Almond 312

di Ely79
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dalle 8:21 alle 9:34 ***
Capitolo 2: *** Dalle 9:34 alle 10:49 ***
Capitolo 3: *** Dalle 10:49 alle 11:55 ***
Capitolo 4: *** Dalle 11:55 alle 12:38 ***
Capitolo 5: *** Dalle 13:49 alle 14:21 ***
Capitolo 6: *** Dalle 12:38 alle 13:49 ***



Capitolo 1
*** Dalle 8:21 alle 9:34 ***


Dalle 8:21 alle 9:34
Questa storia si è classificata prima al contest "In sei ore" indetto da (Vienne), i cui risultati verranno pubblicati al termine della fic. Partecipa inoltre all' "Ipse Dixit - Quote Challenge" indetto da Fabi_Fabi.

NICK AUTORE:
ely79
TITOLO: Almond 312
GENERE: Commedia, introspettivo
RATING: Giallo
AVVERTIMENTI: Nessuno
RIASSUNTO: Due stranieri rompiscatole, una donna ingegnere, due gatti meccanici, una airship da corsa guasta. E il tempo che scorre inesorabile nella campagna.
NOTE DELL’AUTORE: l’ambientazione della storia è steampunk, anche se un po’ anomala perché ci troviamo nel Nord Italia e non nel classico contesto vittoriano.


DALLE 8:21 ALLE 9:34

Zeppelin Van Hoefer “Paloma”,
Saletta ingresso

La lancetta scattò sul ventuno quando la donna si affacciò all’oblò, scrutando l’ombra sul prato. Getti d’aria piovevano dalle gondole motore anteriori, pettinando il prato. Visto dall’alto, il paesaggio somigliava a quello del Connecticut: erba verde, filari di alberi, qualche casa, stradine sottili che serpeggiavano senza direzione, un fiume stretto da argini di mattoni. Ciò che, a suo giudizio, rappresentava la quintessenza del nulla.
Sedette sul divanetto di seta damascata crema e bordeaux, allacciando la cintura di sicurezza. Mentre il dirigibile calava lento verso terra, prese a sistemare l’abito. La gonna a vita alta le fasciava i fianchi e non era esattamente comoda per starsene legata a quella maniera; la tornure1 peggiorava le cose, ma avrebbe resistito: si trattava al massimo di un paio di minuti di supplizio. Prese a tormentare con le dita i riccioli biondi, osservando il riverbero delle guarnizioni dorate dello stivaletto sinistro, che dondolavano al ritmo degli ultimi scossoni del gigantesco mezzo di trasporto.
Un breve scampanellio dagli altoparlanti l’avvisò che la discesa era ultimata: mancavano meno di sette piedi a terra. Il tintinnio metallico della scaletta venne attutito dall’erba.
Un panciuto valletto prese ad armeggiare con le chiusure del portello. Ad ogni giro di manovella, sottolineato dall’oscillare delle code della giacca, due gruppi di barre arretravano verso l’interno dell’anta.
«Ci siamo!» esclamò una voce alle sue spalle.
Algernoon Banks giocherellava con un dischetto colorato e un’espressione allegramente compiaciuta dipinta sul volto abbronzato. Era un trentaquattrenne precocemente invecchiato, come testimoniavano le ampie pennellate argentee fra i capelli bruni e impomatati, ma i suoi modi accattivanti e talvolta sopra le righe rimediavano all’illusione.
«Siamo dove? Non c’è niente!» obbiettò, indicando fuori.
La campagna circostante non possedeva particolari attrattive. Era solo piatta campagna contadina, null’altro.
«Ho chiesto di fermarci un po’ prima della nostra meta» spiegò l’uomo con un largo sorriso, indicando un punto in lontananza. «Sai, amo le sorprese».
Così dicendo, raccolse il cilindro dalle mani dell’inserviente e se lo sistemò con attenzione sul capo, in modo che gli eleganti e vistosissimi ornamenti bronzati fossero in favore di chi l’osservava.
«Passate una buona giornata, padrone» salutò il valletto, inchinandosi appena.
«Grazie, Paul. Vedete d’essere puntuali. Abbiamo una tabella di marcia molto più che serrata».
«Ovvio, signore. Non tarderemo, ma mi premurerò di rammentarlo al Commodoro Edwards. Buona giornata, Miss Nora» ossequiò, esibendosi in un elegante baciamano all’ospite.
«A dopo, guanciotte belle!» trillò la donna, facendogli un buffetto che lo lasciò imbarazzato alla sommità della scaletta.
Nora era incapace di resistere alla paffuta rotondità di quel volto, che tanto contrastava con l’espressione seria e compita che mostrava abitualmente.
Alcuni uomini stavano calando un veicolo dalla parte posteriore dell’aeronave, lungo una passerella decisamente più stabile di quella da cui erano scesi. Lei seguì le operazioni aggiustando l’attillata giacchetta color topazio mentre Algernoon controllava spasmodicamente l’orologio da taschino.
«Qualcosa non va?» chiese.
«Le nove in punto» brontolò,  battendo nervosamente il piede a terra.
«Sì?» insisté, facendogli segno di spiegarsi.
«Sì un accidente, mia cara. Siamo tremendamente in ritardo!» sbottò stizzito. «Conviene che ti metta qualcosa sui capelli o sembrerai una pazza quando arriveremo, perché dovremo correre» e le strizzò l’occhio.
Nora roteò gli occhi, verdi come i campi intorno. Per lei la velocità non era una cosa nuova. A maggior ragione da quando l’aveva conosciuto: il mondo era una girandola di luoghi, luci, nomi e colori degna dei quadri che si vendevano a Montmartre.
«A bordo!» esclamò Algernoon, balzando sulla berlina.
Era un modello molto recente, come testimoniava la lucentezza perlacea della carrozzeria, incrostata di decori scintillanti. Uno degli uomini si portò nella parte posteriore e prese ad armeggiare con il motore, smuovendo i contenitori dell’acqua e del combustibile. Con un sospiro roco, il primo sbuffo di vapore confermò l’avviamento. Poco a poco i giri crebbero, come il grigiore del fumo dai tubi di scappamento.
«Al, forse dovrei…» tentò di dire, immediatamente zittita.
«Vieni» insisté bonario, pigiando un pulsante che aprì la portiera dal lato del passeggero. «Prometto di non correre troppo».
Nora prese posto e con uno sbuffo sibilante l’automobile imboccò la strada larga e polverosa che costeggiava il fiume. Al le fece da cicerone, spiegandole che si trattava di un canale artificiale conosciuto come “Naviglio”, la strada veniva detta “Alzaia” e le coltivazioni intorno erano le rinomate risaie del pavese.
«Credi sia una buona idea?» domandò ad un tratto lei, scostando i boccoli dalle labbra.
«Fare questa strada, mia cara? Ahimé, è l’unica che possa condurci là entro mezz’ora».
«Intendevo quella di accompagnarti. Insomma, sai che preferisco non…»
Banks sollevò la mano, senza guardarla.
«Le piacerai» la rassicurò.
«Da come l’hai descritta è il mio esatto opposto».
«Tranquilla, non può detestarti più del sottoscritto. Nessuno mi batte nelle sue antipatie».

