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di itsmemarss
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 01 ***
Capitolo 3: *** 02 ***
Capitolo 4: *** 03 ***
Capitolo 5: *** 04 ***
Capitolo 6: *** 05 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo


Quando i morti cominciarono a risorgere, nessuno volle crederci. La mente umana reagì nel peggiore dei modi alla notizia che orde di morti viventi si stavano risvegliando in tutto il mondo: negò l’evidenza, nascondendo la paura latente sotto una maschera di puro incredulimento. Eppure le prove erano lì davanti ai loro occhi: i video di gente che si risvegliava dalla tomba facevano il giro del mondo. Si pensò, però, a una trovata pubblicitaria per incrementare gli ascolti.
Anche i politici cercarono di nascondere la cosa, facendo finta di non sapere niente.
Poi, quando successe il peggio, fu il caos.
Era il 2011. Me lo ricordo bene, perché fu anche l’estate più calda che avessi mai visto.
Si potevano registrare anche trentacinque gradi all’ombra e le strade erano vuote. Chi non era riuscito a partire, si era rinchiuso in casa e usciva solo se necessario.
Avevo diciassette anni e stavo guardando un programma stupido in tv, quando lo schermo si oscurò. Rimase nero per più di un’ora, prima che tornasse a funzionare. Poi una donna, vestita con un tailleur nero, cominciò a parlare. Cercava di sorridere, ma si vedeva benissimo che aveva il terrore negli occhi. Era il Presidente degli Stati Uniti.
<< E’ con somma delusione che annuncio al mio paese che l’esperimento, che doveva portare a una nuova svolta nel campo scientifico, ci è sfuggito di mano >> disse con voce grave.
Stava parlando della ricerca per la cura contro il cancro, meglio conosciuta come “esperimento 626”.
Si vociferava che un gruppo di scienziati in un remoto laboratorio nel Nord del paese l’avesse trovata. In realtà quello che doveva essere un antidoto, si rivelò tutto il contrario. Era vero. Le cellule tumorali avrebbero dovuto diminuire per poi scomparire del tutto, ma in realtà lasciavano solo il posto a un virus che invadeva il cervello e distruggeva lentamente i neuroni. Un morbo letale, che ti uccideva nel giro di qualche giorno per poi riportarti in vita. A che prezzo, però, se poi quello che ti muoveva era solo un cieco bisogno di carne umana?
Gli scienziati, dapprima eccitati all’idea di aver scoperto l’elisir di lunga vita, si ritrovarono tra le mani dei veri zombi. Annientandoli per sempre, avevano pensato di essere salvi, ma il virus aveva trovato una via di fuga e ora era già in circolo.
Un urlo mi distolse dallo schermo e corsi alla finestra. Quello che vidi era solo l’inizio.
 

