The Way We Were di Briseide (/viewuser.php?uid=1240)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I Lisce, leggere, calde. ***
Capitolo 2: *** II Preferenze ***
Capitolo 3: *** III Excursus ***
Capitolo 4: *** IV Memoria ***
Capitolo 5: *** V Vincere e perdere ***
Capitolo 6: *** VI Concessioni ***
Capitolo 7: *** VII Insonnia ***
Capitolo 8: *** VIII Confessioni ***
Capitolo 9: *** IX Dover ***
Capitolo 10: *** X Boccoli, boccioli ***
Capitolo 11: *** XI Brindisi ***
Capitolo 12: *** XII Rivoluzioni ***
Capitolo 13: *** XIII Gusci ***
Capitolo 14: *** XIV Nemesi storica ***
Capitolo 15: *** XV Affari di famiglia ***
Capitolo 16: *** XVI: Congedi ***
Capitolo 17: *** 17. Oltremanica ***
Capitolo 18: *** Ricomposizione ***
Capitolo 1 *** I Lisce, leggere, calde. ***
Disclaimer: Come sempre niente
del mondo e personaggi della Rowling mi appartiene; non scrivo a scopo
di lucro
ma solo perché faccio di tutto pur di non studiare al
momento.
Note: Non so perché ho avuto
questa malsana idea di iniziare una cosa simile. Comunque, dato che la
Rowling
mi ha fatto l’ennesimo dispetto e sono avversa alla famiglia
Greengrass (Daphne
e la sua innocenza escluse) e amo Draco e Pansy, ecco il tutto.
Se
la coppia non vi piace ma volete leggere lo stesso, siete pregati di
non farmi sapere quanto la coppia vi disgusti, perché
avrebbe poco senso.
Grazie. Per il resto, ci sarà qualcosa di OOC forse, su
quello potete
legittimamente inveire, se vi parrà opportuno =)
Metto le mani avanti in merito a qualcosa: Blaise Zabini e l'amicizia con Pansy e Draco, che la Rowling non ha specificato. Blaise Zabini e il suo essere un seguace di Petronio. Credo ci sia dell'altro sparso un pò qui e là, sono licenze autorali che forse non avrei dovuto permettermi ma è il vantaggio di non essere romanzieri di professione ^^ Merci.
The
way we
were
I
Lisce,
leggere, calde.
Memories
light the corners of my mind
Misty water-colored memories of the way we were
Scattered pictures of the smiles we left behind
Smiles we gave to one another for the way we were
[The
way we were – Barbra Streisand]
Avevo un
ricordo
ben preciso dell’ultima volta che sul mio viso era comparsa
quell’espressione
che la gente comune – quella che non vanta un padre latitante
e un futuro
appeso ad un filo mosso da un Lord Oscuro con manie di assolutismo
– avrebbe
potuto definire spensierata.
Erano le
vacanze
di Pasqua del quinto anno, quei quattordici giorni di respiro rubati
alla
soffocante coltre di ostinato buonismo e cieco pregiudizio che
ammantava la
bella Hogwarts, patria di giovani maghi in formazione, volti verso un
brillante
futuro che, ottusi com’erano, neanche avrebbero distinto.
Nel mio
ricordo
compaiono Draco e Blaise, e mi sembra superfluo aggiungerlo ora che in
piedi
sull’orlo, posso osservare tutto dall’alto, fredda
e distaccata: qualsiasi cosa
mi sia capitata nella vita, in un modo o nell’altro loro
erano intorno a me, e
se non c’erano, quel qualcosa era strettamente legato ad uno
dei due. Quando
coinvolgeva entrambi, di solito era un guaio.
Quel giorno
di
Aprile camminavamo per le strade di Provenza, tra accenti e colori
francesi. Io
e Blaise procedevamo affiancati ballando scioccamente al ritmo di una
vecchia
canzone di vent’anni prima; indossavo degli improbabili
occhiali da sole, e la
cravatta da studente di Blaise era appesa alla sua spalla in precario
equilibrio ai suoi passi cadenzati. Alle nostre spalle, alle mie spalle, c’era Draco, in
tutta la sua
composta eleganza. Avanzava per la strada, dietro di noi, mani in tasca
e un
ghigno appena accennato a piegargli le labbra in nostra direzione, e
nascosto
in quel ghigno, un sorriso velato, per cui sarebbe morto se avesse
corso il
rischio che noi lo notassimo. Io e Blaise lo avevamo notato, e non
abbiamo
detto niente. Con Draco funziona così. Ti dà modo
di amarlo per queste piccole
cose (e di odiarlo per tutto il resto, che appare sempre come di
contorno in confronto)
ma di nascosto.
Scosse la
testa
quando mi sentì accennare il motivetto della canzone,
così sciocca se
consideravo le interminabili sonate per pianoforte che deliziavano
tanto mio
padre. Era troppo compiaciuto per avermi imposto di fare qualcosa che
lo
soddisfacesse per poter far caso all’espressione sul mio
viso, o alla più
totale freddezza con cui spingevo un tasto dietro l’altro
sperando di arrivare
presto alla fine. E mentre Draco scuoteva la testa e Blaise mi
afferrava
gentilmente il polso facendomi volteggiare verso di lui, pensai che era
in quel
modo che dovessero andare le cose: lisce,
come una canzone anni sessanta; leggere,
come il cotone della divisa libera del mantello ornato dallo stemma di
una
casata, accuratamente dimenticato sul pomello del letto, in Dormitorio;
e calde, come la luce del sole che
mi
batteva sulla pelle.
Così
ho imparato
che i desideri non sono cosa da tutti, e che se non volevo ferirmi
più di
quanto mi spettasse, non avrei dovuto farlo più. Desiderare
qualcosa per me.
Quelle erano
le
vacanze di Pasqua del 1997, Pansy Draco e
Blaise, strada di Provenza.
L’ultimo
ricordo
che ad essere rievocato non mi avrebbe tolto il respiro. Avrei fatto
bene a
tenermelo stretto. Ed è quello che ho fatto. Per tutto
questo tempo.
●●●
Il tempo dal
canto suo aveva fatto la propria strada, e rincorso se stesso senza
sosta,
fedele al suo imperdonabile cinismo, ignorando impietoso le
necessità e i
desideri di chi travolge lungo la sua corsa inarrestabile, esente dal
giusto o
dall’ingiusto come le leggi sottese che governano la vita.
Pansy
Parkinson,
abile trasformista, aveva imparato ad accettare l’idea che le
cose stessero
così e che niente fosse in suo potere se non aggirarle e
plasmarle a proprio
favore, ma mai, in nessun modo, modificarle.
Quindi con
il
passare degli anni e il succedersi delle vicende umane –
tragiche o comiche che
fossero – aveva anche imparato a riporre in un luogo nascosto
tra la sua mente
e il suo cuore ogni piccolo desiderio a cui era stata costretta a
rinunciare
momentaneamente.
Ne aveva un
cassetto pieno e lo custodiva gelosamente. L’ultimo ripiano
di quel cassetto
conteneva quello più bello e doloroso, quello da cui era
fuggita con una
ostinazione proporzionale solo all’intensità con
cui lo aveva voluto per sé.
Lì
aveva riposto
Draco Malfoy, con una stretta sul cuore e un nodo alla gola; con la
ferma
decisione di una bambina che accetta di diventare grande; con la
consapevolezza
che quello sarebbe rimasto il suo posto per sempre e che mai vi avrebbe
fatto visita
con il ricordo, o avrebbe corso il rischio di rovinare tutto e chiudere
se
stessa in quel cassetto con lui.
●●●
La Sala si
apriva agli occhi del visitatore in tutta la sua magnificenza,
sobriamente
addobbata con decorazioni eleganti, in un’armonia di colori e
forme da fare
invidia alla più classica delle costruzioni di
età greca. Ogni particolare
aveva trovato la propria soddisfazione, ogni cosa al suo posto, ogni
colore
accostato al giusto compagno corrispondente. La luce del giorno
filtrava con parsimonia
dalle tende di broccato appena tirate, quel tanto che basta da lasciar
intravedere la vista sul giardino, curato da mani esperte e care agli
alberi
dalle sementi rigogliose fatti piantare anni addietro, con
l’intenzione di
rendere in futuro l’effetto splendente che quel giorno
colorava l’intero
palazzo.
Secondo il
detto
per cui gli elfi domestici assomigliano al padrone, non c’era
niente che
sfuggisse alle regole di ordine e misura, un trionfo di apollinea
perfezione
come la signora aveva deciso che
dovesse essere, lottando contro il volgare gusto
dell’ostentazione di quelli
che di lì a poco sarebbero divenuti suoi parenti per tutta
la vita. Una vita
che per quanto la riguardava, si augurava dovesse durare il minimo
indispensabile per ottenere qualche piccola rivincita e momento di
piacere, e
non si protraesse oltre, costringendola a fare i conti con una
vecchiaia non
voluta e una voragine al centro del petto, dove per chi ci crede
risiede
un’anima.
Nell’immacolata
staticità di quella sala da ricevimento, sette teste amorfe
scattarono
d’improvviso nel percepire il netto rimbombo di tacchi
sottili risuonare dietro
la porta di ingresso. Il più anziano degli elfi domestici, a
servizio quasi da
un secolo presso la facoltosa famiglia dei Nott, radunò con
un solo cenno della
testa tutti gli altri inservienti, disponendoli in linea retta dinanzi
alla
porta, pronti a chinare il capo in riverenza e a mostrare gli esiti del
loro
lavoro.
Tuttavia,
risultò ovvio a tutti che non fosse necessario allarmarsi
più di tanto, nel
momento in cui la porta del salone venne maldestramente aperta. La
padrona non
faceva mai niente con malagrazia, più per una dote di natura
che per reale
intenzione.
Semplicemente,
pur volendo, non era in grado di risultare goffa in qualcosa.
Millicent
Bullstrode ne sapeva qualcosa, destinata a rimanere
nell’ombra dei propri sogni
irrealizzabili; schiacciata dal peso di un cognome che mal si accosta a
qualsiasi altro – produce
un suono
cacofonico in ogni caso, farebbe notare Blaise Zabini in uno dei suoi
letali e
magnifici sorrisi abbaglianti – e che da sempre aveva
confinato se stessa nel
ruolo di damigella d’onore.
L’onore
per
altro le era dovuto dalla totale assenza di altre pretendenti al ruolo,
più che
per qualche sua dote, o prestanza fisica o particolare affezione da
parte della
sposa nei suoi riguardi.
Per inciso
la
sposa era la quintessenza dell’insofferenza e del netto
rifiuto a qualsiasi
forma di legame sociale, senza contare la niente affatto momentanea
indisposizione con cui si apprestava a vedere celebrare le proprie
nozze.
Con queste
consapevolezze ben impresse nella testa e una scatola per la sposa
saldamente
impugnata tra le mani, Millicent varcava la soglia del salone in quel
pomeriggio di novembre, ammirando la punta delle scarpe nuove riflessa
sul
marmo lucido sotto i suoi piedi e preparandosi psicologicamente ad
affrontare
uno degli incontri più pericolosi della sua vita.
Molte
persone
nell’arco della loro esistenza hanno finito con il desiderare
di essere Blaise
Zabini almeno per una volta, che vogliano accettarlo o meno, ammetterlo
o
negarlo, è certo che è successo. Chi
perché Blaise Zabini aveva una classe
innata e intrinseca; chi per il patrimonio che gli permetteva di
acquistare
capi che sottolineassero sfacciatamente quella eleganza; chi
perché era una
mente tanto brillante da non essere minimamente portato per la
aritmanzia ma
avere inspiegabilmente i voti più alti della classe.
C’era anche chi lo
invidiava perché volendo avrebbe potuto avere chiunque nel
suo letto ogni sera,
potendo scegliere persino l’orientamento sessuale del giorno,
non avrebbe fatto
differenza, uomini o donne, chiunque almeno una volta ha desiderato
finire
sotto le sue coperte con lui accanto.
C’era
poi chi
voleva essere Blaise Zabini per il semplice motivo che era il migliore
amico di
Pansy Parkinson, e non avrebbe avuto mai alcun genere di problema nel
doversi
rapportare con lei.
Tra queste
persone spiccava il nome di Millicent Bullstrode, dilaniata da un non
indifferente conflitto di interessi: se da una parte desiderava avere
la
benevolenza che Pansy riservava solo a lui, ed essere quindi Blaise
Zabini,
dall’altra parte voleva anche finire nel suo letto, ed essere
quindi con Blaise
Zabini. Questo indicibile tormento interiore andava avanti dai suoi
undici
anni, tuttavia forse era giunto il momento di attribuirgli
l’importanza dovuta
una volta tanto, considerando che con molte probabilità la
sua vita finiva quel
giorno, a ventidue anni, nella camera da
letto di Pansy Parkinson, Nott Manor, Novembre 2004.
●●●
«Dove
corre, Madmoiselle?»
Le
intenzioni di
Millicent vennero fermate dalla voce di qualcuno poco distante da lei.
Volgendosi indietro, ebbe modo di notare Blaise Zabini, posatamente
seduto in
un angolo del divano nel salone, intento a sorseggiare del brandy che
aveva
tranquillamente ordinato come se fosse a casa sua. Fingendo di non aver
trascorso sette lunghi anni a morire dietro la scia del suo profumo e
l’orma
dei suoi passi, Millicent si schiarì la voce approntando un
sorriso.
«Devo
portare
queste a Pansy» rispose cercando di non guardarlo troppo a
lungo e mostrando il
plico delle partecipazioni che aveva in mano. Blaise la
squadrò senza battere
ciglio, prendendo un sorso di brandy e gustandone il sapore sulle
labbra. Di
nuovo, Millicent finse di non voler essere il contenuto di quel
bicchiere.
«Capito»
fu la
risposta, accompagnata da un sopracciglio aristocraticamente inarcato
in
posizione di divertito scetticismo, e un sorriso sornione sulle labbra
chiare.
Se solo fosse stato un po’ più eloquente,
Millicent avrebbe potuto trarre
conclusioni certe, senza doversi domandare se quell’aria
minacciosa di
avvertimento che aveva assunto fosse o meno una sua impressione.
«Pansy
è di
sopra?» domandò con fare pratico, fremendo appena.
Blaise annuì senza perdere
quel sorriso indefinito.
«Nel
suo loculo.
Pardon, intendevo dire camera
nuziale»
si corresse mentre il sorriso mellifluo di poco prima lasciava il posto
ad un
bieco sarcasmo, per quanto filtrato dal tono carezzevole della sua voce.
Millicent
mise
da parte tutto l’amore che aveva per lui e lo
fulminò con lo sguardo,
riprendendo la propria strada.
«Non
le sei di
grande aiuto, Blaise, lo sai?» non poté fare a
meno di soggiungere a pochi
passi dalla rampa di marmo bianco che portava al piano superiore.
Blaise le
sorrise più indulgente, restando in silenzio per un
po’. Lo sguardo adagiato
sul piano in cristallo del tavolo che aveva davanti, sembrava stesse
scrutando
una verità più profonda nascosta nella goccia di
liquore scivolata dal
bicchiere.
«Non
è nei miei
piani esserlo».
Ancora
più
infastidita Millicent gli voltò definitivamente le spalle.
Del resto quel
legame tra Blaise e Pansy lei non era mai riuscita a comprenderlo.
Aveva sempre
pensato che forse c’era troppa affinità tra quei
due perché un terzo potesse
avere voce in capitolo, ma se così fosse stato, era
costretta a chiedersi quale
fosse il ruolo di Draco Malfoy lì in mezzo. Decisamente
strano, continuava a
ripetersi tutte le volte che finiva con il pensarci. Ogni tanto aveva
provato a
chiedere a Pansy di spiegarle come fosse successo che lei, Blaise e
Draco
fossero diventati tanto amici, ma non otteneva mai risposte. Un
po’ perché
Pansy non era a proprio agio con le domande, un po’
perché infondo una vera
risposta non l’aveva neanche lei probabilmente, non
esprimibile a parole
quantomeno. Di certo però tutti e tre nascondevano
accuratamente agli altri la
chiave di volta di quel loro legame, e nessuno era mai riuscito a
trovare quel
nascondiglio. Erano stati dei custodi astuti, schivi, silenziosi ed
irridenti.
Tipicamente Slytherin.
●●●
Can it be that it was all so
simple then
Or has time rewritten every line
If we had the chance to do it
all again,
Tell me, would we, could we?
[The way we were –
Barbra Streisand]
Tuttavia
parlare
di Draco Malfoy adesso non era
certamente una buona idea, e onestamente Millicent non riusciva a
capire
neanche come potesse Pansy trovare del conforto nel frequentare ancora
Blaise
Zabini, quando non faceva altro che sbatterle in faccia il fatto che il
trio
d’argento si era diviso da tempo, ormai.
Ben inteso
che a
lei non potesse che fare piacere, aveva molte più occasioni
di girare intorno a
lui in quel modo, ma le sembrava inequivocabile l’assenza che
permeava ogni
loro silenzio da quando gli anni di Hogwarts erano finiti e Draco
Malfoy e
Pansy Parkinson avevano smesso di rivolgersi la parola, di guardarsi,
di
incontrarsi, in qualsivoglia occasione.
«Pansy?»
domandò
bussando leggermente alla porta. Dall’interno non giunse
alcuna risposta se non
un fruscio di vestiti e un sospiro. Pensando che con molta
probabilità stava
provando il vestito per il ricevimento di quella sera, Millicent
sospinse la
porta ed entrò nella stanza immersa nella penombra, offrendo
un sorriso
conciliante all’amica.
«Volevo
chiedere
un parere a Blaise, visto che ha un indubbio buongusto, ma mi ha
infastidito
come al solito e ho lasciato perdere» comunicò
sfogliando le diverse tipologie
di partecipazione fino a trovare il prototipo che le sembrava
più appropriato. «Secondo-
».
In piedi su
quello che comunemente verrebbe chiamato sgabello da sartoria, Pansy
sembrava
poggiata su un piedistallo, avvolta nel bianco del suo vestito da
sposa,
lasciava che il tessuto di seta fine le fasciasse il corpo mentre
ruotava di
mezzo giro sulle punte, per potersi guardare meglio nello specchio.
Aveva lasciato
le tende semichiuse, così tutto quello che svettava nella
penombra della stanza
era il candore luminescente del vestito e la luce dei suoi occhi scuri,
fissi
nello specchio, eppure incredibilmente lontani.
Millicent
non
mosse un passo, restando a guardarla. I capelli neri erano raccolti in
uno
chignon approntato alla svelta poco dopo il risveglio, alcune ciocche
le erano
scivolate sul viso, adombrando la sua pelle chiara. Non le era mai
parsa tanto
bella e fragile come in quel momento, pensò distogliendo lo
sguardo come
abbagliata.
«Sei
bellissima».
Quella frase
era
risuonata nella stanza come fosse colpevole, mormorata flebilmente come
fosse
un’accusa o una verità scomoda e sconveniente da
dover tenere nascosta.
Millicent sapeva che Pansy non voleva sentirselo dire, ma era
così palese,
quanto fosse diventata bella nel tempo, che non aveva potuto fare a
meno di
rendere giustizia alla verità e lasciarselo sfuggire a mezza
voce, in un
respiro mozzato.
Alle sue
parole
tutto quello finì.
Pansy scese
dalle
punte, tornando ferma sulle piante dei piedi, gli occhi abbandonarono
il
riflesso di se stessi dallo specchio, e recuperando la bacchetta Pansy
ordinò
alle tende di aprirsi alla giornata. La luce della mattina
inondò la stanza,
travolgendo la figura esile di Pansy e macchiando di colore il bianco
perfetto
del vestito. Lo chignon si disfece del tutto mentre la regina di
ghiaccio
scendeva dal suo piedistallo e si toglieva il vestito da cigno. Con una
morsa
allo stomaco ancora più colpevole, Millicent non
poté fare a meno di pensare
che era comunque troppo tardi per rinnegare, e che se fosse stato
lì in quel
momento, Draco Malfoy l’avrebbe trovata ugualmente bella. Con
i capelli sparsi
disordinatamente sulle spalle, un vestito troppo lungo e, soprattutto,
con il
cuore spezzato dal susseguirsi di eventi della sua vita.
«Fa
vedere»
replicò ignorando il commento di prima.
Non avrebbe
permesso a nessuno di trovarla bella. Qualunque osservazione, qualunque
complimento che le venisse rivolto aveva il potere di farla
innervosire, di
mandare in pezzi il suo autocontrollo, di violentare la sua
intimità. Nessun
altro avrebbe dovuto posare gli occhi su di lei, a stento permetteva a
suo
marito di toccarla; quando facevano l’amore lei teneva gli
occhi chiusi e
approfittava della distrazione nell’estasi di Theodore per
poter cercare una
via di fuga in cui annidare i propri pensieri fino a quando tutto
quello non
fosse finito.
Millicent le
porse i cartoncini, sbottonando per lei la chiusura del vestito. La
seta
scivolava tra le dita con la stessa fuggevolezza con cui Pansy evitava
lo
sguardo di chi la conoscesse troppo bene.
«Blaise
è ancora
qui?» domandò continuando a scorrere i modelli di
partecipazione, con una
velocità che rasentava quasi la frenesia.
«Beve
brandy nella
Sala da Ricevimento» rispose Millicent lasciando trapelare in
tutta onestà un
certo astio nella voce. Le labbra di Pansy si adagiarono nella
morbidezza di un
sorriso lontano.
«Con
quel suo
impeccabile manierismo, riesce ad offuscare del tutto la maleducazione
del
gesto in sé» proseguì mentre Pansy
lasciava cadere il vestito ai propri piedi,
dimenticandolo in terra mentre trovava qualcos’altro da
mettere addosso.
«Sembra
che non
si ponga mai alcun problema lui, come ad esempio cosa
penserà Theodore del fatto
che qualcuno beve tutto il suo brandy».
Pansy
scrollò le
spalle con indifferenza, portando un pettine tra i capelli, davanti
allo
specchio.
Millicent si
domandò se avesse sentito anche mezza parola di quanto le
aveva detto, e notò
che aveva lo stesso sguardo lontano e sornione di Blaise poco prima,
tutto
preso a guardare quella goccia di liquore.
«Theodore
non
sopporta il brandy. Lo trova stucchevole».
Millicent le
lanciò un’occhiata sbalordita, ma non
riuscì a perforare la coltre di pensieri
segreti che Pansy condivideva con la propria immagine nello specchio.
Così
a Nott
Manor c’era una riserva speciale di Brandy per il signor
Zabini.
«Pans.
Certe
volte mi chiedo come faccia Theodore a sopportare tutto
questo».
Ammise
lasciandosi cadere sul letto con un sospiro.
Pansy le
offrì
un sorriso un po’ triste.
«Non
poteva
avermi ad altre condizioni».
What’s next
“Forse tra tutti e due, poteva credere di
amare più lui Pansy Parkinson di Draco Malfoy.
Si era dovuto ricredere, quando aveva
assistito di nascosto all’ultimo sguardo che lui le
lanciò.”
“Cosa mi avresti detto, Blaise? Se non ti
avessi detto che mi sposo.”
Chiese infine, con la dolcezza di un
perdono.
Lui non aspettava altro che il permesso di
poter cedere.
“L’ho visto”.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** II Preferenze ***
The way we were
II
Preferenze.
I want to ride to the ridge
where the west
commences
And gaze at the moon till I
lose my senses
And I can't look at hovels and
I can't stand fences
Don't fence me in.
[Don’t fance me in
– Bing Crosby]
Per quanto
strano
potesse sembrare a chiunque, e molto spesso anche a lui, Theodore Nott
era un
indefesso lavoratore. Non mancava mai una riunione, arrivava puntuale
in
ufficio, aveva sempre ordini da predisporre ai suoi sottoposti, e si
occupava
personalmente dei cavilli finanziari e legali dell’intera
famiglia Nott.
«Sono
tornato!»
Quindi al
rientro a casa non era sfinito solo perché andava di moda
dirlo nel togliersi
la giacca, ma perché in effetti aveva avuto diversi problemi
e imprevisti da
affrontare durante la giornata, e perché aveva un sincero
piacere nel tornare a
casa, ricevere un saluto caloroso dalla sua consorte e avere un
bicchiere di
scotch liscio da uno dei suoi fedeli elfi domestici.
«Oh
cielo, siamo
quasi commossi».
Se con il
tempo
aveva accettato con la forza l’idea che Pansy Parkinson non
fosse tipo da baci
sulla guancia e da “Bentornato
caro”,
non aveva ancora fatto pace con l’idea di trovare spesso e
malvolentieri Blaise
Zabini non solo in casa propria, ma sul suo divano, a sorseggiare
brandy da ottanta
galeoni e a ricordare alla sua promessa quanto stupido fosse sposare
Theodore
Nott.
«Blaise».
La mascella
serrata tanto da far stridere i denti tra loro, mentre più
che togliersi la
giacca la lanciava con evidente furia contro la spalliera del divano,
fino a
quando uno degli elfi non trotterellò prontamente a
recuperarla. Blaise inclinò
il bicchiere che stringeva tra le mani, con un sorriso di affettata
indisponenza. Per quanto segretamente si rammaricasse del destino che
era
toccato a Pansy, avere l’occasione di inferire su Nott gli
era cosa
particolarmente gradita.
«Mia
moglie?»
domandò poi il padrone di casa, senza riuscire a mascherare
il fastidio per
essere costretto a racimolare certe informazioni da un ospite e da un
ospite
che era Blaise Zabini. Quello scrollò le spalle, posando il
bicchiere sul
tavolo.
«Non
credo che
risponderà al tuo richiamo prima del matrimonio, se continui
ad usare
quell’appellativo» gli fece notare lasciando ad
intendere quanto lo disgustasse
l’idea di dover assistere ad un tale scempio di lì
a poco. «Tecnicamente, per
non dire con sua salvifica fortuna, è ancora la tua futura consorte».
Theodore
preferì
non dargli ulteriore spago, e tantomeno soffermarsi sul pensiero
piuttosto
fastidioso secondo cui con somma probabilità Pansy non
avrebbe risposto al suo
richiamo neanche dopo il matrimonio. Come dire, né ora
né mai.
La amena
conversazione fu interrotta dai tacchetti di Pansy, che ne annunciavano
l’ingresso imminente. In un turbine di buon profumo francese
entrò nel salone,
tra le mani ancora le partecipazioni che Millicent le aveva portato
quella
mattina e un cipiglio scettico al riguardo.
«Theo,
sei qui»
constatò arrestando i propri passi bruscamente, appena
riconobbe la sua figura
accanto a quella di Blaise. Lui le restituì un sorriso
piuttosto ovvio e le
baciò una tempia quando si fu avvicinata a sufficienza.
Pansy gli concesse un
sorriso di scuse per il poco calore con cui lo aveva accolto, per
quanto non
fosse assolutamente un’eccezione alla solita routine.
«Sì,
e mi
chiedevo se è strettamente necessario avere Blaise nel
nostro salotto ogni
sera».
La plateale
scortesia dell’affermazione in presenza del soggetto in
questione, cancellò
ogni forma di maleducazione, proprio perché voluta e
perché accompagnata da una
vena di non sottile sarcasmo nella voce.
Pansy si
soffermò sul pensiero una manciata di secondi, prima di
chinare la testa di
lato in una posa vezzosa e sorridere a Theodore, lanciando
un’occhiata
valutativa a Blaise.
«Sì,
si intona
con la tappezzeria, mi spiace» concluse altrettanto ironica,
lasciando una
carezza sulla spalla dell’amico mentre si versava da bere e
offriva un secondo
bicchiere a Theodore.
●●●
Pansy
Parkinson
non aveva affatto bisogno di consigli e consiglieri, questo era
evidente a
tutti.
Il
presenzialismo di Millicent nei preparativi del suo matrimonio era
tollerato a
stento, tanto per dirne una.
Pansy non
aveva
chiesto consigli neanche quando si era trattato di accettare la
proposta di
matrimonio di Theodore Nott. Si era attardata nel rispondere, solo per
godere
della preoccupazione sorta nei suoi genitori, fin troppo favorevoli a
quell’unione per i suoi gusti.
Quando da
piccola aveva manifestato tutta la sua insofferenza nei riguardi di
quel cumulo
biondo di spocchia e antipatia, che altri non era se non Draco Malfoy,
sua
madre l’aveva incenerita con lo sguardo e suo padre non
l’aveva degnata neanche
di un sospiro. Era più che certo che il suo parere non
avrebbe contato niente,
di lì in futuro, per sempre. Poi era malauguratamente
capitato, che Draco non
le dispiacesse più così tanto, e che nel
frattempo la lucentezza dei Malfoy
fosse andata spegnendosi. Ancora una volta, i suoi genitori erano
passati sopra
i suoi desideri, ed entrambi avevano ignorato deliberatamente lo
squarcio di
dolore che le aveva attraversato lo sguardo, nel prendere atto che
Draco non
sarebbe mai stato suo.
Theodore
Nott si
era affacciato pochi anni dopo la fine di Hogwarts e della guerra.
Tutti erano
presi a leccarsi le ferite, a contare le perdite finanziarie e piangere
i
propri morti. Lei non aveva nessuno per cui piangere se non se stessa e
i sogni
che erano andati infranti senza alcun rispetto della sua
volontà.
Avrebbe
voluto
piangere anche per Draco, ma in qualche modo non ne era capace.
Millicent aveva
cinguettato tutto il tempo che succedesse perché non
riusciva a metterlo da
parte e accettare che tra loro fosse finita. Pansy non aveva perso
tempo a
spiegarle che semplicemente non era mai iniziata.
Il
corteggiamento di Theodore fu esplicito ma discreto.
Rispettò i canoni imposti
dalla buona decenza, non varcò mai il confine, si
dimostrò propositivo e non le
impose mai alcuna sua scelta o richiesta. Per queste stesse ragioni,
Pansy non
perse mai la testa per lui. Inciso sul cuore aveva il nome di un altro,
che le
labbra si rifiutavano di pronunciare, ma Theodore poteva sentire il
sapore di
quel rimpianto e di quell’amore in ogni bacio scambiato con
lei.
Finse senza
troppe pretese che non fosse importante.
Qualcosa
nella
razionalità con cui curava il suo conto alla Gringott e si
prendeva cura delle
sue emozioni, gli suggerì sempre di non poter sostenere una
sfida contro Draco
Malfoy. Le avrebbe perse tutte, come sempre era stato.
La gara
clandestina durante la lezione di Quidditch al loro secondo anno.
La sfida a
chi
fosse più ricco, il primo giorno di scuola, sul treno.
Quella a chi avesse i
capelli più biondi, la pelle più chiara, il padre
più bello e il voto più alto
in Pozioni. Draco copiava dal vicino di calderone, ma il voto
più alto era
comunque il suo.
Vinse anche
la
gara a chi fosse più stronzo e intrattabile, chi
più ossessionato da Fleur
Delacour e disgustato da Hermione Granger. Di qualsiasi cosa si
trattasse,
Draco era sempre di più.
Durante
l’ultimo
anno, Theodore d’improvviso aveva creduto di poter vincere in
qualcosa.
Forse tra
tutti
e due, poteva credere di amare più lui Pansy Parkinson di
Draco Malfoy.
Si era
dovuto
ricredere, quando aveva assistito di nascosto all’ultimo
sguardo che lui le
lanciò. Pansy non se ne era accorta, e lui ovviamente non lo
avrebbe mai
rivelato a nessuno. Certe notti lo consolava l’idea che Pansy
potesse ritenerlo
vincitore di quella sfida. Gli offriva scioccamente una maggiore
sicurezza il
pensiero che Pansy credesse che al mondo ci fosse qualcuno in grado di
amarla più
di Draco Malfoy. E che
quel
qualcuno le avesse chiesto di sposarla.
●●●
Memories may be beautiful and
yet
What's too painful to remember
we simply choose to forget
So it's the laughter we will
remember
Whenever we remember the way we
were.
[The whay we were –
Barbra Streisand]
Subito dopo
aver
detto sì a Theodore,
meravigliandosi
di se stessa per essere riuscita a guardarlo in faccia nel farlo, Pansy
aveva
saputo che se non lo avesse detto a qualcuno, il dolore
l’avrebbe uccisa.
Consapevole di ferire i sentimenti di Millicent e della tenera fiducia
che
riponeva in quella loro pseudo-amicizia, Pansy aveva cercato Blaise
eleggendolo
di nuovo come proprio confidente.
Tuttavia,
una
volta che lo aveva avuto davanti, non era riuscita a dire niente.
Blaise
indugiò
velatamente con lo sguardo nei suoi occhi, cercando lì le
parole che non era in
grado di dire. In cuor suo, conosceva perfettamente il contenuto di
quell’annuncio.
E sebbene
foderato di velluto pregiato, il cuore di Blaise Zabini si concesse un
sentimento umano, di profondo dolore per la sua amica.
Non era
rammaricato per la Pansy Parkinson degli articoli di giornale, per
quella del
conto intestato alla Gringott, per la Regina degli Slytherin e il
Caposcuola di
Hogwarts. Sapeva che per quella Pansy non serviva provare dolore,
perché se la
sarebbe cavata, trovando un modo per evadere alle costrizioni di un
matrimonio.
Quel
dispiacere
insopportabile era tutto riservato alla Pansy che aveva conosciuto e
che solo a
lui si era mostrata, privandosi dei veli in cui era ammantata, con una
certa
inconsapevolezza prima, e con una rassegnata docilità dopo.
C’era
una parte
di Pansy che a tutto quello non sarebbe sopravvissuta, ed era la parte
migliore. Quella dei progetti e dei desideri. Era la Pansy capace di
una
tenerezza e spaventata dalle sincerità del cuore. Era quella
racchiusa nel
guscio, che rare volte si era affacciata in quella che lui chiamava la volgarità del mondo. Quella di
cui
persino uno come Draco Malfoy si era innamorato.
«A
quando l’annuncio
della lieta novella?»
Le aveva
chiesto
scostandosi da lei per accendersi una sigaretta. Nella sua voce
risuonò una
durezza di cui si pentì un attimo dopo.
«Non
lo so. Ci
penserà la famiglia di Theodore. O la compiacenza di mia
madre».
Rispose lei,
avvezza
ai graffi del sarcasmo, sporgendosi a rubargli la sigaretta dalle
labbra.
Poggiò le labbra nel punto in cui lui le aveva strette poco
prima, soffiando
una nube al sapore di bergamotto e amarezza.
«Millicent
è
scoppiata in lacrime, immagino».
«Ancora
non è al
corrente. Sei il primo».
Con un
sorriso
obliquo gli restituì la sigaretta.
«Allora
piangerà
di sicuro per questo».
Pansy non
poté
fare a meno di pensare a quanto indispensabile le fosse Millicent in
fin dei
conti. Con il tempo le era risultato chiaro quanto speculari fossero.
Millicent
non era altro che lo specchio delle proprie emozioni; metteva in scena
i
sentimenti che in Pansy restavano avvinghiati all’orgoglio e
alla decenza. Era
lei ad avere una gran voglia di piangere, ma i suoi occhi non
conoscevano
lacrime.
«Gli
prenderà un
infarto».
Sussurrò
Blaise,
scrollando un po’ di cenere e abbandonandosi sul letto, di
colpo aggredito da
una stanchezza che gli gravava più sull’anima
– ovunque fosse finita – che sul
corpo.
Pansy
cercò in
ogni modo di non lasciarsi trafiggere da quel pensiero.
Fallì.
«Non
credo».
Replicò
ghiacciando ogni espressione.
Da quando
gli
eventi erano precipitati, in quegli anni, lei e Blaise parlavano di lui
il meno
possibile e quando capitava, nessuno dei due pronunciava mai il suo
nome. Pansy
sapeva che da parte di Blaise quella era una delicatezza, una tenera
accondiscendenza alla propria incapacità.
La
verità era
che Draco era sempre tra loro, nella mancanza e nel ricordo di lui.
Nello
scorrere dei mesi e degli anni, che lo vedevano crescere come tutti, ma
lontano
da loro.
Pansy non
chiedeva mai di lui, neanche a Blaise. A volte lo sguardo la tradiva, e
Blaise
sapeva bene che avesse i suoi modi per accertarsi che tutto procedesse
bene
nella vita di Draco, il patto era non chiedere mai ad alta voce, non
adagiare
mai il pensiero sul ricordo di lui, non lasciare la
curiosità a briglia
sciolta.
Rispondeva
solo
ad una necessità più forte di ogni ferrea
imposizione della sua razionalità.
L’unico bisogno che Pansy aveva, era quello di saperlo vivo e
relativamente al
sicuro, soprattutto da se stesso.
Blaise in
segreto era sempre rimasto affascinato da quella conoscenza fine che
Pansy
aveva di Draco. Lui era l’amico, era il compagno di
goliardia, il confidente
maschio, lo aveva visto nudo molte più volte di Pansy, aveva
diviso con lui una
certa intimità quasi cameratesca, eppure non era mai stato
in grado di
infiltrarsi tanto intimamente nella sua psicologia.
Non
conosceva
gli anfratti remoti della sua personalità. Era un ottimo
lettore, ma Pansy era
molto più di quello, molto più di una attenta e
affezionata lettrice: lei
sapeva interpretarlo.
«Dovresti
dirglielo».
Proseguì
Blaise,
ignorando l’ostilità con cui l’amica
affrontasse l’argomento.
Pansy si
lasciò cadere
accanto a lui, confondendo lo sguardo nei bagliori del lampadario in
cristallo.
«Non
sono così
vendicativa».
Mentiva
spudoratamente.
«Lui
te lo ha
detto».
«Non
aveva
scelta».
Le parole
sfuggivano alle loro labbra come battute di un copione scritto da tempo
per
loro e per quel momento, che entrambi già conoscevano, da
sempre. Tanto da non
aver bisogno di leggere sul testo.
Scese il
silenzio su loro e su Draco, mentre il sipario faceva fatica a
chiudersi del
tutto sullo scenario desolato della loro malinconia.
Pansy
aspettava
paziente che Blaise le svelasse il segreto che aveva custodito fino a
quel
momento, da quando l’aveva trovata davanti alla porta della
sua camera quel
pomeriggio.
«Cosa
mi avresti
detto, Blaise? Se non ti avessi detto che mi sposo».
Chiese
infine,
con la dolcezza di un perdono.
Lui non
aspettava altro che il permesso di poter cedere.
«L’ho
visto».
Pansy chiuse
gli
occhi, sprofondando nell’immaginazione di
quell’incontro. Lo vide in quel suo
modo di non essere bello, e cercò subito di dimenticarlo.
«Può
succedere».
Minimizzò
cercando di sciogliere quel nodo alla gola che le impediva il respiro.
A lei
non capitava mai di incontrarlo né di vederlo,
perché scioccamente faceva di
tutto perché non accadesse. Si sentiva un po’ una
bambina, tutta presa a remare
controcorrente nel mondo degli adulti; dove si ostenta una eterna
sicurezza,
facendo finta che il cuore non possa spezzarsi.
«Lo
inviterai al
ricevimento?»
«Come
ho
invitato tutti gli altri».
Si
tirò su,
sistemando i capelli e la gonna, tornando a specchiarsi per recuperare
la
giusta impeccabilità. Blaise restò ad osservarla,
meditabondo, sul letto. Pansy
incrociò il suo sguardo nello specchio ma non
riuscì a sostenerlo tanto a
lungo.
«Preferirei
che
non ti sposassi, Pans».
Le venne da
ridere, perché sembrava quasi un suo capriccio.
«Io
invece
preferirei che tu lo facessi» scherzò cercando di
allontanare il desiderio di
dargli ragione.
Blaise si
ritrasse dalla carezza che fece per rivolgergli, con sguardo
oltraggiato e
ferito.
«Quella
donna
non mi avrà mai».
Pansy rise
come
rideva da bambina e Blaise ebbe l’impulso di abbracciarla.
Invece la sua mano
si fermò sul suo fianco sottile, fermato a metà
da un impaccio di vecchia
memoria. Fermi in quel modo, condivisero entrambi il desiderio di
prendersi per
mano e tornare a ballare quella canzone anni sessanta, in quella strada
di
Provenza, con Draco alle loro spalle e la certezza di avere tanto altro
da
condividere insieme.
What’s next
“Tra tutti loro, non c’era
dubbio che Draco
fosse stato quello che più direttamente aveva combattuto
quella guerra.”
“Non era una promessa e sapeva che Pansy
ne
fosse consapevole”.
Thanking…
sweetchiara: Grazie *_* Sono onorata
che sia finita tra i tuoi preferiti ^^ Per
Draco c’è da pazientare ancora un poco,
come sempre il pargolo Malfoy fa la sua comparsa per ultimo certo che
tutte le
attenzioni siano per lui =P
Nissa: Grazie anche a te =) Sono
commossa al pensiero che qualcun altro veda tante altre cose in Pansy,
vederla
bistrattata in primo luogo dalla sua creatrice mi addolora molto ._.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** III Excursus ***
The
way we were
III
Excursus
Early
dawning
Sunday morning
It's just the wasted years
so close behind
[...]
and
I'm falling
I've got a feeling
I don't want to know
[Sunday Morning
– Velvet Underground]
Blaise
Zabini non
amava convenevoli né contratti di buoncostume. Si prendeva
da sempre la libertà
di comportarsi secondo un suo personale codice di simpatie e antipatie,
e per
quanto questo causasse scompensi al resto del mondo, a lui e a chi
godeva della
sua benevolenza andava benissimo così.
Draco Malfoy
e
Pansy Parkinson facevano parte della categoria e avevano accettato di
poter
tollerare quel suo modo di fare spregiudicato e libertino,
perché tutto sommato
ricevevano in cambio i servigi di un ottimo amico.
«Sparisci»
fu
tuttavia l’accoglienza che Draco gli riservò
trovandolo davanti alla porta
della sua abitazione, plasticamente appoggiato al muro di ingresso,
intento a
scrollare la cenere della sua sigaretta sugli scalini
d’entrata.
«Non
posso, ho
un lavoro da sbrigare».
Draco gli
lanciò
un’occhiata poco rispettosa, alzando gli occhi al cielo. Con
il tempo era
diventato ancora più insofferente di quanto non lo avesse
plasmato la natura
stessa. Lucius aveva trasferito nel figlio i geni dei suoi difetti,
più che
quelli dei suoi pregi, ma Draco e Narcissa avevano finito con il
perdonarlo
anche per quello. Averli venduti al Signore Oscuro era stato
leggermente più
difficile da mandare giù invece.
«Astoria
cerca
un amante a pagamento?»
Domandò
senza il
minimo tatto, lasciandogli tuttavia aperta la porta per entrare.
Blaise
gettò la
sigaretta per terra senza nascondere
l’intenzionalità del gesto, e lo seguì
all’interno della dimora Malfoy.
«Tu
non la
soddisfi?»
La
sfacciataggine di Blaise e l’eleganza con cui elargiva a
chiunque della sana
ironia a sfondo sessuale era nota ai più, e del resto Draco
l’aveva condivisa
con lui più di una volta. Ma dal suo matrimonio erano finiti
anche quei tempi.
La guerra aveva esacerbato qualsiasi umorismo con i suoi lasciti, senza
contare
il resto.
«Cosa
vuoi
Blaise?»
«Quel
paralume
di tua madre. E’ delizioso».
«Non
aspettavamo
altro, Blaise, ti prego di prenderlo e privarci di tale
orrore».
Si intromise
una
voce troppo femminile per poter essere quella di Draco. Cercando di non
annegare nello zucchero del suo sorriso, Blaise si voltò
verso Astoria un tempo
Greengrass ora malauguratamente Malfoy, reclinando l’invito,
senza perdere
tempo a spiegare che differenza corresse tra ironia e
serietà di intenti.
Per altro
definire orrore un oggetto
appartenuto
a Narcissa Malfoy era quantomeno azzardato e indice di poca scaltrezza,
oltre
che di gusto estetico. A parte il suo mascolino disinteresse per un
oggetto
come un paralume, non c’era niente da ridire sulla sua
qualità estetica. Del
resto, portava il marchio della scelta di Narcissa.
«No,
in realtà
sono più interessato a Draco. Nell’altro
senso».
Si
divertì ad
intingere l’affermazione nella più totale
ambiguità, scoccando a Draco uno sguardo
quasi inequivocabile. Mentre Astoria osservava di sottecchi i movimenti
dei
due, diretti verso il giardino della residenza, Blaise offriva al
vecchio
compagno una preziosa sigaretta al solito sapore di bergamotto,
sancendo così
una tregua momentanea tra loro; e assicurandosi la garanzia di
scatenare una
lite in casa Malfoy.
«Non
avrei mai
pensato che avresti sposato una non fumatrice».
Draco
ignorò con
abile maestria dettata solo da lunga esperienza, l’illazione
di Blaise.
«Tua
madre lo
sa, che disprezza la sua oggettistica?»
Proseguì
imperterrito l’altro senza il minimo riguardo di abbassare il
tono di voce.
Draco
continuò a
non prestargli attenzione, concentrandosi sul possibile motivo della
sua
visita.
A Blaise,
Malfoy
Manor non era mai piaciuta. La trovava troppo gotica, troppo fredda,
troppo
austera pur nella sua eleganza. E adesso la trovava anche pacchiana, da
quando
Astoria Greengrass vi aveva introdotto il suo buonumore, intriso dei
migliori
propositi di novella sposa. Quella casa non era adatta al rumore della sua voce, alla confusione
dei suoi vestiti, alla
musica che la riempiva scontrandosi contro i soffitti alti.
Si chiedeva
un
po’ perplesso come Draco potesse accettare una vita fatta in
quel modo.
In silenzio,
Draco si poneva le stesse domande, giorno dopo giorno, da quando era
diventato
grande.
●●●
Tra tutti
loro,
non c’era dubbio che Draco fosse stato quello che
più direttamente aveva
combattuto quella guerra. Gli altri si erano visti cadere addosso il
fallimento
della mirabile costruzione dell’impero di Lord Voldemort, ed
avevano dovuto
prendere provvedimenti.
Ognuno aveva
qualcosa da perdere e molto da difendere, si erano rimboccati le
maniche e
avevano impugnato le proprie bacchette. Le loro mani tremavano, nessuno
escluso, il giorno della battaglia, nessuno era realmente pronto ad
affrontare
uno scontro diretto.
La decisione
dei
movimenti, la fermezza delle convinzioni, la sicurezza degli intenti
teorizzate
nelle cene di famiglia avevano ben presto svelato la loro
fragilità. Nessuno
voleva realmente una guerra, né rischiare la vita,
né avere la vita di qualcuno
sulla coscienza.
Draco lo
aveva
capito prima di tutti e non aveva saputo come spiegarlo.
Draco a
differenza di altri non aveva avuto scelta, a lui era toccata una
minaccia che
non aveva saputo sopportare fino alla fine.
Il peso del
suo
segreto aveva scavato un solco profondo in lui.
Pansy
Parkinson
era stata la prima a vederne le tracce, a leggerne i perché.
In preda al panico
lui aveva chiuso il libro sotto il suo naso, perché non
potesse leggervi oltre.
Sapeva che sarebbe successo qualcosa di terribile se lei avesse
scoperto ogni
cosa, e già allora non riusciva a distinguere se la paura
maggiore fosse per il
piano che sarebbe fallito, o per Pansy, che ne sarebbe stata coinvolta.
Non che non
volesse una spalla, un appoggio, qualcuno con cui dividere il fardello.
Dopotutto Potter aveva i suoi fidi compagni, e Draco si sentiva
svantaggiato in
quel confronto. Pansy e Blaise avrebbero potuto molto, ma sentiva che
non c’era
spazio per loro.
Lui non era
in
grado di concederglielo e l’immagine di suo padre era un
baluardo difficile da
espugnare. Lucius Malfoy aveva fatto tutto da solo.
«E ha perso» gli
disse una sera Pansy,
con uno sguardo terribilmente serio.
Draco non
trovò
niente da dire sul momento, perché infondo gli sembrava la
verità.
Da quella
sera
gli eventi precipitarono poi, senza un momento di tregua o di
indecisione. Le
cose iniziarono a sfuggirgli di mano, quando era ormai troppo tardi per
chiedere aiuto e ammettere di non essere abbastanza bravo e scaltro da
uccidere
qualcuno. I giorni si susseguirono veloci e terribilmente lente le
notti.
Scoprì cosa fosse l’insonnia e cosa gli incubi.
Desiderò avere qualcuno a cui
raccontarli ma poi raccontò a se stesso di quanta
incomprensione avrebbe
trovato negli altri e mise a tacere in quel modo il suo bisogno.
Blaise e
Pansy
occuparono sempre le sue giornate, ogni spazio libero, per quanto lui
fosse
diventato ombroso e intrattabile. Theodore Nott gli dichiarò
apertamente guerra
un pomeriggio, ma Draco non prestò neanche ascolto alle sue
parole, troppo
preso a cercare di non far uccidere suo padre e sua madre.
La maggior
parte
della gente che divideva la sua stessa Casata avrebbe ritenuto che per
uno come
Lucius Malfoy neanche ne sarebbe valsa la pena. L’opinione
comune vedeva suo
padre come un venduto al prezzo più basso, incapace di
vivere senza un padrone.
Ribolliva di rabbia al solo pensiero che la considerazione per suo
padre
giungesse a livelli tanto bassi e soprattutto tanto ingiusti, ma non
disse mai
a nessuno quanto sbagliati fossero i loro pensieri, perché
nessuno mai li
espresse a voce alta.
Non
spiegò mai a
nessuno che genere di uomo fosse suo padre, quanto imperfetto e quanto
facile
da amare tuttavia per un figlio. Forse perché lui stesso non
ne era tanto
consapevole allora.
Scoprì
l’idea
che aveva di Lucius tutto in quel periodo, quando lui era lontano e non
poteva
coprirlo con la sua ombra.
Allora Draco
si
rese conto della mancanza che avesse di suo padre. La
rigidità con cui era
stato cresciuto gli tornò utile nei momenti più
impensati. Tutta la rabbia
provata verso il genitore, per l’austerità della
sua figura che lo rendeva
tanto irraggiungibile e difficile da emulare, scomparve nel giro di un
niente,
quando si rese conto che gli veniva da piangere al pensiero di non
poterlo più
avere per sé.
Era suo
padre,
questo avrebbe voluto spiegare a tutta l’altra gente. Ma che
potevano saperne
loro? Di quanto ci fosse nascosto nelle pieghe del suo mantello.
Certo che
valeva
la pena salvarlo, era suo padre e per suo padre lui avrebbe anche
accettato
l’idea di poter morire, l’unico pensiero che gli
era insopportabile, era quello
di fallire nel suo compito e di deluderlo una volta di più.
I'll be your mirror
reflect what you are, in case
you don't know
I'll be the wind, the rain and
the sunset
the light on your door to show
that you're home
[I’ll be your mirror
– Velvet Underground]
Non
sopportava
gli sguardi della gente, il giudizio degli altri – di cui lui
aveva ampiamente
fatto parte prima di finire dall’altro lato della barricata
– non tollerava le
mani sulle spalle di chi si sentiva triste per il suo muso lungo e
soprattutto
odiava le domande della gente.
Si sentiva
un
derelitto.
Certi giorni
non
faceva altro che mendicare attenzioni di nascosto dagli altri.
Capitò una
mattina.
Si
alzò e scoprì
che più che la soluzione al suo dilemma, avrebbe desiderato
un po’ di
comprensione. Che qualcuno gli chiedesse come
stai invece di fingere che fosse il solito Draco,
strafottente e sardonico.
Però non era in grado di gestire quel suo bisogno, in
verità.
Tanto
è vero che
quando fu Pansy a fargli capire implicitamente di essere preoccupata
per lui,
reagì come lo stronzo che era sempre stato, quando i giochi
erano facili.
Quando non
aveva
bisogno di conforti e sicurezze, perché era capace di
procurarsele da solo.
Pansy
però non
si ritrasse. Mascherò dietro un sorriso sornione la ferita
al suo orgoglio;
finse di averlo capito quando invece si domandava perché non
le concedesse
qualcosa di più. Perché non si concedesse
qualcosa di più.
«Non
sono affari
che ti riguardano Pans».
Le disse
bruscamente, guardandola storto.
«Draco,
tu sei un affare che mi
riguarda».
I suoi occhi
neri non vacillarono nel dirlo, non mollarono la presa neanche un
istante e lui
ne fu spaventato e ipnotizzato al tempo stesso. Fu lui ad abbassare lo
sguardo,
incapace di ringraziare e di spiegare il suo stupore. Ancora una volta
pensò a
suo padre, a cosa sarebbe stato di loro se anche lui si fosse sentito
dire una
cosa simile, a tempo debito. Se fosse questo il genere di cosa capace
di
salvare qualcuno dalla fine.
«E’
complicato»
Borbottò
allontanandosi da lei e dal suo profumo. Iniziava a confondersi.
«Fa
un
tentativo»
«No».
Sperò
che la sua
ostinazione la inducesse a lasciar perdere.
«Come
vuoi»
Concluse
lei,
alzandosi dal divano e raccogliendo le sue cose. Draco si
sentì quasi tradito
da quella arrendevolezza, nonostante avesse sperato che lasciasse
perdere sul serio.
Si voltò a guardarla, mentre lei era impegnata in altro, con
uno sguardo perso
tra il sollievo e la delusione. Sarebbe tornato tutto come prima dopo
quella
parentesi. Lei avrebbe iniziato ad ignorare le sue occhiaie, il pessimo
umore,
lo sguardo assente, come facevano tutti gli altri, e avrebbe suggerito
a Blaise
di fare lo stesso.
«Vado
a dormire.
Dovresti farlo anche tu, a dire dalla tua faccia».
C’era
un
contegno offeso nella sua voce. In piccola parte lo sollevò
di nuovo.
«Mhmh.»
Mormorò
assente
lui. Guardava fisso davanti a sé, dietro la finestra chiusa.
Ma in realtà gli
occhi seguivano i movimenti di Pansy, riflessi nel vetro.
Osservò il suo
indugiare, il rallentare gli ultimi gesti, prendendo tempo, incerta se
aggiungere altro, se fare qualcosa, almeno la metà di tutto
quello che avrebbe
voluto fare. Ancora una volta sperò che lo facesse,
temendolo al tempo stesso.
«Comunque,
sei
carino anche così».
Fece fatica
a
non voltarsi, a non muovere un muscolo, a non sorridere.
«Con
le
occhiaie».
Soggiunse
lei.
Draco non poteva vederla ma avvertì il sorriso tra le sue
parole. Nel muoversi
nel piccolo ambiente della Sala Comune non faceva il minimo rumore, era
tutto
un soffio leggero, che però spandeva il suo profumo ovunque.
«Fammi
il favore
di non dire a Blaise che ti ho detto queste…»
La sua voce
si
era spezzata quando lui l’aveva fermata, stringendole le dita
gelide attorno al
polso sottile. Da lì il profumo era ancora più
forte. Delizioso avrebbe detto sua
madre, come aveva detto del paralume
nell’ingresso, regalatole da Lucius.
C’era
un’attesa
nei suoi occhi, che lui non seppe tradire.
La
baciò e non
fu per ringraziarla, ma perché tutto sommato gli andava di
farlo. Non è che lo
volesse e basta, è che gli sembrava quasi necessario, per se
stesso. Dopotutto
lei glielo aveva offerto, con tutto quell’insistere per farlo
parlare. Era solo
il suo modo di prendere l’offerta, non c’era niente
di sbagliato, di
disdicevole… niente di più perfetto.
Non era una
promessa e sapeva che Pansy ne fosse consapevole.
Era troppo
intelligente e tutto sommato lo conosceva troppo bene per poter credere
diversamente.
Era solo un
bacio e l’espressione di un desiderio.
L’ammissione
di
un progetto che più volte lo aveva sfiorato, di certo
più volte di quanto lei
si fosse concessa di credere, per non illudersi. Da quando i loro
genitori li
avevano presentati, lasciando ad intendere che una più che
simpatia tra loro
sarebbe stata gradita.
Da allora
fino a
quel momento, gli era capitato di pensare che avrebbe potuto baciarla
molto a
lungo e non sarebbe stato un favore fatto a nessuno se non a se stesso.
E lei era
sembrata d’accordo.
●●●
Poi ogni
cosa si
era compromessa, fino a quel punto.
Al punto in
cui
lui aveva sposato una donna bella, forse più bella di Pansy,
ma che non riusciva
a comprendere fino in fondo gran parte delle ragioni di suo marito.
Astoria era
allegra e propositiva. Era entrata a Malfoy Manor piena di idee in
fatto di
arredamento, e progetti su feste e ricevimenti, che avrebbero calcato
le gesta
della precedente padrona di casa. Lui l’aveva lasciata fare,
stordito da tutto
quello che era successo.
Poteva dire
di
essersi sposato con una certa inconsapevolezza.
Suo padre al
matrimonio non c’era, ancora impegnato a scontare i suoi
errori, ad Azkaban, e
Draco non era stato in grado di spiegare
l’intensità della sua mancanza.
«Forse
dovresti
aspettare» gli aveva detto Pansy, pochi giorni dopo la
rivelazione
dell’imminente matrimonio e lui non aveva capito.
Troppo preso
a cercare
il coraggio di guardarla ancora in faccia. A cercare un modo per
resistere alla
tentazione di prenderla tra le braccia e baciarla ancora come quella
volta,
come tutte le altre che c’erano state.
Non aveva
capito
che Pansy intendeva aspettare suo padre
e non lei.
E quando il
giorno del matrimonio aveva sentito quella fitta lancinante al pensiero
che suo
padre non fosse lì, e aveva compreso le parole di Pansy, si
era accorto di
tutto il sentimento che aveva per lei e di quanto fosse lei a
meritarlo.
Se ne era
accorto tragicamente, irrimediabilmente, troppo tardi.
●●●
When you think the night has
seen your mind
that inside you're twisted and
unkind
let me stand to show that you
are blind
Please put down your hands
'Cause I see you
[I’ll
be your mirror – Velvet Underground]
«C’è
qualcosa
che posso fare per te?»
Chiese con
ironia rivolgendosi all’amico.
Blaise aveva
alzato le spalle, con la sua solita aria di noncuranza. C’era
molto che Draco
Malfoy avrebbe potuto ma che era troppo pigro per fare effettivamente.
In un gesto
di
somma gentilezza ad esempio, avrebbe potuto mettere al lavoro la sua
mente
infida e machiavellica – quella che il mondo intero sapeva
possedere – e
trovare un escamotage per togliergli di dosso Millicent Bullstrode. O
per renderla
sufficientemente carina perché lui si sentisse lusingato e
stimolato dal suo
amore indefesso.
Avrebbe
potuto
lasciare sua moglie, su due piedi, e portare dentro Malfoy Manor la
vera e
giusta padrona di casa; che non sarebbe stata una perfetta donna di
mondo, dal
sorriso affabile e capacità oratorie invidiabili per
intrattenere gli ospiti;
né un amante sempre vogliosa o una futura amorevole madre
dei pargoli Malfoy; e
non sarebbe stata neanche la donna dei sogni scelta da Narcissa Malfoy
o una
discendente di stirpe reale o chissà chi altro. Sarebbe
stata una donna
elegante e intelligente, in grado di dare torto a Draco Malfoy con
sfrontatezza
e coraggio. Capace di amare il suo pessimo carattere e farsi amare per
il
proprio, di incastrarsi perfettamente con i lineamenti spigolosi del
suo volto
e avere in comune con lui una lunga serie di difetti.
Era
così
fastidiosamente banale, che fosse Pansy Parkinson, che quasi trovava
imbarazzante dirlo.
Ma
comprendeva
la dolorosa consapevolezza di Draco, nel saperla la donna perfetta per
lui
perché altrettanto ambita e amata. E sapeva anche che se
c’era qualcosa in
grado di sfinire e distruggere Draco Malfoy, era non poter avere
qualcosa di
sinceramente desiderato.
«C’è
qualcosa
che io posso fare per te?»
Draco lo
guardò
con uno sguardo sinceramente preoccupato e irrisorio, e per riprendersi
dallo
shock si accese un’altra sigaretta.
«Ti
ho già fatto
capire in lunghi anni che non sono interessato alle tue prestazioni
sessuali»
Rispose
assaporando l’odore di bergamotto della sigaretta,
rigorosamente senza filtro.
Blaise finse di incassare il colpo e sfoderò la migliore
faccia affranta che la
sua vasta gamma di teatralità espressiva gli consentiva.
«Che
vuoi farci,
il bianchiccio della tua pelle accende in me fuochi roventi»
Portò
nel mentre
una mano all’interno della giacca, estraendone una busta
rettangolare in
perfetto stato di conservazione. Draco la guardò
incuriosito.
«Naturalmente
la
sola idea mi repelle» si affrettò ad aggiungere
dissacrante, con un tono molto deciso
e un accento molto virile.
«Sono
venuto per
questa».
Draco
esitò
diffidente prima di allungare la mano a prendere la busta.
«Che
cos’è?»
«Un
avviso di
sfratto».
Alla
risposta a colpo
sicuro di Blaise sopraggiunse un colpo molto forte da parte di Draco.
«Idiota»
«Ah-ah
non
piangere sul Crabble vessato»
Commentò
serafico al tono poco cordiale usato dall’amico. Draco si
riservò alcuni
secondi per accertarsi che lo avesse detto davvero, prima di sollevare
gli
occhi dalla carta intestata della busta.
Blaise ebbe
bisogno di alcuni minuti di sincera riflessione per giungere alla
conclusione
definitiva.
«D’accordo,
era
un po’ indelicata».
Draco
annuì
ridendo sotto i baffi, e fece per aprire la lettera, momento in cui
Blaise
recuperò il proprio mantello, rubò la sigaretta
dalla bocca di Draco e annunciò
che avrebbe tolto il disturbo.