Cascina dell’Acqua2,
Primo piano, camera da letto

Sentì qualcosa camminarle addosso, ma scelse d’ignorarla.
«Alzare» scandì una voce metallica.
Da sotto le lenzuola provenne un mugugno indecifrabile, cui rispose un leggero stridio metallico.
«Alzare» ripeté la voce, atona.
«Flapper3, per carità» piagnucolò qualcuno rivoltandosi nel letto.
«Ora. Alzare» insisté con l’identico tono pacato, artigliando le lenzuola e cercando di scostarle.
«Ho sonno» protestò una mano, che trascinò in avanti creatura e stoffa. «Sono stata sveglia fino alle due, per poi alzarmi alle cinque e tornare qui alle sette e mezza passate. Ho il diritto di dormire finché mi va!»
Per qualche minuto tornò a regnare il silenzio, ma si trattava di una tregua strategica. Allo scoccare dell’ora, il richiamo riprese.
«Alzare. Alzare».
Reprimendo un urlo e un calcio – che avrebbe mandato l’intrusa all’altro capo della stanza -, l’ormai ex-dormiente sporse il capo oltre le lenzuola, strizzando gli occhi grigi sull’ammasso di metallo che era la gatta meccanica.
«Che ore sono?» chiese, passando una mano fra i corti capelli castani.
L’occhio sinistro dell’automa ruotò lentamente su un perno, rivelando la faccia posteriore munita d’orologio. Le nove erano passate da due minuti, un orario indecente.
«Va bene, maledizione. Sono sveglia» sospirò mettendosi lentamente a sedere.
Prese un paio di profondi respiri e si alzò, reggendosi alla pediera in ferro battuto. Racimolò il vestiario da vari punti della stanza, ribadendo a sé stessa che doveva essere veramente molto stanca per aver combinato quel macello, lei, sempre al limite dell’ossessivo riguardo all’ordine.
«Dov’è Nove4?» domandò, accorgendosi dell’assenza del compare della gatta.
«Su. Schiena» spiegò sinteticamente quella.
«Più precisamente?»
«Corridoio. Bagno».
La padrona continuò a vestirsi con calma, meditando sulle informazioni appena ricevute.
«Cos’ha rotto questa volta? Il giroscopio?»
«Tubo. Pressione. Arto. Posteriore. Sinistro. E. Snodo. Bacino» elencò.
«Scommetto che ha tentato di nuovo di saltare dalla mensola del bagno».
«Esatto» confermò.
Scosse il capo, spazientita. Nove era stato il suo secondo tentativo di realizzare un gatto meccanico, ma a differenza di Flapper, era riuscito con quello che pareva essere un deplorevole eccesso di personalità. Ammesso e non concesso, che un automa potesse possedere una personalità. A volte le pareva persino di notare un che di perfido nella voce della gatta, ma non poteva essere. Gli automi non avevano sentimenti o reazioni equivalenti. O, per lo meno, nessun tecnico ne aveva mai riscontrati.
Trovarono Nove con le zampe anteriori ripiegate sul muso, dando l’impressione che stesse pensando.
«Sai di essere un imbecille, vero?»
La testa tonda ruotò un poco e un grosso diaframma la mise a fuoco.
«Prova. Interessante. Non. Mi. Hai. Fatto. Per. Volare. Ora. É. Certo».
«E dovevi provare per la terza volta? Non erano bastate le precedenti?»
«Dovevo. Verificare. Tutte. Le. Variabili» rispose il gatto.
La donna lo raccolse senza troppe attenzioni, rivoltandolo per valutare l’entità del danno. A volte si domandava se quelle risposte fossero il frutto di troppi ingranaggi cerebrali o di un settaggio andato male nelle schede perforate all’interno di quella zucca di latta.
«Nove, prima o poi ti smonto. Sempre che tu non lo faccia da te» minacciò.
«Ti. Servo» ribatté, stringendo le lamelle dell’unico, grande occhio.
«Questo è da vedere. Adesso andresti bene come fermacarte».
Con Nove sottobraccio e Flapper alle calcagna, la donna imboccò le scale, reggendosi al corrimano. I gradini sbucavano in un soggiorno rustico, che attraversò per raggiungere la cucina.
Sul tavolo erano disposte in bell’ordine le stoviglie per la sua colazione, mentre sull’acquaio sgocciolavano quelle lavate meno di due ore prima. Agganciò Nove ad un piccolo congegno sul piano di lavoro e ruotò la ghiera per aprire il flusso di vapore. In quelle condizioni la perdita d’energia del sistema era rapidissima. Controllò l’ora: erano quasi le nove e mezza, sarebbero occorse circa due ore per riequilibrare i sistemi di Nove, prima di procedere alla riparazione.
Lasciò i gatti a conversare e sedette a tavola, cominciando a spalmare uno spesso strato di marmellata su una fetta di pane.
«Bussare» miagolò Flapper.
La padrona la guardò di traverso, continuando a masticare con calma la colazione.
«Bussare» ripeté.
«Chi è?»
La gatta infilò la zampa in una presa accanto al congegno di ricarica. I diaframmi oculari si mossero alcune volte, prima di emettere il verdetto:
«Banks» scandì.
«Banks?!» tossì, strabuzzando gli occhi.
Barcollando in preda ai capogiri, percorse a ritroso i propri passi e raggiunse l’ingresso. La gatta la inseguiva, ricordandole di appoggiarsi da qualche parte e smise solo quando si aggrappò di peso alla maniglia. Aprì la porta di slancio, trovandosi di fronte un figuro in abiti da passeggio.
«Salve, Prudenza, amica mia! Dormito bene?» salutò lui sollevando il cilindro, incurante del rapido mutare dell’espressione della donna.
«Che fai qui?» sibilò irritata.
«Non indovini?» la stuzzicò. «E, se tu potessi usarmi la cortesia di parlare inglese… la mia amica non capisce l’italiano come me. Sai, è una coloniale».
«Fatti suoi» sbottò Prudenza, scrutandola con la coda dell’occhio.
Per un attimo fu tentata d’osservarla meglio: una striscia giallo-verde sullo sfondo impolverato del nuovo giocattolo di Banks. Avvolta dall’imbarazzante bicromia, l’americana somigliava ad un incrocio tra un canarino ed un frutto acerbo.



1 Tornure: sellino di crine rigido, che sosteneva la parte posteriore della gonna.
2 Cascina dell’Acqua esiste realmente, ma non è circondata da risaie né è sulla sponda del Naviglio.
3 Flapper: in inglese “valvola a farfalla”
4 Nove: valore della Scala Mohs, indice di durezza dei materiali, pari al corindone. Oltre c’è solo il diamante.

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Capitolo 2
*** Dalle 9:34 alle 10:49 ***


Dalle 9:34 alle 10:49
DALLE 9:34 ALLE 10:49

Cascina dell’Acqua
Ingresso

«Andiamo, Prue. Ho guidato come un pazzo sull’Alzaia per…» ed estrasse l’orologio dalla tasca per l’ennesima volta. «Per trentadue minuti e quarant… cinquanta secondi, per arrivare qui. Sai quante buche e sassi ci sono su quella strada, ho rischiato di rovinare la mia macchina nuova! Hai idea di quanto costi la vernice “White Luxury”? Un’esagerazione! Almeno invitami ad entrare» suggerì conciliante, appoggiandosi allo stipite.
Lei lo imitò a braccia conserte su quello opposto, evitando di replicare sulla scelta della vernice.
«Quindi starà fuori a far la guardia alla tua carretta?» replicò asciutta, indicando col capo l’altra.
Algernoon sembrò ricordarsi solo in quel momento di Nora e le andò incontro, spolverandosi le uose1. Prese sottobraccio il curioso incrocio e lo condusse fin sotto al porticato.
«Lei entra con noi» dichiarò allegro, mentre la catenina dell’orologio ancora tintinnava.
«Pareva l’avessi esclusa» rispose Prudenza, cinica.
Sapeva quanto il suo committente detestasse che gli si facessero notare quelle mancanze.
«Nora, Prudenza Baldovini. Prue, lei è Nora» declamò.
«Salve, Prudence» cinguettò l’americana, sfoderando un gran sorriso sulle labbra rosse e lucide dove un moscerino agonizzava dopo la corsa in auto.
«Prudenza, non Prudence. Non sopporta che le storpino il nome» suggerì Al a denti stretti.
«Non è uguale?»
La donna fece una smorfia di disappunto, girò sui tacchi e si allontanò dalla porta, appoggiandosi ai mobili. Camminava in maniera molto buffa e Nora non poté non notarlo. Sembrava ubriaca, ma non emanava odore di alcool.
«Sempre spiritosa, eh? Prudenza Baldovini, la regina di tutti…» cantilenò Banks, interrompendosi bruscamente per l’occhiata velenosa ricevuta. «Gli ingegneri. Cosa credevi?»
«Sei talmente infantile che da te non aspetto nulla da anni» replicò, lasciandosi cadere su una poltrona. «T’avviso che qui non c’è posto né per te, né per la Miss».
Aveva parlato con una mano premuta sugli occhi, quasi fosse infastidita dalla loro presenza.
«In che senso?» domandò lui, prendendo posto su un poggiapiedi.
«No. Spazio. Per. Dormire» spiegò Flapper, balzando sulle ginocchia della padrona.
Algernoon fissò la gatta, indeciso se rispondere a lei o a Prue.
«Perché dovrei dormire qui, quando ho una meravigliosa aeronave ad aspettarmi?»
«Allora fa’ retromarcia e torna domani, come stabilito» ribatté Prue, accompagnandosi con un cenno della mano.
«Dolente, ma è impossibile» sospirò melodrammatico, rigirando il cilindro fra le mani. «Il Servizio Meteorologico del Nord Atlantico ha annunciato forti perturbazioni lungo le coste europee da domani pomeriggio. Devo assolutamente partire entro stamane per essere a New York fra tre giorni».
«Cosa ti trattiene?» lo punzecchiò.
«L’Almond, ovviamente».
Lei scosse il capo risoluta.
«Non è pronto».
Il volto di Algernoon, da scherzoso e ammiccante mutò in una maschera di orrendo disappunto.
«Sei sempre in anticipo e oggi che mi serve partire prima, no?!» ruggì sbracciandosi.
Nora faticava a capire quell’isteria improvvisa. Sembrava la stesse accusando d’averlo fatto di proposito; il che non era possibile, dato che nessuno si era preso la briga di modificare i tempi di consegna.
La Baldovini sbuffò e indicò il divanetto sul lato opposto della poltrona.
«Dicevo,» bofonchiò lui, spostandosi alla sua destra, «sei sempre in anticipo sulle consegne. Come puoi non esserlo oggi? Non puoi farmi questo! Hai promesso che ce l’avresti fatta! Io lo so che tu hai finito! Perché non vuoi darmi il mio Almond?»
Più parlava e più Nora lo trovava somigliante ad un bambino capriccioso.
«Noon, non dipende da me. Il problema è la Siorpaes» spiegò laconica.
La fronte abbronzata di Al si riempì di rughe.
«La Siorpaes? Che centra la Siorpaes?»
Il nome della maggiore ditta austroungarica in campo metalmeccanico, associata al termine “problema”, era allarmante. Prudenza intuì la sua perplessità e s’affrettò a chiarire la situazione.
«Il piattello di chiusura dell’alternatore era spaccato e il calore andava a surriscaldare i cavi che gli passano accanto, causando il corto circuito che ha fermato l’aeronave. Ho dovuto ordinarne un altro, ma non lo consegneranno prima di domattina».
Un guasto banale, annoverabile tra i problemi di routine su una qualunque airship da corsa. Eppure, quell’insulso contrattempo gli era costato il secondo posto al Gran Premio di Parigi e ottantamila sterline. Non avrebbe buttato altro denaro, per questo era ricorso a Prue.
«Tu chiamali! Sollecitali! Digli che è per me, Algernoon Banks! Per la scuderia Royal Lion di Londra, la preferita di Sua Maestà! » strillò, premendosi le mani sul petto.
«Già fatto. Ci sentono quanto me da quest’orecchio» sogghignò indicandosi il destro.
«Ma tu devi trovare una soluzione! Non ti ho dato l’airship perché ti facessi rallentare dagli Arciduchi! Devi trovare una soluzione! Fa’ qualcosa, Prue!»
«Posso terminare le regolazioni del motore. E chiamerò ancora, se ti fa passare la rogna» mormorò, alzandosi con molta calma.
Era abituata ai suoi ridicoli teatrini: erano cresciuti insieme, accettarli era praticamente obbligatorio se si volveva evitare d’impazzire.
Squadrò Nora, che dopo essere rimasta accanto alla porta per un po’, aveva cominciato a muoversi, arrogandosi libertà che lei non avrebbe mai concesso, tipo quella di aprire le vetrinette o prendere soprammobili dalle mensole.
«Sta qui e non fare danni. Vale anche per lei Miss, chiaro?» sottolineò, imboccando la scala.

