In ruins. di sleepingwithghosts (/viewuser.php?uid=163505)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Something inside this heart has died. ***
Capitolo 2: *** Nothing goes as planned. ***
Capitolo 3: *** When it’s time to live and let die. ***
Capitolo 4: *** We’ll get to shiver. ***
Capitolo 5: *** Here am I, lost and found. ***
Capitolo 6: *** I wanna be drunk when I wake up. ***
Capitolo 7: *** Somebody that I used to know. ***
Capitolo 8: *** Your heart is an empty room. ***
Capitolo 9: *** I've lost who I am and I can't understand why my heart is so broken. ***
Capitolo 10: *** Maybe you’re gonna be the one who saves me. ***
Capitolo 11: *** Epilogo. ***
Capitolo 1 *** Something inside this heart has died. ***
Something inside this heart has
died.
Non
c’era
via d’uscita da quell’incubo. Ormai neppure
tapparmi le orecchie
e chiudere gli occhi serviva a far
rimanere il dolore lontano. Quel dolore che usciva dalle labbra rosse
di mia
madre.
Urla.
Erano
urla che ti entravano nei tessuti della pelle, che bruciavano, che
stridevano e
facevano male.
Erano
otto
anni che sentivo ogni maledetto giorno quelle urla, quelle richieste
d’aiuto
che non arrivava mai. Otto anni di cuscini sopra la testa, di labbra
morse con
forza, di occhi sigillati, stanchi. Otto anni da quando io, Evie
Mcdonnell, non
avevo più potuto essere quella bambina con le trecce sui
capelli, i pantaloni
sporchi di fango, i lacci dei sandali chiusi da mamma con un sorriso
sulle
labbra.
Ad
un certo
punto le urla finivano, ed era allora che indossavo le calze rosse, il
vestito
grigio lungo fin sopra le ginocchia, le Converse alte a stringermi le
caviglie,
e uscivo di casa, senza guardare mia madre, senza guardare mio padre.
Era
allora che, frugando nella borsa, trovavo le sigarette e fumavo,
sistemandomi
il cappello nero sulla testa.
Avevo
diciassette anni, e niente avrebbe potuto suggerire alla gente come
stavo (il
mio trucco pesante poteva esser scambiato per un eccesso di
eccentricità): andavo
bene a scuola, ero gentile con i professori, salutavo gli inservienti
della
mensa. Qualche piccolo particolare come non mangia, non sorride, non
parla, non
fa niente se non guardare davanti a se, non sembravano turbare nessuno,
perché
io non ero nessuno dentro quella scuola. Dentro quella scuola eccetto
gli
spogliatoi della squadra maschile di football. Lì non
conoscevo nessuno, ma
tutti conoscevano me, Evie Mcdonnell, quella facile, la troia. Tutti
conoscevano la mia pelle, le mie labbra, la mia lingua, le mie cosce.
Quei
piccoli dettagli come non mangia, non sorride, non parla, non fa niente
se non
guardare davanti a se non li notava nessuno, perché tutto
quello che succedeva
dentro quei bagni di un metro per due, rimaneva lì dentro, e
fuori ero solo un
fantasma.
Nessuno
conosceva Evie Mcdonnell tranne me stessa. Mi riconoscevo quando in
biblioteca
lisciavo le pagine di un libro di storia seduta su una sedia scomoda,
quando
ascoltavo una canzone con le cuffiette chiudendo gli occhi e cantando a
bocca
chiusa con un sorriso, quando facevo girare un piatto di pasta precotta
nel
microonde, quando guardavo una serie televisiva giocando con le frange
della
coperta stesa sul divano. Quella era la Evie che conoscevo, e viveva
nella mia
testa, un fossile di ciò che avrei tanto voluto essere.
Avevo
chiuso
la porta pesante di metallo facendo tintinnare la campana dorata sopra
lo
stipide, e mi ero seduta al solito posto: moquette blu, angolo a
destra,
nascosta da una qualche macchinetta da gioco non funzionante, odore di
fumo
impregnato nelle perline di legno sulle quali appoggiavo le spalle.
L’inserviente,
senza davvero avvicinarsi, mi aveva posato due bottiglie davanti ai
piedi (come
ogni pomeriggio alle cinque) e senza neanche guardarlo sapevo che aveva
sorriso, che mi aveva guardato le gambe e dentro la scollatura. Non
ringraziai
e presi la prima bottiglia fra le mani. La birra era fredda, e mentre
strisciava nell’esofago sentivo quel poco piacevole senso di
smarrimento di
quando ti trovi in mezzo alla nebbia con addosso solo una canottiera, e
le
braccia cominciano a gelarsi fino a far male. Faceva male, ecco qual
era il
bello. Sapevo che quel litro e mezzo di liquido giallastro che stavo
facendo
entrare nello stomaco l’avrebbe distrutto.
Sorrisi
– un
mio sorriso, una smorfia di amarezza, tristezza e odio –
toccandomi la pancia. Ridacchiai,
felice di cominciare già a sentire la testa vuota.
Svuotai
entrambe le bottiglie e con le gambe che faticavano a rimanere erette,
tornai a
casa, mi tolsi i vestiti e mi distesi a letto, lasciando che le dita
nude dei
piedi diventassero viola a contatto con il pavimento di piastrelle.
Andai
in
bagno, raccolsi i capelli in una coda di cavallo, e riconoscendo i
segnali del
mio organismo, abbassai la testa sul water. Pulii la bocca con una mano
e feci
una smorfia: l’odore di vomito mi nauseava, e non avevo mai
retto l’alcol.
Tolsi
il
reggiseno ed entrai in doccia. Aprii l’acqua, fredda come
ghiaccio, e chiusi
gli occhi, cominciando a tremare. Mi morsi il labbro inferiore per
fermare i
denti, spostai i capelli all’indietro e mi sedetti a terra,
le spalle posate al
muro.
Rimasi
ferma,
sperando di non riuscire a muovermi più, per un
po’ di tempo, poi, a causa di
uno spasmo, sbattei le gambe (magre come bastoncini di legno) alla
parete di
vetro appannata. Allora mi alzai, avvolsi il mio corpo in un
asciugamano e mi
ranicchiai a letto.
Sembrava
terribilmente caldo, dieci volte più caldo di una pelle
febbricitante,
incandescente.
Strinsi
un
lembo del lenzuolo con le mani, fino a far diventare le nocche bianche.
Sbattei
piano gli occhi, pensando che mi fosse scesa qualche lacrima, ma
niente, gli
occhi erano asciutti. L’unica cosa che sentivo erano i
muscoli contratti per il
freddo, il battere lento del mio cuore, quello veloce dei denti.
Avevo
voglia
di fumare. Non avevo voglia di alzarmi.
Sospirai,
e
chiudendo gli occhi sentii i passi delicati di mamma avvicinarsi, il
suo bacio
umido sulla fronte, le sue mani sulle mie costole, il peso del lenzuolo
e di una
coperta a schiacciarmi sul materasso, la porta chiudersi.
Ero
sola, di
nuovo, con la mia pelle sottile, una voglia di nicotina indescrivibile
e tanto
freddo, persino dentro il cervello svuotato dall’alcol.
Attorno e dentro me
freddo, solo tanto freddo.
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Capitolo 2 *** Nothing goes as planned. ***
Nothing goes as planned.
Sbattevo
le
palpebre ossessivamente per rimanere sveglia, mi mordevo il braccio. Il
poco
sonno e l’effetto della canna che mi ero fatta prima di
entrare in classe,
cominciavano a farsi sentire.
Stavamo
studiando per l’ennesima volta il modo in cui Cristoforo
Colombo era approdato
nel Nuovo Mondo, quindi alzai la mano aspettando che il professore
alzasse gli
occhi, e gli chiesi, cortesemente, se potevo uscire
dall’aula. Acconsentì.
Invece
di
dirigermi verso il bagno, svoltai in direzione delle scale che
portavano in
terrazza, vicino ai laboratori, davvero poco forniti, di chimica e
fisica.
Accesi
la
sigaretta che avevo portato con me, e mi avvicinai al bordo. Guardai
giù. In
lontananza si vedevano i campi da football e le piste
d’atletica, tutto attorno
un cielo limpido.
C’era
il
sole quel giorno, e neppure se quella giornata fosse stata la
più
insopportabile da mesi mi sarei buttata (non che non ci avessi pensato,
solo
non l’avevo mai immaginato con il sole, ero troppo
melodrammatica) ma a quanto
pareva quel qualcuno che aveva appena accompagnato la porta per non
spaventarmi, non poteva immaginarlo. Chiusi gli occhi e aspirai la
sigaretta
aspettando che parlasse.
«Non
buttarti, ti prego. Sono debole di stomaco».
Ridacchiai,
e indietreggiando di un passo, mi voltai verso la voce maschile che
aveva
parlato. Lo scrutai per qualche secondo rimanendo in silenzio:
indossava un
maglione beige chiaro che mi ricordava quello che di solito le nonne
regalano
ai nipoti a Natale, dei semplici pantaloni scuri tenuti saldi da una
cintura senza
fibia, e delle scarpe identiche alle mie. I capelli, biondi e mossi,
gli
incorniciavano il viso, un viso davvero bello, da angelo. Era
decisamente
carino, quel ragazzo.
«Quindi,
se
mi buttassi giù, tu vomiteresti soltanto?», chiesi
con ironia.
Lui
non
rispose subito, osservando ogni parte del mio corpo. Sapevo che mi
trovava
bella, che avrebbe voluto baciarmi sporcandosi di rossetto rosso le
labbra, che
voleva annusare la mia pelle chiara come il latte, soffiarmi sui
capelli di un
rosso stinto alla perfezione, ma invece di avvicinarmi a lui, gli diedi
le
spalle, stringendomi un braccio attorno al busto per l’aria
fredda che
trapassava la maglia di cotone fino. Sentii i suoi passi avvicinarsi, e
quando
mi fu accanto, mi voltai verso di lui, offrendogli la sigaretta, ma lui
scosse
la testa. Dire che aveva gli occhi più verdi che avessi mai
visto non era un
eufemismo.
«Vuoi
farlo
davvero?», domandò, ma la sua voce non sembrava
allarmata.
«Potrei».
«Finiresti
su tutti i giornali».
«Probabile».
Rimanemmo
in
silenzio finchè non mi abbassai sulle ginocchia per spegnere
il mozzicone sul
cemento del pavimento, e mi rialzai trovandomi la sua faccia a qualche
centimentro dalla mia.
«Sei
di
poche parole, vero?». Scrollai le spalle, senza spostarmi.
«Vorrei baciarti»,
disse guardandomi le labbra.
Sorrisi.
«Fallo».
Lui
mi
guardò negli occhi – scompigliandomi pensieri che
non mi ero accorta di avere
in testa – e si allontanò di qualche passo,
sorridendomi. «Sei strana».
Alzai
un
sopracciglio e strinsi le labbra. Mi aveva rifiutata davvero?
Avevo
fame,
ma sapevo bene che se avessi toccato cibo non sarei più
riuscita a smettere. La
famosa fame chimica non esisteva solo nelle favole con i ragazzi
cattivi.
Mentre
ascoltavo il mio stomaco – che sembrava la cassa vuota di una
chitarra accordata
male – sentii una mano stringermi un fianco. Abbassai gli
occhi su di essa ed
esaminai le unghie corte ben tagliate, poi lo guardai. Lui sorrise e
posò le
labbra sulle mie, baciandomi come se fossi il petalo di un fiore,
sfiorandomi
appena. Un bacio che sembrava una carezza, mentre con la mano sul mio
fianco
tracciava segni circolari con il pollice.
Quando,
lentamente e tenendomi inchiodata a lui con lo sguardo, mi
lasciò andare
facendo qualche passo indietro, avrei voluto urlare, e invece strinsi i
pugni
lungo i fianchi, girai i tacchi, e scesi le scale di corsa.
Andai
in
bagno, vomitai la colazione che non avevo fatto, mi lavai via il
rossetto dalle
labbra strofinandole, e tornai in classe, dove non sembrava essersi
mosso
nemmeno un granello di polvere. Un ragazzo in ultima fila mi fece
l’occhiolino,
io mi limitai a sedermi al mio posto, portando i pensieri nel mio posto
felice.
Era
un parco
giochi con delle panchine vuote, l’erba corta appena
tagliata, il profumo di
muffin al lampone nell’aria e delle pozzanghere su cui
saltare dentro. Mi vidi
proiettata in quel sogno ad occhi aperti con un grosso libro, di cui
non
conoscevo il titolo, in mano.
Quando
suonò
la campanella non me ne accorsi, rimanendo seduta al mio posto, le mani
in grembo,
le calze smagliate sulla coscia sinistra, lo smalto nero sulle unghie
disastrosamente rovinate.
