La Tela di Osiride

di Miss Paget e Miss Doyle
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** I - Fantasmi dal passato ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Carissimi colleghi,
sovente abbiamo girovagato per questo grande Mondo di opere letterarie, frutto dell'ingegno di molti entusiasti apprezzatori dell'arte di Sir Doyle. Abbiamo provato tutte le serrature, aperto ogni porta, esplorato ogni stanza. Tuttavia, questa è la prima volta che, prendendoci per mano, intraprendiamo insieme un cammino arduo, ma colmo di soddisfazioni, come è destinato ad essere quello di ogni sperimentatore.
Augurateci buona fortuna. Dal canto nostro, speriamo che il frutto di quest'opera condivisa vi possa essere gradito.
Miss Paget e Miss Doyle

EDIT: l'avvertimento è stato aggiornato in seguito alla corretta osservazione di Vodia. Grazie :)



La Tela di Osiride



Prologo

Sebbene la mia memoria di quella notte sia rimasta pressoché inalterata nel corso degli anni, ho recentemente scoperto di non conservare alcun ricordo del modo in cui attraversai la City, mi addentrai in Pall Mall e raggiunsi la dimora di mio fratello. Stentavo a reggermi in piedi, e da un esame meticoloso ed approfondito del mio soprabito, usurato nelle spalle e sulla schiena, potei in seguito dedurre che mi ero appoggiato ai ruvidi muri di mattoni dei palazzi, sfregando contro di essi mentre barcollavo nella poco dignitosa foggia d'un ubriaco.

Rammento bene la strada illuminata da fioche e distanti luci di lampioni, l'oscurità, la nebbia giallastra che sembrava impregnare i miei stessi polmoni, l'umidità sulfurea che mi faceva sobbalzare e tossire, piegando la mia persona dolorante.

Vidi una forma massiccia delinearsi vicino ad una delle porte ed avanzai trascinandomi sul selciato. L'idea di raggiungerlo prima che sprangasse l'uscio dietro di sè equivaleva nella mia mente a quella di salvezza, e non esitai ad arrancare innanzi, sperando che mi notasse, che quel buio opprimente non avesse intontito anche le sue facoltà percettive.

E quale spavento ebbi! - lo ammetto, fu dovuta al terrore, la pungente sensazione che provai quando l'uomo mi saettò un'occhiata sospettosa e rovistò freneticamente nella tasca del cappotto per trovare le chiavi. Non mi aveva riconosciuto, e credeva che fossi uno di quei loschi individui che la malavita Londinese ha l'abitudine di annoverare tra le sue folte fila.

La fortuna tuttavia mi concesse di approfittare della proverbiale pigrizia del mio fastidiosamente lento fratello maggiore, che impiegò più di due minuti a trovare la chiave e ad inserirla nella serratura. In quel lasso di tempo ero già ad una distanza più ragionevole, ed egli mi scrutò attentamente con occhi la cui incisività superava persino quella dei miei.

"Sherlock?" chiamò, esitante. Pervaso di sollievo, feci il madornale errore di rilassarmi, accasciandomi contro la parete che mi forniva un rozzo supporto. Purtroppo questo atto liberò le forze maligne dell'insensibilità, che iniziarono ad avere la meglio sulla mia volontà di ferro e a farmi sprofondare in un mare torbido e turbinoso dal quale non avevo speranza di poter riemergere.

"Per Giove - Sherlock!" esclamò mio fratello, affrettandosi verso di me; notai con intimo disagio - un ronzio nelle profondità del mio cranio - il suo tono atterrito. Mi cinse con le grosse braccia appena in tempo per evitare un mio brusco collasso sul selciato sporco. La mia vista sfocata registrò a malapena il suo viso tondeggiante di fronte a me, la sua mano grassoccia che cercava goffamente di sorreggere la mia testa che crollava in avanti priva di forze.

Con un sovrumano sforzo, mantenni la lucidità per un solo minuto ancora.
Fantasmi terribili emergevano dai meandri del mio inconscio, si insinuavano nel mio intelletto e minacciavano di dilaniarlo crudelmente. Quando essi fossero riusciti nel loro infernale intento, non avrei più potuto parlare; questa consapevolezza ed il panico che la seguì servirono, se non altro, da catalizzatori.
"Mycroft. Ascoltami. Un medico. Un s-sedativo, serve..." balbettai, quasi incoerente, "... Watson. Cerca Watson, lui sa." la risposta che aspettavo non si presentò e la esortai con un attonito, "Mycroft!"