«Credevo
che
avresti saccheggiato la riserva di liquore prima di sollevarmi dalla
tua
nefasta presenza» osservò Draco.
Blaise
allacciò
il mantello sotto al collo.
«Lungi
da me
essere presente al momento in cui diventerai un uomo distrutto. Le
tristezze
della guerra e i suoi orrori mi sono bastate».
A quel punto
Draco si sentì legittimato a preoccuparsi per se stesso.
«Deduco
che ci
vedremo dopodomani sera».
Asserì
indicando
con un cenno del capo la lettera di invito al ricevimento a Nott Manor
che
Draco aveva ancora in mano. Draco abbassò lo sguardo sempre
più perplesso.
«Porta
i saluti
alla tua incongrua metà».
Poi
svanì in una
nube di profumo francese e bergamotto.
What’s
next
“Se
Pansy Parkinson fosse morta, Astoria avrebbe potuto fare leva sulla
crudeltà
del destino e l’inevitabilità delle leggi di
natura. Ma Pansy era viva”.
“Nel
silenzio di Malfoy Manor, di cui per quei due giorni e quelle due notti
erano
stati i soli padroni, avevano stappato una bottiglia di vino
rosso”.
Thanking…
sweetchiara: Blaise è
insopportabile, non vorrei mai avere a che
fare con lui temo =P O potrei rischiare di cadere nella malattia di
Millicent
XD La solitudine degli Slytherin è un pensiero che
condivido, li ho sempre immaginati
un po’ così, scostati dal mondo comune un
po’ per loro scelta un po’ per la
natura che li riveste. Però penso anche prima o poi tutti i
serpenti cambiano
la muta, no? XD Grazie per i commenti che lasci, spero che questo Draco
non
deluda troppo.
Nissa: Se Theodore avesse una
capacità d’agire credo che mi farebbe
causa per diffamazione e per rovina dell’immagine pubblica XD
Ma pazienza, al
prossimo turno giuro che mi impegnerò a trovare
un’altra vittima dell’angst che
Pansy e Draco creano. -> ci crede poco anche lei, si
è affezionata. Spero
che anche questo capitolo sia all’altezza delle aspettative,
un bacio =)
B e r t a: Grazie mille *_* Eccoti il
seguito ^^ Bacio.
Piccolissimo appunto.
Mi
rendo conto di essere un po’ monotematica
con gli spunti con le citazioni musicali in ogni capitolo XD Sono tutte
canzoni
e artisti che amo visceralmente e ne consiglio l’ascolto
però ^^
/
Fine pubblicità occulta a chi non
ha bisogno che gliene venga fatta.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** IV Memoria ***
The
Way We Were
IV
Memoria.
I saw
you this
morning.
You were moving so fast.
Can’t seem to loosen
my grip
on the past.
And I miss you so much.
There’s no one in
sight.
And we’re still
making love
in my secret life.
[In my secret life –
Leonard Cohen]
«Pansy,
tesoro».
Theodore
Nott
aveva da sempre avuto la lesiva tendenza a cercare compromessi con
Pansy
Parkinson, fin dai tempi di Hogwarts. La maggior parte dei compagni di
Casata,
e i Caposcuola delle altre tre Case avevano capito ben presto quale
fosse la
cosa più conveniente da fare: darle ragione, o offrire
qualcosa in cambio, per
cui valesse la pena una sua ipotetica concessione.
Invece
Theodore
aveva quella ridicola ossessione che hanno tutti gli innamorati, ed era
ancora
convinto di poter ottenere un dialogo con lei.
Pansy non si
era
fatta scrupoli e sin dall’inizio della loro relazione aveva
lasciato ad
intendere di avere ben poca voglia di parlare, in primo luogo di
sé. Theodore
sosteneva di non averne bisogno. Era già innamorato di lei,
di quello che lei
non sapeva neanche di avere.
Pansy ci
aveva
riflettuto, poi aveva deciso di poter fingere che lui avesse ragione e
che così
fosse davvero. Di avere dei lati nascosti che meritavano
l’affetto a tal punto
sincero di un uomo onesto e generoso di sentimenti come era Theodore
Nott. Si
era sempre chiesta che ci facesse uno come lui a Slytherin, come
avrebbe potuto
sopravvivere lì in mezzo, lui che aveva ancora tanta fiducia
nelle persone.
Invece ce l’aveva fatta, perché lo aveva scoperto
un ottimo calcolatore. Non
gli piaceva ma all’occorrenza non opponeva principi.
Lì giaceva la sottile
differenza tra uno Slytherin e un Gryffindor dal cuore d’oro.
«Sei
sicura?
Possiamo sempre ritrattare su qualcosa di meno… estroso. So
che odi discutere
con mio nonno, ma per il nostro matrimonio potrebbe anche tacere una
volta
tanto».
Pansy
lasciò
ricadere i propri capelli sulle spalle, sciogliendo lo chignon.
Aveva
addosso
tutti gli odori della serata, un miscuglio di profumi e acque di
colonia, e
tutto quello che poteva desiderare era un po’ di silenzio e
un bagno caldo.
«Theo,
sono
troppo stanca per pensarci ora. Il silenzio di tuo nonno vale cento
orrori
floreali».
La sua voce
andò
spegnendosi mentre riponeva collana e orecchini al loro posto, e
lasciava
riempire la vasca di acqua bollente, immergendovi scaglie di sapone da
aromi
particolari.
«Prima
o poi
dovrete andare d’accordo» borbottò Theo
dalla camera da letto, riponendo la
cravatta nel primo cassetto del suo comodino. Pansy finse di non
sentirsi
soffocare dalla meticolosità di quel gesto. Quella sera
aveva dovuto fingere di
non notare molte cose e il risultato era un pessimo umore, un terribile
mal di
testa e un vuoto all’altezza del cuore.
Una
tristezza
diffusa e irreparabile, che sperava sarebbe scivolata via con quel
bagno di
mezzanotte.
«Non
lo trovo
così necessario» mormorò lasciando
scivolare in terra la sottoveste.
Theodore
percorse con lo sguardo il profilo del suo corpo, cercando di
conservare un po’
dell’amarezza per l’indifferenza di sua moglie
verso i futuri parenti. Ma il
candore della sua pelle e i segni appena lasciati dal corpetto del
vestito che
aveva indossato quella sera gli rendevano il compito difficile.
«E’
quanto di
più simile a un padre abbia avuto, Pansy».
Tentò
di
giustificarsi e di farle capire le proprie ragioni, ma non ebbe
risposta. Nel
silenzio della stanza risuonò l’incresparsi
dell’acqua, che avvolse il corpo di
sua moglie.
Pansy non
avrebbe mai dato ascolto a ciò che non voleva sentire. Era
fatta così e quella
sua reticenza lo faceva diventare matto e innamorare ogni giorno di
più. Si
sentiva stupido, un bambino davanti alla prima immagine di donna della
sua
vita. Eppure ne aveva viste tante.
Raggiunse
cauto
la porta del bagno, fermandosi sullo stipite.
Pansy aveva
gli
occhi chiusi, giaceva nella vasca con una serenità
d’animo tale da sembrare che
fosse raccolta nell’abbraccio di qualcuno.
«Pans».
Mormorò,
la voce
rauca che cercò di sembrare conciliante prima che desiderosa
di lei.
«Lo
so Theo, lo
so. Mi dispiace».
Di cosa ti dispiace? Avrebbe voluto
chiederle lui. Ma la risposta era un pericolo alla sua
felicità. Non aveva
sentito quello che aveva da dirle, eppure aveva pronunciato quelle
scuse con
una placida sicurezza, che avrebbe ingannato chiunque. Theo sorrise,
tanto lei
non avrebbe potuto vederlo.
Così
le
dispiaceva, a priori. O forse c’era della
sincerità in quelle parole, e si
scusava per tutto quello che a lui non voleva concedere,
perché non era Draco
Malfoy.
«Riparliamone
domani mattina» le propose scostandosi dallo stipite e
raggiungendo la vasca.
Respirò
il
profumo di fiori asiatici, nel chinarsi a baciarle la fronte.
Immaginò il
momento in cui Pansy lo avrebbe raggiunto a letto, per dormire. La sua
pelle
avrebbe avuto quel profumo e lo avrebbe impresso tra le lenzuola e sul
cuscino,
così il mattino dopo lui avrebbe avuto in piccola parte
l’odore di Pansy.
Non
resistette
oltre, non potendo aspettare il mattino. Una mano andò a
posarsi sul bordo
della vasca, mantenendo un equilibrio.
L’ombra
del
corpo di Theodore ridestò Pansy dai suoi vagheggi. Dischiuse
pigramente gli
occhi, aprendoli su Theodore e lo sguardo di richiesta e intenzione che
aveva
nello sguardo e tra la piega delle labbra. Non disse niente,
aspettò che
facesse ciò che voleva.
Certi giorni
non
poteva a fare a meno di concedersi perché sapeva che non
avrebbe mai potuto
dargli altro che quello.
Così
si lasciò
baciare, accarezzando il suo collo con le dita umide e calde. Lo
attirò a sé
lentamente, con grazia ma senza tenerezza. Theodore si chiese se anche
quello
sarebbe stato così per sempre.
«L’acqua
è
ancora calda» mormorò lei, avvicinandolo ancora a
sé. Theodore lasciò scivolare
dalle spalle la camicia e tutto il resto lo gettò a terra,
senza distogliere lo
sguardo da Pansy e da quello che le sue mani stavano facendo su di lui.
Sapeva di
essere
vinto e di averla data vinta a lei, per i fiori, per suo nonno, per
quella
discussione.
Non riusciva
a
fermarsi. Si immerse nell’acqua, accarezzando il suo corpo e
rabbrividendo per
il calore dell’acqua e il contatto con Pansy. Lei gli
lasciò sufficiente
spazio, si adagiò contro il suo corpo possente e
lasciò che la toccasse e
baciasse e le parlasse all’orecchio.
I loro corpi
sapevano stare vicini, eppure non combaciavano perfettamente.
Nessuno dei
due
aveva mai sentito quella perfetta unione, conoscevano
un’armonia spezzata, che
mai sarebbe stata sincronia.
«Pans…»
si
mossero le labbra di Theodore ma non finirono la frase. Forse non
c’era niente
da dire se non quello. Pansy. Era un’ossessione, lo era
sempre stata da quando
era diventata grande, e aveva smesso di avere le fattezze acerbe di una
bambina. Pansy.
«Credo
che-»
aveva fatto per aggiungere, quando lei era scivolata tra le sue gambe,
con un
guizzo leggero dell’acqua e un aroma di fiori dalle radici
lontane, come era
lei. Tra le sue gambe, contro e dentro di lui, ma lontana,
terribilmente
lontana.
«Sssh»
lo
interruppe lei, poggiandogli le dita sulle labbra, poi sulla bocca,
premendo
perché ricacciasse indietro qualsiasi parola. Non voleva
sentirsi dire niente.
Perché quello era il momento in cui avrebbero fatto
l’amore, in cui sarebbero
divenuti una cosa sola, e tutto quello che lei avrebbe voluto era che
al posto
di chiunque altro ci fosse di nuovo Draco.
Non voleva
sentire nessuna voce, né guardare nessun viso, o odorare
nessun corpo. Non
sarebbe stata la voce calda di Draco, così calda
a dispetto della freddezza dei suoi occhi; né i lineamenti
affilati e precisi
del suo viso, né l’odore della sua pelle, che era
suo e di nessun altro uomo.
Non voleva saperne niente, continuava a pensare, mentre Theodore
sprofondava in
lei, rimpiangendola nel prenderla, rammaricandosi di averla voluta.
Chiuse gli
occhi
anche lui, mentre lei sospirava su un pensiero che vedeva un altro
protagonista, e dietro gli occhi chiusi vedeva l’immagine di
Pansy la prima
volta che l’aveva desiderata, quando aveva davvero potuto
pensare che un giorno
sarebbe stata sua.
Su quel
pensiero, la loro unione in quella vasca da bagno si accese e si
spense,
fievolmente, tra i loro gemiti che erano sospiri, e i loro desideri che
in
realtà erano ancora inappagati per entrambi.
●●●
Oh chosen love, Oh frozen love
Oh tangle of matter and ghost
Oh darling of angels, demons
and saints
And the whole broken-hearted
host
gentle this soul
[The window
– Leonard
Cohen]
Il giorno
dopo
Millicent si presentò di mattina presto a casa Nott,
scortata dalla sarta
rapita senza troppe cerimonie dal negozio di Madama McClan. Pansy
l’aveva accolta
in sottoveste e a piedi nudi, facendole cenno di raggiungerla nella
camera da
letto, al piano di sopra.
Millicent la
seguì riluttante. Era sempre in imbarazzo quando si trattava
di entrare nella
stanza in cui qualcuno aveva dormito con un altro uomo. Sentiva che un
posto
del genere avrebbe dovuto essere off-limits, troppo privato per poterlo
dividere con la presenza di un terzo, di un estraneo.
Pansy
lasciò la
porta aperta per lei e la sarta, e Millicent come altre volte non si
oppose se
non con uno sguardo vago.
«Theodore
non
c’è?»
Le chiese
mentre
la sarta in un silenzio meticoloso indicava a Pansy di salire in piedi
sulla
cassapanca riposta ai piedi del letto. Millicent cercò con
lo sguardo lo
sgabello della volta prima. Lo individuò
nell’angolo della stanza, coperto da
un telo, adagiato lì quasi per caso, come se Pansy non vi
fosse mai salita con
il suo abito da sposa indosso.
«Lavora»
Rispose
Pansy
distrattamene, mentre la sarta prendeva le misure per accorciare il
vestito
dell’abito da ricevimento per quella sera.
«Ma
è domenica
mattina».
Osservò
Millicent facendosi di lato per non essere di intralcio alla donna.
Quella la
guardò con aria torva, appuntando uno spillo
all’orlo del vestito.
«Non
troppo
corto».
Pansy
ignorò
l’appunto di Millicent, guardando ai propri piedi, pur senza
prendere fuoco
allo sguardo lanciatole dalla sarta. Srotolò un
po’ del tessuto, per allungarlo
come richiesto. Millicent assisteva alla scena senza perdersi un passo
dell’operazione, ma trovava il tempo per puntare due occhi
accusatori su Pansy
ad ogni occasione.
Non solo il
vestito doveva essere più corto secondo il modello; non solo
aveva annunciato
il matrimonio prima a Blaise che a lei, che era la sua migliore amica
nonché
damigella d’onore, ma si permetteva anche di fingersi del solito umore e di non menzionare affatto
quel piccolo particolare
riguardo il ricevimento di quella sera.
«Theodore
non
avrebbe avuto niente a che ridire, sull’orlo del
vestito».
Commentò
piccata
dopo l’ennesimo sguardo scoccato a Pansy e che
l’amica aveva prontamente
evitato. Pansy la fissò glaciale, dall’alto della
cassapanca. Era mezza
svestita, con i capelli sciolti a coprire il viso e le spalle, a piedi
nudi e
senza un filo di trucco sul viso, ma aveva ancora la stessa fierezza e
la stessa
intransigenza nel portamento che aveva ad Hogwarts, con la spilla di
Caposcuola
appuntata sul petto.
«Theodore
non ha
mai niente da ridire».
Rispose
seccata,
con una certa punta di veleno. Millicent rise nervosamente.
«Lo
sventurato è
troppo innamorato».
«E’
una sua
scelta amarmi, io non gli impongo niente».
La sarta per
poco non si punse con lo spillo, colpita dal gelo nella voce di Pansy.
Si
sentiva pericolosamente di troppo in quella stanza, nel bel mezzo di
una
contesa taciuta e per questo ben peggiore di tante altre.
«A
parte la
sfacciataggine di Blaise Zabini e un invito in carta bollata a Draco
Malfoy al
ricevimento di questa sera».
Pansy si
ritrasse di scatto, sbilanciandosi quasi all’indietro, come
punta da uno
spillo. La donna sollevò lo sguardo terrorizzata, eppure
timidamente certa di
aver fatto attenzione a non sfiorare la pelle liscia di Miss Parkinson
neanche
con un’unghia della sua mano callosa di sarta.
«Non
si
preoccupi, non è colpa sua, è la signora Nott che
ha una allergia istintiva al
nome Malfoy».
A quel punto
Judith Hossas fu certa di essere nel bel mezzo di una guerra civile.
Le labbra di
Pansy disegnavano una linea sottile ed esangue, a metà tra
lo stupito e
l’oltraggiato di tanta malignità proprio da parte
di Millicent Bullstrode.
«Il
vestito è
perfetto così, grazie per il suo tempo»
mormorò infine, scendendo dalla
cassettiera con un movimento nervoso, nonostante l’usuale
delicatezza della
movenza. I piedi nudi a contatto con il pavimento gelido di marmo le
mandarono
un brivido lungo la schiena, ma era niente in confronto allo spillo che
sentiva
ruotare sulla propria punta, al centro dello stomaco.
«Soffri
molto
per il cuore del mio povero marito?» domandò
mentre Miss Hossas lasciava la
stanza il più in fretta possibile.
Millicent si
voltò a guardare Pansy, cercandone lo sguardo per assistere
vittoriosa alla
perdita dell’usuale compostezza emotiva che gli era propria.
Non lo faceva con
la cattiveria che Pansy, sulla difensiva, le aveva certamente
attribuito.
Per chi non
conoscesse
Pansy, era facile provare astio nei suoi confronti. Così
fredda e scostante,
altera e supponente, mai generosa verso gli altri, abile a contrattare,
pessima
nel chiedere scusa, restia a qualsiasi elargizione di affetto ed
estranea ad
ogni tenerezza.
Ma
altrettanto
era impossibile agire con cattiveria nei suoi riguardi, per chi
conosceva la
storia della sua glacialità.
«Soffro
molto
per te, stupida».
Rispose
Millicent, senza fare niente per celare la durezza della propria voce.
Non
attese neanche di vedere quanto e come avesse colpito nel segno, quanto
l’avesse stupita, in che modo Pansy avesse abbassato lo
sguardo, e strattonato
il vestito per sciogliersi dal nodo soffocante dei suoi lacci.
Uscì
dalla
stanza a testa alta, dispiaciuta per quella incapacità di
Pansy di rendersi
felice.
●●●
Walk
me to the corner
Our steps will always rhyme,
You know my love goes with you
As your love stays with me,
It’s just the way it
changes
Like the shoreline and the sea,
But let’s not talk of
love or chains
And things we can’t
untie,
Your eyes are soft with sorrow,
Hey, that’s no way to
say goodbye.
[Hey,
that’s no way to say goodbye – Leonard Choen]
Astoria
Malfoy
aveva chiuso gli occhi su molte cose, perché sua madre le
aveva consigliato di
farlo, e lei di sua madre si era sempre fidata ciecamente. Il modello
di
paragone da non seguire era sempre stato quello di sua sorella
maggiore, e con
il tempo era divenuta una rivale più che un esempio di
scelte da non replicare.
Su quel
matrimonio Daphne aveva gettato oscuri pronostici, con
un’aria irrisoria e
l’espressione sorniona di chi conosce molti retroscena che le
consentono la
certezza di quanto asserito.
Astoria non
chiese mai di cosa fosse a conoscenza, perché credeva in
quel matrimonio e
nella sua possibilità di riuscita.
Per
consolarla
della malignità di Daphne – che forse altro non
era che una manciata di
sincerità proposta con troppo sarcasmo per poter essere
colta nella sua veste
di buona intenzione – sua madre le aveva svelato dei piccoli
trucchi del mestiere.
Astoria
venne a
sapere che non in tutti i matrimoni l’amore è il
presupposto, in alcuni si crea
vivendo insieme, e così sarebbe stato nel suo caso.
Ma sua madre
non
le aveva detto di quanto fosse difficile combattere con il fantasma di
un vivo.
Se Pansy
Parkinson fosse morta, Astoria avrebbe potuto fare leva sulla
crudeltà del
destino e l’inevitabilità delle leggi di natura.
Avrebbe potuto parlare a suo
marito della necessità di un compromesso storico, del
bisogno che c’è di andare
avanti, guardando sempre dritto e altre amenità retoriche di
questo tipo.
Ma Pansy era
viva.
Era viva nel
cuore di suo marito, era viva tra le lenzuola del loro letto, e si
insinuava in
ogni suo timore, in ogni suo pensiero, in ogni desiderio partorito per
sé e
Draco.
«Astoria, sei tu che devi dargli
sicurezze.
Se non ti mostri sicura del vostro matrimonio, come pretendi che lo sia
lui?»
le disse sua madre la sera in cui la figlia minore si
presentò pallida e tesa
alla casa natia. Daphne era uscita in silenzio dalla stanza, biasciando
qualcosa che Astoria preferì non ascoltare.
«Draco?
Sei
pronto?»
Si
affacciò alla
porta della loro camera, cercando con lo sguardo la figura del marito.
Draco si
voltò a guardarla, distratto. Era molto bella e i capelli
raccolti in quel modo
la facevano sembrare quasi una bambina. E invece, era sua moglie.
«Metti
quella».
Aggiunse
entrando e raggiungendolo davanti all’armadio. Si sporse
sulle punte, per
raggiungere la cravatta riposta più in alto. Le dita
smaltate si allungarono
fino a prenderla per un lembo, e con un sorriso soddisfatto la
annodò al collo
di Draco.
Lui la
lasciò
fare incurante, perso in tutt’altri pensieri, fino a quando
lei non lo
indirizzò verso lo specchio.
«No.
Questa no.
»
Replicò
affrettandosi a sciogliere il nodo. Le dita si insinuarono velocemente
tra la
stoffa, desiderose di liberarsi di quel cappio, mentre lui lottava
contro tutto
quello che avrebbe preferito tenere rilegato lassù, nel
posto tanto in alto che
aveva riservato a quella cravatta.
«Perché
no? Non
la metti mai».
Finalmente
Draco
sciolse il nodo, lanciando la cravatta sul letto dietro di
sé e massaggiandosi
il collo. Astoria gli lanciò uno sguardo perplesso senza
celare un’ombra di
gelosia. Quella cravatta aveva una storia di cui lei non aveva fatto
parte e
che lui non le avrebbe mai raccontato, se non fosse stato per
quell’incidente.
«E’
maledetta?»
Scherzò
facendo
per prenderla e rimetterla a posto, ma poi ci ripensò,
lasciandola lì, gettata
sul letto.
«L’ho
messa al
funerale del padre di Blaise».
Spiegò
lui,
chiudendo le ante dell’armadio.
«Niente
cravatta, non importa».
Astoria
annuì,
mordendosi un lato di labbro. Blaise aveva avuto diversi padri e per
nessuno di
questi aveva mai versato una lacrima; e nessuno di loro gli aveva
lasciato guai
finanziari o dispiaceri troppo grandi nel morire. C’era
qualcosa che le
sfuggiva. La cravatta, quando Draco chiuse la porta della loro stanza,
era
ancora lì sul letto, dal lato di Draco.
«Secondo te si intona più il
rosso o il blu
al legno della bara?».
Pansy decise subito che a quella domanda non
avrebbe risposto.
Aveva già espresso il suo parere in
merito
ai gemelli della camicia in abbinato ai fiori lungo la navata; alla
riga dei
capelli in ordine simmetrico con la disposizione delle teste dei
presenti, ed
era giunta alla conclusione che quello fosse un modo molto tenero, pur
nel suo
sarcasmo, per dare dimostrazione di essere preoccupato per il proprio
migliore
amico. Quindi aveva lasciato che le domande scivolassero lungo le
pareti della
stanza e la superficie piana dello specchio, davanti al quale Draco
faceva
oscillare due cravatte di stoffa pregiata di taglio classico.
Non essendogli giunta risposta, cercò
nello
specchio la sua interlocutrice. Alle sue spalle la figura minuta di
Pansy
Parkinson si rifletteva nitida. Il candore della sua pelle era
rischiarato dal
gioco di luce-ombra del vestito scuro.
Sembrava
un’opera d’arte, l’immagine di un
dipinto. Invece si muoveva, lentamente, mentre chiudeva il cinturino
dell’orologio sul polso sottile e alzava i suoi occhi su di
lui. Neri. E tra il
nero dei loro abiti, e il buio della stanza, quegli occhi erano
l’unica
oscurità che invece mandava bagliori. Draco la
guardò, assottigliando
impercettibilmente la piega delle labbra.
«Sei pronta?»
Le domandò portando le mani alle tasche
dei
pantaloni. Si sentiva impacciato in quel vestito da funerale. Pansy
sorrise al
suo disagio, e andò a recuperare una cravatta
dall’armadio della sua stanza.
Nel passargli accanto, baciò la piega del suo collo, nello
stesso punto in cui
aveva posato le labbra la notte prima, dopo che Blaise se ne era
andato,
lasciando detto ora e luogo della cerimonia.
Nel silenzio di Malfoy Manor, di cui per
quei due giorni e quelle due notti erano stati i soli padroni, avevano
stappato
una bottiglia di vino rosso. Avevano brindato senza avere un reale
motivo.
Blaise aveva inventato che si potesse brindare in nome dei motivi
futuri che
avrebbero avuto, e in nome di quel pensiero surreale e poco credibile
avevano
finito la bottiglia.
Quando Blaise aveva fatto ritorno a casa,
per vegliare una madre che non aveva bisogno di essere vegliata, lei e
Draco
erano entrambi un po’ ubriachi.
La bottiglia vuota era rotolata sul
pavimento. Scivolò leggera e veloce sulle mattonelle,
arrestandosi sotto al
letto in cui loro fecero l’amore. Perché la
mattina dopo ci sarebbe stato il
funerale, e tutti e due volevano qualcosa a cui pensare quando
avrebbero preso
atto – insieme a Blaise – che la morte è
reale, e che prima o dopo, arriva per
tutti.
What’s next
«Non c’erano
possibilità di scelta».
«Questo perché non siamo stati
educati a
scegliere il rischio, Draco»
“La baciò e nel farlo
ritrovò consistenza e
misura di sé”.
Thanking…
valy88: Grazie mille! Essendo
Draco/Pansy
la mia droga cercherò indegnamente di far entrare il lettore
nel tunnel… è quel
che cerca di fare ogni onest- bravo spacciatore ^^
Hermione 93: Il vero motivo vorrei
tanto saperlo anche io, almeno avrei una ragione seria per maledire la
Rowling
e Miss Greengrass. Davvero non capirò mai il senso di aver
demolito per 5 libri
la povera Pansy se alla fine neanche se l’è
sposato Draco. Mah. XD Grazie per
la recensione, qui c’è un piccolo assaggio di quel
che verrà ^^
Entreri: *cerca di spiccicare qualche
parola senza dare a vedere la commozione* XD Grazie, davvero *_*
Millicent qui
mi suggerisce che di sicuro in comune con
l’altra fic c’è la costanza
del suo amore per Blaise XD
sweetchiara: Mi consola sapere che
è
passato quello che pensavo io stessa di Draco =) Mi dispiace per la
povera fine
che è toccata in sorte anche a lui, la divinizzazione lo ha
costretto a vedere
il suo lato umano come la peggiore infamia che potesse capitare a un
Malfoy. Io
insisto a dire che è molto più verosimile lui che
il SuperPottu dei primi
libri. I Gryffindor alle volte mi sembrano OGM a metà tra la
Fata Turchina e il
Giudice Amy. / *apprezza che apprezzi la pubblicità* Oggi
è il turno di Leonard
Cohen XD Quell’uomo ha una voce che… *_*
B e r t a: Blaise ringrazia ma infondo
non gli giunge niente di nuovo, tende ad essere adulato dal mondo
intero e se
ne compiace da prima ancora di essere nato, tanto per essere
previdenti. Grazie
per l’apprezzamento, spero che anche questo capitolo non
deluda aspettative
varie. un bacio.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** V Vincere e perdere ***
The way we were
V
Vincere e perdere
In
the dark
he could see
the trap that was lying in her
Sweet company
eating from her hand at last
Wild things run fast
What
makes you run?
Wild thing
I thought you loved me
[Wild
things run fast – Joni Mitchell]
Nonostante
le
speranze della futura padrona di casa Nott e i timori del
già proprietario e
futuro sposo, la sera del ricevimento giunse e precipitò
sulle loro teste, come
tristemente previsto.
Il salone
della
villa dispiegava le sue grazie ai presenti, avvolto in ornamenti
speciali per
l’occasione. Tutti gli invitati erano perfettamente
consapevoli che la funzione
di quella serata era un annuncio importante, e per quei tempi
importante
rendeva implicita la notizia di un matrimonio imminente.
I signori
Parkinson spiccavano tra la folla per il bagliore dei loro sorrisi,
già calati
ad hoc nella loro parte, accompagnati dalla presenza di Abraham
Theodore Nott,
palesemente meno lieto delle circostanze dell’evento. La
reciproca antipatia
che correva tra lui e Pansy Parkinson non era mai stata un mistero, e
nel
segreto del suo animo era ben certo che il giorno della sua morte,
avrebbe
confermato a Miss Parkinson che il potere dei malefici esiste davvero.
«Nonno,
volete
ancora del vino?».
L’ex
Ministro
non perse occasione per rinfacciare il dubbio gusto delle sue scelte al
nipote
anche in quel frangente, con un cenno di diniego e un sorriso sulle
labbra
dalla pericolosa affabilità.
«Ti
ringrazio
nipote, ma temo che tua moglie abbia avvelenato gran parte dei
bicchieri a me
destinati» comunicò con un tono di voce
sufficientemente alto perché almeno
qualcuno potesse sentirlo. Theodore non si prese il disturbo di
sminuire
l’accusa, dopotutto era stato suo l’ordine di
controllare il contenuto di ogni
bottiglia e il fondo di ogni bicchiere, a pochi minuti dal ricevimento.
«Piuttosto,
hai
la più vaga idea di dove sia andata a finire?».
Il
goliardico
buonumore con cui aveva posto la domanda, non lasciava adito a dubbi
sul fatto
che Abraham Nott credesse che il nipote non avesse una risposta. Non si
sbagliava, come sempre.
«Sarà
certamente
nella nostra stanza a-»
«Con
l’immancabile compagnia del signor Zabini?» lo
interruppe il patriarca senza
darsi il minimo disturbo di sensibilità.
Theodore fu
costretto a farsi portare dello scotch liscio per
l’occasione. Talete, eletto
maitre della serata tra gli elfi domestici in servizio, non fece in
tempo a
raggiungere la riserva privata del padrone, che l’ordine
venne corretto.
«Talete»
«Sì
padrone»
«Doppio.
Fammelo
doppio».
Abraham Nott
avrebbe di certo avuto da ridire anche sulla deprecabile abitudine del
nipote,
troppo vicino all’alcolismo per i suoi gusti, se non avesse
seguito la linea
dello sguardo del figlioccio, i cui occhi si erano appena posati duri e
già
furiosi, sul profilo tagliente di Draco Malfoy, al centro esatto della
sala.
●●●
I've looked at life from both
sides now,
from win and lose, and still
somehow
It's life's illusions i recall.
It's cloud illusions i recall.
I really don't know clouds at
all
[Both sides now –
Joni Mitchell]
«Blaise».
La voce di
Pansy
si infranse contro il suono della musica e il vociare soffuso che
riempiva la
sala da ricevimento. Blaise Zabini, impeccabile nel suo buon gusto e
nell’iridescenza del suo sorriso, abbassò lo
sguardo in sua direzione, con
un’aria di improbabile innocenza.
«La
tua mano».
Gli fece
notare
lei, con una punta di divertimento nella voce. Blaise non fece niente
per
spostarla da dove era, un po’ troppo infondo, diceva lo
sguardo di Theodore
Nott qualche metro più in là. Perfettamente in
sincronia con la musica e gli
sguardi dei presenti, la costrinse gentilmente ad un volteggio sulle
punte,
recuperandola giusto in tempo per poter poggiare anche
l’altra mano laddove non
era poi così appropriato che fosse.
«Sto
combattendo
una battaglia su due fronti» si giustificò,
ammiccando in direzione di Nott e
riferendosi indubbiamente a Draco.
«Come
dire, lo sento. E il resto della
gente lo vede».
Lui finse di
meravigliarsi, strappandole un sorriso alla rigida compostezza in cui
si era
rinchiusa, dal momento in cui aveva stretto i lacci del vestito per la
serata.
I buoni
intenti
di Blaise Zabini erano sempre oggetto di una interpretazione
relativistica e
piuttosto critica da parte dell’etica e della morale comune,
e Pansy non dubitò
che fosse il giusto approccio anche per quell’ultima trovata.
Dal canto
suo
lei era perfettamente a proprio agio nell’avere le sue mani
sul proprio corpo e
questo forse gli rendeva più facile il compito di far
impazzire suo marito e
instillare nella mente di Draco Malfoy atroci piani di vendetta
tipicamente
Slytherin e affatto misericordiosi o memori di una passata amicizia tra
i due.
«Perché
lo fai?»
«Perché
hai
indubbiamente un bel -»
«Naturalmente»
si affrettò a concludere lei, assestandogli una gomitata tra
le costole ben
dissimulata. Blaise incassò il colpo, come faceva da lungo
tempo con tutti
quelli che Pansy Parkinson era solita distribuirgli, con il tenero
fervore
dell’affetto che provava per lui.
Forse
Theodore
Nott si sarebbe persino rivelato un ballerino migliore di lui. Di certo
il
perfezionismo che lo rendeva noto ai più, e che agli occhi
di Blaise lo
qualificava come maniaco compulsivo, gli avrebbe consentito di seguire
ogni
nota e ogni variazione senza perdere un solo accento ritmico. Avrebbe
stretto
Pansy tra le sue braccia, conducendo un valzer d’altri tempi,
con la carica
erotica di un plastico in cemento di Gilderoy Allock.
Il solo
pensiero
si era rivelato essere troppo raccapricciante ai suoi occhi
perché un amante
del bello come lui amava definirsi potesse ritenerlo sopportabile.
E poi,
c’era
Draco Malfoy e il perfetto incastro che le sue braccia avrebbero
trovato con il
corpo di Miss Parkinson.
«Astoria
Greengrass è molto carina stasera».
«E
tu sei il
solito-»
«Naturalmente»
la bruciò sul tempo lui.
Poi si
deliziò
dello sguardo che offuscò gli occhi scuri di Pansy e del
contegno che assunse
per il resto della serata, decisa a vincere una battaglia che non aveva
speranze di essere vinta.
Di guerre
perse
lui ne sapeva qualcosa. Per quanto la sua immagine fosse associata
all’ospite
d’onore di tutti i salotti della Londra magica borghese, e si
raccontassero
mirabolanti storie sulle sue avventure più disparate
– di cui la metà erano
palesemente false ma troppo divertenti perché lui potesse
prendersi la fatica
di smentirle – nessuno sembrava essersi accorto della
più grande sconfitta di
cui Blaise Zabini fosse stato protagonista.
Lui era un
ottimo medico di se stesso, sapeva occultare le proprie ferite e niente
nella
perfezione del suo corpo lasciava ad immaginare quanto profondo fosse
un taglio
difficile se non impossibile da rimarginare. C’era stata una
guerra, e Blaise
Zabini non era riuscito a sfuggirne gli orrori, gli scempi, le
mostruosità.
Al brutto
del
mondo, non era riuscito a sopravvivere interamente.
«Se
pensi
davvero di poterlo evitare, ti stai sopravvalutando».
Pansy non si
scompose, perché tutto sommato non aveva sentito niente di
nuovo, che lei già
non sapesse.
«Un’altra
parola
su di lui, e farò in modo che Millicent sia la tua dama
d’onore fino alle prime
luci dell’alba».
●●●
Oh
you are in my blood like holy wine
and you taste so bitter but you taste so sweet
Oh I could drink a case of you
I could drink a case of you darling
And I would still be on my feet
Oh I’d still be on my feet
[A
case of you – Joni Mitchell]
Draco Malfoy
non
aveva mai avuto bisogno di essere coraggioso, prima.
Lungo la sua
strada aveva incontrato difficoltà, grandi o piccole, come
capita a tanta altra
gente, e se non era riuscito a risolverle da solo, si era potuto
permettere di
lasciare questioni in sospeso, mettendole da parte e pretendendo di
ignorarle.
Poi aveva
scoperto di non poter ignorare né Lord Voldemort,
né Pansy Parkinson, e in un
primo momento il pensiero di questa equivalenza tra i due lo aveva
schiacciato
del tutto.
Gli era
persino
capitato di sopravvivere al primo. Gli era costato un padre, tutta la
sua
innocenza, dolore e frustrazioni, gli era costato una guerra. Avevano
perso
entrambi, ma dopo la sconfitta lui era ancora vivo, e
l’Oscuro Signore giaceva
in ceneri, e il suo unico posto sarebbe rimasto per sempre
nell’inospitale
memoria di tutti.
Ma vincere
Pansy
Parkinson sarebbe stato tutt’altro paio di maniche e aveva il
sapore amaro dell’impossibile.
Lo aveva percepito subito, vedendola quella sera.
L’immagine
di
lei aveva ferito il suo sguardo, costringendolo a distogliere gli
occhi.
Per tutto
quel
tempo non aveva fatto altro che pensare a lei come a un ricordo, un
frammento
del proprio passato, con l’amarezza che si riserva ai
rimpianti e con la rabbia
per le occasioni perse, e si era crogiolato in quella condizione di
passività
con una certa rassegnazione, che lui però aveva –
di nuovo codardamente –
scelto di chiamare serenità.
Vederla di
nuovo, nella concretezza del presente, era stato quanto di
più doloroso avesse
dovuto affrontare dopo l’incarcerazione di suo padre.
«Niente
cravatta, stasera».
Cercò
di non
perdere il controllo di sé, quando la sentì
parlare, nel buio di quel corridoio.
Si era
rifugiato
lì cercando di sfuggire ai colori troppo accesi della festa;
ai suoni della
vuota allegria della gente; all’astio di Theodore Nott, che
lo faceva sentire
ancora importante per Pansy; alle illazioni di Blaise, più
sferzanti del solito
quella sera. Erano una accusa e una sfida ben precise, a cui Draco non
si era
potuto sottrarre né per volontà né per
imposizione di coscienza.
«Cosa
c’è qui
dentro, la camera degli orrori?».
Le chiese
voltandosi a guardarla.
Era passato
molto tempo dall’ultima volta che si erano ritrovati
così vicini. Desiderò
poterla sentire finalmente lontana. Sperò in una parte
remota di sé, che tutto
quel tempo passato a cercare di ridimensionare la loro vicenda fosse
servito ad
arginare l’impeto del sentimento. Scoprì che ogni
tentativo sarebbe stato vano,
e che era ora di smetterla con quel gioco.
«Non
saprei»
replicò lei, alzando le spalle, trovando una propria
sincerità. Era la candida
ammissione di quanto tutto quello le fosse estraneo: la sua casa, suo
marito, la
sua vita futura lì dentro in sua compagnia.
Tuttavia,
nonostante si fosse sentito appagato e soddisfatto, per non dire consolato dal rifiuto di Pansy per
ciò
che l’aspettava, non era di una stanza sconosciuta quello di
cui avrebbe voluto
parlare con lei.
Avrebbe
preferito che lei gli spiegasse come le fosse venuto in mente di
accettare una
proposta di matrimonio da Theodore Nott. Voleva sapere i particolari,
uno per
uno, pur sapendo quanto deleterio per se stesso sarebbe stato.
«Non
sapresti».
Mormorò
invece,
perdendo lo sguardo altrove.
La guerra lo
aveva cambiato.
L’ultimo
ricordo
che aveva di lui, era quello del doloroso passaggio dall’era
delle illusioni a
quella della cruda realtà. Si erano separati dopo aver
sperimentato insieme le
rivalità, i protagonismi, i giochi spietati e le vendette
più stupide. Avevano
scherzato con il fuoco ma si erano fermati sempre in tempo prima che il
fuoco
li bruciasse.
Fino a che
non
si erano bruciati, nel dirsi addio con la speranza che così
non fosse.
Tutte le
volte
che aveva pensato a Draco, aveva sentito la nostalgia dilaniarla, ma
non si era
mai fermata a pensare un solo momento che avrebbe dovuto conviverci
tanto a
lungo come per sempre. Poi un giorno lo aveva visto, accanto ad
un’altra donna,
e aveva realizzato che niente più di Draco Malfoy sarebbe
stato suo.
«Forse
è il caso
che torni di là».
Non
c’era alcuna
risolutezza nella sua voce, quando lo disse. Era solo
l’ennesima via di fuga,
il riparo da un dolore che era decisa a non voler provare
definitivamente.
Aveva
imparato
che la nostalgia è qualcosa che ti corrode dentro con la
dolcezza dei ricordi e
l’inevitabilità del presente, ma non è
violenta né crudele come parlare con
l’uomo che hai imparato ad amare e che poi la vita ti ha
strappato con il cinismo
che le è proprio.
«…per
Merlino,
Pansy».
Si
fermò di
colpo, come se le sue parole si fossero strette attorno al suo polso,
con la
stessa forza che avrebbe avuto la sua mano fredda e pallida.
Vibrò nell’aria
l’eco di tutto quello che fino ad ora non si erano detti.
«Theodore
Nott?»
Le chiese
lui,
d’un tratto libero da tutto quello che prima gli aveva
impedito di porle quelle
domande, di attraversare la stanza e strapparla
dall’abbraccio di Blaise per
stringerla e avvolgerla nel proprio. Pansy lo vide, e le
sembrò furioso come
mai era stato prima di allora.
Lo
guardò senza
capire, confusa e spaventata, eppure di nuovo capace di scorgere in
Draco i
tratti di quello che lei aveva conosciuto e fatto proprio nel passato
che
avevano condiviso.
«Avevi
bisogno
di puntare tanto in basso per punirmi?»
Proseguì
lui, di
nuovo vicino. Fumo e profumo, confusi e indistinti.
«Curioso.
Credevo di essere io quella che sta per sposarlo»
Il gelo
nella
sua voce non lo ferì, come era sempre stato con Pansy.
Si erano
sempre
presentati così al mondo, alla voluta e ricercata
incomprensione della gente,
freddi e distanti, cristallizzati nella propria alterigia, ghiacciati
nell’arroganza delle loro convinzioni, nella loro poca
umiltà, nella mancanza
di scrupoli e nel gioco sporco verso gli altri, che erano meno di loro.
Non avevano
raccontato a nessuno la loro storia, si erano ritrovati a condividerne
parti
importanti, alcune persino combacianti, e in quel modo, in silenzio e
con
orgoglio avevano cercato di curarsi, pur facendosi male a vicenda la
maggior
parte delle volte.
«Non
c’erano
possibilità di scelta».
«Questo
perché
non siamo stati educati a scegliere il rischio, Draco»
E per la
prima
volte lo disse credendoci davvero. Quando ormai non c’era
altro contro cui
lottare, quando ogni scelta infine era stata accettata come obbligata e
presa
come tale. Senza armi di difesa, senza possibilità di
vincere alcuna partita,
forse valeva la pena dire la verità, ammettere i propri
sbagli e le segrete
incapacità, ora tanto palesi.
Draco la
guardò
senza dire niente, perché niente c’era da dire.
La
verità poi
era anche un’altra.
Era che la
desiderava ancora e che non concepiva l’idea che qualcun
altro potesse
toccarla, accarezzarla, spogliarla, baciarla, come lui aveva potuto
fare. La voleva
ancora per sé, era ancora convinto di meritarla
più di altri, di essere l’unico
a conoscere parti di lei che a chiunque altro mai sarebbero state
né svelate né
concesse.
Come lui
l’avrebbe toccata nessun altro avrebbe saputo fare.
Erano i suoi
occhi
quelli che avevano diritto di guardarla, sapendo dove e come leggere.
Non ci
sarebbe stato bisogno di parole, come con Astoria, che parlava in
continuazione, di tutto, che a lui sembrava niente. Era sordo alle
parole di
sua moglie, quando invece il silenzio di Pansy, come in quel momento,
era molto
più eloquente e aveva un suono, faceva rumore.
Gli diceva
che
non voleva sposarsi, che la situazione era sfuggita di mano anche a
lei, che lo
desiderava, oh se lo desiderava, che tutto quello per cui si era
concessa di
sperare alla fine di quella guerra, era stato ritrovarlo e averlo un
po’ per sé
se non per sempre.
Non
c’era molto
altro che la vita potesse offrire a gente come loro.
Avevano
già
avuto tutto ciò che era inutile, e mai ricevuto quello di
cui avevano bisogno.
Non
c’era
consolazione che il mondo potesse concedere loro se non la reciproca
presenza.
Era
impossibile
da spiegare a terzi e qualcosa che loro stessi avevano accettato con
difficoltà, ma alla fine era in quel modo che andavano le
cose.
Non
c’era una
via di fuga certa e sicura, il tradimento era sempre l’ombra
dei loro passi.
Era tutto
lì,
non c’era altro da aggiungere, né bugie da
perpetrare inutilmente.
Quello che
li
spaventava tanto era il bisogno reciproco così intenso e la
consapevolezza di
essere altrettanto necessari per l’altro. Tanto da svegliarsi
accanto ad
estranei, vivere una vita non propria perché condivisa con
le persone
sbagliate.
Agli incubi
ereditati dalla guerra si alternavano per entrambi quelli che loro
stessi si erano
inflitti, stando lontani. Al risveglio c’era sempre quella
sensazione di
incongruità, il sentirsi in una terra straniera, in vestiti
scomodi di una
taglia troppo piccola per contenere tutti i loro desideri.
Se mi guardi in quel modo è peggio,
fallo, fallo
e basta.
La
baciò e nel
farlo ritrovò consistenza e misura di sé.
Le sue
labbra
erano calde e morbide, avevano un sapore già conosciuto ma
di cui non avrebbe
saputo avere abbastanza. Si schiusero al suo bacio e lo accolsero per
tutto
quello che era e che non sarebbe potuto essere: giusto ed eterno.
Draco
avrebbe
voluto prometterle molto altro, oltre al giuramento di quel sentimento
che
aveva per lei, ma sapeva che lei non gli avrebbe creduto e che non era
giusto
per loro stessi concedersi altre illusioni.
La
baciò ancora
e ancora, affondando nella sua bocca e toccandola di nuovo.
Tuffò le mani tra i
suoi capelli, le dita sciolsero il complicato gioco di incastri e
forcine che
li tenevano legati con una naturalezza che le strappò il
cuore. Le mani di
Draco erano fredde ed esperte di lei. Accarezzarono le sue curve,
insinuandosi
sotto il vestito, sotto il mantello di impassibilità in cui
lei si era nascosta
per quegli anni in cui era stata di un altro.
Rabbrividì
all’abbraccio in cui la strinse, le proprie mani esili
tornarono padrone di
luoghi che erano già stati suoi; nella frenesia con cui
ripercorsero i sentieri
della sua pelle le sembrò di recuperare la strada di casa.
●●●
«Vado
a cercare
Pansy».
Millicent
depositò il quarto calice della serata, leggermente
instabile sui tacchi alti
delle decolleté.
«Io
non lo
farei» sibilò Blaise, serrando le dita della sua
mano contro la spalla di
Millicent, perché non cadesse rovinosamente sul pavimento.
Il gesto
ebbe su
di lei l’effetto di un quinto calice di champagne, ma Blaise
finse con
signorilità e un certo spirito di preservazione di non
averlo notato, e si
limitò a lasciare la presa appena in tempo perché
lei non cercasse di
concupirlo in presenza di tutta la Londra magica, o si inginocchiasse
ai suoi
piedi proponendogli un matrimonio riparatore di quello che di certo
sarebbe
fallito a breve tra Pansy e Theodore.
Millicent
cancellò la delusione per la fugacità del
contatto ma il risultato fu un
broncio piuttosto comico e molto poco erotico.
«Ma
tra poco è
il suo grande momento».
Obiettò
mentre
la sua vista sbiadiva leggermente sui movimenti nervosi di Theodore.
Blaise
ammirò il
riflesso del proprio sorriso sul marmo bianco del pavimento.
«No
Millicent,
credo che adesso sia il suo grande
momento».
What’s next
«Pans, il tuo grande momento è
già finito?»
«Qualcuno direbbe che è appena
iniziato,
Milli»
“Sembrava una corsa contro il tempo che
nessuno dei due aveva voglia di vincere”.
Thanking…
sweetchiara: La Rowling deve al suo
pubblico un lungo elenco di spiegazioni u.u Astoria è un
po’ vittima delle
circostanze, di certo fossi stata al suo posto non avrei mai sposato un
Malfoy
senza essere certa che mi volesse un po’ di bene XD
Già sono una piaga quando
si parla di emozionalità e dimostrazioni
di sentimento, figuriamoci quando non
c’è! XD / Leonard Cohen è
nell’elenco
di voci che venero XD insieme alla voce di Jim Morrison e Janis Joplin
*_*
valy88: Oh ne sono lieta! *___* Infondo
nel tunnel si sta bene, a parte il finale del settimo libro che ha un
po’ rovinato
l’atmosfera di festa u.u Sì il ricevimento ha
preso due capitoli meritava di
essere trattato in più dettagli data
l’entità catastrofica XD Grazie per i
complimenti =)
Entreri: Dispiace anche a me per
Theodore, di fondo non credo che se lo meriti u.u Mi sento anche un
po’ in
colpa; ma avrà anche lui piccole soddisfazioni nella vita,
d’altra parte ha
avuto un istinto un po’ suicida a proporre un matrimonio
addirittura! Al
prossimo capitolo e grazie J
Kaho_chan: *sine verba ringrazia cercandone
qualcuna* Era l’impressione che volevo trapelasse,
l’inscindibilità del loro
legame, ostacolato ma difficile da recidere del tutto. Gli Slytherin
sono un
mondo un po’ a parte, ma sono sempre stata incuriosita dal
loro codice di
regole segreto, ho il vizio di ficcare il naso dove forse non andrebbe
messo XD
Grazie ancora *.* sul serio.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** VI Concessioni ***
The way we were
VI
Concessioni
I can remember
standing, by the wall
and the guns, shot above our
heads
and we kissed, as though
nothing could fall.
And the shame, was on the other
side
Oh we can beat them, for ever
and ever
Then we could be Heroes, just
for one day
[Heroes
– David Bowie]
Le voci e i
rumori provenienti dalla sala adiacente erano un promemoria
dell’illegalità di
quei baci e dei doveri che la aspettavano da lì a poco. Da
lì a tutta la vita.
Eppure non
riusciva a lasciare libere le sue labbra. I loro respiri erano confusi,
il
tutto era troppo compromesso perché potessero tornare
indietro, e in ogni caso
i loro egoismi lo avrebbero impedito.
La parete
contro
cui si era poggiata era fredda e scomoda, ma non aveva importanza.
Niente in
quel frangente sembrava avere importanza, ed era pericoloso, lo
sapevano bene
entrambi. La loro natura di Slytherin gli insegnava sempre a calcolare
ogni
cosa, ogni eventuale danno o pericolo, ma non poteva niente contro
l’incoscienza e l’irruenza dei loro desideri.
«Vi ringrazio molto» frasi
e parole
cercavano di insinuarsi tra il rumore soffice dei loro sospiri ma con
scarsi
risultati «anche se
l’entusiasmo dei
vostri applausi è proporzionale a quello con cui avete
bevuto dai vostri
calici» risa e commenti sullo sfondo, mentre
Abraham Nott prendeva parola
oscurando ancora una volta suo nipote.
Mentre Draco
la
sollevava delicatamente da terra e le chiedeva di concedersi e
concedergli
qualcosa con una cautela che altre volte non gli aveva mai visto usare.
«Vuoi
che…»
Lei si
sentì
stringere la gola dall’incertezza che tremava nella voce di
Draco, da quella
tenerezza recondita che le riempì il cuore e lo stomaco, e
non disse niente, si
strinse solo più decisa a lui. Le dita premute contro le sue
spalle per sorreggersi,
insofferenti al tessuto della sua camicia, chiedevano di
più, chiedevano una
libertà maggiore.
«Sì»
disse
soltanto, sì voleva che lui facesse l’amore con
lei, che si riappropriasse di
ciò che gli apparteneva, che la riempisse di nuovo di
sé. Non era la prima
volta, aveva la malinconia del ricordo di tutte le altre e la foga
disperata
della mancanza reciproca. Sembravano a tratti di nuovo spaventati, come
se
avessero ricominciato da capo, e a tratti quella timidezza e quei
permessi
educati che lui le chiedeva e lei gli concedeva venivano cancellati da
baci
roventi, dai segni delle dita di Pansy sulla sua pelle chiara, dai
denti di lui
contro il suo labbro, dalla presa forte delle sue braccia intorno al
suo corpo.
«Ma forse stasera mio nipote ha qualcosa
da
dirvi»
Sembrava una
corsa contro il tempo che nessuno dei due aveva voglia di vincere. Le
dita di
Pansy scivolarono sicure e frettolose alla sua cintura, mentre lui
lasciava che
le sue mani vagassero sul suo corpo. Era sempre stato così
geloso della sua
intimità, non permetteva mai a nessuno di toccarlo, non
cedeva mai ad una
carezza, disponeva e poi prendeva, fino a quando lei non aveva vinto.
Trionfante e commossa, aveva soffocato quella commozione in un bacio,
allora
come oggi.
Lui aveva
annuito, nel buio di quel corridoio si era spinto in lei, ritrovando un
proprio
posto. L’urgenza dei suoi movimenti era compensata
dall’ineffabilità di
quell’istante, che fosse stato per lui avrebbe replicato per
anni, per un tempo
infinito.
Oltre quel
muro
c’era solo l’incertezza del loro domani, ma lei era
così viva e sicura sotto il
suo tocco, e contro di lui. Affondò in lei ancora e ancora e
la fretta svanì.
Assaporarono ogni istante di quell’unione, imprimendo ogni
dettaglio di quel
nuovo e vecchio piacere.
Lei era
bella
come allora. I capelli sciolti a caderle lungo il viso, solleticavano
il naso
di Draco, avvolto tra le sue braccia, e adagiato contro il suo petto,
ne
sentiva il respiro accelerato, e lei tremava, e lo baciava e si
stringeva a lui
e tutto era racchiuso là, dentro di loro.
«Theodore, il palco è tutto
tuo, da ora in
futuro».
Ma oltre le
spalle di Draco, e oltre le gambe di Pansy, oltre quello che stavano
dividendo,
non c’era mondo e non c’era futuro.
●●●
There's
such a sad love
deep in your eyes.
A kind of pale jewel
open and closed
within your eyes.
I'll place the sky
within your eyes.
[As
the word falls down – David Bowie]
Mentre
Theodore
si faceva largo tra la folla, con lo sguardo inquieto di chi non ha con
sé
quanto pattuito e quanto necessario, Pansy aveva sulla bocca il nome di
un
altro, e lo lasciava scivolare sulle labbra e vicino
all’orecchio di Draco, in
un singhiozzo e un sospiro sospesi tra piacere e dolore.
«Un
applauso per
Theodore ci vorrebbe, non trovi?» rideva Millicent portando
alle labbra
l’ennesimo calice di champagne, e Blaise non rispondeva
perdendo il pensiero in
tutt’altre fantasie, e Draco si stringeva Pansy contro il
cuore, raccontando
tremando in silenzio dentro di lei la storia del suo amore per lei.
Astoria
Greengrass sorrideva leggiadra ad un distinto signore al suo fianco,
chiacchierava del più e del meno come le avevano insegnato a
fare e intanto si
domandava che fine avesse fatto suo marito, eludendo lo sguardo
irrisorio di
sua sorella.
Abraham Nott
aveva gli occhi che guardavano lontano, verso quel corridoio scuro, ma
non
abbastanza per poter vedere Draco Malfoy e Pansy Parkinson scivolare
lentamente
contro il muro e adagiarsi l’uno vicino all’altra,
contro il pavimento lustro,
e scorgere in quel riflesso i loro occhi lucidi.
«Devo
andare».
Pansy
cercò di
sistemare i capelli, di ristabilire un ordine, di smettere di tremare,
ma
niente sarebbe più stato come prima. Draco seguì
i suoi movimenti, si concesse
di guardarla alle prese con se stessa, rincorse i movimenti delle sue
mani tra
i propri capelli, delineò con lo sguardo la piega sgualcita
del vestito e la
linea morbida del suo seno. E scoprì di essersi perso un
vero spettacolo.
«Lascia,
faccio
io».
Non era
esattamente
una domanda o una richiesta come quella di prima. Di nuovo padrone di
sé era un
invito a lasciargli campo libero. Pansy glielo lasciò fare,
senza opporsi. Non
sarebbe mai stato in grado di rimettere in ordine ciò di cui
lui era stato
artefice, ma le piacque quel contatto per la prima volta tanto intimo.
«…
hai troppi
capelli».
Borbottò
assorto
e contrariato, quando si rese conto che per quanto provasse non stavano
mai al
posto che lui sceglieva per loro. Lei sorrise scuotendo la testa e
facendo
crollare l’ultimo tentativo di Draco.
«Sei
tu che non
hai la minima delicatezza».
Lui
accettò il
giudizio non senza una certa offesa allungandosi a recuperare la
giacca. La
indossò con gesti lenti e meccanici, sistemando il colletto
della camicia e
peggiorando la situazione. E per un momento entrambi considerarono il
tutto.
Quel stasarsene seduti lì, per terra, ad un passo dal
matrimonio di Pansy, con
i vestiti in disordine e il fiato corto. Con il sapore
dell’altro sulle labbra,
ancora così ebbri e pieni dell’altro. Si sentirono
belli ma tristi.
●●●
C’è
una cosa che
Millicent Bullstrode non dimenticherà mai, per quanto quella
sera fosse
ubriaca, ed è la gravità nello sguardo di Blaise
Zabini, quando Pansy raggiunse
Theodore al centro della sala, il giorno dell’annuncio delle
loro nozze.
L’usuale
sorriso, che aveva avuto poco prima nel vietarle di andare a cercare
Pansy,
lasciò il posto ad una smorfia di serietà che non
si addiceva affatto ai
lineamenti del suo viso. Forse erano tutti troppo disabituati,
pensò Millicent,
ma lo trovò molto bello lo stesso.
La
tristezza,
negli occhi di Blaise Zabini, è qualcosa che pochi hanno
visto, Millicent si
compiacque di essere tra quei pochi.
«Maggio
è un
buon mese per un matrimonio» sentiva dire la madre di Pansy
vicino al suo
orecchio. Blaise non stava neanche fingendo di ascoltarla.
Braccia
conserte
e sguardo rivolto verso il basso, preda dei suoi pensieri o delle sue
malinconie.
«Se
hai
intenzione di avere quella faccia per tutta la sera, dovresti
considerare
l’idea di ubriacarti».
Si voltarono
tutti, chi preoccupato chi del tutto attonito, tranne Blaise, alla voce
strascicata di Draco Malfoy, sopraggiunta alle loro spalle. Millicent
rimase in
disparte, consapevole di star assistendo ad uno scontro tra titani.
L’ironia
dell’uno
si scontrò con la granitica compostezza
dell’altro, che sostituì ogni sarcasmo
di risposta con uno sguardo piuttosto eloquente. Forse Pansy avrebbe
saputo
dargli un significato, a Millicent parve solo terribilmente bello e
gelido, che
avrebbe potuto spendere il resto della sua vita a guardarne la
perfezione
marmorea. Si sentì piuttosto stupida e senza senso come la
maggior parte delle
volte, ma quel leggero senso di giramento di testa che la pervadeva da
metà
serata le concesse un po’ di magnanimità nei
propri confronti.
«E’
anche la
stagione migliore per i fiori. Verranno fuori bellissime
combinazioni».
Anche
Millicent
smise di prestare attenzione alla madre di Pansy, come del resto aveva
scelto
di fare sua figlia da inizio ricevimento.
L’immobilità
di
Blaise si spezzò d’improvviso. Un attimo dopo la
sua mano era sulla spalla di
Draco, e al posto di quello scontro di personalità
ingombranti era tornata la
goliardica simpatia dei tempi andati. Le spalle di Draco si rilassarono
appena
al tocco dell’amico, e i loro passi erano buffamente in
sincronia, quando
entrambi si allontanarono dalla “combriccola di
donne” per andare a fumare una
sigaretta nel patio.
Millicent
rimase
a fissare confusa le loro figure, camminare spalla a spalla, in netto
contrasto
tra loro e vi accostò con il pensiero quella di Pansy,
immagine che del resto
aveva visto milioni di volte negli anni di Hogwarts, nel loro passato.
Si chiese se
per
caso Blaise non avesse scelto di essere tanto amico di Draco e Pansy
per quella
sottile armonia estetica che si creava tra le loro figure.
Se
così fosse
stato, forse lei poteva avere una speranza, migliorandosi un
po’, se davvero è
dalla bellezza che nasce l’affetto di Blaise Zabini e non da
altro.
●●●
Daphne amava
sua
sorella di un amore sincero, che esulava qualsiasi componente di stima
o
rispetto. La ritenne sempre vittima della sindrome di sua madre, che
tendeva a
ridurre oggetto di abbellimento qualunque “cosa” o
“persona” risultasse
abbastanza “carina” e “leziosa”
secondo i suoi canoni. Lei nacque troppo
forastica per potere fare le fusa a sua madre, e mai la
lusingò con gesti di
affetto e di adulazione come fu per sua sorella minore.
Per questo
poté
considerarsi salva, una volta in età da matrimonio. Era
oggetto di critiche da
parte del ramo femminile della famiglia per le sue scelte di partner
sessuali o
per la franchezza con cui ne faceva mostra al popolo, ma questo non la
turbava
più ormai. Niente che riguardasse se stessa la preoccupava
realmente, quanto
invece si rammaricava per sua sorella.
«Astoria»
la
richiamò quando le tagliò la strada con fare
rischiosamente deciso. «Dove vai?».
Lei le
rivolse
un’occhiata spazientita, certa che come sempre Daphne volesse
farle perdere
tempo con prese in giro e illazioni sul suo matrimonio, ma si
fermò lo stesso a
parlare con lei.