Qualcuno
mi
si accostò all’orecchio, e con l’alito
che sapeva di tabacco e caramella alla
frutta, mi disse «Ci vediamo più tardi, ho
l’allenamento alle quattro».
Chiusi
gli
occhi e sospirai, l’ennesimo conato di vomito che saliva in
gola. Perché non mi
ero semplicemente lanciata giù prima? Perché
c’era il sole (perché non
puoi abbandonare tua madre,
perché vuoi andare in libreria e comprare il nuovo album dei
Placebo, perché
non è ancora venuto il momento di uscire di scena)
Ciao
lettori
silenziosi, perché siete così silenziosi? Ho
avuto un sacco di visite per il
primo capitolo e non capisco perché nessuno nessuno abbia
scritto una
recensione. Magari questa storia vi fa schifo, o magari non
l’avete letta
davvero. L’ansia mi sta uccidendo, seriamente. Ugh, niente,
vi lascio il secondo capitolo sperando che qualcuno di voi si faccia
vivo!
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Capitolo 3 *** When it’s time to live and let die. ***
When it’s time to live and let die.
Raccolsi
i
capelli in una coda alta, misi il giubbino di pelle nera, gli stivali e
uscii
dalla mia stanza. Raggiunsi mamma in cucina e le diedi un bacio sulla
guancia. «Io
vado, torno presto».
Lei
mi
guardò, con quello sguardo freddo e vuoto di sempre, e
scosse la testa
freneticamente. «Non… ti prego».
Le
presi il
volto fra le mani. «Shh, arriverò a casa prima di
lui, te lo prometto». Le
carezzai una guancia e lei annuì. Sorrisi e uscii di casa,
tremando.
Mi
strinsi
nella giacca e quando lo vidi appoggiato all’armadietto, una
parte di me
avrebbe solo voluto scappare. E invece mi avvicinai, incrociai il suo
sorriso
per qualche secondo, lo afferrai e lo trascinai dentro ad un bagno,
chiudendo
la serratura e incollando le mie labbra alle sue.
«Hei,
calma»,
ansimò.
«Non
ho
tempo», sputai abbassandomi e aprendogli la cerniera dei
pantaloni. Una sua
mano mi fermò. Chiusi gli occhi. «Che cosa
c’è?».
«Non
hai
voglia».
Mi
uscì una
risata dalle labbra. «No, nè ora nè
tutte le altre volte, se lo vuoi sapere».
Lui
mi fece
alzare stringendomi un braccio e strattonandomi con la forza. Avevo
ferito il suo
orgoglio, poverino. «E allora perché cazzo lo
fai?».
«I
soldi,
ecco perché. Ho bisogno dei tuoi cazzo di soldi».
Lo fissai per qualche secondo
eterno, poi, con rabbia, mi tolse la maglia e mi slacciò il
reggiseno mentre
con una mano apriva i miei pantaloni e cercava di arrivare alle mie
mutande. Li
aprì e mi entrò dentro mentre io mi mordevo il
labbro, già sanguinante, a causa
del male che faceva.
Era
il
quoterback della squadra, una grande promessa. Si chiamava Joe ed era
il
fidanzato storico della capo cheerleader, per di più la
presidentessa del club
della castità.
Ecco
perché
veniva da me, io ero il suo giocattolino soddisfa desideri.
Lo
lasciai
fare qualsiasi cosa con il mio corpo, poi gli poggiai le mani sul petto
e lo
scostai da me. Sorrisi. «È stato davvero
divertente, ora però devo andare». Mi
rivestii in fretta e quando mi voltai lui mi stava porgendo i soldi. Li
presi,
mi avvicinai a lui e gli diedi un bacio sulle labbra.
«Grazie. Per i soldi».
Poi me ne andai sperando non fosse troppo tardi.
Quando
arrivai a casa, però, trovai mia madre in lacrime e capii
che lui era tornato e
la stava aspettando. Salii le scale ed entrai nella loro camera. Era
nudo e
ubriaco sdraiato sul letto.
Deglutii
e
appoggiai i soldi vicino a lui. «Vai fuori stasera,
okay?».
Aprì
gli
occhi. «Tu non mi dici quello che devo fare. Stasera
starò a casa, con te, e
farò quello che voglio». Mi prese la mano e mi
trascinò verso di sé, ma mi
divincolai, riuscendoci solo perché era stordito dal vino.
«Mi
fa
sempre più schifo», sputai.
Mi
guardò,
non so come lucido, e si alzò dal letto, avvicinandosi a me.
Camminai
all’indietro, inciampando sul tappeto e reggendomi al muro
corsi giù dalle
scale, con ancora in mano i soldi, con ancora mio padre a inseguirmi.
Corsi fino
alla porta, lo vidi cadere, arrabbiato, vidi mia madre, lo sguardo
vuoto e
pieno di terrore, ma uscii lo stesso di casa: volevo essere egoista per
una
volta, perché sapevo che mio padre avrebbe fatto a lei
quello che voleva fare a
me, sapevo che avrei dovuto farlo ubriacare fino a farlo svenire, ma
una parte
di me – davvero piccola – mi voleva ancora bene. E
non potevo permettermelo.
Camminai
fino alla stazione e scesi fino al tunnel più distante dalla
piattaforma di
arrivo dei treni, e quello che vidi era tutto ciò che
cercavo: alcol, droga.
Quel che non mi aspettavo di vedere, però, erano quei due
occhi così verdi da
sembrare prati in fiore, così profondi da confondermi le
idee.
Mi
sorrise. «Sapevo
saresti arrivata, prima o poi».
Qualcuno
di
voi ha recensito, qualcuno di voi ha recensito! sono stra felice,
davvero.
Mh, spero
continuerete a leggere così numerosi e vi chiedo scusa se
alcune parti sono un
pochino ‘crude’, ma non sapevo come renderle senza
dirle come sono nella
realtà.
Basta, non
vi annoio più, ciao!
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Capitolo 4 *** We’ll get to shiver. ***
We’ll
get to shiver.
«Dovresti
almeno dirmi come ti chiami».
Lo
guardai. «Perché
dovrei?».
Sorrise.
L’aveva fatto spesso da quando ero arrivata e mi ero accorta
che sulle guance
gli si formavano due fossette. Adorabile
era l’aggettivo giusto, per quelle fossette.
«Così, quando faremo sesso, potrò
chiamarti».
Scoppiai
a
ridere. Non mi aspettavo quella risposta, proprio no. «Ne sei
così convinto?».
«Che
faremo
sesso? Assolutamente. Io sarò fatto, tu sarai fatta, due
più due…».
«Fa
quattro,
lo so». Cominciai a dimenarmi sullo scalino freddo sul quale
ero seduta. «Ci
muoviamo?».
«Sei
impaziente?». Mi morsi semplicemente un labbro, e lui
sorrise, di nuovo. «Non
l’hai mai fatto, giusto?».
«Ci
stiamo
ponendo domande a vicenda da minuti, smettiamola. Insegnami solo come
si fa,
mh?».
«Come
vuoi».
Prese il suo braccio destro, legò un laccio di plastica
trasparente sulla parte
superiore e, dopo aver trovato le vene – mi stupii il fatto
che non avesse
molti lividi, non doveva farlo da molto – inniettò
l’eroina abbassando lo
stantuffo della siringa. Chiuse gli occhi, sorrise e li
riaprì. «Ecco. Dovresti
davvero dirmi il tuo nome, sai, se ti succede qualcosa».
Alzai
gli
occhi al cielo, e guardai titubante la siringa, il sangue.
«Non è che hai
qualche pasticca, o altro?».
«Paura
degli
aghi?».
Scossi
la
testa. «Figurati, ma ricordo che mia zia mi ha fatto vedere
‘Noi ragazzi dello
zoo di Berlino’ e finire a farmi sotto le unghie non
è un’idea che mi alletta
molto». Non riuscivo a capire se era ancora lucido, avrebbe
dovuto avere le
allucinazioni, no? Non mi ero mai informata molto sulla droga, non mi
sembrava
una buona idea. Ora, invece, mi sembrava buonissima. L’unica
cosa che mi
avrebbe fatto star bene.
Si
alzò in
piedi e dopo avermi fatto un sorriso strano, sparì dietro ad
un muro. Incrociai
le braccia ignorando i ragazzi e le ragazze che mi passavano davanti, e
mi
fissai i piedi fino a quando non ritornò e si sedette
proprio di fonte a me.
Aprì la mano destra chiusa a pugno, offrendomi due piccole
pastiglie bianche.
Alzai lo sguardo, lo puntai nei suoi occhi. Lui annuì e io
le ingerii.
Sorrisi:
non
sapevo come stavo, ma accettai la bottiglia di liquido scuro che mi
porse e non
mi tirai indietro quando prese a baciarmi, quando la mia schiena
toccò il
pavimento gelato, quando sentii il suo peso sopra di me. Non stavo
bene, credo,
ma per lo meno ridevo.
«Evie»,
ansimai dopo un po’. «Evie Mcdonnell».
«Finiresti
su un giornale se morissi?», disse lui sul mio collo. Gli
morsi la spalla.
«No,
non
finirei su un giornale se morissi in questo posto schifoso. Nessuno mi
cerca».
«Perché?».
«Non
sono
nessuno».
«Sei
Evie
Mcdonnell».
«Appunto».
Mi
guardò
negli occhi. Le sue pupille erano dilatate, e immaginai le mie fossero
simili. «Sei
bella».
Sorrisi.
«Purtroppo
lo so».
Aprì
la
bocca e la richiuse. Non mi sentivo affatto lucida, la mia testa era un
casino,
ma non riuscivo a pensare, e quello mi sembrava fantastico, tutto
quello che
avevo cercato.
Mi
alzai
barcollando – la bottiglia di liquore era finita senza che mi
accorgessi – e
gli porsi la mano. L’afferrò, portando il suo viso
a pochi centimetri dal mio,
la lasciò andare, tenendomi incatenata a lui con lo sguardo.
«Ho
fame»,
dissi.
«Seriamente?».
Ero
confusa.
«Non dovrei?».
«Dovresti
vomitare e aver voglia di bere ancora».
Scossi
la
testa. «Vorrei sapere come ti chiami. Vorrei un
cheesburger».
«Vorrei
tornare lì sotto a fare quello che stavamo
facendo».
Risi,
una
risata che uscì spontanea. Strana, piacevole, folle.
«No».
Alzò
le
spalle, mi porse una mano. «Seth».
Non
l’afferrai,
mi avvicinai a lui e gli diedi un bacio sulla guancia liscia.
«Portami a
mangiare», sussurrai al suo orecchio. I suoi capelli
profumavano di cocco.
Mi
strinse a
lui, cominciò a tremare. Cominciai a tremare.
Direi: ecco
a voi il quarto capitolo! Grazie a voi che leggete, magari fatemi
sapere che ne
pensate **
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Capitolo 5 *** Here am I, lost and found. ***
Here
am I, lost and found.
Quando
aprii
gli occhi ebbi la sensazione di esser stata investita da un autobus
dopo
essermi trasformata in lucertola.
Guardando
davanti a me, vidi una pila ordinata di libri e una lampadaina da
tavolo spenta
sotto una scrivania completamente vuota. Piegai la testa di lato: non
avevo mai
visto nulla del genere.
La
testa mi
pesava come dopo un lungo sonno senza sogni in cui vorresti solo
dormire
ancora. Immaginai fosse l’alba, e muovendomi appena, toccai
qualcosa di caldo
con la mano. Abbassai lo sguardo e notai che era appoggiata
sull’addome di
qualcuno.
Quando
incontrai
il suo sorriso sentii lo stomaco chiudersi. Quando incontrai i suoi
occhi una
vocina mi disse che avrei dovuto ricordarmi qualcosa che non ricordavo.
Mi
alzai a
sedere, riscoprendomi completamente nuda. Confusa e anche un
po’ imbarazzata
sentendo il suo sguardo addosso, mi sedetti affianco a lui
appoggiandomi alla
testiera del letto e rubandogli il lenzuolo per coprirmi. Lui indossava
un paio
di boxer, per fortuna.
Deglutii
e
puntai gli occhi nei suoi. «Ciao», disse.
«Perché
ho
male in ogni centimetro del corpo?». Guardai il suo
sopracciglio destro alzarsi
e scoppiai a ridere. «Io non sono capace ad alzarne solo
uno».
«Hai
male
alla testa?».
Corruciai
la
fronte. «Non credo, no. Sono i muscoli che mi fanno
male».
Trattenne
una
risata. «Abbiamo fatto sesso, sarà per
quello».
Lo
guardai.«Abbiamo
mangiato da Mc Donald?».
«Ti
ho
appena detto che abbiamo fatto sesso», sorrise.
Alzai
le
spalle. «Ricordo solo il mio Mc Chicken, e credo di aver
vomitato parecchio».
Annuì.
«Addosso
a me, confermo».
