso, facendosi avanti a fatica: gli parve, in quel momento, di trascinarsi sull’erba rugiadosa come uno storpio, come qualcuno a cui fosse stato appena strappato un arto. Morosina Grimani volse il volto pallido verso di lui, premendosi una mano sulla bocca, gli occhi pieni di lacrime.
- Oh, Filippo! – gemette.
Lui osservò, distaccato, che le maniche del suo vestito erano bagnate.
- Fammi vedere – ordinò, perentorio. Lei si spostò appena, scossa dai singulti.
Gli occhi fissavano il cielo, invisibile nella nebbia; gli abiti incollati al corpo; il viso cereo.
Intanto il giardiniere, dopo essersi tolto il berretto in segno di rispetto, aveva raggiunto il cancello sulla campagna: - È aperto! Il farabutto dev’essere passato di qui!
Filippo non se ne curò. Il suo cuore, in quel momento, gli marcì nel petto.

 

- Filippo, nevica.
Lui la squadrò con aria smarrita e aggrottò la fronte; Morosina abbassò gli occhi e gli strinse la manica della giacca umida, con aria timida. Le sue dita erano arrossate a causa del freddo.
- Rientriamo, gli agenti della Repubblica potrebbero arrivare da un momento all’altro.
- Lasciami in pace, Morosina. Io… ho bisogno di riflettere – disse, atono.
Morosina si allontanò, il silenzio ovattato della neve tornò: ora cadeva in fiocchi più grossi, che non si scioglievano appena lo toccavano, ma andavano formando una patina biancastra. Continuò a pensare all’acqua, nera come inchiostro sotto la superficie, plumbea sopra per il riflesso del cielo. La neve cadeva lieve, senza essere turbata, nella sua discesa, da soffi di vento. Filippo dovette prendere un respiro profondo, all’improvviso, così che il velo di neve che aveva sulle spalle e sul colletto cadde.
Faceva freddo, doveva tornare.

 

- Renzo, Renzo! -
Cadde, cadde come colpito, stringendo il fratello tra le braccia.
Dietro di lui, le urla di Maria e i lamenti di Morosina, che si era lasciata cadere sull’erba.
- Renzo… - era basito. Sentiva su di sé gli sguardi di Maria e Vincenzo, che non si azzardavano ad allontanare il padrone da lì, per quanto fosse insano lasciarlo stare, ma non voleva alzarsi.

 

Con lo scendere della sera il tempo era peggiorato.
Il vento fischiava sulle finestre, gettando manciate di neve contro i vetri.
- Cristo – disse tra sé e si massaggiò gli occhi, dopo aver messo da parte la lettera che stava leggendo. Volendo essere sinceri, l’aveva buttata a terra con un gesto stizzito del braccio.
Udì un leggero tramestio davanti alla porta, probabilmente era Maria che sostava fuori dallo studio per asciugarsi in fretta gli occhi arrossati, prima di entrare per chiedergli se poteva accendere il fuoco per riscaldare la stanza. E accendere una lampada, magari.
Così rassettò la scrivania – ma lasciò la lettera a terra – e voltò la schiena alla porta chiusa, assumendo l’espressione più rassicurante che avesse in repertorio. Si schiarì la voce.
- Vieni avanti, Maria.
La porta scricchiolò; Filippo sentì una ventata gelida sfiorargli il collo, come se la tempesta di neve fosse in corridoio, e non in giardino; di nuovo quel tramestio, troppo lieve per assomigliare ai passi della governante.
Per un lungo, lunghissimo istante lasciò vagare gli occhi ed i pensieri nel buio turbinare di fiocchi, appena oltre la finestra. Così nero, il mondo, così buio da riflettere il suo vuoto spaventoso.
- Sono a casa – mormorò l’ospite.
Filippo si voltò.
- Tu non puoi… non è possibile! – indietreggiò fino a urtare il vetro con le spalle; il rumore attirò Maria, che forse temeva che il padrone potesse uccidersi, nello studio: spalancò la porta e lo fissò attraverso la stanza, almeno in apparenza senza notare la terza persona, che d’altro canto non fece nulla per farsi notare.
- Sior Filippo, cos’è stato? – balbettò.
- Nulla, Maria, scusami. Volevo solo guardare la neve – spiegò Filippo, dopo essersi umettato le labbra. Sotto gli occhi sospettosi della governante estrasse un fazzoletto dalla tasca e si asciugò la fronte.
- Volevo chiedervi se desiderate che vi accenda il camino.
Lui abbozzò un sorriso: - Non è necessario, ho già troppo caldo.
Lei annuì e li lasciò soli.