Cascina dell’Acqua
Soggiorno

Prudenza era scesa verso le dieci, indossando un’orribile divisa da lavoro, chiazzata d’olio e scolorita in più punti. Camminava senza difficoltà, grazie a dei sostegni nascosti nella tuta. Se ne indovinava la presenza per via del tenue cigolio che accompagnava i movimenti e i soffi regolari che provenivano da un qualche sistema di stabilizzazione.
Non si era trattenuta con loro: era sparita nell’officina e trascorsi pochi minuti, ecco che nell’aria aveva cominciato a spandersi il brontolio di una caldaia e il fischiettare delle valvole di sicurezza.
Nora si aggirava nel soggiorno, ficcanasando ovunque. L’avvertimento di Prue non l’aveva minimamente impensierita: tanto era avvezza a quei divieti quanto a dimenticarli nel giro di un secondo.
L’arredo era molto simile a quello delle dimore nel Connecticut: semplice, pratico, caldo ed accogliente, privo dei fronzoli in voga nelle capitali. Qua e là erano sparsi pezzi d’ingranaggi, vecchi giornali e lavori all’uncinetto interrotti.
«Che problema ha la tua amica?» chiese, curva quel tanto che le consentivano le stecche del corsetto.
«A parte me, nessuno» sospirò Al, tamburellando col dischetto sulle labbra.
«Ha detto che non sente. E cammina male» puntualizzò, ancheggiando sgraziata per imitarla.
«Oh, quello. Sì, in effetti è sorda dall’orecchio destro» ammise tranquillo, poggiando la testa sul bordo in legno del divano.
«Perché ti ha detto di metterti di lì, se non ci sente?» insisté, aggiustando le rouches della camicetta.
«I rumori forti le danno fastidio dall’altro orecchio. Strascichi dell’incidente» tagliò corto, allungando la mano verso un quotidiano che aveva l’aria d’essere ancora fresco di stampa.
«E cosa centra col camminare male?» continuò incuriosita, ammirando il mescolarsi di luci e ombre sulla stoffa ondulata color crema pallido.
Al spiegò le pagine, cercando la sezione economica.
«Ha il senso dell’equilibrio dimezzato, Nora. Senza non ci si regge perfettamente in piedi. Dovresti saperlo» alluse, indicando i suoi tacchi vertiginosi mentre fingeva di leggere. «Di solito non le dà molti problemi, usa i supporti solo quando lavora, per evitare cadute inopportune».
La donna lo ripagò con una linguaccia e riprese a vagabondare, lanciando occhiate alle altre stanze che si aprivano intorno.
«Chi sono? Le somigliano» domandò ad un tratto, indicando la parete dov’erano appese delle fotografie.
Tra le immagini color seppia, una ritraeva Prudenza abbracciata a due uomini. Questi vestivano con tute da lavoro, ben guarnite di protezioni, tasche e lacci portautensili, lei invece indossava un abito modesto, anche se decisamente femminile.
«Vincenzo e Giovanni, fratello maggiore e minore di Prue» fece Al, sbottonando il gilet. «Non sono dei nostri da cinque anni, ormai. Più o meno da quando è stata scattata. Un vero peccato. Da ragazzini ci divertivamo come matti nel canale qui dietro».
«Vuoi dire che quando…» e si indicò l’orecchio.
«Cosa?»
«L’incidente che l’ha resa sorda».
«L’inc… oh, no! No, no, no. Non ha nulla che vedere con loro» spiegò.
«E cos’è successo?»
«Sono stati assunti come tecnici geotermici dalla Regia Società per l’Energia di Sua Altezza Re Lodovico di Savoia. Vengono sballottati qua e là per le colonie a costruire e revisionare impianti. Credo siano in Tunisia. O in Guinea2. Magari a Torino. Insomma, sono da qualche parte».
«Vuoi dire che sono… vivi?!»
«Certamente. Perché?»
Nora rimase a bocca aperta per qualche istante, prima di scrollare i riccioli e riprendere l’indagine sui Baldovini.
«E lui?»
Algernoon sorrise con grande affetto alla fotografia di un bambino dai capelli scuri ed arruffati, la faccia da simpatico monello. Indossava pantaloni corti tenuti su da una coppia di bretelle e una camicia a maniche corte. Correva ridendo, trascinando in aria il modellino di una airship mercantile. Gliel’aveva regalata lui.
«È Nereo, il figlio di Prue. Ha undici anni».
«Figlio? Vuoi dire che è sposata?» esclamò Nora, spalancando gli occhi per la sorpresa.
Faticava a credere che una persona tanto scontrosa avesse trovato non solo chi la sopportasse, ma la sposasse e con cui avesse persino avuto un figlio.
«Sì» confermò accigliandosi.
«Non sembra che la cosa ti entusiasmi» commentò maligna.
«Diciamo che tra me e suo marito non corre buon sangue» rispose, puntando dritto alla cucina.
Mancavano circa dieci minuti alle undici ed un fastidioso languore aveva cominciato a tormentarlo. La madre di Prudenza aveva una dispensa fornita di ogni ben di dio, avrebbe sicuramente scovato uno spuntino di suo gusto.
«Nemmeno con lei, mi pare» rimarcò Nora accodandosi.
«Prue dice d’avere buoni motivi per detestarmi. Sebastiano mi odia e basta».
«Che motivi avrebbe Prudence? Insomma, hai detto che vi conoscete da una vita. Se ti odiasse sul serio, non accetterebbe di lavorare per te».
«Domandaglielo, se proprio ci tieni. A me basta che faccia ciò che chiedo, il più in fretta possibile» piagnucolò esasperato, adocchiando il pane e marmellata abbandonato sul tavolo. 


1 Uose: ghette basse
2 Colonie del Regno di Savoia



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Capitolo 3
*** Dalle 10:49 alle 11:55 ***


Dalle 10:49 alle 11:55
Con il week-end alle porte, ho deciso di anticipare il nuovo capitolo ad oggi.
Chissà che domenica sera, per la pubblucazione del quarto capitolo, non trovi un lungo elenco di commenti da parte di chi legge!


DALLE 10:49 ALLE 11:55


Cascina dell’acqua
Cucina

Nove taceva. Agganciato al congegno di ricarica, studiava i due venuti modificando l’apertura del diaframma per carpirne i dettagli e seguirne i movimenti. Sembrava non l’avessero neppure notato durante gli svariati minuti di razzia, ma lui aveva elaborato ogni dato utile, al fine di impiegare l’idioma corretto per la comunicazione.
«Buon. Giorno. Signorina» salutò, appena Nora gli fu davanti.
«Al, l’hai sentito?» strillò Nora, estasiata.
Banks si limitò ad annuire, la bocca già piena di leccornie contadine.
«Ehi, salve piccolo. Tu chi sei?» domandò, sfiorando il bordo del grosso otturatore.
«Nove» rispose facendo scorrere rapidamente le lamelle interne.
«Nove?»
L’automa annuì e agitò le orecchie metalliche.
«Parli molto meglio di quell’altro gatto» osservò.
«Flapper. Ha. Un. Sistema. Vocale. Meno. Sofisticato. Del. Mio» spiegò.
«Si sente! E sei anche molto più carino: sembri quasi un gatto vero» esclamò, disconnettendo lo spinotto e sollevandolo. «Cos’hai?» chiese, vedendo le sue zampe ciondolare.
«Un. Guasto. Al. Sistema. Primario. Di. Deambulazione» scandì, dopo un rapido controllo.
«Tranquillo, ti porto a spasso io!» e, stringendoselo al petto, imboccò la scala, diretta al piano superiore.
«Nora, vacci piano con quell’affare. È un automa!» l’ammonì Algernoon, con la bocca piena.
I passi scomparvero e lui riprese a saccheggiare impunemente la dispensa. Passò un po’ di tempo, prima che una porta si aprisse alle sue spalle e comparisse Prudenza.
«Niente da fare, la Siorpaes si rammarica ma per il piattello non può far nulla. L’hanno caricato su un treno ieri sera e non c’è modo di…» esordì, ammutolendo dinnanzi all’indecoroso spettacolo dell’ospite che s’ingozzava come un disperato.
La giacca abbandonata malamente su una sedia, il cappello in bilico sulla maniglia di un pensile e lui, curvo sul tavolo, circondato da scorte dolci e salate, panini, frutta, filtri di tè, biscotti, bottiglie di vino e latte. Oltre ad una marea di posate, arnesi da cucina e stoviglie variamente imbrattati. Unica compagnia, l’orologio da taschino appoggiato su una pagnotta.
«Ho fame» abbozzò Banks, innocente.
La donna non ebbe tempo d’esprimergli il proprio disgusto a caratteri cubitali.
«Al! Al, vieni, presto!» strepitò Nora dal piano di sopra.
La raggiunsero di corsa, temendo che, a forza di ficcanasare, avesse finito col farsi male. La trovarono che saltellava in una camera da letto, incurante delle proteste di Nove, i cui posteriori sbatacchiavano sulla gonna in tartan giallo-verde.
«Guarda!» gridò, indicando un grande cartellone attaccato alla parete.
Ritraeva Nicholas Name, il miglior pilota di airship in circolazione. L’uomo stava appoggiato alla sua EmeraldSun, la cuffia da volo ben calzata sul capo, gli occhiali scuri a sovrastare la sciarpa color senape. Pur non mostrando il volto, la sua figura emanava un senso di forza, pazzia e abilità che aveva dell’eroico. Chiunque conosceva le sue imprese, come il sorpasso all’ultima curva su Jannik Qvist durante la Coppa del Nord, con un motore danneggiato dal ghiaccio.
«Vedo» sospirò Algernoon, addentando una mela.
«Di chi è?» chiese agitatissima.
«Di mio figlio, è la sua stanza. È un suo grandissimo tifoso» fece Prue, ignorando l’espressione trionfante di Banks.
«Io… non pensavo di… non credevo… Nick ha sostenitori anche qui!»
«Per chi diamine ci hai preso, Miss? Sappiamo riconoscere un campione quando ne vediamo uno» sbottò Prue, tornando in cucina. «E per inciso, avevo chiesto di non fare danni!» sbraitò appena furono tutti di sotto.
«Andiamo, Prue, quante storie per un po’ di marmellata» ciancicò Algernoon, estraendo il cucchiaio dal barattolo, col risultato di far precipitare un’enorme goccia di composta sul tavolo.
«Per quanto mi riguarda puoi mangiartela tutta. È di lei che parlo» sibilò additando Nora. «Nove doveva rimanere in carica fino alle undici e mezza. Ora mancano venti minuti, il che mi dice che è staccato da molto più tempo».
«Non credevo fosse un problema. Funzionava, rispondeva» si giustificò lei.
Prudenza perse le staffe.
«Funzionava?! Con una zampa e il bacino rotti? Questo per te significa funzionare? Sei cieca quanto Name quando apre l’aria in curva e manda in stallo la pompa di raffreddamento! Chi ti ha dato il permesso di staccarlo?» urlò.
«Nessuno» confessò a mezza voce. «Ma Nove è così carino! Non potevo lasciarlo attaccato a quell’affare!»
«Nove è carino» ripeté, disarmata dalla scusante.
«Sì».
«Carino quanto Name?»
«Ecco… lui è… diverso. Non li si può paragonare» rispose impacciata, cercando Al con lo sguardo.
«Sante parole» convenne lui, tornando a sbocconcellare pane e sottaceti.
Arresa, Prudenza afferrò un paio di biscotti e imboccò la porta secondaria dell’officina, seguita da Nora e Nove, mentre le lancette indicavano le undici e undici.