«Scusa»,
ridacchiai. Mi guardò strano e io alzai gli occhi al cielo.
«È stato divertente
fare sesso con me?».
«Perché
lo
vuoi sapere?».
«Soddisfazione
personale, immagino. E poi sono di buon umore, oggi. Credo di essermi
divertita».
Scoppiò
a
ridere e si alzò dal letto, poi mi porse una mano che non
afferrai. «Dovremmo
andare a scuola», disse rimanendo nella stessa posizione.
Mi
guardai
attorno per cercare i miei vestiti, ma riuscii a individuare solo una
scarpa. «Ti
ho già vista nuda, Evie».
Piegai
la
testa di lato, e sorrisi. «Non succederà
più».
«Ne
sei
sicura?», e dicendolo mi sfilò il lenzuolo di
dosso.
Chiusi
gli
occhi, mi alzai e gli posai le mani sul petto. Lo guardai negli occhi,
avvicinai le mie labbra alle sue, e quando la sua lingua
cercò di entrarmi in
bocca gli morsi forte il labbro, sentendo il gusto del sangue.
Sorrido.
«Sei
uno stronzo».
Trovai
i
miei abiti a terra ai piedi del letto e li indossai sapendo che Seth
continuava
a guardarmi. Una volta aver finito mi voltai e trovai lui nella stessa
posizione di prima, una mano sul labbro sanguinante. Mi avvicinai
«Te lo
meritavi».
«Non
ti
chiederò scusa», disse. Aprii la bocca e la
richiusi. Lui rise. «Mi deludi, di
solito hai la risposta pronta».
Mi
avvicinai
fino a che i nostri nasi non si sfiorarono. «Devi procurarmi
altre di quelle
pasticche».
Sostenne
il
mio sguardo per secondi, poi mi afferrò la mano e mi
trascinò in cucina. Si
voltò verso di me con una scatola di cereali in mano.
«Fame?».
Sentii
lo
stomaco brontolare e annuii. «Grazie».
Si
piazzò
davanti a me continuando a guardarmi mentre mangiamo. Sbuffai.
«Che c’è? Non mi
piace essere fissata».
Sorrise.
«Non
ce la farai a cambiarti se vogliamo andare a scuola».
Guardai
i
miei vestiti per bene, e mi accorsi che erano sporchi di vomito e che
puzzavano
di alcol. Chissà cosa avevo combinato, di preciso, quella
notte.
«Mi
presti
una maglia?».
Lui
sorrise
e mi guidò al piano di sopra, di nuovo in camera sua. Non
riuscii a capire se
fosse stata colpa mia o no, ma era davvero un disastro: fogli a terra
sparsi,
cassetti aperti, bottiglie vuote.
Mi
porse una
maglia blu scuro decisamente più grande della mia taglia, ma
la indossai. I pantaloni,
in ogni caso, erano impresentabili. «Dimmi che tua mamma ha
un paio di calze
nere».
Si
strinse
nelle spalle. «Immagino di sì».
Dopo
qualche
minuto tornò con delle calze in mano. «Ti
adoro», esclamai togliendomi i
pantaloni quando lui era ancora sulla porta. Quando finii di vestirmi
– per modo
di dire – alzai lo sguardo, e nel suo volto c’era
un sorriso furbo. Alzai gli
occhi al cielo, ancora una volta.
«Devi
proprio andare a scuola oggi?», chiese.
«Non
verrò
da nessuna parte con te a sballarmi di nuovo e a far sesso di nuovo, mi
spiace».
«Vestita
così sembri una prostituta, non puoi andare a
scuola».
Mi
avvicinai. «Non ferirai i miei sentimenti dicendo che sembro
una puttana».
«Sei
una
puttana».
Sorrisi.
«Infatti,
quindi, dato che sono una puttana, posso andare a scuola e farmi
sospendere
qualche giorno perché trovata in un bagno con un ragazzo,
oppure posso non
andare a scuola, tornare là sotto e farmi dare la roba da
qualcuno che non sei
tu il cui unico scopo non è scoparmi. Opto per la seconda.
Ciao Seth».
Feci
per
andarmene, ma la sua presa ferrea sul braccio mi fece fermare.
«Non andare, ti
prego».
«Mi
preghi? Lasciami
andare».
«Non
voglio
che vai in stazione da sola».
«Chi
sei,
mio padre?». Mi pentii all’istante di quella frase,
dato che mio padre non si
preoccupava più per me da una vita. Mi morsi il labbro
inferiore.
«Ti
prego»,
ripetè lui. Non è che avessi molta scelta con i
suoi occhi che mi confondevano
le idee, quindi annuii. «Grazie».
Quando
mi
lasciò andare, incrociai le braccia al petto.
«Quindi, cosa facciamo?».
«Aiutami
a
sistemare qui, poi ti porto dove vuoi».
«In
stazione?».
«Non
ne hai
ancora abbastanza? Hai detto che sei felice, no?».
Lo
incenerii
con lo sguardo. «Lo ero, poi tu hai cominciato a rompermi le
palle», sorrisi.
Scoppiò
a
ridere. «Prometto di non romperti più le
palle». L’ultimo pezzo di frase lo
fece scimmiottando la mia voce.
«Senti,
smettila. Mi dai sui nervi».
Sbuffò,
e
sembrò arrabbiarsi. «Perché devi essere
così acida? Sto scherzando, ti sto solo
prendendo in giro. Tra l’altro non mi hai ancora
pagato».
Lo
odiavo,
era ufficiale.
Mi
guardai
attorno, trovai i pantaloni che mi ero sfilata da poco, e presi i soldi
che
avevo guadagnato il giorno prima dalla tasca posteriore, poi glieli
lanciai
addosso. «Ripeto, sei uno stronzo, e ne conosco
già troppi, quindi davvero,
addio».
Mi
voltai per
andarmene e ancora una volta la sua mano mi bloccà il
braccio. Chiusi gli
occhi. «Cazzo Seth, lasciami andare».
«Scusa»,
disse.
Mi
voltai. «Non
me ne faccio niente delle tue scuse. Tu per me non sei niente, io per
te non
sono niente. Lasciami solo andare, lasciami in pace, non parlarmi
più è andrà
tutto bene».
Lo
vidi
avvicinarsi, e in qualche secondo le sue labbra furono sulle mie, la
sua mano
dentro la mia maglietta. Non volevo quello, non da lui, non in quel
momento. Mi
scansai. «No».
«Non
voglio
lasciarti andare, non fino a stasera».
«Perché?».
Sorrise.
«Perché
mi piacciono i tuoi capelli, mi piace che mi offendi, mi piacciono le
tue
labbra, il tuo culo, mi piace che sei così dannattamente
triste da non
sorridere mai, mi piace che quando sorridi sei ancora più
bella. Mi piaci».
Non
so perché,
ma lo trascinai sul letto, distendendomi sopra di lui. «Devi
lasciarmi in pace,
devi farlo o ti odierò per sempre».
«L’odio
è un
bel sentimento».
Lo
baciai,
gli tirai i capelli, gli morsi il collo. Sentii il suo sorriso dentro
la mia
bocca, e mi sentii felice. Mi
alzai,
e questa volta gli porsi io la mano. «Sistemiamo questo
casino».
Ciao,
è
passato un sacco di tempo, ma non ho avuto molto tempo/voglia di
scrivere, and
so, ecco qui il nuovo capitolo. Spero vi piaccia e grazie per le
tantissime
visite ♥
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Capitolo 6 *** I wanna be drunk when I wake up. ***
I
wanna be drunk when I wake up.
«Come
hai
fatto a trascinarmi a scuola? Ti odio. Ho sonno», dissi
sfiorandolo con la
spalla.
Quella
mattina,
mentre me ne stavo beatamente dormendo sotto le coperte, Seth aveva
avuto la
splendida idea di farmi da sveglia bussando ripetutamente sul vetro
della
finestra di camera mia. Svegliandomi di soprassalto, avevo barcollato
fino alla
finestra, tirato le tende, e visto il suo sorriso al di là
del vetro. Avevo aperto
la finestra. «Sto seriamente pensando di lasciarti congelare,
stronzo. Stavo dormendo!»,
avevo sbraitato con la voce ancora impastata dal sonno, tra uno
sbadiglio e l’altro.
La
sua
faccia si era rattristata all’istante. «E io che ti
avevo portato la colazione»,
aveva detto lanciandomi addosso un sacchetto di carta che avevo
acciuffato al
volo. Allora, alzando gli occhi al cielo, l’avevo fermato per
una manica del
giubotto e gli avevo sorriso facendolo entrare.
Ora
mi
ritrovavo a camminargli affianco con un sonno assurdo, senza essermi
truccata,
con una felpa orribile di due taglie più grandi della mia, e
così tanta voglia
di prenderlo a schiaffi che le mani mi prudevano.
Quel
ragazzo
faceva davvero un brutto effetto su di me. Bastava un sorriso a farmi
sciogliermi, uno di quei suoi baci dolci, per farmi fare quello che
voleva. C’era
da dire che la maggior parte del tempo che trascorrevo assieme a lui ero strafatta,
particolare
da non tralasciare.
Lui
mi
guardò. «Ti ho corrotto con una faccia da cane
bastonato e dei cornetti, niente
di più facile, Evie-io-non-sono-nessuno».
Mi
irritava
quando credeva di avermi in pugno, perché non era
così. La mia vita me l’era
sempre gestita da sola, e sarebbe stato così anche adesso,
con questo seccante
ragazzo biondo con le fossette. «Lo sapevo che avrei dovuto
farti morire di
freddo, lo sapevo. Sai una cosa?», lo guardai.
«Fottiti», sorrisi girandogli le
spalle.
Lui,
come da
previsto, mi fece voltare e mi avvicinò a lui, appoggiando
la mia fronte alla
sua. «Casa mia, oggi? Ho un po’ di roba».
Chiusi
gli
occhi. «Ho problemi in famiglia, non so
se…».
Sentii
una
mano carezzarmi la guancia, e aprii gli occhi. Ora il suo pollice era
sul mio
labbro inferiore, i suoi occhi sulla mia bocca. «Li risolvi
dopo, superman».
Sorrisi.
«Credimi
se ti dico che sono un superman davvero sfigato».
Ridacchiò,
poi puntò gli occhi nei miei, rovinando qualsiasi mia
convinzione. «Alle
quattro?».
Annuii,
inerme. «Quante volte devo dirti che ti odio?».
«Quante
vuoi, sei sexy quando lo dici», rispose lui leccandomi il
collo.
«Fanculo,
vattene. Voglio mantenere la mia reputazione di ragazza fantasma, se
permetti».
Rise
forte e
mi diedi una pacca sul sedere, prima di andarsene. Riuscii solo a
pensare: perché
a me?
«Hai
qualcosa da bere?», gli chiesi indossando gli slip e
chiudendo la zip dei
jeans.
Lui
annuì
lasciandomi da sola in camera sua. Allacciai il reggiseno e vi misi la
felpa
sopra. Mi affacciai alla porta. «Qualcosa di
forte», dissi, sapendo che in casa
non c’era nessuno, a un tono più alto del normale,
poi mi sedetti a terra,
appoggiando la schiena al suo letto, e chiusi gli occhi buttando la
testa
all’indietro. Non vedevo l’ora cominciasse a far
male, la testa. Non vedvo
l’ora di cadere sbronza e fatta fra le mie coperte e dormire
così tanto da
dimenticare il mio nome una volta sveglia – non ero sicura
fosse possibile.
Seth
tornò
con un bicchiere contenente liquido trasparente in mano, solo i
pantalonicini
corti della tuta addosso. Me lo porse. «Vodka va
bene?».
«Perfetta»,
dissi avventandomi sul superalcolico.
Lui
si
sedette accanto a me, fissandomi. «Che
c’è?».
«Perché
lo
fai?», chiese.
«Bere?
Mi fa
vomitare senza bisogno delle dita».
Lui
mi
guardò strano, poi scosse la testa. «Intendevo il
sesso, con me, con gli altri
della squadra di football. Perché?».
Feci
spallucce. «I soldi, ne ho bisogno». Non era del
tutto vero ma mio padre
spendeva così tanti soldi in alcol che il misero stipendio
che mamma prendeva
quelle poche volte che andava al lavoro, non ci bastava. Quindi i soldi
erano
la scusa più banale, quella che mi aiutava a mantere il muro
che mi ero creata
attorno ben saldo nelle fondamenta. «La droga»,
ammiccai.
«Non
hai una
famiglia?».
Lo
guardai. «Te
l’ho già detto, nessuno che tenga a me.
Perché ti interessa tanto, comunque?».
«Perché
io
non farei mai un pompino a un perfetto sconosciuto».
Scoppiai
a
ridere. «Ci si fa l’abitudine, e poi non mi sembri
proprio un estraneo, dato
che è da settimane che faciamo sesso quando siamo strafatti.