«A
congratularmi
con la sposa» replicò facendo aria con la mano per
dissipare il fumo della
sigaretta di sua sorella. «Potresti non fumarmi in
faccia?».
Daphne non
chiese scusa e non prestò attenzione alla protesta.
«Da
come
camminavi sembrava che volessi sacrificarla su un altare,
più che altro».
A dire dallo
sguardo di sua sorella, indignato e imbarazzato, fu certa di aver
colpito nel
segno.
«E’quanto?
O
vuoi chiedermi come stanno i nostri genitori? O confidarmi che Pucey
è il
migliore sulla piazza?».
Daphne
sorrise
dell’ingenuo accalorarsi della sorella, destinato a
raddoppiare di fronte alla
sua impassibilità. Astoria era convinta di essere in grado
di vincere l’amore
di Daphne per la promiscuità e il ribellismo che stava
vivendo dai primi anni
della sua vita. Lei si divertiva a lasciarglielo credere di tanto in
tanto.
«Non
se la cava
male, no. Ma vorrei provare altro».
Astoria
alzò gli
occhi chiari al soffitto, dandosi un’occhiata in giro. Suo
marito era ancora
molto preso da una fitta conversazione con Blaise Zabini, e non seppe
se
catalogare anche quello come problema, e in che livello metterlo sulla
scala
personale che aveva stimato.
Prima o dopo
il
tradimento e l’associazione a delinquere?
«In
ogni caso,
Astoria, non credo che Pansy si rammaricherà di non avere i
tuoi auguri»
Al nome
dell’altra, Astoria scattò come una molla. Se ne
vergognò un po’ ma tutto
sommato Daphne sarebbe rimasta sua sorella per sempre e in ogni caso. E
la sua
fedeltà era discutibile solo sul piano sentimentale.
«Mi
stai
avvertendo di qualcosa?».
«Ti
risparmio
una conversazione spiacevole».
Astoria
valutò
per qualche secondo se valesse la pena riproporre a sua sorella per
l’ennesima
volta di rivelarle tutta la verità di cui era a conoscenza,
e che le svelava
sibillina per indovinelli in diverse ed estenuanti puntate.
«Daphne,
perché
non mi dici tutto e subito?»
«Non
c’è niente
da dire oltre a quello che fingi di non vedere».
«D’accordo,
la
tua visionaria sorella va a farsi del male, allora».
Si
congedò senza
i soliti convenevoli a cui era tanto affezionata, e Daphne ne fu
sollevata ma
al contempo certa di averla fatta discretamente arrabbiare.
Quando
sollevò
lo sguardo dalla cenere in bilico sulla sua sigaretta,
incontrò lo sguardo di
Pansy Parkinson, a metà tra un saluto divertito e
l’espressione sorniona di chi
conosce già le mosse dell’altro, quelle attuate e
quelle future.
Daphne
ricambiò
quel sorriso, spegnendo la sigaretta nel vaso della pianta al suo
fianco. Di
certo Pansy non se la sarebbe presa per quello.
●●●
All
of my life I've tried so hard
doing my best with what I had
Nothing much happened all the same
Something about me stood apart
A whisper of hope that seemed to fail
Maybe I'm born right out of my time
breaking my life in two
[Thursday’s child – David Bowie]
Pansy si
muoveva
silenziosa e agile nello spazio della loro stanza, senza fare il minimo
rumore.
Theodore poggiò la testa sul cuscino, beandosi di quel
silenzio. Pansy non
faceva mai rumore, pensò rilassando il respiro e sbottonando
la camicia.
Le lenzuola
erano morbide e profumate, sapevano di pulito e innocenza, come nessuno
dei due
era più da molto tempo ormai.
Forse quella
camera era anche troppo grande per due che come loro vi avrebbero
trascorso il
minor tempo possibile, abitandola come un albergo. Senza fotografie e
senza cimeli
affezionati, senza parti di loro, né oggetti della loro vita
insieme.
«Millicent
è
ancora qui?»
Domandò
d’un
tratto, ricordando la sua artificiale allegria di quella sera. Alle sue
parole
Pansy sobbalzò, lasciandosi sfuggire dalle mani la collana
che aveva intorno al
collo fino a poco prima. Rimase a fissarla, mandare bagliori sotto la
luce del
lampadario, immobile per alcuni secondi. Theodore aprì gli
occhi al suo
silenzio, sollevandosi appena sui gomiti, per guardare in direzione di
sua
moglie.
Aveva ancora
indosso il vestito di quella sera. Era riuscito a saggiare la
consistenza del
tessuto durante il ballo che lei sembrava avergli concesso, e per un
attimo si
era quasi illuso che stesse accarezzando la morbidezza della sua pelle.
Quella
collana, adagiata sul pavimento, riluceva sul suo collo sottile, e
quando aveva
avuto voglia di cercarla tra la folla, gli era bastato cercare lo
sfavillio di
quell’oro riflesso nel nero dei suoi occhi.
«No,
ho chiesto
a Blaise di accompagnarla a casa».
Rispose
frettolosamente lei, sentendosi quasi nuda sotto lo sguardo di
Theodore. Evitò
il suo sguardo, fastidiosamente inerme come mai le capitava.
«Prima
o poi
nascerà del tenero tra quei due».
Commentò
ridendo
tra sé Theodore, lasciandosi di nuovo cadere con le spalle
sul cuscino. Pansy
sbuffò sarcastica, ritenendo di avere dei giusti dubbi in
merito.
Diede le
spalle
a suo marito nello sfilare il vestito, e per un attimo le
sembrò di sentire le
mani di Draco accarezzarle la coscia e spogliarla di nuovo, come aveva
fatto
prima.
«Blaise
non
conosce tenerezze».
Mormorò
sapendo
di non dire la verità – ma quella infondo era
troppo intima – le
parole scivolarono incerte sulle sue
labbra. Sentiva l’eco del respiro di Draco vicino al suo
orecchio, il suo
profumo sul proprio collo, i segni dei suoi baci in ogni angolo di
pelle, la
voglia di lui dolorosa e inebriante, ancora viva, a strapparle un
sospiro di
languore.
«Sei
stanca?»
domandò Theodore confondendo quel sospiro, e lo chiese con
una premura talmente
innocente e fiduciosa che la costrinse ad allontanarsi da quei pensieri.
«Ho
ballato
molto» sorrise labile contro la federa del cuscino, occupando
un posto che non
le sarebbe spettato in quel letto.
Le lenzuola
dalla sua parte erano ancora fredde e si ritrovò a
rabbrividire, sentendosi di
colpo infinitamente sola, e un po’ persa.
Theodore le
disse qualcosa che non riuscì a comprendere,
perché infondo stanca lo era
davvero. Mai avrebbe pensato che sarebbero state delle emozioni a
toglierle
qualsiasi forza, che non fosse quella del pensiero. Chiuse gli occhi e
rivide
l’ultima immagine di Draco, incredibilmente vicina.
L’aveva
guardata
in un modo indecifrabile, al momento di congedarsi.
Sotto gli
sguardi di tutti avevano costretto i loro pensieri in una
formalità di
convenienza; la fretta con cui aveva allontanano la propria mano dalla
stretta
di Draco era stata un tocco di classe, un trucco da esperti, invisibile
come
deve essere ogni inganno all’apparenza degli astanti.
Finsero di
sentirsi a disagio, nessuno seppe che nel ritirare la mano, le dita di
Draco
avevano sfiorato il suo palmo in una carezza fuggevole e forse fuggita
alla
stessa volontà del suo artigiano; né che quel
breve contatto aveva come sferzato
la sua pelle, quasi tagliandola di netto.
Blaise aveva
mantenuto la sua solita discrezione e da dietro le quinte aveva
guardato le
spalle agli attori, implicitamente a conoscenza della trama dei loro
gesti e le
tracce dei loro passi falsi.
«Millicent»,
la
sua voce calda aveva perforato la coltre zuccherina della sua
ubriachezza, e
lei si era sporta in avanti, per assistere in parte alla scena e per
perdersi
nel profumo di Blaise Zabini.
«Immagino
che
dovrò riaccompagnarti a casa». Non era affatto un
invito, ma nascondeva anche
qualsiasi forzatura a cui Pansy lo avesse costretto con un solo sguardo
pochi
minuti prima.
«Vogliamo
andare?» soggiunse porgendole il braccio. Era forte e sicuro,
e Millicent seppe
che da lì non sarebbe mai potuta cadere, neanche volendolo. Vi si appoggiò,
deliziata e commossa dalla raffinatezza
con cui lui le stesse facendo quel favore sgradito.
•••
Sometimes
I cried my heart to sleep
shuffling days and lonesome nights
Sometimes my courage fell to my feet
Lucky old sun is in my sky
Nothing prepared me for your smile
lighting the darkness of my soul
Innocence in your arms
[Thursday’s
child – David Bowie]
«Pans!»
Millicent si
era
sporta dalla presa di Blaise, agitando una mano in sua direzione. Lei
si era
congedata da uno degli ultimi ospiti e li aveva raggiunti senza fretta.
In
lontananza le loro figure vicine facevano uno strano effetto, stonato
eppure
tenero al contempo, e dovette reclinare il proprio viso per nascondere
un
sorriso che tutto sommato volle risparmiare a Blaise.
«Pans,
il tuo
grande momento è già finito?» le
domandò Millicent non appena fu abbastanza
vicina.
Blaise
scelse di
guardare altrove e non negli occhi di Pansy, per non leggere lo
sgomento alla
presa di coscienza.
«Qualcuno
direbbe che è appena iniziato, Milli»
replicò accantonando il nodo che le
serrava la gola e l’improvvisa voglia di togliersi scarpe,
vestito e gioielli,
tutto ciò che aveva indosso e andarsene da quella casa, a
piedi nudi, con una
leggerezza di cui non aveva mai conosciuto la consistenza se non nei
suoi
vagheggi.
Blaise le
sorrise, baciandole la fronte, un gesto lento e infinitamente gentile.
Lei lo
fermò per portarlo con sé, le dita sottili
poggiate contro il suo braccio, un
cenno di muto ringraziamento per le parole che non le avrebbe rivolto e
per i
rimproveri che avrebbe lasciato correre come già detti,
rimandati a un momento
migliore, ad un altro tempo e in un altro spazio.
«Buonanotte
Miss
Parkinson».
«Buonanotte
miei
cari» mormorò lei, accarezzando con lo sguardo il
loro profilo che scompariva
alla vista un attimo dopo.
What’s next
“Ma quella volta, era stato completamente
diverso.
Voleva chiederle se per caso se ne
ricordasse anche lei, ma poi aveva avuto la conferma che fosse
così”.
“Se non fosse stato per l’odore
di fumo,
Millicent avrebbe creduto che si fosse trattato di un lungo viaggio
della sua
immaginazione, da raccontare a Pansy a colazione”.
Thanking…
Entreri: Sì, poveri tutti in
effetti. E
Blaise non è da meno, del resto chiunque sia umano oltre che
uomo è destinato a
ricevere qualche ferita prima o dopo. Theodore con un po’ di
pazienza avrà il
suo riscatto don’t worry =P Il problema non è
Draco né Pansy, il vero problema
ce l’ha un po’ con se stesso. Grazie, un bacio.
valy88: Grazie mille *__* Draco e Pansy
non possono stare lontani sennò all’autrice prende
a male XD La Rowling
evidentemente è stoica e non soffre di umani dolori come noi
amanti della ship
ç_ç
Piccola comunicazione di servizio.
Avendo due
esami
da preparare – sto fingendo di non avere minime
preoccupazioni per la questione
ma non è così XD – è
probabile che rallenti un po’ ritmo per questi dieci
giorni di ultimo ripasso/fine programmi. Spero di uscirne viva XD
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** VII Insonnia ***
The Way We Were
VII
Insonnia
I want to hold the hand inside
you
I want to take a breath that's true
I look to you and I see nothing
I look to you to see the truth
You live your life
You go in shadows
You'll come apart and you'll go black
Some kind of night into your darkness
colors your eyes
with what's not there
[Fade into you –
Mazzy Star]
Draco Malfoy
poteva dire di aver imparato molto dagli
sbagli dei suoi genitori, ma aveva anche ricevuto degli insegnamenti, e
in
parte aveva evinto qualche piccolo consiglio di vita dalla
quotidianità del
loro matrimonio.
Perciò
aveva perfettamente chiaro che non è bene
fumare in casa se tua moglie non sopporta l’odore del
tabacco, ma non sapeva
come ci si dovesse comportare nel caso in cui non riuscisse a provare
neanche
un briciolo di amore nei suoi confronti.
Il primo
sguardo d’amore che aveva mai conosciuto era
stato uno di quelli che suo padre era solito rivolgere a Narcissa
Malfoy,
quando lei era intenta a fare tutt’altro, e tutto si sarebbe
aspettata tranne
che uno sguardo tanto vivo negli occhi di suo marito.
Si chiese se
fosse stato in quel modo che lui avesse
guardato Pansy per tutta quella sera.
Se lei lo
avesse notato e per questo lo avesse
raggiunto nell’ombra del corridoio, o se era stato un ritrovo
casuale, a
conferma della inevitabile convergenza dei loro percorsi.
Sì
aveva detto lei e sentirglielo dire era
stato il regalo migliore che potesse essere concesso ad un uomo.
Sentiva la
propria testa leggera e il corpo
intorpidito. Le sue mani avevano ancora impresse nei palmi la curva del
suo
seno. E il gelo che aveva sentito quando lei aveva sottratto la mano al
suo
saluto. La sigaretta bruciava tra le sue labbra pallide, piene dei suoi
baci, e
aumentava la sua confusione, stordendolo del suo odore e del ricordo
del
profumo di Pansy.
Non era
così che sarebbero dovute andare le cose.
Avrebbe
preferito averla tutta per sé, senza doverla
condividere con le incombenze di un matrimonio. Avrebbe voluto fare
tutto con
più calma. Incontrare di nuovo Pansy Parkinson e fare
l’amore con lei come lo
avevano fatto la notte prima del funerale del padre di Blaise.
Non
c’erano più state altre volte come quella.
All’inizio
era stata una ridicola lotta tra
personalità. Avevano iniziato a farsi una guerra,
anticipando quella vera.
Avevano conosciuto la frenesia del corpo dell’altro, si erano
voluti, avevano
preso senza chiedere, supplicato con dei baci, senza darsi il tempo di
spiegarsi niente di tutto quello che stessero realmente vivendo.
Con una
certa vergogna e un certo rimorso, Draco
ricordò di tutte le volte in cui non si erano concessi
affatto l’uno all’altro,
in cui avevano perseguito il proprio egoismo, una volta lui e una volta
lei.
Erano inesperti e a nessuno dei due piaceva esserlo. Volevano bruciare
le
tappe, scoprire tutto quello che c’era da scoprire,
avvolgersi l’uno nell’altra
per estraniarsi da tutto il resto.
Si
rifugiavano in una passione quasi ferina, senza
leggi e senza compromessi.
Ma quella
volta, era stato completamente diverso.
Voleva
chiederle se per caso se ne ricordasse anche
lei, ma poi aveva avuto la conferma che fosse così.
Nel modo in
cui erano finiti contro quel muro,
echeggiava il dispiacere di non poter avere una notte come quella
ancora per
loro.
Reclinò
la testa contro il muro, a notte fonda, unica
macchia di colore nel buio della notte, serrando tra le labbra il
filtro della
sigaretta, come se fosse la bocca di Pansy.
Draco.
Era stata la
prima volta che lo aveva chiamato per
nome. Le sue gambe magre erano strette intorno al suo corpo, e lui
ormai era
del tutto perso in lei, e Pansy aveva pronunciato il suo nome in un
modo che
mai avrebbe potuto dimenticare, da farlo sembrare una parola nuova, con
un
suono diverso, altre lettere, altre consonanti, un’altra
storia, diversa,
migliore.
Draco.
Le sue
labbra vagarono sul viso di lei, cercarono le
sue labbra, in una carezza, recuperandovi il proprio nome e con quello
una
parte di sé.
La bottiglia
di vino era ancora sotto il letto,
vuota, e loro ubriachi e tremanti, perché faceva freddo e il
camino era
lontano, le coperte gelate e i loro corpi nudi. L’inverno non
li aveva
raggiunti lì dentro però, e gli spilli acuminati
del suo gelo si erano sciolti
immancabilmente, nel groviglio dei loro corpi, in
quell’abbraccio di cui
avevano perso l’inizio e la fine, nell’unione delle
loro labbra, nel fervore
dei loro baci.
Non
avrebbero mai avuto un’altra notte così, ma in
quel momento si sentirono invincibili, belli e padroni di un mondo che
di fatto
non sarebbe mai esistito. Era tutto racchiuso in quella stanza.
Volarono
parole incredibilmente sincere e
irresponsabili che entrambi finsero di dimenticare il giorno dopo,
perché
troppo imbarazzati e un po’ spaventati.
Quella
mattina Pansy gli era sembrata forse persino
più bella della sera prima. Nuda dormiva al suo fianco,
rannicchiata tra le
lenzuola, appena scostata da lui. L’aveva guardata per un
po’, senza trovare il
coraggio di svegliarla, perché non avrebbe saputo cosa dire
né mascherare tutte
quelle sensazioni che si agitavano in lui.
Quando la
luce dell’alba si fece largo tra la
pesantezza della notte, la sigaretta era finita e giaceva ai suoi
piedi,
consumata, e Draco si sentiva un po’ come quella sigaretta.
Aveva in
mente Pansy e il modo in cui avrebbe
occupato il letto a Nott Manor.
La
immaginò svestita, attorcigliata tra altre
lenzuola, e trovò il pensiero insopportabile.
●●●
I think it's strange you never
knew
A stranger's light comes on slowly
A stranger's heart without a home
You put your hands into your head
and then smiles cover your heart
Fade into you
Strange you never knew
Fade into you
[Fade into you –
Mazzy Star]
Millicent si
lasciò condurre docilmente, senza
opporre resistenze.
Blaise
assecondò i suoi movimenti invitandola con un
gentile distacco a stendersi sul letto, e si preoccupò di
tirare le tende nella
sua camera, perché la luce della mattina non la svegliasse
di lì a poche ore.
Nessuno gli
aveva insegnato a prendersi cura di una
donna o di qualsiasi altra persona, era stata una sua spiccata
propensione
naturale, a partire dal culto di sé, dal piacere del
prendersi cura di se
stesso per arrivare ad attenzioni di quel tipo, se riteneva
l’altro all’altezza
del suo tempo prezioso.
Forse per
questo era facile scivolare nella trappola
del suo fascino.
Perché
era incredibilmente bravo a lusingare
qualsiasi donna, e a dare davvero quello che prometteva a parole e con
un
sorriso. Le sue premure duravano poco, come succede per ogni cosa
bella, e si
allontanava dai brevi idilli con la solita eleganza, senza lasciare
alcuna
traccia di sé.
A volte
sembrava che niente fosse successo e che
tutto non fosse stato altro che un sogno.
Era un
po’ il pensiero di Millicent, relegato
orgogliosamente dietro le palpebre chiuse.
Non riusciva
a tenere gli occhi aperti, la testa le
girava incredibilmente.
«Blaise».
La sua voce
risuonò flebile e impastata come quella
di una bambina che cerca di vincere il proprio sonno per non perdersi i
discorsi interessanti degli adulti.
Blaise si
voltò a guardarla, gli occhi verdi
screziati dalla spossatezza della serata.
«Sì?»
domandò temendo domande scomode e richieste
inappropriate.
«Theodore
sopravvivrà».
«Alla
noia di se stesso?»
La sua voce
era morbida e calda, e si insinuò tra le
coperte sotto cui si era rifugiata Millicent, accarezzandole
l’orecchio. Ma lei
era troppo stanca, troppo assorta dai suoi pensieri e dalla presenza di
lui e
troppo ubriaca per poter afferrare il suono argentino della sua ironia.
«Sopravviviamo
sempre tutti a chi non ci ama».
Pur volendo,
non avrebbe mai trovato né la forza né
il coraggio di smentire la certezza già fragile di quella
sua convinzione.
Millicent
aveva ancora gli occhi chiusi, su di lei
veleggiava in pace la quiete del sonno e tutto quello che avrebbe
desiderato
era che Blaise le desse ragione e dividesse quel sonno con lei, nel
silenzio
della notte, fino al giorno successivo. Ma non fece niente per
convincerlo a
restare, fingendosi più ubriaca di quanto fosse,
perché un rifiuto le avrebbe
spezzato il cuore, e perché certe cose sono semplicemente troppo
perché
lei potesse sopportarle. Avere Blaise Zabini a tal punto vicino a
sé, sarebbe
stata una di quelle.
Perciò
si voltò su in fianco, tirando con sé la
coperta, e si seppellì lì sotto, lontana dalla
profondità dei suoi occhi. Poco
dopo dormiva davvero, e quello che forse avrebbe preferito non
perdersi, non
raggiunse mai il caldo nascondiglio del suo sonno.
«Vorrei
poterti dire che è così e che è questo
che ci
basta. Che ogni ferita trova la sua cura, che sia possibile riparare
ogni
strappo».
Si
passò una mano sugli occhi stanchi, premendo per
cancellare la stanchezza che si sentiva addosso, il peso dei sorrisi
distribuiti in società, il sapore dolce e fuorviante dello
champagne e quello
stucchevole che Miss Sheridan gli aveva lasciato impresso sul colletto
della
camicia.
«Che
una mattina ti alzi e ritrovi tutto come lo
avevi lasciato prima che la realtà e i suoi conflitti
invadessero il tuo spazio
vitale. Che Pansy torni al posto che aveva prima, che Draco recuperi
suo padre
e quel pezzo di sé che gli manca. E che quello che
condividono possa bastare ad
entrambi. Però non funziona Millicent».
Chinò
la testa, i lineamenti del suo viso contratti
nello sforzo di far fronte alla sconfinata desolazione della notte e
dei
silenzi che lo aggredivano nella sua vita.
I could possibly be fading
or have something more to gain
I could feel myself growing colder
I could feel myself under your face
Under your face
[Into
dust – Mazzy Star]
La guerra
era arrivata di colpo, nessuno era stato
interpellato, tutti avevano pagato le colpe delle scelte sbagliate o
poco
avvedute dei loro genitori, e lui aveva l’espiazione di una
madre e sette padri
a cui fare fronte.
Aveva
creduto che tutto il bello che c’era nel mondo
fosse sufficiente a convincerlo a non morire in quello scontro ad
Hogwarts, era
rimasto lì per un po’, troppo a lungo in
realtà, convinto di poter vestire quel
ruolo come tutti gli altri che aveva adattato alla misura del suo ego e
allo
splendore della sua presunzione.
Invece era
stato vinto, sconfitto, calpestato, dalle
deformità della vita vera, dalla crudezza della morte
ingiusta, dall’odore di
sangue e sudore, di carne bruciata. Il suo udito abituato alla
più fine e
delicata delle opere classiche era stato ferito e squarciato da grida
che non
avevano niente della fierezza dei grandi condottieri, e neanche
dell’eco
maestoso di un principio per cui morire.
Era solo
terrore e qualche preghiera, e suppliche di
una pietà che mai era arrivata.
Aveva visto
il castello crollare, uomini piangere
come lui credeva non fosse possibile.
E
lì in mezzo aveva perso ogni contatto con quello
che era prima, in quella carneficina si era sentito strappare via con
un dolore
acuto, lancinante, per quell’attimo insopportabile, la sua
scorza di uomo, il
suo guscio di umanità.
Quello a cui
era riuscito a pensare erano stati Pansy
e Draco.
Era rimasto
solo per loro, per il desiderio di
ritrovarli e di conservarli per sempre, come monito a quello scempio di
ferinità, come eterno ricordo di Blaise Zabini e del suo
essere uomo, come
prova e controprova della sua capacità di avere un
sentimento e di provare
amore per qualcuno, tanto da pensare di essere in parte già
morto se uno dei
due avesse anche solo osato precederlo.
«Non
basta sopravvivere a chi non ci ama per vivere
davvero.
Neanche
lontanamente».
La voce
spezzata da un dolore stanco ma in lui mai
sopito da allora.
Non aveva
raccontato a nessuno quello che i suoi
occhi avevano visto e le sue orecchie ascoltato.
Non
c’erano parole adatte né gesti giusti per
raccontare della morte di qualcuno.
Aveva
pensato di poterci provare, di concedersi un
tentativo, quando si sentiva soffocare dalla polvere di quel ricordo, a
tal
punto da non riuscire a fingere la solita seraficità di
sempre. Ma anche allora
non aveva mai trovato il giusto modo che gli consentisse di spiegare
quanto
successo senza che lui stesso si spezzasse di nuovo. Allora ricacciava
indietro
tutto quanto, e diceva a Pansy di aver bevuto un po’ troppo
la sera prima, e
che le sigarette di Warrington avevano sempre quella punta di
illegalità da
confonderti i sensi al punto giusto.
Invece di
dirle che quella sconosciuta gli era caduta
ai piedi, e i suoi capelli neri si erano sparsi per terra proprio nello
stesso
identico modo in cui quelli di Pansy cadevano sulle sue spalle o sul
bracciolo
del divano nella Sala Comune la sera dopo cena.
A quella
guerra Blaise Zabini non era sopravvissuto,
ma era un segreto di cui lui solo era al corrente.
Pansy non
avrebbe mai saputo che lui l’aveva vista
morta per una terribile frazione di secondo.
Né
che replicava quell’immagine, insieme a tutte le
altre, molto spesso e che non c’era sollievo che Warrington
potesse offrirgli
perché quell’immagine scomparisse per sempre,
invece che offuscarsi solamente.
Quando un
raggio di luce colpì un lato della sua
faccia, infiltrandosi nella fessura delle tende, Blaise seppe che era
arrivata
l’alba, che la notte era finita ed era solo un altro giorno.
Si sollevò dal
divano, lasciando correre le mani tra i capelli, e assestando il
proprio
respiro. I muscoli tesi si sciolsero lentamente, mentre estrasse una
sigaretta,
di quelle realmente magiche di Warrington, e la
portò alle labbra.
Poi
recuperò la propria giacca e uscì da casa di
Millicent, evanescente come suo solito.
Se non fosse
stato per l’odore di fumo, Millicent
avrebbe creduto che si fosse trattato di un lungo viaggio della sua
immaginazione, da raccontare a Pansy a colazione.
●●●
Maybe I'll just place my hands
over you
and close my eyes real tight
There's a light in your eyes
and you know, yeah, you know
Look on down from the bridge
I'm still waiting for you
[Look on down from the bridge
– Mazzy Star]
Quando si
alzò, vincendo il torpore della sua
sbornia, Millicent scoprì che Pansy aveva anticipato le sue
mosse. Anche se più
che in anticipo per la colazione era arrivata puntuale per il pranzo.
«Pansy».
Mormorò
allargando gli occhi per abituarli alla luce
del giorno.
«…
Blaise è stato qui».
Soggiunse
subito, riconoscendo l’odore di fumo,
rimasto impregnato nel salone, a finestre chiuse, nella notte.
«Il
tuo animagus qual è Millicent, un cane da
tartufo?»
Domandò
sferzante Pansy, passando oltre il piccolo
dettaglio che Millicent non aveva ancora trovato il suo animagus da
compagnia.
L’odore
della tavola imbandita per il pranzo fu
qualcosa di disgustoso al suo olfatto sensibile, e prima che potesse
dare
spettacolo di pessime scene, Pansy ordinò ad un elfo di
passaggio che fosse
portato via e sostituito con del tè. Per correggere la
deplorevole gentilezza
del gesto, si accese una sigaretta anche lei.
«E’
troppo chiedere cosa è successo ieri notte?».
Pansy la
guardò per qualche istante, espirando una
voluta di fumo.
«Avete
fatto l’amore tutta la notte, dopodiché lui ti
ha lasciato un anello di matrimonio nascosto sotto il ficus del salone.
Ovviamente doveva essere una sorpresa».
Millicent le
lanciò un cuscino, gettandosi sul divano
dove era certa ci fossero ancora tracce di lui.
«Abbiamo
parlato, se è per questo» protestò pur
consapevole
di non ricordare molto.
Pansy le
lanciò un’occhiata incuriosita, o così
sembrò.
«Di?»
«…
non mi ricordo molto bene. Devo aver detto
qualcosa su Theodore e lui—».
Pansy
deviò la traiettoria del suo sguardo, spegnendo
la sigaretta con un gesto nervoso.
«Ma
adesso stai meglio, noto» tagliò corto
interrompendola senza fingere che il discorso non le desse fastidio.
Millicent
ammutolì lanciandole uno sguardo
chiaramente offeso. Come sempre Blaise era a conoscenza di particolari
piccanti
che a lei non sarebbero mai stati riferiti. Eppure era la
fedeltà fatta
persona, se non si parlava di sua cugina Elenoire.
«Benissimo
grazie. Dov’è il tuo anello di
fidanzamento?»
Domandò
a sua volta cambiando argomento bruscamente.
Pansy portò lo sguardo alla propria mano sinistra, libera da
anelli,
immacolata.
«Impigliato
tra i capelli di Draco? Perso nelle
oscurità di un corridoio?».
«L’ho
venduto per riacquistare la mia libertà».
Per un lungo
istante Millicent pensò di poterle
credere.
Poi il
significato di quel sarcasmo e il languore
inquieto negli occhi di Pansy le ricordarono che quel fuggire a scomode
verità
era una specialità di Pansy Parkinson.
«E’
bello».
Rivelò
infine, a voce troppo bassa perché fosse
entusiasta. Millicent portò alle labbra la tazza di
tè, scottandosi la lingua
come sempre.
«L’anello?».
«Adamantino».
Come sempre
ebbe la sensazione che Pansy parlasse con
lei come ad uno specchio in realtà.
«Pregiato,
immagino».
«Sopraffino».
Millicent
cercò di alleviare il dolore con un
biscotto.
«Beh,
lui ha sempre avuto buon gusto» osservò
salottiera.
Pansy perse
il suo ultimo commento, impegnata a
soffocare di nuovo il pensiero di lui.
«Fossi
in te, a questo punto, ne farei pubblico
vanto. È tuo».
Pansy la
guardò allarmata e quasi timidamente, come a
lei non si era mai rivelata.
Per la
commozione, Millicent intinse un altro
biscotto nel tè, fingendo che vi fosse caduto.
«Sarebbe
un po’ sconveniente per entrambi».
Ad un passo
dall’addentare la pasta friabile del
pasticcino, Millicent si fermò.
«Oh.
È animato da sentimenti?».
Pansy
levò su di lei uno sguardo spazientito.
«Merlino
Milli, perché devi sempre essere così
sentimentale?».
«Io?»
domandò indicandosi e mandando giù il biscotto
con aria offesa. Strana affermazione pronunciata da una che decantava
da lunghi
minuti le lodi del suo anello di fidanzamento, parlandone come se fosse
la
quint’essenza del principe azzurro sfavillante nel suo
esotico erotismo.
Fu allora,
che si concesse il beneficio del dubbio.
«…
ed è stato bello?» azzardò facendo la
prova del
nove.
Pansy
sollevò di scatto la testa, alzandosi in piedi
per accendersi un’altra sigaretta.
«Non
sono affari che ti riguardano».
Un sorriso
beffardo dipinse il volto di Millicent,
consegnandole il premio di un altro biscotto.
«Lo
immaginavo».
L’altra
le rivolse un sorriso di
scuse che durò poco sul suo viso, poi finì la sua
sigaretta e le annunciò che
aveva una lunga giornata a disposizione da occupare nel tentativo di
sfuggire a
suo marito.
What’s
next
«Potresti
non usare la parola sposa?»
«E
tu, potresti far sparire quella fede?»
«Potresti smettere di fissarmi?»
Domandò con un mezzo sorriso sulle
labbra
che tradì il fastidio nella sua voce.
Thanking:
Entreri: grazie e speriamo bene! Sono un
po’ distratta ultimamente, non giova molto alla mia
preparazione XD Svelato il
mistero su Blaise? =P L’edonismo non è tutto per
quanto gliene dispiaccia! Un bacio.
B e r t a: Grazie ^__^ Li amo molto
anche io XD
sweetchiara: tranquilla :* io
l’ho
presa non so quante volte questo inverno u.u è tappa fissa
ogni anno (invece
purtroppo gli esami sono tappa fissa ogni tot mesi XD). Me lo chiedo
anche io
cosa faranno in effetti, il fatto che ci siano dei matrimoni di mezzo
non è
molto d’aiuto, ma sapranno confidare nelle loro doti
Slytherin… sennò che ci
sono finiti a fare tra i pupilli del buon vecchio Salazar? =P / OT
musicale:
sì, David Bowie *___* altra passione viscerale. Quella di
questo chap l’ho
scoperta dal film di Bertolucci Io ballo
da sola e l’ho amata subito subito *_*
|
Ritorna all'indice
Capitolo 8 *** VIII Confessioni ***
The
way we were
VIII
Confessioni
Why
is the bedroom so cold
turned away on your side?
Is my timing that flawed,
our respect run so dry?
Yet there’s still this appeal
That we’ve kept through our lives
Love, love will tear us apart again
[Love
will tear us apart, Joy Division]
I coniugi
Parkinson da sempre vivevano un terribile dissidio interiore,
causatogli dalla
smania di essere al vertice d’onore della scala sociale,
immancabilmente castigata
dalla contingente impossibilità ad arrivarci. Loro figlia
aveva cercato di
prendere le misure da loro quanto prima le fosse possibile per mettere
in salvo
una parvenza di composta dignità, e le era riuscito
discretamente bene.
Il
matrimonio
con i Malfoy era probabilmente l’unica idea che li trovava
d’accordo.
Almeno per
il
breve tempo che era durata, prima che suo padre ritenesse una mossa
poco saggia
imparentarsi con loro dopo la performance di Lucius Malfoy.
Agli occhi
di
Pansy, Lucius Malfoy non era altro che un bell’uomo, di cui
era stata
previdibilmente innamorata a suo tempo, ma non incarnava niente
più di quello e
la sua pericolosità non la sfiorava neanche minimamente.
Dopo il classico
melodramma infantile di un amore segreto e struggente per
l’uomo più grande
sposato con la donna più bella, ebbe la sciagurata idea di
rivolgere lo stesso
tipo di sentimenti verso suo figlio.
E anche in
quel
momento, nel dividere il letto con lui, Pansy ritenne che tra le due
cose,
sarebbe stato di certo meno deleterio per lei continuare ad amare in
segreto
Lucius Malfoy. Probabilmente sarebbe stato anche più scaltro
nel gestire una
relazione clandestina che non suo figlio. O forse lo stava solo
mitizzando,
dopotutto il gene era sempre lo stesso.
«Potresti
smettere di fissarmi?»
Domandò
con un
mezzo sorriso sulle labbra che tradì il fastidio nella sua
voce.
Draco non
prese
neanche in considerazione il suggerimento, guardandola con un’espressione
divisa tra la meraviglia e un
innegabile divertimento.
«Da
quando ti dà
fastidio che lo faccia?» la rimbeccò e Pansy non
dovette inventarsi strane arti
divinatorie per indovinare quello a cui stava pensando. In tutti gli
anni di
Hogwarts era stata scostante e sgarbata con lui, a dispetto delle
sceneggiate a
cui si lasciava andare in pubblico.
Poteva
adularlo
con lo sguardo in qualunque situazione, ma nel privato delle loro
conversazioni
non c’era niente di quello che lui facesse o pensasse che non
passasse sotto il
vaglio critico di Pansy Parkinson. Sarebbe stato difficile per chiunque
li
conoscesse in quelle vesti immaginare che lei potesse nutrire dei
sentimenti
tanto sinceri nei confronti di Draco, e lei preferiva che il resto del
mondo la
ritenesse una seccante arrampicatrice sociale.
«Da
quando sei
diventato così esplicito» ammise candidamente,
stavolta non senza una punta di
imbarazzo. Gli occhi di Draco si velarono di ironia e tenerezza, e lei
credette
per un momento di esserselo immaginato.
«Scusa,
ti ho
rovinato il gioco».
Pansy rise
delle
sue parole, e la risata si spense in un sospiro nel sentire le sue mani
sulla
pelle. Le stesse mani che poco prima l’avevano privata di
qualsiasi pudore o
buonsenso e che ormai conoscevano tutto di lei, il permesso e il
proibito, il
conosciuto e il segreto.
Erano le
stesse
che si erano poggiate goffamente sui suoi fianchi al Ballo del Ceppo,
la prima
volta che avevano ballato insieme. Erano pessimi entrambi, e
l’eleganza innata
delle loro figure, e la stoffa pregiata dei loro vestiti, aveva
nascosto ad
occhi disattenti l’incertezza delle loro movenze.
«Quando
mai tu
giochi secondo le regole?» gli fece notare fermando la sua
mano e guardandolo
dissacratoria. Lui valutò che avesse ragione ma non perse
tempo in un’arringa
di difesa. Le proprie colpevolezze con Pansy si dimezzavano del loro
peso.
Era
lì, che lo
guardava ancora con la stessa dolcezza negli occhi che non sapeva di
avere, a
cui lui non aveva voluto credere fino a quando non era riuscito a
strapparle
subdolamente la conferma della sua sincerità. Su quella
torre avrebbe potuto
uccidere un uomo, eppure lei lo avrebbe amato lo stesso, si era detto
tempo
dopo. Aveva iniziato ad amarlo da ben prima che uccidesse qualcuno.
«Rare
volte».
Le sue mani
tornarono impudenti esattamente dove erano prima, e questa volta Pansy
assecondò la sua richiesta. Le sembrava che tutti i baci
dati e ricevuti, presi
senza permesso e immaginati al buio della sua stanza, non valessero
niente in
confronto a quelli attuali. Sapeva quanto tutto quello fosse sbagliato,
scorretto nei confronti di altre persone, e soprattutto pericoloso e
impietoso
nei riguardi di se stessi.
Erano in
quella
camera da letto, nella residenza estiva dei Parkinson, e avevano chiuso
il
mondo fuori per non guardarlo in faccia. Ma il languore dei loro baci e
la
voluttà di quella tenerezza non sarebbero valsi a
confortarli quando la
crudeltà della vita reale li avrebbe richiamati ai loro
ruoli.
Chiuse gli
occhi
su quel pensiero e sulle labbra di Draco sul suo collo.
«Cosa
stai
pensando?».
Le
scivolò un
sospiro sulle labbra, sentendolo allontanarsi da lei.
Puntò
lo sguardo
su di lui, i propri occhi raccontavano del suo desiderio per lui e del
rimpianto per il tempo perso, per i sogni sprecati, per le occasioni
mancate e
quelle che ostinati si erano lasciati sfuggire solo per orgoglio.
«Nessuna
sposa è
mai andata in ritiro spirituale».
Nella sua
voce
risuonò una durezza che Draco non aveva previsto.
Avevano
trovato
delle scuse che erano sembrate ottime sul momento. Probabilmente Daphne
Greengrass in quello stesso istante era dedita ad istruire sua sorella
sugli
inganni del matrimonio e sulla scarsa rettitudine morale di suo marito
–
proprio lei, da che pulpito – e Theodore Nott storceva il
naso guardando la
bottiglia di brandy nella sua riserva di liquori.
Cercava di
non
pensare a Theodore Nott, disabituato a sentimenti tanto intensi di odio
per qualcuno.
L’ultimo
a cui
li aveva rivolti era stato Potter e il suo perfezionismo, la sua
capacità di
agire bene nel fare del bene, uscendone bene
e ricevendo in cambio tutto il bene
delle persone che gli erano intorno. Era stata invidia e senso
di inadeguatezza, nei suoi confronti, ma poi un giorno l’odio
era sparito,
sommerso dalle incombenze di ben altri problemi molto più
personali di quella
sfida a senso unico con Potter.
Sposando
Astoria
aveva scoperto che è possibile vivere in un mondo ovattato.
Dei sentimenti gli
giungeva solo l’eco lontana e indistinta. Poi era tornata
Pansy Parkinson, e
aveva tirato fuori dal segreto in cui li aveva relegati tutta la
violenza dei
sentimenti e l’intensità di un bacio; il bruciore
nello sguardo di due occhi
ardenti; la docilità di una carezza, il calore di un corpo
addormentato vicino
al proprio. Il profumo inebriante, il languore di un sospiro e la
malizia di un
sorriso.
Era tornato
a
giocare con il proprio corpo, a ridere di sé, a correre
lungo il filo di una
provocazione, in un richiamo di passato e presente. Aveva riscoperto la
frustrazione nel non sentirsi appagato di qualcosa, aveva persino
ricordato il
dolore sordo del congedo da lei, quando doveva lasciarla andare e
tornare alle
vesti di marito impegnato.
«Potresti
non
usare la parola sposa?»
si ritrovò a
dire, cercando di arginare la rabbia per quel pensiero in uno sguardo
indisponente.
Pansy si
voltò a
guardarlo, compiaciuta e infastidita.
«E
tu, potresti
far sparire quella fede?» replicò glaciale non
potendo fare a meno di posare
gli occhi sulla sua mano sinistra.
Draco
sentì la
propria mano quasi bruciare, andare in fiamme e poi farsi terribilmente
pesante, come del resto era la sua vita negli ultimi tempi. Grigia e
pesante.
Scese il
silenzio, sui loro corpi nudi, avvolti nell’abbraccio di un
lenzuolo; su quella
camera da letto, sulla loro incapacità di confessarsi
onestamente, sulla
tristezza degli occhi di Pansy e la tensione disegnata sul corpo
dell’altro.
Non riusciva
a
capire come fosse possibile cercarsi così tanto e non
riuscire a stare insieme.
«Me
lo
rinfaccerai molto a lungo?» le chiese sarcastico e
volutamente maligno. Draco
Malfoy e le sue difese.
“Per sempre” avrebbe
voluto rispondere
Pansy, ma sapeva che non avrebbe detto la verità.
«No,
sei
abbastanza vittimista di tuo, non sopporterei di darti un altro
pretesto per
esserlo».
La
sfacciataggine delle sue parole colpì lì dove
nessuno osa mai addentrarsi
arrivando tanto lontano, nell’orgoglio di un Malfoy. Draco la
guardò senza
poter sollevare polemiche o accomodate giustificazioni. Il vittimismo
era stata
la tattica con cui aveva scelto di vivere e Pansy Parkinson gli stava
rivelando
– impietosamente svestita, al suo fianco – di
averlo scoperto da lungo tempo.
«Mi
compiaccio
del mio vittimismo al confronto della brillante acutezza di tuo
marito».
Replicò
volutamente sarcastico e diretto, irrispettoso e maligno come solo un
Malfoy si
sarebbe potuto rivelare, senza perdere il minimo cenno di eleganza
nella sua
loquacità.
«Theodore
è
molto più di quello che sembra» mormorò
lei a mezza voce, perdendo lo sguardo
sul bianco delle lenzuola. Draco si lasciò cadere
drammaticamente di schiena,
con un sospiro da esperto attore di teatro. Pansy cercò di
ignorarlo ma le
risultò piuttosto difficile.
«Questo
non ci
tenevo a saperlo».
«Idiota»
tagliò
corto lei, colpendolo sul braccio senza alcuna remora. «Sto
cercando di dire
che non è meno furbo di noi e che di sicuro non ha creduto a
quello che gli ho
raccontato. Chiunque avrebbe capito che più di un
ricongiungimento familiare si
trattava di una fuga».
Tornò
seduta,
volgendo le spalle a Draco, perché guardarlo negli occhi in
quel momento non le
sarebbe stato possibile. Sentiva che qualcosa le stava sfuggendo di
mano e per
la prima volta in tutta la sua vita, Pansy Parkinson temette di non
essere in
grado di gestire una situazione.
Era stata un
ottimo e terribile prefetto. Aveva amministrato la giustizia ad
Hogwarts
secondo canoni tutti suoi ma all’interno del codice
d’onore Slytherin niente
era mai sfuggito alla sua fredda intransigenza. E adesso doveva
stringere le
lenzuola sotto le dita per impedirne il tremore, e controllare la
propria voce
nella speranza di non lasciar trapelare il bisogno e
l’illusione di cui erano
colme le sue parole.
«Pansy».
La voce di
Draco
era decisa e consapevole. La gravità con cui
l’aveva chiamata per nome non fece
altro che darle la certezza della fine dell’idillio, per
quella giornata. Non
cedette al suo richiamo. «Pans». Lo
sentì muoversi, il letto assecondava le sue
movenze. Il suo respiro caldo le sfiorava il collo, confuso al profumo
e
all’odore del suo corpo, e dovette fare un ulteriore sforzo
per non
abbandonarsi alla conturbante presenza di Draco.
«Allora
perché
non è qui?».
«Questo
non
sarebbe una garanzia».
Un sorriso
increspò la preoccupazione nei lineamenti del suo viso.
Draco
scavalcò
il muro della sua testarda convinzione che esistesse ancora qualcosa di
giusto
ed ingiusto nel loro mondo, e la raggiunse sull’altro lato
del letto. La vide
sorridere e qualcosa lo attraversò, tagliente come una lama,
veloce e puntuale.
Conosceva già le parole che le avrebbe sentito dire. Erano
quelle per cui
cercava di chiedere scusa nel fare l’amore con lei ogni
volta, forse, cercando
l’unica redenzione per cui avesse un reale e umano interesse
nell’ottenerla.
«Noi
Slytherin
manchiamo sempre ai nostri appuntamenti».
●●●
We fought for good, stood side
by side,
our friendship never died.
On stranger waves, the lows and highs,
our vision touched the sky.
Immortalists with points to prove,
I put my trust in you.
[A means to an end - Joy
Division]
Il problema
dell’essere avvezzi al buon sapore di brandy e qualsiasi
altro suo degno
surrogato, è che si finisce con il precludersi il piacevole
sollievo dell’oblio
di una sbronza.
Peccato,
perché
ne avrebbe di certo tratto giovamento, pensò Blaise aprendo
la finestra della
propria camera da letto e apprestandosi ad accendere una delle ottave
meraviglie dei sensi appena importata da Warrington.
Ricordava
tristemente quanto avvenuto nella camera da letto di Millicent. Anche
se non si
era trattato di qualcosa che compromettesse la sua rispettabile
immagine.
Tuttavia quando Pansy Parkinson piombò nel mezzo della sua
camera da letto
quella sera, si ricordò di maledirla per l’oneroso
incarico che gli aveva
affibbiato qualche sera fa.
«Pans»
la salutò
serafico, in una nuvola di fumo dolciastro.
Lanciando
mantello e accessori femminili sul bordo del letto lei gli si fece
vicina.
«Gli
affari di
Warrington vanno a gonfie vele» commentò
lanciandogli uno sguardo confuso nel
pensiero di doversi preoccupare dell’assiduo scambio di merci
tra lui e Blaise.
Lui
cancellò con
un sorriso l’indugiare di Pansy, tirandola a sé
con un gesto che per chiunque
altro sarebbe stato brusco e scortese. Pansy cedette
all’invito, lasciando che
lui le porgesse la sigaretta, abbandonandosi alla memoria di tempi
antichi,
fatti di ore spese in una stanza chiusa dispersa tra le mura di
Hogwarts con
Blaise e Draco.
«Theodore
sarà
felice di sapere che passi nelle camere da letto di chiunque tranne che
nella
vostra» aggiunse poi dedicandole un sorriso di dispettosa
malizia tutto per
lei.
Pansy
valutò la
possibilità di ucciderlo o di ignorarlo, finendo per
sottrargli la sigaretta e
lanciarla nel camino spento.
«Sei
di ottimo umore».
Blaise non
si
scompose, alzando le spalle alla misera fine della sua compagna per la
serata.
Del resto sapeva perfettamente che Pansy non avrebbe perso tempo nel
sentirsi
in colpa, dandogli una soddisfazione di quel genere.
«Devo
affaticarmi a parlare del tuo?» domandò
schiettamente lei, dandogli la certezza
di non aver dimenticato né la sigaretta, né la
sua provenienza.
«Se
è colpa delle
misere prestazioni di Draco—» proseguì
lui con il solito sarcasmo irriverente,
senza risparmiare mai niente a nessuno, soprattutto al suo migliore
amico. Pansy
lo tacitò con un’occhiata, abbandonandosi sul
letto.
Guardandola
di
soppiatto nel cercare la propria camicia, Blaise pensò alla
naturale
dimestichezza con cui Pansy si destreggiava nella sua vita. Nessuna
aveva mai
saggiato la comodità del letto del signor Zabini con ancora
i vestiti addosso,
e nessuna aveva mai avuto il tempo di chiudere gli occhi e svegliarsi
in quello
stesso letto il giorno dopo.
Eppure era
lo
stesso letto che aveva ospitato il loro strano trio. Un marchingegno
fascinoso,
a quanto poteva leggere negli occhi degli altri intenti a guardarli
pateticamente di nascosto, dai meccanismi sconosciuti e
incomprensibili, e per
questo silenziosamente temuti.
Rise di
sé
facendo ben attenzione a non darne conferma a Pansy.
Certe volte
Blaise Zabini riusciva persino a convincersi di avere bisogno di una
vacanza.
Per quanto il termine vacanza richiami l’opposto concetto di lavoro, a cui lui era indecentemente
estraneo quasi da sempre.
«Blaise».
Non si
premurò
di risponderle, finendo di abbottonare la camicia. Pansy non chiedeva
quasi mai
il permesso di fare qualcosa e del resto era implicito che in qualche
parte
remota della sua impegnatissima agenda di libero pensatore, Blaise le
concedesse una minima porzione di attenzione.
«Sarai
il mio
testimone».
Se solo non
si
fosse trattato di Pansy Parkinson, Blaise avrebbe osato dire che nella
voce con
cui pronunciò quel verdetto, tremava un pianto antico e
sotteso.
«Sono
stato
testimone di molte cose» replicò allusivo.
Anche della
sua
morte, se proprio ci teneva a saperlo, ma relegò quel
pensiero sul fondo della
sua mente, occupata con altri edonistici pensieri, avvolti nella solita
raffinata ironia.
«Allora
inserisci
le mie nozze nella lista».
Pansy si
voltò a
guardarlo e nei suoi occhi riluceva la più dolorosa e
ingiusta delle
determinazioni.
Blaise
considerò
l’idea di ignorare quanto sentito, di mettere fine al
discorso con una risata e
brindare al sarcasmo Slytherin, che si diverte sempre a costruire abili
castelli
di carte truccate.
«Immagino
che ci
sia dell’altro da
aggiungere» mormorò
invece, scoprendo di avere ancora la voce impastata dal fumo e
affievolita
dalla reticenza a parlare di un argomento che a lui sembrava fin troppo
scabroso.
«Non
dirmi che
non lo avevi messo in conto».
Pansy gli
rivolse un sorriso sornione, scoprendo una punta di divertimento
insperata. Di
fronte a quel sorriso, Blaise scoprì con suo sommo
disappunto di non avere più
la forza di fare altro.
Avrebbe
voluto
chiederle il perché di quella scelta e confidarle di essersi
persino concesso
il lusso di sperare in una
soluzione
più avveduta da parte sua. Avrebbe preferito sbatterle in
faccia la propria
delusione nei suoi confronti e rivelarle che con quella
assurdità stava
tradendo la fiducia che aveva riposto in lei.
Blaise
Zabini
era un ottimo amante e un baro sopraffino, e forse un giorno sarebbe
stato
persino un esemplare marito per una moglie annoiata, che gli avrebbe
concesso
gli spogli della sua beltà e l’autorizzazione a
vivere in assoluta libertà da
reciproche obbligazioni affettive.
Ma se
c’era
qualcosa che davvero non era in grado di fare, era accettare a testa
bassa
qualsiasi tipo di resa.
In quel
momento
comprese di aver riversato in Draco e Pansy tutto il sentimento di cui
poteva
ritenersi capace e la sola idea che entrambi potessero anche solo
concepire di
buttare via la loro occasione di felicità in quel modo
barbaro e primitivo –
per timore – lo faceva sentire l’ultimo relitto
sulla terra. Il naufrago che
vede salpare l’ultima nave ed è costretto a
prendere atto che d’ora in avanti
regnerà solo il silenzio della solitudine.
Ricacciò
indietro quel tumulto di pensieri, scuotendo la testa mentre cercava
un’altra
sigaretta, persa in qualche meandro della camera da letto.
Solo quando
la
risposta di Pansy al suo silenzio risultò altrettanto muta
si decise a volgere
lo sguardo su di lei, riconoscendo l’involucro di una
sigaretta tra le sue dita
sottili.
«Mettere
in
conto che ti sposassi sul serio?» rispose infine,
raggiungendola sul letto.
Le porse la
mano, conciliatorio.
Pansy
accentuò
il sorriso, accendendo la sigaretta.
«Che
Millicent
sarebbe stata la mia damigella d’onore».
«Sono
un uomo
fuori dal comune, Pans, non mi abbasserei mai a confermare un banale e
pretestuoso luogo comune riguardo a testimoni e damigelle».
«Millicent
non
se lo aspetta, infatti» osservò lei, serafica.
Blaise le sottrasse con
gentilezza la sigaretta, con una cautela che la fece sorridere e al
tempo
stesso le inondò il cuore di un affetto da cui rare volte si
lasciava
pervadere.
Nel tumulto
della guerra, e nelle difficoltà della loro vita, sempre in
salita a dispetto
degli scenari che si ostinavano a dipingere perché le
allodole vi si
specchiassero, Pansy aveva sempre avuto le sue piccole certezze, e
queste la
facevano sentire a casa anche quando era stata fatta terra bruciata
intorno a
lei.
Una era
quello
strano sentimento per Draco, incoerente e inarrestabile, temuto eppure
di
incredibile conforto. L’altra era
quell’incondizionato affetto per Blaise, che
lui le aveva strappato con la forza dei suoi sorrisi e
l’ironia delle sue
parole in quei lunghi anni di conoscenza.
«E’
per questo
che è innamorata di te» proseguì in uno
slancio di sincerità.
Blaise
rimase in
silenzio, certo di non volerne sapere di più ma in qualche
modo incapace e
restio a fermare le sue parole.
«Perché
sei
fuori dal comune».
Pansy chiuse
gli
occhi, e vide il trascorso della loro vita come fosse un sentiero dove
– per
quanto si fossero ostinati a cancellarle – fossero rimaste
impresse le tracce
dei loro passi, a ricordare ad entrambi la fatica e i compromessi a cui
controvoglia avevano dovuto cedere, per ottenere la delicatezza con cui
dividevano quel letto, alla fine di tutto, in quella camera.
«E
conosci il
valore di una promessa e sai che vale più di un giuramento,
ma sai anche che
adempiere è rischioso, perché implica confessare
di avere cura di qualcosa.
Fare tutto per dovere ci ha sempre messi in salvo, non è
vero?»
Non era
affatto
una domanda, e lui non le rispose.
«Draco
può dire
di aver dato retta a tutte le scemenze di Lucius perché era
suo padre e suo
figlio ha il dovere di amarlo e venerarlo e di convincersi che non
possa
sbagliare. Mai.»
Per quanto
quelle parole fossero dure, le labbra di Pansy le raccontavano con una
nuova
grazia. Come se fosse una storia di cui si conosce la fine, e di cui si
è
imparato ad accettare la morale.
Blaise ne
rimase
attonito prima che sollevato.
«Non
ci hai mai
detto perché sei rimasto ad Hogwarts, durante la
battaglia».
La domanda
aveva
accompagnato gli anni della ricostruzione, in cui tutti e tre avevano
cercato
di rimettersi in piedi, ma a quel punto Pansy ne parlò come
se la domanda in sé
fosse già una risposta. E di nuovo Blaise
desiderò trovarsi fuori da quella
stanza e lontano da lei e dalle sue scomode verità, ma tutto
sommato sapeva di
non poterlo fare.
«Ma
capisco che dovevi farlo.
Perché eravamo i tuoi
migliori amici e il dogma Slytherin ci ha costretto a giurare
fedeltà tra noi
tutti».
La storia
poi,
aveva raccontato di grandi e infami tradimenti tra gli umidi
sotterranei della
casata Slytherin, ma questo di fronte alla vastità del nulla
eterno
della
morte non aveva più avuto importanza per nessuno.
«Avresti
preferito una dedica o un poemetto in ottave?».
«Non
ha più importanza,
ormai. Sarai il mio testimone, e io sposerò Theodore Nott
perché devo. Perché
ho dato la mia parola, e perché Draco ha già dato
la sua molto tempo prima di
me».
Blaise le
rivolse uno sguardo remoto, cercando di scavare nel fondo del suo
sguardo, ma
gli occhi neri di Pansy Parkinson rimandavano solo il bagliore della
rabbia
accecante per la scelta a cui era stata costretta.
In quanto a
parole date in fatto di matrimoni Blaise sentiva di non avere voce in
capitolo.
L’esempio che sua madre gli aveva offerto era quello della
vanità di una
promessa. Nell’eternità dei sentimenti aveva
smesso di credere da lungo tempo,
preferendo crogiolarsi nella delizia di un lungo momento di piacere
piuttosto
che in altro.
Sapeva come
prendersi cura di una donna e del suo corpo, ma di certo gli era
sconosciuto
cosa volesse dire coltivare un sentimento.
Per questo
per
tutti quegli anni aveva osservato incuriosito e sornione Draco e Pansy
e i loro
sguardi, l’impaccio dei loro movimenti, le loro discussioni e
il modo in cui
cercavano di imporsi l’uno sull’altro. Era stato
forse l’unico testimone del
momento in cui la loro guerra era finita, ed insieme erano diventati
grandi,
accettando in silenzio quello che c’era tra loro.
«Continuo
a
pensare che preferirei che non ti sposassi».
Pansy
riconobbe
la sincerità nelle sue parole. Si avvicinò a lui,
appoggiandosi contro la sua
spalla.
C’era
stato un
periodo in cui si era sentita forte e sicura di sé, e con
lui e Draco aveva
portato in giro la lucentezza della loro presunzione, appuntata al
mantello,
riconoscibile nella piega dei loro sorrisi, vivida e sfrontata negli
sguardi
che rivolgevano a tutti gli altri.
Ora, accanto
a
Blaise nel modo in cui lo era stata da sempre, si sentiva fragile e
insignificante, come vinta da una vita che non era riuscita a fare sua.
«Anche
io avrei
preferito che non fossi rimasto durante la battaglia».
Sentì
i muscoli
di Blaise tendersi sotto la sua guancia, sebbene lui non avesse
pronunciato una
parola. Non alzò lo sguardo a cercare i suoi occhi,
rispettando la sua volontà.
Sapeva che
Blaise non si sarebbe mai immaginato di sentirglielo dire.
«Almeno
adesso
uno di noi tre sarebbe salvo».
Blaise non
disse
niente, chiuse gli occhi, preda di una stanchezza improvvisa e
invincibile.
Si
addormentò
poco dopo, con il respiro leggero di Pansy contro il collo.
Sognò la battaglia
di Hogwarts, lo strazio di corpi e urla; rivide il corpo di Pansy
cadere ai
suoi piedi, abbagliato da una luce che confuse con il candore del suo
abito da
sposa; sognò di Draco e dei frammenti della loro amicizia,
vivendo immagini di
ricordi lontani, assaporati con amarezza e nostalgia;
ricordò i tempi che aveva
riconosciuto come facili dopo aver affrontato quelli difficili;
sognò di sua
madre e del funerale del suo quinto marito, dello sguardo angosciato di
Draco
tra le panche della chiesa, della fermezza con cui Pansy gli era stata
accanto,
già una donna, quando era venuto il momento di coprire la
bara con la terra
umida. Non aveva detto a nessuno che quel marito numero cinque gli era
risultato persino simpatico, eppure aveva avuto l’impressione
che in quella
calca di sconosciuti loro due sapessero.
Allo stesso
modo
in cui Pansy aveva sempre saputo che non era affatto sopravvissuto a
quella
guerra come voleva far credere, e si era offesa della menzogna che
aveva
cercato di venderle; e allo stesso modo in cui Draco aveva
perfettamente capito
quanto logoranti fossero i ricordi di quello scontro, ma non era stato
capace
di vincere il senso di colpa per condividere con lui quei ricordi
comuni.
Quando si
svegliò era notte fonda, Pansy se n’era andata da
un pezzo, dopo aver chiuso la
finestra, tirato le tende e averlo riparato con una coperta. Sorrise di
quella
gentilezza, una sottesa premura, e pensò che sarebbe stato
il suo testimone,
perché tutto sommato glielo doveva.
What’s next
“Quel bisogno di accudimento e desiderio
di
cure e attenzioni che è insito in ogni animo Slytherin, e
langue improvviso,
sopraffacendo qualsiasi buona regola e salda imposizione del loro
spartano
dogmatismo”.
“A differenza di Pansy, troppo distratta
dall’insofferenza per il mondo sociale, Millicent aveva una
perfetta memoria
per quanto riguardava le fisionomie. E non aveva dubbi che quella fosse
la figura
di Tracey Davis, nel bel mezzo del salone di Nott Manor”.
Thanking:
sweetchiara: Blaise è un
personaggio
deleterio, la sua imperfezione è talmente perfetta da
renderlo crudelmente
fittizio >_< Pensa che bello avere un mini Blaise
portatile *_* che ti
elogia quando deve, ti sorride quando ti senti l’ultimo sputo
sulla terra e
sorseggia brandy sul bordo del tuo comodino *_* -> il delirio
è
sopraggiunto, infine.