Cascina dell’Acqua
Officina

L’Almond 312 era uno dei modelli più potenti e veloci nel campo delle aeronavi da corsa. Il nome derivava dalla forma dello scafo centrale, che ricordava il guscio del frutto. I due motori laterali l’avvolgevano con un’ala circolare, studiata appositamente per ridurre le turbolenze e migliorare la penetrazione dell’aria. Quando Noon l’aveva fatto recapitare a Cascina dell’Acqua, Prudenza era impazzita di gioia: il motore D.F. Lancaster da cinquanta cavalli era un gioiello di potenza e tecnologia, nonostante il trascurabile difetto d’aver avvicinato troppo l’alternatore ai cavi della centralina primaria.
Nora camminava intorno all’airship, portando in braccio Nove e lucidando porzioni del guscio argenteo per potersi specchiare. Di tanto in tanto allungava il collo per esaminare meglio qualche dettaglio: le chiodature lungo l’ala circolare, l’impugnatura delle cloche, le pulsantiere sulla plancia tripartita, le decorazioni punzonate lungo la fusoliera.
«Posso chiederti una cosa, Prudence?» azzardò, affacciandosi nello spazio lasciato libero dalla rimozione di un pannello.
«Se insisti a chiamarmi in quel modo, no» rimbrottò la donna stesa sulla schiena, presa dalla verifica di alcune viti.
Fece un cenno a Flapper che inarcò la schiena, facendone uscire una chiave esagonale. Quei gatti non erano semplicemente automi da compagnia: li aveva assemblati col preciso intento di creare due assistenti abbastanza agili e attrezzati che l’affiancassero nei lavori di meccanica.
«Posso chiederti una cosa, Prue?» ritentò.
«Sentiamo».
«Cosa ti è successo all’orecchio?»
Lei rimase in silenzio per qualche istante, verificando il serraggio della brugola.
«Noon non te ne ha parlato? Strano» malignò. «Mi pareva fosse molto loquace riguardo la famiglia Baldovini».
Li aveva sentiti mentre chiamava inutilmente nelle terre dell’Arciduca per sollecitare il piattello dell’alternatore.
La frecciatina non andò a segno: lo capì dagli occhi verdi di Nora che la seguivano dall’alto, tra gli ingranaggi e i placidi sbuffi di vapore della caldaia, in attesa di risposte.
«Mio padre dice che i saggi parlano soltanto di ciò che sanno1. E anche se dubito che Al si possa considerare tale in questo momento, mi pareva che non ne sapesse granché».
A Prue venne da ridere. La coloniale aveva ragione: per l’Almond, Noon era andato fuori di testa come molla d’orologio deformata.
«Non proprio. All’epoca ci conoscevamo già, solo che non bada alle spiegazioni se è una voce diversa dalla sua a pronunciarle» sogghignò. «È successo quando avevo tredici anni. Con la scuola andai a visitare la centrale idroelettrica di Terziano. Avevano installato delle turbine a compressione di ultima generazione, grandi quanto questa stanza. Sembravano giganteschi gusci di lumache, tutti lucidi e allineati. Dietro si alzava una selva di tubazioni: alcune portavano il vapore ad alta pressione ai condensatori, altri ai rigeneratori di sistema e una parte alle condotte di sfiato e controllo. Davanti ai terminali di queste ultime c’era una passerella per i tecnici».
«E tu ci sei salita» indovinò Nora.
«Alla sommità dei condotti erano installati degli organi detti “trombe”. A cicli regolari emettevano segnali acustici, comunicando il buon funzionamento dell’impianto. Non immaginavo quanto grande potesse essere la differenza di potenza sonora tra il piede e la cima dei tubi. Sgattaiolai via e salii, mettendomi in attesa del fischio a meno di un metro dal primo sbocco» e mimò il gesto di allora, con le mani a coppa attorno all’orecchio.
Sbirciò su e vide l’americana in trepidante attesa.
«Non sentii un accidente: mi ritrovai stesa sulla passerella con il sangue che colava dall’orecchio e dei capogiri così forti da farmi vomitare l’anima. In capo a mezza giornata il verdetto era emesso: ipoacusia traumatica acuta, con forte compromissione dell’equilibrio. Fine» concluse mesta.
«Scommetto che eri la più pestifera della scuola!» rise la coloniale.
«Ero la prima della classe» corresse, riprendendo a lavorare. «Flapper, saldatore TIG. Gli insegnanti non si capacitavano del mio colpo di testa, ma l’ingegneria mi chiamava. Ho fatto un errore e l’ho pagato caro. Mi è servito di lezione. Qui, sotto l’innesto a T» aggiunse abbassando gli occhiali schermati, indicando all’automa dove puntare lo strumento estroflesso dal fianco.
Appena la saldatura si fu raffreddata, fece per uscire da sotto il veicolo quando qualcosa attirò la sua attenzione. Sgranò gli occhi. Un paio di stivaletti color smeraldo se ne stavano appena oltre l’ombra della bancata sinistra. Che le fosse venuto un colpo se non erano degli Heather Jane originali. Il non plus ultra dell’industria calzaturiera, famosi in tutto il mondo per rivestire i piedi delle più alte cariche politiche e delle celebrità in genere. Impossibile non riconoscerne lo stile.
«Ti piacciono?» chiese Nora, mostrandoglieli.
Aveva notato l’interesse diretto ai suoi piedi e ne aveva afferrato al volo il motivo.
La Baldovini si limitò a fare spallucce, mordendosi le labbra per la vergogna e l’invidia. Li trovava splendidi, mai visti di più belli ed raffinati, ma non l’avrebbe mai ammesso. Per lei, quegli stivaletti, erano una chimera: non aveva modo di reggersi su tacchi da quattro pollici.
«Dovresti comprarli, sono favolosi! Perfetta calzabilità, pellami e stoffe di prima scelta, per non parlare dei materiali delle decorazioni. Gli artigiani che li confezionano sono i più esperti al mondo» pigolò Nora, felice di far sfoggio delle proprie conoscenze. «Ci sono modelli adatti ad ogni evento: ricevimenti, matrimoni, serate a teatro, tè danzanti… persino per un’uscita in velocipede!»
«Non sono cose che m’interessano» disse, notando che si avvicinava mezzogiorno.
«Ma non si può vivere senza questi eventi!» protestò l’altra, sconvolta.
«Forse non ti è chiaro il concetto, Miss» sbottò Prue, scivolando via da sotto la airship.
Si alzò di scatto, facendo sibilare in protesta i giunti a fisarmonica, e le si avvicinò minacciosa, il volto impiastricciato di sporcizia e olio.
«Ho una famiglia, una casa ed un lavoro da mandare avanti. Non ho tempo da perdere in scemenze simili. E non spreco trecento Reali2 per un paio di stivali che, comunque, non potrei indossare» ringhiò, pulendo le mani in uno straccio. «La moda non è una mia priorità. Ci sono cose ben più importanti nella mia vita che un po’ d’ottone dorato, filo di seta, cuoio e qualche piede quadrato di broccato» concluse, fissandola con astio.
Prudenza non aveva mai sopportato le amichette di Algernoon e la loro passione per le frivolezze. Più una cose era futile e alla page, più ne facevano una malattia. Anche lei era una donna e sapeva apprezzare un bell’abito o un raffinato gioiello, ma riusciva a tenere bene i piedi per terra, lontano dalle luci abbaglianti delle elite aristocratiche e neoborghesi.  
L’americana non parve risentirsi delle sue parole. Anzi, aveva l’aria di chi aveva appena scoperto una sacrosanta verità. Stava lì, le labbra dischiuse in una “o” di sorpresa, le dita intrecciate ed appoggiate sulle ginocchia.
Si riprese dopo qualche minuto, lanciando un fischio d’approvazione tanto sonoro da superare le valvole della caldaia e lasciare allibita Prue.
«Tu sì, che sei una che sa quel che vuole!» trillò ammirata.
«In questo momento vorrei solo che stessi zitta» brontolò tappandosi le orecchie. «Spacchi i timpani come una locomotiva nella galleria del Frejus».