In un certo senso
ti conosco, anche se so solo che ti chiami Seth, sei un rompi palle, ti
piacciono i cornetti al cioccolato».
Sorrise
debolmente, poi tornò serio. «Non dovresti farlo,
comunque».
Mi
stavo
arrabbiando. Chi era lui per dirmi quello che dovevo o non dovevo fare?
Mi
alzai da terra e presi la mia borsa dal letto. «Non posso non
farlo. Voglio
farlo».
«Vuoi?».
Aveva
colto
la parola giusta. Mi morsi il labbro. Non doveva capire. «Ti
ricordi dove mi
hai visto la prima volta, no?».
«Non
volevi
buttarti».
«Potrei
farlo, vorrei».
«Fallo,
allora».
Mi
stava
sfidando. Mi urtava i nervi, avevo cominciato a tremare. «Non
posso».
«Hai
una
famiglia?».
Chiusi
gli
occhi. «Ho un padre e una madre», risposi. Non
capivo se aveva colto la
differenza, ma erano affari suoi.
Quando
riaprii le palpebre, lui era a pochi centimetri dal mio viso.
«Non sembri una
puttana, comunque».
«Ti
ricordo
che l’altro giorno hai detto l’esatto
contrario».
«Stavi
andando a scuola con un paio di calze praticamente
trasparenti», ribattè.
«Non
sarebbe
stata la prima volta».
«La
prima da
quando ti conosco, direi».
«Mi
controlli?», chiesi sorpresa.
Sorrise.
«Non
è difficile, ti siedi al tavolo più isolato della
mensa, non mangi niente,
fumi, guardi il muro. So dove abiti, vieni da me per la
droga». Si strinse
nelle spalle. «Non è difficile».
«Smettila
di
ostinarti a conoscermi, Seth».
Lui
si leccò
le labbra. «Adoro quando dici il mio nome».
Alzai
gli
occhi al cielo e feci per uscire dalla porta, ma lui mi prese per il
polso e mi
baciò. Un bacio gemello al primo che mi aveva stampato sulle
labbra, senza
lingua, senza sesso.
Lo
odiavo
con tutta me stessa, ma lo desideravo. Era il mio biglietto per la
rovina, non
potevo respingerlo, era tutto quello che volevo. Dovevo solo
innamorarmi di
lui.
Quando
finalmente si staccò da me, lo guardai negli occhi.
«Non dovresti continuare a
vedermi».
«Voglio
farlo», rispose.
«Non
dovresti».
«Voglio
farlo», ripetè.
Sospirai.
«Non
innamorarti di me, Seth, non farlo». Non doveva ascoltarmi,
sperai non mi
ascoltasse. «Ti prego».
Mi
spostò
una ciocca dietro l’orecchio. «Come vuoi Evie, come
vuoi».
Sofferenza,
quanta me ne aspettava ancora? Gli diedi le spalle cominciando a
scendere
lentamente le scale, e dopo un tempo che mi era sembrato infinito
sentii una
lacrima scendermi sulla guancia. Ma era solo pioggia, fredda e
sabbiosa.
Pioggia.
Hola
chicos!
sono così felice che qualcuno legga questa storia che non
potete immaginare. È importante
per me, e forse perché ci sono più dentro di
quanto pensassi.
Non
so mai
cosa dire oltre ai grazie, quindi buona lettura, e fatevi sentire ogni
tanto (:
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Capitolo 7 *** Somebody that I used to know. ***
Somebody that I used to know
Mettevo
un piede
davanti all’altro, lentamente, cercando di non perdere
l’equilibrio. Nascondevo
la faccia dentro il cappuccio, dietro i capelli, e piangevo. Questa
volta
piangevo davvero, niente pioggia, niente faccia imbronciata, solo
lacrime e
dolore.
Mi
appoggiai
alla balaustra di un ponte e vi premetti forte lo stomaco, guardando
l’acqua
scura e probabilmente gelata del fiume che mi passava sotto i piedi.
Posai una
mano sul fianco e alzai lentamente la canottiera gialla che indossavo:
il
livido era ancora lì, scuro e malato. Mi voltai, e
appoggiando le spalle alle
colonnine, mi lasciai scivolare a terra prendendomi la testa fra le
mani.
«Evie,
portami una birra», disse mio padre. Era stato sdraiato per
tutto il giorno
davanti alla tv, sobrio e lucido come probabilmente non lo era da mesi
e la
cosa mi spaventava parecchio: aveva qualcosa in mente.
«Sto
studiando, vieni a prendertela», risposi dalla cucina. Stavo
seriamente
cercando di studiare, poiché, sebbene avessi una reputazione
di bad girl, l’ambiente
scolastico era quello in cui mi sentivo più sicura. Amavo
leggere, le
biblioteche, le librerie, un semplice scaffale pieno di libri con la
polvere
accumulata sopra mi faceva star bene. Studiare, quindi, era un miracolo
del
cielo, nella mia vita orribile.
Sentii
i
suoi passi strascicati e pesanti avvicinarsi, e non alzai gli occhi
quando udii
la porta del frigorifero sbattere e delle lattine di birra tintinnare.
Li
alzai, invece, quando percepii il peso della sua mano sui miei capelli.
«Serve
qualcosa?», chiesi alzandomi di scatto e allontandomi da lui
addossandomi al
mobile della cucina.
Lui
scosse
la testa, un sorriso sulle labbra. «Non esci oggi?».
«Devo
aspettare mamma. Sarà stanca, le cucinerò
qualcosa e poi esco».
«Dove
vai?».
Alzai
le
spalle. «Dove mi pare».
Subito
si
fece scuro in volto. «Sono tuo padre, dovrei
saperlo».
A
quel
punto, non resistetti: scoppiai a ridere. Avrei voluto lanciargli
addosso il
vasetto di caffè che era quasi certa fosse alle mie spalle,
e riversargli
addosso tutto quello che avevo subito in quegli anni. Avrei voluto
urlargli a
due centimetri dalla faccia, fargli capire che cosa era diventato.
Invece
risi,
forte, e lui si arrabbiò. Senza darmi il tempo di scansarmi,
m’intrappolò fra
il suo corpo e il mobile, fermandomi le mani con le sue. «Sei
una stupida».
Devi stare zitta, devi stare zitta, zitta,
mi ripetevo. Mi morsi il labbro già distrutto e dilatai gli
occhi: non avevo
capito che cosa voleva. Quando però sentii la sua mano
entrare sotto la mia
maglia e carezzarmi prepotentemente la schiena, capii perfettamente e
cominciai
a opporre resistenza. «Questo no. Non ti basta avermi
distrutto la vita, aver
distrutto quella della mamma, la tua? Non ti basta tutto il male che
hai fatto
fino ad ora? Che uomo sei?». Speravo di scalfire il suo
orgoglio con le accuse
contro di lui, di solito funzionava, ma questa volta no, non era
ubriaco e
riusciva a contenere la rabbia riversandola in un sorriso che mi faceva
accaponare la pelle. Dovevo scappare.
Avvicinò
le
labbra al mio collo e ci stampò un bacio umido, poi mi prese
i capelli e tirò
per farmi alzare gli occhi su di lui. Mentre con una mano ruvida mi
accarezzava
il profilo della faccia e con l’altra mi stringeva un fianco,
gli tirai un
calcio su una gamba, l’unica sua parte del corpo che mi era
accessibile.
Indietreggiò appena, ma riuscii a scusciare fuori dalla sua
trappola. Pronta a
scappare, gli diedi le spalle, ma lui tirò di nuovo i
capelli e caddi con le
ginocchia a terra. Allora cercai di rianzarmi, ma lui mi braccava, mi
bloccava
sul pavimentro, mi teneva ferma con le gambe. Si abbassò e
mi girò di forza
facendo arrivare il mio volto a pochi centimetri dal suo, poi mi
baciò le
labbra. In quel momento irreale, mi ricordai dell’uomo che
era, di quando i
suoi baci sulla bocca erano solo quelli di un padre felice della sua
bambina
con le treccine fra i capelli e il maglioncino a righe sporco di
cioccolata.
Ricordai che quando mi prendeva in braccio e con le dita piccole e
chiare gli
tiravo le orecchie e ridevo forte perché lui mi faceva le
facce buffe, poi mi
accocolavo sul suo petto ad ascoltare il battito del suo cuore, il
rumore delle
sue parole reso sordo dalla cassa toracica. Ma ora le sue labbra
premevano
sulle mie, la sua lingua entrò nella mia bocca, la sua
saliva si mescolava con
la mia, e non era giusto, lui era mio padre. Mi spinse addosso al
mobiletto e
maldestramente cercò di slacciarmi i bottoni dei
pantaloncini corti di jeans
che indossavo, ma non riuscendoci cercò di abbassarli
spingendoli verso giù con
entrambe le mani. Pensavo solo che non potevo lasciarglielo fare, che
era
sbagliato, che non poteva farlo. Allora cominciai a prendergli a pugni
il petto
con tutta la forza che avevo, a calciare per farlo scendere dalle mie
gambe, e
sputargli in faccia, ma era pesante, io troppo magra, debole.
Improvvisamente,
mi fermò il viso con una mano e con l’altra
stretta a pungo mi compì l’occhio,
poi si avvicinò e mi morse il labbro fino a farlo
sanguinare. Sentii il gusto
pungente del sangue e quello amaro delle lacrime entrarmi in bocca.
Quando mi
liberò le gambe alzandosi in piedi cercai di imitarlo, ma
lui mi tirò un calcio
alle costole, e un altro ancora sulle gambe, sull’addome,
alla pancia, la testa
sbattè addosso al mobile dietro le mie spalle. Chiusi gli
occhi.
Era
diventato una bestia che piacchiava sua moglie, la frustava a
un’ora regolare
tutti i giorni costringendola a mentire quando un nuovo livido le
appariva sul
corpo e le sue colleghe di lavoro se ne accorgevano, studiando tecniche
per non
colpirle il volto in modo da non destare sospetti.
Era
diventato una bestia che cercava di stuprare sua figlia, il sangue del
suo
sangue, quella che anni prima chiamava la
luce dei suoi occhi, il miracolo
della sua vita e che ora pestava a sangue. Ora,
l’unico miracolo era che
fossi ancora viva, anche se per l’ennesima volta chiesi a
Dio, o chi per lui,
di morire. Ma la testa pulsava, ogni muscolo del corpo bruciava, e
sentivo solo
male.
Lo
sentii
salire le scale, e mi feci forza: tirai su i pantaloni, mi alzai in
piedi e
reggendomi uscii di casa, l’aria fresca che mi sferzava il
volto facendomi
bruciare maggiormente le ferite aperte e sanguinanti.
Mi
tastai
l’occhio con due dita e il livido prese a pulsare come non
aveva smesso di fare
la testa. Ero riuscita a lavarmi via il sangue in una fontana, ma le
gambe, le
labbra, gli indumenti rimanevano macchiati in modo indelebile.
Alzandomi
barcollai battendo la coscia addosso alla balaustra; un’altra
di dolore scese
gemella a quelle che l’avevano preceduta.
Camminai
lentamente cercando di schiarirmi le idee, di sovvrastare il mal di
testa per
pensare qualcosa di razionale. Dove sarei andata ora? Se fossi rimasta
lì fuori
per molto, svestita com’ero, sarei morta
d’ipotermia. Avevo male le costole,
erano rotte me lo sentivo, e il sangue dalle ferite non smetterva di
uscire.
Come l’avrei curato, non avendo con me un centesimo?
Volevo
chiamare mia madre, dirle di non tornare a casa, di non farlo mai
più.
Quell’uomo doveva marcire in galera, ubriacarsi e vomitarsi
sui piedi prima di
morire. Doveva sparire per sempre. Volevo chiamarla e dirle che ora
sarebbe
andato tutto bene perché saremmo scappate via insieme in un
posto in cui lui
non avrebbe potuto trovarci. Ci saremmo fatte curare, avremmo comprato
dei
vestiti nuovi, trovato un lavoro e un mini appartamento in cui avrei
avuto una
grande libreria colma di volumi di letteratura antica e di vinili di
David Bowie.
Volevo
chiamarla e dirle che le volevo bene, anche se i suoi occhi erano
vuoti, anche
se il suo cuore ora batteva velocemente ogni volta che qualcuno la
sfiorava,
anche se non si truccava più con quell’ombretto
marrone che le aveva sempre
dato un’aria elegante, o non metteva più il
rossetto rosso sulle labbra che
inevitabilmente mi spalmava su tutto il viso quando mi baciava. Avrei
voluto
chiamarla anche per dirle che una volta l’avevo sorpresa a
fumare e mi aveva
sconvolto la vita, perché lei era la mia mamma perfetta. Le
volevo dire che mi
era sembrata la creatura più bella, affascinante e sexy che
avessi mai visto.
