Ethics

di TheGirlNextDoor
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Olfatto ***
Capitolo 2: *** Vista ***
Capitolo 3: *** Tatto ***
Capitolo 4: *** Udito ***
Capitolo 5: *** Gusto ***



Capitolo 1
*** Olfatto ***


Se mi chiedessero perché lo amo, non credo saprei rispondere in modo preciso. Non è il suo viso, non sono i suoi occhi, né tanto meno il suo corpo. Se mi chiedessero perché lo amo direi probabilmente, perché lui è lui ed io sono io, né più né meno.  Amare Takano -san è diventato infatti un’ abitudine, come bere, mangiare o dormire. Come bevo, mangio, dormo, così amo Takano-san e gli oltre dieci anni a partire dal liceo, non sono che la prova più tangibile della fedeltà incondizionata del mio cuore.  Quando nella biblioteca, con un occhio sul libro e l’ altro vagante, lo osservavo , mi chiedevo perché uno come me si fosse innamorato di una persona così fuori dalla sua portata. Il tempo, come da copione, ha insabbiato  questa sgradevole sensazione. Eppure ora eccomi qui, di fronte a mia madre e a mio padre che mi guardano con aria interrogativa. La sensazione di impotenza dettata da un amore più grande di me si fa risentire.                                               
 An è seduta accanto a me, tiene la testa bassa e non mi guarda.

“Allora, per quando avete intenzione di celebrare il matrimonio?” Richiedono i miei.

Dannati vecchiacci, un matrimonio combinato di questi tempi, è davvero incredibile.  Hanno deciso di programmarmi la vita fino alla morte?

“Non ci sarà nessun matrimonio.” Rispondo io con il tono più pacato e tranquillo che conosco, cercando di nascondere al meglio l’ira.

“Non dire stupidaggini, certo che ci sarà, tu e An formate una così bella coppia, e poi siete fidanzati da tanto tempo. Per la cerimonia vorrei che fosse una cosetta intima, poche persone giusto gli amici più stretti ma voglio tanti  fiori, oh io adoro i fiori… ”  vaneggia mia madre rivolgendosi al marito, come fosse il suo unico interlocutore, mentre questo con il sigaro in bocca, annuisce.

“An, anche a te piacciono i fiori vero? Che ne pensi di un bouquet di tulipani, sarebbero così originali o preferisci delle rose rosse, oh anche le rose mi piacciono molto…”

Bla, bla, bla. Stronzate!  Avete deciso tutto voi  fin da quando sono nato,  non vi stancate proprio mai di angosciarmi  l’ esistenza, eh?  Vi sembro un bambino? Vi sembro un moccioso che non sa prendere decisioni da solo? Lasciatemi in pace.

“Io mene vado” esordisco io, interrompendo il risolino di lei.
Ma proprio mentre sto facendo per alzarmi, An mi trattiene per la felpa.

Maledizione , anche lei ci si mette, le sono affezionato ma questo suo modo d’ essere così appiccicosa proprio non lo reggo.
“Dacci un taglio” sbraito.         

Inizia a singhiozzare e mia madre abbracciandola, mi guarda in cagnesco.  Un po’ mi pento del tono che le ho rivolto. Mia madre tira fuori la peggiore espressione che le riesce, mio padre stritola il sigaro fra i denti.                                                                                     
Ma che ho fatto di male?


A quest’ ora solo la zona dei Love Hotel è frequentata, che disgusto immane. Come si può portare la persona che si ama in un posto del genere? Così intriso di odori altrui, persino io dalla strada li sento quegli odori. E le risate, le risate delle gallinelle in minigonna. Che c’è da ridere? Si chiamano “Love Hotel” ma dell’ amore c’è poco e niente, solo meretricio gratuito. Allora perché persone così superficiali, hanno il diritto di amare chiunque? Cos’hanno più di me per potersi permettere questo diritto?
 