 

- Soffrire e basta… preferisco vivere in eterno questo momento, se poi dovrò fare i conti con il passato… adesso sento solo il dolore dell’amputazione, in seguito dovrò anche sopportare la mancanza di una parte di me! – mormorò, così piano da non farsi udire nemmeno da Morosina.

 

Il suo sguardo incrociò quello inquieto di Renzo: - Ma tu… tu sei morto.
Lui sorrise tristemente e allargò le braccia; indossava ancora gli abiti di quel giorno.
- Sì, hai ragione, e non sarei nemmeno qui se non avessi lasciato qualcosa in sospeso…
Filippo gli si avvicinò, tendendo una mano con insolita timidezza: voleva toccarlo su una spalla, ma le sue dita strinsero un po’ d’aria, appena più fredda di quella circostante.
- Mi spiace – bisbigliò Renzo, che aveva seguito i suoi movimenti con lo sguardo.
- Non è colpa tua! – si costrinse a dire Filippo, strizzando gli occhi.
Non tolse le dita dal corpo del fratello: per quanto gli paresse strano, lui non aveva avuto reazioni di ogni sorta e così pensava, scioccamente, che fosse ancora vivo, che potesse percepire il suo tocco. All’improvviso, pensò a Morosina.
- Morosina… ti ha visto?
- Non voglio che mi veda – il fantasma abbassò la voce.
- Perché? Insomma, lei ti ama… lei ti amava. Amava.
Lorenzo sorrise ancora, alzò gli occhi al cielo e sbuffò, come se non ne potesse più delle sciocchezze di suo fratello; faceva così anche quand’erano ancora bambini.
Di nuovo, Filippo sentì qualcosa spezzarsi e sussultare.
- Perché morirebbe di paura, se sapesse…
Annuendo piano, quasi assorto, si sedette sulla poltrona più vicina alla finestra, massaggiandosi le tempie e gli occhi. Non voleva piangere, ma temeva che l’avrebbe fatto comunque. Lorenzo si spostò, sempre con quel tramestio soffocato, e strizzando gli occhi cercò di intuire qualcosa del paesaggio esterno.
- Che nottata – osservò come nulla fosse.
Filippo batté la mano sul bracciolo della poltrona.
- Cosa ci fai qui, allora? Se non vuoi far visita a Morosina, che cosa ci fai qui?
Lorenzo rimase in silenzio per qualche minuto, gli occhi fissi sulla neve turbinante; Filippo cominciò a temere che non avesse ascoltato la sua domanda, ma lui incrociò le mani dietro alla schiena e chinò il capo.
- Ho ottenuto di rimanere su questa Terra solo fino a stanotte… solo finché non saresti riuscito a vedermi e a parlarmi. Mi hanno assassinato, ovviamente non potevo salutarti, perciò ho deciso di farlo stanotte. Addio, Filippo. Ricordati di me!
Filippo alzò di scatto la testa.
- Come potrei dimenticarti? Ti vedrò ogni volta nello specchio, parlando avrò anche la tua voce! Siamo identici! Come può un mutilato dimenticare l’arto che ha perduto? – emise una lieve risata, poggiando la fronte sul palmo di una mano.
La figura di Renzo sbiadì.
- Ti dico! Ti giuro, prima che tu svanisca per sempre, che troverò chi ti ha ucciso e, se non saranno le guardie della Serenissima ad impiccarlo o a decapitarlo, sarò io stesso a cancellare ogni traccia di lui dalla faccia della terra! – ringhiò Filippo e contorse il viso in una smorfia di dolore. Portò una mano al petto, ascoltando con stupore il silenzio dentro di lui. Solo una pozza d’acqua davanti alla finestra.

 

Oh! solo nell’ombra già morta
per sempre... (chi batte alla porta?)