Avrei
voluto
chiamarla, ma non avevo il cellulare con me, come neanche una qualche
bottiglietta di alcol per ubriacarmi e morire sul ciglio della strada,
o delle
cuffiette per ascoltare per l’ultima volta le mie canzoni
preferite.
Ero
rimasta
con me stessa, l’unica cosa che da sempre cercavo di evitare.
Eppure avrei
dovuto essere contenta: era rovinata, distrutta, la mia vita era appesa
ad un
filo. Era quello che volevo, smetterre di essere in questa terra, no?
No, vuoi un sorriso sulle labbra, una
sigaretta, una passeggiata al parco con un libro in mano, carezzare la
coda di
uno scoiattolo, mangiare una caramella alla liquirizia, riempire una
vasca di
bolle e immergerti dentro.
Ma
quella
non era la mia vita. Io ero dolore, sofferenza. La mia vita era dolore,
freddo.
Quando
mi
ritrovai davanti alla sua porta e meccanicamente bussai mi ripetei che
quella
era l’unica soluzione, perché morire congelata
sotto un ponte, non era la morte
che mi spettava.
Non
so per
quale ragione quando vidi i suoi occhi posarsi sulla mia faccia e le
sue mani
abbassarmi il cappuccio e carezzarmi i capelli, le lacrime scesero
più forti.
«Che
cosa ti
sei fatta, Evie?», chiese Seth con la pena nella voce.
Scossi
piano
la testa e cercai di sorridere, ma mi faceva male la faccia, e
sorridere era
l’ultima cosa che volevo fare. «Credimi, non
è colpa mia questa volta».
Mi
avvicinò
a cercò di stringermi, ma io mi allontanai. Faceva male.
Faceva male qualsiasi
parte del corpo per i lividi, faceva male sapere che lui non avrebbe
potuto far
niente per aiutarmi.
«Ti
va una
doccia calda?», domandò con un sorriso, offrendomi
una mano.
Annuì
e la
strinsi. «Grazie». Le lacrime continuavano a
scendermi sulle guance, e mi
sentivo uno schifo. Ero uno straccio con quell’occhio nero e
il sangue
incrostato e scuro su tutto il corpo, ma lui continuava a guardarmi con
gentilenzza. Feci un passo verso di lui e appoggiai piano la testa sul
suo
petto, stringendogli la maglia con le mani. Lui mi passò un
braccio sulle
spalle, come a cingermi in un abbraccio.
Profumava
di
pulito, dell’ammorbidente della sua maglia. Alzai gli occhi
sul suo volto e
tirai su col naso. «Ho bisogno anche di un posto dove
dormire, e di qualcosa da
indossare, e di cibo».
Seth
ridacchiò e mi trascinò in casa sua, ci chiuse la
porta alle spalle. «Stai
bene?».
Scossi
la
testa. «Mi hai promesso una doccia». Non ero pronta
a dirgli quello che era
successo. Lui, infine, non era niente per me. Forse
tiene a te, davvero non t’importa di questo? disse
una vocina
dentro di me.
Dato
che
continuavo a fissarlo alla ricerca di una risposta, lui mi strinse un
braccio. «Va
tutto bene adesso, okay?», disse con tono dolce.
Annuii.
Non
andava
tutto bene.
Papà mi stava abbassando le bretelline
del
vestito a poi bianchi e blu che amavo tanto. La mamma era al lavoro,
così lui
aveva insistito per farmi un bagnetto sebbene la doccia
l’avessi fatta la sera
prima. Forse se ne era dimenticato. «Papà, la
mamma mi ha fatto fare la doccia
ieri, non senti come profumo?», chiesi avvicinando il mio
collo al suo naso. Lui
cominciò a baciarlo. Mi faceva il solletico, mi misi a
ridere. Era serio, mi
guardava con un’aria strana, io volevo solo giocare,
così corsi via dalle sue
mani e mi nascosi dietro il letto di mamma e papà, nella
loro camera. Mi
piaceva giocare a nascondino, vincevo sempre contro di lui.
Quando mi trovò nascosta mi sorrise.
«Questa
volta ho vinto io».
Io mi alzai in piedi sbuffando. Non era
giusto, ero io quella che vinceva in quel gioco. Odiavo perdere, ero la
principessa del nascondino. Mio padre mi prese in braccio e mi
carezzò i
capelli. «Ho scoperto un nuovo gioco, vuoi
provarlo?».
Io sorrisi: sarei diventata la principessa
di quel gioco, la regina. Annuii. «Sì
papà».
Avevo
nove
anni, ero solo una bambina. Perché mi hai fatto questo,
papà?
Ciaaaaao, non uccidetemi,
okay? Lo so che non posto da
secoli, ma tra la scuola, il sole, altri impegni, sono stata super
occupata a
fare di tutto tranne che scrivere. Oggi avrei dovuto studiare biologia
ma ero
davvero troppo ispirata per non scrivere questo nuovo capitolo.
Ringrazio le persone che hanno recensito lo scorso
capitolo e quelle che leggono la storia in modo silenzioso, come
sempre.
♥
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Capitolo 8 *** Your heart is an empty room. ***
Your heart is an empty room.
Trattenendo
il respiro, mi alzai velocemente dal letto bloccando qualsiasi urlo
volesse
uscirmi dalla bocca per il dolore intenso che quel minimo movimento mi
aveva
provocato. Le gambe, comunque, non ressero il mio peso facendomi cadere
sul
pavimento. Boccheggiai, e un lamento scappò più
forte del previsto dalle
labbra.
Dovevo
rimanere in silenzio, non si sarebbe dovuto muovere un granello di
polvere.
Dovevo rimanere immobile nel mio dolore. Zitta, immobile, una statua.
Lentamente
appoggiai la tempia destra al pavimento, e chiusi gli occhi mordendomi
il
labbro inferiore come sempre, rannicchiandomi su me stessa come sempre.
La
cosa che mi
mancava di più al mondo, a pensarci bene, era un abbraccio.
Non ricordavo
nemmeno l’ultima volta che qualcuno mi aveva stretto
facendomi pensare che mi
volesse bene. Solitamente, quindi, avevo l’abitudine di
abbracciarmi da sola.
Incrociavo le braccia al petto, e stringevo forte finchè la
sensazione di
benessere scompariva, poi mi voltavo spostandomi dall’altra
parte del letto, e
cercavo di dormire quelle quattro ore sufficienti a non farmi
addormentare sul
banco di scuola il giorno dopo.
A
volte lo
facevo anche mentre camminavo in mezzo alla gente. Così,
dopo una folata d’aria
fredda, dopo essere inciampata su una buca poco profonda che non avevo
notato,
guardando l’acqua scura del fiume scorrermi sotto i piedi, mi
abbracciavo per
sentirmi meno sola, più protetta. Per tornare piccola e
pensare che il sole era
una palla gialla che potevo disegnare con gli occhi tondi e neri
perché a papà
facevano sorridere, o perché potevo ricordare quando il mio
vicino di casa quel
giorno si era presentato in camera mia mentre mi stavo sporcando la
faccia con
i trucchi di mamma e mi aveva baciato la guancia perché era
innamorato di me.
Ora
non
potevo nemmeno abbracciarmi, o mi sarei fatta ancora più
male.
Avevo
una
voglia incredibile di urlare fino a dovermi fermare per riprendere
fiato. Avevo
voglia di tirare le freccette al muro perché comunque non
sarei mai riuscita a
lanciarle nel centro esatto del cerchio. Avevo voglia di avvicinarmi
alla radio
e mettere la stazione in cui passavano la canzone più brutta
che avessi mai
sentito, alzare il volume al massimo e ballare anche se non ero proprio
mai
stata brava, a ballare. Avevo voglia di mettermi un paio di calze e
guardarmi
allo specchio senza farmi ribrezzo da sola. Avevo anche voglia di fare
l’amore
con qualcuno che mi amava, perché io quella sensazione non
l’avevo mai provata,
anche se come voleva lui ero
diventata la regina di quel gioco.
Era
stato
facile imparare le mosse, come nel gioco degli scacchi. Ma qui era
tutto più
veloce, doloroso, piacevole, distruttivo. Avevo imparato in fretta a
stare
zitta mentre lui mi stendeva sul letto di mia madre, mentre mi toglieva
i
vestiti che mia madre lavava ogni giorno, mentre mi spostava i capelli
perché
“hai gli occhi di tua mamma e voglio vederli mentre
giochiamo”, mentre mi
tappava la bocca quando, inevitabilemente, gridavo. Avevo imparato in
fretta a
raccogliere i vestiti dal suo comodino, appallotolarli, gettarli fra i
panni
sporchi, e lavare via con il bagnoschiuma alla vaniglia qualsiasi
traccia di
lui su di me.
Ripetevo
lo
stesso rituale ogni volta che accadeva, come quando impari una poesia a
memoria
e senza volerlo, quando ti svegli la mattina sei lì che ne
ripeti le parole
mentalmente.
Sospirai
e
mi misi a sedere. Chissà dov’era Seth, avrei
dovuto aspettare il suo ritorno
per riuscire a tornare fra le coperte del suo letto.
Non
sapevo
che ore erano, le tende facevano entrare poca luce che non avrei saputo
dire se
erano raggi di sole o la luce pallida della luna. Non sapevo quanto
tempo avevo
dormito, se Seth era andato a scuola essendo sicuro che mi sarei
svegliata
quando ormai lui era rientrato, o se sapeva che mi sarei svegliata e se
ne
fosse andato via comunque perché avermi prestato il suo
letto era tutto quello
che poteva fare per me. Non sapevo quanto sarei potuta rimanere da lui,
se i
suoi genitori mi avrebbero buttato fuori da casa loro e dove sarei
andata dopo.
Non sapevo se sarei mai guarita da quelle brutte ferite e se prima o
poi avrei
potuto mettere qualcosa sotto i denti, qualcosa che assomigliava a cibo
delizioso come una pizza.
Non
seppi
proprio niente fino a quando Seth non apparse nella mia visuale con un
vassoio
in mano e due occhiaie da far invidia a un panda. Esitò
dieci secondi guardandosi
attorno. «Che cosa ci fai lì per terra?».
«Sono
caduta», risposi con voce roca. Mi sentivo abbastanza
stupida, in effetti.
«Come
hai
fatto a cadere?».
Gli
lanciai
un’occhiataccia. «Ti prego non
chiedermelo».
Seth
ridacchiò e si sedette affianco a me mettendomi il vassoio
con il cibo sulle
gambe. «Non pensavo ti saresti svegliata proprio adesso, ma
avevo fame. Scusa».
Non
capivo.
«Per cosa ti scusi?».
«Quando
ti
sei svegliata non c’ero, hai cercato di alzarti ma sei
caduta. Avrei dovuto
aiutarti io a scendere dal letto, scusa».
Addentai
il
panino. «Non è colpa tua se le mie gambe sono
ridotte in queste condizioni, non
devi scusarti. E il panino è buono, grazie».
Rimase
in
silenzio mentre mangiavo guardando davanti a sé, poi si
voltò verso di me.
«Vorrei spaccare la faccia a quel bastardo che ti ha ridotto
così», disse con
un tono aggressivo che non si adiceva per niente al suo viso
d’angelo.
«Non
farlo».
Sbuffò.
«Non
posso farlo fino a che non mi dici chi è».
«Non
te lo
dirò mai, allora, discorso chiuso».
«Chiunque
sia stato ti ha quasi ucciso Evie, vorrai vendicarti almeno un
po’».
Lo
guardai e
gli appoggiai una mano sulla guancia, poi sorrisi. «Lascia
perdere, per favore
Seth».
«Mi
fa
schifo vederti così».
Mi
sentii
come se fossi stata trafitta. Come ero stupida a pensare di piacere a
quel
ragazzo, quanto ero stupida. Abbassai la mano e la incrociai in grembo
con
l’altra, posandoci lo sguardo sopra. In tutti quegli anni non
avevo imparato
ancora che per me c’erano solo male e dolore? Evidentemente
la speranza è
davvero l’ultima a morire.
Sentii
una
sua mano prendermi il viso e farmi voltare verso di lui. «Sai
che non era
quello che intendevo dire». Rimasi lì a guardarlo,
ancora una volta non sapendo
che cosa dire. «Sei letteralmente distrutta, ti hanno
picchiato a sangue. E va
bene se non vuoi dirmi chi è stato, va bene se non vuoi
dirmi perché l’hanno
fatto, ma ti prego, dimmi qualcosa perché vederti
così mi sta torturando».
Sorrisi,
circa. «Non è niente che si possa risolvere,
è così e basta. Questi lividi
passeranno, e se non passeranno andrò dal medico,
dirò che sono caduta dal
motorino di un mio amico. Ma poi starò bene, quindi non ti
preoccupare, starò
bene».