La metropolitana di sera è sempre piuttosto vuota e silenziosa, le poche persone che vi viaggiano sopra hanno tutte un velo di sonno sul volto e oggi anche io porto a casa i segni  più visibili di una giornata quantomai stancante. Il telefonino mi vibra tra le mani.                                                                                             
Il nome TAKANO MASAMUNE appare sulla schermata luminosa.

Oddio proprio ora doveva chiamarmi? Che faccio? Rispondo o non rispondo? Merda! E se si accorge che è successo qualcosa? Merda, merda, merda! Cosa vorrà? A quest’ora poi. Oddio!

Prima  di rendermene conto il mio dito ha autonomamente premuto il tasto verde.

“Dove ti sei cacciato?” urla la voce dall’ altro capo del telefono.
A metà tra il basito e lo sconvolto  farfuglio qualcosa di incomprensibile.

“Muoviti a tornare a casa, idiota” E la chiamata si chiude con un tonfo.

Idiota?  Idiota? Maledetto bastardo. Devo forse renderti conto di quando torno a casa? Non hai niente di meglio da fare che stare a controllarmi? Guardo l’ orario sul cellulare,è mezzanotte passata. E’ stato sveglio nonostante la stanchezza ad aspettare che tornassi? Arrossisco. Questo pensiero  viene scacciato immediatamente.

“E’ solo un maledetto bastardo che non si fa i fatti suoi” Decido.  

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Capitolo 2
*** Vista ***


Perché non entri, stupida chiave? E’ colpa di questa stupida porta difettosa. E tu, stupida mano smettila di tremare. Dannazione, ma chi voglio prendere in giro?! Sono io l’ unico stupido qui…

“Onodera, sei tu?” Strilla Takano dall’ appartamento accanto.

Ecco sta uscendo, ora mi farà il terzo grado e io non ho nessuna voglia di parlare. Quel demone mi farebbe spifferare tutto. Un po’ di alcol e puff…
Apriti stupida porta, APRITI!

“Idiota, ti sembra l’ora di tornare. Dove sei stato?”

“Che te ne frega dove sono stato. E anche se sei il mio capo non chiamarmi idiota.”

“Ero preoccupato e non riuscivo a dormire. Sono stanco!” dice poggiando il mento sulla mia spalla.


Il mio cuore, il cuore. Mi fa male, malissimo. E’ come se pieno di spine mi stesse pungendo. Ogni volta che mi sfiora è così. Il cuore mi fa malissimo. Eppure, voglio continuare a sentire questo dolore. Vorrei che i momenti in cui mi è così vicino durassero eternamente.


“Onodera dammi le chiavi…”

“Eh?”

“Non riuscivi ad aprire la porta vero?”

“S- si…”

Mi strappa le chiavi di mano e tenta di aprire la porta. Ci riesce immediatamente.

“Sei un imbranato.”

Rassegnato oltrepasso la porta.

“Buonanotte e grazie”

“Buonanotte un corno, credi che ti abbia aspettato fino ad ora per niente”


Se vuole solo soddisfare le sue frustrazioni sessuali carcasse qualcun altro!

“Idiota, voglio solo bere qualcosa.” Come se avesse letto i miei pensieri.


Senza troppi, anzi senza nessun complimento, si dirige in cucina e dal frigo si tira fuori due lattine di birra.

“E’ pieno di integratori e vitamine qui dentro. Dovresti mangiare qualcosa di sostanzioso invece che queste schifezze.”


La lattina di Takano aprendosi, canta una specie di sbuffo rumoroso. Mi passa l’altra .Non la apro, non ho voglia di bere. Ho solo voglia di dormire e dimenticare la giornata troppo pesante. Poco a poco i suoni si fanno più sfocati, quasi a scomparire, riesco a carpire solo ad intermittenza quello che Takano mi dice. Tutto mi sembra ovattato, quasi surreale. Il mio corpo cade in un totale stato di catalessia. Le lattine sul tavolino sono aumentate. Il cavo del cervello si è staccato da quello del corpo e non trovo il modo di ricollegarli. Le palpebre sono pesanti e hanno deciso di chiudersi autonomamente contro ogni mio volere. Intorpidito mi sdraio sul pavimento e mi lascio andare tra le braccia del sonno.