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Capitolo 2
*** 01 ***


01


Spalancai gli occhi e fui presa dal panico, quando riconobbi la nostra vicina di casa nella donna con la mandibola penzolante e un grosso squarcio nel collo, rannicchiata a terra. Alcuni dei bigodini si erano staccati e ciondolavano sulle sue spalle, attaccati ancora per le punte dei capelli. La vestaglia era strappata in diversi punti e sporca di sangue. Stava cercando di afferrare la postina, muovendo le braccia davanti a sé nel tentativo di immobilizzarla. La bocca continuava a chiudersi e aprirsi in cerca di qualcosa da mordere. La povera Patty stava tentando di divincolarsi, gridando e chiedendo aiuto, ma inutilmente. Pur sovrastando l’anziana signora per altezza e forza, i suoi tentativi di togliersela di dosso non andavano a segno.
Alla fine, forse approfittando di un attimo di distrazione, Mrs Patrick affondò i denti nella spalla della sua vittima, che urlò ancora più forte, prima di ammutolire.
Lasciai andare la tenda e mi allontanai dalla finestra, notando che la nostra vicina di casa non era l’unica a comportarsi in maniera strana. Decine di altre figure simili a lei si aggiravano per la strada, ricordando più animali affamati, che comparse truccate e vestite per girare un film splatter.
Rimasi a fissare il vetro con un misto d’incredulità e confusione, finché non sentii graffiare la porta d’ingresso. Mi precipitai a chiuderla, ma non feci in tempo. Un’altra di quelle cose aveva già fatto il suo ingresso in casa.
Si trattava del signor Wilson, il giardiniere. Indossava la divisa da lavoro, consistente in una salopette di jeans e una camicia a quadri. Aveva perso una scarpa e lo sguardo era spento, mentre continuava a guardarsi intorno.
Poi attirai la sua attenzione, pur nascosta nella penombra di una delle colonne portanti. Cominciò a muoversi nella mia direzione, dapprima lento, poi sempre più veloce, per quanto glielo potesse permettere la caviglia slogata.
Indietreggiai, fino a sbattere contro il muro del soggiorno. Lo percorsi tutto, la schiena ancorata a esso. Intanto con le mani cercavo una possibile arma da usare in mia difesa, senza mai smettere di guardare quella cosa. Se anche solo mi fossi distratta, sarei stata spacciata. E avevo visto cos’era successo alla povera Patty.
Deglutii pesantemente con il cuore che batteva forte.
Alla fine le mie dita sfiorarono le varie mazze da golf che papà teneva sempre in un borsone accanto alla libreria. Ne afferrai una e la tenni stretta.
<< Ti avverto. Non ho paura di usarla >> biascicai, con la voce che tremava per la paura.
Per tutta risposta, l’essere dalle sembianze di Wilson si stufò di aspettare e si lanciò verso di me. Chiusi gli occhi nel momento stesso in cui l’asta di ferro incontrò il cranio del giardiniere, fracassandolo.
Trattenni un conato di vomito, mentre sentivo il rumore delle ossa rotte e il tonfo del corpo sul pavimento di legno.
Quello fu il primo zombi o Errante – come lo avrebbero descritto gli scienziati più avanti – che uccisi. E non certo l’ultimo.
Il secondo lo fece fuori papà, mentre cercava di aggregarsi al primo ed entrare in casa nostra. Usò l’attizzatoio del caminetto per rallentarlo e darsi il tempo di colpirlo con un calcio. L’essere perse l’equilibrio e mio padre ne approffitò. Chiuse la porta a doppia mandata, prima di sbarrarla con alcune assi provenienti dalla cantina, dove di solito si divertiva con il bricolage e un po’ di falegnameria. Mi disse di aver sentito il Presidente alla radio.
<< Allie, tesoro, sei ferita? >> mi chiese mia madre, arrivando dalla cucina. Lasciai la presa sulla mazza e la abbracciai, stringendola più forte che potei. Il sangue che aveva visto sulla mia maglietta non era altro che dell’essere.
Da quel momento in poi non avevamo molto tempo. Dovevamo prendere tutto ciò che potesse rivelarsi utile e necessario, come vestiti, cibo e medicinali. La Protezione Civile diede alcune semplici regole alla radio, prima che anche quella, dopo la televisione, smettesse di ricevere. Dovevamo muoverci come se quello che stava accadendo fosse un disastro come un altro.
Ci rifugiammo in cantina, mentre l’allarme anti aereo ci gridava nelle orecchie che il pericolo era ancora lì fuori, oltre la nostra porta. Fortunatamente mamma era una persona molto apprensiva per cui aveva fatto costruire a papà un vero e proprio “rifugio anti atomico”. Naturalmente non era a prova di bomba a raggi gamma, ma c’era tutto l’occorrente per resistere sotto terra per qualche mese, forse un anno massimo.
Ci stringemmo tutti e quattro – mamma e papà sulla brandina, Paula ed io sul divanetto – in attesa che qualcuno ci venisse a prendere. Mia sorella non aveva che quattro anni e non riusciva a smettere di piangere, incapace di comprendere. Per quanto tentassi di calmarla con canzoni e ninnananne, favole o storie, le sue lacrime non avevano freno. Alla fine riuscì ad addormentarsi solo grazie alla presenza di Batuffolo, un pupazzo a forma di coniglio con un occhio solo. Glielo avevo regalato un anno prima e si era guadagnato la sua “ferita di guerra” a causa del gatto della nonna, un soriano alquanto permaloso. Chissà se entrambi stavano bene al momento… a causa del sovraccarico delle linee, era impossibile fare qualunque chiamata. Eravamo isolati dal mondo.
Anche se i muri erano stati insonorizzati con i materassi e le coperte, le grida si potevano sentire ancora, così come il rumore dei vetri rotti e il rantolo di quelle cose che avevano trovato il modo di entrare in casa. Per fortuna la botola che portava a noi era nascosta da un tappeto e chiusa con dei lucchetti. Chissà, però, se avrebbero retto…
Dopo qualche ora, fu il turno degli spari. A ogni scarica chiudevo gli occhi, stringendo sempre più forte la mano di mamma e cercando di sovrastare i colpi con la mia voce. Passarono tre giorni prima che cadesse il silenzio e i militari venissero a prenderci.
Ci dissero che ci avrebbero portato in un posto sicuro, una delle basi più vicine. Poi ci bendarono gli occhi, ma non potevano evitare che sentissimo l’odore della carne in putrefazione sotto il caldo di Luglio e quello del legno bruciato dei falò. Per evitare altri contagi, procedettero a un bonifico dell’area appiccando il fuoco ai corpi.
In più, sotto le palpebre chiuse, potevo ancora scorgere il ricordo della smorfia di orrore sul viso della postina, del vuoto infinito nello sguardo del giardiniere.
Quelle immagini sarebbero sempre rimaste impresse nella mia mente, come inchiostro.
Oltre a noi, furono pochi quelli della nostra città a sopravvivere all’attacco da parte degli Erranti. Molte delle vittime si trovavano fuori di casa, impreparate davanti alla realtà dei fatti, impossibilitate a proteggersi. Tra queste anche molti miei amici.
Rimanemmo alla base di Portsmouth, nel New Hampshire, per un mese, prima che ci spostassero a sud. La convivenza con altre persone non fu così complicata, come invece ci aspettavamo. Alla fine l’importante era essere al sicuro e insieme.
Piuttosto era difficile sapere che non avremmo più rivisto una casa. Quella nel Maine era stata rasa al suolo dall’esercito, insieme a tutti i ricordi legati a essa.
Il giorno del mio compleanno, in Agosto, ricevettimo la busta. Era semplice, bianca, con il timbro dello stemma degli Stati Uniti. Era la risposta al perché qualche giorno prima ci avessero fatto estrarre a sorte dei numeri, uno per famiglia, senza però spiegarcene il motivo.
All’interno trovammo quattro biglietti e una lettera. Le parole erano state scritte con una calligrafia chiara ed elegante, prima di essere stampate. Dicevano che “eravamo stati scelti”. Non per una vacanza, ma per il viaggio che ci avrebbe dato la possibilità di ricominciare una nuova vita. Eravamo entrati a far parte del Progetto Pegasus, un piano governativo programmato dal governo in caso di contaminazione nucleare e poi riassestato alla situazione attuale. Si trattava della costruzione di piattaforme spaziali, appena fuori dal nostro pianeta, in grado di ospitare migliaia di persone per anni. Serviva a garantire un inizio promettente, un’altra vita altrove, lontano dalla piaga degli Erranti che lentamente stava mettendo in ginocchio il nostro mondo.
Ci misero in viaggio entro la fine del mese.
Raggiungemmo Boston, dove fummo costretti a dividerci in gruppi più piccoli per facilitare gli spostamenti a causa degli Erranti. Eravamo guidati da una piccola milizia, che serviva a garantirci protezione.
Nel giro di una settimana avevamo raggiunto New York, dove sorgeva la base militare più grande della costa est, protetta dall’esercito e dalla Guardia nazionale, circondata dall’oceano atlantico e da una fitta recinzione mettalida ed elettrica. Ogni entrata era regolata dai militari, che avevano eretto delle torrette, protette da cecchini di prima scelta.
Era la prima volta che vedevo la città con i miei occhi e non da fotografie o film. La realtà era ben diversa dall’immaginazione. Mi sarei aspettata colori, luci, felicità. Invece non era, che una città come tante altre, grigia e spenta a causa del morbo. Forse un tempo era diverso, ora non più.
Persino i giganti palazzi di vetro e acciaio si erano arresi al tempo, diventando sempre più cupi e cadenti.
La nostra famiglia fu alloggiata in uno di questi alti edifici dello Skyline, dove un tempo sorgevano decine di uffici. Ora non era altro che un posto, dove stare in attesa della partenza, insieme a altre persone come noi, munite di biglietto.
In città, però, si rifugiava anche chi non era stato estratto a sorte, attirato dalla speranza – o disperazione – che magari avrebbero preso anche loro, se si fossero fatti sentire.
Pur con la dilagante malattia che aveva decimato mezza America, i posti sulle “arche” non erano abbastanza per tutti quelli che erano sopravvissuti. Come a cercare di lavarsene le mani, i governi avevano lasciato che fosse il destino a scegliere per loro, a decidere la vita e la morte.
Molte delle persone a me più care le avevo perse a causa di questo sistema di scelta. Quelli che erano riusciti a salvarsi, che non erano stati uccisi o trasformati, avevano interrotto i rapporti tra di noi, avevano scelto di non volermi più vedere.
È in momenti come questi, che ti rendi conto di chi sono le persone che realmente tengono a te.
Tra questi non c’era Denise, un tempo, prima che il mondo cadesso nel caos, la mia migliore amica. Non avevo più sue notizie da mesi ormai, non da quando aveva scoperto che la mia famiglia era stata scelta, al contrario della sua. Aveva detto di odiarmi, che era colpa mia se loro dovevano restare… come se ci fossi io dietro alle scelte dei Biglietti. Non avevo potuto fare altro che chiederle stupidamente scusa.
Ancora oggi continuo a svegliarmi nel bel mezzo della notte, sperando di essere uscita da quest’incubo, che tutto sia tornato come prima, che Denise sia ancora mia amica.
Dal giorno in cui gli scienziati hanno fatto cominciare tutto, sono passati sei mesi e sono ancora delusa nel costatare che tutto ciò è successo davvero, che sto ancora vivendo questo incubo, che spero, finirà presto, forse domani quando prenderemo l’elicottero per raggiungere le piattaforme.