1 Citazione da “Il signore degli Anelli”, per la challenge “Ipse Dixit – Quote Challenge” indetto da Fabi_Fabi.
2 Reali: monete sabaude

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Capitolo 4
*** Dalle 11:55 alle 12:38 ***


Dalle 11:55 alle 12:38 DALLE 11:55 ALLE 12:38

Cascina dell’Acqua
Officina

Nora stava per aggiungere qualcosa, quando Flapper le interruppe, balzando su un ripiano.
«Chiamata» scandì, levando il muso verso la porta.
Algernoon sentì le due donne attraversare il soggiorno e le seguì, abbandonando il banchetto.
In un stanzetta c’era una scrivania ingombra di libri, appunti e fogli arrotolati, tra i quali emergeva uno schermo. Sopra, un’antenna circolare vibrava intensamente, segnalando la richiesta di risposta ad un segnale.
Prudenza girò un paio di manovelle e premette alcuni bottoni lungo la cornice. Lo schermo s’illuminò, divenendo dapprima di un bruno scuro uniforme, per poi schiarire in un’immagine leggermente sfocata.
«Ciao, mamma!»
Il volto della donna mutò radicalmente espressione mentre usava una manopola per aggiustare la ricezione.
«Ciao, tesoro! Com’è andato il viaggio?»
«Benissimo! Mamma, è tutto gigante qui dentro!» esclamò Nereo, saltellando.
«Ha dormito tutto il tempo» rispose una voce ilare e senza volto, quella della madre di Prudenza.
«Non è vero! Solo fino a Travajado. Poi sono stato sveglissimo!» si giustificò il ragazzino, guardando in tralice la nonna.
Fra Travajado e la Fiera di Brixia1 c’erano sì e no una decina di miglia.
«Mamma, mamma, sai chi c’è qui?»
«Nereo!» lo zittì un’altra voce, questa volta maschile.
«Ma nonno…»
«Su, sentiamo. Chi avete incontrato?» l’esortò Prue, curiosa.
L’uomo disse qualcosa sottovoce a Nereo, che dopo un attimo di perplessità, ricominciò a sorridere furbo. Prese qualcosa che gli veniva passato al di sotto della cornice e lo sollevò di scatto, facendo sobbalzare l’inquadratura e la madre.
Pur non avendo capito una sola parola del discorso, Nora era stupita dal cambiamento della donna e non poté fare a meno d’interrogarsi stupita se l’essere madre comportasse quel genere di trasformazioni o facesse parte unicamente dell’indole di Prue.
«Quello somiglia al mio libro di Idraulica».
«Non somiglia, mamma: è il tuo libro, quello dell’Ingegner Salvetti!» ridacchiò, nascondendosi dietro la copertina.
«Chi ti ha dato il permesso di…»
Non terminò il rimprovero: Nereo aveva aperto la prima pagina, mostrando una scritta che prima non c’era. Gli occhi del ragazzino luccicarono divertiti oltre il bordo del libro.
«Nonno sapeva che l’Ingegnere era qui alla fiera e allora abbiamo portato il tuo libro, così ti faceva l’autografo! Mi ha chiesto se era mio, ma quando gli ho detto che era di mia mamma, è rimasto di sasso. Pensava che l’autografo era per un maschio! Ti fa tanti complimenti, sai? Ha detto che ci vorrebbero più donne a fare l’ingegnere, perché avete un tocco speciale. Sei contenta, mamma?»
Ma lei non rispose. Teneva le mani premute sulla bocca ed aveva gli occhi lucidi. Quel regalo inatteso l’aveva commossa.
«Mamma, stai bene?» s’informò il figlio, preoccupato.
«Sì. Sì, Nereo, sono contentissima!» singhiozzò. «É… solo colpa di Al e delle… sue… stupidissime paranoie metereologiche».
«Zio Al è lì?»
Sentendosi tirare in causa, Banks balzò avanti, incurante della faccia sporca di zucchero a velo.
«Ehi, giovanotto!» salutò, parlando in italiano con forte accento inglese.
Per quanto potesse capirne, a Nora parve ci fosse un rapporto di grande affetto tra Al e Nereo. Li sentì parlare con toni degni di due coetanei, ridendo e gesticolando in modo buffo. Prue si limitava ad annuire, ridendo sommessamente.
«Signor Baldovini!» proruppe ad un certo punto Algernoon.
L’interlocutore sullo schermo era cambiato: ora c’era un uomo dal volto squadrato coi capelli brizzolati, il volto indurito dal sole.
«Salve, Banks. In giro per contratti?»
«No, ma il suo è già pronto. Ho provveduto personalmente a sollecitarlo e dovrebbero recapitarlo a giorni. Non annullerei mai e poi mai le sue forniture risicole per i miei ristoranti!»
I due parlarono d’affari per un po’ e la cosa pareva andare per le lunghe quando uno strano rumore coprì la voce del signor Baldovini.
«Cosa sta suonando?» chiede Prue, scacciando l’intruso.
«Hanno esposto una marea di sciocchezze con campanacci a tempo. Battono mezzogiorno».
«Sarà meglio che andiate a mangiare, papà» disse Prudenza, con una nota triste nella voce.
I saluti furono rapidi, per via dell’alto costo della chiamata, con molti rimandi alla cena di quella sera.
«Sembra un ragazzino simpatico, tuo figlio» osservò Nora.
«Tutto suo padre» sorrise brevemente Prue, spegnendo lo schermo.
«Ha preso anche da te» commentò Al, sincero.
All’improvviso, sembrava che la tensione di quel mattino fosse svanita grazie alla chiamata di Nereo. Il clima era disteso, quasi pacifico. E Algernoon si sentì in dovere di guastarlo.
«Tornando a noi. Che puoi fare per quel piattello?»

Brixia,
Fiera dell’Agromeccanica

Lo schermo si oscurò sfrigolando.
«Perché non mi hai lasciato dire a mamma che sei qua?» domandò Nereo, voltandosi.
L’uomo alle sue spalle sorrise, scompigliandogli i capelli. Era alto e piuttosto robusto, con la stessa zazzera scura del ragazzino.
«Con Banks tra i piedi e l’autografo dell’Ingegnere sul libro, tua madre ha già sufficienti emozioni da tenere a bada. Dirle che sono tornato in anticipo dalla Prussia l’avrebbe solo mandata in confusione. E tu non vuoi che mamma faccia brutta figura con quel beccamorto, vero?» domandò, porgendogli un pacchetto che scartò subito.
«No, papà» concordò. «In Lodomerla erano contenti che gli hai fatto da mangiare?»
Aveva la bocca piena di cialde ricoperte di miele e cocco grattugiato.
«In Lodomeria,» corresse bonario, «erano più che contenti. Direi che, quando me ne sono andato, la città si è praticamente disperata».
«Ma non sanno farsi da mangiare quei mollacchioni?» ridacchiò a mezza voce, ricevendo uno scappellotto affettuoso dalla nonna.
«Certo che sanno cucinare anche là, ma non così bene come fa tuo padre» lo ammonì. «E smetti di mangiare quell’affare o ti rovinerai il pranzo».
Ridendo e masticando il dolce, il ragazzino e la donna si allontanarono, in cerca degli spazi del pranzo.
Il padre rientrava dopo sette mesi trascorsi a Görlitz2, dove aveva lavorato come cuoco. Si era trattato di una scelta difficile, ma utile per far salire i punteggi nelle graduatorie governative e poter accedere ai fondi statali per aprire una propria attività di ristorazione. Ormai mancava solo il timbro dal Ministero.
Sebastiano e il suocero presero a camminare tra gli stand fieristici, osservandoli a malapena. Si trovavano nella sezione dedicata alle eccellenze zootecniche, che a Lamberto interessavano solo marginalmente. Il grosso delle attività di Cascina dell’Acqua era incentrato sulla produzione di tre diverse qualità di riso, la maggior parte delle quali raccolte ed esportate direttamente in Inghilterra tramite Banks. Inizialmente gli affari erano stati gestiti da Heberard, il padre di Al, e solo da una decina d’anni dal quest’ultimo. I due si erano conosciuti in occasione dell’Esposizione Universale di Roma, che l’uomo d’affari inglese stava visitando in cerca di nuovi investimenti. Si erano capiti al volo, nonostante l’inglese stentato di Lamberto, e da allora avevano realizzato un intenso commercio nel campo del riso.
«Sei in pensiero per Prudenza?»
«Che dirti, Lamberto? Banks ha il potere di devastarle i nervi, anche se lei sa ripagarlo a dovere» sospirò il cuoco, mordicchiandosi un labbro.
«Non lo perdonerà mai?»
Sebastiano non rispose, cercando il figlio con lo sguardo. Se Nereo aveva potuto crescere con una madre sempre presente, lo dovevano a quel damerino inglese, al suo egocentrismo ed ai suoi capricci. Avrebbe dovuto essergli grato, ma in realtà lo odiava profondamente.
Molti anni prima, quando Prudenza aveva appena terminato gli studi e cominciava a muovere i primi passi nell’ingegneria del vapore, si era presentata la possibilità di avere un colloquio al Ministero per l’Industria e la Meccanizzazione. Non aveva dormito per giorni per prepararsi al colloquio. Erano rare le donne che terminavano gli studi d’ingegneria; ancor meno quelle che raggiungevano alti livelli di specializzazione. Prudenza era certa delle proprie potenzialità, ma non aveva fatto i conti con Algernoon. Se fosse stata assunta dal Ministero – cosa assai probabile, date le sue competenze -, le leggi vigenti non le avrebbero consentito di lavorare anche per lui come libera professionista. Avrebbe dovuto scegliere e Al voleva essere la sua sola scelta. Non voleva privarsi della migliore esperta di vapore che conoscesse. Meno ancora desiderava non poter smerciare i brevetti dei suoi sottoposti al Ministero: Prudenza avrebbe scovato ogni pecca, rimandandoglieli indietro. Così, aveva fatto pressione sugli esaminatori perché non la scegliessero. L’aveva definita “una contadina dalle mani umide e i pensieri in ebollizione”, “che sarebbe stata più gradevole con un neonato al seno e il mestolo in mano”. L’avrebbe fatta franca e tutto si sarebbe risolto con un pianto disperato della donna, se lei non l’avesse sentito mercanteggiare la sua estromissione nelle stanze del Ministero. Gli aveva fatto una scenata, incurante degli altolocati spettatori e di ciò che avrebbero pensato. Da allora lei lo aveva ritenuto solo un cliente.
Non avevano troncato i rapporti con i Banks solo in nome della vecchia amicizia tra Lamberto ed Heberard, e dei benefici che quest’ultimo aveva elargito loro di sua spontanea iniziativa, non appena saputo dell’accaduto. Aveva sempre considerato i figli dell’amico e socio come suoi, lo schiaffo morale di Al a Prudenza lo aveva ferito ed offeso.
Dal canto suo, l’insofferenza che Sebastiano provava nei suoi confronti, non era dettata da quel gesto: era un’antipatia di pelle. Detestava Banks ed il continuo sfoggio che faceva delle proprie ricchezze, i suoi capricci sciocchi, le sue pretese e la fortuna che pareva piovergli addosso di continuo. Ma soprattutto, lo odiava per non aver mai chiesto scusa a sua moglie. Poteva aver regalato una madre a Nereo, ma aveva affondato per sempre i sogni e le speranze di un’amica.
Una voce lo richiamò. Nereo saltellava a fianco della nonna, esortandolo ad alzare il passo per raggiungerli. Vederlo felice sollevava il cuore da quegli odiosi pensieri, che sicuramente stavano invadendo la mente di Prudenza.  