Pansy e
Draco
sono nati per la clandestinità secondo me, a partire dal
fatto che clandestini
lo sono stati l’uno nei confronti dell’altra per
tutto il tempo in cui non si
sono dichiarati il loro amore innegabile indissolubile
incontrovertibile
impeccabile ecc ecc. *_* / Sì, Mazzy Starr is Love (L), ha
una voce bellissima
e poi la sua musica è così evanescente *__* *ama
trovare compatibilità musicali
con qualcuno, in genere non le capita u.u* Passata
l’influenza? Dai che l’inverno
è quasi finito :D
valy88: Noooo non disperarti! XD Capita
a tutti, e poi mica crolla il mondo :D Sono lieta che Blaise ti
piaccia, qui
gli ho dedicato un po’ più di spazio,
perché in realtà non riesco a non parlare
di lui u.u mi prudono le dita XD E basta scusarsi =P Grazie :* al
prossimo
capitolo!
Entreri: Lucius è un mio
punto debole,
non riesco a non amarlo e a non metterlo in mezzo in qualche modo *^^*
So che è
poco apprezzabile tutto quello che ha fatto ma sono in grado di
costruirgli un
lungo elenco di giustificazioni XD Sì, Blaise ha il suo bel
trauma in effetti,
ma le vie di Salazar sono infinite e troverà un modo per
venirne fuori :D Gli esami sono di
giurisprudenza, a
breve saprò se ne uscirò viva o illesa XD I tuoi?
Un bacio, grazie per la
recensione sempre puntuale =)
Noticina
Nel prossimo
capitolo
tornerò ad occuparmi anche un po’ delle
controparti bistrattate dall’adulterio
XD Questo era un po’ di transizione per definire la posizione
e il prossimo
cambiamento di situazione. Un bacio a tutte, recensitori e non ^_^
|
Ritorna all'indice
Capitolo 9 *** IX Dover ***
The
way we were
IX
Dover
Better ask questions before you
shoot
Deceit and betrayals bitter
fruit
It's hard to swallow, come time
to pay
That taste on your tongue don't
easily slip away
[Lonesome day – Bruce Springsteen]
Quando Pansy
fece ritorno da quello che ormai aveva imparato ad accettare di dover
ipocriticamente chiamare ritiro
spirituale, Theodore era impegnato in una riunione con suo
nonno e lei non
si affaticò ad interromperla. Sarebbe stato un ottimo
pretesto per infastidire
il futuro suocero, ma non era dell’umore adatto per giocare a
fare gli
Slytherin, e preferì chiudersi nel privato dolore della sua
camera da letto.
Una volta
chiusa
lì dentro scoprì di avere come la sensazione di
soffocare, non sapendo
scegliere se tra i sensi di colpa – ipotesi poco probabile
– la rabbia per
tutta quella situazione o il cieco rammarico per la rinuncia a cui si
era finta
disposta.
«Pansy?».
Millicent
l’aveva chiamata con una intonazione cauta e incerta, da
dietro la porta.
Pansy
valutò
seriamente l’idea di fingersi assente, di non lasciarla
entrare e di restare da
sola in compagnia di un silenzio che per lei sarebbe stato lo stesso
molto
loquace. Le avrebbe parlato dei suoi dubbi e delle certezze che
tristemente
erano lungo la sua strada. L’avrebbe obbligata a prendere
atto di un futuro
ormai non più imminente e se c’è
qualcosa che Miss Parkinson proprio non poteva
sopportare era sentirsi i polsi in catene.
«Mh?»
mormorò
quindi, cedendo infine.
Millicent
non
aggiunse altro, sapendo che la cordiale risposta di Pansy nel suo gergo
equivaleva ad un permesso accordato. Dischiuse la porta con una
delicatezza che
stupì Pansy, trovandola così impropria
nell’impaccio con cui Millicent calcava
la scena della sua vita.
«Bentornata»
la
salutò, sedendosi sul letto con un sorriso quasi intimidito.
Pansy
indugiò in
un sorriso di risposta, che non riuscì a nascondere la
malinconia del suo
ritorno.
Erano stati
i
tre giorni migliori dopo lungo tempo, quelli appena spesi con Draco.
Il pensiero
recava ancora con sé il brivido dell’incoscienza
con cui avevano preso quella
decisione, su due piedi e con una irresponsabilità che il
loro dogma Slytherin
avrebbe punito severamente.
Ma quando
lui le
aveva preso la mano, chiedendole se era ancora proprietaria di quella
residenza
sulle lontane scogliere di Dover, quasi dimenticate dal mondo, Pansy si
era
sentita soltanto se stessa, dimenticando qualsiasi altra appartenenza.
Il disagio
con
cui aveva accolto quella dimensione era stato cancellato dal bacio con
cui lui
le aveva chiuso la bocca. Poche ore dopo, nel fare l’amore
con Draco, sentiva
che niente di tutto quello potesse essere sbagliato. Era stata una
sensazione
intensa, violenta e avvolgente al tempo stesso. Recava con
sé un retrogusto di
dolcezza e infinita serenità, mentre lui le baciava le
spalle, e accarezzava la
pelle, e le sussurrava all’orecchio segreti inconfessabili di
cui loro erano i
soli protagonisti. Era stato bello come poche cose nella vita.
Scacciò
quei
pensieri imbarazzata e colpevole, cercando di occultarli a Millicent.
Di nuovo
padrona
di sé, non fu troppo difficile.
«Grazie.
Cosa è
successo in mia assenza?» domandò, offrendole un
bicchiere di brandy preso in
prestito dalla riserva di Blaise. Non si sarebbe offeso.
Millicent
–
escludendo l’exploit del famoso ricevimento – non
toccava un liquore di quella
portata dall’ultima festa clandestina organizzata da Pucey ad
Hogwarts – di cui
aveva per altro portato i postumi per i due giorni successivi
– ma accettò
l’offerta con l’indecente pensiero che quello era
il liquore dove Blaise
bagnava le labbra. Nell’accostare il bicchiere alle proprie,
si perse per un
istante nell’odore di brandy e ingollandone un sorso
immaginò che quello fosse
il sapore dei baci di Blaise.
Poi tutto
quello
divenne troppo persino per una Slytherin di seconda categoria come si
considerava da sola, e decise di tornare a volgere
l’attenzione sull’amica. Con
una gentilezza inusuale, Pansy finse di non aver letto sul suo viso
tutti i
pensieri appena avuti.
«Daphne
Greengrass e Adrian Pucey hanno smesso di andare a letto
insieme» annunciò con
un sospiro di rammarico. Un pericolo in più libero sulla
piazza, pronta ad
attentare al letto di Mister Zabini.
«Sua
madre ha
pubblicamente affermato di esserne rammaricata perché Adrian
le piaceva. Daphne
per dispetto ha subito reso noto il nome del sostituto». Fece
una pausa, per
creare una certa aspettativa. Ma Pansy era molto presa a cercare
qualcosa sul
fondo di un cassetto.
«Miles
Bletchey».
La
sentì ridere,
scuotendo la testa.
«Scelta
prevedibile».
Millicent
alzò
le spalle, lasciando ad intendere che l’entità del
danno per lei restava
invariata. Quando Pansy le domandò se ci fosse
dell’altro, lasciò che un colpo
di tosse la tradisse. L’altra sospese la sua ricerca,
voltandosi a guardarla
con aria perplessa e vagamente tesa.
«Theodore
e suo
nonno si sono dedicati agli affari, questo fine settimana».
Le spalle di Pansy
si rilassarono.
«Non
mi dire»
commentò piatta, tirando fuori tutto il cassetto, con una
certa stizza.
Millicent spostò lo sguardo altrove, sentendo le guance
tingersi
pericolosamente del colore della sua disfatta.
«Con
Tracey
Davis».
Sul viso
dell’altra comparve un principio di perplessità. A differenza di Pansy, troppo distratta
dall’insofferenza per il mondo
sociale, Millicent aveva una perfetta memoria per quanto riguardava le
fisionomie. E non aveva dubbi che quella fosse la figura di Tracey
Davis, nel
bel mezzo del salone di Nott Manor.
«Ora
è
nell’ufficio di Theodore» sputò tutto
d’un fiato, versandosi dell’altro brandy.
Pansy la guardò molto più esplicitamente.
«Si
può sapere
che stai cercando in quel cassetto?»
«Tu
come fai a
saperlo?» domandò ignorando il suo patetico
tentativo di cambiare discorso.
Millicent rifletté se fosse il caso di prendere un altro
sorso di liquore prima
di rispondere, ma Blaise non era nei paraggi e il costo di
un’altra ubriacatura
non sarebbe stato ripagato dal passaggio a casa da parte sua.
«Ho
incontrato
Theodore, venendo qui. Lui mi ha detto che ti eri chiusa in
camera».
Pronunciò
quelle
parole con troppa convinzione perché potessero essere solo
una semplice
risposta al quesito di Pansy. Theodore l’aveva accolta con un
sorriso caloroso,
come sempre, e scusandosi per non poter festeggiare subito il suo
ritorno a
casa per impegni di lavoro con Abraham Nott, le aveva accarezzato una
guancia.
Era la promessa che si sarebbe fatto perdonare per quella mancanza, ma
al tempo
stesso Pansy aveva avuto l’impressione che ci fosse
dell’altro. La
consapevolezza di doverle perdonare qualcosa, e l’amarezza
rivolta solo a se stesso
per averlo già fatto.
«Ora
mi dici che
diamine stai cercando?» propose conciliante Millicent,
sollevata per aver fatto
il suo dovere di ambasciatrice di sventure.
Pansy
abbassò lo
sguardo, le labbra serrate in segno di una preoccupazione fin troppo
evidente
per la seraficità con cui lei affrontava le peggiori notizie.
«Il
mio anello
di fidanzamento» rispose, abbandonando la ricerca con un
sospiro stanco.
Nel prendere
tra
le mani il bicchiere di brandy che Millicent le offrì a sua
volta, con aria dispiaciuta,
Pansy rivide il momento in cui Theodore aveva accarezzato la sua
guancia. Lei
aveva appoggiato la propria mano sulla sua. Ma l’anello che
avrebbe dovuto
rimpiazzare la poca convinzione con cui era tornata a casa, non
c’era.
●●●
In
the darkness my fingers slip across your skin
I feel your sweet reply
The room fades away and suddenly I’m way up high
Just holdin’ you to me
As through the window the moonlight streams
Oh won’t you baby be in my book of dreams?
[Book
of dreams - Bruce
Springsteen]
«Draco?».
Lo scroscio
dell’acqua nella doccia gli offrì il pretesto per
fingere di non aver sentito.
Passandosi le mani tra i capelli, Draco lasciò che
l’acqua cancellasse i segni
delle sue ultime fatiche, dopo quel fine settimana di vacanza che si
era
deliberatamente concesso dal lavoro.
A dire la
verità
più che concesso lo aveva preso senza alcuna
difficoltà se non quella di
convincere Pansy.
Era stato
difficile come ogni cosa con lei, che mai cedeva alle lusinghe di una
tentazione se prima non avesse valutato il bilancio degli effetti che
avrebbe
potuto avere. Forse quello era il motivo per cui la spilla di prefetto
si
intonava di certo più alla divisa di Pansy che alla propria,
pensò ghignando
tra sé e le mattonelle della doccia.
Alla fine
aveva
avuto la meglio su di lei, compiacendosi di essere dovuto ricorrere a
nessun
altro mezzo se non i suoi baci.
«Ah,
sei qui».
Alzò
la voce in
risposta, tanto per dare conferma a sua moglie di essere tornato e di
essere
sotto la doccia, nascondendo tra quelle due certezze anche il desiderio
di non
voler essere disturbato, almeno nella sua intimità.
Qualcosa gli
diceva che in nessun modo avrebbe potuto cancellare i segni di quei tre
giorni
appena trascorsi. Pansy e il suo ritrovo si erano annidati in lui con
una
naturalezza che non lasciava adito ad alcun dubbio. Era stato come un
ritorno
al posto giusto, un ristabilire l’ordine nel caos.
Sentì
i passi
leggeri di Astoria allontanarsi da dietro la porta, e si
rilassò appoggiando le
spalle contro il marmo freddo.
Forse non
era
stata affatto una buona idea e Pansy avrebbe finito con
l’avere ragione alla
lunga, come sempre si era rivelato nell’arco della loro
conoscenza. Ma il
proprio egoismo, nutrito da sempre dalle attenzioni di figlio unico che
non
aveva mai dovuto spartire con nessuno, se non con
l’interferenza fastidiosa di
Lord Voldemort, ebbe la meglio anche in quell’occasione.
Avevano
vissuto
in quella casa come il re e la regina che nel suo immaginario sarebbero
dovuti
essere.
Lontani da
tutto
ma sufficientemente vicini tra di loro per poter vivere indisturbati
per
sempre.
La vista dal
balcone della camera da letto era fantastica, e quella mattina si era
perso ad
osservarla, in silenzio, mentre Pansy si svegliava pigramente alle sue
spalle,
nel letto.
Oltre al
fruscio
delle lenzuola, sottofondo al risveglio di Pansy, Draco era stato
circondato
dal silenzio. Era stato assalito da una pace incredibile, vuota e
semplice,
fresca, leggera, inebriante.
Forse in
tutta
la sua vita era la prima volta che riusciva a credere davvero a quello
che suo
padre gli aveva raccontato, a proposito del sentirsi padroni di tutto,
senza
dover contrattare o rovinare la perfezione di un desiderio con
l’artificio
pagano di un compromesso.
Non
c’era nessun
ostacolo che lo separasse da Pansy in quel luogo, e se ne diede
conferma
tornando a letto, e stendendosi di nuovo accanto a lei. Le sue mani
l’avevano
cercata, e portata più vicino, e lei si era abbandonata alla
sua guida,
intorpidita e fiduciosa.
E quello che
più
lo preoccupava, era quella sensazione di confusione e smarrimento che
lo aveva
accolto quando si erano separati, e lui aveva rimesso piede in casa
propria.
Da bravo
Slytherin aveva operato i suoi calcoli, scegliendo un momento in cui
era certo
che Astoria fosse in visita a sua madre, per quelle terribili sessioni
di
confidenze e consulenze che le due erano solite scambiarsi nel tardo
pomeriggio. Non aveva previsto che quel giorno sarebbe tornata tanto
presto.
«Draco».
Di nuovo un
richiamo da oltre la porta, dal mondo esterno, quello concreto degli
obblighi e
dei doveri. Sbuffò chiudendo il getto dell’acqua,
esasperato.
«Arrivo!»
rispose con poca grazia, senza nascondere il fastidio nella voce.
Dall’altra
parte seguì un silenzio compunto e quasi stizzito.
«Lo
spero. Sono tua
madre e sai bene quanto detesti le attese».
Quando venti
minuti dopo si presentò in salone, con i capelli ancora
bagnati e un sorriso di
circostanza, Narcissa Malfoy nascose la propria nota di divertito
disappunto
dietro la tazza di tè che Astoria le aveva offerto poco
prima.
«Mamma»
salutò
Draco, avvicinandosi a lei e baciandole la guancia, come quando era
bambino.
Sua madre fu vinta dalla tenerezza dei tempi passati, compiacendosi in
silenzio
della capacità recitativa di suo figlio
all’occorrenza.
«Tentativo
discreto» commentò poggiando la tazzina sul
piatto, con un sorriso sornione.
Draco rise liberamente, andandosi a sedere nella poltrona di fronte,
seguito da
Astoria, delicatamente appoggiata al bracciolo. Narcissa
contemplò il quadretto
familiare con un distacco quasi professionale, confermando per
l’ennesima volta
la poca convinzione con cui aveva preso atto di quel matrimonio.
«Cosa
ti—»
iniziò Draco, con fare casuale, prontamente interrotto da
sua madre.
«Mi
accerto di
avere ancora un figlio» lo redarguì lei,
inclinando indulgente la testa verso
di lui. Draco la guardò con infinito affetto e altrettanta
apprensione, sapendo
di essere nel torto e di esserlo per un preciso motivo, che sua moglie
avrebbe
poco gradito.
«Beh.
Ce l’hai.
Bello come lo avevi lasciato» rispose cercando di deviare il
motivo della
visita sul binario della solita ironia auto celebrativa. Ma Narcissa
aveva
sposato a suo tempo Lucius Malfoy e con lui aveva concepito Draco, il
che dava
la certezza a tutti i presenti che il trucco non avrebbe funzionato.
Astoria
finse di
condividere lo scetticismo di Narcissa, perché le parve
conveniente farlo. Sua
madre insisteva sempre sulla saggezza del stringere alleanze con la
propria
suocera. E lei non aveva bisogno che le cose le venissero ripetute due
volte,
avendo ereditato dal prematuramente scomparso signor Greengrass una
sagace
tecnica strategica. La stessa con cui era riuscita a far credere a
Draco Malfoy
che valesse la pena sposarla.
«Sì,
hai i tuoi
pregi» concesse Narcissa sardonica, consegnando tazza e
piattino all’elfo
domestico in statica attesa all’angolo della stanza.
«Ma
non avendoti
visto per tutto questo fine settimana, ho pensato che fosse compito di
una
madre accertarsi della salute del proprio bambino» soggiunse
e Draco
nell’incontrare il suo sguardo ebbe l’inquietante
certezza che sua madre
sapesse qualcosa che nei propri piani avrebbe dovuto rimanere
più che segreto.
Astoria rise
leggera, con quella risata argentina che le era propria, e che Draco
all’inizio
aveva trovato rilassante perché lo confondeva dai cupi
silenzi in cui si era
trincerato una volta finita la guerra.
«Tuo
figlio ha
sviluppato una strana affezione al lavoro, Narcissa» lo
giustificò con un
sorriso affettuoso. Draco stese le labbra in un sorriso, versandosi da
bere.
«Di
sicuro non
ha ripreso da suo padre, che si è presentato al Ministero
tre volte in tutto il
suo cursus honorum» osservò pacata Narcissa.
«Si
cerca sempre
di migliorare i propri genitori, pur nella loro emulazione»
asserì Astoria, nella
delizia di una frase confezionata che avrebbe reso orgogliosa sua madre
se solo
fosse stata presente.
«Questo
è il
motivo per cui io sono ancora a piede libero e mio padre no»
aggiunse Draco,
svuotando il bicchiere. Forse non avrebbe dovuto dirlo,
pensò un attimo dopo, e
sua madre gli regalò la conferma di tale preoccupazione.
Dalle labbra
di
Narcissa Malfoy non volò una parola, ancora morbidamente
seduta al proprio
posto, eppure persino Astoria sentì un brivido correrle
lungo la schiena allo
sguardo che lanciò a suo figlio.
Negli occhi
di
ghiaccio – ma non ghiacciati – di Narcissa riluceva
il bagliore di una rabbia
controllata ma profonda. Draco non ritirò quanto detto,
tuttavia chiese scusa
reclinando appena la testa, con la giustificazione di controllare che
il
bicchiere fosse davvero privo di liquore.
Nel silenzio
sceso sui presenti era cristallizzato il monito di una madre verso suo
figlio,
che protegge la memoria del marito e l’onore della sua
carriera di padre. Anche
quando Lucius era stato arrestato la prima volta, Narcissa aveva
concesso a
Draco la promessa che ogni cosa si sarebbe risolta, ma non aveva
ammesso la
minima offesa o ingiuria alla figura di Lucius.
Draco
durante
quegli anni imparò a rispettare e amare suo padre per
riflesso del sentimento
di rispetto e lealtà che sua madre riversava in lui. Non
aveva esitato a
spiegargli come fossero andate le cose, raccontandogli onestamente la
storia
delle scelte di Lucius, ma gli aveva assicurato che ogni sbaglio era
valso la
pena di farlo, perché commesso unicamente in
virtù di una protezione che aveva
cercato di dare loro.
Draco le
aveva
creduto, ma crescere senza suo padre lo aveva debilitato nonostante
Narcissa
avesse tentato di ricoprire quel ruolo, troppo vasto perché
lei sola bastasse a
colmarne il vuoto dell’assenza.
«Ti
fermi a
cena, mamma?» ruppe il silenzio lui, sollevando lo sguardo su
di lei.
La mascella
contratta in una posa nervosa per l’errore commesso e il
recondito dispiacere
per quanto detto. Narcissa scosse la testa delicatamente, alzandosi
dalla
poltrona, di nuovo gentile verso di lui.
«No,
ho degli
affari da sbrigare» spiegò facendogli cenno di
raggiungerla. Le sue dita
sottili avvicinarono il viso di suo figlio al proprio, dove
posò un bacio sulla
sua tempia, sentendo i capelli ancora umidi. Lui la lasciò
fare, perfettamente
a suo agio con la fisicità di quell’affetto.
Fin da
piccolo
parlare gli piaceva poco.
«Mandami
un
gufo, se ti serve un consulto» si raccomandò lui,
scostandosi da lei. Narcissa
lo guardò quasi offesa, e nella smorfia altera che gli
rivolse si riflesse
l’orgoglio dei Black. Dall’incarcerazione di
Lucius, ogni cosa era gestita da
lei, abile affarista come da migliore tradizione.
«Non
vorrei
disturbare la tranquillità dei tuoi fine settimana, Draco.
Vedo che sei molto
impegnato, ultimamente» e con quello salutò
cortesemente Astoria, volgendo a
Draco un ultimo sguardo allusivo. Poi
scomparve, lasciando i coniugi alla loro vita privata.
●●●
On my way up north
up on the ventura
I pulled back the hood
and I was talking to you
and I knew then it would be
a life long thing
but i didn't know that we
we could break a silver lining
[A sorta
fairytale -
Tori Amos]
Astoria non
fece
mai domande in merito a quel fine settimana di impegni lavorativi di
Draco.
Non era
stupida
e la sua giovinezza non le impediva di certo di recepire
l’ironia nella voce di
Narcissa Malfoy, né tanto meno i giochi di sguardi che aveva
scambiato con suo
figlio.
Diventando
moglie di Draco, aveva saputo da subito quali fossero le regole minime
per la
salvaguardia di quel matrimonio: essere parte del loro albero
genealogico non
le conferiva alcun permesso di intromettersi nei loro affari privati.
«Sono
stata da
mia madre, oggi pomeriggio» lo informò una volta
che Narcissa li lasciò soli.
Draco la
guardò
distrattamente, perso nella certezza di dover mettere in chiaro
qualcosa con
sua madre.
«Ah
sì?»
«Sì,
indovina
chi ho incontrato? Blaise Zabini».
Draco si
riscosse al nome del proprio migliore amico. Tuttavia non fu
attraversato dal
minimo dubbio in merito alle motivazioni che lo conducessero in casa
Greengrass. Astoria parve altrettanto conscia e scambiò con
suo marito un
sorriso di consapevolezza.
«Miles
non è mai
stato il tipo di mia sorella» commentò poggiando
la testa sulla spalla di suo
marito. Draco le lanciò un’occhiata sarcastica,
affatto sensibile alle
dinamiche dei meccanismi affettivi di Daphne.
«Tua
sorella non
ha un tipo» le fece notare.
Astoria gli
assestò un colpo sulla spalla, sospirando tra le risa.
«Ma
sì che ce
l’ha. È chiunque non corrisponda ai canoni di
nostra madre» convenne sollevando
la testa per guardarlo negli occhi. Si sporse, cercando le sue labbra.
Sapevano
di scotch e di lontananza.
«Tu
ad esempio
non sei decisamente il tipo di mia sorella» chiarì
in quella che era più una
dedica che una battuta di spirito. Draco avvertì qualcosa
tendersi e
strozzargli il respiro con poca gentilezza. Il suo braccio, blandamente
appoggiato alla spalliera del divano circondò le spalle
esili della moglie,
rimanendo lì senza uno scopo preciso e con una distratta
convinzione.
«Stai
dicendo
che tua madre potrebbe avere delle mire su di me?»
domandò ricorrendo di nuovo
all’ironia per soffocare la claustrofobia del momento.
Astoria lo guardò con
aria di rimprovero, accarezzandogli la mano. Lui non si ritrasse,
lasciandola
fare, perché consapevole di essere in grado di mascherare
quello che in realtà
stesse provando, sotto pelle.
C’era
qualcosa
di sbagliato nel sedere su quel divano con una donna che non fosse
Pansy
Parkinson.
«Draco»
lo
richiamò lei, a bassa voce. Lui impiegò qualche
secondo a liberarsi dalla
tenaglia di quel sentimento. Quel
bisogno di accudimento e desiderio di cure e attenzioni che
è insito in ogni animo
Slytherin, e langue improvviso, sopraffacendo qualsiasi buona regola e
salda
imposizione del loro spartano dogmatismo, era qualcosa che mai gli era
capitato
di provare nei confronti di sua moglie.
«Sì?».
«C’è una cosa che mi
è capitato di pensare».
Il tono della sua voce era stranamente serio. Per un attimo perse i
connotati
di quella di una ragazza appena divenuta adulta, quale era Astoria, e
Draco si
chiese se non fosse il caso di sciogliere quel contatto e prendere le
giuste
distanze. Fu un coraggio che gli mancò, nonostante
pensò maledicendosi che
avrebbe dovuto averlo.
«Del tipo?» domandò
sperando che un
cataclisma interrompesse quella conversazione. A suo modo anche lui era
molto
accorto, e remotamente sapeva che l’atteggiamento di sua
madre aveva insinuato
una certa inquietudine in Astoria, dissotterrando vecchi fantasmi.
«Sarei molto più tranquilla se
parlassi di
Pansy Parkinson con lo stesso astio che riservi a tuo padre».
In altre circostanze la sua sincerità lo
avrebbe colpito positivamente, perché era qualcosa che lui
non possedeva,
neanche in minima parte. Quel mettere a nudo i propri sentimenti,
vincendo ogni
vergogna e resistenza imposta dal timore di un rifiuto, non gli
apparteneva e
lo rendeva in parte il codardo che era, costituendo il motivo fondante
del
disastro che aveva combinato con Pansy.
Scoprì che quella riflessione gli recava
un
dolore insopportabile.
«Non riservo alcun astio a mio
padre»
mormorò soltanto, con malinconia, sapendo di dire la
verità.
Solo, la verità che meno interessava a
sua
moglie probabilmente. E con quello stabilì che il discorso
fosse chiuso.
What’s
next
«Credi che Draco Malfoy possa renderti
felice, Pansy?».
«Sento di star perdendo le redini del mio
matrimonio, mamma» ammise con un sospiro quasi timido. Sua
madre accolse la
notizia con autentico orrore.
«E’ successa una cosa
gravissima Pans» […]
Thanking
Entreri: Grazie ♥
Sono felice che Blaise piaccia ^_^ E oooooh, filosofia *__*
Se
non avessi voluto prendere giurisprudenza dalla tenera età,
crescendo filosofia
sarebbe stata la mia seconda scelta =P Mi piace tantissimo *_* e hai
tutto il
mio rispetto :D
sweetchiara: Sì è
vero, l’unico lato
negativo di Blaise – ammesso e non concesso
che ne abbia uno – è
l’essere fastidiosamente ♥
presente
nei pensieri di tutti XD E ti adoro. Dopo anche i Joy Division (che se
non
fosse stato per un saggio consiglio di rispolverarmeli avrei
indecentemente ed
ereticamente perso per strada ._. e me ne vergogno) hai tutto il mio
cuore di
musicomane persa in tempi andati e fastosi *__* (L)
suni: non so precisamente cosa dire
perché la tua recensione mi ha indecentemente fatto piacere
XD perciò… grazie
*.* grazie, grazie. E, per inciso e amore della cronaca, me lo chiedo
anche io
se questa storia sia IC e inizio seriamente a credere che no, non lo
sia. Mi
concedo altri due capitoli prima di annunciarlo XD
B e r t a: Grazie =) Un bacio :*
|
Ritorna all'indice
Capitolo 10 *** X Boccoli, boccioli ***
The way we were
X
Boccoli, boccioli
I
could have knocked off the evening
But I was lonelily looking for someone to hold
In a way I lost all I believed in
And I never found myself so low
And you let me down
You could've called if you'd needed
But you lonelily got yourself locked instead
[Lonelily -
Damien Rice]
Londra aveva
concesso a tutti un po’ di respiro dall’usuale
coltre di nebbia e maltempo che
tingeva di grigio le sue fattezze di vecchia signora. Probabilmente la
più
grata per la magnanimità dei capricci britannici era Evelyn
Parkinson, tutta
presa a rimirare i teneri boccioli della propria serra. Li guardava
come se
fossero stati figli suoi e Pansy si chiese se per caso non dovesse
sentirsi in
qualche modo gelosa o rimpiazzata. Del resto non aveva perso tempo ad
accudire
neanche quei boccioli, proprio come aveva fatto con sua figlia, il che
le
lasciava credere che fosse prerogativa dello scarso senso materno di
sua madre,
e non una spiccata e malcelata preferenza.
«Che
ne dici di
questi?» la sentì cinguettare da qualche parte
vicino al suo orecchio.
«Sono
rosa»
commentò distogliendo lo sguardo annoiata. Sua madre
alzò gli occhi al cielo,
invocando il perdono di un Merlino in cui non aveva mai perso tempo a
credere
per aver desiderato strangolare sua figlia.
«Non
mi stai
ascoltando in realtà, Pansy» le
comunicò decisamente offesa. Sua figlia si
voltò a guardarla, fingendo un’espressione di
meraviglia da cui trapelava tutto
il sarcasmo della situazione.
«Non
capisco
come tu possa pensarlo» rispose porgendole un sorriso di
scuse più falso
dell’interesse che aveva cercato di dimostrare due ore prima,
quando erano
entrate nella serra.
«Fai
come vuoi
Pansy, ma ti ricordo che il matrimonio è il tuo, e che
presumibilmente non ne
avrai un altro».
Pansy ebbe
la
netta sensazione che avrebbe vomitato da un momento
all’altro, ma tutto sommato
era troppo aristocratica per concedersi certe umane
attività. E a sua madre
bastò leggere il disgusto che le arricciò le
labbra pallide in una smorfia per
afferrare il concetto. Proseguì oltre, senza sprecare
commenti in merito.
«Così
Theodore
sta stringendo affari con la famiglia Davis» riprese poco
dopo, facendole cenno
di considerare una composizione di fiori che la figlia
etichettò senza troppi
complimenti come un aborto
dell’estetica.
«Sì,
mi è giunta
voce» mormorò ancora più infastidita.
Da quando
era
tornata da Dover, Draco era stato il sottofondo delle sue giornate. Non
aveva
più avuto occasione di vederlo, perché entrambi
potevano considerarsi adulti e
troppo intelligenti per potersi permettere certe disattenzioni.
Dopo
l’azzardo
della loro partenza avrebbero dovuto dissipare ogni dubbio
nell’opinione
pubblica, ma a lei tutto quel complicato intreccio di menzogne e
sotterfugi da
tardo ottocento andava decisamente troppo stretto. Il suo spirito
libertario in
quel momento le suggeriva di lasciare sua madre in mezzo ai fiori e
andare a
cercare Draco per rotolarsi con lui su ben altri generi di prati.
«Mi
sono
sufficientemente informata al tuo posto».
Evelyn si
schiarì la voce, pretendendo attenzione da sua figlia.
«E
perché lo
avresti fatto?» domandò lei, esasperata ancora
prima di conoscere la surreale
risposta che sua madre le avrebbe propinato.
«Perché,
mia
cara bambina, devi imparare a tutelare la tua posizione. Tracey Davis
è una
donna d’affari adesso, e tutti sappiamo che genere
di… malaffare, può compiere
una donna simile».
Pansy fu
tentata
di spiegarle la situazione e di chiederle se per caso lei non
rientrasse nella
categoria. Ovviamente ci ripensò.
«Theodore
è
libero di fare ciò che vuole, mamma, e io non gli
porrò divieti. Mi lascia
molto libera nei miei affari, del resto».
«Ma
certo,
perché lui è quello innamorato, tra voi
due».
La
naturalezza
con cui lo disse gelò Pansy all’istante.
Deglutì guardando sua madre con uno
sguardo di ansia e sgomento. Evelyn le rivolse un sorriso clemente,
concedendole un perdono che in ogni caso sua figlia non aveva
intenzione di
chiedere.
«Credevi
che non
lo sapessi? Sei il mio bocciolo, Pansy. Non c’è
niente che mi sfugga in tutto
quello che fai, nel modo in cui mi guardi quando ne parli... so
tutto».
Forse fu per
la
tenerezza che era trapelata per la prima volta nelle parole che le
aveva
rivolto, o per la stanchezza che le gravava addosso, ma per un attimo
sentì qualcosa
stringerle la gola e premerle al centro del petto e si
domandò se per caso non
stesse per scoppiare a piangere, come una bambina.
«Lo
sapevi
dall’inizio?» domandò, guardando
ostinatamente altrove finché non riuscì a
recuperare un minimo di compostezza nello sguardo. Sua madre tacque per
lunghi
istanti, prima di confessare di averlo intuito dal primo momento.
«Ti
ringrazio
per i consigli che mi hai elargito» replicò
freddamente sua figlia, camminando
di qualche passo avanti a lei.
La prima
volta
che aveva conosciuto Draco era stato a casa sua. Suo padre doveva
convincere
Lucius Malfoy a rilevare chissà quale proprietà,
e lei e sua madre lo avevano
seguito per cortesia. E Narcissa Malfoy d’improvviso era
apparsa nel salone,
lasciandola senza fiato. Rimase abbagliata, tutto in lei emanava una
luce
fredda e dorata. Forse era stato il colore dei capelli, ai tempi
lasciati
morbidamente sulle spalle, diversamente dallo chignon con cui li
raccoglieva da
qualche anno. O la sua pelle chiara, o il sorriso evanescente con cui
aveva
accolto gli ospiti nella sua dimora.
Pansy si era
sentita il brutto anatroccolo e aveva pensato che mai sarebbe riuscita
ad
eguagliare tanto splendore, neanche se fosse diventata la donna
più bella del
mondo come sua madre si premurava di ricordarle la sera, prima di
dormire.
Sarebbe stata l’eterna seconda, a Narcissa Malfoy.
«Ti
ho dato dei
consigli, Pansy» le rispose sua madre, arrestando la sua
corsa nel prenderle il
polso tra le dita gelide.
Per tutto il
tempo della loro frequentazione, Pansy si era chiesta come potesse
sentirsi
così poco amato Draco, quando aveva una madre come Narcissa,
che indugiava su
di lui con lo sguardo più bello e amorevole che avesse mai
visto negli occhi di
una donna. Era la luce dei suoi occhi, lo copriva d’oro nel
solo parlare di
lui, e aveva quel modo di pronunciare il nome di suo figlio, che lo
faceva
sembrare la cosa più degna di amore e rispetto e riverenza
presente sulla
faccia della terra. Tutti vezzi a cui lei era estranea e che aveva
invidiato a
Draco senza troppa vergogna, ma in gran segreto.
«E
tu li hai
seguiti» aggiunse, incastrandola con i propri occhi scuri.
«Curioso,
non me
ne sono neanche accorta» Pansy si districò da
quella presa, e nelle sue parole
echeggiava una rabbia antica che aveva cercato di curare negli anni,
ottenendo
in cambio solo un bruciore maggiore ogni qualvolta i suoi tentativi
erano
falliti.
«Non
ti ho detto
niente perché era giusto che sposassi Theodore. È
un buon partito, un affarista
parsimonioso ed avveduto e per di più è
innamorato di te, il che dovrebbe
garantirti che non ti farà mai sentire sola, e ti
tratterà sempre come una
principessa, Pansy. Con lui non ti mancherà niente. Che
altro pensi dovrebbe volere
una madre per sua figlia?».
In una vita
intera, forse quello era il primo rimprovero che riceveva da sua madre.
Né
lei né suo
padre avevano mai punito i suoi capricci, la loro tattica consisteva
più
nell’ignorarli che nel spiegarle il perché non
potessero essere esauditi.
«Non
mi piace
essere sentimentale, mamma» rispose lei, e le sue parole
furono taglienti,
ostentando una sicurezza che le sue mani rivelavano non avere.
«Credi
che Draco
Malfoy possa renderti felice, Pansy?».
Non
c’era alcuna
pietà nel modo in cui sua madre le aveva fatto quella
domanda.
Pansy la
guardò
oltraggiata e furiosa.
«Da
quando hai
stupidamente deciso di essere innamorata di lui non ti ho mai vista
felice,
neanche un giorno».
Sua figlia
cercò
di sfuggire alla tenaglia del suo sguardo. I suoi occhi erano la
replica dei
propri, giudici irremovibili di una sincerità spietata.
«Quella
sei tu,
mamma» disse infine, e nella propria voce tremava
l’emozione di un segreto tenuto
troppo a lungo. «Ti confondi quando mi guardi negli occhi,
non è me che vedi.
Quello che vedi sei tu e il poco amore che hai per
papà».
Non fu
gentile e
tutto sommato non lo fece di proposito. L’aridità
di sentimenti in mezzo a cui
era cresciuta l’aveva risucchiata in un vortice di
solitudine. Aveva vissuto
ogni sensazione in astratto, dipingendo nella propria immaginazione il
calore
di una famiglia che non aveva mai sentito come proprio. Infatti era
sempre
stata una pessima pittrice. Le sembrava di sbagliare colori o
strumenti, di
vivere in una irrimediabile sinestesia.
Poi era
arrivato
Draco e le aveva insegnato che nella vita si soffre e si desidera
davvero. Che
i sentimenti ti lacerano dentro, ti straziano e ti consumano, ma poi ti
lasciano qualcosa, che occupa spazio, qualcosa di incredibilmente
materiale a
dispetto del vuoto d’anima con cui era cresciuta.
Aveva
scoperto
che si può piangere fino allo sfinimento anche solo per
stizza, e che dopo si
ha fame e un gran mal di testa. E che la tenerezza è
qualcosa di caldo e
avvolgente, quasi vischioso. Che amare qualcuno è la cosa
più difficile, tanto
quanto prendere una decisione e sacrificare qualcosa.
Capì
in quel
momento quanto fosse terrorizzata all’idea di dover sposare
Theodore, e
costringersi alla stessa vita di sua madre. Comprese di non essere
disposta a
farlo, si ritenne per la prima volta qualcosa di
più, meritevole di tanto altro.
«Non
credo che
tu abbia altro da insegnarmi» soggiunse poi, in un sussurro
pieno di
consapevolezza.
«Vuoi
un
consiglio per i fiori, allora?» accettò sua madre,
cercando di vincere il
desiderio contrastante di stringerla tra le braccia un’ultima
volta, per rubare
un ultimo istante con quella che da quel momento non sarebbe mai
più stata la
sua bambina, e lo schiaffeggiarla per l’affronto che le aveva
lanciato.
«Più
tardi» si
congedò lei, approntando un sorriso confuso.
●●●
what
i am to you is not real
what i am to you you do not need
what i am to you is not what you mean to me
you give me miles and miles of mountains
and i’ll ask for the sea
[Volcano - Damien Rice]
Astoria
Malfoy
si chiese per la quinta volta di seguito se per caso non stesse
esagerando.
Non aveva
chiuso
occhio tutta la notte, dopo quello stralcio di conversazione con Draco.
Lo
aveva sentito addormentarsi piano piano, accanto a lei, nel loro letto
qualche
ora più tardi, non potendo fare a meno di indugiare con il
pensiero sul
contenuto dei suoi sogni.
La mattina
lo
aveva sentito uscire, per andare chissà dove, tanto per
cambiare non glielo
avrebbe detto e con il tempo lei aveva smesso di interessarsene, ma non
di
dispiacersi per il dialogo sempre a metà che c’era
tra loro.
Cercava di
chiedergli il meno possibile, perché sapeva quanto poco gli
piacesse
chiacchierare o rispondere a certi tipi di domande.
Sapeva
relativamente poco di lui. Avrebbe voluto conoscere tutti i motivi per
cui non
riusciva a perdonare suo padre, e le cento e uno ragioni per cui aveva
scelto
come migliore amico Blaise Zabini; avrebbe voluto sentirsi raccontare
la storia
avuta con Pansy e il modo tanto brusco con cui era giunta ad una
conclusione; e
si sarebbe divertita nel sentir parlare delle disastrose dinamiche dei
Black, a
cui Narcissa si lasciava andare quando era di spirito malinconico in
loro
presenza.
E avrebbe
voluto
conoscere la storia della cravatta che non aveva voluto indossare per
il
ricevimento a casa Nott, per quanto fosse spaventata alla sola idea.
Aveva capito
che
doveva esserci di mezzo Pansy Parkinson.
«Tesoro,
eccoti
qui» la raggiunse la voce di sua madre, seguita dai passi
poco convinti di sua
sorella. Accolse entrambe con un sorriso di affetto, orgogliosa di
riceverle in
casa propria.
«Come
mai qui?»
domandò pregando sua sorella di aprire la finestra se
proprio non poteva fare a
meno di quella sigaretta.
«Mamma
è
convinta che tu sia in qualche guaio» le comunicò
telegrafica Daphne, sedendosi
sul davanzale con un salto felino.
«Draco
non è in
casa, vero?» si premurò sua madre, sedendosi sul
bordo del letto. Astoria
scosse la testa, chiudendo l’anta dell’armadio e
levandosi da sotto gli occhi
l’opprimente visione della cravatta incriminata. Sua sorella
osservò l’ultima occhiata
che lanciò oltre l’anta senza commentare.
«Ho
pensato alle
preoccupazioni che mi hai confidato l’altro giorno»
iniziò la Signora,
facendole cenno di sedersi accanto a lei.
Daphne
valutò
l’altezza della finestra, qualora fosse stata invitata a
prendere parte al
trittico Greengrass.
«Oh,
quelle».
«Ce
ne sono di
nuove?» aggiunse apprensiva ma non del tutto a sproposito sua
madre.
«Non
fanno che
accumularsi dal giorno dopo la cerimonia, madre» le
suggerì la maggiore,
scrollando la cenere di sotto. Astoria le rivolse un sorriso al veleno
ma non
poté darle torto, sentendo qualcosa stringerle lo stomaco,
in una presa di
frustrazione e dispiacere.
«Allora,
Astoria?» incalzò la madre, riuscendo a fare
tutt’altro che confortarla.
«Sento
di star
perdendo le redini del mio matrimonio, mamma» ammise con un
sospiro quasi
timido. Sua madre accolse la notizia con autentico orrore.
«Per
Morgana,
cosa aspetti a suicidarti allora?» ingiunse Daphne senza la
minima sensibilità
per gli occhi lucidi della sorellina. Astoria fu sul punto di lanciarle
una
fattura, quando loro madre intervenne a dividere le acque.
«Nessuno
si
toglierà la vita, per ogni cosa c’è un
rimedio».
«Non
credo. Non
credo neanche che sia colpa mia. Voglio dire, sono giovane e carina,
no? E so
tenere viva una conversazione. Gestisco bene gli elfi della casa, e sto
simpatica a tutti i colleghi di Draco, a parte Zabini».
Il nome di
Blaise fu accolto da tre sospiri di diversa natura nella stanza.
«Una
vita
perfetta, Astoria. Sai fare delle torte? E parlare con gli
uccelli?»
«Daphne
il tuo
sarcasmo non ci è di aiuto» la fermò
sua madre, allungando la bacchetta per
spegnere la sua sigaretta e chiudere la finestra dietro di lei. Con
poca grazia
Daphne si ritrovò sul pavimento, condendo il tutto con una
imprecazione poco
femminile.
«Poche
cose sono
di aiuto, mamma. Astoria non avrebbe dovuto sposarlo. Conosco Pansy da
sette
anni e fidatevi quando dico che sa ottenere quello che vuole»
snocciolò
risentita, incenerendo con lo sguardo madre e sorella.
Astoria la
guardava con uno sguardo pieno di collera e di odio, al solo sentirla
parlare
di Pansy Parkinson. Daphne ignorò senza troppi problemi
l’astio della sorella.
Indicò invece con un cenno della testa l’armadio
lì accanto. «Che nascondevi lì
dentro, il suo cadavere?»
«No,
ma c’è
sempre posto per il tuo».
«Per
Merlino,
smettetela tutte e due! Io conosco Abraham Nott da una vita e sono
certa che
non permetterà che il matrimonio di suo nipote vada a rotoli
solo perché sua
nuora va a letto con il marito altrui».
«Mamma!»
guaì
Astoria, mentre Daphne rideva apertamente della insospettata audacia
nei
discorsi di loro madre.
«Mi
sembra ovvio
che le cose vadano così, tesoro».
La minore
delle
Greengrass non ebbe neanche il tempo di sentirsi disonorata che sua
madre l’aveva
messa in piedi, aveva aperto le ante dell’armadio e aveva
posto il corpo esile
della figlia davanti allo specchio.
«Sei
molto
carina, Astoria, e lo sai. Stasera e domani sera ti renderai bella
più del
solito. E spero tu non abbia alcun problema a convincere Draco a
dividere il
letto con te». Astoria le lanciò uno sguardo
timoroso di aver compreso il succo
della questione. Daphne si era accasciata sul letto ormai, e portandosi
una
mano alle tempie supplicò sua madre di non andare oltre: le
aveva sentito dire
abbastanza per la sola mattinata.
«Stai
dicendo
che—» iniziò Astoria, indugiando sullo
sguardo di sua madre, riflesso nello
specchio. La madre le sorrise alle spalle dei boccoli biondi della
figlia.
«Fatti
impollinare sorella, ecco cosa sta dicendo» chiarì
Daphne tagliando corto.
Apprese con un triste rassegnazione di essere l’unica a
trovare pessima e
insultante quell’idea.
«Non
l’avrei
messa in quei termini. Ma è qualcosa che prima o poi ti
sarebbe stato
richiesto. Devi solo accelerare un po’ i tempi».
«Accelerare
i
tempi…» ripeté a mezza voce lei, per
abituarsi all’idea.
«I
tempi del
concepimento, Astoria, non quelli della prestazione» le
ricordò Daphne,
guardandola allusiva appoggiata ai propri gomiti.
Loro madre
preferì rimuovere quel dettaglio, mentre sentiva le sue
figlie ridere tra loro,
scena a cui non le capitava di assistere da un tempo troppo lungo.
Detestava
l’idea di dover diventare nonna tanto presto, ma per
l’onore della famiglia
Greengrass e la salute della sua bambina, avrebbe potuto accettare quel
compromesso.
«Non
credo che
quello sia un problema, Dap. Finora Draco è
sempre—»
«Bene.
Possiamo
andare ora» si intromise, recuperando scialle e mantello.
«Beh,
adesso
sappiamo cosa accomuna realmente lui e Blaise».
«Bambine!
Ho
detto andiamo».
●●●
We
might kiss
when we are alone
when nobody’s watchin’
we might take it home
we might make out
when nobody's there
it's not that we're scared
it's just that it's delicate
[Delicate - Damien Rice]
«Non
una
parola».
Draco non
aveva
comunque nessuna intenzione di dirne alcuna, quando Pansy si era
materializzata
nel suo pseudo ufficio, senza il minimo preavviso.
«In
mia difesa o
in tua accusa?» domandò ironico lui, mettendo da
parte atti di proprietà e
scartoffie varie. Dopo la guerra non aveva avuto l’ardire di
cercare un posto
al Ministero: ottenere l’incarico ricoperto una volta da suo
padre sarebbe
stato oltremodo complicato e del resto non era di una grande carriera
che gli
interessava. Così si era dedicato allo scambio tra privati,
sfruttando al
meglio quella pratica di contrattualismo appresa nei sotterranei
Slytherin.
«Stai
parlando»
replicò lei e un attimo dopo lo stava baciando. Lui si
lasciò coinvolgere da
quella iniziativa. Le sue mani trovarono subito, con una sicurezza
dolorosa al
pensiero, i fianchi di Pansy. Aderì contro il suo corpo con
la antica
perfezione di sempre, replicando quell’unione che li vedeva
vicini e lontani,
lottare contro il desiderio di stare insieme e
l’incapacità di ricavarsi la
legittimità di farlo.
«Draco—»
mormorò
lei, quando furono costretti a lasciar andare l’altro per
respirare, ma lui
sorrise saputo contro le sue labbra e la zittì con la
dolcezza dello sguardo e
la prepotenza di un nuovo bacio. «Ssssh, non una
parola» la redarguì,
continuando a baciarla e spogliandola rapidamente.
Sapeva che
qualcosa non andava, che mai Pansy avrebbe concesso a se stessa una
visita del
genere, baciandolo in quel modo, così docile, quasi fosse un
bisogno e non più
un sincero desiderio.
L’atto
di
vendita del signor Cole cadde rovinosamente in terra, sparpagliando i
fogli del
suo contenuto sul pavimento, mentre il suo posto sulla scrivania veniva
rimpiazzato dal corpo di Pansy.
Le sue mani
lo
spogliarono urgenti e febbrili, perfettamente sicure eppure
incespicando di
tanto in tanto in qualche bottone.
«Aspetta—»
mormorò ridendo della loro foga, quando i suoi capelli si
impigliarono ad un
bottone. Lui li districò con una attenzione che Pansy non
avrebbe potuto
immaginare gli appartenesse, ridendo con voce roca. «Il
solito disastro» la
prese in giro, togliendosi la camicia e prendendole il viso tra le
mani. Lo
avvicinò al proprio, sebbene non avesse niente di nuovo da
scoprire. Era solo
la pura e semplice soddisfazione dell’averla tanto vicina e
del poter
contemplare quella che per lui era bellezza.
«Che
stiamo
facendo?» domandò lei senza volere realmente una
risposta, chiudendo gli occhi
quando le mani di Draco scivolarono su di lei, accarezzandole la pelle.
«Quello
che ci
riesce meglio» rispose Draco, la voce bassa e le labbra
socchiuse vicino al suo
collo, Pansy ebbe la certezza che fosse sincero e che avesse ragione,
aveva
ragione tanto quanto tutte le volte che in passato lei gli aveva dato
torto per
il semplice gusto di farlo, e non perché lo credesse
veramente. A dirla tutta
non sapeva cosa gli riuscisse meglio, se fare l’amore o
amarsi nel modo
sbagliato.
In quel
momento
non le interessò saperlo, perché aveva
già la certezza che per quanto fosse
sbagliato e anche se si fosse rivelato l’unico, sarebbe
comunque stato il modo
in cui lo avrebbe amato, per sempre.
«Ti
tratti bene
in questo ufficio» commentò ironica, quando Draco
la raggiunse, porgendole un
bicchiere di vino e una coperta. La sua camicia aveva perso quel
bottone e non
si chiudeva bene sul suo petto, e Pansy si compiacque di aver in
qualche modo
lasciato traccia di sé su qualcosa di suo.
«E’
praticamente
la mia casa» spiegò lui, sedendosi accanto a lei,
vicino al camino spento. Pansy
si guardò intorno, abbracciando con lo sguardo il soffitto
alto e i quadri
appesi ai muri. Ritraevano tutti paesaggi lontani, e sogni di evasione,
ma tra
loro di tanto in tanto compariva un ritratto. I lineamenti familiari di
quei
volti spiegavano che fossero Black o Malfoy, e che fossero
lì di compagnia,
come ricordo di una parte di sé che non avrebbe mai
rinnegato.
Poi
pensò al
camino, piuttosto inutile in un ufficio in cui si passano poche ore
della
propria giornata, e alla credenza con il vino rosso e del cibo. Le
sembrò un
rifugio, più che una casa.
«Malfoy
Manor è
cambiata» aggiunse, per farle capire cosa intendesse. Lei
annuì, prendendo un
sorso di vino e cercando di ricordare Malfoy Manor e il suo aspetto.
«Non
ci metto
piede da un po’» concordò posando il
bicchiere sul pavimento. Quel rumore sordo
si spanse nel silenzio della stanza. Draco sorrise, giocando con una
ciocca dei
suoi capelli neri.
«Si
è come
svuotata».
Pansy
sollevò la
testa in sua direzione, e i capelli le scivolarono sulla schiena e sul
collo,
sommergendo le dita di Draco. I suoi occhi erano persi nel ricordo del
fasto
della sua casa, ai tempi d’oro della sua famiglia.
«L’ego
di mio
padre occupa il suo spazio, sai» aggiunse ridendo tra
sé. Lei rifletté su quel
particolare, ritrovandosi a ridere con lui d’un tratto. Il
suono delle loro
risate si sovrappose e si confuse, si rincorsero nello spazio ristretto
di
quella succursale di casa Malfoy e infine si spensero, leggere e
tintinnanti,
sul bacio che si scambiarono.
«Perché
sei
venuta qui?» le domandò. Il braccio che le
circondava la vita inconsciamente le
impedì di sottrarsi alla vicinanza dei loro corpi. Pansy lo
guardò e nel suo
modo di guardarlo Draco lesse l’arrendevolezza e la
maturità con cui lei aveva
preso atto di aver raggiunto il limite, e di averlo varcato, facendo di
nuovo
l’amore con lui poco prima.
«Perché
fare la
cosa sbagliata è decisamente il mio forte».
Cercò
di
minimizzare, spaventata dalla grandezza del significato di tutto
quello. Draco
sciolse la presa su di lei, liberando i suoi movimenti, ma lei non si
mosse.
«Ci
ho pensato
Pans e non vedo come possa essere sbagliato».
Concluse
lui,
recando nella voce le tracce di un certo disappunto. Pansy
sospirò, facendo
scivolare la coperta in cui lui l’aveva avvolta. Draco
seguì il modo delicato
con cui il suo seno si era scoperto e non poté fare a meno
di pensare che anche
quello fosse suo.
Il suo seno
e il
modo in cui lui lo avrebbe nascosto sotto quella coperta. Il suo collo
e
l’incavo della sua spalla. I capelli più sottili
vicino alla nuca, e il lobo
del suo orecchio. E poi ancora tutte e dieci le dita delle mani, e ogni
singola
ciglia dei suoi occhi. Ogni particolare di Pansy gli sembrava
conosciuto e
conquistato. Suo, come lei.
«E’
il modo che
è sbagliato» replicò lei, e la sua voce
ridotta ad un sussurro stanco e
indolente si insinuò nella sua testa. Aveva incredibilmente
ragione.
«Eravamo
più
liberi quando fingevi di snobbarmi ad Hogwarts»
continuò lei, ridendo appena.
Draco la guardò ridere, vide le sue labbra assottigliarsi e
poi ricomparire.
Lui non rise affatto.
«E’
successa una
cosa gravissima Pans» le comunicò e quando lei si
voltò a guardarlo perplessa,
lo trovò infinitamente confuso intento a guardarla, dritto
negli occhi come in
rare occasioni lo aveva visto fare.
Una volta al
Ballo del Ceppo, quando lei lo aveva sfidato a non pestarle i piedi per
l’intera durata della festa in cambio di un bacio che in ogni
caso non gli
aveva mai dato, perché distraendosi all’ultimo
ballo le aveva pestato il piede.
Una volta
alla
fine del quinto anno, affumicati dal vapore del treno nove e tre
quarti, quando
lui le aveva detto che Lucius era stato arrestato e non avrebbero avuto
modo di
vedersi per tutta l’estate, perché lui aveva cose
più urgenti e importanti da
fare. Come piangere disperato nella sua
camera aveva pensato senza dirlo mai.
Una volta al
loro penultimo anno ad Hogwarts, quando la mattina dopo che Madama
Pomfrey gli
aveva tolto il guinzaglio delle sue premure di infermiera, li aveva
raggiunti
al tavolo per la colazione, e tutti gli avevano chiesto che fosse
successo tra
lui e Potter nel bagno delle ragazze. Tutti tranne lei e Blaise, seduti
vicini
e molto presi ad imburrare una fetta di pane che nessuno dei due
avrebbe
mangiato, per mancanza di appetito.
Una volta al
settimo anno, prima di sparire nel nulla, nella voluttà di
un destino incerto e
con ogni probabilità ingiusto, dopo averle detto di fargli
il piacere di
volatilizzarsi e non farsi trovare da nessuno, e di rendersi utile
– se proprio
doveva – solo denunciando Potter, ovunque fosse o non fosse.
Una volta
poco
tempo dopo la fine dei loro studi, quando – dopo averle detto
fissando il
pavimento che Astoria Greengrass sarebbe diventata sua moglie
– aveva provato a
chiederle scusa, senza riuscirci.
E poi quella
volta, quando seduto per terra accanto a lei le disse che non avrebbe
tollerato
oltre il pensiero che un altro uomo posasse gli occhi su di lei e la
toccasse,
credendo che ogni più piccolo dettaglio del suo corpo e
della sua persona
potesse essere suo.
«E’
gravissimo»
aveva risposto lei, baciandolo per non fargli capire che altrimenti
avrebbe
addirittura potuto piangere come una stupida, e per la seconda volta in
una
giornata.
What’s next
«Pans» la chiamò
infine, mordendosi un
labbro, pensieroso. […]«Non mi hai detto niente
del tuo week end».
La verità è che erano tutti e
tre già troppo
ubriachi.
«Dunque, Abraham… quanta
influenza hai sul
ministro di Grazia e Giustizia, al momento?».
Thanking
Entreri: il mio ultimo esame devo darlo
domani, perché oggi eravamo in troppi e il mio amabile
professore ci ha divisi
,___, Anelo alla libertà fino alla sessione di giugno *__*
Spero che i
tuoi
siano andati bene J Mi manca un
po’ filosofia ._. XD
Milli non
demorde, in un certo senso la ammiro, mi sa che tra tanti lei
è la meno vittima
della noia sentimentale =P Un bacio cara :*
|
Ritorna all'indice
Capitolo 11 *** XI Brindisi ***
The
way we were
XI
Brindisi
I'm
not sure what I'm looking for anymore
I just know that I'm harder to console
I don't see who I'm trying to be instead of me
But the key is a question of control
Can you say what you're trying to play anyway?
I just pay while you're breaking all the rules
[A
pain that I’m used to – Depeche Mode]
Prestare
scarsa
attenzione alle parole di Millicent, per Pansy era da sempre stata
quotidiana
abitudine, per quanto riservasse sempre un affetto segreto per lei.
Quindi se
non fosse stato per le insistenze di sua madre avrebbe lasciato cadere
la
questione Tracey Davis senza troppi problemi.
Quella
mattina
un gufo aveva svegliato il sonno di lei e Theodore, picchiettando con
il becco
contro il vetro fino a quando lui non aveva cercato di schiantarlo con
la
propria bacchetta.
«C’è
il vetro,
Theo» aveva mormorato lei, voltandosi di fianco e affondando
il viso nel
cuscino per tornare ad un sonno indisturbato. Il suo promesso sposo
aveva
ceduto all’evidenza dei fatti, e aveva aperto la finestra
imprecando contro i
gufi mattinieri.
«Ma
chi è che
rompe le palle a quest’ora?» disse a denti stretti,
venendo investito dal gelo
delle sette di mattina.
«Mia
madre
probabilmente» replicò Pansy ancora sprofondata
sotto le coperte. «Rompe le palle
a tutte le ore» chiarì tirandosi su di malavoglia
e strappando con poca grazia
la missiva dalle zampe del gufo. Inutile dire che il volatile
lavoratore non
ottenne alcuna ricompensa per i suoi servizi.
Theodore fu
ben
lieto di richiudere la finestra alle sue spalle e tornare al caldo
delle
coperte.
Accanto a
lui
Pansy era seduta a gambe incrociate, molto intenta a leggere le ultime
di sua
madre.
Non
poté fare a
meno di indugiare sulla sua figura.
«Cosa
dice?»
domandò più interessato alle sue gambe che alla
corrispondenza con Evelyn
Parkinson. Pansy non si scompose, accartocciò la pergamena
scrollando le spalle
con massima indifferenza.
«Che
dovrei
tenerti sotto occhio» rispose sincera con una certa ironia.
Theodore la
guardò perplesso, perdendo ogni intenzione di dormire
ancora. Essere spiato
dalla madre di sua moglie non è esattamente il sogno di ogni
futuro marito.
Pansy gli sorrise cercando di tranquillizzarlo in merito alle sue
intenzioni:
ignorare sua madre.
«Non
si fida di
me?» domandò lui, insistendo, quasi offeso.
«Non
si fida di
Tracey Davis» specificò Pansy con un sospiro. Ed
erano solo le sette di
mattina. Un lampo di comprensione attraversò gli occhi di
Theodore, mentre
prendeva atto che sua nuora conosceva le sue transizioni finanziarie.
«Io
e Tracey
siamo in affari» asserì lui in tono solenne da
giuramento. Pansy annuì
minimamente toccata dalla faccenda. «Lo so. Sei il terzo che
me lo dice». La
confusione di Theodore aumentò in proporzione alla
tranquillità con cui Pansy
accettava l’idea che lui fosse in contatto con la sua
acerrima nemica dei tempi
scolastici e che sua madre ritenesse essere una minaccia per il loro
imminente
matrimonio.
«Non
sei
arrabbiata?» azzardò lui. Pansy rise, tornando a
stendersi, al suo fianco.
Appoggiato ad un gomito Theodore la osservò
dall’alto: il candore della sua
pelle quasi si confondeva con quello delle lenzuola, l’unica
macchia di colore
era il nero dei suoi capelli sparsi sul cuscino. Non riusciva a non
trovarla
calamitante, in un modo tutto suo.
Non era
sempre
stata così bella. Era sbocciata all’improvviso,
come ogni cosa che faceva.
All’improvviso aveva accettato di uscire con lui.
All’improvviso aveva detto di
averci pensato abbastanza e che sì, lo avrebbe sposato. Ma
non era stato
affatto imprevedibile che dopo aver rivisto Draco Malfoy al ricevimento
fosse
diventata ancora più elusiva del solito con lui.
«No,
gli affari
sono affari, non riguardano la simpatia, giusto?».
Lui
annuì un po’
dubbioso. In un certo senso avrebbe preferito che fosse un
po’ arrabbiata, ma
si guardò bene dal farglielo sapere.
«Che
combina
adesso?» chiese lei, voltandosi a guardarlo, serena.
C’erano
dei
momenti – come quello – in cui
l’irrequietezza che le vedeva sempre addosso si
spegneva. Erano i momenti in cui riusciva a parlare con lei senza
obbligarla ad
essere attenta. In cui era lui a dover rispondere a qualche domanda che
Pansy
gli rivolgeva, senza dover condurre un terzo grado su come fosse andata
la sua
giornata. Erano anche le volte in cui smetteva i panni del marito, e le
parlava
come se fossero ancora a scuola, e tra loro non ci fossero stati baci
né
proposte. Come se non si fossero mai toccati, non avessero mai diviso
altro che
un calderone nelle ore di Pozioni o una fetta di pane a colazione.