(Notte di vento, G. Pascoli)

 

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Capitolo 5
*** La neve nell'acqua (seconda parte) ***


Sei tu tra gli ornelli,
sei tu tra la stipa?
Ombra! anima! sogno!
sei tu...?

(Canzone d’Aprile, G. Pascoli)

 

Margherita strinse le braccia attorno al corpo.
La neve, smossa da piccoli sbuffi di vento, attraversava obliqua il raggio di luce arancio del lampione; muta, se non per lo scricchiolio dello strato farinoso sotto i suoi piedi, leggera.
La chiave era nella sua mano, nascosta sotto i guanti.
La porta era poco più avanti, nello spiazzo scuro.
- Non c’è nulla di cui aver paura – si disse, convinta, e chiudendo gli occhi s’inoltrò tra due siepi inselvatichite. Continuò a camminare, le palpebre appena socchiuse per non inciampare; l’erba scura sotto i suoi piedi frusciava, le piante secche frusciavano, il mondo intero frusciava attorno a lei.
- Io non ho paura – affermò davanti alla porta chiusa: tirò fuori la torcia dal cappotto e la puntò sulla serratura; infilò la chiave, tentò un mezzo giro; lo completò. Girò ancora.
Era aperto.
Infilò la torcia nella fessura, illuminando una porzione di pavimento grigio e impolverato. Prese coraggio e aprì del tutto, infilandosi all’interno: lasciò la porta aperta, così che un fantasma di luce artificiale l’aiutasse a orientarsi nelle stanze, anche se aveva già deciso di esplorare solo il piano nobile.
Mosse la torcia a destra e a sinistra e illuminò qualcosa di strano: una fila di scarpe, rovesciate da un piede frettoloso molto tempo prima, ormai base per una colonia di ragnatele impolverate.
Le superò.
L’ingresso dava direttamente su una sala da pranzo; la luce ridicolmente debole passò su una tavola apparecchiata: pietanze raggrinzite nei piatti di porcellana, un candeliere con moccoli di candele, posate impolverate e bicchieri da cui il vino era ormai evaporato e la cui unica traccia di esistenza era una fluorescenza violacea sul vetro.
Un orologio aveva le lancette ferme sulle tre e trentasette.
- Incredibile – sussurrò Margherita, alzando il braccio.

Tutta una fiorente famiglia: i congiunti nel quadro affisso sulla parete opposta avevano vestiti scuri e facce ancora più scure, appesantite dai baffi. Passò in rassegna i loro volti, ma erano troppo piccoli e male illuminati perché potesse distinguerli.
- E tu cosa ci fai qui?
Margherita sobbalzò e si voltò lentamente, facendosi precedere dalla torcia.
L’uomo la scrutò con perplessità, avendola apostrofata come se fosse stata una conoscente.
- Questa è casa mia – rispose, insicura, ma lo avvicinò. Non aveva paura di lui.
- Scusami. Credevo fossi… qualcun altro.
- Ah… sei il custode?
Lui sorrise, tendendo le labbra rosse. Margherita fece finta di non averle notate, benché fossero di una tinta molto più accesa delle sue; aggirò il tavolo, raggiungendolo sulla soglia.
- Sì, non lo sapevi? – sorrideva, cordiale. Si guardò alle spalle come se avesse udito un rumore. – Se sei d’accordo, possiamo spostarci in giardino… è meno lugubre.
Annuì.

 