1 Travajado, Brixia: sono i nomi con cui in passato erano conosciute Travagliato e Brescia.
2 Görlitz: città del Regno di Galizia e Lodomeria, attualmente parte della Polonia e dell’Ucraina

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Capitolo 5
*** Dalle 13:49 alle 14:21 ***


Dalle 13:49 alle 14:21
Al termine del capitolo riporto il giudizio di (Vienne), la giudice del contest a cui ha parteciato questa storia, classificandosi prima!

(Vienne)

DALLE 13:49 ALLE 14:21


Cascina dell’Acqua,
Prato

Lo zeppelin ondeggiava pigro, in attesa della partenza. L’equipaggio stava terminando di agganciare con cinghie e catene l’Almond 312 nel vano apposito.
«Coraggio, firma» incalzò Prudenza.
Non aveva voglia di perdere altro tempo con quel casinista di Algernoon. E dire che, una volta, quel suo creare scompiglio le metteva un’immensa allegria. Prima che lui le voltasse le spalle.
«Ecco, malfidata» sbottò porgendo un rettangolo ornato dai decori della Imperial Bank of London. Prue osservò le ultime gocce della stilografica che si asciugavano. Al aveva persino indicato l’ora del pagamento: l’una e cinquantatré del pomeriggio.
«Ah, no. Malfidata non te lo concedo, perché credo d’essere la sola persona che paghi con regolarità e puntualità. Due cose che, di solito, non sai nemmeno dove stanno di casa» puntualizzò.
Algernoon grugnì, facendo una smorfia irritata mentre un valletto lo aiutava a indossare la giacca.
Nora ridacchiò alle spalle della sua interlocutrice, senza premurarsi di nascondere la propria ilarità.
«Spiacente, ma qui ti sbagli, mia prudente Prudenza» sghignazzò, riponendo nel taschino il carnet degli assegni, felice di potersi rifare dell’offesa. «C’è almeno un’altra persona che si è guadagnata questo privilegio. Non sei più sola».
«E chi sarebbe il fortunato? Ammesso si possa chiamare fortunato chi ha a che fare con te» rimarcò, decisa a non farsi prendere in giro.
L’uomo non raccolse la provocazione, nonostante gli dolesse ammettere che aveva ragione: aveva una lista di creditori piuttosto consistente, quasi tutti per via delle sue lungaggini.
«Spiritosa, davvero. Ma Name non è del tuo stesso avviso» ribatté con superiorità.
Gli occhi grigi di Prue si dilatarono all’improvviso, quasi fosse preda di violente vertigini.
«Name?» esclamò Prue, al colmo della sorpresa.
Sapeva che Noon era abile nello stipulare contratti, ma che fosse riuscito ad accaparrarsi il campione di turno, aveva dell’incredibile.
«Me la sono cavata benino, l’ammetto. Contratto quinquennale, premi in base alle vincite ed alle corse disputate, penale di rescissione pari a cinquanta migliaia tonde tonde di sterline inglesi tonde tonde…» canticchiò, aggiustando il bavero con nonchalance.
Il suo autocompiacimento era alle stelle.
«Tu… avresti convinto Name… a correre per te?» domandò di nuovo Prue, incredula.
Banks sembrò risentirsi della poca fiducia dimostratagli.
«Se non mi credi, domandaglielo tu stessa» la sfidò con l’aria di chi la sapeva più lunga di quanto volesse dare ad intendere.
«Te lo sei portato dentro al taschino, per caso?» sogghignò, pronta a sentirlo strillare perché gli portassero un telettrofono1 portatile.
«Oh, Prue! Non ci sarei mai stata là dentro con un vestito così» rise Nora, battendo una mano sulla balza di pizzo della gonna.
La donna si girò a guardare l’accompagnatrice di Banks, rischiando un capogiro per la troppa fretta.
«Vorresti farmi credere che tu sei…» iniziò scettica.
«Nora, alias Nicholas “Nick” Name» annuì decisa.
Prudenza avrebbe voluto esplodere in una risata e per poco non le riuscì; tuttavia di fronte all’improvviso cambio d’espressione dell’americana sentì qualcosa tapparle la gola. D’un tratto non assomigliava più alla loquace rompiscatole che l’aveva tormentata quella mattina. Sembrava più sicura, determinata, quasi aggressiva.
«So cosa pensi. È ridicolo inventarsi un alter-ego con un nome tanto stupido, però funziona: se la sono bevuta tutti quanti» spiegò. «E poi non mi andava di far cambiare le iniziali ricamate sulle divise» soggiunse, mostrando quanto fosse incapace di rinunciare alle frivolezze. «Sai, nel mondo delle corse le donne non sono ben viste. Per questo mi faccio passare per un uomo. Prima o poi lo dirò, quando avrò accumulato abbastanza premi e vittorie da far morire di vergogna i miei stimati colleghi. Per il momento, se lo chiedono, quello che corre è mio fratello e io mi limito a fargli da portavoce».
Ecco spiegato il perché di tanto riserbo attorno al fantomatico Nick e del suo vezzo di portare una sciarpa fin sotto gli occhialoni da volo – oscurati anche durante le corse in notturna- : Nora doveva mantenere segreta la propria identità. Non che esistessero leggi che vietassero alle donne di correre, ma Prue sapeva bene che l’ambiente era una sorta di casta chiusa e maschilista. Era più o meno la stessa cosa nell’ingegneria del vapore, lo sapeva bene.
«Ma alla Xadios sanno che sei una donna. Potrebbero mandare a monte il tuo bel piano» osservò, riscuotendosi.
«Qui intervengo io» s’intromise Algernoon. «Ho rilevato l’intero team che lavorava per lei, dal primo caposquadra all’ultimo sguattero, lasciando in pegno una bella lettera di cambio con annesso documento di vincolo, che impedisca d’incassarlo finché Nora non dichiara pubblicamente chi è. Solo allora potranno riscuotere. E credimi, Prue, quelli della Xadios preferiranno aspettare cent’anni piuttosto che giocarsi la possibilità di accedere a quella cifra».
«Quanto li hai pagati?» s’informò pensierosa la Baldovini.
«Abbastanza» replicò serafico, avviandosi sulla scaletta per chiudere la spinosa conversazione.
In genere, quella parola sottintendeva cifre a cinque zeri.
«Spero di rivederti, Prue» salutò Name, stringendole la mano.
«Eh? Ah, certo. Anch’io. In bocca al lupo per New York».
«Crepi» rise, sollevando di nuovo la lunga gonna scozzese e salendo impacciata, accompagnata da tintinnii ad ogni passo.
«Sta attenta a non esagerare con la manetta dell’aria quando entri in curva!» le urlò.
L’aeronauta si girò, appena oltrepassata la porta.
«Sì, me l’hai detto! Rischio lo stallo del circuito di raffreddamento!» rispose.
«Allora ascolta…» mormorò stupita, guardando il portellone chiudersi.
Pochi attimi dopo, una finestra della navicella si aprì. Nora si sporse oltre il bordo, sbracciandosi allegramente mentre Algernoon si limitava ad un semplice cenno col cappello.
«Arrivederci, Prudence!» salutò.
«Prudenza, non Prudence, stupidissima coloniale!» strillò lei, ma il Paloma era troppo in alto perché la sua voce potesse raggiungerla.