Come se la
loro
storia non fosse esistita, come se niente di tutto quello fosse
successo.
Quelle erano
le
volte in cui sentiva che Pansy gli voleva bene, nonostante tutto. E si
chiese
se con quelle premesse fosse giusto sposarla.
«Ha
divorziato
due volte. Lo sapevi?»
«No,
ma non mi
stupisco».
«L’ultimo
è
stato il nuovo preside di Durmstrang».
«…
ha sempre
avuto buon gusto, questo devo concederglielo».
«E’
molto
cambiata, Pans» le comunicò Theodore, con una nota
di tenera ammonizione nella
voce. La vita a Slytherin era difficile di per sé e lui non
si era mai messo in
mezzo nelle beghe femminili del Dormitorio. L’inimicizia tra
Pansy e Tracey era
conosciuta in tutto il castello e ognuno aveva una personale teoria sul
perché
due persone potenzialmente tanto simili non riuscissero ad andare
d’accordo.
Qualcuno ne
era
segretamente sollevato, perché se il trio
d’argento era sufficientemente
problematico da gestire, una coppia del genere avrebbe creato danni a
chiunque
avesse incrociato la loro strada. E si sa che l’ingegno e la
massoneria
femminile sono ben peggiori di una sbruffona goliardia maschile.
«Mi
ha chiesto
di te» aggiunse, sfiorandole un braccio. Pansy sorrise
sorniona, tirandosi su.
«Le
hai chiesto
se tra i suoi nuovi interessi ci sono uomini attempati?»
domandò, consapevole di
tutto quello che Tracey aveva tratto dalle notizie dategli da Theodore.
Primariamente, che lei e Draco non erano insieme e che questo piccolo
dettaglio
le martoriava l’anima. «Perché farebbero
una coppia splendida, lucrando sulla
mia morte».
Theodore
rise,
facendosi pensieroso subito dopo, e Pansy seppe che stava per chiederle
qualcosa di cui non avrebbe voluto parlare.
«Adesso
potete
rivelare il perché del vostro odio?».
«Noiose
questioni femminili Theo» rispose con forzata leggerezza,
accompagnando la
frase con un gesto vago della mano. Nella prima luce della mattina,
l’anello
che portava al dito riflesse la sua lucentezza. Theodore ne fu colpito
per un
momento, riconoscendolo al dito di Pansy e ricordando la sua assenza il
giorno
che era tornata dal fine settimana in famiglia.
Non disse
niente, distratto da quel particolare, e Pansy si accorse di tutto.
Abbassò
rapidamente la mano, portandola tra i propri capelli,
d’improvviso fredda e
lontana come tutti gli altri giorni.
Theodore
perpetuò quel silenzio per lunghi secondi, prima di
lasciarsi andare ad un
sospiro. Avrebbe voluto dirle molte cose, ma già sapeva che
non sarebbe stato
possibile.
«Pans»
la chiamò
infine, mordendosi un labbro, pensieroso. Pansy si voltò a
guardarlo,
improvvisando un’impudenza che non avrebbe potuto permettersi.
«Non
mi hai
detto niente del tuo week end». Era una domanda infinitamente
semplice rispetto
alla gravità con cui aveva parlato, ma Pansy non si
lasciò ingannare.
«Non
c’è molto
da dire» rispose, alzandosi dal letto e recuperando la
propria vestaglia.
Scivolò sulla sua pelle con leggerezza, aderendo al suo
corpo senza il minimo
rumore. Le calzava a pennello, proprio come Theodore avrebbe desiderato
le
calzasse la vita in comune con lui.
«Io
e mia madre
abbiamo scelto i fiori per le nozze» completò la
frase, portandosi davanti allo
specchio e sistemando i capelli nel solito chignon. Theodore
pensò che avesse
un bel collo, e che lo chignon le stesse bene e la facesse sembrare una
donna
di gran classe. Quando scioglieva i capelli invece, gli ricordava la
Pansy
ragazza, e gli piaceva lo stesso. Era un bel problema, in effetti.
«Ah
sì? E come
sono?» domandò ancora, sapendo che quella non
fosse tutta la verità. Preferiva
non saperlo. Logorarsi vivendo nel sospetto gli sembrava meno difficile
che
morire distrutto dal dolore della consapevolezza.
«…
rosa» disse
lei, guardandolo dallo specchio. Sussultò quando lo
trovò alle proprie spalle.
Le sue mani erano scivolate su di lei, accarezzandole il collo. La
guardava
riflessa nello specchio, con occhi scuri di desiderio e di pensieri e
lei
scoprì di stare quasi tremando.
«Come
la tua
bocca» disse lui, sorridendole.
Pansy
detestava
il rosa, e lui non lo aveva dimenticato.
«Non
vesti mai
di rosa».
Disse
soltanto,
scostandosi bruscamente da lei e uscendo dalla loro camera, in
silenzio.
●●●
Even
the stars look brighter tonight
Nothing's impossible
I still believe in love at first sight
Nothing's impossible
Even the stars look brighter tonight
Nothing's impossible
If you believe in love at first sight
Nothing's impossible
[Nothing’s impossible – Depeche
Mode]
Tracey Davis
in
realtà non aveva mai riversato alcun odio nei confronti di
Pansy Parkinson, e
Pansy Parkinson ne era perfettamente consapevole.
Nei
Dormitori
Slytherin si svolgeva qualunque tipo di attività non
conforme a ciò per cui il
loro stesso nome suggeriva fossero adibiti, e tra quelle
attività la meno
illecita era parlare a sproposito e costruire tragedie intorno al
più banale
degli accadimenti.
Tracey e
Pansy
avevano avuto ai tempi un piccolo conflitto di interessi che avevano
saputo
perfettamente risolvere secondo una sorta di comunione di beni
piuttosto raro
dalle loro parti, e la loro acrimonia si sarebbe conclusa
lì.
Poi
Millicent
aveva rivelato a tutta Hogwarts la sua viscerale passione per Blaise
Zabini e
mentre Pansy si affannava in gran segreto a ricucire gli strappi della
sua
dignità, cercando di non farle rendere conto di quanto fosse sbrindellata, Tracey non
aveva avuto problemi a
calpestare le sue fatiche e atterrare leggiadra nel letto di Blaise,
una sera
come tante, per ben due mesi di seguito.
Draco per
l’occasione aveva rubato le vesti a Potter, calandosi nel
ruolo di cavaliere
senza macchia e senza paura, e aveva avuto l’ardire di
scendere nell’arena e
trattenere Pansy per un polso, prima che potesse impugnare la bacchetta
e agire
sconsideratamente di fronte a tre quarti del settimo e sesto anno
Slytherin.
Il suo
coraggio
era stato straordinario nel senso più stretto del termine e
non si erano replicati
ulteriori extra, quindi Blaise non aveva avuto alcun avvocato difensore
durante
il processo più fisico che verbale che Pansy aveva intentato
contro di lui in
seguito.
«Pans,
per la
millesima volta, non potevo pensare che volessi tanto bene a
Millicent!»
esclamò esasperato quel pomeriggio, di fronte allo sguardo
furioso dell’amica.
Dall’altro
lato
della stanza Draco nascondeva un ghigno divertito nel fumo della
sigaretta che
si era acceso.
«Non
le voglio
così bene infatti» si affrettò a
correggere la questione lei, incrociando le
braccia al petto stizzita. Blaise e Draco non si fecero problemi a
manifestarle
il loro scetticismo in merito, ed entrambi si salvarono da una sequela
di
insulti solo per la nuova influenza che Draco poteva esercitare su Miss
Parkinson.
«Quindi
è
tornata a Londra dalle brulle terre di Durmstrang?»
continuò Blaise mentre
Draco attirava a sé Pansy intimandole gentilmente di sedersi
su di lui e
sotterrare l’ascia di guerra per il momento.
«Sì,
e si è
intrufolata nell’ufficio di Theodore». Le dita di
Draco si strinsero
involontariamente contro il suo fianco, e Pansy non seppe se esserne
deliziata
o rammaricata. Blaise finse di non aver visto, come sempre fedele alla
dimensione privata e tragicomica dei drammi dei suoi amici.
«Ricordavo
avesse gusti migliori» aggiunse Blaise, civettando con se
stesso.
«Anche
io
ricordavo che Daphne Greengrass avesse gusti migliori»
ribatté Draco guardando
sfacciatamente in direzione di Blaise. Fu il turno di Pansy di mordersi
la
lingua sentendo pronunciare l’eresia di quel cognome.
«Tua
moglie è
una portinaia» accusò Blaise quasi seccato ma
minimamente preoccupato che la
verità fosse venuta a galla. Pansy spostò lo
sguardo dal mancato marito al suo
migliore amico, facendo dei calcoli elaborati che la portassero alla
soluzione
dell’enigma.
«Vai
a letto con
Daphne?» domandò illuminata.
«Sì.
Stai per
picchiarmi di nuovo?». Si preparò
all’eventualità mettendo mano alla bacchetta.
Pansy scosse la testa senza impedirsi un sorriso.
«No,
non credo.
Millicent è adulta adesso» sentenziò
prendendo la sigaretta dalle dita di
Draco. Draco la guardò scettico, appoggiando il mento sulla
sua spalla.
«Mi
spiace
deludere le tue convinzioni Pans, ma dorme ancora con la foto di Blaise
sotto
il cuscino, come al suo secondo anno» le comunicò.
Pansy e Blaise gli
lanciarono un’occhiata preoccupata, anche se negli occhi di
Blaise si leggeva
una nota di compiacimento ben lontana da quella di sgomento negli occhi
di
Pansy.
«Tu
cosa ne
sai?»
«Ce
lo hai detto
tu».
Pansy
ignorò
deliberatamente quel piccolo dettaglio sull’onestà
con cui aveva trattato dati
e informazioni personali di Millicent, appellandosi al fraintendimento
della
sua domanda.
«Intendevo
dire…
come fai a sapere che lo fa ancora».
Blaise lo
guardò
altrettanto interessato. Draco scrollò le spalle con aria
casuale.
«Me
lo ha detto
Warrington».
«Il
mio
spacciatore?» domandò Blaise, iniziando ad essere
inquietato dalla presenza di
Millicent intorno tutto ciò che lo riguardasse. Draco
annuì in tutta
tranquillità. « A lui lo ha detto
Montague».
Pansy
schioccò
le labbra, di colpo più tranquilla.
«Da
quando è
uscito dall’armadio delle meraviglie non ci sta tanto con la
testa».
«No,
vi assicuro
che le meraviglie è passato a farle nell’armadio
di Millicent» proclamò Draco,
per niente dispiaciuto da quello che le dita di Pansy stavano facendo
sul suo
collo. Ci fu un momento di silenziosa confusione generale.
«Ma
non avevi
detto che la foto era sotto al cuscino?» domandò
Blaise, perplesso.
«L’armadio
era
una metafora, mente vivace» lo zittì Draco tirando
fuori calici e champagne dal
mobiletto di Blaise, accanto a lui.
«…
aspetta, vuoi
dire che Milli ha una vita sessuale?» esclamò
Pansy sprecando le ultime parole
dopo uno shock di tale sorpresa. Ebbe appena il tempo di offendersi per
quell’omissione
di particolari da parte dell’amica, prima che Blaise
aggravasse la situazione.
«Sul
serio?
Credevo sarei stato il primo a conquistare territori
inesplorati» commentò
meditabondo versandosi da bere. Draco porse un calice ad una Pansy
ancora colpita
dall’accaduto, ma per poco non le rovesciò il
contenuto addosso.
«Hai
concepito
l’idea di poter fare sesso con Millicent?»
domandò all’amico metà orripilato e
metà virilmente interessato alla questione.
«No!»
replicò
l’altro, quasi urlando a dirla tutta.
«Ma,
Blaise—lo
hai appena detto» gli fece notare Pansy, bevendo il suo
champagne per
recuperare un po’ di forze. Blaise la guardò per
la prima volta con aria
confusa e del tutto inconsapevole di sé e lei ne ebbe quasi
tenerezza, prima di
ricordarsi che era andato a letto con Tracey, che in quel momento
stesse
concupendo la sorella della moglie del proprio amante e che si
dedicasse ad
alcool e droghe solo per non voler parlare con loro di cosa avesse
vissuto in
quella guerra.
«No
di certo»
insistette lui, porgendo il calice a Draco perché lo
riempisse di nuovo. «Sono
confuso» statuì infine, alzando il calice in
direzione degli altri due.
«Ai
vecchi tempi
e alle nostre sbronze» proclamò Draco destando un
sorriso nelle sue
controparti.
«A
Millicent, che
è diventata grande» aggiunse Pansy, per ripagare
Blaise di tutte le sue colpe.
«Agli
adulteri,
che vanno di moda» replicò lui, vendicandosi in un
colpo solo delle due
colombelle che aveva davanti.
La
verità è che
erano tutti e tre già troppo ubriachi per poter riflettere
sulle serie
implicazioni del contenuto del loro brindisi. Perché se
così non fosse stato,
non avrebbero trovato nessuna ragione per cui ridere e scherzare tutta
la sera,
come se niente fosse capitato; come se non avessero combattuto una
guerra; come
se Draco e Pansy si fossero sempre amati liberamente e nessuno dei due
fosse
sposato; come se le loro vite non fossero mai sfuggite loro di mano.
●●●
We're
damaged people
Drawn together
By subtleties that we are not aware of
Disturbed souls
Playing out forever
These games that we once thought we would be scared of
[Damaged people – Depeche Mode]
«Il
tempo non ti
ha cambiato affatto, Abraham».
L’ex
ministro
Nott indugiò su quel sorriso di artefatta grazia il tempo
necessario per
declinare con un’espressione beffarda le lusinghe della
ruffianeria.
«Non
mi hai
conosciuto prima che mi cambiasse» rispose lasciando
scivolare il mantello
dalle spalle, con la sicurezza di chi sa che qualcuno è
già pronto a prenderlo
al volo perché non cada in terra. L’elfo di casa
Greengrass non deluse le sue
aspettative.
«Perdona
la poca
cortesia con cui risparmio ad entrambi svenevoli preliminari,
Olimpia» aggiunse
volgendo alla donna uno sguardo piuttosto eloquente. «A cosa
devo questo
invito?» domandò facendosi strada nel salotto e
prendendo posto sulla poltrona.
Olimpia
Greengrass finse di poterlo perdonare per averle tolto il gusto di
esibirsi
nella sua dimostrazione di sopraffina conoscenza del galateo, e lo
seguì,
sedendosi sul divano. Davanti a loro sul tavolino basso troneggiava una
bottiglia del miglior Ogden delle cantine Greengrass, e Abraham Nott
pensò che
il motivo della convocazione dovesse essere urgente o quanto meno
importante,
se Olimpia osava addirittura profanare la cantina del defunto marito.
«A
tuo nipote,
Abraham» acconsentì Olimpia, rinunciando a giri di
parole.
Sul viso
anziano
del signor Nott comparve una ulteriore ruga al centro della fronte. La
vecchiaia non aveva scalfito minimamente i segni della sua bellezza
originaria.
Suo figlio era morto troppo giovane perché potesse
eguagliare il padre nello
splendore della sua figura, ricordava Olimpia. In gran segreto, ai
tempi in cui
Abraham era uno dei ministri, lei ne era stata affascinata, come tutte
le sue
compagne. Sognava un posto al Ministero, per poterlo vedere da vicino e
diventare sua segretaria, comparendo vicino a lui in tutti i reportage
della
Gazzetta del Profeta in merito a ricevimenti e galà di
beneficenza.
Poi aveva
incontrato suo marito e le cose erano andate molto diversamente.
«Spero
di non
aver sentito bene» rispose Abraham sporgendosi appena in
avanti. Olimpia stirò
le labbra in un sorriso nervoso.
«Theodore
ha
intenzione di sposare la figlia dei Parkinson?»
domandò versandosi da bere,
contravvenendo alle proprie abitudini. Nott non seguì il suo
esempio,
d’improvviso severo come l’espressione di un oplita
raffigurato in marmo e duro
come lo scudo di roccia che gli apparteneva.
«Qualcosa
ti
preoccupa, Olimpia?» rispose evadendo la domanda.
«Non
vorrei che
ti offendessi, Abraham, ma…»
L’uomo
sbuffò
spazientito, mostrandosi in tutta la scontrosità per cui era
sempre stato
rinomato negli ambienti ministeriali. Scacciò quelle
premesse con un gesto
della mano, di puro fastidio.
«Avanti
Olimpia,
la vita mi ha offeso abbastanza perché consideri le tue
offese nella giusta
proporzione. Cosa hai da dirmi?».
La signora
Greengrass non nascose un certo disappunto per quel modo di fare, ma
decise di
comportarsi da professionale faccendiera mettendo da parte ogni
disposizione
morale.
«Ho
tutte le
intenzioni di tutelare il matrimonio di mia figlia Astoria. Credo tu
possa
capirmi, date le circostanze delle nozze di tuo nipote».
«Continuo
a non
capire la connessione» insistette brusco e inarrivabile.
«Pansy
Parkinson
e Draco Malfoy, il binomio non ti dice niente?».
Abraham Nott
si
versò da bere, iniziando a considerare l’ipotesi
di trattenersi più a lungo di
quanto pensato in un primo momento.
«Sconsideratezza
e sentimentalismo. E allora?»
«Miss
Parkinson
era piuttosto decisa a sposarsi, prima di incontrarlo di nuovo, a
quanto mi
dicono».
«Immagino
che
dopo questo fatidico incontro il matrimonio di tua figlia sia colato a
picco?»
completò la frase per lei, senza celare una nota di
derisione verso il tenero
bocciolo della famiglia Greengrass. Aveva amato sua moglie come si
venera una
divinità, in passato, e il pensiero di quei matrimoni
ridicoli e pretestuosi lo
rendevano di pessimo umore. Per sua moglie aveva organizzato il
funerale più
degno e sontuoso che meritasse, e dopo quell’ultimo dono
d’amore l’aveva messa
da parte, per poter vivere ancora in quel mondo. Privo di suo figlio e
di sua
moglie, aveva concentrato tutte le sue forze sul nipote che gli era
rimasto, ma
la vita l’aveva ormai danneggiato troppo, risucchiando i suoi
sentimenti in un
cinismo utilitaristico. I Parkinson non erano di certo la famiglia
più
facoltosa della Londra magica, suo nipote avrebbe potuto – e
dovuto – puntare a
qualcosa di più. Ma aveva deciso di essere innamorato:
guardava Pansy Parkinson
come lui aveva guardato sua moglie prima di convincerla ad un
appuntamento in
privato con lui. Sua moglie aveva acconsentito con un entusiasmo
diverso da
quello di Miss Parkinson, ma d’altra parte aveva detto
sì e lui era stato
costretto ad accettare che così fosse, e che Theodore la
sposasse.
«Ho
dei progetti
per Astoria, Abraham, sono certa che anche tu ne abbia per
Theodore».
«Non
hai bisogno
di giustificare la tua malignità Olimpia, ad ognuno il suo.
Vuoi che smettano
di vedersi? La clandestinità ha i suoi vantaggi, se
funziona».
«Credi
tuo
nipote tanto stupido da non potersi accorgere di niente?»
domandò stizzita, ma
compiacendosi in un angolo di sé per aver svelato ad Astoria
la verità.
«Credo
sia
abbastanza innamorato per poter sperare che le cose si mettano a
posto».
«Abraham,
se il
matrimonio di Theodore andrà in porto sarà meglio
per tutti» sentenziò lei,
sporgendosi verso di lui con fare non volutamente minaccioso. Abraham
valutò
per un istante l’idea di rimetterla al proprio posto, ma
ricordò che non
sarebbe stato carino usare certi toni con una vedova.
«Non
nego che
sia così. Lo spieghi tu ai giovani amanti che dovrebbero
rinunciare al loro
amore perché i nostri cuccioli possano essere felici della
loro infelicità?»
chiese sarcastico, vuotando il bicchiere.
Olimpia
scosse
la testa, imponendosi di non replicare al suo sarcasmo.
«Ho
in mente
qualcosa di più convincente, signor Ministro».
Abraham le
fece
segno di parlare liberamente. Olimpia prese un altro sorso di Ogden,
cercando
di ignorare il bruciore nella gola. Ci aveva pensato a lungo, e in fin
dei
conti aveva creduto che fosse la tattica migliore, consapevole che
anche nel
mondo Slytherin contasse la regola del bene migliore.
«Astoria
darà
alla luce un Malfoy, a breve» iniziò,
già commossa alla sola idea, per quanto
prematuro fosse esserlo.
«Quale
gioia. E
perché mai il giovane Draco dovrebbe dimostrarsi ligio ai
suoi doveri di padre…
per un figlio non voluto?».
«Perché
tutti
abbiamo la nostra storia, Abraham, e Draco sa quanto importante sia
crescere
con un padre accanto. Astoria non perde occasione di dirmi quanto
Lucius –»
Abraham la interruppe con un colpo di tosse.
«Dunque,
Abraham… quanta influenza hai sul ministro di Grazia e
Giustizia, al momento?».
Lui la
guardò
iniziando a capire di aver sottovalutato il potere dell’amore
di una madre.
«Questa
domanda
potrebbe offendermi sul serio».
Olimpia
poté
rilassarsi, ritenendosi soddisfatta.
«Molto
bene. C’è
qualcosa su cui dovremo contrattare
con lui».
What’s next:
«Sssh» lo interruppe prima di
baciarlo per
ottenere il suo silenzio. «Anche noi Greengrass abbiamo dei
segreti».
Mama’s baby, papa’s maybe.
Thanking:
valy88: grazie per i complimenti
*__* sono
immensamente lieta di aver
introdotto una povera vittima—cioè, una nuova
lettrice al mondo Dransy. XD I Greengrass
hanno una furberia tutta loro ma purtroppo tocca sopportarli visto che
sono
stati creati u.u sapranno stare al posto loro, però XD Un
bacio :*
sweetchiara: ammesso che con questi due
basti incrociare le dita =P scherzi a parte, le cose sono un
po’ ingarbugliate
perché loro sono due stupidi che non sanno fare le cose a
tempo debito
(rotolarsi per terra e professare l’amore libero dal canon
della Rowling, ad
esempio) e perché la loro autrice ha deciso che dovesse
esistere Astoria
Greengrass. -_-‘ mi appello a Blaise e alla sua visione di
pacifismo estetico
del mondo XD vediamo che verrà fuori dal capello :D / Damien
Rice is Love
*_____* quando non mi mette ansia (perché a volte con quella
nocetta accorata
lo fa XD) amo crogiolarmi in tutto il suo struggente romanticismo non
diabetico
*.*
Entreri: come sempre io devo
ringraziarti per i complimenti e la costanza =) Narcissa è
Narcissa, credo in
realtà che sia il mio termine di paragone e il mio complesso
di inferiorità XD
Ma del resto da una Black con contaminazioni Malfoy come poteva non
nascere
qualcosa di bellissimo? *_* Draco
tutto
sommato è un bravo ragazzo su :D un demente, ma un bravo
ragazzo che potrebbe
persino piacere a qualche madre XD Grazie ancora ♥
Coco Lee: Io non so che dire. A parte
“grazie” che però risulta un
po’ banale, mi rendo conto. Pur drogandomi *coff*
seguendo, Gossip Girl non avevo mai pensato a questo possibile
accostamento, ma
in effetti è vero, ci sono delle somiglianze :D E Millicent
rappresenta secondo
me una piccola parte che c’è in quasi tutti gli
esseri umani u.u voglio dire,
magari non ci ritroviamo a sniffare un bicchiere di brandy, ma
disgraziatamente
il mondo è pieno di Blaise Zabini da concupire (con il
pensiero e non u.u) XD
Sui Malfoy non mi pronuncio perché sono consapevole di non
essere obiettiva. La
mia adorazione per loro mi ottenebra il cervello, ma Cissa
l’ho sempre
immaginata così, dopotutto è una Black/Rosier,
è una stirpe tosta =P
Grazie
ancora,
infinite volte per aver recensito e detto tali cose =) *ancora sine
verba di
senso compiuto*
Chiedo scusa se l’aggiornamento si fa un
po’ aspettare, ma devo stare dietro a Miss Ispirazione, che
è una ferma
sostenitrice della propria autonomia dalla volontà
dell’autore u_u E’ tutto
delineato nella mia testolina però, se vi consola XD
Un bacio al solito tutti che passa di qua
:*
|
Ritorna all'indice
Capitolo 12 *** XII Rivoluzioni ***
The way we were
XII
Rivoluzioni.
She is frequently kind
And she's suddenly cruel
She can do as she pleases
She's nobody's fool
But she can't be convicted
She's earned her degree
And the most she will do
Is throw shadows at you
[Billy Joe Armstrong –
She’s always a woman]
Blaise
Zabini
non era propriamente sicuro che ci fosse qualcosa che gli piacesse
particolarmente di Daphne Greengrass. Apprezzava il suo sfacciato
disprezzo per
le abitudini di casa Greengrass ed era sollevato dai suoi atteggiamenti
libertini,
giacché poteva permettersi qualsiasi passo falso senza
incorrere nel rischio di
una denuncia per molestia.
Daphne non
faceva mai niente contro la propria volontà, si divertiva
maggiormente a
forzare quella altrui e Blaise alle nove di sera in punto
pensò che fosse
questo il valido motivo in nome del quale si stava prendendo la
libertà di toglierle
di dosso anche l’ultimo indumento, sotto lo sguardo della
prozia Amarinta.
«La
tua prozia è
viva, in quel quadro» si premurò di comunicare a
Daphne quando gli occhi neri
della donna per poco non gli perforarono le scapole. Daphne sorrise
contro la
sua spalla, senza per questo cedere di un millimetro dalla posizione
sconveniente in cui si trovava. Le dita scivolarono con una sapienza
piuttosto
machiavellica sotto la camicia di Blaise, tracciando percorsi e
scegliendo
itinerari che con molte probabilità Amarinta Greengrass
aveva solo potuto
immaginare.
«Sssh»
lo
interruppe prima di baciarlo per ottenere il suo silenzio.
«Anche noi
Greengrass abbiamo dei segreti».
Blaise
ritenne
che fosse l’unica pretesa legittima che la famiglia di Daphne
potesse vantare,
e affatto disturbato dalla presenza di terzi assecondò i
propositi della
serata, condivisi con la padrona di casa.
Andare a
letto
con Daphne si era rivelato essere qualcosa di diverso. A dispetto di
quanto le
piacesse mettere alla prova i nervi di sua madre –
già fragili da ben prima che
la sua bambina rivelasse quella tenera opposizione a tutti i precetti
che aveva
cercato di inculcarle, con cucchiai di sciroppo di buonsenso e
caramelle al
buongusto – per un po’ aveva insistito per tenere
nascosto il loro nuovo
passatempo ai più.
Naturalmente
Blaise lo aveva riferito a Draco, consapevole che la notizia non
avrebbe
tardato a giungere alle orecchie di Pansy, perché dopotutto
loro non facevano
parte dei più, ma il cerchio si era chiuso lì.
«Non
ne dubito.
Il più quotato è quello riguardo il contenuto del
cervello di tua sorella» si
lasciò sfuggire mordendo con delicata fermezza il collo di
Daphne. La pelle
chiara lo rese un marchio piuttosto evidente del suo passaggio in quei
territori.
«Sei
prevenuto»
gemette lei, facendo della carezza sulla nuca un pretesto per
strattonargli i
capelli. Nei suoi occhi brillava il divertimento per un gioco tutto
loro e la
fierezza con cui avrebbe difeso fino allo sfinimento il nome di
Astoria, nei
confronti della quale solo lei si arrogava il diritto di esprimere
pareri
sardonici.
«Dimenticavo
l’apporto di tua madre» si corresse Blaise,
adagiandosi con la solita eleganza
sfacciata sul divano del salone. Daphne lo guardò
dall’alto, interrompendo il
loro discorso confuso con un silenzio pesante, carico di una nuova
consapevolezza. Blaise ne approfittò, rivolgendole un
sorriso di false scuse
per aver lasciato ad intendere che oltre ad essere un ottimo amante
aveva anche
il raffinato pregio di una arguta intelligenza. Niente sfugge a Blaise
Zabini,
volle ricordarle, inclusi gli strani girotondi di una madre e una
figlia fresca
di nozze, intorno alle magnificenze della famiglia Malfoy.
«A
volte penso
che la retorica per te sia più importante della concretezza
dei fatti, Zabini»
concluse Daphne, riscuotendosi dai suoi pensieri. Glaciale lo guardava
dall’alto della propria posizione, e lui scavò
nella propria memoria in cerca
di un corpo altrettanto bello, senza trovarlo. Aveva il fascino antico
e
paradossale delle cose fragili: gli sarebbe bastato stringere le dita
intorno
al suo polso per farla cadere contro il proprio corpo e tirarla
giù, dove
vivono le persone qualunque. Ma il disprezzo per qualsiasi
accondiscendenza e
la libertà con cui disponeva del proprio corpo –
esattamente come lui faceva un
tempo – fermavano qualsiasi istinto in chi se la trovava di
fronte.
«Sarà
perché
davvero gli opposti si—» prima che potesse finire
la frase, Daphne era china su
di lui, indecentemente vicina, prendendosi il deliberato permesso di
varcare il
confine.
«Hai
delle
preoccupazioni, Blaise? Questo lungo mese senza il tuo compagno di
ventura ti
ha provato, non è vero?» mormorò contro
le sue labbra. Chiunque avrebbe perso
il controllo senza troppo rammarico in quella situazione, ma Blaise
Zabini non
era chiunque e sentir parlare di Draco da labbra estranee alle proprie
e a
quelle di Pansy Parkinson, gli piaceva relativamente poco, a dispetto
di quanto
potesse piacergli avere Daphne Greengrass mezza nuda sopra di
sé.
«O
forse sei
stato occupato in altro. Il matrimonio di Pansy è vicino, la
damigella d’onore
non aspetta altro che regalarti le sue grazie...»
«E’
in momenti
come questo che si ha bisogno del proprio migliore amico infatti.
Peccato che
Astoria lo abbia posto sotto sequestro da settimane»
replicò con l’intenzione
di chiudere il discorso quanto prima.
Il ricorrere
del
nome di Astoria toglieva un certo erotismo alla situazione.
«Diritti
e
doveri matrimoniali. Fastidiosi come ogni necessità, non
trovi?».
«Motivo
in più
per proseguire su quest’altra strada»
sancì lui, avvicinandola a sé per avere
il bacio che gli spettava.
●●●
The guilty undertaker
sighs,
The lonesome organ grinder cries,
The silver saxophones say I should refuse you […]
But its not that way,
I wasn’t born to lose you.
I want you, I want you,
I want you so bad,
Honey, I want you.
[Bob Dylan, I want
you]
«Astoria,
passami la bacchetta. Li schianto» le ordinò
perentoria la voce di Draco.
La sua
consorte
scosse la testa, spostando lo sguardo fuori dalla finestra.
L’aria pungente
delle ore seguenti all’alba entrò nella loro
stanza quando suo marito pensò da
solo a servirsi della bacchetta per mettere a tacere i canterini
molestatori.
«Lasciali
stare,
sono carini!» si lamentò lei, stringendo il polso
di Draco con le propria dita.
«Sono
rumorosi,
e nessuno gli ha chiesto di farci da sveglia»
replicò bruscamente, lanciando la
bacchetta sul comodino dando chiari segni di esasperazione.
«Ci
siamo
addormentati tardi, in effetti» osservò
compiaciuta Astoria, infilandosi sotto
le coperte nel tentativo di sfuggire a quell’aria fredda. Le
sue parole furono
seguite da un silenzio che avrebbe potuto definirsi eloquente, se lei
non fosse
stata tanto sorda alle evidenze dei fatti.
«Facciamoci
portare del caffè» propose, scendendo dal letto
per andare a chiamare uno dei
fedeli elfi domestici che avevano seguito la famiglia alla volta della
casa in
campagna.
Draco
approfittò
di quel momento di pace per seppellire la testa sotto il cuscino e
sperare in
un soffocamento fortuito e letale.
Inutile
illustrare con quale entusiasmo si fosse apprestato a seguire sua
moglie e le
sue volontà, alla notizia delle deliziose settimane che
aveva organizzato nelle
residenze estive dei Malfoy; altrettanto inutile elencare i numerosi
epiteti
con cui Blaise aveva definito Astoria e la virilità delle
prese di posizione di
Draco; e tristemente prevedibile era stata la reazione di Pansy alla
lieta
novella.
Con gli
occhi
chiusi contro la trama del cuscino, poteva rivedere il lampo di stizza
che le
aveva attraversato lo sguardo, e prima che potesse iniziare il solito
gioco di
sottili provocazioni , prima ancora che lei riuscisse a nascondersi
dietro la
rigida compostezza del proprio orgoglio,
Draco aveva riconosciuto distintamente il pensiero che le
aveva
squarciato il respiro, nell’immaginare quello che di certo
Astoria avrebbe
preteso da un marito.
Qualcosa
come un
po’ di amore. Come spogliarsi nella stessa stanza, e mettere
le mani sul suo
corpo riconoscendolo come proprio. Come guardarlo negli occhi e
dedicargli nel
silenzio di un bacio tutti i progetti che una vita insieme
può contenere.
Draco
riconobbe
la ferita lancinante che lascia addosso la sola idea di sapere
l’altro intento
a fare l’amore con il legittimo proprietario del letto che
avrebbero diviso. La
riconobbe perché apparteneva anche a lui, e gli era
appartenuta tutta la notte
seguente a quel ricevimento, e quella dopo ancora.
La sua
insonnia
era dedicata al matrimonio di Pansy, ai preparativi, al futuro che
avrebbe
diviso con una persona che non era lui.
«Divertitevi,
a
cogliere fiori di campo» aveva sussurrato
nell’uscire dal suo ufficio, giorni
prima.
Draco non
aveva
cercato di fermarla, perché sapeva bene, forse meglio di
lei, che a niente
sarebbe valso ricordarle la differenza tra adempiere ad obblighi
matrimoniali e
fare l’amore con qualcuno.
Per Merlino,
neanche ricordava che sapore avesse la pelle di Astoria!
Quale fosse
il
suo profumo, quale fosse il colore della sua camicia da notte, quanto
zucchero
mettesse nel tè a colazione. A ben vedere non sapeva neanche
cosa potesse mai
desiderare da un uomo, perché era troppo occupato a pensare
a cosa stesse
facendo Pansy mentre lui baciava una donna che avrebbe chiamato amante
piuttosto che moglie.
Si
rigirò nel
letto, calciando via le lenzuola con la stessa frustrazione e
impazienza con
cui avrebbe voluto lanciare la fede che aveva al dito.
Se solo
avesse
avuto ancora quindici anni si sarebbe messo a saltare sul letto,
lanciando
cuscini per terra e inventando un pretesto per litigare con quegli
idioti di
Crabble e Goyle; come faceva quando Pansy si rivolgeva a lui con quella
dignitosa freddezza che preannunciava il suo dissenso in merito a
qualche
questione e non lo degnava neanche di una parola.
Poi
pensò che a
quindici anni la sua vita aveva iniziato a prendere la piega disastrosa
che lo
avrebbe infine condotto a piangere le proprie lacrime e balbettare le
proprie
paure in faccia al fantasma di Myrtle, del tutto incapace di esternare
né
condividere una speranza o un timore con Pansy e Blaise.
«Draco?
Stavo
pensando di mandare un gufo a tua madre» si
affacciò Astoria, tornando in
camera seguita dai passi dell’elfo, in bilico sotto il
vassoio in argento pieno
di tazze, bricchi, piattini e posate.
Draco
immaginò
il sorriso sornione e di triste compiacimento riguardo alle scelte
sbagliate
del figlio, con cui sua madre avrebbe varcato la porta di ingresso, e
se
possibile si sentì peggio.
«E
perché non
far risorgere il vecchio Tom e denunciarsi alla squadra Auror del
Ministero?»
le fece eco con un certo sarcasmo. Astoria scosse la testa con uno
sguardo che
preannunciava tempesta.
In nome di
quel
matrimonio che aveva tutta l’intenzione di protrarre fino
alla morte che
l’avrebbe dolorosamente separata da Draco, si era sforzata di
mandare giù tutte
le sgradevolezze del pessimo carattere di suo marito, ma sul sarcasmo
non
riusciva a chiudere nessuno dei due occhi.
Si era
sempre
chiesta come facesse la gente a sostenere una conversazione con Draco
senza
uscirne divisa in due parti, dilaniata dalla sua lingua tagliente.
Con sommo
fastidio ammetteva che gli unici a restare impassibili a quel sarcasmo
erano
l’impeccabile signor Zabini (che in ogni caso sarebbe rimasto
calmo e pacifico
anche nel bel mezzo di una guerriglia di Troll) e Miss Parkinson, con
quello
sguardo irridente che riservava a chiunque le rivolgesse parola.
Come se lei
avesse in mano chissà quali carte, che le dessero la
certezza di conoscere la
fine della partita e il senso in cui il mondo stesse girando.
Astoria si
era
sempre domandata anche cosa facesse credere a Pansy di potersi
permettere
quella presunzione, visto che stava sposando un uomo diverso da Draco
Malfoy.
Era anche lo stesso motivo per cui a volte era colta da una sensazione
di
inquietudine, e si chiedeva se per caso non stesse avvenendo qualcosa
sotto ai
suoi occhi.
Erano tutti
fin
troppo placidi, mano a mano che la data del matrimonio
dell’anno si faceva più
vicina.
«A
volte mi
ricordi mia sorella» statuì offesa, aprendo le
ante dell’armadio in cerca del
vestito della giornata. Draco si lasciò cadere addosso il
mezzo insulto.
«Dobbiamo
tornare a Londra» disse invece, con lo sguardo perso nelle
lontananze della sua
solitudine.
Astoria si
voltò
a guardarlo perplessa, incapace di credere a quanto sentito.
Certo tutto
poteva dire di suo marito tranne che fosse un compagno di vita, che le
facesse
compagnia in quel loro matrimonio.
«Hai
degli
affari da sbrigare? Delega a qualcuno» replicò
chiaramente innervosita.
Ma Draco era
del
tutto estraneo a qualsiasi tipo di empatia con lei, e sembrò
non farci caso. O
peggio, esserne indifferente.
«Cosa
ci
trattiene qui?» fu la risposta con cui Draco si
alzò dal letto, chiudendosi in
bagno, fulmineo. Astoria rimase a fissare la porta chiusa, incerta se
scoppiare
in un pianto convulso, appellarsi ai saggi consigli di sua madre,
chiamare sua
sorella e ordinarle di ucciderla in quel preciso istante (certa che
avrebbe
dovuto insistere solo due o tre volte per convincerla a farlo), oppure
bussare
accanitamente alla porta fino a che Draco non le avesse aperto,
costretto a
fronteggiare la drastica situazione di quel matrimonio.
«L’anello
che
hai al dito!» gli urlò senza la solita grazia che
si imponeva di solito.
Dall’altro
lato
della porta, Draco valutò l’ipotesi di lanciarsi
un Avada Kedavra allo
specchio.
Sicuramente
Blaise avrebbe apprezzato l’ingegno.
Nello
scaricare
il peso contro il lavandino, l’anello sull’anulare
sinistro sbatté contro la
ceramica, producendo un suono sordo che si spanse fastidioso nelle
orecchie di
Draco.
E fu proprio
in
quel momento, avvertendo la stanchezza della finzione, che prese la
decisione
di dover rischiare nella vita, una volta per tutte. Adesso che non
aveva niente
da perdere.
Pensò
che
avrebbe potuto prendere Pansy per mano e farla ballare a tutti i
ricevimenti a
cui sarebbero stati costretti a partecipare; che avrebbe potuto
camminare con
lei in mezzo alla gente, e parlare all’orecchio o sfiorarle
un fianco con la
più sincera delle intenzioni, nascosta dietro una
pretenziosa casualità; che
avrebbe potuto concederle ogni stanza di Malfoy Manor e fare
l’amore con lei
ovunque ne avessero avuto voglia, facendolo sapere a tutti gli elfi in
servizio, a sua madre, a Blaise, alla compita famiglia Greengrass e ai
facoltosi dottori Nott, persino alla stampa, anche a quella estera se
solo ne
avessero avuto voglia!
Pensò
che era
sopravvissuto ad una guerra, ad un prezzo alto, ma che per questo non
valesse
la pena ridurlo a niente. Pensò alla noia e al rimpianto con
cui avrebbe dovuto
condividere gli anni futuri, e il logorio con cui avrebbe dovuto
affrontare la
stanchezza di vivere, per il semplice fatto di non avere Pansy accanto.
Pensò
e ripensò
alla fatica fatta per accettare l’idea che volesse davvero
qualcuno accanto,
alla fine dei propri giorni. E la fatica ancora più grande
nel prendere atto
che quel qualcuno aveva già un volto e un nome, gli occhi di
un certo colore e
la pelle con un certo odore impresso sopra. Che quel qualcuno lo
conosceva già,
e per questo poteva dire con certezza che fosse la persona giusta.
Perché
avevano già discusso, e avevano anche già
scoperto che gli era possibile fare
pace; perché avevano già fatto l’amore
più di una volta, insegnandosi a vicenda
come bisognasse fare; perché avevano già scoperto
a costo della propria
presunzione di non essere invincibili e di avere spesso torto, e lo
avevano
voluto confidare solo a se stessi e all’altro, senza dirlo in
giro o a voce
troppo alta.
«Ammesso
che ti
ricordi di averlo ancora, un anello al dito!» aggiunse
Astoria, non avendo
ottenuto risposta prima.
…
e poi aveva
già conosciuto cosa volesse dire perdere quella donna; come
fosse una vita
votata all’assenza di lei, il languore nel saperla vicina ma
intoccabile, nel
saperla di un altro, nel non poterla avere, nel non poter condividere
con lei tutto
quello che avrebbe voluto, cioè, a parte poche cose (come la
partita di
Quidditch la domenica, il brandy con Blaise, le discussioni con sua
madre),
tutto. La vita.
E
pensò infine a
sua madre e al vuoto che le cresceva dentro, dovendo vivere un giorno
in più
ogni mattina, con un letto freddo e un marito lontano. Se qualcuno gli
aveva
insegnato cosa fosse l’amore, come bisognasse trattarlo e
difenderlo, e
custodirlo e crescerlo, erano stati, in maniera del tutto indiretta,
sua madre
e suo padre.
D’un
tratto
comprese i sorrisi di sua madre, gli sguardi che gli lanciava quando
sua moglie
era al suo fianco, le allusioni e i sospiri a cui si lasciava andare
quando
erano soli nella stessa stanza.
E
più di tutto,
pensò in maniera decisiva a quello spillo che sentiva
piantato a volte nel
cuore, altre nel fianco, o nel cervello. Fisso e irremovibile. Era come
se
portasse il nome di Pansy.
Pensò
che invece
di quello spillo, giorno per giorno, avrebbe potuto portare lei con
sé.
Infine
uscì dal
bagno, pallido e stravolto, e Astoria quasi non lo riconobbe.
«Io
torno a
Londra» le ripeté, ordinando alle sue poche cose
di chiudersi nel baule.
Astoria
puntò su
di lui i propri occhi chiari, come spilli acuminati, cercando di
richiamare la
sua attenzione. Avrebbe dovuto pretenderla, ma sentiva di non averne le
forze.
Chissà
cosa
avrebbe detto sua madre, e come avrebbe potuto giustificarsi con lei.
Avrebbe
dovuto
descriverle gli occhi di suo marito, in quel preciso momento.
Avrebbe
dovuto
spiegarle come le fosse sembrato bello, e fiero, e deciso. Come fosse
suonata
sicura la sua voce, rapidi i suoi gesti, e incredibilmente solenni.
Avrebbe
dovuto spiegare a sua madre che le era sembrato un’altra
persona, un altro
uomo. Quello che avrebbe voluto sposare, forse. Quello che la stava
lasciando,
implicitamente.
Forse
avrebbe
capito, che non stava tornando affatto a Londra, ma soltanto da lei.
Che tornava
a
prendere possesso di ciò che gli apparteneva, della vita che
aveva scelto tempo
prima senza avere il coraggio né modi né tempo di
darle concretezza.
«Ci
vediamo a
casa, ti raggiungo domani» mormorò lei, senza
aggiungere altro.
•••
I know that we don't
talk
I'm sick of it all […]
Where are we now?
I've got to let you know
A house still doesn't make a home
Don't leave me here alone
And it's you when I look in the mirror
And it's you that makes it hard to let go
[U2 – Sometimes you
can’t make it on your own]
Quando quel
pomeriggio Theodore era uscito dal maniero aveva incontrato
sull’uscio del
proprio studio il Ministro di Grazia e Giustizia. Si era sentito
salutare con
aria un po’ imbarazzata, ma non ci aveva fatto caso,
perché sul momento era
troppo divertito a pensare che solo un uomo come suo nonno avrebbe
potuto
ottenere un colloquio con il Ministro in carica di Grazia e Giustizia e
per
giunta comodamente nel salotto di casa propria.
Si era
materializzato a Diagon Alley con sulle labbra l’ironia di
quella riflessione,
e Tracey Davis non aveva resistito alla curiosità di sapere
cosa mai potesse
far ridere Theodore Nott, famoso in tutta la Londra magica per la
serietà della
sua espressione.
«Mio
nonno» le
spiegò sbrigando la faccenda con un gesto della mano, e poi
tenendole aperta la
porta del locale dove si erano dati appuntamento, per discutere
d’affari.
La malizia
non
aveva abbandonato gli occhi di Tracey in tutti quegli anni, fu
costretto a
notare quando lei gli lanciò uno sguardo particolarmente
significativo.
«Tuo
nonno sa
essere minimamente divertente, Theo?» domandò
beffarda.
«Non
immagini
quanto» replicò lui deciso a non rivelarle di aver
incontrato il responsabile
del Ministero più spinoso, delicato e soprattutto ambito del
governo magico
londinese.
«La
gente
sottovaluta voi Nott» osservò prendendo posto al
tavolo. Le unghie
perfettamente curate batterono sulla copertina rigida del
menù e Theodore pensò
che stava per seguire qualcosa che avrebbe preferito non sentirsi dire.
Aveva
imparato a conoscere certi oscuri presagi femminili. «La
prima a farlo è la mia
amica Pansy, ho sentito dire» soggiunse infatti, guardando le
offerte della
casa. Theodore ordinò con un sospiro per tutti e due, al
mezz’uomo che sembrava
essere il cameriere.
«Se
mai avrò bisogno
di una divorzista saprò a chi rivolgermi»
replicò senza scalfirsi minimamente.
Tracey scrollò le spalle, e Theodore si preparò
al resto della frase
sconveniente ai propri danni. Come se non fosse abbastanza aver
scoperto che
tutta Londra avesse notato l’indifferenza con cui Pansy si
apprestava alle
nozze.
«Dubito
che ne
avrai mai bisogno, Theo, sono piuttosto scettica riguardo la
celebrazione del
tuo matrimonio» gli rivelò Tracey, puntandogli
addosso due occhi felini e
irrisori.
Theodore
fece
appello a tutte le sue risorse per non cedere alla tentazione di
iniziare una
sagace partita su chi fosse più abile tra i due a lanciare
provocazioni e
raccoglierle prontamente. Aveva anche lui una buona scorta di aneddoti
riguardo
i precedenti coniugi di Tracey, ma si considerava troppo di classe per
poter
proferire parola alcuna in merito.
«Credevo
fossimo
qui per parlare di affari» le ricordò
restituendole lo sguardo perforante.
L’altra abbassò lo sguardo, dedicando un sorriso a
se stessa e alle proprie
consapevolezze, e Theodore per la prima volta si ritenne
all’oscuro di cosa
volesse dire. Probabilmente era lo stesso motivo per cui stava per
sposare una
donna che non era affatto innamorata di lui.
«Chi
ti dice che
io non stia parlando di affari, adesso?» domandò a
bassa voce, e per quanto si
sforzasse di mantenersi fedele al proprio ruolo di femme fatale,
Theodore
scorse sul suo viso l’alone passeggero di un segreto
custodito per lunghi anni,
gelosamente, e di colpo la procace Tracey Davis, pluri-divorziata e
abile
trasformista, gli parve di nuovo la ragazzina che a quattordici anni si
era macchiata
il vestito con idromele al ballo del Ceppo.
«Non
ti seguo»
ammise, portando alle labbra il suo Ogden invecchiato.
Di nuovo
Tracey
sorrise a se stessa. «Probabilmente è meglio
così» sancì, mettendo da parte il
proprio aperitivo e tirando fuori il plico di documenti da firmare per
concludere la transazione finanziaria.
Tra conti
cifrati e trattative varie, Theodore trovò il tempo per
pensare agli ultimi
preparativi per le nozze, all’aria spettrale di Pansy nelle
ultime settimane,
al modo in cui lo aveva baciato la notte prima, come se volesse dirgli
qualcosa
per cui non trovava parole né voce, e al modo in cui gli
occhi di Tracey si
posavano irrequieti su Theodore spostandosi subito con un certo
fastidio sui
documenti che li separavano, sul piano del tavolo, quando le sembrava
che se ne
accorgesse.
Quando
tornò a
casa, due ore più tardi, incontrò di nuovo il
Ministro, intento a restituire a
suo nonno il bicchiere, vuoto, di whiskey che gli era stato offerto. Di
nuovo
replicò un saluto un po’ imbarazzato, sparendo con
il solito pop.
«Le
trattative
sono andate per le lunghe» osservò suo nonno,
dando un’occhiata all’ora di
rientro del nipote. Theodore lanciò tutti i documenti e la
propria giacca sulla
spalliera del divano, incredibilmente sollevato di non trovarci Blaise
Zabini
con il proprio brandy in un bicchiere.
«Potrei
dire lo
stesso delle tue» rispose, servendosi da bere. Suo nonno non
lo degnò di
risposta, il che lo convinse a proseguire.
«Mediti
di
candidarti alle prossime elezioni?» insistette scherzoso ma
non troppo. Abraham
Nott si limitò ad una risata sommessa, scuotendo la testa.
«Hai questo vizio
della fantasia, Theodore… è il tuo difetto.
Immagini cose che non esistono».
«Come
una tua
personale trattativa con il Ministro di Grazia e Giustizia?»
chiese, sagace.
Suo nonno lo
guardò severamente.
«O
l’amore di
Miss Parkinson».
«Danneggia
solo
me stesso, in tal caso» gli fece notare senza troppe remore.
Il signor Nott non
trovò le parole per convincere suo nipote di avere un
briciolo di amore per
lui, sul fondo di tutta l’acrimonia che riservava alla vita
che gli restava e
dell’asprezza con cui si approcciava a lui e alle sue scelte.
«La
vita è fatta
di anelli, Theodore, sono anche stanco di ripetertelo. Nessuno
può mai lavarsi
le mani di quello che fanno gli altri, prima o poi tutto si ripercuote
sugli
altri… tutto, si ripercuote sugli altri»
continuò trascinandosi al piano di
sopra, pensieroso.
Theodore
seguì
la traiettoria dei suoi passi stanchi e sentì
l’impulso di percorrerli al suo
posto; di raggiungerlo e guidare la sua mano grande e rugosa sul
corrimano in
marmo, come suo nonno aveva fatto con i suoi passi goffi e incerti di
bambino. Tutto
è una catena, avrebbe voluto dirgli, e un nonno ha tutto il
diritto di
incastrare il peso della propria esperienza al vigore
dell’inesperienza di un
nipote, anziché ostinarsi a governare la sua vita senza
lasciargli spazio
proprio ai suoi errori.
Ne avrebbe
commessi molti di meno, se solo suo nonno gli avesse parlato.
Invece,
ancora
una volta, di qualunque cosa si trattasse, aveva preferito rivolgersi
alle
autorità istituzionali piuttosto che rivolgergli parola a
cena.
Hai scomodato un intero ministero
pensò
sentendo l’affanno gravare sul respiro di suo nonno, quando ti sarebbe bastato bussare alla porta della
mia stanza.
---
Thanks to:
Entreri: Il
problema è che ho finito con l'amare Theodore anche io XD In
realtà non ho mai avuto niente contro di lui, si era
proposto come povera vittima degli eventi ma giustamente ha reclamato
pure lui la sua dignità e ne è venuto fuori un
grand'uomo. Povero caro, ma sul fatto che avrà il suo
riscatto puoi stare tranquilla, infondo i grandi uomini hanno valori
che sanno tirare fuori al momento della scelta, no? =P Grazie per la
recensione e per la condivisione dell'amore per Theo *_*, un bacio :*
sweetchiara: E'
esattamente quello il motivo per cui Draco e Pansy ti mettono in croce.
Sono incapaci di stare senza l'altro ma non sono neanche capaci di
risolversi da soli le questioni per poter stare insieme. Sono due
idioti in perfetto stile Slytherin ma sospetto che alla fine i motivi
del loro amore verso entrambi sia anche quello. Anche se ammetto che in
questo capitolo a Draco ho voluto particolarmente bene *_* In
realtà poi penso che hai ragione, quando dici che se il
cassetto fosse chiuso, Pansy e Theo avrebbero qualche chances in
più, ma il fatto è che il cassetto non si chiude
=P Certo fossi stata in Theo probabilmente lo avrei chiuso a forza,
cambiato la serratura e buttato via la chiave, ma lui è uno
Sly onesto... ogni tanto capita, non tutte le ciambelle escono col buco
XD Un bacio cara :* sono felice che la storia si faccia amare :)
B e r t a:
Grazie *_* E perdono per l'aggiornamento a lungo termine ^^''
---
SCUSE DOVUTE SENZA SCUSE
(ah ah)
Chiedo umilmente
perdono per i tempi di aggiornamento. Potrei dire che ho
avuto tante cose da fare, tante crisi esistenziali da risolvere che
comunque non ho risolto, che mi hanno rapito gli alieni (uno era David Bowie
e ho coronato il sogno di una vita), che la sveglia non ha suonato (la
sveglia c'entra sempre dove ricorre la parola "scusa") e blablabla ma
comunque resta il fatto che tutti questi motivi più o meno
fittizi sono solo orpelli, la vera colpa è di Miss Ispirazione,
che per tutto questo tempo si è presa una vacanza. Purtroppo
sono perfezionista e ho ansia di essere all'altezza delle aspettative,
quindi ho atteso che tornasse a pieno regime prima di pubblicare la
versione finale del capitolo, anche perchè è un
pò di svolta e andava trattato come si confà ai
capitoli di svolta u_u Chiedo ancora scusa.
Non prometto niente sul prossimo aggiornamento, ormai sapete che in
combutta con gli alieni e le crisi esistenziali vige sempre Miss
Ispirazione.
Grazie comunque
se avete avuto la pazienza di attendere tale aggiornamento, recensitori
e non =) e buone vacanze a qualunque punto delle stesse voi siate :)
|
Ritorna all'indice
Capitolo 13 *** XIII Gusci ***
The way we were
XIII
Gusci.
Wise men say only fools rush in But I cant help falling in love with you Shall I stay Would it be a sin If I cant help falling in love with you […]
Some things are meant to be Take my hand, take my whole life too For I cant help falling in love with you [Elvis Presley – I can’t help falling in love]
La vita ci
aveva
messo poco per far presente a Millicent che in rari casi sarebbe stata
gentile
e cordiale verso il genere umano, e quando aveva conosciuto Pansy
Parkinson
aveva compreso meglio cosa volesse dire. Poi, Pansy Parkinson le aveva
involontariamente fornito gli indizi per notare la presenza di Draco
Malfoy, e
Millicent aveva dovuto ammettere che più scortese della vita
stessa ci fosse
certamente Draco.
Quella
mattina
ebbe la riprova di non essere stata affrettata nei suoi giudizi, quando
le dita
sottili di Draco si strinsero attorno alle sue spalle spingendola verso
il
camino nella camera di Pansy, invitandola senza alcuna carineria a
tornarsene a
casa propria.
«Io
sono la
damigella della sposa!» gli fece presente pestandogli un
piede con tutte le
intenzioni.
Draco non
perse
neanche tempo ad imprecare. Con un sorriso troppo triste per combaciare
con il
proverbiale sarcasmo del proprietario, mormorò «E
io sono il suo amante».
Di fronte a
questo, Millicent reclinò la testa, in segno di rammarico
per la questione ma
di rispetto per la posizione scomoda e dolorosa di Draco, e volgendo un
sorriso
tenero verso Pansy si congedò dalla sventurata coppia.
«Mi
hai portato
un mazzo di violette?» domandò Pansy non appena il
camino inghiottì la figura
di Millicent. Draco si voltò a guardarla, in piedi accanto
allo specchio nella
sua camera da letto; gli ricordò la mattina del funerale del
padre numero 5 di
Blaise, e gli parve anche più bella di allora.
E del resto
la
loro storia era tanto ingombrante, e il sentimento che aveva per lei
tanto
intenso che dimenticarono entrambi di trovarsi nel luogo meno adatto
per
rivolgersi ripicche e proclamare offese e risentimenti. Del tutto
incurante di
trovarsi in territorio nemico, nella camera da letto di Theodore Nott,
Draco si
avvicinò a Pansy, distogliendola con fermezza da quella
sofferenza in cui si
era relegata da quando era partito con Astoria per la campagna.
«Sono
tornato
prima, Pans» le fece notare, incredibilmente gentile rispetto
i suoi standard.
Di solito il
gioco era rispondere altrettanto provocante al sarcasmo di Pansy, e
continuare
fino a quando entrambi non fossero rimasti senza parole, dichiarandosi
sconfitti e vincitori, secondo le loro strane regole Slytherin, e
sancendo
l’armistizio con un bacio o con un groviglio di vestiti e
lenzuola.
Lei gli
permise
di toccarla e si abbandonò all’invito con cui
Draco la sospinse verso di sé con
la stanchezza di chi è vinto dalla finzione e dal rispetto
di regole impostegli
e auto-impostosi.
Ci aveva
provato, davvero, a vivere di sola ragione e calcolo come sua madre le
aveva
suggerito.
Aveva
creduto
che fosse possibile, che avesse la convenienza tipica dei metodi di
sopravvivenza, che non avere più alcuna scelta
l’avrebbe tolta dall’impaccio di
dover vivere una vita di tormenti. Che l’abitudine avrebbe
lenito le ferite di
un cuore che le aveva fatto lo sgarbo di essere capace di amare. E che
allora
avrebbe accettato l’idea di posare le proprie labbra su
quelle di un uomo
diverso da Draco e di concedergli gli spogli della propria vita senza
sentire
ogni volta un colpo al cuore o sentirsi colpevole di un delitto
inaudito.
Il giorno in
cui
aveva preso la decisione di voler provare a sopravvivere in quel modo,
le erano
persino mancate le parole per renderlo vero, così era
entrata nello studio di
Theodore, e lo aveva baciato, cercando di parlare in quel modo,
anziché in
quello delle persone dai sentimenti onesti.
Poi era
tornato
Draco e la giostra aveva ripreso il corso.
Di nuovo
aveva
scoperto che una vita di restrizioni emotive non faceva per lei, che la
sua
vera natura era indomabile e che mai avrebbe potuto fare
l’amore con Theodore
Nott o chi per lui, dopo che le mani di Draco l’avevano
toccata ancora, e la
sua voce le aveva parlato di nuovo, e le sue labbra l’avevano
baciata, i suoi
occhi guardata…
Era molto
poco
dignitoso, per una donna cresciuta nei difficili dormitori Slytherin e
con una
madre che disponeva l’amore ripartendolo in misura
proporzionata tra un marito
e una figlia, che ne ricevevano la loro parte solo quando esaudivano le
aspettative della madre e della moglie. Era davvero molto poco
dignitoso e
soprattutto molto deleterio, ma proprio non era riuscita a fingere di
non amare
Draco Malfoy.
Fino a
quando le
aveva detto che Astoria aveva deciso di ritirarsi in campagna per un
po’.
Allora tutto
era
tornato come prima, con Draco lontano da lei, perso dietro le sue
obbligazioni
affettive, e lei vicina ad un uomo che non riusciva a sentire
sottopelle come
l’altro.
La sera
prima
era entrata di nuovo nello studio di Theodore e lo aveva baciato, di
nuovo,
come il giorno in cui si era arresa per la prima volta
all’evidenza che Draco
non poteva essere suo e che lei non era affatto padrona dei propri
desideri.
Theodore
aveva
riconosciuto quel bacio e non le aveva detto niente.
Come non era
più
tornato sulla questione dei fiori scelti per il matrimonio,
né su quei giorni
trascorsi a Dover con l’altro uomo.
«Ieri
notte ho
baciato Theodore» iniziò a dire, cercando di
spiegare a Draco che il punto di
non ritorno era drasticamente vicino e che i desideri sono fatti per
restare
inesauditi, e farebbero meglio a rimanere direttamente inespressi,
forse. Per
evitare stupide e vergognose sofferenze come quella che le stava
strappando il
respiro.
Le mani di
Draco
si erano strette intorno ai suoi fianchi e poi lui l’aveva
abbracciata,
chiedendole in quel modo di non andare oltre.
«Ho
pensato che
tu stessi facendo lo stesso, con Astoria…» Draco
non l’aveva lasciata andare, e
in fin dei conti Pansy non aveva cercato la libertà da
quell’abbraccio. Se
avesse potuto congelare quell’istante, lo avrebbe conservato
per sempre, o
forse non ne sarebbe mai uscita.
«Sono
tornato e
basta Pans, capito?» le chiese lui, parlando tra i suoi
capelli, che sapevano
di lei e del sapone che usava anche ad Hogwarts, quello che restava
sempre
impresso sul suo cuscino quando si addormentavano in tre nella camera
dei
ragazzi, nel Dormitorio, o sulla divisa scolastica quando lei si
appoggiava
contro di lui nella noia di un pomeriggio di studio in Sala Comune.