È ancora l’alba, quando mi sveglio. Il sole è nascosto dietro l’orizzonte, oltre le nuvole scure che minacciano New York di un temporale. So per certo che però non pioverà. Non oggi. Altrimenti l’esercito l’avrebbe previsto e avrebbero posticipato la partenza. Invece alle dieci in punto di stamattina partirà l’ultimo elicottero per le piattaforme, così come ha annunciato la voce metallica dell’altoparlante ieri sera.
I miei genitori si svegliano poco dopo, cominciando subito a vestirsi in fretta, per non togliere tempo prezioso alla preparazione dei bagagli. Potremo portarci solo il minimo indispensabile, vista la bassa capacità di carico degli elicotteri: il che è già tanto, rispetto a tutto quello che abbiamo dovuto lasciare a casa, nel Maine, dopo l’invasione.
Una volta arrivati dentro le arche, saremo riforniti di tutto l’occorrente. Dovremo però privarci di molti dei ricordi che sono attaccati agli oggetti che non siamo riusciti a salvare. Ed è proprio per questo, per “essere troppo nostalgica”, che impiego più tempo del previsto a raccogliere le mie cose e a metterle nel bagaglio a mano.
<< Allie, muoviti! >> mi grida dietro mio padre, mentre la mamma è davanti alla porta con Paula in braccio, che stringe il suo peluche preferito: un coniglietto con un occhio solo.
<< Ci sono! Ci sono! Voi cominciate ad andare avanti, io vi raggiungo >> gli rispondo, tentando di afferrare le ultime cose – per la maggior parte fotografie – tutte sparse per la mia stanza. Sento mio padre sbuffare, darmi un veloce bacio sulla testa, prima di scomparire insieme a mia madre e a mia sorella oltre la porta, diretti verso le scale.
Intanto passano altri dieci minuti e mi lascio prendere dal panico. Dovrei aver preso tutto, mi dico. Ed è proprio in quel momento che un rumore assordante invade prima il corridoio esterno e poi l’intero appartamento, di pochi metri quadrati. È come se migliaia di tasselli si accartocciassero su se stessi, rovinando verso il suolo. Dalle finestre del bagno vedo l’edificio accanto che si piega minacciosamente verso il nostro.
<< Attenzione! Attenzione, cittadini. La partenza è stata anticipata a causa del crollo del palazzone B. Vi preghiamo di raggiungere le uscite principali o di utilizzare le scale per chi fosse munito di biglietto >> grida una voce femminile al megafono.
Ecco, questa è l’ultima goccia che fa traboccare il vaso, prima di cadere nel panico più totale. Afferro la valigietta, il biglietto dorato e la giacca a vento, prima di correre verso le scale anti incendio. La folla che scende, però, non fa che ritardarmi ancora di più. Il caos è ovunque e non posso nemmeno prendere l’ascensore per fare più in fretta visto, che la corrente è saltata in tutto il palazzo.
È allora che qualcuno mi afferra la mano e mi guida verso l’alto, correndo più in fretta di me, trascinandomi a peso morto. Ne scorgo solo la schiena, ma si tratta di un ragazzo, che come me stringe un biglietto dorato.
Non posso far altro che affidarmi alla mia latente capacità di staffetta, che da bambina mi aveva fatto vincere diverse gare, e alla stretta dello sconosciuto.
Arrivo in cima insieme con lui, che abbassa la maniglia e mi porta sul tetto. La prima cosa che vedo, oltre al cielo grigio, sono le pale dell’elicottero che cominciano a vorticare sempre più in fretta. Poi la sagoma del ragazzo che si lancia contro la fiancata del mezzo, battendo i pugni sul vetro.
Grido anch’io, agitando le braccia, sperando che mi vedano, che mi sentano, ma non ricevo cenni positivi dal pilota del mezzo, che comincia a far alzare dal suolo il veicolo.
Dal finestrino scorgo la mia famiglia: vedo mio padre che cerca, invano, di parlare al co-pilota; di come quest’ultimo gli dia un pugno per farlo stare al suo posto; di come mia madre pianga insieme alla mia sorellina; di come tutto sembri andare al rallentatore.
Poi, accadde tutto molto in fretta. Le pale presero velocità, il veicolo cominciò ad alzarsi di quota, ad allontanarsi sempre di più, fino a diventare un puntino nel cielo.
Da quel momento in poi, ci sarei stata solo io. Ero... sola.