Zeppelin Van Hoefer “Paloma”
Saletta svago

Poco dopo le due, il dirigibile puntò il naso in direzione ovest, verso le Alpi che sembravano sbarrare l’orizzonte. Entro breve avrebbe raggiunto la velocità di crociera di sessantadue miglia orarie, che, con un po’ di fortuna, avrebbero consentito loro di raggiungere New York entro tre giorni. Giusto in tempo per sbrigare tutte le formalità, riposarsi e partecipare al Grand Prix delle Colonie Atlantiche.
«Al?» cinguettò Nora, abbracciandolo.
L’uomo, intento ad aggiustarsi i capelli nel riflesso di un ornamento del cilindro, sorrise. Lei non parlò, costringendolo a voltarsi.
«Sì?»
«Avrei bisogno di un favore piccolo-piccolo».
Le labbra di Algernoon si curvarono dapprima in un sorriso, poi in una smorfia di disappunto.
«Non farò riverniciare l’Almond. Non se ne parla!» protestò.
Conosceva la fissazione di Nora per i riti scaramantici pre-corsa, tra cui quello assolutamente femminile di indossare biancheria intima nuova di zecca e quello assai più ridicolo di dipingere la airship di giallo e verde menta. Questa volta avrebbe dovuto accontentarsi di uno solo dei suoi portafortuna. Se avesse potuto, avrebbe chiesto a Prue di concludere l’opera con la verniciatura, ma l’aveva indispettita a sufficienza ed il tempo stringeva dolorosamente, specie per il portafogli.
«Tranquillo, Al. L’Almond va bene com’è. Ora che conosco chi ci ha messo le mani, so di poterlo guidare ad occhi chiusi. Il colore non cambierà le sue specifiche tecniche».
Colpito dalla risposta, tornò a sorriderle maliardo.
«Molto bene» replicò sollevato. «E… di che si tratta, allora?»
«Vorrei usare il telettrofono. Conversazione privata» sussurrò Nora, languida.
«Sai che le regole internazionali dell’aviazione prevedono…»
«Lo so, ma è un caso speciale, questioni assolutamente vitali!» lo zittì, strusciandosi contro di lui per sottolineare la necessità della richiesta.
«Vitali quanto una seduta dal coiffeur o quanto un motore nuovo di zecca?» s’informò perfido.
«Al…»
Banks finse di trovare più interessante allentare il papillon.
«Suvvia, Algernoon Banks, mio signore e padrone. Esaudiscimi» mormorò dolcemente.
L’uomo levò gli occhi al ventre del dirigibile, simulando il massimo scoramento, prima di ammiccare.
«Mi piace quando mi chiami così. Non potresti ripetermelo nella mia stanza? Magari potresti esaudire tu qualche mio desiderio» suggerì, cingendole i fianchi con un braccio.
L’uomo si ritrovò a faccia in giù, a rimirare il riflesso di Nora sul pavimento. Se ne stava in piedi, le mani sui fianchi e l’espressione furiosa di chi ha visto oltrepassati i limiti della decenza. Aveva perso di colpo tutta la tenerezza e la sensualità di poco prima.
«Banks, questo esula dal nostro contratto. O devo essere più chiara?» latrò.
«No, mia signora e padrona. È sufficiente» si lagnò, rotolando sul fianco. «Entro quanto ti occorre quel telettrofono?»
In capo ad una decina di minuti, lo strumento fece bella mostra di sé sulla toeletta della camera di Nora. Un tecnico di bordo sistemò la ricezione ed avviò la chiamata, lasciandola sola subito dopo. Il crepitio all’altro capo della cornetta annunciò la connessione col sistema di centralini.
«Il sedici-sedici-centodue-novantuno di New York nelle Colonie Atlantiche, per cortesia».
«Devo avvisarla che, trattandosi di una chiamata intercontinentale, verrà applicato un coefficiente tariffario pari a due virgola sedici al minuto. La conversione nell’importo finale andrà effettuata nella valuta ed al cambio corrente nel punto di approdo del mezzo. Buona giornata».
Il tono godereccio le lasciò intendere che si sarebbe trattato, in ogni caso, di un valore cospicuo. Non importava: la chiamata era a carico di Al, poteva permettersela.
Trascorsa una manciata di secondi, una voce sostituì quella del centralinista: quella di una donna.
«Heather Jane Leather & Shoes, Ufficio Ordini e Acquisti. Come posso aiutarla?»
«Samantha, sono…».
«Nora!» esclamò la segretaria, impedendole di rispondere con un fiume di parole. «Tesoro, come stai? È un pezzo che non vieni a trovarci! Ti sto tenendo da parte qualche chicca che devi assolutamente provare. C’è un paio di scarpe che è un amore, ha degli inserti in cuoio rosso e seta che... ah, dovresti vederlo! Lo prenderei io se avessi i piedini come i tuoi, ma a te doneranno più che a me. Oh! Abbiamo visto il trionfo a Parigi di tuo fratello! Strepitoso, che scheggia! Dove sei? La linea è disturbata».
«Sono in viaggio, Sam. Non ho molto tempo. Devo parlare con Billy».
«Un ordine particolare, immagino» la stuzzicò.
La donna abbassò lo sguardo sugli stivaletti decorati e sorrise.
«Sì. Molto particolare».
Fuori, il sole del primo pomeriggio inondava le risaie verdi, insieme agli strilli di Banks che domandava dove fosse la sua fiches.

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  Telettrofono: nome originario dell’apparecchio creato da Meucci



Prima classificata: “Almond 312” di ely79 | oggetto: fiche da poker
Grammatica e sintassi > 9,5/10
Stile > 14,25/15
Trama e personaggi > 15/15
Plausibilità delle azioni svoltesi nelle sei ore/ rispetto del limite temporale posto > 5/5
Utilizzo dell’oggetto > 3,75/5
Gradimento personale > 5/5
Totale > 52,5/55

Grammatica e sintassi, stile. Ho pochissime sviste da segnalare: qualche errore di battitura (“La lancetta scattò sul ventuno quando donna si affacciò etc.” diviene “La lancetta scattò sul ventuno quando la donna si affacciò etc.”; “Algernoon Banks giocherellava con un dischetto colorato e un’espressione allegramente compiaciuta dipinta sul volto” diviene “Algernoon Banks giocherellava con un dischetto colorato e aveva un’espressione allegramente compiaciuta dipinta sul volto”; “Noon era andato fuori di testa come molla d’orologio deformata” diviene “Noon era andato fuori di testa come una molla d’orologio deformata”; “una decina d’anni dal quest’ultimo” diviene “una decina d’anni da quest’ultimo”; “Banks ha il potere di devastarle in nervi, anche se etc.” diviene “Banks ha il potere di devastarle i nervi, anche se etc.”; “voleva” invece di “volveva”; etc.) e un paio di frasi che necessiterebbe di una riformulazione (“Trovarono Nove con le zampe anteriori ripiegate sul muso, dando l’impressione che stesse pensando” diviene “Trovarono Nove con le zampe anteriori ripiegate sul muso; ciò dava l’impressione che lui stesse pensando”; “Faticava a credere che una persona tanto scontrosa avesse trovato non solo chi la sopportasse, ma la sposasse e con cui avesse persino avuto un figlio” diviene “Faticava a credere che una persona tanto scontrosa avesse trovato non solo chi la sopportasse, ma chi l’avesse sposata e le avesse persino dato un figlio” giacché probabilmente è più opportuno mantenere il medesimo pronome; etc.) Vi sono, oltre a ciò, alcune virgole in eccedenza (“Per lei, quegli stivaletti, (senza virgola) erano etc.”, per esempio) e altre mancanti (“L’uomo disse qualcosa sottovoce a Nereo, che dopo un attimo di perplessità, ricominciò a etc.” diviene “L’uomo disse qualcosa sottovoce a Nereo, che, dopo un attimo di perplessità, ricominciò a etc.”, per esempio). Hai, poi, scritto “ahimè” con l’accento acuto e “fiches” anziché “fiche” (la S, infatti, ne caratterizza soltanto il plurale). L’espressione “mandare in stallo” si scrive in tal modo, e non “mandare installo”, in quanto l’“installo” senza spaziatura è la prima persona singolare del presente indicativo di “installare”.
Credo che il tuo stile di scrittura sia ottimo: è elevato senza, per questo, risultare pedante, è chiaro e molto scorrevole. Mi sono piaciute in particolar modo le descrizioni, che ho trovato sempre accurate e interessanti. A causa delle pochissime frasi che richiederebbero una riformulazione e di qualche ripetizione (“L’interlocutore sullo schermo era cambiato: ora c’era un uomo dal volto squadrato coi capelli brizzolati, il volto indurito dal sole” è una di queste), non hai, purtroppo, ottenuto il massimo punteggio in questa voce.

Trama e personaggi. “Almond 312” è una novella sicuramente originale, che reputo brillante, divertente e mai scontata. Hai creato personaggi a tutto tondo, dotati di differenti sfaccettature caratteriali e – cosa fondamentale – li hai fatti vivere, fornendoli di un background sociale e culturale e attribuendo a ognuno di loro pregi e difetti propri degli esseri umani di carne e ossa.
Uno scritto che, come questo, è talmente ricco di dettagli pregevoli (fra tutte, ho adorato l’immagine di Nora che, in attesa dell’atterraggio del dirigibile, osserva “il riverbero delle guarnizioni dorate [del suo] stivaletto sinistro, che [dondolano] al ritmo degli ultimi scossoni del gigantesco mezzo di trasporto”: è una scena che, forse, alcuni non si sarebbero premurati di descrivere, ma che favorisce l’immedesimarsi del lettore nel personaggio e crea una situazione vivida, ben nitida nella mente di quanti si approcciano al racconto); dicevo: uno scritto che, come questo, è talmente ricco di dettagli pregevoli non si può che ammirare.