Seth
si alzò
in piedi e strinse i pugni. Non lo avevo mai visto con
un’espressione così
cattiva in volto. «Non starai mai bene, lo capisci? Non so
quale sia la tua
storia, a quanto pare non ti fidi abbastanza di me per raccontarmela.
Non so
perché fumi, bevi, ti droghi, perché sei ridotta
in questo modo, ma se la tua
vita non cambia tu non starai mai bene. Devi fare qualcosa, e devi
farlo tu».
«Sono
stanca
di lottare, ci ho provato per troppo tempo perdendo tutte le battaglie.
Sono
stanca, stanca che non ti immagini. E hai ragione, non starò
mai bene, ma io
non voglio più far niente. Sto quasi bene quando sto male,
perché mi sento
normale. Vivo nel dolore, mi sento a mio agio nel dolore. Sono
dolore».
«Tu
sei
bellissima, mettitelo in testa. Non c’è niente di
sbagliato in te».
Mi
portai le
mani alla testa: stavo impazzendo. Doveva starsene zitto.
«Smettila, ti prego».
«No».
«No
cosa? È
la mia vita, smettila».
«Devi
darmi
la possibilità di aiutarti».
«Non
voglio
essere aiutata».
«Quando
ieri
sei arrivata davanti alla mia porta, mi sembra avessi bisogno di aiuto,
mi
sbaglio?».
Sbuffai.
«Vaffanculo
Seth». Quello sarebbe stato il momento in cui mi sarei alzata
e me ne sarei
andata dalla sua stanza imbronciata e con le palle girate, e invece non
potevo
muovermi, inchiudata al pavimento com’ero a causa di quei
maledetti dolori ovunque.
«Parlami»,
disse guardandomi, scrutandomi dentro. Non potevo parlare, sarebbe
cambiato
tutto, sarei crollata e non potevo. Dovevo rimanere me stessa.
«Parlami, perché
io ci tengo a te e non sopporto di vederti in questo stato».
Zitta, rimani
zitta Evie. «Lo ammazzerei di botte. Non è umano
fare una cosa del genere a una
ragazza».
Ha detto che ci tiene a te. –
urlai
mentalmente un ‘taci’ alla vocina nella mia testa.
La
sua
faccia, repentinamente, diventò pallida, come se avesse
visto un fantasma, o un
cadavere aprire gli occhi. Non ne capivo il motivo, non avevo parlato,
nessuno
aveva parlato dopo di lui, ne si era mosso. Niente era apparentemente
cambiato.
«Che cosa succede?», chiesi allarmata e curiosa.
Seth
cercò
di emettere un suono, ma non uscì nulla dalla sua bocca.
Chiuse gli occhi e
prese un respiro profondo. Poi li riaprì. Gli era appena
saltato in mente
qualcosa, ne ero certa. Qualcosa di brutto, che non riusciva a
tollerare. Non
riuscivo a capire che cosa, in ogni caso. Non
leggi ancora nella mente, scema, disse la mia amica.
Appuntai mentalmente
di murarla viva da qualche parte, in modo da non doverla più
sentire.
Poi,
finalmente, parlò. «Ti ha stuprata, non
è vero?».
Lo
guardai
negli occhi, la faccia impassibile. Poi, improvvisamente, urlai. Urlai
con
tutto il fiato che avevo in corpo, ignorando il dolore impossibile da
sopportare alle costole, alla pancia, alla gola, ai polmoni. Urlai,
forte. Un
urlo lungo, senza senso, prolungato, stanco.
Non
stavo
lottando, non mi stavo risvegliando, non stavo bene ora che ero
riuscita a
emetterlo. Era un urlo di dolore, dolore fisico, psicologico. Era il
mio
ritratto fatto a suono. Era un urlo che chiedeva aiuto anche se fino a
cinque
minuti prima sostenevo che di aiuto non ne volevo. Era un urlo che
sostituiva
tutti gli urli che non avevo mai emesso perché la sua mano
mi tappava la bocca.
Un urlo che sembrava una morte, non una rinascita.
Ero
io
espulsa da me stessa, troppo stanca per continuare a mantenere il
segreto.
Troppo stanca per non fare qualsiasi cosa se non guardare gli occhi di
Seth e
sputare fuori tutta la verità. «Mio padre abusa di
me da quando avevo dieci
anni, ecco qual è la mia storia». Lo ansimai.
Ansimai il riassunto della mia
storia in modo triste. Mi ero arresa da tanto tempo, stavo male da
tanto tempo.
Non ero più me stessa, in realtà non ero
più nulla. Mi ero annullata, mi aveva
annullata.
Non
uscirono
lacrime, neanche una quando pronunciai quelle parole. Non sentivo
niente se non
i nostri respiri, a dirla tutta. Il mio accelerato dopo
l’urlo, il suo pesante,
incredulo.
Seth
si
portò una mano alla bocca, e dalla mia, invece,
uscì una risata isterica. Stavo
impazzendo, e non c’era una cura per tutto quello che avevo
passato. Non ci
sarebbe mai stata una cura alla mia triste, inutile, stanca esistenza.
L’avrei
ricordato per tutta la mia misera viva, e niente, nessuna cosa bella
l’avrebbe
mai cancellato. Niente e nessuno.
Risi,
la
gola mi face male per ore dopo quella risata che si traformò
lentamente in un
lamento, un pianto senza lacrime, in qualcosa che la mia mente
chiamò disperazione. Ero
disperata. Ero
disperazione concentrata.
Lui
rimase
fermo a guardarmi per un tempo indicibile, a elaborare quello che avevo
appena
detto, e quando si risvegliò dal trance fece qualcosa che
sembrava un sorriso.
Un sorriso cattivo «Lo ammazzo».
Rimasi
immobile, un po’ perché avrei tanto voluto che lo
facesse, un po’ perché sapevo
che stavo morendo dalla paura. Non conoscevo la persona davanti a me,
mi
spaventava. Allungai un braccio, sospirando per il dolore, e rimasi in
attesa.
Lui mi guardava, continuava a guardarmi gli occhi, a vederci il mio
male.
Continuava a farlo e io lo lasciavo fare, perché doveva
capire che l’unica cosa
che volevo era che se ne stesse con quei pantaloni del pigiamacalati
sui
fianchi alla perfezione, che mi sorridesse, uno dei suoi sorrisi
gentili e che
mi mentisse spudoratamente dicendomi che quella sera saremmo andati a
mangiare
un dolce alla panna. Volevo che capisse che a me piaceva il Seth buono,
perché
nella mia vita non c’era mai stato nessuno buono con me. Ne
mio padre, ne quei
ragazzi che mi scopavano in un cesso, neppure mia madre, che se mi
voleva bene
era solo perché io gli servivo.
Volevo
che
capisse, e non so se lo fece, sicuramente non del dolce alla panna, ma
mi si
avvicinò lentamente e dopo avermi presa in braccio come si
fa con un bambino
che si è addormentato in macchina al ritorno di un lungo
viaggio, mi riposò fra
le coperte del suo letto.
Mi
spostò i
capelli con una mano, posandola poi sulla mia guancia. «Dimmi
che cosa devo
fare».
«Puoi
rimanere con me se vuoi».
Mi
strofinò
il labbro inferiore con il pollice. «Non riesco a
resisterti».
«Innamorati
di me. Fammi sentire che cosa si prova a essere amati, cosa vuol dire
camminare
per strada tenendosi per mano, trascorrere una giornata a giocare a
scarabeo
invece di andare a scuola, andare al mare senza costume e fare il bagno
nudi,
bere un frappè con la stessa cannuccia».
Mi
guardò
come solo Seth mi guardava, con quel misto di pena, odio, frustrazione
e forse
anche amore. «Ho promesso che non mi sarei innamorato di
te».
Sorrisi,
sorrisi davvero dopo due giorni, ignorando il male alle guance.
«Meno male. Ora
però resta con me».
Vorrei
solo
scusarmi con voi perché sono mesi che non aggiorno, e con
molta probabilità a
causa di ciò nessuno leggerà questo capitolo, ma
non importa. Fatevi sentire,
se vi va. Aloah, spledide personcine **
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Capitolo 9 *** I've lost who I am and I can't understand why my heart is so broken. ***
I've lost who I am and I can't
understand why my heart is so broken.
Suggerimento musicale (canzone da cui
deriva il titolo, canzone che mi ha sempre ispirato per loro, canzone
che è l’amore,
canzone che… la smetto):
http://www.youtube.com/watch?v=w_LOOKssMpA
Gli
stavo
mordendo ancora una volta il labbro inferiore, quello che gli sporgeva
un po’,
quello che ormai sanguinava. Sentivo le sue mani pesanti sui fianchi,
le gambe
fra le mie, che spingevano per aprirle di più. Mi
sfiorò il naso con il suo,
mentre ansimavo. I suoi occhi sembravano più grandi,
profondi, accesi di
eccitazione com’erano. Ammettevo a me stessa che era bello da
morire, che
profumava di pulito, e che scoparlo era decisamente piacevole.
Gli
baciai
l’incavo del collo e feci scendere le mani sul suo corpo,
lentamente, come
sapevo fare. Gemé. «Cazzo»,
boccheggiò. Mise una mano sopra alla mia prima che
arrivassi al suo membro. «Non siamo ne fatti ne ubriachi. Sei
sicura di
volerlo?».
Ero
sicura
di volerlo fare? No. Ma mi sarei sentita di merda a farlo godere,
quindi
annuii. Non era il caso di parlare, per qualche strana ragione mi
capiva meglio
di chiunque altro, e non mi conosceva nemmeno un po’. Con la
bocca scese fino
alla mia pancia, lasciandosi dietro una scia di baci. Mi contrassi:
faceva ancora
male. La pancia, i fianchi, le cosce. Tutto doleva ancora, come a
ricordarmi
quello che era successo. Non che avessi scelta, i lividi erano ancora
lì, ben
visibili, scuri e malati. Seth mi guardò con dolcezza, ma io
gli tirai i
capelli. «Non ti fermare». Con incredibile
lentezza, allora, fece entrare due
dita dentro di me, da sotto la biancheria. Gemetti. Era cominciata la
tortura
che conoscevo bene. Riuscii a non chiudere gli occhi, li tenni fissi
per tutto
il tempo nei suoi, come a dirgli che andava tutto bene, che sapevo
resistergli.
Ed era vero, ci riuscivo. Quella era l’abitudine per me, non
provavo niente
escluso il piacere involontario. Se ne accorse, si fermò.
«Perché lo stai
facendo?», mi chiese. Non seppi cosa rispondere, mi strinsi
nelle spalle.
Chiuse gli occhi a due fessure. «Tutto questo non dovrebbe
farti schifo, farti
soffrire?».
Sorrisi.
«Come siamo perspicaci». Dilatò le
pupille. Non l’aveva ancora capito, dopo
tutto quello ce gli avevo detto, gli avevo dimostrato, che odiavo me
stessa più
di qualunque altro, più di lui?
Gli
presi la testa fra le mani e lo baciai, spingendo per fare entrare la
lingua
nella sua bocca. Non oppose resistenza. Forse perché aveva
voglia di baciarmi,
forse perché era confuso e stava ancora pensando alle mie
parole, non lo
sapevo, ma rispose al bacio con cattiveria, spingendo la lingua sempre
più
infondo, mordendomi, piantandomi le dita nella carne dei fianchi. Io,
di
rimando, gli tiravo i capelli, aggrappandomi alle sue spalle larghe.
Continuando a baciarmi, infilò le dita sotto le spalline del
reggiseno e le
fece scendere sulle braccia, poi, con un movimento repentino,
slacciò il
gancetto e me lo tolse guardandomi il seno. Si morse il labbro
inferiore e
piantò i suoi occhi nei miei. «Non fraintendermi,
ma sei bellissima». Non
sorrisi anche se sapevo che dovevo farlo, non arrossii
perché ero nuda davanti
a lui, mi avvicinai soltanto e, abbassando il busto, gli leccai i peli
del
petto, una linea netta, fino alla fine. Poi alzai gli occhi e gli
sorrisi.
«Anche tu non sei niente male». Lui si accese e mi
sbatté sul letto, sotto di
lui. Mi fece aprire le gambe e vi si inserì in mezzo. Poi,
come se avesse
appena accolto una sfida, come se davvero volesse torturarmi, comincio
a
pizzicarmi i capezzoli con la bocca, facendoli indurire in un secondo.
Chiusi
gli occhi e mi godei quel piacere immenso che si espandeva dal centro
del mio
corpo fino a che non sentii tutto il suo peso mentre affondava in me.
Spalancai
gli occhi e urlai aggrappandomi a lui.
Mi
guardò
negli occhi. «Non voglio permetterti di farti del male. Non
lo permetterò».
«Purtroppo
è
la mia vita, non hai voce in capitolo».