Pansy non
comprese fino a quando Draco la baciò strappandole qualsiasi
ritrosia.
«Capito?»
domandò ancora, con le labbra ancora sulle sue, e il suo
respiro addosso. Le
dita di Pansy si erano strette intorno alla sua camicia, e poi lo
baciò di
nuovo perché tutto sommato era l’unico modo di
dare concretezza a se stessa in
tutto quello scivolare nel nulla più totale di una vita non
voluta in quel
modo.
Lo
baciò di
nuovo, e lui la baciò ancora, le loro mani intrecciate tra
loro, e poi tra i
capelli dell’altro, e sotto la camicia, e intente a slegare
bottoni e slacciare
vestiti. Scivolarono in terra mentre con loro cadevano le ultime
resistenze su
cosa fosse giusto e cosa sbagliato, cosa saggio e cosa rischioso, cosa
indignitoso e cosa assolutamente perfetto.
Per la prima
volta in una vita nessuno dei due aveva la certezza di un piano di
riserva, né
la garanzia che qualcuno dall’alto sarebbe intervenuto per
loro, o l’ipotesi
che esistesse un modo per eludere il diritto di risentimento di una
moglie
tradita e uno sposo lasciato sull’altare.
Draco si
sentiva
come in quel maledetto sesto anno, intrappolato e impossibilitato a
contrattare
sui termini, eppure questa volta aveva Pansy sotto di sé e
tutto il mondo era
possibile rinchiuderlo in quello spazio di mattonelle e mobilio.
Sarebbe durato
poco e dopo avrebbe avuto inizio l’ennesima battaglia, in una
vita che non era
altro che una guerra e che di concedere tregue non voleva saperne.
Lui e Pansy
avevano perso tutto nel giro di una manciata di giorni.
La
possibilità
di crescere insieme e coltivare per errori e fortune un sentimento che
sarebbe
divenuto adulto insieme a loro, tanto per dirne una. Quando Silente era
morto e
poi era scoppiata la guerra definitiva non avevano avuto tempo per
altro che
non fosse sopravvivere e farla franca da dei crimini più
grandi delle loro
intenzioni o dei loro credi.
Adesso era
difficile recuperare tutto insieme quel tempo perduto, in cui avevano
creduto
di non avere scelta solo perché gli eventi gli erano
precipitati addosso veloci
e impietosi, convincendoli di non poter decidere niente e dover
accettare
tutto.
Il
matrimonio di
Draco, una vita di latitanza, il matrimonio di Pansy e
l’infelicità per
un’esistenza sempre vissuta a metà, tra speranza e
realtà, tra desiderio e
impossibilità.
Avevano
vissuto
nelle metà sbagliate, fino a quando Draco aveva detto a sua
moglie “torno a
Londra” e Pansy lo aveva trascinato sul pavimento
afferrandolo per la camicia,
con l’istintualità che le era propria come donna,
a dispetto dei composti
movimenti con cui compiva il suo ruolo di moglie a letto con Theodore.
Si
convinsero
che fosse inevitabile. Che entrambi non fossero fatti per governare gli
eventi
e che fossero troppo viziati per credere fino in fondo di poter
rinunciare a
qualcosa di voluto con tale intensità.
Il problema
era
che non si trattava affatto di un capriccio, e Pansy lo capì
nell’istante in
cui Draco replicò quell’istante vissuto contro il
muro al ricevimento di Nott
Manor, due piani più sotto di dove si trovassero in quel
momento. Il suo nome
tra le labbra, Draco dentro di sé e lei del tutto persa tra
la sua bocca, le
sue dita, i capelli e il profilo del naso.
Lui si
spingeva
in lei e la toccava con un rispetto tanto profondo che le
strappò un singulto,
e le sembrava che tutto quello non fosse altro che il loro modo di
parlarsi e
spiegarsi il silenzio di tutti quegli anni.
L’apatia
con cui
avevano lasciato che i loro matrimoni si realizzassero non era altro
che il puro
terrore di compiere una mossa sbagliata e perdersi per sempre. Ma
adesso era
davvero troppo tardi per poter avere ancora qualche tipo di paura.
«Giura
che sei
mia» sentì dire e non fu sicura che lo avesse
detto sul serio, tanto quanto
Draco non avrebbe creduto alle proprie parole se tra le sue braccia ci
fosse
stata una donna diversa da Pansy, ma del resto chi altro avrebbe potuto
esserci?, così non c’era storia, si disse.
Non
c’era
storia.
«Draco»
la sentì
mormorare, poco dopo.
Si
voltò a
guardarla, la schiena contro il pavimento duro e freddo, ai piedi di un
letto
dove non si sarebbe consumato alcun matrimonio.
«Adesso
dovremmo
pensare a qualcosa» le
comunicò per
farle sapere di non aver perso del tutto la ragione, a dispetto di
quanto le
avesse fatto credere piombando nella sua stanza in casa Nott e
precipitando
nudo con lei sul pavimento.
Lei
annuì,
tirandosi leggermente su, appena frastornata, ebbra del pensiero di
cosa
avrebbero ottenuto di lì a breve. Era troppo persino
soffermarsi con il pensiero
su cosa ci sarebbe stato dopo, perché dopotutto erano
davvero superstiti e
avevano entrambi imparato che non è mai il caso di
dichiararsi vincitori,
neanche quando sei seduto sul trono delle tue soddisfazioni.
«Anche
se non
hai bisogno di scuse. Fossi in te mi rifiuterei fermamente di sposare
un uomo
che gira con tale aborto dell’estetica addosso»
commentò Draco decisamente
sarcastico, mentre Pansy seguendo la traiettoria del suo sguardo
incontrò con
il proprio la vestaglia di Theodore, appesa alla maniglia della porta.
«A
volte non so
più con chi vado a letto, se con te o con Blaise»
replicò consapevole di
avergli lanciato il più basso dei colpi bassi
che una donna possa riservare al proprio uomo. Draco la
guardò profondamente
ferito e decisamente infuriato ma non perse colpi.
«Lo
capisco,
entrambi ci destreggiamo con donne Greengrass, farai
confusione» mormorò
mettendosi seduto e cercando di recuperare la propria camicia da sotto
al
letto.
Pansy lo
guardò
indecisa se vendicarsi subito o più tardi, chiedendosi come
fosse possibile per
due persone essere innamorate e dimostrarselo in quel modo. Il pensiero
le
diede ulteriore misura di quanto fosse impossibile per entrambi
dividere le
intimità dell’amore con persone diverse. Si
sentì a casa. E probabilmente non
avrebbe dovuto farlo.
Draco
riuscì ad
infilare l’ultimo bottone nell’asola quando un gufo
planò senza troppi
complimenti dritto sul suo collo, dalla finestra aperta della stanza.
L’imprecazione che seguì fu soffocata solo dal
timore che colpisce dritto allo
stomaco chi viene colto in flagrante.
Entrambi
cercarono di ignorare il lampo di panico che aveva segnato lo sguardo
di Pansy
e il gesto istintivo di difesa con cui Draco si era alzato in piedi,
pronto a proteggere
se stesso da Theodore Nott.
Invece
anziché
trovarsi di fronte la stazza di Nott, ritrovò ai propri
piedi un gufo un po’
provato dallo scontro del tutto involontario, con un pezzetto di carta
arrotolato sbrigativamente alla zampa.
«Già
ci
arrestano per adulterio?» mormorò chinandosi e
strappando con poca grazia la
missiva.
Accanto a
lui
Pansy finì di rivestirsi, cercando la scarpa mancante.
«Quanto tempo abbiamo?
Non posso essere lapidata con i capelli in disordine»
scherzò caustica ma
passandosi sul serio le dita tra i capelli.
«E’
di mia
madre» le comunicò Draco, aggrottando la fronte.
Pansy
rifletté
che se non altro la sua non aveva sprecato una buona occasione per
stare al
proprio posto e non disturbare la breve quiete di sua figlia. Nel
cercare di
raggiungere la cassettiera, pestò il gufo ancora tramortito,
dandogli forse il
colpo di grazia. Abbassando lo sguardo non poté fare a meno
di notare la buffa
forma di quell’animale.
«Di
tua madre?
Con un gufo più simile ad uno sputo che ad un uccello? Sei
sicuro?» gli chiese
piuttosto scettica. Draco dovette darle ragione, decidendosi ad aprire
il
foglietto. Gli occhi corsero velocemente tra le righe, riconoscendo la
grafia
minuta e precisa di sua madre.
«Dice
che
immagina di sapere dove sia ma si riserva il diritto di non volerlo
apprendere
con certezza» commentò pensando che per una
persona meno impudente di lui
probabilmente sarebbe stato il momento giusto per arrossire e scavare
una fossa
per la propria dignità.
«Tua
madre
dovrebbe impartire qualche lezione di discrezione a mia
madre» osservò Pansy,
raccogliendo da terra la cravatta di Draco e passandogliela intorno al
collo.
«In
ogni caso
dice di raggiungerla subito» aggiunse lui. Pansy
rischiò quasi di soffocarlo
con la sua stessa
cravatta quando tre
secondi dopo Draco la afferrò per un polso materializzandosi
con lei.
●●●
«Non
so come ti
abbia abituato tua moglie, ma sarebbe gradito un avviso quando decidi
di
dislocarti altrove» gli fece notare piuttosto risentita
Pansy, staccandosi da
lui.
Draco le
rivolse
uno sguardo di scuse, distratto a pensare al motivo per cui sua madre
si
riservasse di scrivergli in tutta fretta, usando un pezzo di carta
qualunque,
un gufo disastrato e senza neanche firmare il biglietto.
Pansy
seguì i
passi di Draco fino a quando non inciampò con lo sguardo
sulla parete alla sua
destra, e con una stretta al cuore prese atto di essere di nuovo a
Malfoy
Manor. Le tornarono in mente le parole di Draco su quanto quella casa
fosse
vuota in assenza di suo padre e immaginò l’eco dei
ricordi e dei pensieri di
Draco e Narcissa; la quotidianità vissuta nello stillicidio
dell’attesa di un
ritorno improbabile; l’eterno termine di paragone con il
fasto di un tempo,
offuscato e sbiadito.
Frenò
l’impulso
di stringere la mano di Draco nella sua, ma desiderò farlo
come in quel giugno
del quinto anno, leggendo in prima pagina dell’incarcerazione
di Lucius Malfoy,
seduta alla tavolata Slytherin al fianco di un Blaise ammutolito dalla
sorpresa; e allo stesso modo in cui aveva pensato di fare
l’anno successivo,
quando Snape lo aveva consegnato alle cure dell’infermeria:
allora più che
squarciato dall’idiozia di Potter, le era sembrato dilaniato
da ben altro, ma
era tornata in Dormitorio, abbracciando Blaise come se fosse Draco.
«E’
tutto al
solito posto» le disse Draco, accorgendosi dello sguardo che
Pansy aveva impresso
sul viso. Lei si ridestò leggermente imbarazzata,
riconoscendo ogni volto
appeso alla parete.
«Tuo
nonno che
fine ha fatto?» domandò indicando con il dito la
cornice vuota, accanto ad una
vacante Elladora Black.
Draco
alzò lo
sguardo, cercando la figura del nonno paterno nei vicini ritratti che
in genere
ospitavano le loro riunioni, a base di memorie dei tempi andati e di
partite a
poker magico. Non lo trovò in nessuno degli altri quadri
ospitanti Malfoy, e
serrando la mascella in un’espressione grave e preoccupata,
proseguì dritto
verso la fine del corridoio.
«Vorrei
saperlo»
mormorò facendole cenno di seguirlo.
Volendo
Pansy
avrebbe potuto permettersi il lusso di restare indietro, avrebbe saputo
ritrovare la strada, muovendosi a proprio agio in territori conosciuti
in più
occasioni, eppure preferì non farlo, in qualche modo
rispettosa della nuova
storia di quella casa.
Lei
l’aveva
frequentata in altri tempi.
Nel seguire
i
passi frettolosi di Draco, Pansy continuò a guardare i
ritratti accanto a sé, sentendo
il respiro stringerle la gola. Aveva sempre avuto il terrore del giorno
in cui
entrando a Malfoy Manor avrebbe trovato tra i ritratti quello di Lucius
Malfoy.
Dal quinto anno attendeva quel momento con una certa agitazione,
consapevole
che avrebbe segnato la fine di un’era e probabilmente anche
la fine di Draco
Malfoy per come lo conosceva lei.
In un angolo
remoto di quello che nella torre Gryffindor senza vergogna chiamano cuore, aveva sempre sperato di poter
essere in un modo o nell’altro nei dintorni, quando fosse
successo.
Draco
proseguiva
dritto, osservando con la coda dell’occhio Pansy appena alle
sue spalle.
Quando
scorse
una cugina di terzo grado sollevare composta la mano in saluto a Pansy,
avendola riconosciuta, sentì qualcosa che preferì
non definire scaldargli il
corpo.
Pensò
di
fermarsi e prendere la mano di Pansy, e annunciare a tutti che, che
fosse
diventata sua moglie o meno, era la donna che avrebbe voluto al fianco.
Poi
però
raggiungendo la fine del corridoio, percepì anche alcune
voci farsi strada
nella sala da pranzo.
«Nervosa?»
si
soffermò a prendere in giro Pansy, quando andò a
sbattere contro la sua spalla
non rendendosi conto che si fosse fermato. Le sue labbra chiare si
tesero in un
sorriso al veleno di Belladonna in risposta.
«Perché
dovrei?
Narcissa è tua madre, e tu
sei stato
convocato da lei, non io» lo redarguì facendogli
cenno di compiere il grande
passo e dimostrare di avere il coraggio di affrontare una genitrice del
calibro
di Narcissa Malfoy.
Draco tenne
per
sé lo strano presentimento che gli aveva serrato lo stomaco
da quando suo nonno
non era comparso all’appello dei dipinti nel corridoio di
entrata.
●●●
Dopo essere
stata cacciata con intenzioni chiarissime da casa Nott, Millicent aveva
vagato
senza una meta precisa con il solo scopo di trovare qualcuno di
abbastanza
fidato e discreto a cui rivelare la fantastica notizia
dell’ormai certo
ricongiungimento di Pansy e Draco.
Con ovvia
casualità, esisteva un’unica persona fidata e
discreta a cui poter rivelare la
fantastica notizia, che corrispondeva a Blaise Zabini e stava
sorseggiando
brandy, ad un tavolo del locale all’angolo tra Diagon Alley e
Nocturne Alley,
al centro perfetto di quella ambiguità che a lui tanto
piaceva sostenere.
«Ho
piacevoli
novità» gli comunicò prendendo posto
accanto a lui, e causandogli il rischio di
un infarto non avendo annunciato né il suo arrivo
né la sua presenza.
«La
bronchite è
la malattia dei disadattati che non sanno vestirsi, ma un colpo di
tosse è
sufficientemente adatto ad avvisare che ci sei» le fece
notare, scostandole la
sedia perché potesse sedersi.
Il sarcasmo
derisorio con cui l’accolse venne così equilibrato
con la solita gentile
eleganza con cui Blaise Zabini uccideva Millicent Bullstrode da un
discreto
numero di anni.
«Queste
frasi di
benvenuto le confezioni personalmente?» replicò
risentita Millicent, cercando
di non arrossire da subito. Negli anni aveva imparato a controllare le
proprie
reazioni emotive quando Blaise era nei paraggi, con grande
soddisfazione di
Pansy, che si era sforzata tra il terzo e il quarto anno per ottenere
quel
risultato.
«Mi
ispiro al
contenuto del taccuino del padre numero tre»
replicò, consapevole che non fosse
facile capire la sottile ironia per chi non fosse Draco o Pansy e non
si fosse
divertito come loro a chiamare i mariti della signora Zabini con dei
numeri per
non confondere la loro triste sorte. «La buona
notizia?» aggiunse, sperando di
aver già indovinato.
«Hanno
sequestrato il guardaroba di Ginny Weasley?» si intromise una
voce alle loro
spalle, che Millicent sperò non corrispondesse a chi le
richiamasse la memoria.
Tradendo
ogni
sua speranza, Blaise scostò una sedia anche per Tracey Davis.
«Temo
di essere
impossibilitata a parlarne» replicò glaciale a tal
punto che Pansy si sarebbe
commossa nell’assistere alla scena. Naturalmente Tracey
ignorò l’accusa di
terzo incomodo che le era stata rivolta e con sommo dispiacere
Millicent
dovette prendere atto che l’ospite atteso era in effetti
Tracey e non lei,
quando il cameriere servì il drink che Blaise aveva ordinato
per l’altra.
«Tiro
ad
indovinare? Riguarda il re e la regina dello psicodramma?»
domandò prendendo un
sorso di champagne dalla flute .
Millicent
desiderò che prendesse fuoco all’istante,
oltraggiata al posto di Draco e
Pansy, e lanciò di sottecchi uno sguardo a Blaise, in attesa
che si alzasse in
piedi e schiaffeggiasse Tracey Davis.
Naturalmente
Blaise non fece niente di tutto quello che lei aveva sperato.
«Vuoi
commuoverti un po’?» domandò invece,
sporgendosi appena e lanciando a Tracey la
tipica occhiata che si lanciano due ex amanti. Millicent non ebbe il
tempo di
sentirsi offesa né tradita, neanche a nome di Draco e Pansy,
perché di colpo
Tracey pensò bene di cambiare argomento, come seguendo un
tacito accordo
siglato in tre secondi con una sola occhiata al tavolo del locale.
Millicent
conosceva la nomea di Tracey, di regina delle trattative, ma non
credeva fino a
tale punto.
Sapeva
benissimo
che a condurre l’affare era stato Blaise, e cercò
in quel modo di non pensare
troppo al fatto che per tre mesi quei due non avevano fatto altro che
divertirsi ovunque il castello gliene offrisse occasione.
«Dovremmo
comunque festeggiare» proclamò Blaise, facendo
portare altre due flute di
champagne.
Millicent
soffocò un sospiro al pensiero dello champagne e di quello
che aveva guadagnato
all’altrimenti disastroso ricevimento a casa Nott.
A volte la
mattina si svegliava ancora con l’impressione che Blaise
avesse dormito su quel
divano, e che il salone fosse ancora pregno del suo profumo.
«Mi
sembra che
la notizia, che nessuno dirà ad alta voce, faccia felici
tutti» aggiunse
Blaise, alzando il calice in direzione di Tracey, con uno sguardo
limpido e
tagliente.
Millicent
comprese che si trattava di qualche particolare clausola del contratto
appena
concluso sotto i suoi occhi.
«Ai
lieti fini»
mormorò Tracey scontrando il proprio calice con quello di
Blaise.
Millicent
osservò torva la scena.
Blaise
portò
alle labbra il proprio, con un sorriso ironico.
«Alle
storie
senza morale».
●●●
Your father's gone
a-hunting
He's deep in the forest so wild
And he cannot take his wife with him
He cannot take his child
Your father's gone a-hunting
In the quicksand and the clay
And a woman cannot follow him
Although she knows the way
[Leonard Cohen –
Hunter’s lullaby]
La prima
cosa
che vide Draco, in mezzo ad un salone discretamente affollato per gli
standard
di Malfoy Manor degli ultimi anni, fu il nonno paterno, che
inchiodò i passi
del nipote dalla cornice del prozio
Wilbert, non appena lo vide entrare nella stanza.
«Alla
buon ora,
giovanotto» lo apostrofò guardandolo chiaramente
storto.
Alla voce
del
suocero, Narcissa Malfoy si levò in piedi e Pansy
constatò di aver quasi
dimenticato l’algidità della sua bellezza. Suo
figlio la guardò senza capire
prima che il silenzio rarefatto di quella stanza lo spingesse a
scavalcare la
figura di sua madre, in un richiamo a cui, Pansy comprese solo tempo
dopo, non
era possibile resistere.
Quel colpo
al
cuore che gli prese, nello spostare lo sguardo poco più in
là, Draco non
sarebbe mai stato in grado di spiegarlo a nessuno. Era qualcosa di
talmente
fisico e personale che avrebbe potuto condividerlo in silenzio solo con
sua
madre, nella sconfinata incredulità che aveva squarciato la
patina di un dolore
consunto e abitudinario.
Pansy, in
disparte, fissava lo sguardo attonito e ghiacciato di Draco, vide il
suo corpo
adulto, ora che era diventato un uomo, vacillare
d’improvviso, abbagliato da
quello che aveva davanti, colpito e affondato dal pensiero che quella
fosse la
realtà dei fatti e che quello fosse davvero suo padre, in
piedi accanto al
camino della loro casa.
E che lo
guardasse con gli occhi grigi con cui lo aveva guardato quando lo aveva
messo
al mondo, in quella prima volta di cui Draco non poteva avere memoria
di
figlio; e che occupasse uno spazio reale e concreto, che gli era sempre
appartenuto e che Draco aveva conservato per lui; e che respirasse, e
avesse
ancora lo stesso profilo che ricordava di lui l’ultima volta
che lo aveva visto;
e che lo guardasse senza parole, perché niente
c’era da dire di fronte alla possibilità
che lui fosse davvero suo padre e che fosse davvero tornato e che lui,
Draco, allungando
una mano potesse ancora toccarlo e sentire la pelle calda sotto i
vestiti;
niente c’era da dire e da pensare di fronte
all’idea che lui potesse riaverlo
indietro.
Che quello
fosse
suo padre e che gli fosse stato restituito.
Era una
eventualità così remota, una gioia troppo grande
perché lui potesse contenerla
tutta, una consapevolezza così tremula che il terrore puro e
avvolgente che
potesse non essere vero era molto più forte del bisogno che
sentiva di parlare
con lui e di toccarlo.
«Papà?»
chiese
troppo spaventato per poterlo affermare; e lo chiese con la voce dei
suoi
diciotto anni, del figlio che era quando lo aveva perso, e di quello
che
sarebbe sempre stato.
Lucius
Malfoy non
trovò parole con le quali rispondere.
Probabilmente
quella fu la conferma di un amore che non riusciva a trovare
espressione,
perché troppo grande e troppo intenso per le sue
fragilità di uomo.
Suo figlio
aveva
le fattezze di un uomo e lui non lo aveva visto crescere; finalmente
Lucius
sovrappose l’immagine di quello che da solo Draco aveva
forgiato per se stesso
con il pensiero di lui che aveva nascosto dentro di sé per
tutti quegli anni.
Annuì
soltanto, senza
trovare conforto né aiuto nelle parole; fu solo il vederlo tremare che lo
sospinse verso Draco,
perché la colpa di ogni caduta che suo figlio non avrebbe
meritato di dover
sopportare era solo ed unicamente la sua, che aveva sbagliato i propri
calcoli
e non era stato neanche un uomo di sufficiente valore perché
il Signore Oscuro
lo accettasse come pegno del proprio fallimento.
«Stai
in piedi»
gli disse soltanto, poggiando le mani sulle spalle di Draco, e
scoprì con un
tremito che erano esili come sempre ma più larghe di un
tempo, abbastanza
perché potessero sorreggere il peso della vecchiaia di un
padre. «Stai in piedi»
gli disse ancora, stringendoselo contro, e non sapeva più se
fosse lui ad
appoggiarsi a suo figlio o il contrario.
Draco
avrebbe
avuto molte cose da dire, ma nessuna aveva più avuto un
senso compiuto da
quando suo padre lo aveva abbracciato e gli aveva detto di stare in
piedi.
Avrebbe
voluto
spiegarli quanto fosse stanco, e mostrargli tutto il percorso che aveva
fatto
fino a quel giorno, e raccontargli di come avesse faticato e quante
volte fosse
caduto lungo la strada, e di come si fosse sentito perso,
perché non sapeva
quali orme seguire, senza l’impronta dei passi di suo padre
davanti. Ma Lucius
lo teneva per le spalle, e poi lo aveva abbracciato e continuava a
dirgli «Stai
in piedi, Draco, stai in piedi…» e dietro quelle
parole Draco ne sentiva altre.
«E’ tornato tuo padre»
gli sembrava di
sentire, una confusione di voci, di adulto e di bambino, di domande e
certezze,
una richiesta legittima, una promessa finalmente mantenuta, E’ tornato tuo padre; papà
è qui.
----
Thanks to:
Meredith91: Grazie
^_^ Mi solleva sapere che Draco si fa amare, perchè io credo
sia impossibile non amarlo infinitamente, come capita di fare con le
cose imperfette della vita. Credo sia uno tra i personaggi
più umani che sia stato creato in sette libri e che anche
solo per questi meriti un tributo ♥
Entreri: Oh ma segui
ancora la storia *_* Sono felice di ritrovarti :) Sì la
sveglia di casa Malfoy va indietro di qualche anno, ma alla fine anche
il pargolo ha capito quali sono le cose che contano nella vita XD Nonno
Nott avrà parte nel disastro che sta per seguire, del resto
da uno che prende pasticcini con i Ministri non ci si può
aspettare niente di buono se si chiama Abraham Nott e non Arthur
Weasley =P
Nissa: Ma
tranquilla, io sono la recensitrice più incostante di tutto
EFP penso XD non ho diritto di parola in merito, e in ogni caso la
recensione è qualcosa di molto personale, ovviamente non
c'è mai nessun obbligo :) Però la tua mi ha fatto
molto piacere XD Daphne è una bestiolina amabile, vero? Non
vorrei davvero essere l'uomo che invecchierà con lei, ma
è adorabile nella sua impertinenza, e Astoria tutto sommato
ha la sua parte di difficoltà in tutto questo, mi sembrava
giusto renderle qualche merito. Alla fine ha molto più
coraggio di Draco e Pansy messi insieme, lei le cose le affronta
subito, le va dato atto. Grazie mille per essere passata nello spazio
recensioni, un bacio :*
---
Note: Cercando di lasciarmi
alle spalle un anno orribile, parto dieci giorni per un viaggio on the
road. Quindi niente aggiornamenti per dieci giorni, ma ho un capitolo
quasi pronto e idea di come porre fine a questo casino di storia,
quindi tornerò :) A meno che un arabo non voglia fare di me
la sua sposa, e allora FORSE potrei non tornare. Grazie a
tutti, siete sempre molto care *__*
Bri.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 14 *** XIV Nemesi storica ***
The
way we were
XIV
Nemesi
storica
To
find a queen without a king…
Pansy
non
riusciva a distogliere lo sguardo da Lucius Malfoy.
I suoi occhi non
erano quelli di un figlio che aveva vissuto gli anni più
difficili nel ricordo
di suo padre, e non aveva riconosciuto Lucius fino a quando Draco lo
aveva
chiamato “papà” e si era perso in un
abbraccio che aveva tutte le probabilità
di essere il primo.
Ai propri occhi,
quello che risaltava maggiormente era quanto Lucius fosse diverso
dall’uomo che
ricordava, che altero camminava in ogni posto come ne fosse il futuro
padrone,
accompagnandosi con un bastone, un ornamento più che un
supporto di cui non
aveva alcun bisogno.
L’uomo che aveva
abbracciato Draco invece era infinitamente stanco, spogliato di ogni
arroganza,
e forse in tutto quello che aveva perso, non era neanche più
tanto padrone di
sé.
Però aveva
conservato quella bellezza aristocratica e fredda di cui Pansy aveva
soggezione
e ammirazione, e nonostante avesse le ossa piegate dalla prigionia era
ancora in
piedi e dava ordini a suo figlio, aveva ancora la forza di stringere
qualcuno
tra le braccia, e i capelli biondi di sempre, accompagnati da una barba
rada
che Pansy non aveva mai visto sui lineamenti decisi e affilati del suo
volto.
Aveva la voce
arrochita da anni di silenzio, e gli occhi grigi velati dalle immagini
dietro
cui si era barricato per vincere la lotta
all’autodistruzione, al logorio
interiore che Azkaban scavava nell’anima dei suoi ospiti.
Pansy distolse
presto lo sguardo, sentendosi di troppo in quel ricongiungimento
ancestrale tra
Draco e suo padre, e avvertì qualcosa pungerle il cuore
quando d’improvviso le
immagini di quei due uomini così vicini si confusero tra
loro.
Mai in una vita
avrebbe immaginato che le mani di Narcissa Black potessero quasi
tremare, o che
i suoi occhi freddi potessero adagiarsi carezzevoli su qualcuno in
presenza di
altri che non fossero un figlio e un marito.
Quasi
inconsapevolmente Pansy arretrò di un passo, e poi di un
altro, ripercorrendo
la strada di prima, cercando nel corridoio aria sufficiente per
respirare come
si confà a chi è padrone di sé.
Le sembrava
impossibile che Lucius Malfoy fosse tornato da Azkaban, tanto
impossibile che
qualcosa le impediva di esserne felice.
«Credevo che
fosse preparata alla teatralità della nostra
famiglia» la raggiunse la voce
rude del prozio Wilbert, sfrattato dalla propria cornice dal padre di
Lucius,
poco prima.
Pansy sollevò la
testa di colpo, spaventata.
L’uomo le
sorrideva dal bordo della cornice, lisciando tra le dita la propria
sciabola,
incastonata.
«Ci sono più
colpi di scena in una cena a casa Malfoy che in tre atti di
un’operetta, le
pare?» proseguì invitandola a prendere parte al
proprio monologo.
Pansy annuì,
guardandosi intorno, e scoprendo di avere addosso tutti gli sguardi
della
progenie Malfoy, con qualche comparsa Black, presenti nel corridoio.
Rivolse un
sorriso piuttosto esplicito a tutti loro, chiarendo che gli esami le
erano
sempre piaciuti poco.
«Si aspettava di
trovarlo cadavere, non è vero?» domandò
ancora il prozio Wilbert, provocando
una risata sommessa da sua cugina, al suo fianco.
Pansy la incenerì
con lo sguardo senza troppe remore, guadagnandosi senza saperlo le
simpatie di Archibald
Malfoy, che mai aveva sopportato le sciocche moine di sua sorella.
«Azkaban non è
famosa per la sua clemenza» fece notare in propria difesa.
Le parve inutile
spiegare a quella gente perché le risultasse più
semplice prepararsi al peggio,
piuttosto che crogiolarsi in speranze che mai si sarebbero avverate.
Wilbert affilò il
proprio sguardo in direzione di Pansy, deponendo la sciabola al proprio
posto.
Pansy non osò
sperare che fosse un buon segno, per restare in tema.
«Lo diverrà il
Ministro di Grazia e Giustizia, al suo posto»
osservò sardonico un lontano
barone, tre quadri più su. Wilbert ne rise, seguito da
qualche altro esponente
della fanteria Malfoy.
Poi calò il
silenzio sul corridoio, da parte di tutti i ritratti, concentrati con i
propri
sguardi su Pansy, in attesa di leggere sul suo viso il barlume della
comprensione.
Non tardò ad
arrivare, compiacendo tutti loro sull’arguzia e la scaltrezza
di quella che a
nessuno sarebbe dispiaciuto accogliere nell’albero
genealogico del casato.
«Miss, se mai
deciderà di togliersi la vita, sappia che sarò
bendisposto ad ospitarla nelle
mie pittoresche dimore» le fece presente
l’Archibald di poco prima,
schiarendosi la voce.
Sua sorella lo
guardò indignata, ancora offesa per l’occhiata
torva che Pansy le aveva
rivolto, ma dovette compiacersi di quella identica che
riservò anche a suo
fratello dopo la gentilezza di quell’invito.
«Non vorrei
offendere i vostri gusti, ma trovo che i melodrammi siano fonte di
imbarazzo
per la dignità del genere umano»
replicò leggermente stizzita Pansy, mentre
cercava di non essere sopraffatta dal peso di quella notizia.
Nessuno torna da
Azkaban senza pagarne il prezzo, neanche Lucius Malfoy e la sua
abilità nella
compravendita di valori e occasioni d’oro.
«Smettetela di
importunare i nostri ospiti» si intromise imperiosa la voce
di Narcissa,
scivolando nel corridoio e mettendo a tacere illustri baroni e
facoltose
duchesse.
Pansy sussultò
come scottata, quando sentì la mano di Narcissa posarsi
sulla spalla,
invitandola a seguirla, e tornare sui suoi passi.
«Hanno un
concetto di ironia piuttosto discutibile» mormorò
sottovoce, facendo intendere
a Pansy di aver condiviso più di una volta i pensieri che in
quei minuti le
avevano attraversato la mente.
Pansy pensò di
chiederle l’immane favore di non parlare in tono tanto
confidenziale, di non
toccarla in quel modo, di non sorriderle con quello sguardo sornione,
di non
rievocare i tempi in cui da piccola aveva sentito quel castello anche
un po’
suo, perché a ben vedere la felicità di quel
ritrovo la stava uccidendo
lentamente, nel prendere atto che il ritorno di Lucius Malfoy
l’avrebbe
allontanata per sempre da Draco.
●●●
…wondered how
tomorrow could ever follow today.
Narcissa
ebbe
l’impressione di avere qualcosa in comune con Pansy, dai
primi tempi in cui lei
e suo marito frequentavano i signori Parkinson, scambiandosi visite
reciproche
nei propri manieri.
Era
quell’aria
disincantata che le leggeva nello sguardo, quel suo modo di essere
curiosa ma
con cautela: le ricordavano la circospezione con cui da piccola si
guardava
intorno per prendere le misure, per essere certa di non inciampare
goffamente
come fanno tutti i bambini.
Allora
lei era
ancora una novella sposa, e già sapeva a cosa sarebbe andata
incontro.
Pansy
sembrava
sicura delle sue intenzioni e consapevole dei rischi che avrebbe dovuto
correre
per ottenerle già da bambina.
Narcissa
era
stata più vezzeggiata di lei, e nel diventare una donna
aveva conservato la
morbida eleganza di chi non ha dovuto porre troppe domande per ottenere
conferme, laddove Pansy opponeva recalcitrante la fierezza
dell’orgoglio di chi
ha dovuto rinunciare ad avere sicurezze dagli altri costruendosi da
sola le
proprie risposte.
Ma
soprattutto,
quello che Narcissa Black e Pansy Parkinson condividevano, era il
pesante
fardello dell’amare un certo tipo di uomo.
«Immagino
che tu
sia piuttosto confusa» mormorò Narcissa, facendole
strada nei giardini interni
del maniero.
Pansy
concentrò
lo sguardo sui propri passi. Il giardino era diverso da come lo
ricordava,
molto più selvaggio pur nella sua armonia di forme e di
colori. Immaginò che
tutti avessero avuto diverse distrazioni, negli ultimi tempi, e che
avessero
sprecato ogni loro forza nella cura del proprio personalissimo dolore
piuttosto
che negli alberi da frutto.
«Temo
di non
esserlo affatto, invece» rispose Pansy, sentendo qualcosa
gravarle sul petto e
impedirle di prendere ampi respiri. Cercò di non incontrare
gli occhi di
Narcissa, perché aveva una certa considerazione di lei, che
a ben vedere
sfiorava i picchi dell’adorazione, e avrebbe preferito non
mostrarle quanto
profonda potesse essere la ferita che aveva addosso.
Narcissa
sorrise quietamente,
come se tutto sommato avesse già capito le regole del gioco.
«Ero
più che
certa che Draco fosse con te».
«Lo
hai reso
piuttosto chiaro, nel tuo biglietto» mormorò Pansy
imbarazzandosi al posto di
Draco. Avvertiva una irrequietezza di fondo agitarsi in lei; percepiva
lo
scorrere dei minuti come una inarrestabile discesa verso la conclusione
di
qualcosa, e si dimenava tra il contrastante desiderio di porre fine a
quel
tormento e la speranza ridicola e tristemente umana che la fine
ritardasse il più
possibile.
I
giardini erano
avvolti nel silenzio, e Pansy si chiese di cosa stessero parlando Draco
e
Lucius nel salone, immaginando con quali sguardi si abituavano alla
presenza
reciproca.
«Hai
mai pensato
di non poterlo riavere?» domandò di colpo,
sentendo le parole venire fuori
dalle proprie labbra. Narcissa percepì su di sé
lo sguardo bruciante di Pansy,
e si sentì in dovere di essere sincera con lei,
dovendoglielo come donna e come
in parte responsabile di quella sua infelicità.
«…
ho iniziato a
considerare l’idea» ammise, cercando di arginare
tutto quello che aveva
accuratamente tenuto sotto chiave in quegli anni di solitudine, in cui
si era
tenuta occupata con la gestione degli affari di famiglia,
perché mettere le
mani tra le carte di Lucius si era rivelato essere uno dei pochi modi
rimastole
per sentirlo ancora vicino, forte e presente, nella sua
quotidianità.
Sapeva
di non
poter mentire, con Pansy Parkinson, perché anche lei per
molto tempo aveva
imparato a convivere con il pensiero di Draco vedendolo ridursi giorno
dopo
giorno a ricordo.
Narcissa
aveva
trovato inconcepibile che accadesse, con Lucius.
Che
suo marito
divenisse una figura lontana e al margine della sua vita,
l’immagine cui votare
un pensiero la sera quando le incombenze della giornata erano concluse,
il nome
di cui parlare al passato, l’altra metà di se
stessi atrofizzata dal gelo
dell’assenza.
Merlino
solo
sapeva quanto lunghi erano stati i giorni, e quanto difficile restare
in una
casa permeata di ogni aspetto della vita di Lucius. In qualche modo
sapeva che
Pansy sarebbe stata perfettamente in grado di comprendere tutto quello,
senza
che lei dovesse sforzarsi di trovare parole, in ogni caso vuote e senza
voce al
confronto dell’intensità del sentimento.
«E
cosa hai
pensato di fare, allora?» domandò timidamente
Pansy.
Aveva
un
disperato bisogno di prendere le misure anche lei con quello che le
sarebbe
spettato di lì a poco.
Narcissa
estrasse
la bacchetta dalla manica del proprio vestito, richiamando a
sé un
portasigarette nascosto in una fenditura del muro. Lucius trovava poco
piacevole l’odore di fumo, e lì si chiudeva
l’elenco dei segreti che Narcissa
aveva con lui.
«Sono
entrata nel
suo studio e ho provato a mettere via la sua borsa da lavoro»
rispose,
espirando un po’ di fumo. Pansy cercò di
immaginare Narcissa e le sue mani
sottili avvolgere quella borsa da lavoro in un panno e riporla in un
cassetto,
lontana dagli occhi, e le sembrò un’eresia.
«Le
sue piume e
le boccette di inchiostro, le camicie nell’armadio, il suo
bastone» proseguì
Narcissa, scrollando della cenere a terra. Ne parlava con tono
distante, quasi
preferisse salvarsi relegandosi a spettatrice di quel tentativo sciocco
e
patetico, inutile.
Rise
di sé,
guardando lontano.
«Ho
rimesso tutto
a posto, la mattina dopo» concluse, sorridendole
incredibilmente delicata.
Pansy
notò per la
prima volta quanto fosse fragile la sua bellezza, come bastasse un
solco di
dolore agli angoli degli occhi belli e glaciali perché si
sfigurasse e tornasse
disperatamente umana, come tutti gli uomini di questa Terra.
«Ho
chiesto a
Draco di prendere il bastone, e portarlo nel suo studio»
ammorbidì la voce
«Credo che lo abbia tenuto per sé».
Pansy non sentì il bisogno di darle
conferma, ricordandosi di averlo visto adagiato in uno studio che
però era
quello di Draco.
«Ma
comunque»
riprese quasi vergognandosi di quelle parole, «per quanto
l’idea possa non
piacerti, si sopravvive a tutto, anche ad una vita senza di
loro».
Pansy
comprese
che avrebbe dovuto accettare quelle parole e custodirle da qualche
parte dentro
di sé, perché sarebbero state sempre il porto a
cui tornare il giorno in cui
avrebbe voluto salvarsi.
Quando
si decise
a sollevare lo sguardo, incontrò quello di Draco, inerme,
che guardava dietro
il vetro della finestra lei e sua madre.
Forse
si chiedeva
anche lui quali segreti si stessero raccontando, e quali consapevolezze
Pansy avesse
acquistato. Forse le stesse che suo padre gli aveva appena gettato
addosso,
perché la guardava come se quel vetro fosse acciaio e la
vista iniziasse a sbiadirsi,
tra loro.
Narcissa
ricordò il giorno in cui
aveva raggiunto suo marito, dietro quella stessa finestra, intento a
fissare il
giardino di cui si era preso cura per tutti quegli anni, che aveva
coltivato e
accudito come ogni progetto che entrambi avevano ideato e condiviso per
loro
figlio. Quel giorno gli occhi grigi di Lucius Malfoy erano della stessa
tormentata intensità di quelli di suo figlio in quel
momento. Narcissa si era
accostata a lui, e Lucius, nel silenzio delle sue sconfitte, le aveva
regalato
la parte di sé che gli era rimasta, ad un passo dalla fine. “E’ stato un delirio di
onnipotenza. Sono
solo un uomo, Cissa. Ho sbagliato i conti. Cosa succede ad un uomo,
quando
sbaglia?” le aveva chiesto, con l’orrore
nella voce.
Narcissa
non aveva trovato
risposta, perché le sembrava di aver commesso tutti gli
sbagli che un uomo
potesse commettere, scoprendo che suo padre e sua madre, la propria
famiglia,
le avevano insegnato soltanto ad occultarli e a fingere che non fossero
mai
stati commessi, e non le avessero minimamente insegnato a risolverli ed
utilizzarli preziosamente, come garanzia che certi errori non si
sarebbero
ripetuti due volte, neanche con i propri figli.
Mai
come quel giorno si era
sentita del tutto abbandonata da un padre che invece l’aveva
coperta di
attenzioni fittizie, per tutta la vita.
«Mio
padre non mi ha mai chiesto
scusa, Pansy. Prima di morire mi ha guardato con occhi pieni di amore,
dispiaciuto perché doveva lasciarmi, ma nella
sincerità della sua morte non ha
sentito di dovermi delle scuse. Penso molto a voi. Poveri ragazzi. Che
cosa vi
abbiamo fatto?” mormorò piena di rammarico e di
dolore.
Pansy
dal canto suo rimase lì
dov’era, immobile, a fissare Draco e l’angoscia che
gli leggeva addosso e che
sentiva avvolgerla poco a poco. In attesa che il resto accadesse, con
l’inevitabilità con cui gli errori svelano se
stessi, cadendo senza freno su
chi li ha commessi.
Qualche
secondo dopo Astoria si
materializzò alle spalle di Draco seguita dai suoi bauli ed
elfi domestici.
Pansy e Narcissa osservarono la scena dal giardino: il Draco sfinito,
vinto
dagli eventi, che si voltò per salutarla, e l’aria
grave ma sicura di sé con
cui Astoria posò le labbra su quelle di suo marito, senza
accorgersi di tutto
il resto, come se portasse il peso di una ricchezza con sé,
di una ricchezza
ben più grande del cerchietto d’oro che le
fasciava l’anulare sinistro.
Lucius
Malfoy apparve poco dopo,
lasciando il salone, per andare incontro alla moglie di suo figlio che
mai
aveva conosciuto. Pansy fissò attentamente Astoria e il suo
sorriso emozionato,
nello stringere la mano di quel Lucius Malfoy di cui aveva tanto
sentito
parlare, ma non le sembrò affatto sorpresa né
sbigottita di trovarlo in casa
propria quando secondo la sentenza delle Corti unite del Wizengamot
difficilmente la sua data di scarcerazione gli avrebbe permesso di
vedere
nascere un nipote.
Sembrava
anzi che aspettasse quel
momento, e che avesse sistemato i propri capelli per
l’occasione.
A
quel punto, Narcissa seppe di
non dover aggiungere altro.
Sebbene
da oltre il vetro Pansy
non potesse sentire la voce di Astoria, annunciare tremante di
aspettare il
prossimo erede Malfoy, non sentì comunque alcun bisogno di
riceverne conferma.
La gestualità apparve molto chiara a tutti.
Prima
che si smaterializzasse,
incontrò lo sguardo di Draco, un’ultima volta.
La
guardava e nei suoi occhi e
nella tensione che sentiva addosso cercava di ricordarle che nonostante
tutto
non era cambiato niente rispetto a poche ore prima e a tutti quegli
anni. Che
era ancora suo, e che lei non sarebbe mai potuta appartenere a
Theodore, e che
avrebbero potuto sposarsi con altre persone, e fare figli, e costruire
una
famiglia con loro ma mai, mai nessuno sarebbe stato in grado di amarla
quanto
la amava lui.
●●●
Seems
that the wrath of the Gods
Got a punch on the nose
and it started to flow;
I think I might be sinking.
Throw me a line if I reach it in time
I'll meet you up there where the path
Runs straight and high.
Di
tradimenti
Blaise Zabini poteva dirsi un grande esperto, essendo cresciuto sotto
lo stesso
tetto della più grande ingannatrice della storia; passando
poi per i sette anni
trascorsi nelle dimore Slytherin, senza contare le piacevolezze a cui
si era
lasciato andare senza per questo offrire garanzie di monogamia a
nessuna che le
condividesse con lui. E dato che non si conosce niente se non grazie al
suo
contrario, poteva dire di conoscere qualcosa anche in fatto di
lealtà, e più
perché aveva stretto quel rapporto a tre con Draco e Pansy,
che per i dettami
della logica Slytherin, a dirla tutta.
Ma
a ben vedere,
poteva avere solo due certezze, nella vita, nonostante fosse Blaise
Zabini e
sapesse ottenere le giuste promesse da chi gli viveva intorno. La prima
certezza, riguardava Draco e Pansy, che mai avrebbero lasciato le sue
spalle
scoperte nel caso – improbabile – ce ne fosse mai
stato bisogno, e la seconda
era il brandy. Fedele compagno che mai lo aveva tradito in tutti quegli
anni,
continuava ad essere il suo interlocutore preferito, da quando si era
del tutto
disabituato alle velleità comunicative tipiche degli esseri
umani.
Le
sincerità
delle persone lo mettevano a
disagio,
senza alcun dubbio.
A
ragione di
questo, quando quella sera rischiò di rovesciare per terra
il brandy che aveva
versato a se stesso nel solito bicchiere, Blaise Zabini si sarebbe
alquanto innervosito,
se la ragione dello sventato incidente non fosse stata Draco Malfoy.
«Per
Merlino!»
esclamò stranamente su di toni per la placida eleganza con
cui esprimeva di
solito le sue contrarietà. Draco non si scompose in alcuno
stupore per
l’evento, consapevole di avere un aspetto tanto terribile da
poter giustificare
una reazione del genere.
Blaise
lo squadrò
per qualche istante, cercando di capire se non avesse davanti una delle
solite
allucinazioni che lo coglievano dalla fine della guerra, come reflusso
di
quanto aveva visto accadere sotto i propri occhi e anche come effetto
delle
droghe che Warrington si premurava di fargli arrivare, puntuale come un
orologio svizzero.
«Se
Pansy fosse
stata la ragione di questa spossatezza, avresti la cravatta di traverso
e
un’aria un po’ più appagata»
osservò ragionando tra sé. Il lampo di dolore che
attraversò lo sguardo di Draco nel sentir nominare Pansy lo
convinse del fatto
che quella sera avrebbe dovuto condividere la sua preziosa riserva con
un
vecchio amico.
«E’
tornato mio
padre» sputò fuori Draco, raggiungendo a passi
nervosi la finestra,
spalancandola.
«In
licenza?»
domandò ironico Blaise, stemperando lo sgomento che lo aveva
colto.
L’altro
richiamò
a sé con la bacchetta il pacchetto di sigarette dal primo
cassetto del comodino
di Blaise. «Serviti pure, è un piacere avertele
offerte». Draco ne accese una,
prendendo atto che non era affatto una sigaretta, e che Warrington
fosse
passato di lì recentemente.
«A
che ti
servono, me lo spieghi?» gli domandò, aspirando il
fumo. Lo avvolse un profumo
lontano ed esotico, un invito recondito a disperdersi nel nulla, ben
diverso
dal sapore agre e maschile del tabacco che fumava di solito. Blaise lo
guardò
sornione, accendendo una sigaretta a sua volta, certo che alla seconda
boccata
non avrebbe avuto bisogno di spiegare altro.
La
perdizione era
una delizia più voluttuosa del corpo di una donna tra le
braccia, persino delle
labbra di Daphne e dei luoghi inconsueti in cui amavano poggiarsi. Fare
l’amore
con Daphne lo appagava e lo faceva sentire bene per la durata di un
amplesso,
ma non gli dava la sensazione di salvezza che provava in quel modo.
Il
corpo di
Daphne poi era infinitamente bello ma troppo materiale, sotto le sue
dita, e
tra le sue gambe; che fosse una carezza o la contrazione dei muscoli
nella
tensione di un abbraccio, gli ricordava quanto tutto fosse reale, al
punto da
risultare anche doloroso, in fin dei conti.
Non
avrebbe mai
potuto perdersi in lei, perché doveva prestare attenzione a
tutto il resto: ai
confini da non lasciarle varcare, alla sapienza amatoria a cui doveva
prestare
fede, alle parti di sé che le concedeva di toccare, ma mai
fino in fondo.
“E
questa?”
gli aveva domandato la sera prima,
incontrando la cicatrice che aveva sulla nuca, nascosta dai capelli
corvini,
troppo corti per occultarla a dovere. La domanda era stata curiosa,
perché non
aveva idea del mondo che nascondeva un taglio tanto superficiale da
essersi
rimarginato senza troppe storie nel giro di poco tempo. Restava solo la
cicatrice, e Blaise aveva fatto di tutto per non cedere alla
banalità di quella
situazione; per non dover spiegare che una cicatrice nasconde la ferita
più
profonda, che con ogni probabilità non può essere
rimarginata, ed è pronta a
sanguinare non appena chiunque cercherà di rimuoverne
l’imperfezione dalla
pelle altrimenti perfetta, integra, del proprio corpo.
Avrebbe
dovuto
spiegarle che, in una guerra, anche chi si ammanta della divisa
splendente e brandisce
l’arma del giusto, rinuncia alla propria
irreprensibilità, e prima o dopo
attacca qualcuno alle spalle. E avrebbe anche dovuto giustificare
l’ironia con
cui Daphne gli avrebbe fatto notare che Blaise Zabini non si sarebbe
mai fatto
prendere alle spalle.
Allora,
avrebbe
dovuto raccontarle di cosa avesse visto sotto i propri occhi, che lo
avesse
pietrificato a tal punto da dimenticare di proteggersi da una ferita, o
peggio,
una morte, da idiota sprovveduto come un Hufflepuff qualunque.
A
quel punto spostò
involontariamente i propri occhi su Draco, e se Daphne avesse potuto
sentirlo,
le avrebbe detto che proprio non poteva spiegarle tutto quello,
perché non era
disposto a raccontarlo neanche a Draco, di come fosse stato credere per
quegli
interminabili secondi che Pansy Parkinson fosse ai suoi piedi, riversa
in terra
come una persona qualsiasi, scomposta come mai era stata in vita,
inerme come
mai si era concessa di essere in tutti gli anni in cui
l’aveva conosciuta.
E
il corpo di
Daphne stretto al proprio non cancellava il ricordo di
quell’immagine, la
fissità con cui si stampava prepotente davanti ai suoi
occhi. Riusciva a
dissiparla solo con una sigaretta di Warrington, che lo trasportava
lontano
dalla contingenza di quella vita, e lo stordiva con lusinghe remote,
che
parlavano di serenità e lo avvolgevano in quella dolce
incoscienza per un po’.
E quando l’effetto di abbandono terminava, e tutto tornava
drasticamente sotto
i suoi piedi, aveva imparato a fare affidamento sul brandy e il
bruciore che gli
lasciava in gola, che lo abituava a riprendere confidenza con le
asprezze della
vita reale.
Guardando
le
spalle di Draco, tese, e le sue labbra pallide contratte in una smorfia
di
rabbiosa sofferenza, Blaise si chiese se davvero avesse bisogno di
tutto quello
scetticismo, riguardo quella sigaretta contraffatta.
«Lo
faccio per
Warrington, è l’unico modo per farlo sentire
ancora utile in questo mondo»
rispose sarcastico, evitando la scomodità di una risposta
già conosciuta. Draco
sorrise senza allegria. «Che ci fa tuo padre qui?»
domandò Blaise, tagliando
corto.
«Nott»
spiegò
Draco seccamente, scagliando lontano la sigaretta. Blaise
replicò con un
silenzio piuttosto funebre. «Astoria è
incinta» aggiunse Draco, per rendere
chiaro l’ultimo passaggio dell’equazione che Blaise
stava risolvendo a mente.
A
quel punto
Blaise versò dell’altro brandy nel bicchiere che
aveva preparato prima per sé,
e poi lo passò a Draco con fare pratico.
«Manda
giù» lo
invitò con voce infinitamente stanca. Sopravvivere era di
gran lunga più
difficile che chiudere gli occhi e lasciarsi morire, eppure era ancora
la cosa
più inevitabile che tutti loro potessero fare, a quanto
sembrava. Draco accettò
il bicchiere, distrattamente. Pensava che una nuova vita stava per
nascere, e
che ne era stato in parte creatore, mentre lui era nauseato e stanco
della
propria.
Si
chiese se un
figlio sarebbe stato in grado di percepire quel pensiero.
Poi
si ricordò di
se stesso, bambino, e comprese che avrebbe dovuto affinare la propria
arte del
fingere.
«E’
scortese
chiederti come hai fatto ad essere così
imbecille?» proruppe Blaise senza
alcuna delicatezza. Draco lo guardò spiazzato per la seconda
volta nel giro di
pochi minuti, registrando che mai era capitato né a lui
né a Pansy di potersi
meravigliare di qualcosa di detto o fatto da Blaise. E invece era la
seconda
volta e in ogni caso non poteva dargli torto né difendersi
in alcun modo.
Blaise
vide Draco
serrare la mascella e ripetersi la stessa domanda. Chissà da
quante ore se la
stava ponendo. Chissà quanto aveva già deciso che
non si sarebbe mai perdonato.
La leggerezza con cui aveva assecondato accondiscendente i desideri di
una
moglie esasperante, senza tenere di conto che anche l’essere
più mefitico del
pianeta ha un cervello per elaborare progetti. Avrebbe dovuto prestare
più
attenzione alle sue parole, alle allusioni a quella vita insieme,
avrebbe
dovuto ricordarsi che il semplice fatto che lui non la avesse mai
amata, non
rendeva altrettanto ovvio il fatto che Astoria serbasse odio o
indifferenza nei
suoi confronti.
Blaise
lo
guardava severamente, e nell’ombra del suo sguardo Draco
poteva scorgere
ugualmente il rammarico per quella incapacità dei suoi
migliori amici di
sapersi conquistare le proprie felicità.
«Non
so che fare»
mormorò Draco, passandosi una mano sul mento; le dita
incontrarono la ruvidità
della barba che aveva dimenticato di radere negli ultimi giorni.
Astoria glielo
aveva ripetuto ogni giorno e lui ostinato l’aveva ignorata.
Blaise si lasciò
sfuggire uno sbuffo di amaro sarcasmo. «Ho il sospetto che
tuo padre abbia
detto la stessa cosa a Narcissa, prima di finire per immolare suo
figlio per i
piaceri del suo Padrone» commentò tagliente.
Draco
lo guardò
pieno di sconforto e allo stremo delle forze.
Tutte
le energie
guadagnate nell’avere Pansy al fianco, lungo il corridoio di
Malfoy Manor;
quella piacevolezza che aveva ammorbidito un cuore pieno di
insoddisfazioni e
risentimenti nel fare di nuovo l’amore con lei e portarla di
nuovo in casa
propria, si erano dissolte nel giro di un pomeriggio.
«Potresti
dirmi
qualcosa che già non so, Blaise?»
replicò nervoso, forse addirittura
arrabbiato, come il leone che si ritrova in gabbia e non sa come
uscirne.
Blaise
scrollò le
spalle, rassegnato a non avere notizie nuove e confortanti.
«Mi
viene solo in
mente che—» fece per dire, ma Draco non lo stava
già ascoltando, del tutto
perso nell’immensità di quel disastro.
«Astoria
aspetta
un figlio, per Diana! Non ho mai imparato ad esserne uno, e adesso
addirittura
lo metto al mondo!» urlò, e Blaise era un abile
conoscitore delle psicologie
inverse di Draco, abbastanza da capire che dietro tutta quella rabbia e
frustrazione non c’era altro che panico e angoscia per una
situazione più
grande di lui, l’ennesima.
«Probabilmente
sei troppo agitato per cogliere la perfetta architettura del
tutto» gli fece
notare Blaise «la sagacia di Abraham Nott nel muovere le sue
pedine, e il
moralismo della famiglia Greengrass per fare scacco matto»
proseguì, del tutto
assorto nei suoi giri di pensiero. Razionalizzare lo aiutava a
sopravvivere nel
tumulto delle emozioni, a differenza di Draco, che era drasticamente
simile al vorrei ma non posso gestire
qualcosa senza
perdere la testa all’ultimo minuto di suo padre.
«Lucius Malfoy torna a
casa per sentenza del Ministro di Grazia e giustizia, profumatamente
ricompensato dal signor Nott, e tua moglie correda il quadretto
familiare con
un pargolo in arrivo, che porterà gioia alle prossime cene
di Natale» illustrò
in modo fin troppo vivido secondo Draco. Si sentì assalire
da una profonda
infelicità.
«E’
stato
terribile vivere senza un padre pur avendone uno, no? Non saresti mai
in grado
di abbandonare tuo figlio, condannandolo alle tue stesse tristi
sofferenze» si
avviò alla conclusione Blaise. Si versò ancora
del brandy, e lo mandò giù in un
solo sorso, perfettamente allenato. Poi tornò a guardare
Draco, senza la
pretesa di nascondergli niente di quanto lo aspettasse, per quanto
fosse certo
che la sua mente arguta avesse già eseguito tutti quei
ragionamenti. «E qualora
prendessi in considerazione l’idea di farlo, di lasciare tua
moglie e tuo
figlio da soli… la sentenza verrebbe revocata, e Lucius
Malfoy tornerebbe nei
recessi di Azkaban fino a—» a quel punto Draco
alzò una mano, per fermarlo.
«Ho
capito,
Blaise, ho capito da prima che ti esibissi tu!»
sputò fuori Draco, lasciandosi
cadere sul letto, le mani tra i capelli, in una posa struggente
perché sincera.
Blaise
abbassò il
proprio bicchiere, e si sedette accanto a lui.
Lentamente
il
bicchiere scivolò dalle sue dita, mentre Blaise giaceva
lì, accanto al suo
compagno burattino, dai fili recisi.
«Blaise»
lo
chiamò Draco, senza trovare il coraggio di alzare anche solo
lo sguardo.
«Vuoi
che ti
uccida?» chiese con un’ironia lugubre.
«No,
passami una
sigaretta» replicò l’altro, la voce
ridotta ad un sussurro, perché parlare
avrebbe dato solo più concretezza alla loro vita, ricordando
ad entrambi di
essere capaci di intendere e soprattutto di volere. Se avesse potuto
non avere
davvero scelte, forse si sarebbe sentito meno iniquo di fronte a tutto
quello.
Poi però pensava alla scelta che aveva fatto anni addietro,
agli occhi di Pansy
il giorno in cui lo aveva capito e per timore non gli aveva chiesto
conferme, e
pensò a tutte le altre scelte che avrebbe potuto compiere
con lei, e si disse che
non era sbagliato scegliere. Era soltanto terribile sapere di averne la
possibilità ma non il diritto.
«Quelle
di
Warrington» aggiunse, strappando a Blaise un sorriso mesto.
●●●
Spent
my days with a woman unkind,
Smoked my stuff and drank all my wine.
Made up my mind to make a new start,
Going To California with an aching in my heart.
Someone told me there's a girl out there
with love in her eyes and flowers in her hair
[Led
Zeppelin – Going to California]
Theodore
Nott
trascorse, con precisione, quindici minuti fuori dalla porta della
propria
camera da letto, quella sera.
Suo
nonno lo
aveva convocato nel suo ufficio per dargli di persona la lieta notizia:
Astoria
Greengrass in Malfoy avrebbe dato alla luce un bambino. Theodore gli
aveva
impedito di aggiungere altro sbattendogli sotto il naso la prima pagina
della
Gazzetta del Profeta, edizione speciale. Interamente dedicata alla
scarcerazione di Lucius Malfoy, per una collaborazione
dell’ultimo minuto e per
alcuni revisionismi degli atti del processo.
Tutta
la Londra
magica era indignata, e poteva immaginare il trio Gryffindor, che ora
era
diventato una famiglia, con a capo Harry Potter, fremere di rabbia e
sguinzagliare i migliori amici avvocati per cercare di ottenere una
revoca alla
sentenza.
A
Theodore non
interessava però del magnificente trio e di come si leccasse
le ferite di una
guerra, chiuso nella sua torre, con l’ultimo piano nel regno
dei cieli.
«Morirai
senza
aver sentito il mio ringraziamento, per questo» gli
comunicò livido di rabbia,
sbattendo la porta del suo studio. Abraham Nott non aveva proferito
parola,
soddisfatto della propria influenza recentemente messa alla prova, e
stanco di
dover fare i conti con i diversi approcci alla vita che aveva con suo
nipote.
«Theodore
è lì al
Maniero?» aveva domandato dieci minuti più tardi
la testa di Tracey Davis,
stranamente timida, dal camino del soggiorno. Il signor Nott
l’aveva squadrata
sospettoso, prima di sospirare pesantemente, e chiudere gli occhi su
quella
giornata.
«Recita
il
lamento dietro la porta dell’amata, Miss Davis» le
comunicò. Aprì un occhio.
«Se si tratta di affari, prenderò le sue
veci».
Tracey
scosse la
testa, ritirandosi nella stanza in affitto che occupava in attesa della
firma
sulle carte dell’ultimo divorzio.