"Ho capito, Sherlock. Cerca di calmarti. Cosa ti è accaduto?"

Volli replicare, ma il crepuscolo calava su qualsiasi barlume di coscienza che ancora permanesse all'interno del mio cervello, "W-Watson. Lui sa." mi limitai a bisbigliare.

La mia lotta con - qualsiasi cosa minacciasse la mia sanità mentale - era divenuta troppo faticosa, troppo penosa. Mi abbandonai al mio destino, imponendomi di serrare il pugno destro intorno all'oggetto che vi nascondevo, unica chiave di quell'enigma. La voce di mio fratello, che pronunciava ripetutamente il mio nome, divenne sempre più distante; infine si perse, come un sibilo lontano, nell'aria gelida.



"Per Giove - Sherlock!" esclamò mio fratello, affrettandosi verso di me [...].

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Capitolo 2
*** I - Fantasmi dal passato ***


Buongiorno, cari colleghi.
Eccoci qui con la seconda parte della narrazione. Risponderemo ad ogni vostra recensione, tuttavia ci terremmo a precisare che è stato corretto l'errore che una di voi ci ha fatto notare (il quale è, in ogni sua parte, responsabilità della sbadatissima Miss Doyle) riguardante le caratteristiche della storia stessa. Speriamo inoltre che già da questo capitolo si possa evincere - meglio, dedurre - il periodo nel quale il racconto è ambientato.
Buona Lettura,
Miss Paget e Miss Doyle

EDIT: Miss Doyle ringrazia Minnow per il betaggio notturno e per aver indicato a Sebastian Moran l'ubicazione di quegl'infidi puntini di sospensione a fine periodo :-)



I - Fantasmi dal passato

Come medico, sono avvezzo a ricevere chiamate d'urgenza dai miei pazienti anche alle ore più improbabili e scomode; è mia consuetudine mantenere la lucidità e fare appello al mio buon senso in situazioni che spesso lasciano poco spazio alla speranza. Tuttavia, quando ricevetti quell'inaspettato e terribile telegramma, non potei evitare un'esclamazione di orrore che fece trasalire mia moglie.

"John! Cosa c'è?" chiese lei, atterrita.

Balzai in piedi allontanandomi dal tavolo della cena; ripercorrevo con uno sguardo stralunato quelle poche lapidarie parole dattiloscritte.
Mio fratello in gravi condizioni STOP Stato allucinatorio inspiegabile STOP Richiede sua presenza a Pall Mall STOP Pregola raggiungerci senza indugio STOP MH FINAL STOP

"Sei pallido come un lenzuolo, caro. Siediti."

Rivolsi uno sguardo di istintivo affetto alla mia diletta moglie, che era in piedi accanto a me.
"Non posso, Mary: sembra che Holmes non stia troppo bene." le porsi il malaugurato messaggio ed andai a recuperare la borsa medica che tenevo nella camera. Quando rientrai in salotto, anche la mia consorte era sbiancata in volto e mi si avvicinò, turbata, aiutandomi ad infilare il soprabito e porgendomi il cappello.

La salutai in fretta ed uscii, chiamando a gran voce una carrozza. Mentre il veicolo sobbalzava sul lastricato del centro, cercavo invano di placare il battito del mio cuore, che correva, pensando alle possibili cause di quell'emergenza. Forse il mio amico aveva ceduto al vizio che di tanto in tanto ne riafferrava l'animo? Oppure era vittima di qualche intrigo? O peggio, era stato avvelenato da uno dei suoi esperimenti chimici?

Cercai, ingenuamente, di riflettere usando la medesima procedura di imparzialità che il mio amico avrebbe adoperato: l'unico fatto certo era che Holmes aveva scelto, non sapevo perché, di rifugiarsi presso il fratello maggiore, chiedendo poi di me. Mi trattenni, in un impeto di virtuosa volontà, dal formulare congetture, ed attesi trepidante che la vettura si fermasse in Pall Mall.

Pagai il vetturino in tutta fretta e mi lanciai verso la porta, afferrandone il battente, ma essa si aprì prima che potessi calarlo sull'asse di legno. Mi ritrovai faccia a faccia con Mycroft Holmes, il cui paffuto volto era segnato da profonde rughe. Senza parlare, si affrettò ad introdurmi nel salotto.