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Capitolo 3
*** 02 ***


02


Mi lasciai cadere a terra, mentre le ginocchia diventavano molli e il biglietto mi sfuggiva dalle dita, svolazzando via nella coda d’aria creata dall’elicottero. Lo vidi adagiarsi poco più in là, accanto alla sagoma di un pupazzo con un occhio solo: Paula doveva esserselo lasciato sfuggire nella foga di salire a bordo…
Cominciai a piangere, senza riuscire a fermarmi. Era come se la diga si fosse rotta, spazzata via dalla pressione di tutte le cose negative che erano successe nell’ultimo periodo.
Mi sembrò un’eternità, ma passò poco più di un minuto, prima che una sagoma scura entrasse nel mio campo visivo, offuscato dalle lacrime imperterrite.
Doveva trattarsi del ragazzo di poco prima, lo sconosciuto con il biglietto dorato. Aveva la pelle ambrata e i capelli crespi tagliati corti. Avevano lasciato a terra anche lui. Ora eravamo nella stessa barca. Sapere di non essere la sola in quella situazione, mi fece sentire leggermente meglio.
<< Hei! Dobbiamo andarcene di qua, prima che crolli tutto! >> gridò il ragazzo, guardandomi con un paio di occhi neri come la notte. Solo allora feci caso al ronzio assordante dell’edificio accanto che implodeva su se stesso, travolgendo sempre più il nostro.
Mi afferrò per le spalle, costringendomi a tornare alla realtà e ad alzarmi. Poi mi riprese per mano e mi trascinò giù per le scale, contrariamente a come aveva fatto prima. Sentivo la sua presa farsi sempre più stretta, darmi forza.
Scendevamo un piano dopo l’altro, sentendo le pareti sempre più vicine, sempre più intenzionate a inglobarci e a fermarci. Continuavo a sforzare le gambe, in attesa di vedere la luce naturale del sole, non certo quella artificiale che funzionava a intermittenza.
Sentivo che però non avrei retto oltre. A ogni gradino mi facevano sempre più male i muscoli. Ero certa che si sarebbero spezzati ed io sarei crollata giù, lungo il corrimano.
Invece arrivammo nell’atrio del palazzo, sani e salvi. Uscimmo in strada, affiancati dalla folla impaurita, che continuava a guardarsi indietro. Al contrario, io non riuscivo a far altro che fissare le spalle del ragazzo sotto la maglietta, l’aria intorno a noi, che diventava sempre più irrespirabile, lo sfondo del cielo, sempre più grigio e opaco a causa della polvere di gesso e calce.
Sapevo che anche il nostro edificio presto sarebbe scomparso in una nuvola di polvere, come il palazzone B.
La nostra corsa assennata terminò davanti a un supermercato abbandonato, anche lui coperto dalla polvere bianca che faceva sembrare innevata l’intera strada. L’atmosfera era quasi irreale. Sembrava che stesse nevicando.
Fu solo allora che potei riprendere fiato. Sentivo i polmoni bruciare e fui costretta a tossire un paio di volte, prima di sentirmi meglio. Intanto il ragazzo si stava guardando intorno, forse in cerca di qualcosa di specifico o semplicemente in preda alla confusione.
Intanto, oltre che a un battito quasi normale, riacquistai anche la facoltà di parlare.
<< G-grazie… per prima, intendo >> biascicai, guardandolo con sincera gratitudine. In un certo senso, aveva cercato di aiutarmi e poi mi aveva anche salvato la vita, portandomi giù da quella torre di vetro e acciaio, ormai spacciata.
<< Di niente >> rispose lui, guardandomi con attenzione, come se solo adesso si rendesse davvero conto di me.
O forse era solo una mia impressione… molto probabilmente avevo qualcosa che non andava. Beh, oltre al fatto che dovevo essere coperta di polvere da capo a piedi, sembrando ancora più pallida e malconcia.
Me ne diede la conferma, il mio riflesso nella vetrina oscurata. La coda si era smontata, lasciando libertà ai miei capelli di scompigliarsi. Mentre le lacrime di poco prima avevano creato dei disegni sulle mie guance.
In quel momento ripensai ai miei genitori e a Paula. Ora erano salvi, lontani da tutta quella distruzione e morte che lottava contro i vivi per sbranarli. Non li avrei più rivisti, ma saperli al sicuro era già qualcosa. Il principio della consapevolezza che non mi sarei dovuta arrendere, darmi per sconfitta ancora prima di combattere, divenne sempre più opprimente. Lo dovevo a loro, alla mia famiglia, che non avrebbe voluto vedermi in questo stato.
No, dovevo essere forte d’ora in poi. Così mi morsi un labbro e ricacciai indietro anche l’ultima lacrima fuggente e solitaria, cercando poi di togliermi tutto quel bianco dalla faccia, aiutandomi con le maniche della felpa.
<< Comunque io sono Allie >> dissi nuovamente, rompendo quel silenzio tra noi. Ormai non eravamo degli estranei, doveva ammetterlo. In qualche modo si era legato a me nel momento in cui aveva deciso di aiutarmi, di salvarmi.
<< Marcus >> rispose il ragazzo non più sconosciuto, facendo un lieve sorriso, che ricambiai.