La cappa di nubi, uniforme come ovatta, aveva una tinta rossastra.
Margherita la indicò, lieta di mostrargli qualcosa di particolare.
- Non l’ho mai vista – osservò l’uomo, sorpreso.
- Mai?
- Di solito il cielo è nero, quando nevica – fece notare lui, in tono piatto.
Lei lo osservò di sottecchi: gli occhi azzurro scuro, se non sbagliava, la pelle chiarissima.
- Io mi chiamo Margherita.
- Filippo – la guardò negli occhi, nel risponderle, così lei poté studiare quelle tinte contrapposte; scoprì che la sua pelle era bianca come la neve che cadeva, gli occhi scuri come il cielo notturno, i capelli e le ciglia di un biondo scuro.
Filippo sembrò pensieroso: - Vuoi che ti racconti una storia?
- Oh, perché no? – lo affiancò, le nocche che quasi sfioravano la sua mano.
- Questa villa fu abbandonata al principio dell’Ottocento… dopo che il padrone di casa tentò di ammazzare un fattore che abitava da queste parti, in mezzo ai campi. Gli imputava la morte del fratello.
Margherita lo ascoltava, seriamente colpita, così Filippo le concesse un breve sorriso, prima di tornare aggrondato e concentrato sul proprio racconto. – Un giorno di Novembre delle grida l’avevano richiamato fuori e lì… assieme alla sua morosa… c’era suo fratello Renzo. Era annegato – fissava qualcosa nel buio, quasi invisibile nell’impossibile luce rossa.
- Continuò a cercare il suo assassino per anni, finché non sentì parlare di un certo Fontana, che scuoiava le faine dopo averle prese e nascondeva il forcone sotto il letto, attendendo, così diceva lui, “che quei signorotti là passassero sotto casa”. Dopo la morte di Renzo suo fratello si convinse che fosse stato proprio lui: quelle che raccontava in giro potevano essere fandonie per vantarsi, ma considerata la sua fama… era un capro espiatorio. Così prese una falce, indossò degli abiti dismessi e attraversò la campagna… e lo colpì, mentre quello gridava, finché non intervennero altri braccianti. Il signore fuggì e non se ne seppe più nulla.
- Che stupido – osservò Margherita, con profondo disprezzo.
Filippo sorrise fuggevolmente: - Sì, davvero – concordò, lo sguardo lontano.
- Cosa guardi? – cercò di guardare nella sua stessa direzione.
- Lo stagno, dicono che Renzo annegò proprio là – rispose Filippo, placido.
- Andiamo? – Margherita lo precedette, nervosa, guardandolo di tanto in tanto.

 

Ricominciò a nevicare, ma Margherita non si era nemmeno accorta che avesse smesso.
Distolse lo sguardo dall’acqua nera per portarlo su Filippo, la cui espressione era meno rilassata di poco prima; guardò anche le siepi incolte, le panchine di pietra spolverate di bianco, notando che i fruscii di poco prima si erano spenti.
Il silenzio era assoluto e rilassante.
- Non fidarti mai, Margherita! – Filippo parlò allo stagno, più che a lei.
- Eh?
- L’acqua si prende ciò che le piace, devi aver paura di lei! a volte non si tratta di sentimenti umani, avidità di denaro, rancore, gelosia o amore; è lei che si prende ciò che desidera.
- Cosa vuol dire? – Filippo si chinò su di lei, con gli occhi assurdamente scuri e la pelle assurdamente pallida. Lei pensò, all’improvviso e senza logica, che erano soli, lontani dagli occhi vigili di chi la conosceva e non aspettava altro che vederla fare qualcosa di nuovo, che l’aria era così attutita che anche i loro gesti sarebbero stati attutiti e quindi…
Posando una mano sulla spalla di lui – la stoffa ruvida sotto i polpastrelli – si drizzò sulle punte, si mosse in fretta e lo baciò.
Ne sfiorò appena le labbra, fredde e cedevoli come neve fresca.
La smorfia sorpresa di Filippo fu bella.
- Non è che indossi vestiti troppo leggeri? Sei proprio freddo – commentò per mascherare il suo leggero imbarazzo. La sua mano scivolò giù dalla spalla dell’uomo, si fece indietro.
Filippo continuò a fissarla, come se si aspettasse che dicesse qualcosa di diverso.
Margherita sentì il freddo pizzicarle le gambe, arrampicarsi con mille manine sulle sue spalle e avvolgerla tutta, mentre fissava il colletto bianco che sbucava dalla giacca.
Gelò. – Il quadro, in sala… - balbettò, facendo un passo indietro.
- Io ti ho detto quello che dovevo dirti – mise altra distanza tra loro.
Margherita, pallida in volto, continuò a balbettare e stringere la chiave con entrambe le mani, quasi fosse stata un crocifisso: - Io ho visto due… due… due persone uguali… ma… ma avevano i capelli e gli… occhi più chiari. Filippo… Renzo era… devo… andare.
Filippo la guardò tristemente e le sfiorò una guancia con la punta delle dita.
- Vai pure, Margherita, io aspetterò ancora a lungo che arrivi qualcuno di capace.
Margherita scappò, notando solo allora che l’unica fila di impronte apparteneva a lei.
Sulla porta che conduceva alla villa, si arrestò un attimo.
- Filippo – gridò a pieni polmoni – ti ho baciato bene?
Le parve che lui sorridesse, in fondo al giardino.
Giunse un “sì” abbastanza debole, ma percettibile.
Abbozzando un cenno di saluto, gli voltò le spalle e si gettò nella vuota oscurità della casa.