L’orologio digitale sopra la porta segna a caratteri tratteggiati e di colore fluorescente che sono passate da poco le quattro. Non importa quanto stanco io sia, i miei disturbi del sonno si fanno sentire con regolarità. Ho una pesante coperta di lana addosso, che non ricordo di aver mai comprato. Dal fianco sinistro su cui mi trovo poggiato mi giro. Ad abbracciarmi c’è Takano.

“Dopo avermi coperto deve essersi addormentato.”



Nonostante stia dormendo, c’è qualcosa di molto triste in lui. Senza gli occhialoni neri e lo sguardo truce, mi sembra così triste e quasi fragile. Quando lo vidi, la prima volta in
biblioteca, fu questo quello che notai, il suo sguardo triste. Che lo amavo, me n’ ero accorto dall’ inizio. L’ho sentito fin da principio ma non volevo accettarlo. Me ne resi conto quando una volta guardando il suo viso triste mi ritrovai in lacrime. Sentivo come se mi stesse per scoppiare il cuore
“Voglio farlo sorridere.” Era stato il proposito con cui mi ero confessato. Eppure, eppure non ne ero stato capace.  Da essere incompleto qual’ ero, sono riuscito solo a ferirlo. Ora è di nuovo qui accanto a me. Ho paura di ferirlo e di ferirmi, ancora. 

Sono di nuovo in lacrime.

“Abbracciami”  Bisbiglia Takano dal mio fianco.
“Abbracciami, ho freddo.” Ripete più forte.

Mi stringe a se fortissimo, come se fossi il suo tesoro più grande.
Il cuore mi fa male.
Sono felice.

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Capitolo 3
*** Tatto ***




Le prime luci dell’ alba squarciano quella notte troppo corta generando le radici di un nuovo  giorno.  Io e Takano siamo ancora qui, stesi sul  pavimenti, abbracciati. Senza abbandonarmi,  mi dice di chiamare in redazione, e avvisare che non ci saremo per oggi.

“Perché non dovremmo andare?”

“Perché ho deciso così, sono il tuo capo, fai quello che ti dico!”

“Ma che penseranno se ci assenteremo insieme?”

“Di che penseranno o diranno non me ne frega un accidenti. Voglio festeggiare.”

“Festeggiare che?”

“Che tu sei mio!”

E’ impazzito? Si è bevuto il cervello? Forse sono i postumi dell’ alcol? Sono suo? Vuole farmi morire di tachicardia?

“Vado a preparare la colazione.” Dico.

Non devo arrossire, non devo assolutamente arrossire. Autocontrollo.
Takano  è disteso sul lato sinistro, poggia la testa sul braccio. Mi guarda e sorride.  Si stringe il viso tra le mani  e inizia a ridere. Il corpo si agita convulso e ride più forte.

“Che hai? Perché ridi così?” Domando.

“Sei buffo. Buffo e rosso come un peperone.”

Merda. Infilo il viso nel frigo, fingendo di cercare qualcosa, provo contemporaneamente a nascondermi e a far sparire il colore paonazzo dal viso. Mi vergogno. Mi vergogno da morire.  Per quello che provo, e per le mie illusioni. Quel sorriso malizioso è lo stesso di dieci anni prima. Merda.
Due braccia mi cingono il collo da dietro. Takano sta tentando ancora una volta di attentare al mio cuore. Mi stringe fortissimo e abbandona su di me tutto il suo peso.

“Questo ragazzetto buffo e rosso è solo mio. Mio e di nessun altro.”

Ormai sono arrivato ad un punto di non ritorno.  Con una sua sola parola salgo in paradiso e con altrettanta facilità scendo all’ inferno. La mia vita si basa sulla sua sola presenza. 

“Usciamo.” Dice lentamente

“Eh?”

“Andiamo a fare un giro, muoviti.”
 