Dopo quei convenevoli, però, dovevamo inventarci qualcosa per sopravvivere. Presto la città si sarebbe svuotata dei militari, che avrebbero lasciato la loro base principale per muoversi altrove, dove c’era più bisogno, oppure si sarebbero semplicemente diretti anche loro alle piatteformi. Ormai non c’era più speranza per questo pianeta. Si sarebbe riempito di Erranti, cancellando in modo definitivo la razza umana. Era un futuro orribile ma pressochè possibile. Non c’era bisogno d’illudersi. Forse saremmo riusciti a sopravvivere, ma dovevamo trovare altri come noi, disposti a combattere.
Non ci fu bisogno di parlare. Una scintilla nei suoi occhi mi fece capire che stavamo pensando alla stessa cosa. Dovevamo unirci a un gruppo. Ce n’erano abbastanza per una vasta scelta. Di solito si formavano tra chi non era riuscito a salvarsi grazie ai biglietti o che erano stati abbandonati, proprio come noi due.
Non restava altro che trovarli, al resto ci avremmo pensato dopo.
Fu così che ci incamminammo verso la periferia, lontana dai palazzi presi sotto custodia dal governo, alla larga dal disastro che presto avrebbe richiamato Erranti da ogni dove. Avevo sentito dire da uno dei soldati che potevano sentire il tuo battito da una distanza di cento metri, figuriamoci la distruzione di due palazzi.
Sporchi, stanchi e a piedi arrivammo nel quartiere di Brooklyn verso l’una di pomeriggio.
Le strade si erano sfollate piano piano. A ogni isolato potevi scorgere sempre meno persone. Segno che ci stavamo avvicinando al posto giusto. Infatti, i gruppi di ribelli erano soliti nascondersi, piuttosto che mostrarsi. Tra di loro c’erano ex-criminali e galeotti sfuggiti dalle prigioni, persone che non andavano d’accordo con la legge già prima del disastro e che poi erano diventate un punto di riferimento e di aiuto.
Grazie alla padronanza delle armi, al fiuto per le occasioni e alla conoscenza di ogni angolo più nascosto della città erano riusciti a sembrare “abbastanza capaci” da proteggere anche altre persone, che come loro odiavano il governo e la Fortuna che aveva girato loro le spalle. Si erano auto-eletti protettori delle persone sfortunate, insomma.
Forse avrebbero anche accolto me e Marcus, sempre che fossimo riusciti a non farci scoprire. Anche se alla fine non eravamo riusciti a raggiungere le piatteforme, beh, eravamo comunque stati scelti: non passavi di buon occhio, questo era certo.
Ora che ci pensavo, per tutto il tragitto avevamo parlato ben poco, per non dire “per niente”. Eravamo stati l’uno al fianco dell’altra, così attenti a ogni minimo rumore che ci eravamo dimenticati delle regole della conversazione civile. Avevamo stretto un patto silenzioso, ma davvero potevo fidarmi di lui? A una prima occhiata non sembrava pericoloso, ma non potevo certo basarmi solo sull’aspetto esteriore. Potevo solo intuire dalla sua maglietta – sportiva per via del numero e del nome di un liceo – che doveva aver fatto parte di una squadra, il che spiegava anche la sua capacità di correre più veloce di una persona comune. Poi nient’altro.
In pratica non sapevo niente di Marcus, né della sua storia, eppure inspiegabilmente sentivo che per il momento non mi avrebbe tradito, non mi avrebbe sacrificato per salvarsi la pelle da qualche Errante, non mi avrebbe lasciato da sola. Perché anche lui – me lo diceva l’istinto – doveva aver paura di restare solo, di rimanere l’unico. Ed era stato questo a dargli l’impulso di portarmi giù da quell’edificio in distruzione, senza pensare prima a se stesso.
O almeno lo sperai vivamente.

NDA. è un po' corto, ma spero che piaccia lo stesso!