Serrò
la
mascella e cominciò a muoversi, velocemente,
prepotentemente. Faceva male,
quasi. Male e bene allo stesso tempo. Era arrabbiato e si stava
sfogando su di
me. Riuscivo ad assecondarlo, era facile sebbene fossi travolta da una
miriade
di sensazioni allo stesso tempo, sebbene stessi per crollare. Gemevo
gemevo,
continuavo a gemere sotto di lui. Mi stava facendo male sul serio.
Delle
lacrime
mi scesero sulle guance, gli morsi la spalla per non mettermi a
singhiozzare.
Lui continuava, dentro e fuori. Arrivò all’apice,
e poco dopo lo feci anche io.
Rimasi aggrappata alle sue spalle, le lacrime che scendevano
silenziose, il
respiro affannato e il mio cuore che batteva veloce contro il suo.
Uscì da me e
fui costretto a guardarlo negli occhi, le lacrime ancora evidenti.
Mi
accarezzò
il labbro inferiore con il pollice. «Scusami».
Scossi
la
testa e azzardai un sorriso, ma proprio non ce la facevo. Non riuscivo
nemmeno
a respirare bene. Inspirai forte, ma niente. Ci riprovai, ancora nulla.
Le
lacrime continuavano a scendere. I pensieri si erano fermati tutti di
colpo,
ora nella mia testa vedevo solo bianco. Poi, senza che me lo
aspettassi, un conato
di vomito mi salì in gola e feci sono in tempo ad alzarmi
dal letto per
rigettare tutto quello che avevo ingerito sul pavimento. Mi guardai le
mani
sporche e mi accasciai a terra, in ginocchio. Cominciai a singhiozzare
forte,
tutto intorno a quella pozza sparì. Appoggiai la testa al
pavimento e mi
raggomitolai in me stessa.
Stavo
naufragando davvero questa volta. Stavo marcendo da dentro. Tutto le
cose
sbagliate che avevo fatto, tutte quelle che avevo subito, tutto il
dolore che
mi ero inflitta mi si stava ritorcendo contro. Guardai i segni ormai
rosa sui
polsi e singhiozzai, guardai le gambe senza più carne e
singhiozzai, presi un
ciuffo di capelli sfibrati fra le mani e singhiozzai, vidi quel livido
sul
fianco, quello più grosso ed evidente e singhiozzai. Stavo
morendo, ero
l’assassina di me stessa.
Mi
alzai, e
senza sentire davvero la voce preoccupata di Seth, mi divincolai dalle
sue
braccia e andai in bagno. Aprii l’acqua della doccia in modo
che uscisse
fredda, e vi entrai, già nuda. Guardai in alto e un getto
gelato mi colpì in
faccia, ripulendomi la bocca del vomito e le guancie dalle lacrime.
Sentii
l’acqua scendere fluida su tutto il mio corpo, spazzare via
ogni cellula morta,
lasciare una scia di pelle ustionata, fino a cadere dentro il buco
dello
scarico. Sapevo che si stava portando via anche me. Mi sedetti sul
fondo della
vasca e chiusi gli occhi cominciando a tremare. Mi lasciai andare alla
stanchezza, mi lasciai portare giù per quel buco una volta
per tutte, insieme
alla pelle morta del mio corpo, allo sporco dei miei capelli,
all’odore di sesso.
Mi lasciai andare.
La vidi rannicchiata su se stessa, la
guancia appoggiata al ruggine della vasca, immobile, bianca: mi
sembrò un
cadavere. Mi avvicinai, con la paura che mi montava in petto. Non ero
pronto a
lasciarla andare ora, ma avevo paura. Paura di averla già
persa. Mi inginocchiai
lì affianco e con un sospiro di sollievo notai che il suo
petto si alzava e si
abbassava, lentamente. “Sei viva”,
pensai. Le scostai i capelli bagnati dal viso, le sue labbra si
dischiusero
lasciando uscire lo sgradevole rumore dei suoi denti che battevano.
Solo in
quel momento mi resi conto della temperatura dell’acqua: la
spensi e presi Evie
fra le braccia, facendola stringere a me. Ma lei non reagiva, le sue
braccia
rimanevano a peso morto, gli occhi chiusi, il respiro era irregolare, e
tutto
il suo corpo continuava a tremare. Le schiaffeggiai la faccia. “Non
lasciarmi, non lasciarmi. Svegliati, ti prego”. Mentre ripetevo quelle preghiere, la portai nel mio
letto e la coprii
con tutte le coperte che trovai, stando attento a non schiacciarla
troppo. Poi mi
distesi accanto a lei e la strinsi forte a me. “Non
lasciami Evie, non
adesso, non farlo. Ti prego”. Le
toccavo
i capelli, carezzavo il viso, ma lei non reagiva. Immobile, morta. Le
baciai le
labbra viola per il freddo e lei aprì gli occhi. Mi guardo
dritto in faccia. Stavano
urlando qualcosa che la sua voce non le aveva mai permesso di fare.
Stavano chiedendo
aiuto. Il mio aiuto. Stavano dicendo «lasciami
andare». Stavano dicendo
«amami». Mi dicevano che
non avevo scelta, che dovevo
lasciare andare via perché “non
innamorarti di me”, aveva detto. E
io mi ero innamorato, innamorato perso di quella
ragazza che continuava ad urlare con gli occhi. «Ho capito
Evie, non mi devo
innamorare di te».
Scosse la testa. «Devi
lasciarmi».
«Lo so».
Chiuse gli occhi e con le ultime forze
rimaste disse «…perché anche io ti amo
e non posso, io non posso».
Ciao,
scusatemi per il ritardo e per la lunghezza minima di questo capitolo.
L’ispirazione
è tornata solo oggi, e so che questo capitolo è
forte e che probabilmente
continuate ancora a non capire un tubo della storia, ma capirete prima
o poi,
abbiate fede. Grazie per le visite e le recensioni, siete i migliori **
|
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Capitolo 10 *** Maybe you’re gonna be the one who saves me. ***
Maybe you’re gonna be the one who
saves me.
Non
avevo
più visto Seth dal giorno in cui ero uscita da camera sua,
raccogliendo
frettolosamente i miei averi, una mattina presto, mentre lui ancora
dormiva. Non
mi ero più drogata, non bevevo più. Al fumo non
ero riuscita a rinunciare: i
vizi ti entrano sotto pelle.
Continuavo
a
farmi pagare dai ragazzi per le mie prestazioni negli spogliatoi, mio
padre
continuava a picchiare mia madre. Avevo deciso di ignorarli entrambi: se non potevo salvare me stessa, non avrei
salvato neppure loro.
Ero
entrata
in una nuova fase della mia vita, quella in cui avevo smesso di farmi
del male
e mi ero annullata (o almeno ci provavo). Se per la gente non ero
nessuno, non
sarei stata nessuno nemmeno per me. Non sarei più esistita.
Mangiavo poco,
parlavo ancora meno, mi nascondevo dagli altri, studiavo di
più. Stavo
diventando invisibile, e non aspettavo altro che esserlo completamente.
Passarono
cinque
mesi, prima di rivederlo. Ero appena stata a prendermi delle sigarette,
e in
bocca avevo una gomma da masticare, per allentare il nervosismo. Entrai
nella
libreria del centro, l’unico posto in cui mi concedevo di
essere qualcuno: una
ragazza a cui piace leggere più di qualsiasi cosa. Mi sedevo
in uno sgabello,
nascosta alla vista di quasi tutti, in un angolo del locale, e passavo
interi
pomeriggi a leggere, ad ascoltare musica con un paio di cuffiette.
Lo
vidi
proprio nel mio angolo felice, con in mano un libro di Bukowski e la
barba
cresciuta. Sembrava che il suo corpo si perdesse dentro la felpa verde
consumata che indossava, nonostante fuori cominciasse a fare caldo.
Persino le
gambe apparivano più magre, il viso più scarno. I
capelli erano lunghi, e li
aveva raccolti con una piccola coda, sulla nuca. Ammisi fra me che
quell’aria
trasandata gli donava, anche se ero sicura stonasse con le fossette
sulle
guance. Mi avvicinai per osservarlo meglio, e come se avesse sentito la
mia
presenza, alzò gli occhi e si guardò in giro,
incontrando poco dopo i miei. Sorrisi
e mi avvicinai, alzandomi sulle punte dei piedi per lasciargli un bacio
sulla
guancia destra. «Ciao».
Mi
scrutava,
come avevo fatto io poco prima, solo più apertamente,
scendendo e risalendo con
lo sguardo sul mio corpo, sul mio volto. Disse
«ciao» anche lui. Mi chiese come
stavo, e io risposi che stavo meglio. Era una bugia, ovviamente,
e lui non se la bevve, ovviamente,
ma si limitò ad annuire e a dirmi che anche a lui
andava tutto bene. Gli chiesi se aveva lasciato la scuola, e lui disse
che si
era trasferito a casa di suo fratello maggiore, in un’altra
città, ed era stato
costretto a cambiare istituto. Vidi i suoi occhi diventare lucidi, e
non ne capii
il motivo, ma mi si strinse il cuore. Dopo un po’ glielo
dissi. «Sembri diverso».
«Ho
solo i
capelli più lunghi».
«E
sei più
magro».
«Anche
tu».
Alzai
gli
occhi al cielo. «Che cosa succede, Seth?».
Si
strinse
le braccia al petto, come facevo io quando avevo il disperato bisogno
di un
abbraccio. E allora lo feci, mi avvicinai a lui e lo abbracciai,
facendomi
posto fra le sue braccia stese lungo i fianchi, che poi presero a
stringermi,
come se non avessero aspettato altro che quel momento, come ad urlare grazie. E fu quello che mi disse, dopo
alcuni
minuti, fra i capelli. «Grazie».
Gli
erano
morti i genitori in un incidente stradale, ecco cos’era
successo. La colpa non
era neppure stata loro, ma del conducente che viaggiava nella direzione
opposta, ubriaco fradicio.
Me
lo disse
seduto sullo sgabello di legno diventato mio grazie ad un tacito
accordo che
avevo stretto con l’anima della libreria concludendo il
racconto con un sorriso
amaro e una battutina poco convinta su come avrebbe potuto fare i soldi
raccontando la loro storia in un libro, se solo avesse saputo scrivere
e avesse
avuto i contatti giusti. Sorrisi, non sapevo cos’altro fare,
lì accucciata a
terra. «Mi dispiace».
«Muoiono
sempre i migliori. Tuo padre, sempre il solito verme?».
Alzai
le
spalle. «Sembra si sia dimenticato della mia
esistenza».
«Meglio
così».
«Meglio
così»,
acconsentii. Rimanemmo così, a fissare i libri, impacciati
nonostante tutte le
notti passate insieme. «Ci vai ancora, giù alla
stazione?».
«A
volte
capita, ma se il tuo intento è capire se continuo a
drogarmi, la risposta è sì,
a volte lo faccio, ma niente di pesante. Non morirò. Tu
piuttosto? Non ho mai
sentito parlare di te, e li ci conosciamo tutti».
Scossi
la
testa. «Non ci sono più andata
dall’ultima volta in cui mi ci hai portata tu».
«Scelta
saggia».
«Grazie».
Silenzio.
Di nuovo. Sembravamo due estranei,
noi
che un tempo avevamo detto di amarci. E fu proprio quello, che mi
chiese Seth
quando parlò di nuovo. «Mi ami ancora?».
Mi
sembrò un
bambino indifeso, sebbene non ne avesse affatto l’aria.
«Non lo so. E tu?».
«Sono
successe tante cose».
«Che
risposta del cazzo».
«Lo
so».
«Mi
ami
ancora?».
«Probabile».
Lo guardai, lui mi sorrise e si avvicinò per baciarmi le
labbra, in quel suo
modo dolce di sempre. Doveva aver capito che, nonostante tutto, mi
piaceva da
impazzire. «Sembri diversa».
«L’ho
detto
prima io».
«Sembri
diversa. Più serena e più triste. Si
può essere sereni e tristi
contemporaneamente?», lo chiese più a
sé stesso, che a me, come perso in
qualche meccanismo del suo cervello. «Si può
decide di essere troppo stanchi
per essere tristi, troppo stanchi di farsi male, ancora più
stanchi di volersi
bene? Si può?». Rimasi muta, a fissarlo. Lo prese
come un gesto di assenso. «Mi
ami ancora?», ripeté.
Annuii,
perché
sì, pensavo di amarlo ancora, perché
sì, baciava ancora divinamente, perché
sì,
con lui mi sentivo meno sola. Annuii perché non ero mai
riuscita a
dimenticarlo, anche se a lui ci avevo pensato raramente, in quegli
ultimi
cinque mesi. Ma infine stavo cercando di essere invisibile, e avevo
smesso di
pensare alle cose a cui una volta ero interessata. Sembravo diversa?