Me ne accorgo solo ora, di quanto Takano sia più alto di me. Le gambe e le braccia troppo lunghe, il viso leggermente corrucciato, da pensatore.  E’ sempre stato schifosamente bello, fin dai tempi del liceo lo è sempre stato.  Le ragazze gli correvano dietro  a greggi.  Come pretende che gli creda quando dice di amarmi?
 
 





Fuori  il freddo mi sta ghiacciando le dita ma non mi lamento. E’ la prima neve che cade, e io ho perso da un mucchio di tempo i miei guanti. Anche il naso si sta ghiacciando, la sensibilità cede e sto tremando come una foglia. Le luci natalizie danno una strana atmosfera, di casa e calore in mezzo a questo freddo.  Non  ho ricordi molto felici dei Natali passati con i miei genitori, ma le luci per strada mi sono sempre piaciute. Le vetrine luccicanti e le persone cariche di pacchetti multicolori. Sono da poco passate le nove, ma del sole neppure l’ ombra.  Il cielo è grigio e nuvoloso. Fa risaltare ancora di più le luci. Anche il cielo grigio mi piace, mi rispecchia fin troppo.  Senza il suo sole non può brillare di luce propria ed è spento, quasi triste.

“Dammi la mano”

“Che?”

“Dammi la mano, stai ghiacciando.”

Takano si sfila un guanto, prende la mia mano e se la infila in tasca.

“Diamine come sei freddo!”

Sento il suo calore, il calore della sua mano che avvolge la mia.  E’ un calore tiepido, che lentamente ti ricopre del tutto, dalle dita dei piedi alla punta dei capelli. Non ho più freddo e non tremo più. Forse il cielo uggioso ha trovato il suo sole.
 
L’ incantesimo però, come tutti gli incantesimi dura poco. Alcune persone che ci passano accanto, con una mano sulla bocca, ci guardano, mormorano.  Siamo strani, anormali, come animali particolari in uno zoo. Takano procede imperturbabile. Mi stringe più forte la mano, non mi permette di lasciarla. La gente blatera, continua  blaterare. Mi accorgo di centinaia di occhi, persone che non vedo, ma che mi scrutano, mi analizzano in ogni dettaglio, mi interrogano, mi giudicano. Non sento quello che dicono, ma lo percepisco. E’ strano che due ragazzi si tengano per mano, è strano e innaturale.
Rallento il passo, quasi mi fermo.  Dimeno la mano. Takano la stringe più forte, troppo forte, quasi la stritola.

“Cammina!”  aggiunge.

Lo seguo come un cane bastonato, con la testa bassa e la mano ancora stretta alla sua. Mi viene da piangere ma mi trattengo. Mi sento un criminale, della peggiore specie che deve essere portato al patibolo.


“Ritsu-kun!” Strilla una vocina acuta.

An  mi sta di fronte, sembra aver recuperato tutto il buon umore perso a casa dei miei. Improvvisamente il suo sguardo si sposta sulla mano infilata nella tasca di Takano. Cerco di tirarla fuori ancora. Non serve a niente. Mi guarda stranita e dubbiosa.

“Lui non è il tuo vicino di casa?”

“S…si è Takano-san.” Balbetto imbarazzato.

Finalmente mi molla la mano. Sto sudando freddo.   Takano si avvicina ad An e le dice qualcosa. Sorride. Dopodiché si allontana, salutando con un gesto della mano. Lei sta per scoppiare in lacrime, le si legge in faccia che è decisamente sconvolta.  Scappa nella direzione opposta a cui se n’è andato Takano. Mi lasciano qui, solo, a fare a pugni con i miei pensieri. Mi balenano in mente altre migliaia di possibilità, ma nulla riesce a scacciare la convinzione di quello che ho appena sentito. Preferirei essere nel dubbio, non avere quindi la certezza di quello che le ha detto.

“Non siamo solo vicini. Io e il tuo adorato Ritsu-kun stiamo insieme!” 