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Capitolo 4
*** 03 ***


03


Nessuno dei due aveva fatto i conti con la propria ignoranza in materia di “trovare il capo di un gruppo di ribelli e parlarci”. Avevamo provato a suonare a più citofoni in diversi quartieri dei bassi fondi, ma nessuno aveva risposto. O le case erano state abbandonate oppure non eravamo chiaramente i benvenuti ai loro occhi.
Dovevamo ammettere entrambi che avevamo fatto un buco nell’acqua. Almeno per quel giorno.
Intanto, però, il pomeriggio stava cominciando a diventare sera. Presto il sole sarebbe tramontato e l’oscurità non avrebbe giocato a nostro favore. Gli Erranti potevano vedere bene al buio come gatti, Marcus ed io no.
Così ritornammo verso il supermercato abbandonato, dove c’eravamo fermati appena dopo il crollo. Erano ormai le cinque e non sapevamo dove andare. Così ci barricammo dentro l’edificio abbandonato. Non era un albergo, né una casa, ma per lo meno avevamo cibo a volontà.
Fu quella sera che scoprii una cosa in più su Marcus: gli piacevano i cibi ipercalorici per sportivi. Anzi, direi che ne era quasi drogato. Arraffò in fretta una decina di barrette al cioccolato super, giustificandosi che normalmente quella era una “semplice cena”. Avevo fatto centro: era chiaramente un giocatore di football!
Io invece mi accontentai di qualche carota e di un bel panino al prosciutto. In realtà avremmo anche potuto mangiare qualche surgelato, vista la presenza di un generatore di scorta, che aveva impedito che tutto il cibo andasse a male e di un microonde nella stanzetta degli impiegati, ma andava comunque bene così.
In quello che doveva essere l’ufficio del direttore, invece, scovammo di meglio: un bel divano.
<< Tranquilla, dormirò io sul pavimento >> esordì Marcus, non appena lo vidi. Non potei fare a meno di sorridere. Era anche gentile. Sì, avevo visto giusto: forse potevo fidarmi di lui. Non era poi così male come “compagno di avventura”.
Okay, forse stavo un po’ troppo prendendo sotto gamba la situazione, ma non potevo farne a meno. Fin da piccola, ogni volta che mi trovavo davanti a una difficoltà, affrontavo il tutto con un pizzico d’ironia e filosofia.
Sebbene dovessi ammettere che l’idea di dormire in uno stanzino non mi allettava granchè, soprattutto vista la presenza di una sola finestra – peraltro chiusa da grate e non più grande dello schermo di un computer – e di tante “possibili” entrate.
Marcus era stato a dir poco grande nel bloccarle tutte con ogni mezzo che poteva, ma restavano le vetrate. Chiunque, abbastanza assetato di sangue, avrebbe potuto romperle.
Fortunatamente trovammo anche una pistola, nascosta nel cassetto della scrivania. Il proprietario doveva essere stato un uomo particolarmente pauroso e paranoico per comprarla. A meno, che non risalisse a dopo lo scoppio del disastro. Allora aveva la mia piena approvazione!
Trovammo cuscini e coperte nel reparto arredamento, mentre alcune torcie e una tenda in quello delle “attività all’aria aperta”. Oltre alla pistola – che Marcus aveva saggiamente provato sulla porta del bagno e funzionava! – potevamo affidarci anche a una mazza da baseball e a diversi coltelli da chef. Io prenotai la mazza, l’unica arma con cui sarebbe stato difficile farmi del male, vista la mia sbadataggine.
Ci rinchiudemmo nell’ufficio del direttore, non appena il sole cominciò a tramontare. Marcus si attardò di qualche minuto per accertarsi che fuori fosse tutto okay, prima di girare la chiave due volte.
Mangiammo in rigoroso silenzio, senza che nessuno dei due alzasse gli occhi dal proprio “piatto”. Era chiaro che la tensione stava cominciando a farsi sentire, così decisi che era venuto il momento delle domande.
<< Allora… Marcus >> dissi io, dopo aver mandato giù un sorso di coca cola per darmi coraggio. Lui alzò lo sguardo, sentendosi chiamato in causa. << Da dove vieni? >>
<< Florida >> rispose, finendo l’ultima barretta e appoggiando entrambe le mani sulla moquette grigia. Ce ne stavamo seduti per terra come niente fosse, circondati da cibo spazzatura e bottiglie di gassata. Non aveva cercato di prendere nemmeno un alcolico, segno che non era uno sbandato. Oppure non aveva ancora toccato il fondo della disperazione. Beh, presto o tardi, l’avrei toccato io.
<< Maine… Football? >> chiesi, accennando alla sua maglietta.
<< Quasi. Rugby. Cheerleader? >> fece lui di rimando, sorridendo divertito alla vista delle mie gambe secche. Con un gesto veloce abbassai la gonna e mi coprii con la coperta, cercando di evitare di arrossire. Mi ero vestita veloce quella mattina, senza nemmeno farci caso, come se non avessi capito ancora che questa era la realtà e non un terribile incubo da cui mi sarei svegliata al mattino.
<< Naah. Atletica >> ridacchiai anch’io, un po’ meno nervosa di prima.
Da lì in poi l’interrogatorio fu abbandonato in favore di domande più “tranquille”, come quelle sui gusti in fatto di cibo o musica, fino a declassare del tutto in un dibattito molto acceso sull’importanza dei cartoni della Disney in età infantile. Io ero d’accordo, lui no, ma chiaramente perché era un ragazzo!
Tic, tac. Tic, tac.
Piano, piano le palpebre cominciarono a diventare sempre più pesanti, gli sbadigli più frequenti. Secondo le lancette dell’orologio appeso al muro dell’ufficio, erano circa le ventidue di sera. Cavolo, se il tempo era volato!
<< Forse è meglio che dormi. Farò io il primo turno di guardia >> disse Marcus, sorridendo e sistemandomi la coperta sulle spalle. Annuii, biascicando un “grazie”, prima di scivolare tranquilla tra le braccia di Morfeo.
Non mi preoccupai ulteriormente ed entrai nella fase rem ancor prima di rendermene conto, dove tutto divenne nero e ovattato.









NDA. Non ho ancora scelto chi potrebbero essere nella realtà Allie e Marcus. Nella mia testa me li sono immaginata fin nei minimi dettagli, ma non riesco ancora a trovare un attore o attrice che rispecchi tutto ciò. Vi lascio alcune piccole caratteristiche e il compito di scegliere voi chi potrebbe impersonarli in carne e ossa, che ne dite? (: Così magari la vostra attesa per il quarto capitolo sarà meno stressante ahah

Allie ha diciassette anni, ma i tratti ancora un po' paffutelli la fanno sembrare ingenua e debole, quando in realtà ha un carattere molto forte.
Non è la perfezione fatta persona, ma è comunque carina. I capelli sono castani e lunghi, mentre gli occhi azzurri/blu.
Marcus me lo ero immaginato con la pelle olivastra e i capelli corti scuri, mossi e un po' ribelli. Gli occhi neri e il fisico atletico.

Ora lascio tutto a voi! Alla prossima.

 