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Capitolo 6
*** Imago mortis ***


Orlando sente che la morte lo invade,
dalla testa sul cuore gli discende.

(La Chanson de Roland)

 

Michele Munerati era steso sul pavimento a scacchi del Maddalena, circondato dagli schizzi di sangue causati dalle ferite al busto. L’arma giaceva accanto alla sua gamba sinistra, essendogli sfuggita dalla mano già floscia mentre cadeva all’indietro.
Un silenzio terribile scese sulla sala, come un tremendo olezzo, mentre un filo di fumo argenteo saliva verso il soffitto. Stefano Delfanti teneva ancora il braccio alzato, anche se il suo rivale giaceva a una decina di metri da lui, in una pozza di sangue.
Dalla rampa di scale che conducevano di sopra, Teresa tossì forte.
- Cosa hai fatto, Stefano? – gridò con voce rauca – Cosa hai fatto?
Lui non si voltò; si limitò a scuotere la testa e ad abbassare l’arma.
- Stefano, vieni qui. Nessuno si farà male, lascia andare quella pistola.
Stefano si avvicinò al corpo immobile di Munerati: gli occhi del morto erano ancora socchiusi e fissavano il vuoto, l’odio che l’aveva spinto a quella folle missione ancora impresso nei lineamenti contratti.
Teresa lo inseguì. – Sta’ indietro! – le urlò l’uomo.
Lei si fermò a poca distanza da lui, fissandolo in una muta preghiera.
Stefano sospirò: - Chiudi gli occhi, Teresina: non voglio che guardi.
- Stefano, io non credo… - osò lei, pigolante.
- Fa’ come ti ho detto! – un altro urlo, che riecheggiò nel salone; le altre persone sembravano essere state tramutate in statue di sale, tanto erano immobili e impassibili.
Teresa non chiuse gli occhi e Stefano la guardò con gli occhi celesti luminosi di lacrime.
- Non voglio finire ancora più in basso di quanto non abbia già fatto – mormorò.
Portò l’arma al capo, abbassò le palpebre e premette il grilletto.

 

Quelle sul soffitto… sembravano proprio chiazze di sangue… no, umidità.
Avrebbe voluto domandarlo a Teresina, che gli stava sopra con il viso bianco come calce, ma una febbre untuosa gli aveva preso la testa e scendeva come una cascata di miele.

Stefano… Stefano… qualcosa gli gocciava sulla bocca: avrebbe voluto dirlo a Teresa, ma la febbre non gli lasciava margine di parola.
Ma quelle sul soffitto… dovevano proprio essere macchie… di sangue…

 

La schiena di Teresa pareva un guscio fragile, in procinto di infrangersi ad ogni respiro inframmezzato a parole confuse e a colpi di tosse che le scuotevano tutto il corpo magro.
Si alzò ancora di più, su di lei: le sue mani erano rosse come la maschera sanguinolenta che stringeva con grande tensione. Capì orribilmente che lui era ancora con lei, nonostante gli occhi del suo corpo fossero ormai vuoti.
- Teresa! Mi senti? Dimmi che mi senti!
Un’infermiera la prese per le spalle e la riportò in camera, dove le somministrò una medicina dall’odore pungente. E piano, mentre Stefano tentava di accarezzarle il dorso della mano, le palpebre di madreperla si abbassarono sui suoi occhi stanchi e lei si addormentò, con le guance ancora rosee.
- Teresa… - il suo fiato non smuoveva i suoi capelli, a malapena rabbrividiva. Rinunciò all’idea di renderla consapevole della sua presenza e tornò dabbasso, ad osservare il corpo traforato di Munerati che veniva portato via – un infame che avrebbe colpito alle spalle – e del suo non c’era già più traccia.
Ogni sua impronta cancellata, la sua memoria già offerta alle bestie dilanianti, Tempo e Oblio, la sua intera anima nella mano di un filo: nel pugno chiuso di Teresa! L’ombra di cui era fatto tremò come una foglia al vento. Era perduto.