Plausibilità delle azioni svoltesi nelle sei ore/ rispetto del limite temporale posto, utilizzo dell’oggetto. I miei più sinceri complimenti: la divisione in minuti è minuziosa, ma per nulla pesante; la fiche risolve, anche fisicamente, il problema centrale della vicenda e chiude il racconto.

Gradimento personale. Non ho nulla da aggiungere a quanto già detto; mi limito, quindi, a complimentarmi nuovamente per l’eccellente lavoro che hai svolto!

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Capitolo 6
*** Dalle 12:38 alle 13:49 ***


Dalle 12:38 alle 13:49 DALLE 12:38 ALLE 13:49

Cascina dell’Acqua
Officina

La porta sbatté violentemente, chiudendo Banks nel soggiorno. Prue imprecava tra sé, camminando rabbiosa intorno all’Almond, facendo cigolare i sostegni sotto la tuta per il troppo sforzo.
«Hai detto che ti serve una piastra di ceramica?» domandò Nora, appoggiata ad una pila di cassette per gli ortaggi.
Se ne stava lì, a giocherellare con i suoi bei boccoli da bambola, le caviglie incrociate per via della gonna troppo lunga e stretta per consentirle di accavallarle.
Rassegnata all’ennesima intrusione, Prudenza annuì. Aveva capito che cercare di tener lontana Nora era inutile.
«Ceramica altamente isolante, non una piastrella qualunque. Sfortunatamente, il tuo bello là fuori non vuol capire che non me lo consegneranno subito solo perché lui ha fretta di attraversare un oceano!» brontolò, stendendo Nove sul banco da lavoro per sistemarlo.
Nora rimase ad osservarla per qualche istante, prima di parlare di nuovo:
«Quanto dev’essere grande?»
«Cosa? Il cervello di Noon per capire una cosa così semplice?»
«Il piattello».
Prue frugò in una cassetta e ne tirò fuori il pezzo rotto ed un calibro.
«Due pollici di diametro, un quinto di pollice in spessore» rispose, dopo averlo misurato.
«Due pollici di diametro, un quinto in spessore» ripeté sottovoce. «Aspetta, torno subito».
Raccolse gonna e sottogonne alla bell’e meglio e corse via, goffa e impacciata.
«Signore, fa che non torni con qualche assurdità tipo il suo specchietto!» pregò Prue fra sé.
Riprese ad occuparsi di Nove, con Flapper che illuminava gli snodi articolari grazie alla lampada che aveva nella coda. Il danno, fortunatamente, era meno grave del previsto: entro sera quella bestiaccia avrebbe potuto tentare un quarto salto.
Nora riapparve come un tornado nell’officina, facendo cadere una miriade di attrezzi al suo passaggio. Ansimava per la corsa e per via del busto che la ingabbiava.
«Ecco qui. Può andare?» rantolò, cacciandole in mano una cosa tonda e liscia.
Prudenza aprì le dita e trovò una fiche da poker, dov’era dipinta la caricatura di Noon con le dita atteggiate in segno di vittoria. Tipico di quel megalomane.
«Che diamine…»
«Sapevo che la teneva nella giacca. È tutto il giorno che ci gioca!» boccheggiò orgogliosa, allungandosi sul cofano dell’Almond. «Si è fatto fare una serie di fiches personalizzate proprio dalla Siorpaes, per quando organizza partite di poker nella sua suite a New York. Me l’ha mostrata un milione di volte anche se sa che non capisco un accidente di carte. E dato che ama vantarsi di ogni cosa che fa, si è premurato di dirmi che è fatta di una ceramica speciale, trattata per essere inattraversabile dall’elettricità. Anche la decorazione è stata fatta apposta per lui. E non credo si dispiacerà se la prendiamo in prestito; in fondo, sono solo cento dollari!»
Le ultime parole le uscirono dalle labbra con un sibilo esausto e sardonico, accompagnate dalle mani che tentavano di allargare le stecche.
«Può andare?» pigolò.
Lentamente, il volto di Prue si distese in un’espressione di sollievo.
«Non so dove prendi queste idee, ma forse hai salvato la giornata ad entrambe» disse, aprendo il vano e cominciando a trafficare con la copertura dell’alternatore.
Morsetti, bulloni e ghiere si ammassarono rapidamente sul ripiano di lavoro alle sue spalle.
«Perché ad entrambe?» s’informò Nora, quando ebbe ripreso a respirare normalmente.
Le pareva che l’unica persona nei guai fosse Prue.
L’altra si fermò un attimo, il tempo necessario perché Flapper s’infilasse nel comparto.
«Mi stai dicendo che non hai mai visto Noon dare di matto peggio di stamattina?»
La coloniale scosse il capo.
«Visto che siamo tra donne, ti dirò che sono molto più piacevoli le mestruazioni che Noon quando sbraita come un marmocchio frignone» e prese a dare ordini all’automa.

Cascina dell’Acqua
Aia

Algernoon stava impazzendo dall’ansia. Stanco di sedere su ogni superficie che glielo consentisse, aveva deciso di uscire. Camminava con le dita infilate nei taschini del gilet, le maniche della camicia arrotolate fin sopra i gomiti ed il cilindro sulle ventitré. La polvere di quella giornata estiva cominciava ad appiccicarsi alle scarpe di vernice e ai bottoni in bronzo dorato che scintillavano sul vestiario.
Aveva sempre amato stare in quella cascina, respirare l’odore dell’erba e dell’acqua, ascoltare gli sbuffi di vapore dei macchinari dell’officina di Prue, gustare i manicaretti della signora Francesca. Da ragazzo ci trascorreva quasi tutto il periodo estivo. Nuotava con Vincenzo e Giovanni nel canale, trascorreva ore ad architettare dispetti per Prue e altrettanto tempo arrampicato su alberi e tetti per sfuggire alle sue vendette, piagnucolando e implorando che suo padre lasciasse Londra per andare a salvarlo da quella strega mezza sorda.
Di quel periodo non era rimasto molto. Solo qualche fotografia, nascosta in fondo ad un cassetto chissà dove. Di certo, non sulla parete del soggiorno di Cascina dell’Acqua.
Tuttavia, erano altre due cose a farlo star male in quel momento: la prima era l’Almond con quel suo dannato guasto; l’altra era l’approssimarsi dell’orario di partenza e la sagoma del “Paloma” che pareva irrimediabilmente troppo lontana nel cielo.
«Devono riuscirci» meditò, calciando un sasso. «Devono farlo! Non possono farmi fare anche questa figuraccia! Io sono il capo, loro devono obbedirmi! Devono fare quel che gli dico!»
Salì sul terrapieno erboso a larghi passi e di lì sul ponte di mattoni che scavalcava il corso d’acqua accanto alla cascina. La corrente era forte in quel periodo, zeppa di mulinelli e increspature, il livello dell’acqua prossimo alla massima capienza dell’alveo. Si sentiva proprio come il Naviglio: forte e tumultuoso, stretto in argini troppo piccoli per poterlo contenere a lungo.
«Muoversi, muoversi, muoversi!» ordinò a figure invisibili.
Rigirò la catenina dell’orologio fra le dita, incerto se controllare o meno l’ora.
«E tu fermati, dannazione! Mi serve tempo! Tempo!» sbraitò al sole, quando si accorse che l’auto era avvolta dalla densa ombra del fienile.
Quando l’aveva parcheggiata là, il sole l’accarezzava facendo brillare le incrostazioni cromate e la polvere di perle nella vernice. Ora aveva un’aria triste e demodé. Aveva quasi voglia di comprarne un’altra.
Rientrò in casa, aggirandosi per le stanze come una belva in gabbia. Recuperò la giacca, ammassata sul pavimento della cucina e andò nell’unico posto dove riuscisse a calmarsi: la camera di Nereo. Sedette sul letto, lo sguardo perso sul poster di Name.
«Non male» pensò, osservandolo prima con un occhio, poi con l’altro. «Ma posso farne fare uno migliore. Più lirico. Più potente. Devo chiamare Perrot e spiegargli l’idea. Vedremo se riesce a buttare giù quello che ho in mente».
Mancavano trentacinque minuti alla una del pomeriggio, quando il richiamo denso e gorgogliante dell’Almond si fece udire in tutta la sua potenza. I cinquanta cavalli del Lancaster avevano ripreso a galoppare, emettendo una sinfonia di rombi e sbuffi, che cresceva e diminuiva seguendo le prove di regime. I gridolini di esultanza di Nora lo raggiunsero attraverso i muri.
L’uomo scattò in piedi, gli occhi sgranati ed un sorriso raggiante. Trottò giù dalle scale, incurante del rischio di ruzzolare fino al loro piede, diretto all’officina. Stava per entrare, proclamando la propria soddisfazione per essere stato accontentato, quando il soggiorno si oscurò.
Uscì nel portico e alzò lo sguardo dove prima era il cielo: lo zeppelin era arrivato con perfetto tempismo, probabilmente sospinto da qualche buona corrente o da un po’ più di potenza nei motori.
Il volto segaligno di un uomo si affacciò da un finestrino della cabina di comando. Portò un cono metallico davanti alla bocca e parlò:
«Salve, signore» salutò svogliato, senza togliere la lunga pipa dalla bocca. «Bella giornata, eh?»
Visto dal basso, sembrava che a parlare fosse la nuvoletta di fumo e non una persona.
«Magnifica, Commodoro! Prego, da questa parte!»
Con larghe bracciate indicò al Commodoro Edwards come orientare l’aeronave e dove calare i pesi di stazionamento. Nonostante il pilota conoscesse bene il proprio mestiere, Algernoon si sentiva in dritto di metter becco anche su cose di cui non aveva la benché minima nozione.
«Lo sapevo che ce l’avreste fatta tutti quanti a farmi contento! Mi amate davvero! Tutti quanti!» commentò estasiato, quando vide le due donne affacciarsi dal portone dell’officina, richiamate dai suoi strepiti.

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