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Capitolo 5
*** 04 ***


04
 


L’oscurità che mi avvolgeva si diradò velocemente, così come la sensazione confortante di essere al sicuro. Presto il nero lasciò spazio al grigio, fino a una fastidiosa sfumatura di bianco acceso. Tutto intorno a me divenne così… luminoso. Troppo. Era come se avessero acceso tutte le luci di questo mondo e le avessero puntate su di me.
Mi alzai da terra, dov’ero rannicchiata in posizione fetale, e cominciai a guardarmi intorno. Le sagome che iniziavano a tracciarsi sempre più a ogni battito di ciglia erano degli alberi, dei cespugli… mi trovavo in un bosco, ma come c’ero finita?
Poi un rumore attirò la mia attenzione. Si trattava di un grattare sordo, come di unghie sulla lavagna. O di piccoli denti al lavoro. Poteva trattarsi di uno scoiattolo come di un coniglio. Eppure sembrava… diverso.
Dovevo vederci chiaro, così mi avvicinai alla fonte: un grande cespuglio di rovi e bacche rosse, come il sangue. Arrivata abbastanza vicina, notai una figura umana rannicchiata intorno a qualcosa.
Quando scostai le fronde scure per vedere meglio, mi trattenni a stento dall’urlare. Mi tappai la bocca con entrambe le mani e lasciai andare le foglie con calma, una alla volta, attenta a non farle frusciare tra di loro. O quella cosa, qualunque fosse il suo nome, mi avrebbe sentito.
L’essere aveva le sembianze di una bambina, ma i tratti del suo viso… i suoi occhi… non erano normali. La foga con la quale stava addentando la mano del cadavere non lo era. Il vestito giallo era macchiato di sangue e strappato alle estremità. Come se si fosse impigliato nella fuga… o nella caccia.
No, quella cosa non era umana.
Indietreggiai piano, un passo dopo l’altro, poi non ce la feci più e cominciai a correre. Con tutte le mie forze.
La scena era ancora impressa nella mia mente, ma non riuscivo a credere a quello che avevo appena visto. Forse avevo avuto le allucinazioni.
Rallentai, davanti alla certezza di quella possibilità. D’altronde mi ero svegliata sul prato. Questo poteva voler dire che ero svenuta… ecco, sì doveva essere andata proprio così. Per forza.
Alla fine mi fermai e mi guardai indietro. Non mi aveva seguito. Ero da sola, ora.
Poi il rumore di un ramo spezzato mi fece ricredere. Mi voltai lentamente e questa volta non ce la feci a trattenermi. Urlai con quanto fiato avevo in corpo, come se ne andasse della mia vita.
Perché davanti ai miei occhi si stavano radunando sempre più sagome insanguinate e zoppicanti: una donna con la mascella penzolante, un uomo con un grosso sguarcio nel petto che però ancora camminava. E avrei potuto continuare a guardare, se il panico non mi avesse fatto ritrovare il coraggio di scappare.
Corsi ancora e ancora. Non riuscivo a fare altro. Non potevo che fare quello. Perché mi stavano raggiungendo. Sentivo i loro passi alle mie spalle. I loro lamenti nell’eco della foresta. Presto mi avrebbero preso, avvinghiato con quelle loro dita sudice e marce, morso con foga fino alle ossa.
Mi avrebbero mangiato viva.
 
Aprii gli occhi di scatto, tornando alla realtà. Avevo ancora il fiatone e la sensazione delle loro mani su di me. Continuavo a ripetermi che era stato solo un sogno, un incubo, ma la pelle d’oca stentava comunque ad andarsene.
Sentii un fruscio nel buio e la mia mano corse alla mazza da baseball sotto il cuscino. Strinsi più forte il manico, saggiando la durezza del legno sotto le mie dita.
Poi scattai in avanti, pronta a colpire chiunque ci fosse, nascosto nel buio. Scesi dal divano in punta di piedi, ma inciampai nella figura rannicchiata sul pavimento. Cercai di urlare, mentre due grosse mani mi afferravano per le spalle, cercando d’immobilizarmi a terra. Nel frattempo mi era sfuggita di mano l’unica arma a mia disposizione.
<< Hei, hei. Allie. Sono io, ma che accidenti… >> biascicò una voce maschile, resa leggermente nasale dalla sorpresa. Lentamente aprii un occhio, poi l’altro, ormai consapevole di aver fatto una figuraccia. Quello che avevo davanti, infatti, era il viso assonnato e un po’ confuso di Marcus, non certo di un Errante affamato di carne umana.
Ops.
Presa com’ero dalla situazione, non mi accorsi di quanto vicini eravamo. Potevo chiaramente sentire il soffio del suo respiro sulle mie guancie, ma in quel momento non ci pensai poi molto. Tutta la mia attenzione era riservata alla ricerca di un modo per calmare i battiti del mio cuore, che minacciava di uscirmi dal petto. Ero quasi morta di paura e queste erano le conseguenze. Nemmeno lui, però, sembrò avere fretta di mettere fine a quell’impercettibile vicinanza. Le sue mani, d’altronde, erano ancora strette intorno alle mie braccia.
<< S-scusa. Ho sentito un rumore e… >> cercai di dire, arrossendo nell’oscurità della stanza. L’afflusso di sangue alle mie guance era un riflesso incontrollato e irreversibile da sempre. Ogni qual volta che mi trovavo in una situazione imbarazzante, la mia faccia assumeva un colorito rosso pomodoro – o semaforo secondo la luce. Più io cercavo di evitarlo e più l’effetto persisteva.
Marcus sembrò capire al volo cosa mi passasse per la testa, perché annuì e disse: << Brutto sogno, eh? >> Poi con movimenti cauti si tirò su, porgendomi la mano per aiutarmi. Nel frattempo mi ero appoggiata sui gomiti, ormai libera dal peso del suo corpo su di me. Ero vagamente dispiaciuta dalla perdita di quel contatto fisico, che in qualche modo era riuscito a rassicurarmi almeno un po’.
Asserii e fui sul punto di accettare il suo gesto di galanteria, quando un rumore secco eccheggiò fuori dalla porta. Entrambi ci bloccammò, drizzando le orecchie. Quel suono non presagiva nulla di buono.