 

Non capisco se sia questa la panacea contro tutti i mali: è uno scheletro malfatto che sostiene il mio corpo molle. Se crolla, debbo ricomporlo con gran fatica, ma senza sarei perduta. Erano le ultime parole che Cristina aveva ricevuto da Teresa.
Le aveva lette quando gli avevano chiesto di buttar via le carte della sorella morta: si era scaldato al fuoco che aveva acceso, mentre vecchie lettere e confidenze tratteggiate in calligrafie ugualmente femminili, ugualmente chiare e tondeggianti.
Non era stato un buon fratello, lo sapeva, ma Cristina era scappata a diciassette anni e a diciotto aveva bussato alla porta di casa, implorando aiuto contro un amico violento a cui non aveva voluto far corrispondere gli avvertimenti dei suoi genitori.

È uno scheletro malfatto che sostiene il mio corpo molle… senza sarei perduta.
Teresa aveva scritto tutto un foglio, ma ricordava solo quel paragrafo innocente.
- Avrei voluto capirlo prima. Forse sarebbe stato diverso. Forse mi avrebbero perdonato.
Solo una cosa desiderava fare, cioè essere lo scheletro malfatto di cui Teresa necessitava, ora più che mai, piegata com’era sul letto sfatto.
- Oh, Dio, perché sei stato così cattivo? Con me, con Stefano… a volte – abbassò la voce – credo di capire cos’ha visto prima di lasciarmi così crudelmente, Signore. Credo che mi abbia visto, perché i suoi occhi erano vivi, ma non ha potuto dirmi niente. Non ha potuto.
La tosse la costrinse a stringere le lenzuola sottili con entrambe le mani; si inarcò sul materasso, i capelli sparsi sotto una guancia.
- Se solo avessi la possibilità di comprendere cosa voleva dirmi, potrei guarire.

La panacea contro tutti i mali. Stefano era sempre sconvolto dall’ossatura fragile di Teresa, dal suo corpo sempre più magro; si chinò dietro di lei e le prese i gomiti, per sostenerla.
- Teresa!

 

Capelli ancora folti e lucenti, lo sguardo lucido come vetro, Teresa entrò nel vecchio Maddalena da una finestra spaccata. Si ferì una mano, ma lasciò che le gocce rosse formassero una traccia sottile dietro di lei.
La reputazione dell’ospedale non aveva retto allo scandalo: due morti, di cui uno suicida, dopo un duello senza motivazione! Rimaneva solo lei, capì con un senso di vertiginoso terrore, a ricordare cosa era successo.
La curiosità mosse ancora i suoi passi.
Si stese sul pavimento, dove ricordava con chiarezza era caduto Stefano, anni prima; e il sussurro insistente e benevolo che udiva da allora si fece più chiaro, tanto che pensò di poterne discernere le parole. Il suo corpo, mai guarito dalla tisi eppure forte, pallido d’anemia eppure agile, amabile, tremò e seppe che ciò che l’aveva mossa l’aveva abbandonata. Il suo scheletro, l’aveva definita una volta.
- Sapete, mi ricordo ancora del momento in cui Michele è esploso: e Stefano gli ha detto, quando ancora poteva sentirlo: Infame codardo, speravi che non ti prendessi da davanti? Tu solo, Signore, sai quanto abbia temuto e amato quell’uomo, in quel momento. So che Michele era venuto per me.
Le chiazze di umidità sul soffitto si erano allargate negli anni.
Teresa tossì e ricadde sulle piastrelle gelide, terribilmente stanca.
Il catarro le risalì lungo la gola; si tappò la bocca.
All’ultimo momento, il viso di Stefano la sovrastò, angosciato.
- Cosa volevi dirmi? – fece un sorriso sanguinoso. Stefano abbassò la testa.
- Imago mortis – mormorò. Scese il buio.

 

- Stefano?
- Sì?
- Perché hai ucciso Michele?
- Perché lui ha ucciso mia sorella e avrebbe fatto lo stesso con te.
- Sì, ma…
- Volevo dirti di non piangere.

 

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