«Gli
faccia sapere
che se smettesse di lamentarsi e bussasse alla porta, si aprirebbe con
più
probabilità» rispose con un sorriso ambiguo.
«Parlavo della mia porta,
ovviamente» aggiunse,
lanciando un’occhiata incredibilmente sincera in direzione
del patriarca.
Abraham la guardò per alcuni istanti, del tutto allibito,
chiedendosi se la
vecchiaia non gli giocasse brutti scherzi. Poi riconobbe in quegli
occhi la
luce che aveva letto in quelli di sua moglie, il giorno in cui
l’aveva chiesta
in sposa e con un cenno del capo salutò Miss Davis, tornando
a chiudere gli
occhi, stavolta sui propri ricordi.
Quindici
minuti
più tardi, Theodore si decise a bussare alla porta.
«Pans, sono io»
si annunciò, facendo leva sulla maniglia.
Trovò la sua
quasi – moglie in piedi sulla cassapanca ai piedi del letto,
con indosso il suo
abito da sposa. L’immagine ferì il suo sguardo e
sentì una quieta tristezza
inondargli il cuore, quando guardandola in viso, per metà
nell’oscurità,
comprese che quella sarebbe stata la prima e ultima volta che le
avrebbe visto
quel vestito addosso.
«Non avresti
dovuto vederlo» mormorò lei, voltandosi verso
Theodore. Aveva la voce flebile e
la pelle bianca. Non aveva mai visto quella fragilità in
Pansy Parkinson,
sempre intrattabile negli anni di Caposcuola e sarcastica in quelli
normali;
sfuggente negli anni del loro fidanzamento, silenziosa nelle loro notti
d’amore, ma sempre forte delle sue volontà, sempre
capace di provocare suo
nonno e sostenere velate discussioni con lui.
«Non avrei
neanche dovuto chiederti di sposarmi» aggiunse pieno di
rammarico, ma anche di
tenerezza. Per le proprie illusioni, e per la tristezza di Pansy.
A quelle parole
Pansy vacillò su quella cassapanca, schiacciata dal peso
della verità e anche
dal senso di colpa che era tornato a stringerle la gola. Se ancora non
aveva
pianto, forse era perché neanche si sentiva legittimata a
farlo. Di certo non
in casa di Theodore.
Lui si avvicinò,
lentamente, come se i ruoli fossero invertiti e lungo la navata della
chiesa
che avrebbe ospitato la loro unione, fosse stato lui ad andarle
incontro,
divorando ogni passo con l’impazienza
dell’innamorato, che vuole solo le labbra
e la vita della donna che ha di fronte.
La sua sposa
aveva lo sguardo smarrito e pieno di lacrime che non avrebbe pianto, e
lui continuava
a trovarla bella anche consunta da quel dolore antico e privato.
«Le cose
sarebbero andate diversamente, forse» disse lei, parlando
più a se stessa che a
Theodore. Lui non rispose, concentrato sulla sacralità
dell’evento. Se non
fosse esistito Draco Malfoy; se lei non lo avesse mai amato; o se non
lo avesse
mai ritrovato, riuscendo a tenere chiuso quel cassetto in cui aveva
riposto il
pensiero di lui.
«Tu non avresti
voluto niente di diverso, Pansy» rispose per lei Theodore,
porgendole la mano
perché scendesse da lì sopra e lo raggiungesse,
per una volta, restando con lui
allo stesso livello. «E’ la tua condanna»
proseguì troppo dolcemente perché non
potesse comunque prendersi la giusta rivincita che gli spettava,
dicendole la
verità tanto scomoda a cui lei aveva cercato di non dare
voce e di ignorare «…
vivere di assoluti».
Pansy lo guardò,
senza dire niente, perché non c’era altro da
aggiungere.
Sentiva qualcosa
trafiggerla da qualche parte, forse ovunque.
Theodore si
sporse verso di lei, ancora preso a celebrare quel matrimonio fittizio;
le dita
ad imprigionare una ciocca dei capelli neri di Pansy, riportati al loro
posto,
come avrebbe fatto il giorno del matrimonio, o in una tranquilla serata
in
casa, dividendo con lei il divano della sala da pranzo. Ma poi, ad un
passo
dalle sue labbra, dal bacio che avrebbe dovuto renderla sua moglie, la
consegnò
al proprio rivale. Con una cavalleria che, sapeva, Pansy non gli
avrebbe mai
permesso, se davvero avessero raggiunto il giorno delle nozze.
«E’ l’uomo della
tua vita?» domandò, sfiorandole quasi le labbra.
Se l’avesse
baciata, si sarebbe ritrovato tra le labbra il nome di Draco.
Solo per questo
aspettò la sua risposta, mettendosi in salvo da un dolore
immeritato.
Pansy annuì,
scoprendosi atterrita nel dirlo, perché quella era la sua
vita e non poteva
averne un’altra, in cui essere felice con un uomo diverso da
Draco, che sarebbe
stato suo. Semplicemente, non ne aveva un’altra.
E Theodore si
chiese fino a che punto potesse mancare di rispetto a se stesso,
nell’allungare
una mano a toccare Pansy e stringerle la spalla, in un gesto lontano
dall’immaginario di due sposi, ma infinitamente
più onesto e vicino.
Si rispose,
comprendendo che in fin dei conti fosse quello il suo piacere, nel
posare la
mano sulla spalla di Pansy, e di non avere niente da rimproverarsi per
questo.
Aveva voluto
renderla felice, ma la violenza dei singhiozzi che avevano scosso di
colpo le
spalle di Pansy, gli dava la rassegnata certezza di non poterne avere i
mezzi,
né ora né mai.
Lo
accettò, come
si accetta ciò di cui non si ha colpa, salvato dalla propria
innocenza.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 15 *** XV Affari di famiglia ***
The way we were - capitolo 15
The way we
were
XV
Affari di
famiglia
Era
un signore andato via.
A lei
qui rimasta tantissimo mancava.
La
traccia da lui lasciata segnava
ovunque intorno a lei
l'aria.
Come un
quadro spostato
per
sempre segna la parete.
[V. Lamarque,
Il signore andato via]
Nel
mettere piede
nella camera di Blaise, Pansy si ritrovò immersa tra
l’odore delle sigarette
magiche di Warrington e il profumo di Draco, che aleggiava ancora
sbattendo tra
le pareti. Forse quello era il segnale di avviso che non fosse il caso
di soffermarsi
troppo a lungo.
«Blaise?»
chiamò non avendolo incontrato in salone e tantomeno
lungo il corridoio che portava alle camere da letto, nel piano
superiore.
«Pans»
le giunse in risposta la voce dell’amico, lontana come
un’eco e soffocata da un colpo di tosse «Ci
sei anche tu»
proseguì mentre Pansy si liberava del proprio mantello,
lasciandolo cadere sul letto sfatto. «Adesso
dobbiamo solo svegliare Crabbe dal sonno dei morti,
e poi siamo al gran completo».
Pansy
lasciò che
il gelo avvolgesse il cinismo di quel commento, preoccupandosi
più di cercare
Blaise in tutta la sua figura e scoprire di chi altri stesse parlando,
per
quanto avesse ormai la certezza che non fosse Millicent.
Quando
si
affacciò alla porta del bagno, in realtà
trovò Blaise in compagnia della sua
sola inquietudine, a quanto le sembrò. Frugò con
lo sguardo in cerca del terzo
presente, ma senza trovarlo. «Hai
un amico immaginario, ora?»
gli domandò, entrando nel bagno e sedendosi sul bordo della
vasca, in
equilibrio. Blaise la guardò con un sorriso spento e
distante, agitando una
mano in aria, con fare vago. «Parlavo
in metafora, Pans. Draco è appena passato a porgermi i suoi
ossequi»
le spiegò con una smorfia di scuse per
aver pronunciato il nome di chi sarebbe diventato innominabile di
nuovo, come
prima del decisivo ricevimento a casa Nott.
Pansy
squadrò
dalla propria posizione di sobria osservatrice Blaise Zabini, prendendo
atto
che fosse innegabilmente elegante ed impeccabile anche nel pieno di una
sbronza.
«Sei
ubriaco?»
gli chiese, cercando nei suoi occhi un
barlume di lucidità. Blaise reclinò la testa,
lasciandosi andare contro il
tronco del lavandino in ceramica. Pansy considerò
l’idea di preoccuparsi
seriamente, come ad uno Slytherin non è mai gradito fare. «O
sei fatto?»
aggiunse, ricordandosi dell’odore delle
sigarette di Warrington.
Blaise
sembrò
rifletterci, ma alla fine non disse niente.
Si
limitò a farle
cenno di sedersi accanto a lui, sul pavimento.
Pansy
lo
raggiunse con tutte le intenzioni di spostare l’angolo del
salotto sul letto di
Blaise, piuttosto che sulle mattonelle gelide del suo bagno.
La
docilità con
cui le permise di toccarlo e trascinarlo esattamente dove voleva, le
gelò il
sangue. Ricordava la notte del funerale del suo quinto padre come la
notte in
cui Blaise Zabini avesse conseguito la sua prima sbronza, eppure quel
giorno
era mille volte più vivo di quel momento. «Blaise?»
lo chiamò, sedendosi al suo fianco, sul letto. Lui
sembrò trovare più
edificante fissare per terra, piuttosto che guardarla negli occhi con
la solita
sfrontatezza con cui rispondeva alle preoccupazioni che di tanto in
tanto lei
gli riservava.
«Che
ti è successo?»
gli chiese a bassa voce, sentendosi un
po’ persa.
Blaise
e i
potenti mezzi delle sigarette di Warrington impiegarono qualche secondo
a
riemergere dal mondo di dissociazione in cui erano precipitati insieme,
cercando rifugio, annidandosi tra le pieghe dell’anestesia.
Gli affiorava alle
labbra una risata amara, nella consapevolezza di vedere Pansy seduta
nel punto
esatto in cui era stato Draco, quando lui aveva quasi ceduto a quel
terribile
racconto di morti e miserie che si portava dietro da anni. E poi
c’erano tutti
quei matrimoni inutili e vuoti, e la desolazione nella quale vivevano.
La
consolazione cercata in una sigaretta come un randagio,
l’impossibilità di
utilizzare le parole e il pensiero ostinato di quanto le parole in
sé
rendessero vivo un avvenimento, e fossero al tempo stesso del tutto
inutili nel
porre rimedio ad ogni cosa.
«A
te, cosa è successo?»
le chiese, spostando l’argomento sulla
cosa più vicina che potesse sentire. Pansy
scrollò le spalle, affogando nel
proprio orgoglio e nelle proprie consapevolezze la sconfitta
più grande a cui
avesse mai dovuto prendere parte. «Cosa
è successo a me è tristemente noto»
mormorò decisa.
Blaise,
in tutti
quegli anni, era stato un ottimo amico, il migliore confidente, la
spalla a cui
appoggiarsi nei momenti in cui persino la dura pelle di una Slytherin
aveva
conosciuto le scalfitture della vita. E avvolto nella sua patina di
buongusto e
sarcasmo, aveva sempre espresso un parere su tutto, difeso i propri
amici e
osteggiato i nemici; aveva corteggiato donne e alla fine aveva
conquistato
anche le loro madri; aveva ballato con lei a quel ricevimento, e
insieme a
Draco avevano speso interi pomeriggi a fumare sigarette e costruire il
proprio
nido, come ai vecchi tempi, proteggendosi dal mondo. Ma di
sé non aveva mai
proferito parola, e Pansy si era sentita defraudata, chiedendosi cosa
mai
avesse potuto rubare a lei e Draco quel privilegio di un tempo.
Forse
le
sigarette di Warrington, forse quello che le sigarette andavano a
coprire.
«Puoi
spiegarmi perché
non ti reggi in piedi e mi inviti
a simposi sul pavimento del bagno?»
domandò di nuovo, dura come non era mai stata nei
confronti di Blaise.
Avrebbe
voluto
sentirsi dire che lui e Draco si erano riuniti in un pomeriggio di
amenità
prettamente maschili e che avevano pianto insieme per le tristi sorti
della
vita coniugale di Draco. Invece percepiva distintamente lo squarcio che
attraversava Blaise da parte a parte.
Quella
doppiezza
che aveva insita nella luce torbida dei suoi occhi.
La
gente la
scambiava per sensualità, per una malizia tipicamente sua,
per quell’aria
conturbante che gli apriva le porte dei più facoltosi
salotti della Londra magica,
con un solo sorriso e qualche commento sardonico.
Pansy
aveva
trincerato la propria offesa, di fronte a quel teatrino
che Blaise si era permesso di propinare anche
a lei e a Draco. In quel momento, gli aveva chiaramente fatto capire di
aver
strappato il biglietto.
«O
magari vuoi che vada a chiamare
Mirtilla? Forse anche tu fai più volentieri quattro
chiacchiere con lei »
aggiunse, rivelando finalmente dopo anni
quanto e come si fosse sentita di poco conto. Blaise rise di quelle
parole,
scuotendo la testa, sentendosi invadere da tutto l’affetto
che aveva conservato
per Pansy – e per Draco – in quei lunghi anni di
conoscenza. Forse era
l’effetto del mix di droghe, che gli faceva sentire ogni cosa
amplificata, ma
Pansy era lì accanto a lui e la sentiva fremere di rabbia, e
non gli era mai
parsa così viva come in quel momento.
«Pans»
sussurrò accarezzandole i capelli, e cogliendola di
sorpresa «Mirtilla
non
capirebbe»
le concesse,
lasciandosi cadere indietro, di colpo, sul letto. Gli occhi chiusi
consapevolmente
su quell’immagine che sapeva sarebbe tornata. Stavolta
l’aveva aspettata.
E
in quel
contrasto, tra la Pansy riversa a terra che vedeva dietro i propri
occhi
chiusi, e la Pansy viva che gli respirava a pochi centimetri nella sua
stanza,
avvertì di dover abbandonare quel posto,
l’ambiguità del suo vivere.
«Non
capirebbe, cosa?»
domandò ancora Pansy, sporgendosi verso
di lui.
Era
più che certa
che non avrebbe capito, non capiva niente, Mirtilla. Non aveva capito
Draco e
quello che cercava di dirle, non avrebbe compreso il linguaggio di
Blaise,
fatto di sguardi e pelle, non avrebbe mai compreso
l’intreccio delle loro vite
e l’indissolubilità del punto in cui si
incontravano. Non avrebbe capito che
quel nodo era la loro salvezza e la loro condanna, e che
quell’alternanza
contraddittoria faceva delle loro vite quell’eterno campo di
battaglia di cui
parlavano sempre nei loro pensieri e mai a voce alta.
«Il
modo in cui sei morta»
rispose Blaise in un sussurro, aprendo
gli occhi di colpo.
Pansy
lo guardò
senza capire per lunghi secondi, sentendosi scomoda in quelle nuove
vesti di
estranea. Si sentiva una spettatrice, messa da parte, relegata dietro
le
quinte.
«Non
ti seguo»
lo avvisò, cercando il suo sguardo senza
trovarlo.
Blaise
rimase
immobile, disteso sul letto, a fissare il punto lontano della sua
memoria.
«Durante
la battaglia, mi sono ritrovato
in uno scontro, mentre cercavo te e Draco. Mi sono girato, a un certo
punto, e
c’era una persona per terra, colpita da un incantesimo e io
sono stato sicuro
che fossi tu»
disse infine,
vedendo scorrere la scena sotto i propri occhi, nei panni del cronista.
Sentì Pansy
congelarsi, sempre al suo fianco. «Ho
pensato che non fosse giusto»
proseguì, mentre Pansy conficcò le
unghie nel tessuto del lenzuolo sotto di lei. Strinse forte, come
avrebbe
impugnato la bacchetta in difesa di se stessa e di Blaise, in mezzo a
quello
scontro.
«Mirtilla
non avrebbe capito, è persa
dietro i suoi rammarichi… La gente, tutta, muore nello
stesso modo in una
guerra, Pans. Ingiusto»
mormorò,
cercando con la mano di aprire il cassetto dove conservava le
sigarette. Pansy
rischiò di chiudere anche il suo dito, nel sigillarlo.
«Ti
ricordi il processo del padre di
Draco, Pans?»
domandò
lasciando perdere il cassetto, tirandosi su, e le sembrò che
in quel momento
fosse perfettamente lucido. Aveva una consapevolezza nel modo di
guardarla, che
le fece venire voglia di abbracciarlo.
«Piuttosto
nitidamente»
replicò con una quieta vena di sarcasmo
nella voce.
Durante
tutto il
processo Blaise le aveva stretto il polso tra le proprie dita, tanto
che aveva
potuto sentire il pulsare della vena. Si erano parlati in quel modo,
senza
bisogno di parole, perché davvero si erano sentiti
accomunati da uno stesso
sangue, ed era quello che parlava per loro.
«Non
ti ho detto che ho pensato che la
gente dovrebbe essere punita per quello che ha fatto…».
Pansy
scivolò ai
piedi del letto, sentendosi di nuovo piccola come il giorno del
processo, in
cui invece aveva creduto di essere diventata adulta, perché
conosceva il peso
sul cuore che gli eventi ti lasciano nel loro passaggio.
«…
e non per quello che è»
concluse per lui, sentendo il bisogno di
inspirare a fondo e riprendere aria. Quel giorno, durante il processo,
avrebbe
voluto poter dire quello che aveva scoperto anni prima, al suo quarto
anno. E
cioè che nella vita di ognuno esiste una soglia, il cui
primo difetto è quello
di essere invisibile agli occhi di un moralismo senza speranza.
Avrebbe
voluto
spiegare che la vita non è altro che l’arte di un
incontro. E che quella soglia
separa strade diverse, insegnamenti diversi. Che quello che li separava
dalla
rettitudine di altra gente era l’insegnamento che non avevano
ricevuto, sul
valore di una scelta. Che il
discriminante era quello, e non una innata barbarie, né il
destino, né l’amore per
il disprezzo o per il sangue. E che nel fare tutto da soli, la
possibilità di
sbagliare è una certezza.
Se
il signor
Dumbledore le avesse chiesto un parere in merito, è quello
che avrebbe
risposto.
Invece,
quel
giorno, durante il processo, alzando gli occhi aveva osservato gli
sguardi
dell’intrepido trio. Guardavano fissamente avanti a loro, con
la testa alta.
Pensò che suo padre non era morto per proteggerla, ma anzi
si era venduto a Chi
aveva fatto loro visita una sera come tante, in cerca di reclute. E
comprese
che forse era bastata la non scelta di suo padre, perché
Dumbledore non le chiedesse
mai alcun parere.
«Mi
dispiace, Pans, di tutto quello che è
successo con Draco»
disse Blaise,
offrendole un sorriso un po’ incerto, ancora instabile sulla
scia di brandy e
sigarette bandite. «Mi
avete fregato,
stavolta ci avevo creduto sul serio»
aggiunse, delicato. Pansy annuì, distogliendo lo sguardo
per non lasciarsi sopraffare. «Dovrò
davvero far ballare Millicent al tuo matrimonio…»
mormorò confuso, strappando un sorriso a Pansy. «Non
è necessario. Theodore ha ritirato
l’offerta»
gli rivelò,
mostrando la mano, di nuovo libera da anelli.
«Suo
nonno ti ucciderà»
osservò l’altro.
Pansy
sospirò in
risposta, chiedendosi se avesse ancora qualcosa da perdere. Se Londra
le
offrisse ancora qualcosa per cui valesse la pena mettere un piede
davanti
all’altro. La atterriva l’idea che la vita fosse
qualcosa di talmente forte,
talmente più grande di lei, da vincere ogni suo
più recondito sogno di chiudere
gli occhi su un sonno eterno che non le avrebbe mai più
spezzato il cuore, o il
respiro, o le parole sulle labbra. Avrebbe potuto vivere integra,
intatta,
lontana. Per sempre. Per un tempo tanto lungo da perdere anche ogni
importanza.
Anni
addietro il
solo pensiero l’avrebbe terrorizzata, ora lo guardava con il
rammarico
agrodolce di chi è certo di non avere il coraggio di
procurarselo, né la
fortuna di ottenerlo per casualità.
«Dovremmo
andarcene da qui».
Blaise
assaporò
il suono di quelle parole, prima di guardare verso Pansy e rischiare di
scoprire che non stesse dicendo sul serio. Perché in quel
momento, non aveva
idea migliore se non quella di crederle.
«E
dove vorresti andare?»
domandò, avvertendo un brivido corrergli
lungo la schiena.
Pansy
scosse la
testa, facendogli sapere di non avere più alcun posto
preciso, da quel giorno
in poi.
«Dove
abbiamo una possibilità»
disse infine, lasciandosi scivolare
ancora, come da bambina, ai piedi del letto. Blaise chiuse gli occhi,
ancora
disteso sul letto. Pansy rimase in silenzio, in compagnia del respiro
di Blaise,
con le ginocchia raccolte al petto e il cuore a rimbombare sordo alle
sue
suppliche di tacere. Immaginò le notti di Blaise, i suoi
sogni e tutte le volte
che aveva aperto gli occhi vedendola morta. E ancora più di
quello, ripercorse
tutti i silenzi in cui aveva ammantato quel segreto, con lei e con
Draco.
Immaginò
Abraham
Nott e la sua furia, nell’essere costretto a lasciarla andare
via, a causa di
un nipote troppo grande per il suo piccolo mondo avvizzito da
corruzione e
livori.
E
Millicent e i
singhiozzi che avrebbe trattenuto nel doversi congedare da lei, e il
modo
tenero con cui avrebbe cercato di farle credere che fosse solo la
delusione per
non poter usare le scarpe nuove acquistate per il matrimonio.
Immaginò lo
sguardo pieno di adorazione che avrebbe rivolto a Blaise; il modo in
cui
avrebbe accarezzato il profilo del suo viso, con la maturità
con cui da adulti
si accantonano alcuni rimpianti e si rinuncia a certi desideri.
E
il sorriso sornione
che Daphne le avrebbe rivolto, stupita tuttavia nel vederla andar via
senza
Draco, e i suoi occhi felini puntati su Blaise, la mano che avrebbe
accarezzato
il suo corpo ancora una volta, posandosi volutamente nel punto che le
sue
labbra avevano fatto suo l’ultima notte trascorsa insieme.
Immaginò
Tracey
Davis e la mossa furtiva con cui si sarebbe di nuovo intrufolata nello
studio
di Theodore, una volta libera dalla scomoda presenza di una sposa
contrariata
all’idea delle nozze; e immaginò lo sguardo
spaesato, di ingenua perplessità,
con cui prima o poi Theodore avrebbe affrontato le attenzioni di
Tracey. Pensò
al giorno in cui avrebbe dato loro il giusto nome, e la ritrosia con
cui
avrebbe infine ceduto alla sua malizia, scoprendo di potersi divertire
con
quella donna, e rimpiazzare lo strano peso della leggerezza sul suo
anulare,
privo dell’anello di matrimonio.
E
infine, pensò a
Draco e al modo in cui avrebbe tenuto tra le braccia suo figlio.
Allo
sguardo che
gli avrebbe rivolto, timido e incerto. Al modo in cui lo avrebbe
toccato, poco,
e come se fosse di vetro, con il timore di poterlo rovinare o di fargli
del
male. Immaginò la confidenza che invece nel tempo avrebbe
guadagnato con il suo
aspetto di padre, e tutto il bene che avrebbe riversato su suo figlio,
colmando
così anche i propri vuoti d’affetto e le
solitudini che aveva sentito quando ad
essere figlio era stato lui.
Immaginò
suo
figlio, le somiglianze che avrebbe avuto con Draco,
l’adorazione che gli
avrebbe riservato e gli sguardi di insofferenza per la presunzione con
cui suo
padre avrebbe affrontato le future discussioni con lui.
Immaginò quel bambino
diventare grande, e vide Draco invecchiare con lui.
Scoprì
il
pensiero che Draco fosse nato per essere padre; e cercò
anche di mettere da
parte quello che le diceva di essere la donna giusta per essere sua
moglie. Si
sforzò, con un sorriso di tragica ironia, di mettersi nei
panni di Millicent,
imitando la grazia con cui aveva rinunciato ai propri desideri, e non
la
goffaggine con cui li aveva perseguiti.
Rifletté
anche
sul fatto che Blaise, la notte in cui lo aveva costretto ad
accompagnarla a
casa, avrebbe dovuto raccontare a Millicent tutto quello che aveva
appena detto
a lei, perché Millicent avrebbe saputo piangere al posto di
Blaise. E di Pansy.
Lei era infinitamente migliore di loro.
Fece
per
dirglielo, ma nel voltarsi lo trovò addormentato, con la
testa appoggiata sopra
il braccio, che sporgeva sul letto. Si chiese cosa stesse sognando e se
nell’addormentarsi avesse desiderato poi di potersi svegliare.
Si
domandò se nel
posto in cui sarebbero andati, avrebbero sentito la mancanza di Draco.
Con
un dolore
intenso comprese da subito che quella mancanza l’avrebbe
accompagnata per
sempre. Che avrebbe abitato in lei, in qualunque modo fosse andata la
sua vita.
Le avrebbe conservato un posto, come in quel cassetto, e avrebbe fatto
più
attenzione a dove adagiare la chiave. Immaginò di lasciarla
sotto il tappeto
morbido dei propri ricordi di lui, e di lui insieme a lei.
Allora,
ancora
seduta sul pavimento, allungò istintivamente il braccio,
verso quello di
Blaise, e strinse appena le dita intorno al suo polso. Sarebbe stato un
processo molto più lungo, quello.
●●●
Look
around, choose your own ground
For long you live and high you fly
And smiles you'll give and tears you'll cry
And all you touch and all you see
Is all your life will ever be
[Pink Floyd,
Breath]
Astoria
si era
addormentata presto, quella sera. Aveva detto di essere sfiancata dal
viaggio,
e a questo si aggiungeva la prima stanchezza del dover faticare per due
persone.
Non
aveva parlato
a Draco dell’anticipo con cui era voluto tornare a Londra.
Non avevano nominato
Pansy, e neanche a dirla tutta avevano più discusso del
figlio che sarebbe
nato.
Una
volta tornato
da casa di Blaise, Draco non si era avvicinato alla camera da letto,
preferendo
vagare senza sosta per i meandri della sua casa. In ogni angolo
c’era un
ricordo della Pansy bambina che prendeva dimestichezza con quei luoghi.
Ora
sapeva con certezza che un giorno aveva iniziato ad immaginare se
stessa come
padrona di quelle stanze, e di quei soffitti alti.
Il
pensiero lo
fece sorridere, e poi gli ricordò quanto pericoloso fosse
adagiarvisi troppo.
Narcissa
lo aveva
raggiunto, poco dopo, seguendo il suono dei suoi passi per i corridoi
del
Maniero.
Draco
la sentì
arrivare, riconoscendo il suo profumo, che aveva sempre definito come
l’odore
di sua madre. Si fermò, aspettando che si avvicinasse. Le
dita fredde di
Narcissa gli accarezzarono il collo, nello stesso modo in cui quando
era più
piccolo lo richiamava dalle sue corse per intimargli di seguirla; o si
accertava che stesse bene e non avesse la solita febbre di mezza
stagione.
«Mamma»
mormorò con un sorriso beffardo, facendole presente di
non essere affatto sorpreso.
Narcissa
sospirò,
sospingendolo appena verso il salone. I corridoi di quella casa
continuavano a
metterle i brividi, anche dopo che ne era diventata padrona.
«Qualcosa
ti tiene sveglio?»
gli domandò retorica.
Draco
si sedette
sul divano, lanciandole uno sguardo carico di affetto ma non per questo
esente
da un certo sarcasmo.
«Sì,
le termiti che ho in camera»
la prese in giro, allentando i bottoni
della propria camicia. Non si era neanche cambiato, rassegnato
all’idea di non
chiudere occhio. Narcissa ammorbidì il proprio contegno
preoccupato,
riconoscendo nel figlio le solite abitudini alla causticità.
«Ci
farai l’abitudine»
osservò Narcissa, poco dopo, lasciando
intendere di aver cambiato argomento. Draco la guardò
dubbioso. «All’insonnia»
specificò accendendosi una sigaretta.
Draco
si indignò
per quel dettaglio nel tentativo di non pensare troppo al resto.
«Che
fai, fumi?»
le chiese guardandosi istintivamente
alle spalle per accertarsi che suo padre non fosse in giro a scoprirlo.
Narcissa avvicinò a sé il posacenere della
defunta Elladora. «Sto
per diventare nonna, mi sembra
legittimo».
Draco sprofondò
ulteriormente sul divano, trasferendo con quel semplice gesto parte
della
propria angoscia a sua madre. Narcissa la accolse con la commozione a
cui in
rare occasioni si concedeva di lasciarsi andare.
«E’
una cosa bella»
mormorò guardando suo figlio, scoprendo
di non riuscire più a sovrapporre i suoi occhi che la
guardavano bambini, a
quelli che aveva ora. «E’
una cosa
grande»
aggiunse lui,
sentendosi invadere da un vortice di energia e confusione. Si sentiva
pieno di
qualcosa, e al tempo stesso privo di ogni sicurezza. «Un
Malfoy ha il diritto di essere
terrorizzato?»
domandò
chiedendole una sigaretta. Sua madre indugiò alcuni istanti,
ammonitrice come
da migliore tradizione Black. «Sto
per diventare padre, mi sembra più che legittimo»
le fece notare ottenendo quanto richiesto.
Narcissa
depose
il posacenere al centro del tavolino basso, portando di nuovo alle
labbra la
sigaretta. «Un
Malfoy ha più
diritti di quel che credi»
lo informò con
un tono terribilmente serio. Draco cercò il suo sguardo,
oltre i disegni
astratti che il fumo aveva tracciato tra loro. «Io
me ne sono arrogati molti, da quando ho sposato
tuo padre»
proseguì
Narcissa, con un sorriso tipicamente Rosier. Emergevano di tanto in
tanto in
lei le caratteristiche dell’altro ramo della famiglia, che
calibravano
perfettamente l’arguzia Rosier con i rigidi dogmatismi e il
grande senso degli
affari dei Black. Probabilmente per questo sua madre era stata
l’unica delle
tre figlie ad essere immune agli sbalzi d’umore e alle
impulsività delle altre
due. Aveva in sé un certo equilibrio, bilanciando i
morigerati pregi e i
terribili difetti di entrambi i casati, oltre ad un aspetto
innegabilmente
Rosier, con i colori chiari e le fattezze algide di una statua in
ghiaccio di
divinità nordica. Draco avrebbe voluto ereditare qualche
gene dei Black, ma quello
che aveva ottenuto era l’aspetto e l’assetto di un
Malfoy in tutto e per tutto.
«Che
intendi dire?»
le domandò assottigliando gli occhi. Sua
madre depositò un po’ di cenere. «Che
tuo nonno paterno mi odiava, Draco. E mio padre ha
vissuto con il terrore di un divorzio fino a quando Merlino non ha
deciso che
si mettesse il cuore in pace, in tutti i sensi»
gli rivelò e a Draco sembrò che fosse divertita
da
quel ricordo.
«Poi
sei arrivato tu, e Abraxas ha trovato
in me qualcosa di positivo»
concluse il racconto con uno sbuffo di stizzito sarcasmo Black.
«Fino
a quando non lo hai cresciuto così
come è diventato, Narcissa»
intervenne il diretto interessato, di punto in bianco. Madre e figlio
sussultarono colti alla sprovvista, prima di lanciare due occhiate
torve in
direzione della cornice del prozio Wilbert, ancora sotto sfratto. «Quella
Greengrass, un oggettino da avere
tanto per bellezza»
insistette,
dando sfogo senza che gli fosse stato minimamente richiesto, ad ogni
suo
dissenso.
«Nonno,
ti spiacerebbe evitare di farti sentire
dal soggetto in questione?»
gli intimò Draco, temendo di dover far fronte ad una crisi
familiare di
proporzioni indebite. Abraxas lo guardò mortalmente offeso. «Visto?
Pessimo carattere dei Black.
Scommetto che quel debosciato di Sirius ha iniziato proprio
così…»
riattaccò imperterrito il capostipite. Narcissa
gli diede educatamente le spalle, annunciando il ritorno ai propri
affari con
un colpo di tosse.
«Ammetto
candidamente, Draco, che se non
avessi amato tuo padre, l’idea di abbandonare questo posto
non mi sarebbe
dispiaciuta affatto»
soggiunse
Narcissa, coprendo i rimbrotti di Abraxas Malfoy. Aveva chiesto a
Lucius, da
sempre, di accostare il suo dipinto a quello della madre di suo cugino
Sirius,
certa che avvicinando le due metà perfette della mela,
avrebbero finalmente
ottenuto un silenzio perpetuo. Suo marito aveva sempre avuto i suoi
dubbi in
proposito, tuttavia.
«Tuo
padre— mio nonno, te lo avrebbe
permesso? Sarebbe stato uno scandalo»
osservò Draco, cercando di districarsi tra le complicate
rimostranze delle sue due famiglie. Narcissa lo guardò di
sottecchi, e parlò
abbassando la voce perché suo suocero non sentisse anche di
peggio. «Draco,
a volte l’arte della sopravvivenza
è tutto. O scavalchi l’ostacolo, o lo elimini con
la forza… o lo aggiri. Io lo
avrei aggirato. I Malfoy hanno un discreto numero di residenze, e la
mia famiglia
a quei tempi non era da meno»
spiegò, carica di sottintesi. Draco non faticò a
comprendere cosa intendesse
dire. Sarebbe bastato condurre due esistenze separate, senza spostare
minimamente alcuna firma sulla carta dei loro attestati di matrimonio.
Quando
sollevò lo
sguardo dai propri pensieri, trovò quello di sua madre
adagiato in un
espressione remota, carica della tenerezza timida di un ricordo,
scalfita dal
dolore del tempo presente. «Mi
sarebbe piaciuto che tu conoscessi meglio le mie sorelle. Bellatrix
avrebbe
potuto illustrarti meglio la faccenda. Negli alti e bassi del suo
matrimonio, è
stata perfettamente in grado di lasciar credere a tutta la famiglia
Black-Lestrange
che il loro unico rammarico fosse non poter concepire figli».
«Difficile
ottenerli, se passi il tempo a
seviziare tuo marito, piuttosto che…».
Narcissa
accolse
l’ingresso di suo marito con un sospiro che chiarì
a Draco quanto spesso
entrambi si fossero soffermati a discutere del matrimonio di sua zia
Bellatrix.
Lucius volse a sua moglie un sorriso più simile ad un ghigno
che ad altro.
«Questo
è il momento in cui Rodolphus si
trasforma in vittima sacrificale delle turbolenze di mia sorella»
commentò Narcissa, spegnendo la
sigaretta nel posacenere con aria leggermente innervosita. Draco
comprese che
quello era l’unico modo in cui sua madre fosse disposta a
nominare Bellatrix.
Le consentiva di ricordarla con l’ironia propria del loro
rapporto di sorelle;
quell’affetto sbrigativo ed essenziale, che le aveva viste
incrociare le spade
durante le innumerevoli discussioni su punti di vista ed obiettivi di
vita del
tutto diversi, sui dissensi più banali e pretestuosi e i
risentimenti e le
prese di posizione più serie e gravose. Draco comprese anche
che suo padre
fosse l’unica persona in grado di nominare Bellatrix senza
che Narcissa
mettesse a tacere la questione, con un commento risoluto o un
significativo
colpo di tosse. Li osservò giocare con i propri sguardi,
occupare lo stesso
spazio senza toccarsi e sembrare ugualmente vicini.
«Vorrei
sapere che fine ha fatto, tra
l’altro»
la sentì
soggiungere a mezza voce, in merito a Rodolphus,
e quello fu l’attimo in cui la mano grande e sicura di suo
padre si posò con
una delicatezza insospettabile per le sue fattezze, sulla spalla della
moglie.
Draco si sentì d’improvviso a casa. «Sai
bene che gli basta la sola compagnia di un vecchio
Ogden»
osservò laconico
Lucius, per quanto nel tono rude della sua voce trapelasse una certa
considerazione verso quel Rodolphus che Draco aveva conosciuto di
sfuggita
prima che la situazione degenerasse, durante l’ultima
battaglia. «Questo
è quello che gli avete fatto
credere tutti. Mia sorella in cima alla lista»
replicò leggermente contrariata Narcissa, scuotendo
la testa. Draco si allungò a spegnere la propria sigaretta,
attirando così
l’attenzione di suo padre.
Si
sentì
inchiodato dal suo sguardo, come quando era piccolo e suo padre trovava
sempre
il momento giusto per materializzarsi dall’ufficio al
Ministero: nell’esatto
momento e nella stanza della casa in cui Draco stava facendo qualcosa
che non
avrebbe dovuto fare.
«Il
tabagismo è una moda diffusa, in
questa famiglia»
osservò senza
togliergli gli occhi di dosso. Istintivamente Draco spostò i
propri su sua
madre. Narcissa si limitò a schiarirsi la gola, mentre suo
marito registrava la
presenza di due resti di sigaretta nel rinomato posacenere di Elladora
Black.
«…
di generazione in generazione»
concluse, lanciando un’occhiata a sua
moglie, che conteneva il perché di tutti quegli anni di
matrimonio, pensò
Draco, sempre più frastornato, dall’avere di nuovo
suo padre in giro per casa,
e avere sotto gli occhi dopo una vita passata nella completa
cecità di bambino,
che non fa caso a certi dettagli, cosa volesse dire costruire una
famiglia e
fare di tutto perché resti in piedi, e si preservi nella
splendida imperfezione
che le è propria.
«Mio
marito ha soggiornato ad Azkaban, di
recente»
proclamò
Narcissa in propria difesa, alzandosi dal divano. Si riservò
di incontrare
un’ultima volta lo sguardo di suo figlio, prima di tornare
nelle proprie
residenze, dormendo in un letto che aveva riacquistato consistenza e
dimensioni
originarie, ora che non si perdeva più nella
vastità della solitudine, a cui la
prigionia di Lucius l’aveva sottoposta.
Diede
la
buonanotte ai suoi uomini, lasciandoli soli.
●●●
La
costruzione
di un amore
spezza le vene delle mani
mescola il sangue col sudore
se te ne rimane
La costruzione di un amore
non ripaga del dolore
è come un altare di sabbia
in riva al mare
[Ivano Fossati, La costruzione di un amore]
Quando
Draco era
piccolo, Lucius passava intere notti a guardarlo. Sua moglie fingeva di
dormire, la maggior parte delle volte, per concedersi
l’egoistico piacere di
osservarli da lontano, uno addormentato e l’altro assorto in
pura
contemplazione – perché era quello, che faceva
Lucius, lo contemplava –
e in quei momenti riusciva a condensare in una
sola immagine il progetto di una vita.
Per
il resto del
giorno Lucius si teneva quasi alla larga da Draco. Lo osservava di
sfuggita,
mentre era tra le braccia di Narcissa, ascoltava perplesso e un
po’ interdetto
i suoi strani discorsi fatti di suoni e gorgoglii ma non cercava mai il
suo
sguardo curioso di bambino.
Quando
Bellatrix
e Rodolphus erano al Maniero e giravano intorno alla culla, facendo
osservazioni e squadrando il nuovo erede con vaglio critico, sembrava
costringersi a sopportare l’esame.
La
volta in cui
Draco aveva iniziato a camminare, era sgattaiolato nel suo studio e
Lucius lo
aveva trovato in equilibrio precario, aggrappato al pomello del
cassetto di
mogano. Era rimasto senza parole. Lesse negli occhi di suo figlio
– suo figlio
– la chiara intenzione di conservare quella posizione, che
sembrava non essere
male, e le sue dita piccole e inesperte, ancora vergini della
ruvidità della
vita, scivolavano leggermente e gli rendevano difficile il compito, ma
concentrato lui rimaneva lì, tanto assorto dalla sua
personale conquista che
neanche si era accorto della presenza di Lucius nella stanza.
Lucius
si era
chiesto in quel momento quante altre volte nel corso della sua vita, e
della
loro storia di padre e figlio, Draco lo avrebbe ignorato nel modo in
cui aveva
fatto nel suo studio, totalmente assorbito da se stesso, considerandosi
tanto
importante, più di chiunque altro o qualsiasi altra cosa.
Quella
volta
Lucius aveva sperato che suo figlio continuasse così, su
quella strada, che lo
ignorasse pure, che ignorasse chiunque avesse cercato di convincerlo
che ci
fosse qualcosa di meno importante nella vita del concedersi una
possibilità e
ottenere quello che si vuole.
Decisamente
non
era stato un bravo maestro per suo figlio, se lo aveva costretto a
pagare le
sconfitte di suo padre, a ripagare i conti che lui aveva sbagliato.
«Ho
conosciuto Astoria»
esordì d’un tratto, quando il silenzio
nella stanza iniziò ad essere troppo pesante per la sua
stanchezza d’animo.
Draco sbuffò, confondendo nel fumo la vischiosità
del sentimento che aveva per
Astoria. Pressoché evanescente. Forse del tutto inesistente.
«E’
una brava moglie»
rispose a suo padre, accendendosi
un’altra sigaretta sotto i suoi occhi. Lucius non
poté trattenere un sorriso di
puro e paterno compiacimento, di fronte alla deliberata sfrontatezza di
quel
gesto; di fronte alla libera determinazione delle proprie scelte, che
Draco gli
aveva posto dinanzi. Scorse suo padre agitarsi nel quadro, con la coda
dell’occhio, facendo enormi cenni di dissenso e mormorando
improperi a mezze
labbra, proprio come aveva fatto per una vita intera.
Quell’uomo lo aveva
educato e cresciuto nella ferma convinzione che le cose restino uguali
a loro
stesse nel tempo e negli animi degli uomini, e che la fermezza della
propria
opinione conferisse quel po’ di onore e pomposa lealtà ai propri egoismi e
alle proprie ottuse mentalità. Lui aveva
fatto l’enorme errore di credergli senza discutere.
«E’
per questo che l’hai sposata? Perché è
una brava moglie?»
chiese a Draco,
lanciandogli un’occhiata perforante dalla poltrona in cui era
seduto. Draco gli
rivolse lo stesso sguardo incerto che riservava alle domande retoriche
che
Lucius gli poneva nel bel mezzo di un rimprovero. Teneramente insicuro
su quale
mossa scegliere: portare avanti la propria idea, o rinnegarla per
compiacere un
genitore.
«Tua
madre è la donna più importante della
mia vita, ma non la definirei di certo una brava
moglie»
proseguì suo
padre, loquace come non era mai stato. Draco rimase intrappolato nella
rete di
fascino che quell’improvviso slancio al dialogo da parte di
suo padre aveva su
di lui. «Ha
dichiarato
guerra a mio padre dal primo momento in cui è entrata in
questa casa. Ha messo
il naso nei miei affari, con salvifica indiscrezione, converrai con me.
Non mi
ha risparmiato nessuna critica e ti ha viziato contro ogni buonsenso
ignorando
apertamente ogni osservazione che le ho posto in merito alla faccenda»
concluse trovando in suo figlio la copia
del proprio sorriso sornione.
«Perché
hai sposato Astoria?»
gli chiese di nuovo un momento dopo,
alzandosi per versarsi da bere. Draco osservava il profilo di suo padre
dargli
le spalle. Ripercorse con lo sguardo la linea delle sue spalle, un
tempo forti
e possenti, invincibili ai suoi
occhi
di bambino, ogni qual volta suo padre usciva dalla stanza in cui
avevano
affrontato l’ennesima discussione.
Per
anni aveva
immaginato quelle spalle al proprio fianco il giorno del suo
matrimonio. Ricordò
invece l’ombra dell’assenza di suo padre e il senso
di profondo smarrimento che
lo aveva colto quando voltandosi con le dita di Astoria strette intorno
al suo
braccio, aveva sbattuto contro quell’ombra. Sentì
le parole affiorare alle
labbra, e le strozzò in gola, perché
percepì di nuovo lo sgomento di quel
giorno e stabilì – come aveva stabilito la sera
delle sue nozze – che non
sarebbe stato affatto dignitoso cedervi e rispondere che aveva sposato
Astoria
solo perché era stordito dalla mancanza di suo padre.
Perché non aveva più
tracce da seguire, e non sapeva assolutamente dove mettere le mani,
alzandosi
la mattina.
«Mi
era sembrata la cosa giusta da fare»
rispose infine, le parole come lastre di
ghiaccio taglienti, conservavano quel rancore congelato dal tempo e
dall’orgoglio, quel ritegno offeso in cui si era chiuso
sentendosi abbandonato.
«Avevo
molte
incombenze che pendevano sulla mia testa, papà»
aggiunse e nel pronunciare quelle parole sentì il
filtro della sigaretta spezzarsi netto in due tra la stretta delle sue
dita. «Cercavo
di essere un bravo e più
dignitoso successore—».
Lucius
lo
interruppe, come infastidito da quella risposta, e se Draco non fosse
stato suo
figlio, non avrebbe mai scorto nel gesto secco con cui Lucius
troncò le sue
parole, il profondo rammarico di un genitore dinanzi alla prova della
condanna
inflitta al proprio figlio.
«Non
importa che tu sia bravo, Draco.
Importa che tu sia felice. Io ho voluto essere bravo, il più
bravo, a tutti i
costi, ed ho reso infelici te e tua madre».
«Mi
avrebbe fatto comodo saperlo un po’
prima»
rispose Draco,
senza rendersi conto di aver alzato il tono di voce, di essersi alzato
in
piedi, di aver raggiunto in pochi passi suo padre e con quello di aver
raggiunto anche il baluardo inespugnabile di una intera vita.
«Prima
di fare un figlio con mia moglie,
ad esempio»
aggiunse con
voce tirata, perché non aveva fiato a sufficienza per
combattere il puro
terrore dell’essere padre di un figlio che non era frutto di
alcun amore.
Per
la prima
volta, tuttavia, suo padre lo guardò di uno sguardo limpido
e pulito. Sincero
come lo è la comprensione. «Tuo
figlio sarà tuo figlio per sempre. Anche se ami una donna
diversa da sua madre,
e questo non pregiudicherà l’amore che avrai per
lui».
L’Ogden
d’annata
tremò pallido nel bicchiere che Lucius stringeva tra le
mani. O forse a tremare
erano solo le sue mani.
«Devi
essere sincero. Vivi di verità, è
quella che ti salva».
«Sul
serio? Parli per esperienza?»
domandò sarcastico Draco, perdendosi
nella confusione di quel discorso, miscuglio di confessioni e scuse, di
conforto e di
consigli.
Suo
padre al
banco degli imputati, e lui per la prima volta in alto, dove stanno i
sopravvissuti. Eppure non si sentiva all’altezza di quel
ruolo. Non era a suo
agio in quelle vesti, e nel sarcasmo delle sue parole, pregno di
sentimento
verso suo padre e la sua improvvisa e forse incipiente vecchiaia,
Lucius poteva
averne conferma.
Tuttavia,
quando
si decise a rispondere, non diede alcun cenno di rimostranza per il
tono aspro
e severo, crudamente preciso nella sua accusa, che Draco gli aveva
rivolto.
Sembrava
infinitamente sollevato all’idea di dover sostenere quella
sorta di processo,
sotto gli occhi di suo figlio. Sollevato all’idea di dover
raccontare delle
proprie colpe, di firmare ogni ammissione, di poter spiegare ogni
scelta, di
dover rendere conto a Draco il perché di tutti quegli anni
di lontananza e di
incertezza a cui lo aveva sottoposto.
Sembrava
a suo
agio, lui, al banco degli imputati.
«Non
ho mai nascosto niente a tua madre e
siamo ancora qui. La vita ci ha scalfiti in molti modi,
perché in molti modi
siamo stati insinceri con la vita stessa e le sue regole, ma la vita
che
abbiamo costruito e vissuto insieme non è mai stata
scalfita. Ho mentito sulle
mie intenzioni, abusato del mio potere e del mio ruolo, ho
compravenduto molte
cose e ho tradito persone ed ideali, Draco, ma nessuna di queste
persone è mai
stata tua madre e nessuno di questi oggetti è mai stato
l’amore che ho per lei.
Sii
onesto con la
donna che hai al fianco. Sceglila».
Le
sue mani di
padre sulle spalle di un figlio ormai diventato adulto.
«Hai
capito cosa ti sto dicendo?»
Il
netto rifiuto
all’arrendevolezza ad ogni fatalismo.
«A
tua madre non ho davvero mai nascosto
niente. Né le mie sconfitte, né il mio amore per
lei».
La
caparbietà
dell’amore di un padre, che mai lascerebbe andare alla deriva
la vita del
proprio figlio, a costo di dover inventare il tempo e altre
possibilità. A
costo di mettere a nudo tutti i propri errori, perché non
vengano ripetuti da chi
saprebbe evitarli. A costo di riconoscersi uomo, da Dio quale ha finto
di
essere.
«Sì,
ho capito papà»
mormorò Draco, con un sorriso stanco,
sapendo già a chi sarebbero appartenuti i suoi sogni quella
notte.
Sii
onesto con la donna che hai al fianco.
Sceglila.
---
Al solito vi chiedo scusa per i tempi di aggiornamento, non nascondo
che questo capitolo mi ha ucciso senza pietà, stavolta
niente alieni e - purtroppo - niente David Bowie a farmi da scusanti XD
E' la nuda e cruda verità.
Ma l'attesa futura sarà inferiore all'annata (le ultime
parole famose...) di sicuro, perchè ormai la storia
è quasi conclusa XD in non oltre tre- quattro capitoli al
massimo (vedi parentesi sopra) ^_^
I ringraziamenti, dovutissimi!
Melisanna:
Innanzitutto grazie per
aver lasciato un commento e per le cose che hai detto riguardo lo stile
^^
L'OOC è una tentazione forte quando si parla degli
Slytherin, perchè stando al modo in cui la Rowling li ha
trattati qualsiasi tentativo di approfondimento psicologico sarebbe OOC
XD
Per quanto riguarda Draco, il definirlo "codardo" è un
definirlo tale con tutto l'amore che ho per lui. Secondo me
è giusto dare alle cose il proprio nome, e credo che la sua
"codardia" gli faccia onore in quanto ad umanità, se solo la
sua autrice avesse dedicato più spazio alle sue scelte, ma
capisco che il protagonista era un altro XD ed è una pretesa
fuori luogo tutto sommato =P
La riflessione che hai fatto sulle donne in un certo senso è
molto vera, ha fatto riflettere anche me ^^' Credo che queste donne
abbiano avuto maggiore possibilità di analisi delle vicende,
perchè tutto sommato le hanno vissute al fianco degli altri
protagonisti. Tu sei molto più "forte" di me nel definire
Draco e tutti gli uomini "vili" XD io purtroppo subisco il fascino di
alcuni di loro e mi perdo nei meandri delle loro psicologie scavando
per delle giustificazioni =P
Theodore è un amore di uomo, vero? Alla fine secondo me
è quello che infrange la regola, è l'uomo vero
della situazione, quello consapevole di sè, che prende le
sue scelte e accetta le proprie impossibilità e i propri
errori. E' uno che tutto sommato ci
ha provato. Ed è stato davvero l'unico a farlo,
in tutta la vicenda, per questo merita tutto l'amore possibile :)
L'unico ad avere le palle di rischiare.
Grazie ancora *__* Le tue recensioni sono state bellissime ^^
Meredith91:
*ama aver trovato qualcuno che ami a sua volta Going to California e se
ne commuove sine dignitate alcuna* Sono felice che abbia
apprezzato la parentesi Pansy/Theo, sono molto affranta per la loro
situazione in realtà XD ma è anche vero che Theo
incarna un pò le mazzate che la vita ti regala con un niente
^^ Amando fa la cosa più rischiosa che possa capitare ad un
essere umano, e dicendolo ad alta voce raddoppia il pericolo XD E
sì, i quadri di casa Malfoy sono decisamente troppo loquaci
=P Fossi stata in Pansy sarei tornata con un cerino il giorno dopo -_-
La storia è agli sgoccioli, nel senso che prevedo massimo
due capitoli + epilogo o qualcosa del genere, di certo non di
più :) E' questione di tirare le redini della faccenda, ma
ormai tutto è disposto a puntino, bisogna solo raccontarlo
XD Il che mi mette un pò tristezza ç_ç
Grazie per il commento :*
Entreri: ...
chiedo scusa per aver deluso le speranze di un nuovo capitolo in tempi
se non brevi almeno non decennali *si nasconde* E' in parte colpa della
famiglia Malfoy che nelle sue dinamiche mi crea sconvolgimenti
psicologici tutte le volte. La fine è dietro l'angolo, che
sia lieta poi ovviamente giudicherai tu, ma tieni conto che alla fine
sono perdutamente innamorata di questi Sly, non potrei fargli troppo
male. Se non altro non più di quanto non se ne facciano da
soli XD Un bacio cara :* (e scusa ancora!)
Nissa: Quel
discorso ha distrutto anche me ^^ E in realtà credo che
Pansy veneri Narcissa perchè la sottoscritta lo fa XD Ma
come si potrebbe non farlo? Blaise si inchina e ringrazia,
perchè si sente capito XD La sua ironia è come
l'arma che ha scelto di brandire per andare avanti, quando è
stanco o si sente piccolo e nero come Calimero sconfina nel sarcasmo ^^
è il suo veicolo d'espressione, povero caro. E del resto si
è scelto come amici due musi lunghi che di sicuro non hanno
come miglior pregio la simpatia e l'ottimismo XD E Theo mi fa sapere
che con molte probabilità rifiuterà
l'eredità di suo nonno, per protesta ^^
Quella scena con Pansy è stato un peso enorme sul mio
groppone, sono felice che abbia sortito delle "reazioni" emotive in chi
l'ha letta ^^ E non hai scritto nessuna castroneria, tranquilla =P
Anche perchè la mia lucidità lessicale all'una e
quaranta di notte è pressocchè inesistente XD
Grazie per il commento e la presenza =) Un bacio =*
Seiryu:
*sentitamente ringrazia* Ho riletto le recensioni più volte
e ancora non so precisamente cosa dire ^^ Per lo stile forse la colpa
è di D'Annunzio e del fatto che mi sono nutrita dei suoi
romanzi per gran parte di questi anni XD (ma mi dissocio da qualsiasi
sua altra attività al di fuori della letteratura, ecco u.u).
Sono contenta anche che tu abbia riso con Blaise, secondo me
è dotato di grande comicità in realtà,
ed è anche abbastanza egomaniaco per poter essere un uomo da
palco XD Mi sono divertita da morire scrivendo del ricevimento o della
visita a casa di Draco per la consegna dell'invito, ad esempio =P
Draco e Pansy per me sono qualcosa di *sublime* ma sono profana di
tanti altri pairing quindi capisco cosa intendi :) Quella folgorazione
del XII capitolo è venuta fuori da sola, forse proprio
perchè io sono profondamente (e vanamente
ç_ç) convinta che quando due persone sono fatte
per stare insieme, arriva il momento in cui gli eventi, la vita, lo
specchio, il tuo io e super io, te lo sbattono in faccia e poi tu puoi
fare quello che ti pare, ma tant'è e le cose stanno
così ^^ Anzi che il giovane s'è dato una
svegliata... per i suoi standard, è commovente XD
Lieta anche di sapere che concorsi sui cavilli giuridici di Lucius *_*
Dato che detesto la Rowling ed è risaputo, mi è
stato fatto notare che potrei accusarla di qualunque cosa XD ma su quel
particolare dettaglio ho sempre insistito nel proclamarmi fedele ai
criteri di giustizia più che al mio astio verso l'autrice u.u
Amo indegnamente anche il fatto che ti siano piaciute le canzoni citate
^^ per me sono le colonne portanti della mia sfera emozionale (*emotiva
le sembrava troppo...*), un pò la soundtrack di una vita
fino ad ora, oltre al fatto che alcuni sono i Grandi Autori per cui
potrei anche ipotecare la casa/vendere un rene ecc... XD
Grazie infinite, infinitissime, per la recensione che hai lasciato :)
*inchino a sua volta*
|
Ritorna all'indice
Capitolo 16 *** XVI: Congedi ***
The way we were
XVI
Congedi
Looking for another
place
Somewhere else to be
Looking for another chance
To ride into the sun
[Velvet Underground –
Ride into the sun]
«Pans,
sei
sicura di quello che stai facendo?»
Pansy
sollevò lo
sguardo dal proprio baule, con aria critica.
«Sì,
in effetti
il cachemire ha fatto il suo tempo» mormorò
poggiando il maglione che aveva tra
le mani sul letto. Millicent valutò se ucciderla ora o
concederle prima il
tempo di finire la valigia. Sapeva che Pansy mal tollerava le questioni
incompiute.
Tuffò
allora le
dita nelle pieghe morbide del maglione. La trama di quei fili di lana
lavorata
raccontava di Natali ad Hogwarts, di pomeriggi invernali spesi a
passeggiare
nel parco del castello, o in pigre camminate per le vie di Diagon
Alley. La
macchia del caffè che Theodore aveva rovesciato addosso a
Pansy una mattina di
febbraio, durante la colazione, era stata sapientemente rimossa, ma
Millicent
poteva ancora vederne le tracce. Ed era certa che lo stesso valeva per
Theodore, e per Pansy.
«Non
parlavo del
maglione» fece comunque notare ad alta voce. Pansy non si
mostrò sorpresa per
un fraintendimento che in realtà non c’era mai
stato. Neanche si voltò a
guardarla, proseguendo nella difficile arte dell’inserire se
stessi in un
baule.
«Milli»
iniziò,
chiamandola con quel vezzeggiativo che non utilizzava quasi mai. Ma non
aggiunse altro. Avrebbe voluto spiegarle tutto dall’inizio,
ma c’erano troppi
anni di silenzio da recuperare, e lei era così stanca delle
parole. Avevano un
suono melodico e giusto, ma sposavano in modo distratto e incostante la
volubilità degli umani sentimenti. Le sarebbe piaciuto
essere in grado di farsi
capire, di saper spiegare, ma le risultava difficile aprire la scatola
e
tirarne fuori tutti i segreti e le piccolezze che vi aveva riposto nel
tempo.
La solitudine a cui le aveva costrette non aveva fatto altro che
amplificarle.
Millicent
attese
a lungo il resto della frase. Lo desiderava, e forse dopo tutti quegli
anni di
conoscenza, che a ben vedere erano di amicizia, lo pretendeva. Ma
sapeva
perfettamente che niente, niente, poteva essere estorto a Pansy
Parkinson. E
che, tutto sommato, Pansy per prima non riusciva ad estorcere mai
niente a se
stessa.
Così
attese
ancora, mentre la aiutò a scegliere i vestiti, a riporre
ogni gioiello nella
propria custodia di origine, a raccogliere le poche parti di
sé che aveva
adagiato nella camera da letto. La osservò, in un silenzio
di protesta,
continuare ad impacchettare e mettere da parte, metodica, analitica.
«Ecco
fatto» disse
infine, Pansy, con un sospiro. Si guardò intorno, le mani
sui fianchi, dove
sarebbero state ferme, e avrebbero smesso di tremare. «Ho
lasciato qualcosa
fuori?» chiese più a se stessa che a Millicent.
«Forse un po’ di considerazione
per me» le giunse in risposta. «Un
po’» aggiunse avvicinando indice e pollice,
visto lo sgomento negli occhi di Pansy.
«Guarda
che lo
so, Pans» proseguì, approfittando per la prima
volta della non reazione di
Pansy. Tanto ormai si conosceva abbastanza bene, lo aveva saputo da
subito che
quella retorica del silenzio non le si addiceva molto.
Perché Pansy le faceva
sempre quell’effetto, di violenta emozione.
Poteva
detestarla e invidiarle la sua spiccata femminilità fino a
farsi venire il mal
di stomaco; e poteva trovare insopportabile la
superficialità apparente in cui
avvolgeva i suoi stati d’animo; e disprezzava quel vizio che
aveva, di puntare
al ribasso nei confronti dei propri desideri, e quella codardia
nell’osare ad
avere di più rischiando di perdere qualcos’altro;
e poi tutto quell’astio e
quella rabbia verso Pansy, riuscivano a trasformarsi di colpo nella
più
efferata tenerezza di fronte alla durezza dei giudizi che riservava a
se
stessa, di fronte alla chiusura quasi dogmatica con cui sceglieva per
sé di non
concedersi seconde opportunità, di fronte a quella triste e
dolorosa incapacità
di godersi un giorno, un solo giorno, nella propria vita, con la
soddisfazione
sfacciata e goduriosa di chi ha qualcosa per le mani e lo sfoggia
davanti a
tutti.
Come se non
fosse dignitoso, essere felici.
Come se
fosse un
vestito della taglia sbagliata.
«Lo
so molto
bene come ci si sente ad avere un’idea dell’uomo
che vuoi accanto, e trovartene
vicino uno diverso».
«Millicent—»
«No,
non cambiamo
argomento. Oggi decido io qual è l’ordine del
giorno. L’ordine del giorno è che
ti sei chiusa, per anni, in questa esclusiva rassegnazione, in questo
dolore
così privato, così inspiegabile, da non poterne
parlare con nessuno, neanche
con me. Certo, c’è Blaise, che è il
più prezioso dei consiglieri, lui sa come
sei fatta, lui ti capisce come pochi in questo mondo. Ovviamente. Ha i
tuoi
stessi difetti, è la tua copia al maschile, e indovina, non
ti ha mai suggerito
niente di veramente utile, niente che potesse strapparti da questo
mucchietto
di miseria e tristezza. Da questa povertà di sentimenti!
È povero quanto te,
lui» sancì con una durezza tale da legittimare la
severità di quelle parole.
«Quindi
va bene,
partire. Vuoi andartene? Vattene. Se pensi che i francesi ti mettano di
buon
umore, parti pure, chi ti ferma? Di certo non ti voglio qui, con il
muso lungo
e l’atteggiamento della martire ad un passo perenne da una
morte che non
arriva. Saresti ancora più insopportabile della versione
originale».