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Capitolo 6
*** 05 ***


05 
 

Ogni più piccolo muscolo del mio corpo si contrasse, fino a bloccarsi.
Il cuore accellerò i battiti, reagendo alla paura, così come il mio stomaco, che si chiuse a doppia mandata, facendomi deglutire più di una volta.
Nella stanza cadde un silenzio irreale, tanto che ogni più piccolo suono si amplificò: come il tic-tac dell’orologio a muro o il suono della pioggia contro il vetro della finestrella. Finalmente si era messo a piovere, come avevo previsto quella mattina.
<< Non… muoverti… cerca… di non fare… alcun rumore… >> fu un sussurro, appena udibile, ma annuii. Marcus non mollò per un attimo la porta, mentre si muoveva a passi felpati sul pavimento della stanzetta. Sembrava quasi che le Nike ai suoi piedi, non esistessero.
Afferrò la mazza da baseball, la quale era rotolata sotto il divanetto durante il nostro “piccolo alterco”, pronta a usarla, e tornò al mio fianco.
Per un breve, piccolo istante, ci fissammo e vidi in Marcus quello che lui doveva vedere in me: ansia, preoccupazione, tensione. Nessuno dei due sapeva cosa aspettarsi.
Non passò molto, prima che i passi si facessero più vicini.
Non eravamo del tutto certi che fossero erranti, poiché non sentivamo strascicare le suole o i piedi nudi, ma era capitato spesso di sentire i commenti di persone nei vari rifugi che avevano incontrato morti abbastanza recenti da sembrare ancora vivi, tanto erano in “ottimo stato”.
Soprattutto io non riuscivo a pensare ad altro che a loro. Credevo poco all’ipotesi di Marcus che potessero essere altri come noi.
Poi, all’improvviso, la maniglia cominciò ad abbassarsi, come se qualcuno dall’esterno cercasse di aprire la porta. Marcus, però, l’aveva chiusa a chiave.
Guadagnammo qualche minuto prezioso, durante cui sperammo ancora in qualcosa, dopodichè anche la serratura non fu più una barriera tra noi e loro.
La porta prese a sobbalzare, come se qualcosa o qualcuno ci si lanciasse ripetutamente contro. Non avrebbe resistito a lungo.
Ci fu un terribile istante durante cui temetti davvero che fosse tutto finito. Che la porta si sarebbe aperta e gli zombi sarebbero entrati, avventandosi su di noi come bestie affamate. Come quelle del mio sogno.
Fu in quel preciso momento che mi morsi il labbro e trattenni le lacrime. Non potevo fare la femminuccia. Dovevo essere forte, dimostrare al ragazzo che mi stava accanto che poteva contare su di me. Sarei rimasta forte, fino alla fine
Ero così concentrata a fissare ogni più piccolo particolare della superficie di quella dannata porta… che non mi accorsi della mano di Marcus posata sulla mia, che stringeva forte un ombrello. Era l’unica cosa che ero riuscita a trovare nella stanza.
Mi strinse forte il dorso e quel gesto mi fece sorridere. Se non fossimo stati in quella situazione, molto probabilmente lo avrei anche abbracciato, ma ora non era il caso.
Ci sentivamo pronti a tutto, lo leggevo nel suo sguardo e lo sentivo dentro di me. Pronti a schiacciare qualche cranio, a distruggere qualche osso. A eliminare quelle cose. Ma ciò che avvenne qualche attimo dopo, beh, sconvolse entrambi.
 
La porta cedette e cadde a terra, facendo tremare il pavimento. La luce di una torcia ci investì. Non ero più abituata a una tale intensità… fui costretta ad alzare un braccio per ripararmi da tutta quella luce.
Fu in quel momento che afferrai la situazione per quella che era. Uno zombi non poteva aver bisogno di una torcia. Perciò dovevano essere…
<< Hei, Jack, qui ci sono solo due ragazzini! >> esclamò una voce femminile.
Strizzai gli occhi e mi stupii di trovare davanti a me una ragazza. Viva. Doveva avere qualche anno più di me… o forse era l’espressione nei suoi occhi a farmelo pensare. Guardava me e Marcus con una certa diffidenza e superiorità negli occhi azzurri.
I capelli biondi erano raccolti in una coda alta e disordinata. Le guance erano sporche di fuliggine e i vestiti strappati in alcune parti. Doveva anche lei essersi trovata nel bel mezzo dell’esplosione di quella mattina…
Da dietro le sue spalle fece capolino una figura alta e massiccia. Si trattava di un uomo sulla trentina, con le spalle larghe e i capelli corti e spettinati. Anche lui aveva il viso sporco di polvere.
Non fu, però, la sua stazza o la sua bellezza a colpirmi, bensì i suoi occhi. Avevano il colore di un prato dopo la pioggia e tradivano la stessa sorpresa della ragazza, sebbene in modo più lieve.
<< Allora abbassa quell’arma, Tessa >> disse lo sconosciuto con un cenno della mano. Aveva la voce bassa e roca. Per tutta risposta, la ragazza abbassò il fucile con una smorfia. << Siete stati morsi? Anche solo graffiati… >> chiese lo sconosciuto.
Marcus ed io facemmo cenno di no, ancora troppo scossi e increduli per aprire bocca.
<< Bene, ne sono contento >> l’uomo sorrise, realmente sincero. Evidentemente gli avrebbe dato fastidio ucciderci. << Comunque io sono Jack e questa è Tessa >> continuò lui, facendo cenno verso se stesso e la ragazza. Tessa sorrise in modo falso, allargando un angolo della bocca verso l’alto, quasi una smorfia più che altro.
Marcus si presentò e poi feci lo stesso io, balbettando non poco il mio nome. Mi morsi un labbro, temendo di apparire debole agli occhi di quei due sconosciuti.
Per tutta risposta, Jack mi sorrise, mentre Tessa, beh, sbuffò spazientita. Avevo già afferrato il tipo.
 
Quando seguimmo Jack e Tessa fuori dello stanzino, ci accorgemmo che non erano soli. Altre figure si muovevano nella semioscurità dei reparti del supermercato. Sembravano fare incetta di tutto ciò che potevano, infilando ciò che trovavano in grosse borse.
<< Provviste… prendiamo tutto ciò che possiamo quando è ancora buono >> spiegò Jack, raggiungendo un uomo leggermente più basso di lui e tarchiato. Sembrava sulla cinquantina. Aveva i capelli brizzolati e il naso leggermente storto, forse rotto. Si girò a guardarci e capii che Jack gli stava parlando di noi. Per tutta risposta, il vecchio annuì e si allontanò verso la parafarmacia. Forse era un medico oppure s’intendeva e basta di farmaci.
Mi voltai a guardare Marcus e lui mi sorrise, afferrandomi forte la mano e stringendomela. Se lui si fidava, allora dovevo farlo anch’io.



NOTA: volevo ringraziare tutti coloro che seguono la storia e anche scusarmi per aver tardato così tanto a postare!!!

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