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Capitolo 4
*** Udito ***






Che diavolo gli è preso? Ma che gli salta per la testa? Tanto il problema è mio, mica suo. Lui può scherzare e dire tutte le cazzate che vuole, sono io che mi devo subire poi le conseguenze.
Sono due ore che giro come un imbecille e non riesco a trovare pace.
A casa non ci voglio tornare, quell’ idiota sarà lì ad aspettarmi.
A lavoro, domani, non ci voglio andare, me lo troverei comunque.
Mi sta sempre tra i piedi ovunque vada, peggio di uno stalker.
E mi viene in mente, quando ero io, 10 anni prima, stargli sempre tra i piedi, a leggere i libri che leggeva lui solo per abitare nello stesso mondo fantastico, solo per inspirare il suo profumo dalle pagine. E mi sento un verme, della peggiore specie, come se il torto l’ avessi fatto io. Compro una ciotola di ramen istantaneo e pranzo con quello. E’ una gran schifezza, sa di patatine. Ne butto mezzo, ho lo stomaco in subbuglio. Cammino, cammino per tutta Tokyo, cammina il mio corpo ma io no, la mia mente è altrove.
Penso che fa troppo freddo e che mi manca il calore di Takano.
Penso che ora An starà piangendo.
Penso che mi sono messo nei guai, e che fondamentalmente potrei non  fregarmene.
Penso  che è presto ma io ho sonno.
Penso che ora  casa ci torno, succeda quel che succeda.
Sta facendo buio quando salgo le scale del condominio, fa sempre più freddo, mi sembra che la temperatura sia vicina allo zero. Mi sento prima accaldato e poi improvvisamente ho freddo. Mi sto ammalando. Che forse poi è meglio così, almeno avrò una scusa valida e un certificato medico per saltare il lavoro.




Non senza tremori giro la chiave nella toppa il più silenziosamente possibile. Sguscio nel corridoio, butto le chiavi a terra insieme alla borsa.  Entro in camera, mi spoglio. Butto pure i vestiti alla rinfusa, accartocciati. Mi fisso semi-nudo nello specchio. Guardo la cicatrice che ho sul fianco destro, quella dell’ appendice quando avevo 13 anni. Vedo che si è deformata, come una macchia d’ olio, ha seguito il crescere del corpo, si è adeguata ad esso. La percorro con l’ indice, al tatto ha una consistenza strana.  Mi sento un adolescente che si guarda per la prima volta in un altro corpo, trasformato e immancabilmente lo sente brutto. Quello di Takano non è così. E’perfettamente bianco, di un colore candido e lattiginoso. I muscoli sono sottili non troppo esposti. Sul dorso della mano  si intravedono le vene di un colore leggero e nell’ incavo del gomito emana  un profumo dolce e zuccherino. Mi sorprendo delle mie conoscenze accurate su ogni suo lembo di pelle.  Penso che Takano è tutto quello che non sono io, e che un po’ lo invidio.
Mi viene un mal di testa atroce.
Mi infilo il pigiama e mi ficco sotto le coperte.
Era un sacco di tempo che non dormivo nel mio letto.
Le lenzuola sono ghiacciate.
Il mal di testa aumenta, è insopportabile. Mi faccio prendere dagli spasmi. Non ho medicine in casa e non me la sento di alzarmi. Infilo la testa  sotto il cuscino e cerco di prendere sonno.
 