Il mio amico era disteso sul divano, gli occhi sbarrati, il corpo esile scosso da tremori. Balbettava di tanto in tanto qualcosa di incomprensibile, e teneva i pugni serrati come se fosse pronto a colpire qualcuno. Devo ammettere che rimasi scioccato a fissarlo per alcuni secondi, prima di avvicinarmi a lui. Era l'ombra di se stesso, nulla più che uno spettro del lucido pensatore di Baker Street che conoscevo.

Mi chinai e gli appoggiai una mano sulla fronte. La temperatura non era così alta da giustificare uno stato di delirio, anche se potevo riscontrare una certa alterazione. I muscoli delle braccia e del collo erano irrigiditi, e le sue iridi grigie fissavano l'ambiente circostante senza vederlo realmente.

"Holmes." chiamai, quando potei parlare. "Holmes! Holmes, riesce a sentirmi?"

Agitai una mano di fronte ai suoi lineamenti pallidi. Interposi la mia persona tra lui e qualsiasi grottesca visione la sua mente stesse costruendo, ma non reagì né alla mia voce né al mio tocco.

"Ha menzionato un sedativo. Diceva che fosse necessario." intervenne la voce strozzata del funzionario di Whitehall, che rimaneva in disparte.

Un sedativo? Quale condizione psicofisica avrebbe giustificato la somministrazione di un ipnotico?
Certamente uno stress indotto. Una situazione di estrema agitazione, una crisi che potesse degenerare in danneggiamento dei tessuti o della mente.

Mentre riflettevo in questo senso, il mio sguardo cadde su una specie di punta metallica che sporgeva tra le dita della mano destra di Holmes. Stava stringendo una sorta di manufatto - forse in qualche modo collegato alle cause della sua infermità. Delicatamente tentai di sfilare l'oggetto da quella stretta, e trovai che la forza di quella presa era quasi inesistente, il che mi preoccupò non poco.

Era un piccolo dardo, una freccia dalla punta acuminata. Un cilindretto di legno con estremità rivestita in metallo, finemente intagliato per renderlo adatto a scivolare nell'aria e preciso da lanciare; l'arma utilizzata per scagliarlo era, quasi certamente, una cerbottana. Mi sforzai di pensare per qualche momento, con l'attenzione che la comprensibile ansia per le condizioni del mio amico poteva concedermi.

Fu un'agghiacciante illuminazione; così come un lampo, squarciando il cielo con la sua abbagliante lama, infonde il terrore nell'animo di un bambino, i ricordi affiorarono spontaneamente al mio tardo intelletto, sovrastandolo mentre prepotentemente si affermavano alla mia attenzione. Il respiro mi mancò, e dovetti appoggiarmi allo schienale del divano per non crollare carponi al suolo. Naturalmente Mycroft mi aveva osservato con estrema attenzione, e preoccupato si fece avanti.

"Dottore. Che succede?"

Deglutii a fatica il terrore che si era accumulato nel mio stomaco. Non si trattava di qualcosa di potenzialmente controllabile: erano pochi ricordi d'infanzia.

"Dottor Watson, per l'amor del Cielo!"

Mi ripresi a fatica. Depositai il dardo sul tavolino, afferrai la mia borsa medica e frugai all'interno cercando l'astuccio che conteneva laccio emostatico ed ipodermica. Riempii la siringa con una dose di sedativo, cercando di fare in fretta.
Tuttavia, non avevo notato che gli occhi del mio amico, pervasi di una profonda ansia e di un genuino terrore - ancora oggi quello sguardo mi perseguita negli incubi più cupi - avevano messo a fuoco la mia persona.

Sapevo a cosa preludesse quella scintilla di follia, e forzai il mio contegno alla calma ed alla tranquillità, per quanto lo permettesse l'incessante rombo del sangue nelle orecchie e l'agitazione che pesava sulle mie membra come stanchezza derivante da giorni di veglia.

"Holmes. Amico mio, sono Watson. Mi riconosce, vero? Watson." ripetei, lentamente.

Febbrilmente cercò di alzarsi a sedere, aggrappandosi al divano, ad una sedia vicina, al tavolino, cercando di fuggire da quel posto, debolmente tentando la fuga.
Paralizzato dallo sconcerto, il fratello rimaneva perfettamente immobile.