Si
fermò, perché
non era allenata ad essere così arrabbiata.
E a quel
punto,
Pansy rise.
Come le
capitava
da bambina, per qualcosa di divertente.
E non il
sorriso
sardonico di chi la sa lunga. Né il sarcasmo a cui
aggrapparsi per trasformare
in ironia l’ennesimo sgarbo del fato. Scoppiò a
ridere come succede davanti a
qualcosa di assurdo.
«Non
c’è niente
da ridere» la redarguì Millicent, più
sbalordita di lei. «Non ridere Pans, non
hai idea di quanto sia seria» insistette, con un tono di vaga
minaccia che non
si addiceva affatto alle blande rimostranze con cui cercava di
convincere gli
altri a considerarla, nei momenti critici.
«Non
hai idea»
aggiunse a bassa voce. Poi si zittì, fino a quando il
silenzio tornò ad
avvolgere la stanza.
«Lo
so» disse
allora Pansy, sedendosi accanto a Millicent, sul letto.
C’era
una
morbidezza nuova, nei suoi movimenti, osservò Millicent con
una stretta di
paura allo stomaco. Una differenza incredibile rispetto al nervosismo
con cui
compiva ogni gesto, nella quotidianità. Era la traccia di
una linea di confine
tra un prima e un dopo. La drasticità, a Millicent, non era
mai piaciuta.
«Hai
ragione»
disse ancora Pansy, guardando in basso, gli zigomi rilassati dopo la
tensione
di quella risata.
«Lo
dici per
farmi stare zitta» mugugnò Millicent, rifiutando
di sedersi vicino a lei.
«Tu
non stai mai
zitta, a che servirebbe?» le fece notare Pansy, con la solita
gentilezza. «Tu
non stai mai zitta. Niente funziona, con te. Blaise non ti ha mai
guardata,
mai, eppure tu continui a spasimare per lui, al limite
dell’imbarazzo».
Millicent fece per dire qualcosa, ma lasciò perdere.
«Ad Hogwarts hai vissuto
in un covo di serpi, ti sei fatta quasi sbranare dalle leggi del branco
e poi
alla fine ne sei uscita perfettamente integra. Così come eri
entrata:
decisamente inadeguata, per essere una Slytherin. Però,
fedele a te stessa».
Millicent sentì la gola chiudersi in un nodo stretto.
«Che vuoi dire?» mormorò
sentendosi quasi apprezzata da Pansy. Era pericoloso cedere alla
lusinga di
quell’illusione, ma era pur vero che non le aveva mai parlato
in quel modo.
«So
che tu
resteresti qui, Millicent, se fossi al mio posto. Io non so adattarmi e
non
accetto né tollero sconfitte. Non sono così
integra, non so smussare gli angoli
né levigare una ferita».
Millicent
pensò
che avrebbe anche potuto piangere, per l’occasione. Non si
sarebbe mai
aspettata che Pansy la dipingesse in quel modo.
Aveva sempre
immaginato tratti spessi e pennellate asimmetriche e grossolane. E
invece
scopriva che Pansy in lei vedeva un equilibrio. Si sentì di
colpo forte,
fortissima.
«Non
arrabbiarti» soggiunse Pansy, con voce sottile, alzandosi dal
letto. Si mosse
rapidamente, tornando alla nervosità nei gesti cui il mondo
era solito vederla.
«Questo
tienilo
tu». Strappò Millicent dalla commozione che
l’aveva sopraffatta, agitando la mano
perché le desse retta. Quando si voltò verso
Pansy, Millicent la vide porgerle
il maglione di prima, già innervosita per il tempo che le
stava facendo perdere
distraendosi dietro i soliti sentimentalismi. «E’
rimasto un po’ l’alone» la
avvertì, con una nota di malinconia a scenderle sugli occhi
scuri. «Te lo dico
per evitarti di metterlo al ricevimento dei Midgen sabato
prossimo».
Millicent
prese
il maglione, titubante.
«Non
vuoi
lasciarlo a Theodore?»
Pansy
alzò gli
occhi al cielo, disgustata al solo pensiero. «Non
esageriamo» rispose
seccamente, immaginando che a Theodore avesse lasciato anche fin troppo
di sé,
e che fosse insindacabilmente giusto lasciarlo in pace una volta per
tutte,
libero della presenza ingombrante di quel sentimento a metà
che li aveva
soffocati negli anni della loro maldestra convivenza.
«Allora,
c’è
altro?» domandò di nuovo Pansy, chiudendo
già il baule.
Millicent si
morse l’interno della guancia, incerta.
«Ci
sarebbe
Draco, da salutare».
*
We met when we were
almost young […]
You held on to me like
I was a crucifix,
as we went kneeling
through the dark.
[Leonard Cohen – So
long Marianne]
I giardini di Hogwarts non
erano altro che una
landa desolata e preda di se stessa, da quando la guerra si era
conclusa.
La
Restaurazione
del resto si era concentrata su aspetti più vitali sotto un
profilo sociale, come
la redazione di una nuova costituzione, questa volta scritta; o una
politica di
ripresa economica che togliesse d’impaccio gente come i
Weasley dalla
miserevole condizione esistenziale in cui versavano dalla fine della
guerra.
Mutilato il loro fondo fiduciario alla Gringott, drasticamente a corto
di
denaro liquido, bruciato nella ricostruzione dell’abitazione,
nelle spese
mediche per i reduci. Del resto, i lasciti della guerra avevano ferito
le
famiglie ben più a fondo della consistenza dei loro
patrimoni.
La scuola di
Hogwarts era passata in secondo piano. Nessuno aveva davvero
più voglia di
voltarsi indietro e tornare sullo scenario di distruzione che era
diventata. Il
baluardo di una fiorente e sapiente cultura, il vanto nazionale della
Londra
magica, si era rivelato essere il terreno che aveva ospitato sementi
velenose e
degeneri. Era diventato solo il simbolo di colpa. Di chi aveva lasciato
proliferare una progenie infetta.
Nessuno
aveva
davvero più il coraggio di varcare i cancelli. La sede
succursale che il
Ministero aveva fatto edificare risultava più spoglia e meno
carica di storia,
ma andava più che bene. Non godeva di alcun prestigio, ma le
pareti bianche, di
mattoni chiari, erano meno spaventose e generavano meno superstizioni.
Nessuno
più
metteva piede nelle proprietà della antica Scuola di Magia e
Stregoneria.
Tranne chi in fin dei conti non si sentiva del tutto assolto, dalla
conclusione
del conflitto. Tranne chi, tutto sommato, aveva lasciato una piccola
parte di
sé, forse quella migliore, annidata tra quelle mura.
Varcando i
cancelli, Pansy sperò che la codardia vincesse contro la
necessità di vedere
Draco ancora una volta. Si impose di andare via, ma
disubbidì ai propri ordini.
Lo attese, invece, nel punto esatto in cui gli aveva chiesto di
raggiungerla.
Vagò
con lo
sguardo, abbracciando il giardino del castello. I colori stinti dal
tempo e
dall’incuria le appesantivano il cuore. Si sentiva sfiorita
anche lei, e
sapeva, lo sapeva bene, che qualcuno in quel giardino era appassito, e
non
avrebbe potuto incontrare i germogli di una nuova vita, di una seconda
possibilità.
Draco si
materializzò senza fare rumore. Camminò
calpestando l’erba secca sotto i suoi
piedi, cercando con apprensione la figura di Pansy. La intravide,
là dove un
tempo si stagliava il Platano Picchiatore, ora ricurvo su se stesso.
«Non
riuscivo a
trovarti» esordì, spaventandola, nel rompere il
silenzio rarefatto intorno a
loro. «Troppa gente» aggiunse, con un sorriso
ironico. Pansy replicò quel
sorriso, inclinando leggermente la testa, per accogliere il suo arrivo.
Draco
lesse una cautela particolare, nel suo comportamento. Come se stesse
cercando
di fare poco rumore, di non lasciare tracce. Respirava piano, come per
proteggersi dall’odore forte del bosco vicino a loro.
Comprese che stava
portando avanti una difficile opera di astrazione, nel tentativo di non
caricarsi le spalle con il peso di ricordi troppo nitidi.
Era
implicito
nel languore dei suoi occhi, desiderosa di averlo vicino e timorosa di
essere
accontentata, che quella era una delle ultime volte.
«Sei
pallida»
mormorò, solo per rompere il silenzio. Le sue dita gelate
dall’umidità si
avvicinarono al viso di Pansy. Sapeva già dove si sarebbero
posate, la
consistenza della sua pelle, il modo in cui la propria mano avrebbe
accolto il
profilo del suo volto. Lei si lasciò toccare, trattenendo un
sospiro. «Anche tu
non hai una bella cera. Come al solito.» osservò,
molto più sincera.
Draco
allontanò
la mano, memore della notte trascorsa. Astoria non gli aveva permesso
di
chiudere occhio. La gravidanza aveva portato sonni inquieti e nausee
perenni. E
lui non aveva la stanchezza tenera di un marito, nei suoi confronti.
«Perché
mi hai
chiesto di vederci qui?» domandò cambiando
discorso, tornando a loro. Pansy
scrollò le spalle.
«Domani
parto»
disse infine. Le parole le si spezzarono in gola. Erano acuminate, come
il loro
significato. «Avevo bisogno di chiudere il cerchio»
spiegò, come se dovesse
giustificarsi. Draco non disse niente. Le mani affondarono nelle tasche
dei
pantaloni, allo stesso modo in cui lui si sentiva sul fondo di un
baratro. Doveva
aspettarselo, da Pansy, cercò di raccontarsi, mentre il
silenzio si contorceva
di nuovo tra loro, e lei iniziava a camminare.
«Parti?»
ripeté,
coprendo i suoi passi con i propri, e raggiungendola. Pansy non si
voltò, ma
lasciò che le camminasse a fianco.
«Domani
mattina»
aggiunse.
«E
dove vai?»
«In
Provenza».
«In
Provenza, e
dove vivrai?» chiese ancora, le parole a rincorrersi tra
loro, la voce a
tradire una nota di panico o forse solo disperazione, in un crescendo
di
consapevolezza e frustrazione che gli stringevano lo stomaco e
pungevano la
gola.
«Il
padre numero
tre di Blaise, gli ha lasciato un—» ma lui non era
più lì, era già altrove. Al
giorno dopo, e a quello dopo ancora, al resto della vita, vissuta
sapendola
lontana, intrecciata a quella di altre persone e altri luoghi diverse
dalle
persone e luoghi che avevano a che fare con lui.
«Di
cosa
vivrete?» la interruppe di nuovo.
Pansy smise
di
camminare. Lo guardò negli occhi, pensando che almeno quello
avrebbe voluto
ricordarlo.
«Non
sai neanche
il francese».
«Sono
innamorata
di te» gli disse, con una fermezza nella voce che gli fece
perdere qualsiasi
senso di equilibrio e misura. C’era ancora quella
imperfezione di fondo, nelle
cose belle che capitavano loro. Una tristezza sottesa in qualunque
piacevolezza
gli capitasse. «Ma avrai notato che l’amore di per
sé non è sufficiente».
Draco
distolse
lo sguardo, come bruciato dal fervore degli occhi di Pansy.
«Questo
è il
momento in cui devo fare la parte di Potter?»
domandò a denti stretti.
Barricandosi dietro l’infantile vittimismo dei tempi
d’oro.
«Prova»
replicò
lei, sentendo il sangue affluirle al viso «magari mi
sentirò meno addolorata,
lasciandoti».
Non le
giunse
risposta. Tenne gli occhi ostinatamente fissi nella lontananza davanti
a lei.
Non guardava niente, le bastava non vedere Draco, e la luce che di
sicuro aveva
squarciato il suo sguardo; e le parole che avrebbe voluto dire ma che
aveva già
negato ad entrambi; e la posa rigida delle sue spalle. Del resto, lei
aveva già
parlato abbastanza. E non c’era niente, di quello che voleva
sentirsi dire, che
avrebbe potuto essere detto.
Draco
allungò un
braccio, sicuro di trovarla.
Non le
giunse
risposta, perché lui la baciò.
*
«Ti
aspettavo».
La sua voce
risuonò decisa, sbattendo contro i soffitti alti della
stanza, e spegnendo il
proprio eco nel gorgoglio del firewhiskey che Blaise stava versando nel
bicchiere.
«Lo
sforzo del
congedo lo fa chi è in partenza, di solito» gli
fece notare Draco, gettando il
mantello sulla sedia nell’angolo.
Prese il bicchiere che Blaise
aveva appena preparato
per sé, e lo svuotò.
«Tra
quanti
bicchieri pensi di voler fare a pugni?» si informò
l’altro, arrotolando le
maniche della camicia.
«Troppo
facile,
ora che te lo aspetti» ribatté aspro Draco,
sbattendo il bicchiere sul
davanzale.
Le dita di
Blaise si incastrarono tra i polsini della camicia, e se Draco fosse
stato meno
furioso avrebbe avuto l’occasione di accogliere quel
nervosismo come la più
sincera delle prove d’amicizia.
«Bene
allora»
disse per fratturare il silenzio teso tra loro «Sbrigate le
formalità di
nunzio, possiamo scambiarci vigorose pacche sulle spalle e salutarci
virilmente» propose senza riuscire a nascondere nella propria
voce l’inusuale
nota di panico che lo stava lentamente avvolgendo. Gli sarebbe
dispiaciuto non
poco scoprire proprio in quella circostanza, e con pessimo tempismo, di
avere
discreti – per non dire seri – problemi con i
saluti prolungati.
«Sei
decisamente
uno stronzo, Blaise.» Il ruggito nella voce di Draco copriva
il silenzio di una
tristezza appena scoperta.
Blaise non
si
scompose troppo. «Dai conferma a qualcosa che ho sempre
sospettato» disse, e
avrebbe aggiunto altro se Draco non lo avesse afferrato per le spalle,
sbattendolo con ben poca delicatezza contro l’armadio dietro
di lui.
Persino
nella
posizione di preda, Blaise non rinunciò al sardonico sorriso
con cui di solito
riconosceva e accettava l’univocità comunicativa
del suo amico.
«Primitivo.
Avresti almeno potuto proporre un duello» mormorò,
guardando negli occhi quello
che a conti fatti era stato il suo compagno di vita.
Non aveva
assolutamente niente in comune, con uno come Draco. Non aveva i suoi
modi
irruenti di fare a pugni con le contingenze della vita, e non capiva
come gli
fosse possibile cedere con così banale naturalezza al
panico.
Blaise era
un
accorto stratega e Draco un ottimo duellante. Amavano le belle donne,
ma Blaise
non conosceva la volgare esclusività che pretende chi
è posseduto dall’amore, e
non aveva mai conosciuto la gelosia che invece sapeva impadronirsi di
Draco con
un niente, quando qualcuno guardava Pansy o la nominava invano.
Credeva
nell’amicizia e in poche altre cose – nel diritto a
disporre della propria vita
come meglio si crede, nella superiorità del fine rispetto ai
mezzi, sebbene pur
sempre con eleganza e sapienza diplomatica – e osteggiava
qualunque operazione
di mercanteggio ma sapeva perfettamente che per Draco avrebbe venduto
anche se
stesso. Al giusto prezzo, si intende.
Eppure in
quelle
loro irriducibili contraddizioni, avevano trovato il senso di
un’amicizia.
«Non
vali un
duello, idiota» ringhiò Draco vicino al suo
orecchio. Le sue mani grandi erano
premute con decisione sulle spalle più esili di Blaise e
tutto quello a cui
riusciva a pensare era che il suo migliore amico se ne stava andando, e
che in
parte fosse colpa sua, e che non sapesse come chiedere scusa per non
aver
lasciato intendere di aver capito, se non tutto, qualcosa, di quello
che gli
stava succedendo negli ultimi anni.
«Per
caso questa
dimostrazione di forza belluina è una metafora per spiegare
l’ardore dei tuoi
sensi di colpa verso di me?» interpretò a chiare
lettere Blaise, concedendo a
Draco il permesso di allentare la presa con un certo sollevato
sgomento.
«Il
solito
egocentrismo dei Malfoy, ritenersi responsabili.»
proseguì per la sua strada
Blaise, scoprendo di aver la gola in fiamme, come se quel firewhiskey
lo avesse
bevuto sul serio, in un sorso. «Il vero motivo del mio addio
al Tamigi è che
Londra mi sta stretta, Warrington non è più uno
spacciatore di qualità, le
francesi sono molto seducenti e, in ultimo—» si
interruppe, liberandosi con una
elegante ma ferma scrollata di spalle della presa di Draco
«In ultimo, dicevo, se
resto in questo posto un solo giorno di più,
perderò completamente la testa.»
C’era
una nota
di rassegnazione nella sua voce, di compunta tristezza e di infinita
stanchezza, racchiusa in quelle parole, e Draco scoprì di
essere perfettamente
in grado di comprenderlo. «Per fortuna non sono stato
così sconsiderato da
sposare un manichino e metterlo incinta» si sentì
in dovere di aggiungere
Blaise. Draco sentì di nuovo la voglia di inferire su di lui
fisicamente.
«Altrimenti avrei avuto dei problemi squisitamente legali,
per la partenza».
«Ti
ripeto, sei
decisamente uno stronzo. Dove andate a stare?» chiese Draco,
dal momento che
non aveva permesso a Pansy di rispondere a quella domanda. Il pensiero
di lei schiacciò
con violenza e con ardore tutti gli altri.
«Legato
testamentario del padre numero tre».
Draco
affondò le
mani nelle tasche dei pantaloni.
«Avrei
fatto lo
stesso» disse infine, esausto.
«Se
fossi stato
un po’ più furbo» acconsentì
Blaise.
*
«Non
mi chiedi
di scriverti una volta al mese?»
Silenzio,
dall’altra parte.
«Di
prendermi
cura di lei, con amore e dedizione, in tua vece?»
provò ancora.
Avvertì
i denti
dell’altro battere tra loro, e con quello si
accaparrò la vittoria.
«Sai
bene che è
l’unica che non toccherei a meno di non avere le mani
d’oro.»
«Non
le ho
chiesto di aspettarmi.» disse Draco, in totale autonomia
dalle idiozie che
stava blaterando Blaise alla sua sinistra. Ottenne in cambio un
silenzio
considerevole di rispetto. Di breve durata.
«Direi
che non
potevi permettertelo.»
Sorrise,
Draco,
sentendo l’amarezza corrodergli la gola, avvelenando i suoi
pensieri. Aveva
molto di cui occuparsi, e nessuna forza per farlo. Nessuna idea di come
adempiere al suo ruolo di marito di Astoria, e l’immagine
netta e tagliente
invece di che uomo sarebbe stato al fianco di Pansy. Senza bisogno di
inventare
un se stesso adatto all’occasione. Era già pronto,
per quello.
«Ma
tutto
sommato non ne hai bisogno.»
Blaise lo
guardava fissamente, attendendo paziente che l’altro avesse
il coraggio di
incontrare il suo sguardo e accettare il conforto di quelle parole.
«Oltre
a non
poterlo pretendere, per quanto preferirei che così fosse,
non riesco neanche ad
immaginarla, Pansy, avvolta in una castità devota.»
Fu quasi
costretto a sputare quelle parole dalle labbra, ché la sua
bocca non voleva
saperne di dare una possibile concretezza all’immagine di
Pansy intenta a fare
l’amore con un altro uomo.
«Se
non fosse alquanto
ineducato e blasfemo vista la tua posizione, dovresti fare quattro
chiacchiere
con Nott. Sono certo che avrebbe preferito la castità,
piuttosto che averti nel
letto lo stesso.»
Draco e
Blaise
si scambiarono uno sguardo univoco, con identici sorrisi.
Pansy li
trovò
vicini, spalla contro spalla, avvolti in questo silenzio tipicamente
maschile e
quasi non volle disturbarli.
«Uomini»
li
richiamò invece «Vogliamo andare?»
disse, senza guardare Draco, quando la barriera
delle loro schiene si spezzò, al loro voltarsi.
*
«Astoria»
chiamò
Draco, quella sera, rientrando a casa. Aveva il mantello carico di
pioggia e il
viso pallido. Sembrava sofferente, si disse sua moglie, incontrando la
sua
figura nell’affacciarsi in salone.
Il cuore guarisce sempre pensò
sperando
che fosse vero.
«Dobbiamo
parlare» disse Draco, serio.
«Non
vuoi
toglierti il mantello? Stai bagnando il pavimento.»
«No»
disse di
nuovo «Dobbiamo parlare».
--
Note
Non credo esista neanche una lingua adatta alle scuse, stavolta XD
Tuttavia, questo era l'ultimo capitolo, con l'epilogo The Way We Were
avrà una conclusione (lo giuro, lo giuro.)
Grazie a chi ha pazientemente ( o non pazientemente atteso), a chi si
è riservato di leggere e a chi anche di commentare :)
Melisanna_:
Riguardo Lucius, in realtà si è trattato di un
discorso padre-figlio, più che di una sua rilettura della
propria coscienza sociale =P Probabilmente avrebbe rifatto tutto
ciò che ha fatto, e lo rifarebbe anche in futuro se se ne
presentasse l'occasione, quello che gli premeva di fare capire al suo
pargolo è che conviene essere sinceri con le donne che si
hanno al fianco, e quindi conviene anche scegliersele e non lasciare
che cadano dai peri, altrimenti le cose si fanno scomode!
(Probabilmente è un refuso dei miei studi sul diritto di
impresa, per cui sono rimasta profondamente colpita dal fatto che il
coniuge di un imprenditore fallito si presume in malafede XD Dunque,
sempre meglio aggiornarsi). Grazie per il commento, un bacio.
sweetchiara:
no problem :) sono un talento nell'arte di accumulare impegni e cose
varie, e nel ridurre il tempo a disposizione per il resto e
recensire non è un obbligo =P (L)
Nano: Ci
siamo già dette tutto, right? XD
Heike: Che
dire, grazie. Davvero. ^_^ Mi fa piacere poi leggere di un Nott oggetto
d'amore, mi sono resa conto con lo scrivere che è davvero il
personaggio principe tra tutti gli altri, le sue ossa rotte hanno forse
una dignità che nessun'altro ha avuto o si è
saputo tenere in un malloppo di 16 capitoli ^^ I tempi di aggiornamento
non sono stati proprio celeri, ma alla fine ecco qua il capitolo.
Grazie ancora per il commento così curato e partecipato :)
|
Ritorna all'indice
Capitolo 17 *** 17. Oltremanica ***
The
way we were
XVII
Oltremanica
There
are times that walk from you like some passing afternoon,
Summer
warmed the open
window of her honeymoon
«Pans?»
si affacciò la voce di Blaise
dall’interno.
Pansy
sollevò pigramente la testa dai
fiori di oleandro che stava osservando da lunghi minuti.
«Sono
sulla terrazza» avvertì.
Tre secondi dopo
Blaise fece la sua
apparizione, lanciandosi occhiate guardinghe alle spalle.
«Metti
la fede» disse sbrigativo,
lasciando perdere le proprie spalle e affacciandosi dalla terrazza, per
scrutare l’orizzonte.
Pansy non
partecipò minimamente alla
sua agitazione, limitandosi ad uno sguardo piuttosto critico.
«Ci
risiamo?» domandò soltanto,
facendo apparire la fede sul proprio palmo, richiamandola dal suo
comodino.
Blaise la infilò al suo dito sottile, con un sorriso di
scuse e di
compiacimento di sé, a volerle ricordare che l’ars
amatoria non va mai in
pensione.
«Non
dovrebbe costarti molta fatica»
le disse, facendo apparire un anello anche al proprio anulare. Come
sempre il
solo contatto del cerchio metallico con la pelle della sua mano gli
procurò
brividi di fastidio. «Hai
una certa
esperienza in matrimoni fittizi, tu».
«Devo
dare ragione al tuo amico,
Blaise» replicò Pansy, preparandosi ad accogliere
l’ennesima donzella in visita
al loro maniero, nella speranza di apprendere la notizia della
vedovanza
improvvisa di Monsieur Zabinì. «Sei
decisamente uno stronzo.»
-
Negli anni del periodo francese, come aveva preso a
definirlo Blaise, nel
tentativo di dare un tono alla loro innegabile disfatta, Draco era
tornato nel
cassetto in cui Pansy lo aveva tenuto negli anni dopo Hogwarts, prima
di
incontrarlo di nuovo.
Non era
più innominabile. Spesso lei
e Blaise, in preda a malinconie rinnegate senza alcun sforzo
giustificativo il
mattino dopo, si ritrovavano il suo nome sulle labbra, o sottinteso nei
loro
discorsi, o in qualche stralcio di ricordi, e allora si fermavano
entrambi, non
appena ne prendevano atto, lasciando che Draco si adagiasse tra loro e
tornasse
in silenzio ad occupare il posto che gli era stato riservato: muto
compagno
della loro quotidianità.
Quell’imbecille
lo definiva a volte Blaise, scuotendo la testa nel versarsi da bere.
Aveva
smesso con il brandy, ora che Theodore non era più in giro.
Ciò che
rendeva amabile il
gusto di brandy era
la circostanza di berlo nel salotto di casa Nott e rigorosamente alla
faccia
del proprietario della bottiglia da ottanta galeoni, aveva rivelato a
Pansy una
delle prime sere dopo l’insediamento al Maniero.
Pansy non si era
preoccupata di
fargli sapere di averlo sempre saputo.
Il Maniero dei
Zabini era arroccato
su una collina, piuttosto lontano dal centro abitato.
«Tipico
gusto asociale del marito
numero tre» aveva osservato Blaise, mentre i loro bauli si
disfacevano da soli
e Pansy prendeva dimestichezza con i soffitti alti delle stanze, le
pareti
bianche immacolate, prive di ritratti e disseminate invece qui e
là di paesaggi
ameni, tipicamente provenzali.
C’era
una biblioteca discretamente
fornita, nel piano superiore, che Pansy aveva lasciato a Blaise come
antro in
cui rifugiarsi dai bollenti spiriti di qualche dama o dalla
crudeltà di qualche
fantasma del passato, tornato in visita.
Per
sé aveva scelto il terrazzo e una
piccola stanza al piano terra, nascosta da un paravento alla vista dei
visitatori
«Credi
che tua madre se ne
dispiacerebbe?» aveva chiesto a Blaise, già
innamorata di quella stanza piccola
e raccolta, che forse avrebbe anche potuto adibire a cassetto. Lui le
aveva
accarezzato i capelli, con una scrollata di spalle. «Mia
madre non ha mai
conosciuto dispiaceri» rispose. «Attenta ai
cadaveri negli armadi, agli Auror
manca giusto il corpo del penultimo marito». E poi
l’aveva lasciata sola, a
prendere possesso della sua nuova proprietà.
Entrambi avevano
dovuto abituarsi,
con la poca pazienza che avevano, ai ritmi di una vita decisamente non
londinese. Pansy era stata costretta ad affinare il proprio francese, e
Blaise
aveva dato sfogo alle sue capacità linguistiche senza alcun
problema di sorta.
Come sempre, si era detta Pansy, trovandosi una cassa di champagne tra
i piedi
nel mezzo del salone dopo soli cinque giorni di permanenza in terre
francesi.
Di sua madre e
suo padre non aveva
più avuto notizie.
Nel partire
aveva fatto lo sforzo,
sotto costrizione di Millicent, di scrivere una lettera di avviso anche
a loro.
L’aveva indirizzata a sua madre, consapevole che dopo il
matrimonio andato a
monte suo padre fosse poco disposto al dialogo. Anche da sua madre non
le era
giunta risposta di sorta, se non dopo mesi, e con un falco che non era
quello
di famiglia.
“Trattengo
quello che hai lasciato qui a titolo di ricordo. Me lo devi,
sono tua madre. So bene che non inviterai mai né me
né tuo padre ad una visita,
per tuo pudore o perché ritieni, forse a ragione, di dover
sopravvivere in
qualche modo. Come madre mi spezza il cuore, anche se tu sei convinta
che io lo
abbia allenato poco. Come donna, Pansy, non ho altro da aggiungere.
Vivi bene,
bambina mia.”
Conservò
quella lettera nella stanza
che aveva scelto per sé, nello stesso armadio in cui Mrs
Zabini aveva nascosto
i suoi scheletri.
La rilesse una
sola volta, nella sua
vita, per il resto la lasciò lì al suo posto.
La Gringott
riuscì a rintracciare
Blaise, un pomeriggio di inverno.
Fuori cadeva la
neve, e il gufo
intestato Gringott aveva atteso intirizzito, con le zampe congelate
alla
ringhiera, che Blaise vincesse le sue ritrosie e si decidesse ad aprire
la
finestra.
Come sospettato
da entrambi, la
Gringott chiedeva ancora la sua collaborazione, offrendogli un lavoro
di
consulenza a distanza, che Blaise avrebbe potuto comodamente prestare
da dove
si trovava senza bisogno di tornare a soffocare nei fumi di Londra.
«Dovresti
accettare» disse Pansy una
settimana dopo, con fare pragmatico. «Sei stato
sufficientemente corteggiato
anche dagli uomini del Ministero, a questo punto.»
Blaise
l’aveva guardata leggermente
risentito nello scoprirla dalla parte degli altri.
Avrebbe avuto a
che fare di nuovo con
il nome di Draco, di Nott, e della Davis, e chissà di quanti
altri. Pansy aveva
letto tutto questo nel suo sguardo, e nel sorriso che le aveva
ammorbidito le
labbra c’era la chiave risolutiva dell’enigma.
«Avevamo
detto che non sarebbe stata
una fuga» disse, seria.
«Sì,
lo avevamo detto» aveva risposto
lui, rintanandosi nel suo antro al piano di sopra.
La sera Pansy,
acciambellata sulla
poltrona accanto al camino, scorse con la coda dell’occhio un
dispiegarsi di
ali nel cielo scuro.
«Che
ci fa un gufo in volo in mezzo
alla neve?» domandò ironica.
«Porta
una notifica di accettazione a
quegli imbecilli della Gringott» borbottò Blaise,
scendendo le scale dal piano
di sopra, e versandosi da bere.
Nei lunghi mesi
di silenzio tra Pansy
e la sua famiglia si era scatenata una guerra fredda in merito alla
separazione
dei beni. Così Eveline Parkinson aveva tenuto sotto
sequestro tutti i suoi elfi
domestici, abbassandosi persino ad una donazione in favore del
sindacato
diretto da Hermione Granger. Fu una donazione anonima, ovviamente, in
accordo
tra lei e la fondatrice, con riserva di mantenerne segreto il motivo.
Pansy aveva
ritenuto di non aver
alcun bisogno di elfi domestici che le stessero tra i piedi. Le loro
deformità
erano comunque poco consone ai delicati profili provenzali e mal si
accostavano
con l’ambiente circostante. Blaise la lasciò
farneticare pieno di affetto,
preoccupandosi personalmente di recarsi a Londra, in incognito, per
trafugare
qualche elfo e portarlo in casa propria.
«Questi
ce li mandano i coniugi
Montague, con auguri di buon Natale» annunciò a
Pansy riapparendo al Maniero.
«Hai
rubato a Millicent i suoi elfi…
non posso credere che tu lo abbia fatto sul serio»
commentò allibita ma molto
sollevata di non doversi più preoccupare di certe incombenze.
«No,
li ho sottratti con astuzia
oratoria a quel sottosviluppato di suo marito»
rettificò placidamente Blaise,
facendo cenno alla nuova servitù di appropriarsi dello
sgabuzzino per renderlo
confortevole giaciglio e ripostiglio dei loro stracci,
altresì con coraggio
definiti indumenti. «Farà i conti con lei quando
tornerà dal suo viaggio, cosa
vuoi che succeda? È pur sempre Millicent, la sua massima
rappresaglia sarà
chiuderlo in un armadio, e in fondo non si tratterebbe di niente di
nuovo, ne è
già uscito una volta.»
«Potrebbe
tornare intelligente, in
effetti» valutò Pansy, versando da bere al
compagno, in ringraziamento per
l’opera di riciclaggio di elfi.
«Appunto.
Come sempre, non capiscono
mai quando vogliamo fare del bene.»
*
And
she’s chosen where to be,
tough
she’s lost her wedding ring
Trascorsero gli
anni, si alternarono
le stagioni.
Pansy
affidò all’inarrestabile
scorrere del tempo la cura del proprio dolore.
Non si azzardava
mai a chiamarlo in
quel modo, e la maggior parte delle volte si sforzava anche di non
viverlo come
tale.
Non aveva pianto
per Draco, come le
capitava di fare da giovane – battendo i pugni sul letto per
sfogare la rabbia
che le sue parole le provocavano, o lasciando che in silenzio
trovassero posto
sul suo viso le lacrime che lui non concedeva di certo a se stesso.
Aveva
cristallizzato il dispiacere e
imbrigliato lo sconforto, sbarrato il nascondiglio in cui li aveva
riposti, e
su di sé l’unica traccia della loro presenza era
la malinconia che le era
rimasta intrappolata negli occhi e la stanchezza con cui cercava di
essere
bella.
Pensava a lui
più di quanto facesse
credere a Blaise.
Gli anni erano
passati, e lo sapeva
padre, ormai. Quando il pensiero non la uccideva, trovava consolante
l’idea che
Draco avesse modo di non dimenticarsi come si ama.
C’erano
stati altri uomini, mai nel
suo letto e mai nel suo cuore. Li aveva incontrati senza conoscerli, si
era
dilettata della loro presenza senza mai renderla compagnia. Aveva usato
i loro
corpi per tenere in allenamento il proprio, per ricordare a se stessa
che
potesse conoscere calore, se non d’amore almeno di desiderio.
Aveva permesso,
questa volta, che le si facessero complimenti, che si parlasse di lei
come di
una bella donna, nonostante la pelle pallida e i suoi silenzi
tipicamente
british.
«Non
hai figli?» le venne chiesto una
volta, da uno di loro.
«No»
rispose, una mano sul ventre
piatto, vuoto. «Non credo di poter averne».
Ho
la notte nel cuore avrebbe
aggiunto se a chiederglielo fosse stata sua madre.
Non sentiva di
avere sufficienti
forze per amare qualcun altro, le aveva impiegate tutte per prendersi
cura di
se stessa e del proprio tormento.
Tuttavia quella
sera, davanti alla
propria immagine, cercò di immaginare una
rotondità al posto dei suoi spigoli;
si chiese se quel vuoto che aveva dentro di sé avrebbe mai
potuto contenere
qualcuno.
Di Londra e
della sua vita ricevevano
notizie sporadiche, riportate da Blaise dopo una accurata opera di
selezione
tra quelle che lo avevano raggiunto.
Pansy
scoprì presto quella sua abitudine
alla rassegna stampa, e decise di abbonarsi alla Gazzetta del Profeta,
per
risparmiare a Blaise il travaglio di proteggerla, e sollevarlo di
qualsiasi
responsabilità.
“Non
ti affannare, stupido” gli disse
aprendo il giornale sotto i suoi occhi, una mattina di inizio
primavera. Blaise
l’aveva guardata allibito. “Non abbiamo sempre
fatto così? Ognuno è
responsabile dei propri mali.”
Si era versato
del caffè, scuotendo
la testa. “Forastica, come sempre”
borbottò dapprima offeso per il mancato
riconoscimento delle sue attenzioni. Quando la sera tornò a
casa, aveva già
dimenticato.
“Ti ho
perdonata” le disse, lanciando
il mantello ad un elfo.
“Non
ti ho chiesto scusa” gli
rispose, sorridendo tra le pagine del libro.
-
Il Profeta
raccontò a Pansy
dell’ordinaria amministrazione scandalistica di Daphne, e
delle controverse
operazioni economiche della Gringott. La aggiornò degli
ultimi processi, della
decisiva abolizione del Bacio – la pagina riportava una
sorridente Hermione
Granger, al sit-in organizzato sotto la sede del Wizengamot riunito in
Sezioni
Unite per deliberare la proposta – delle nuove scoperte
pseudo scientifiche
portate avanti dallo sconclusionato connubio Lovegood –
Scamandro, e della
fusione delle società Nott e Davies.
Il vecchio
Abraham era morto, infine,
molto seccato per la propria dipartita, e serbando ancora profondo
rancore
verso suo nipote.
In una lettera
Millicent le raccontò
per filo e per segno ciò che era stato riferito da voci non
meglio
identificate, in quel del San Mungo. Theodore aveva insistito
perché suo nonno
fosse ricoverato e tenuto sotto sorveglianza, con una dedizione che
Abraham
aveva frainteso per malafede, così era morto soffiando
veleno contro
l’ingratitudine di Theodore e soprattutto contro la sua
sciocca e deleteria
attitudine ad amare donne discutibili, che lo avevano costretto
“a rivolgere
parola a quell’emerito idiota del Ministro di Grazia e
Giustizia, per tirare
fuori quell’altro emerito incapace di Lucius Malfoy al solo
scopo di far
fallire un matrimonio!”
Finì
con il costringere Theodore a
chiedere che lo sedassero, ma quando si era svegliato, terminato
l’effetto dei
narcotici, Abraham aveva ripreso con una lucidità tenace
esattamente da dove si
era interrotto: “… al solo scopo di vedere quel
rattrappito di suo nipote
lasciato sull’altare come un Allock qualunque, dovendo patire
anche lo sviluppo
del suo ennesimo inciucio da quattro soldi con quella gattamorta
pluri-divorziata, e dovendo persino cederle una parte di azienda! Mai
il nome
dei Nott era stato accostato a quello di altre
siffatte…”
Millicent aveva
lasciato immaginare a
Pansy come si fosse conclusa la piece.
Le disse, in
ogni lettera, che non
aveva imparato l’arte
dell’anaffettività, essendo venuta a mancare la
migliore
maestra, e che quindi si permetteva di dire che le mancava, Pansy, e
molto.
“Nel
modo in cui la gente comune ha nostalgia di una cara amica.”
*
There
are things we can’t recall, blind as night that finds us all,
but
my hands remember hers.
Scorpius nacque
di notte, in casa
Malfoy.
Narcissa
– che avrebbe rifiutato per
sempre il nominativo nonna
– aveva
insistito perché così fosse e Astoria non si era
opposta, sentendosi al sicuro
nelle mani di una madre e una suocera che avevano già messo
al mondo dei figli,
riuscendo a preservare se stesse.
«Tieni,
bevi questo» invitò Lucius,
costretto a condividere con suo figlio la – nuova –
reclusione oltre la porta.
Le dita gelide
di Draco si
aggrapparono al vetro del bicchiere, mentre pensava che stava per
diventare
padre, e che Blaise non era lì a ridimensionare il tutto in
un po’ di disincanto
confezionato, né Pansy lo guardava silenziosa, ricordandogli
che poteva essere
sbagliato ma lei lo amava comunque.
Non aveva
più toccato Astoria, da
allora. A volte si era chiesto se suo figlio lì dentro
percepisse la
frammentarietà di quell’amore che gli veniva
riservato. In due canali diversi e
separati tra loro.
Aveva delle mani troppo grandi per le
sue ossa fragili e
il suo essere così minuscolo, pensò non appena
fece la sua conoscenza.
Sua madre glielo
mise in braccio,
delicata come si è con un neonato, ma decisa nel compiere
quel gesto.
“E’
ora che vi presentiate” disse
piano, perché nessuno al di fuori di loro tre potesse
sentirla “Per conoscervi
avrete tempo, anche se non vi basterà lo stesso.”
“Non
lo lasciare” aveva detto
allarmato Draco “E se mi cade?”
“Non
può cadere, è nelle mani di suo
padre.”
Poi li aveva
lasciati soli,
chiudendosi la porta alle spalle.
Fosse stato per
lui quella porta non
l’avrebbe più riaperta. Fu del tutto assorbito da
quell’essere fatto di pelle
sottilissima, con gli occhi chiusi e i pugni stretti convulsamente. Si
agitava
tra le sue mani di adulto e lui non riusciva a smettere di guardarlo,
come se
da un momento all’altro fosse pronto a sparire o rompersi.
Apri
gli occhi
pensava attendendo che lo facesse, sperando che lo facesse, con trepida
ansia. Apri gli occhi, sono tuo padre,
insomma,
degnami di attenzione pensava risentito ma più che
altro curioso e
spaventato, come se avesse tra le mani un bene inestimabile, di un
valore
incommensurabile, e che gran parte del tutto dipendesse solo dalla sua
cura e
dalla sua capacità di insegnargli a fare i conti con la vita
perché fosse
dignitosa e leale prima di tutti verso se stesso.
Non
credo di essere in grado, è meglio se lo sai da subito continuava a
dirgli in silenzio. Ma
Scorpius non batteva ciglio, ignorando quelle sue parole come se
sapesse già
che non valessero niente, che fosse sbagliato pensare quelle cose.
Draco volle
credere a quella sua indifferenza.
Suo figlio
viveva da neanche dieci
ore, e già lo aveva smentito, rendendolo forte.
Astoria, come un
tempo aveva fatto
Narcissa, spiava spesso Draco nei momenti in cui era con Scorpius.
Osservava le
loro dinamiche con occhi curiosi e commossi, e sentiva qualcosa
stringersi
dentro di sé, la tenerezza attanagliante per quelle immagini
e l’impossibilità
di scioglierla in un abbraccio.
Sua madre era
stata molto soddisfatta
dell’opera portata a compimento: “I bambini ti
vengono decisamente bene”
gorgogliò la prima volta che tenne il nipote tra le braccia.
Daphne quel giorno
era rimasta sulla porta, a braccia conserte, decisa ad astenersi da
tutti quei
patetismi. Quando Astoria cercò il suo sguardo, sopra i
compiacimenti di loro
madre, per accertarsi che fosse ancora lì, Daphne le rivolse
un’occhiata piena
di fastidio per la situazione e con quello Astoria comprese che sua
sorella le
voleva bene, e che era l’unica ad aver capito cosa stesse
succedendo.
“E’
un bambino, mamma, non un
deficiente” la sentì mormorare in un sibilo
frustrato.
“Il
bambino è tuo nipote, Daphne, è
meglio che inizi a prendere confidenza con il tuo ruolo,
avvicinati”.
Daphne accese
una sigaretta,
inorridita, e con quello si fabbricò la scusa per
abbandonare la stanza.
“Lascia
perdere tua sorella, sei
giovane, Astoria, ma sarai comunque una buona madre”
commentò Olimpia
Greengrass, restituendole Scorpius.
Astoria sorrise
adeguatamente,
pensando invece alla sera in cui Draco era tornato a casa, mesi prima.
Grondava di
pioggia e determinazione.
Non si
sentì di dire a sua madre che
nel contratto era stata inserita una clausola.
Non si
sentì di spiegare che se come
madre avrebbe avuto tutta la vita per esercitarsi, come moglie aveva
gli anni
contati.
---
Note.
1) Le scuse per il ritardo ormai consideratele inglobate
nell'aggiornamento. Nessuna giustificazione neanche stavolta, solo
scuse.
2) La
canzone citata l'avrete di certo riconosciuta ma disclaimer vuole che
io ribadisca che è degli Iron&Wine, "Passing
Afternoon".
3) Alle
recensioni - grazie! - rispondo con il nuovo form, che è una
meraviglia *_*
4) Il
prossimo capitolo è anche l'ultimo.
Detto
ciò, mi ritiro :)
|
Ritorna all'indice
Capitolo 18 *** Ricomposizione ***
The
way we were
XVIII
Ricomposizione
Io non ho detto loro
di te
ma essi videro che ti lavavi nelle mie pupille
[Nizar Qabbani]
Era
primavera,
quando Draco tornò da lei, undici anni dopo. Lo vide
riflesso nel vetro della
finestra, nella sua camera da letto. La guardava negli occhi, con uno
sguardo
indecifrabile, il suo volto solcato dalle gocce della pioggia appena
conclusa. Sembrava
vero, pensò Pansy, perdendo il proprio cuore. Sembrava vero,
ad ogni incontro.
Giorni prima, lo aveva visto bere alla fontana della piazza, in
città. Il
riflesso del sole primaverile sui suoi capelli biondi l’aveva
richiamata dal
libro che stava leggendo sulla panchina in marmo. Allora aveva
sollevato gli
occhi dalle righe del libro, da parole francesi che le rimandavano una
melodia
a lei comunque, per sempre, estranea. Aveva posato lo sguardo sulla
nuca di
Draco, e lo aveva fissato fino a quando non aveva soddisfatto la sua
sete. Fino
a quando aveva accettato che non fosse Draco.
Anche la
notte
prima, era tornato da lei. Aveva fatto l’amore con lui tutta
la notte. Al
mattino, aveva ancora il suo respiro addosso, vicino
all’orecchio. Aveva
portato le mani sul proprio ventre, nel punto esatto in cui lui aveva
poggiato
le labbra. Era rimasta nel letto, cercandolo tra le lenzuola. La
avvolse un
buon profumo di bucato ai fiori di Provenza. Non era il suo odore.
Allora aveva
chiuso gli occhi, ed era rimasta a letto, fino a quando aveva accettato
che
quella notte non fosse mai esistita.
Ora lo
incontrava di nuovo, nel vetro della finestra. Sembrava vero, come in
tutti gli
altri incontri. Questa volta non si era fatto la barba, e sembrava
più adulto. Questa
volta la guardava con occhi diversi, meno ardenti, più
cauti. Sembrava che non
volesse spogliarla, che non avesse il coraggio di toccarla. Nei loro
incontri,
Draco occupava sempre lo spazio come se fosse suo, come se gli
spettasse. Anche
se era solo lo spazio della sua immaginazione, uno spazio che lei sola
gli
metteva a disposizione. Eppure lui appariva, dando per scontato di
esserci sempre
stato. Ma questa volta, la guardava aspettandosi qualcosa da lei. Pansy
lo
trovò ugualmente molto bello, ma di una bellezza diversa.
Aveva negli occhi uno
sguardo dolente. E aveva qualcosa sul viso, pensò lei.
Quell’aria dolente la
rintracciò nelle rughe che aveva sulla fronte. Quelle rughe
che erano anche le
sue rughe. Sei invecchiato anche tu,
insieme al mio pensiero di te. Ma non glielo disse.
Perché quando appoggiò
la mano sullo stipite della porta, il bottone che aveva sul polsino
della
giacca urtò il legno, e fece rumore. Fece rumore. Un suono
secco. Dichiarativo.
Parlò a Pansy, e le disse che anche lei era invecchiata. Le
rughe sulla fronte
erano il segno degli anni, non solo delle pieghe che aveva nel cuore.
Il rumore
le ricordò che anche lei era invecchiata, come
l’uomo che adesso era nella sua
stanza. Che si era appoggiato allo stipite perché quella
fissità gli aveva
fatto perdere l’equilibrio. Perché era stanco
delle ore di viaggio, del viaggio
in treno che gli aveva rovinato la piega del vestito, proprio come
succede alle
persone reali.
Lui si era
mosso, ma le gocce di pioggia erano rimaste immobili al loro posto,
appese al
vetro della finestra della sua camera da letto. In attesa che il sole
le
asciugasse. Non erano più sul volto di Draco.
Pansy si
voltò
lentamente. Lo cercò, appoggiato a quello stipite. Per un
attimo, le sembrò di
trovarci Lucius Malfoy, il giorno in cui era apparso nel salone di
Malfoy
Manor. Solo allora comprese come Draco si fosse sentito, quel giorno.
L’incredulità che superava qualsiasi speranza. Il
timore di una felicità
sbagliata. Il bottone sul polsino della sua giacca aveva fatto rumore.
“Ciao,
Pans.” Disse
lui. La sua voce era roca e la gola chiusa. Ciao,
Pans, le disse, “sono in ritardo per il
tè.”
*
Il serpente che non
può cambiare pelle, muore.
[F. Nietzsche]
“Sento
uno
sbatter d’ali” esordì Blaise
d’un tratto, inserendosi perfettamente nel
momentaneo silenzio della stanza. Pansy gli riservò
un’occhiata serafica,
accompagnata da un ammorbidirsi delle labbra quando sentì
Draco tendersi al suo
fianco. Il cielo scuro alle loro spalle rimaneva imperturbabile, privo
di gufi
all’orizzonte.
“Sei
senza
ritegno” commentò Blaise, allungando i piedi sulla
sedia lì di fronte.
“Taci”
replicò
l’altro, senza preoccuparsi di stare al gioco o piegarsi ad
un po’ di
autoironia.
“Perché
non
mandi un falchetto al Magnifico Preside? Almeno metteremmo fine a
questa
dilaniante attesa.”
Draco
serrò i
denti, chinandosi
verso il tavolino
basso con l’intento di versarsi ancora da bere. Nel farlo il
suo gomito urtò la
bottiglia poggiata all’angolo del tavolo, fu questione di un
attimo che a
Blaise non sfuggì, notò con quello che avrebbe
potuto definire un insensato
compiacimento il modo in cui con la mano Pansy si sostenne al braccio con cui
repentinamente Draco
l’aveva allontanata dal brandy e dai vetri della bottiglia.
Qualcosa in quella
sintonia ritrovata, e nei gesti attenti e discreti che entrambi si
rivolgevano,
lo fecero sentire in pace, come ai vecchi tempi. Come se
l’ordine si fosse
ricostituito, anche se con un certo ritardo e ad un prezzo che qualcuno
più
sano di mente e meno autolesionista di uno Slytherin avrebbe valutato
come
troppo alto.
“Sai Blaise,
forse ti sfugge il fatto che non sono affari tuoi” lo
apostrofò Draco dopo aver
ordinato alla bottiglia di ricomporsi, per quanto vuota.
“Mi riguarda eccome,
e non fingerò di non essere offeso. È pur sempre
il mio figlioccio.”
Draco e Pansy lo
guardarono con limpido stupore e Blaise cercò di non esserne
sopraffatto.
“Ovviamente mi
riservo unicamente gli aspetti goliardici e diseducativi del
ruolo.”
Gli altri due
sembrarono rilassarsi. Blaise ne sorrise. Come se l’ordine si
fosse
ricostituito.
Come se Pansy
non avesse atteso undici anni per riavere il proprio compagno di vita.
Come se
non avesse sprecato undici anni della sua vita ad accudire il pallido
rimpianto
di lui. Come se Blaise non avesse passato tutto quel tempo a fare i
conti con
la propria ombra, a non averne timore, ad accettarla come parte di
sé, a
renderla una compagna di strada e non l’orrore di morte che
cercava di
divorarlo ad ogni passo.
Diede
un’occhiata a Pansy e Draco, seduti sul divano in una casa in
Provenza. Si
chiese se davvero potesse funzionare. Se per caso tutti loro non
stessero
cercando di ignorare l’irrimediabilità delle loro
esistenze, se per caso non
fossero già morti, a un qualche punto delle loro vite, e
adesso stessero lì
come fantasmi che giocano ad essere vivi.
Poi Draco si
voltò leggermente, sporgendo il collo a controllare per
l’ennesima volta che un
gufo arrivasse con la lettera in cui suo figlio gli comunicava di
essere stato
smistato in Slytherin, e nel voltarsi concluse quel gesto lasciando
scivolare
il braccio sulle spalle di Pansy. Quei due gesti, legati tra loro,
sembrarono
chiudere il cerchio. Blaise comprese davvero che quel giorno Draco era
padre e
compagno. Che dentro di sé aveva fatto abbastanza spazio.
Che era riuscito a
mettere nell’angolo gli orrori e gli errori, accettando di
non potersene
liberare ma di poter imparare a conviverci. Si accorse che nei suoi
gesti
l’arroganza era stata sostituita dalla fermezza. Non aveva
più niente da
dimostrare, a quel punto, solo molto da dare.
“Finirà di certo
in Slytherin” disse, guardando anche lui il cielo scuro
lì fuori.
Draco annuì,
fingendo che non avesse importanza. Eppure ne aveva, e molta, anche se
non lo
avrebbe detto ad alta voce, neanche a Blaise e a Pansy.
“Sì” asserì,
anche se non ne era per niente certo, ma ci sperava. Sperava che suo
figlio
fosse uno Slytherin, che in qualche modo continuasse ciò che
lui era stato ma
trovando la propria strada, la propria chiave interpretativa di quel
miscuglio
di leggi non scritte e codice d’onore. Sentiva che, in
qualche modo, Scorpius
era stato il frutto della propria rinascita, perché lo aveva
concepito con
tanto amore, anche se non era indirizzato verso la donna nel cui ventre
lo
stava depositando. Avrebbe trovato la sua strada, pensò
Draco, e avrebbe
restituito alla Casa l’originaria dignità che la
sua, la loro, generazione le
aveva strappato.
*
If you must cling to
someone
now and forever
let it be me
[Bob Dylan, Let it be
me]
C’erano
cose di
cui era difficile discutere. Pansy e Draco non ne parlarono mai
esplicitamente,
se non attraverso commenti a mezza voce o silenzi molto eloquenti.
Quello che
non riuscivano a dirsi, presero l’abitudine di scriverselo.
Capitava che Draco
trovasse un foglietto spiegazzato in cui Pansy aveva scritto con una
grafia
minuscola qualche pensiero che le rimaneva imprigionato in gola. Draco
doveva
strizzare gli occhi per riuscire a leggere quelle parole, timide e
indecise, ma
nella loro fragilità tremula, sincere.
Penso che dovresti far sapere ad Astoria
dove sei.
Non gli
chiese
mai con quali parole avesse lasciato Malfoy Manor. Non volle sapere se
il
maniero fosse rimasto ad Astoria, per questioni legali, o se lei avesse
preferito tornare nella casa materna, in cerca di un guscio abbastanza
robusto
dove celare il matrimonio fallito. Non domandò mai a Draco
se Astoria avesse opposto
resistenza, se avesse posto condizioni, quante e quali. Sapeva quanto
bastava:
che se Draco era tornato da lei, di certo Astoria non gli aveva imposto
di
sacrificare Scorpius.
In seguito a
quel biglietto, Draco tornò a Londra per cinque giorni. Al
suo ritorno, Pansy
era intenta a distogliere Blaise dall’idea di licenziarsi, di
nuovo, dalla
Gringott. Lui la cercò, le baciò una tempia e
andò a farsi una doccia. E Pansy
seppe che quella calma piena e avvolgente che sentiva dentro di
sé, chiudeva
anche quel capitolo.
Draco
trovò il
coraggio di parlarle di sua madre solo dopo un anno. Una sera, riaccese
la luce
che Pansy aveva spento, e guardando il soffitto, disse: “Ho
incontrato tua
madre.” La testa di Pansy si volse spontanea verso
l’armadio in cui aveva
conservato la lettera che sua madre le aveva scritto, il giorno in cui
aveva
lasciato Londra. Draco attese immobile che gli concedesse
l’opportunità di
andare avanti. Le lasciò il tempo di recuperare il ricordo
di sua madre, di
ritornare figlia.
“Quando?” prese
tempo lei, mentre pensava al profumo di sua madre, alla vita di
solitudine cui
l’aveva lasciata con suo padre, ora che non aveva
più una figlia a cui
raccontare la menzogna di un uomo che in verità non era
stato un marito.
“Quando sono
andato a parlare con Astoria.”
Pansy cercò lo
sguardo di Draco. Vide solo il suo profilo affilato.
“E l’hai
incontrata? Per caso?”
Non c’era accusa
né rabbia nella sua voce. Draco, in ogni caso, non aveva
creduto che fosse
stato possibile mentirle.
“Sono andato a
cercarla.”
Pansy non
distingueva più tanto bene il suo profilo, tutto le divenne
confuso. Si alzò,
assumendo una posizione seduta, perché il respiro era di
colpo pesante da
sostenere. Sua madre, che non era stata accogliente, con lei. Che
l’aveva resa
uno specchio, in cui esercitarsi nell’arte del tessere
menzogne sulla propria
vita. Sua madre, che forse l’aveva resa a sua volta incapace
di essere madre.
Di colpo ebbe nostalgia di lei.
“Perché?” riuscì
a chiedere, in un soffio di voce. Solo allora Draco si tirò
su di colpo,
lasciando perdere il soffitto e voltandosi verso di lei, al suono della
sua
voce, che era flebile e piena di dolore. E forse i suoi occhi, che non
poteva
vedere, nascosti dai capelli, erano pieni di lacrime, e lei era piena
di
domande a cui non avrebbe saputo rispondere, perché da quel
rapporto era sempre
stato escluso. Forse non avrebbe dovuto permettersi, lo aveva pensato
subito,
nel momento in cui aveva avuto di fronte quella donna. Forse avrebbe
dovuto
scrivere anche lui un biglietto a Pansy.
“Per farle
sapere dov’eri.”
Anche la sua
voce era un sussurro spezzato, cercava di contenere già
delle scuse. Ma Pansy
non disse niente, annuì e basta. La mano di Draco raggiunse
il suo collo, e
sostenne il peso della sua tristezza. Pansy lo lasciò fare,
assalita da una
nostalgia antica per qualcosa che in realtà non aveva avuto.
Non le mancava,
forse, la donna che l’aveva ospitata dentro di sé
e che aveva condiviso con lei
un percorso di vita conflittuale e distanziante. Le mancava la madre
che non
aveva avuto, e quella che lei non sarebbe stata.
Draco non
allontanò
la mano che aveva sul suo collo, e rimase con lei a celebrare quella
perdita.
*
Cambia el rumbo el caminante
aunque esto le cause daño
y así como todo cambia
que yo cambie no es extraño
[Julio Numhauser,
Todo cambia]*
Blaise
impiegò mezza
giornata per radunare tutte le sue cose, quando decise di lasciare la
Provenza.
Nel riporre i suoi oggetti nel baule gli parve lampante, illuminante,
di essere sempre stato pronto, in realtà. Doveva solo
riconoscere che il momento fosse giunto. Si chiese se anche Pansy,
oltre al
proprio subconscio, se ne fosse accorta. Se avesse solo finto, come lui
sembrava chiederle, sempre inconsciamente, di credere che si trattasse
solo
della sua proverbiale mania dell’ordine.
Se niente di
Blaise era disseminato per la casa era solo perché preferiva
che ogni cosa
fosse al suo posto. E così, per tutto quel tempo,
dov’era stato? Aveva lasciato
quasi tutto nel baule in attesa di capire quale fosse il suo, di posto.
Quando Pansy e
Draco rientrarono in casa, inciamparono uno dopo l’altro nel
baule che Blaise
aveva, appositamente, lasciato all’ingresso.
Pansy lo guardò
cercando quanto meno di sorridere ma non le riuscì molto
bene. Blaise la
perdonò subito. Qualcosa in lui fu commosso da quella
gelosia, dallo slancio
egoistico con cui Pansy sembrò per un attimo decisa a
tenerlo lì con loro.
Draco invece spostava irrequieto lo sguardo dal baule al suo migliore
amico,
aspettandosi chiarimenti che potesse deliberatamente ignorare
sollevando una
qualche polemica inutile al solo scopo di trattenerlo il più
possibile in
quella stanza.
O forse no.
Forse anche lui,
in quei secondi che Pansy occupò a ricordare a se stessa di
averlo sempre
saputo, di essere preparata e di averlo già accettato, anche
Draco in quei
secondi comprese che avrebbe dovuto lasciarlo andare, per poterlo avere
per
sempre al suo fianco.
“Sono giunto
alla conclusione che Londra mi manca” comunicò
Blaise, con un sorriso.
Pansy si riservò
di pensare che in parte gli mancasse anche Daphne, e, soprattutto, in
un modo
tutto suo e per ragioni che nessuno di loro avrebbe fatto meglio a
sondare, che
gli mancasse anche Millicent. Allo stesso modo in cui mancava a lei.
Non in maniera
lancinante, come una ferita sempre aperta, ma in modo dolce e blando,
come era
Milli nel rapporto con loro.
Draco
lasciò che
fosse Pansy la prima ad abbracciarlo, perché in fondo in
tutti quegli anni lui
non c’era stato, non aveva preso parte alla complicata opera
di ricostruzione,
anzi, con la sua assenza forse ne aveva aggravato i lavori. Ma fu lui
ad
accompagnare Blaise alla stazione, perché smaterializzarsi
avrebbe tolto ad
entrambi il pretesto per fare quell’ultimo percorso insieme.
Lungo la strada si
distrassero in commenti reprensibili sulle donne francesi, si persero e
discussero per ritrovare la strada, si offesero e si fecero promesse
che forse
per la prima volta sarebbero stati in grado di mantenere. Poi furono
costretti
a salutarsi, consci che non era un congedo come la prima volta,
perché in realtà,
adesso, tutti e tre si erano appena ritrovati.
Fine.
Mi fa un
pò impressione dirlo, ma è finita davvero.
In conclusione, direi solo che vi ringrazio, per aver - cercato, se non
altro XD - di seguire questa storia. Credo che con questa si sia
più o meno concluso anche il mio percorso con Harry Potter,
inizio a non avere più memoria di certi dettagli importanti
dei sette libri, il che lo interpreto come un segno, una sorta di
passaggio obbligato ^^ Anche se Draco e Pansy rimarranno sempre
l'incarnazione scritta della mia speranza che davvero nella vita ogni
serpente possa cambiare la sua pelle.
Insomma grazie a tutti quelli che hanno seguito, in qualsiasi forma
abbiano scelto, questa storia, a chi l'ha anche recensita (soprattutto Entreri e sweetchiara, che
anche se non l'hanno saputo formalmente sono state un punto fermo nelle
crisi d'ispirazione ^^) e a chi si è fermato a leggerla.
Beh, chiudo qui, perchè sono un pò Slytherin
anch'io e con certe cose non ci so fare. Magari ci "leggeremo" ancora,
ma nella sezione originali
:D
* La versione più famosa - e a mio parere bella -
è quella di Mercedes Sosa ma l'autore primo è
stato Numhauser.
Cambia direzione il
viandante,
sebbene questo lo
danneggi,
e così come
tutto cambia
che io cambi non
è strano.
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=314745
|