 
Mi sveglio che è di nuovo mattina. Ultimamente sto perdendo la cognizione del tempo. La testa non mi duole più, la sento quasi leggera. Mi tocco la fronte, è fresca, una pezza umida mi è leggermente scivolata di lato. Mi metto seduto , guardo Takano sulla poltrona nell’ angolo. Dorme.  Sul comodino ci sono diversi pacchetti di medicine, per terra una bacinella d’ acqua. Deve aver passato la notte a curarmi.
 Come ha saputo che stavo male?
Come ha fatto ad entrare?
Mi alzo. Tiro fuori dall’ armadio una coperta, gliela poggio addosso. Mi sembra che tutta la rabbia del giorno prima sia sbollita assieme alla febbre. E’ doveroso preparargli almeno la colazione, mi avvio in cucina.
“Puoi stare qui con me, probabilmente mi hai attaccato l’ influenza.”
E’ sveglio?
“Ti sto andando a preparare la colazione.” Dico.
“Non ho fame, non mi sento bene, stai qui.”
“Vuoi poggiarti nel letto?”
“Non mi dispiacerebbe.”
Lo aiuto ad alzarsi, lo infilo nel letto, gli tocco la fronte. E’ caldissimo. Faccio per alzarmi ma mi trattiene. Mi affonda la testa nella pancia. Si scusa, mi dice che quello che gli è preso ieri sera non se lo sa spiegare nemmeno lui.  Mi dice che mi ama, più di qualunque cosa al mondo, più di qualunque persona al mondo. Che non mi ama con tutto il cuore, ma pure con la testa, lo stomaco e il resto. E per la prima volta gli credo, gli credo ciecamente. Guardo il suo viso arrossato e rilassato e so che è assolutamente vero. Per la prima volta sono io ad abbracciarlo come si abbraccia un cucciolo caldo, lo stringo con forza per paura che possa scappare.
 
 

“Mi amerai per sempre?”
“Per sempre non esiste, ma posso giurarti che per quanto durerà ci metterò tutto me stesso.”
“Hai paura della morte?”
“Finchè sono con te mi va bene anche quello.”
“Parli come il protagonista di un romanzo.”
“Ho letto troppi libri.”
“Restiamo un altro po’ così, abbracciati.”
“Tutto il tempo che vuoi.”
“Ti amo.”
“Anch’io.”


Le tue braccia sono il posto più bello del mondo. Mi sembra di essere tornato nella pancia di mia madre, protetto dalla placenta e dal liquido amniotico. Il tepore di organi caldi. Il rumore vivido di un cuore battente. L’odore fugace di vita.
 

Il telefono squilla, è ossessivo e irritante. Takano mi dorme accanto. Squilla una, due, tre volte.  Rispondo.
“Pronto?”
“Perché non rispondevi!?” 
Sembra più un’ affermazione che una domanda.
“Che c’è?”
“Corri all’ ospedale M” Grida agitato mio padre.
“Eh?”
“Corri svelto, anche noi stiamo andando lì”
“Mi spieghi che diavolo succede?!”
“An” balbetta “An ha tentato il suicidio!”
 
 
 

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Capitolo 5
*** Gusto ***


L’ ospedale puzza di fiori e disinfettante. La depressione nell’ aria è palpabile. Una vecchietta in pigiama mi sorride sdentata. Ricambio.  Mi dirigo al sesto piano. E’ li che mi hanno detto di andare.
Takano non è voluto venire, è diventato nero in volto quanto gli ho raccontato della chiamata. Si è vestito, si è coperto la bocca con la sciarpa e mi ha detto “vai tu”.
Sul bigliettino che mi ha dato l’ infermiera c’è scritto 316. Stanza 316. Sulle sedioline blu polverose accanto alla porta sono sedute due persone che non conosco.
“Buongiorno” dico.
Nessuna risposta.
Apro la porta pallida e un po’ ho paura. Paura di vedere An ferita e sapere che è colpa mia. Quindi esito, mi guardo le nocche rossastre sulla maniglia. Tremano. Poi la apro, con un colpo secco, deciso. Come quando mio padre mi toglieva i denti da bambino.  Non c’è An di fronte a me, non c’è il suo letto, solo un lungo tendone bianco.
Lo tiro, gli anelli stridono sull’ asta d’ acciaio che la mantengono e finalmente la vedo. Ha un tubicino in bocca, una flebo e i polsi fasciati. La puzza di medicine è più forte che nei corridoi. I lineamenti del viso sono distesi, quasi sereni. I capelli sudaticci raccolti sotto la nuca.
Per un solo secondo, uno soltanto spero che sia morta, che non si svegli mai più. Perché la mia felicità vale più della sua. E un secondo dopo mi pento di quello che ho pensato e un po’ me ne vergogno. Me lo hanno insegnato da bambino, queste cose non si augurano a nessuno.
Istintivamente le tocco il viso, sento che è calda e tiro un sospiro grande come il mondo con il terrore ancestrale che il mio desiderio si possa esaudire.
 La porta si apre e un vecchio energumeno in camice entra accompagnato da mia madre e da quella di An.
“Buongiorno signorino,  potrei sapere chi l’ha autorizzata ad entrare?” Esordisce.
“Me la sono presa da solo l’ autorizzazione”
“Ritsu non fare il maleducato” Mi rimprovera mia madre. “Lo perdoni Dottore, è molto scosso per quello che è successo.” Si scusa.
Vorrei replicare che è solo un vecchio cafone, e che non sarà certo una laurea in medicina a renderlo una persona migliore, ma sto zitto perché forse non è né il luogo né il momento più opportuno.
Il medico bofonchia qualcosa di incomprensibile.
“Veniamo a noi” dice infine “la ragazza oltre ad aver praticato su entrambi i polsi dei tagli seppur superficiali ha ingerito una grossa quantità di antidolorifici e sonniferi che ci hanno costretti alla bellezza di quattro lavande gastriche. Un record. Voleva andare sul sicuro la signorina.”