"Holmes, si calmi. Stia tranquillo." sussurrai, appoggiandogli una mano sulla spalla, da lui respinta come se fosse stata un attizzatoio rovente.

Scosse il capo ostinatamente, mormorando qualcosa. Il veleno che gli era stato inflitto sicuramente stava sgretolando le strutture del suo autocontrollo, eppure la lotta era ancora in corso: lo dimostrava il fatto che ancora il mio amico non sembrasse aver perso completamente la padronanza di sè.

Presi una mano ossuta tra le mie, cercando di dimostrarmi inerme e bendisposto nei suoi confronti.
"Lei è Sherlock Holmes. Abita al 221b di Baker Street, a Londra, in Inghilterra. Ricorda? Ha condiviso con me quell'appartamento per tre anni. John Watson. Medico militare. Rammenta, Holmes?"

Crollò ancora il capo, orripilato. Solo il Cielo sa quali tremendi scenari il suo cervello stesse dipingendo sulla mia anonima figura.
"Non portarmela via. Non di nuovo. Ti prego." biascicò, in un miserabile sussurro.

Cercai la concentrazione, e dovetti abbassare le palpebre per un attimo.
"Holmes, devo iniettarle questo tranquillante. E' l'unico modo. Lei stesso l'ha suggerito."

"No - no. Ti prego, no. Farò tutto ciò che vuoi."

Strattonava la mano per liberarla. Sbottonai il polsino per arrotolare la manica, ma il mio povero amico non me l'avrebbe permesso. Ritrovata magicamente gran parte della sua energia, mi spinse contro il tavolino, e nel tentativo di lasciare la stanza crollò a terra, sul tappeto, accanto al caminetto.

"Mi aiuti!" esclamai, rivolgendomi a Mycroft, che sembrava volersi autoconvincere che tutta quella scena fosse una sua allucinazione. Il maggiore degli Holmes non reagì, scuotendo il capo come a snebbiarsi la mente.

Mi chinai di fronte all'infermo, afferrando le sue spalle con forza e scrollandolo, cercando invano di rompere le sbarre di quella perfida prigione. Tentò di liberarsi, ma la mia presa era sufficientemente salda.

"Holmes!" gridai, "Lei è Sherlock Holmes. Sherlock - Holmes, il ragazzo che ho conosciuto alla Brompton Academy, l'uomo che ho ritrovato vent'anni dopo grazie a Stamford, l'investigatore che ha sempre guardato alla verità come a qualcosa per cui combattere."

Lo sguardo folle del mio amico mi diede i brividi, tuttavia non smisi di parlare.

"Non rinunci alla battaglia, Holmes! Non si dia per vinto! Mi guardi, ora!"

Con dolorosa lentezza, il suo respiro si calmò, e gli occhi grigi come l'acciaio persero, per la maggior parte, quella scintilla di vaneggiamento che vi avevo scorto poco prima. Dischiuse le labbra per dire qualcosa, ma non riuscì; mi accorsi che tremava violentemente.

"Calma adesso, amico mio. Calma." mormorai, a voce bassa, io stesso provato da quelle inusuali circostanze. Riadagiai l'esile persona al suolo, e spostai le mani verso l'avambraccio, scostandone la stoffa di soprabito e camicia.

"Watson?"

Inserii l'ago dell'ipodermica ed iniettai il sedativo. "Sì, Holmes."

"Watson." sospirò, rilassandosi bruscamente; in capo a pochi momenti era profondamente addormentato.

Lunghi minuti di sconcertante silenzio seguirono quei fatti, la cui eco si ripercuote sul mio animo anche a distanza di decenni, risvegliando in esso fantasmi che avrei preferito per sempre sopiti. Rimasi inginocchiato a fianco del mio assopito camerata per un po'; poi i miei istinti di medico mi ricordarono che sarebbe stato meglio riportarlo sul divano. Obbedii al suggerimento inconscio con l'aiuto dell'anziano funzionario di Whitehall, il cui volto rotondo conservava ancora il livore dello shock.

"Dottore." esordì quello, in un sussurro affranto, "Lei ha idea di cosa gli stia succedendo?"

Annuii gravemente, incontrando il suo sguardo.
"Tutto ciò può avere solamente un nome." cercai di spiegare, e la mia voce si ruppe mentre lo pronunziavo: "Rametep."



"Non portarmela via. Non di nuovo. Ti prego." biascicò, in un miserabile sussurro.

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