E’ per gli arroganti come lui che il mondo va a puttane.
La madre di An singhiozza, si chiede cosa ha sbagliato. Vorrei avvicinarmi a lei, dirle che non c’è niente di sbagliato in lei, che l’ unico che ha colpa sono io. Ma sono un codardo e la responsabilità non me la voglio prendere.  Mi limito ad una pacca sulla spalla ed è il gesto più meschino che possa fare.
Il medico -quello stronzo!- alza un sopracciglio con sguardo di sufficienza e si congeda pronunciando la frase di rito.
“Si riprenderà!”
E a quelle parole mi sento mancare. Il respiro mi muore in gola e le gambe non reggono il gravoso peso della consapevolezza che quell’avvenimento ha pregiudicato definitivamente il mio futuro. Gli occhi si offuscano di una patina alabastrina, il corpo è avvolto da un torpore pesante, mortale.  La mente, infine, cede impotente alla forza dello svenimento.
Il mio primo ricordo è un seggio bianco e il fiocco di cotone imbevuto di alcool che mi ha intasato le narici. Il risveglio è violento, quasi spastico. La vita torna ad inondare il mio corpo e prova ne è il forte sussulto. Mi sveglio urlando il nome di Takano e mia madre che mi è accanto trasalisce. Mi chiede chi sia. Non rispondo. Ho preso coscienza dell’accaduto all’improvviso e tutto ciò che riesco a fare è fissare spaurito le mattonelle candide della sala in cui mi hanno portato. Mia madre mi fissa silenziosa. Ha intuito che qualcosa non va, che non è la salute di An a rendermi così. Voglio andare a casa. Ho bisogno di qualcosa di familiare, di qualcosa che mi appartenga. Mia madre insiste perché me ne stia a riposare un altro po’.
“Prenderò un taxi.” le dico e le schiocco un bacio sulla fronte.
Quanti anni sono che non bacio mia madre? Quanto tempo è che non le rivolgo un gesto d’affetto, un segno tangibile della mia gratitudine filiale? E lei è commossa, perché è diventata vecchia. Quando si diventa vecchi basta il bacio di un figlio a commuoversi.
 
Arrivo a casa stremato, mi trascino per il corridoio e, con ancora indosso le scarpe, mi getto sul letto. Questo è sfatto dalla mattina. Le coperte disordinate sono relegate ad un angolo, al centro del letto un alone di soluzione salina. Quella che Takano aveva usato per farmi scendere la febbre. Nell’aria, ancora tangibile, il suo odore.  Mi sfioro le labbra asciutte. La bocca è impastata. La voce muore in gola. Il tic-toc dell’orologio e poi un silenzio perfetto. Vorrei dormire ma il pensiero di An in fin di vita mi rimbomba nella mente e nelle orecchie. Mi sento soffocare. Non riesco a respirare.  La vista si avviluppa.  La luce soffusa dell’ abatjour si dilata e diventa un bagliore insostenibile.  Le mani si intorpidiscono di un formicolio venereo.  L’inferno è così. La morte dei sensi. Anzi non la morte. L’incontrollabilità. Quella sensazione di impotenza dinanzi alla totale autonomia del nostro corpo rispetto alla nostra mente.  E sono un guscio vuoto, un farlocco. Mi agito nel letto e sono l’imitazione di me stesso.
Quella sorta di trance si interrompe al trillo acuto del cellulare. All’inizio non lo sento ma poi il rumore prepotente mi costringe a ricevere la chiamata. Premo il tasto verde e lascio libero sfogo a chi è dall’altra parte. 

Lo so chi c’è dall’altra parte.
Dall’altra parte del telefono e dall’altra parte del muro laterale della mia stanza. Trenta centimetri di mattoni e cemento ci dividono. Trenta centimetri di mattoni e cemento che a me paiono un abisso.
“Mi dispiace”
E’ un sussurro sottile.
“Mi dispiace”
Vagamente più forte.
“Mi dispiace”
Stavolta è quasi un urlo. E poi una sfilza di “mi dispiace”. 
“Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace.”
 Diventa isterico, forsennato. Sento un misto di gorgoglii e lacrime. Un pianto nasale. Come quello dei bambini.
Non chiede scusa a me, Takano. Chiede scusa ad An, ai suoi genitori, ai miei genitori, al medico stronzo, alle infermiere, alla vecchietta nel parco, alla vicina gentile. Chiede scusa al mondo intero. Chiede scusa perché mi ama. E per me è lo stesso. E’ una vita che chiedo scusa. Perché sono la persona sbagliata al momento sbagliato. Perché amo Takano e non dovrei.  Perché nonostante tutto, non voglio rinunciare. E quando la chiamata si chiude, prima che il campanello possa suonare, sono alla porta. La apro e c’è un ragazzone con i capelli neri, gli occhiali e gli occhi gonfi.  Mi crolla addosso, si aggrappa al golf e mi affonda il viso sfatto nel petto. Non parla. Io faccio altrettanto.  Non c’è niente da dire… in fondo, basta stare così. Vicini.
Quando sono certo che il cuore sia tornato ad un ritmo normale, avvio Takano alla stanza.
“Stenditi” gli urlo autoritario.
Ubbidisce. E’ insolitamente mansueto.
Faccio per allontanarmi e mi sussurra di rimanere.
“Mi vado a togliere le scarpe!” replico.
All’ingresso perdo più tempo del previsto. Mi muovo con lemma. Impiego dieci minuti buoni a scarpa. Poi mi decido e torno in camera.
Takano è ancora sveglio ha gli occhi sbarrati. Mi spoglio, davanti a lui, imperturbabile. Gli mostro il mio corpo imperfetto, e spero che lo guardi, che lo ricordi. Mi infilo il pigiama che da troppe notti non vedo. Gli faccio segno di farmi spazio. Mi accuccio accanto a lui. Fa freddo, e abbracciati si sta bene.  So che è sbagliato, che non è naturale… ma se essere nel giusto implica la sua assenza, preferisco finire felicemente all’inferno.
Allungo il collo e gli schiocco un bacio sulle labbra umide. E’ un attimo, l’inizio di tutto. Quel punto dal quale non si può più tornare indietro. Il secondo bacio è di Takano. E anche il terzo, il quarto, il quinto… e così via. Facciamo l’amore e sembra la prima volta. Non è l’amore di dieci anni fa, quello frenetico e affrettato degli adolescenti. No. Questo è posato, lento, ponderato. Ha la morale dei nostri anni. E’ fatto di sguardi, di sussurri,  di gesti delicati, di carezze.  Si muove con dolcezza… quasi a non voler far rumore.

Ogni tanto Takano mi bacia la fronte sudata. 
“Mi dispiace” – “Ti amo!”

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