Ero diversa.
Avevo deciso di interrompermi, di tagliare il cavo che mi legava al
mondo
esterno, alle persone, al cibo, ai colori. Avevo deciso di non essere
nessuno,
ma con lui, così perso, così vuoto,
non ce la facevo ad essere invisibile. E cominciai ad essere per lui
quello che
era stato per me: la medicina che faceva male, la cura che lo avrebbe
portato
alla distruzione.
Appoggiai
la
fronte alla sua, sentii il suo alito sulle guance, il suo respiro sulle
labbra.
Se non potevo salvare me stessa, avrei
salvato almeno lui.
A quanto
pare il blocco dello scrittore è terminato. Halleluia, sia
ringraziato il cielo
e tutti i santi del paradiso. Vi comunico che questo è
l’ultimo capitolo della
storia, che sarà seguito da un epilogo, che
pubblicherò a breve. Spero di non
aver deluso nessuno (soprattutto quelle persone che sono rimaste fedeli
a
questa storia nonostante io non aggiornassi m a i), sono pronta per la
ghigliottina, Deborah.
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Capitolo 11 *** Epilogo. ***
Epilogo.
Uscii
dalla
libreria e chiusi la porta a chiave. Mi accesi una sigaretta. Era una
giornata
cupa, di quelle in cui il cielo è bianco e gli occhiali da
sole ti servirebbero
anche se di sole non ce n’è nemmeno
l’ombra. Strizzai gli occhi, infastidito.
Magari avrebbe piovuto. Sinceramente lo speravo: non avevo mai adorato
il caldo
umido di Agosto. Non avevo voglia di tornare a casa, sapevo che Rachel
aveva
organizzato una festa a sorpresa per il mio compleanno. Non era mai
stata brava
a nascondere le cose, e infatti nel suo cassetto dell’intimo
avevo trovato una
lista, una delle tante che era solita comporre, e un punto mi era
saltato
all’occhio: festa Seth. Pensavo fosse un gesto carino da
parte sua, voler
festeggiare con tutti i nostri amici i miei trentacinque anni. E io che
pensavo
sarei morto sotto un ponte, appena superati i vent’anni, per
via di tutta
quella droga. Avevo un sospetto, che tanto sospetto non era, dato il
tremolio
alle mani che mi perseguitava, di essermi bruciato qualche cosa nel
cervello.
Ma infine vedi sempre tutto da un’altra prospettiva, quando
hai vent’anni e non
sai come salvarti. Decidi che se nessuno lo farà al posto
tuo, tu ti lascerai
andare, tu non farai assolutamente nulla. E invece lei
mi aveva salvato.
Avevo
visto
Evie l’ultima volta qualche anno prima, quando ancora non
avevo conosciuto
Rachel, mia moglie, in un supermercato. Non l’avevo
riconosciuta subito, era
cambiata molto, con gli anni. I capelli, lunghi fino alla base della
schiena,
li aveva tinti di nero (il giorno del suo
diciottesimo compleanno, in camera sua, un muffin comprato al bar
all’angolo
sulle lenzuola, con solo la biancheria addosso, le canticchiavo
all’orecchio
‘tanti auguri a te’ soffiandole fra i capelli rosso
stinto che le arrivavano
alle spalle), il corpo, fasciato da un abito da lavoro blu
scuro, era
maturato, e sebbene fosse ancora magro, aveva l’aspetto sano (il giorno del suo diciottesimo compleanno,
in camera sua, un muffin comprato al bar all’angolo sulle
lenzuola, con solo la
biancheria addosso, le accarezzavo la pancia con le dita, sentendo la
pelle
cambiare aspetto, diventare come la buccia del limone, e capivo, lo
capivo
dalla sua pelle, che mi amava). Le gambe, quelle le erano
rimaste uguali:
lunghe e smilze, del genere che si avvicina alla perfezione (il giorno del suo diciottesimo compleanno,
in camera sua, un muffin comprato al bar all’angolo sulle
lenzuola, con solo la
biancheria addosso, posavo gli occhi sulle sue cosce sfregiate, e mi
ripetevo
che non era colpa mia, che non era colpa mia, che davvero, non era
colpa mia). Da dove mi
trovavo potevo osservarle
anche il volto: i lineamenti duri e seri, le labbra piene e le ciglia
lunghe.
La trovai cambiata, ma riconoscevo in lei tutto di quella ragazzina che
avevo
amato fino a farmi male, letteralmente. Mi ero avvicinato a lei,
indeciso se
chiamarla, oppure rimanere ad ammirarla, seppure più da
vicino, ma lei aveva
alzato lo sguardo e mi aveva trovato lì, con una felpa
grigia pendente sulle
spalle e le scarpe sportive ai piedi. Mi aveva sorriso, e accostatasi a
me, mi
aveva lasciato sulla guancia un bacio, senza alzarsi sulle punte, come
faceva
un tempo, a causa delle scarpe con i tacchi che indossava. Aveva detto «ciao»,
io gli avevo risposto lo stesso. Era
diventata un avvocato, mi disse, ed era per quello, che la vedevo
vestita in
quel modo, perché a lei piacevano ancora le calze e le
maglie lunghe come una
volta, mi spiegò. Le dissi che lavoravo nella libreria del
centro, quella in cui
andavamo sempre insieme, e dopo aver sorriso, disse che di tempo per
leggere ne
aveva davvero poco, ormai. Affermai che era una cosa triste, e lei
annuì, per
poi guardarsi i piedi. Le chiesi se era sposata – portava una
fedina al dito e
io non me ne intendevo molto né di matrimoni, né
di anelli – ma lei scosse la
testa e disse che stava davvero bene, ora. Domandò di mio
fratello, come stava
e se era riuscito poi a metterla incinta, quella ragazza che amava
tanto.
Scoppiai a ridere: mio fratello l’aveva abbandonata dopo il
terzo figlio. Disse
che era proprio da lui, e rise con me. Volli chiederle dei suoi
genitori, e lei
si fece scura in volto, rispondendo poi che non li aveva più
visti, da quando
se n’era andata di casa, insieme a me. Mi vennero in mente
subito i mesi
passati dentro quel piccolo appartamento malsano, e sebbene avessi
dovuto
ricordare le litigate, che in quel periodo erano all’ordine
del giorno,
l’immagine che mi apparse fu quella di noi, seduti sul
divano, a mangiare
cereali perché senza un soldo, la sua testa posata sulla
mia, una canzone degli
anni sessanta che usciva dalle casse dello stereo
nell’angolo. Prima di
andarmene da quel supermercato l’avevo abbracciata,
sussurrandole all’orecchio
la parole che probabilmente le avevo detto più spesso «grazie».
Dovevo ringraziarla per aver passato con me il periodo più
brutto della mia, e
per avermi fatto uscire da esso amandomi come nessuno aveva mai fatto.
A
guardarla bene, a guardare quell’Evie che non assomigliava
alla mia Evie, mi
dissi che l’amavo ancora, l’avevo sempre amata (anche quando mi aveva puntato la pistola alla
tempia, quando eravamo
fatti, stra-fatti, in quel periodo buio che aveva seguito un altro
periodo
buio, e mi aveva supplicato di andarmene, per poi cercarmi due giorni
dopo, chiedendomi
di scomparire con lei dentro un
letto) e probabilmente l’avrei sempre amata. Anche
in quel momento mi
ripetei che era riuscita a salvarmi, era riuscita a salvarsi, era
riuscita a
salvarci entrambi.
Ora,
che di
anni ne avevo trentacinque, non mi drogavo più e amavo
un’altra donna che mi
stava aspettando a casa, avrei tanto voluto vedere Evie. Magari davanti
una
tazza di caffè, per chiederle come le stava andando il
lavoro e magari
regalarle un libro, magari ripensare a quella volta in cui ci eravamo
lasciati
perché finalmente eravamo cresciuti, e anche se non stavamo
ancora bene,
sapevamo che saremmo andati avanti, che ce l’avremmo fatta.
Avrei tanto voluto
vedere Evie.
E
la vidi.
Vidi i suoi capelli neri, i suoi occhi verdi, le sue labbra carnose
dischiuse,
ad accennare uno strano sorriso, i suoi zigomi alti. La sigaretta mi
scivolò
fra le dita, i piedi cominciarono a muoversi da soli. Fissavo la sua
foto, e mi
dicevo che non era possibile. Mi dicevo che non stavo davvero guardando
la sua
epigrafe, che non stavo davvero leggendo che era morta. Un signore,
fermatosi
affianco a me, un vassoio in mano, mi chiese se la conoscevo. Annuii,
incapace
di parlare. Disse che era morta in un incidente d’auto, che
non era stata colpa
sua ma del conducente che viaggiava nella direzione opposta, ubriaco
fradicio.
Disse che ogni mattina entrava nel suo bar, con il sorriso,
incespicando sui
suoi passi perché, come diceva sempre lei, odiava quelle
maledette scarpe con i
tacchi.
E
la vidi,
vidi di nuovo l’Evie fragile, quella che si sognava le urla
di sua madre
durante la notte e poi mi stringeva forte, impaurita. Vidi i lividi sul
suo
corpo quando, in quel giorno che si era presentata davanti casa, mi
disse che
quella volta non era stata colpa sua. Vidi il sorriso sul suo volto,
nei giorni
del suo, di compleanno, quando scartava i pacchetti e sapeva di
già che le
avrei regalato dei libri. Vidi l’Evie diplomata con il
massimo dei voti, che mi
diceva che ora si sarebbe meritata un premio. Vidi le sue lacrime, le
sue calze
bucate, i capelli rossi, i capelli neri, la sua mano fra la mia, le sue
spalle,
le costole che le bucavano la pelle, lei dentro una vasca,
l’acqua gelata che
la faceva tremare, una pistola puntata male, una pasticca sulla lingua,
lei che
si guardava la pancia allo specchio perché c’era
una vita che le nasceva
dentro, le sue lacrime quando aveva scoperto che quel bambino non
c’era più.
Vidi Evie, la ragazza che avevo amato, la donna che avrei amato per
sempre.
Mi
scese una
lacrima, e allungata una mano, accarezzai la sua foto con le dita,
lentamente,
con leggerezza, come se fosse ancora fragile, come se fosse ancora
quella che
avevo conosciuto su quella terrazza. Ma sapevo benissimo che era
diventata una
donna forte. E sorrisi. Sorrisi perché era proprio vero che
la vita era una
puttana.
Lasciai
suonare a vuoto il telefono, mentre camminavo verso casa. Presi le
chiavi dal
mazzo, e aprii la porta. C’era ancora il suo profumo
impregnato nelle pareti,
nella stoffa del divano in cui mangiavamo i cereali,
nell’aria di quel posto
che non ero mai riuscito ad abbandonare, quel posto che avevo
acquistato quando
ci eravamo lasciati. Ci eravamo lasciati perché ci eravamo
salvati. Eppure ci
amavamo ancora. Lo avevo visto negli occhi dell’Evie del
supermercato, che mi
amava ancora. E allora lo feci: mi avvicinai al mobiletto
dell’entrata,
estrassi la pistola e me la puntai alla tempia. Ci eravamo sempre
salvati a
vicenda, io e lei. Sparai.
Tempo di ringraziamenti.
Ringrazio
Alice
(Noneoftheabove_) che, da quel che ho capito, ha amato questa storia
davvero
tanto: graziegraziegrazie, è bello scrivere se persone come
te sono disposte a
leggere.
Ringrazio Michela
e Stefano, che mi sostengono sempre quando me ne esco fuori con
“ho iniziato
una nuova storia”. Sono sicura alzino gli occhi al cielo ogni
volta, ma va bene
così.
Ringrazio
tutte le persone che hanno letto, recensito, quelle che hanno messo la
storia
tra le seguite o le preferite: siete delle personcine meravigliose e
finirete
in paradiso.
Infine ringrazio
Evie e Seth, che mi hanno fatto piangere come una cretina nella stesura
di
questo ultimo capitolo. Non prendetemi per pazza, lo so che li ho fatti
morire
io, ma io me li ero sempre immaginati così, un po’
alla Romeo e Giulietta, “a pair of
star-cross’d lovers”, diceva
Shakespeare. Io me lo ero sempre immaginati così: destinati
a farsi del male, a
salvarsi a vicenda, a morire per il loro amore. E adesso di preciso non
so
quanti di voi mi odino per questo finale a sorpresa, ma era
così che doveva
andare. Quindi li ringrazio, i protagonisti della mia storia,
perché sono stati
due miei amici, che ho visto crescere in mezzo a tanto dolore. Proprio
per
questo motivo sono sicura che prima o poi scriverò di nuovo
di loro, magari
narrando qualche fatto non scritto in questi capitoli, o non lo so,
approfondendone
qualche altro, quindi non dimenticatevi di loro.
Ora me ne
vado, voi come sempre fatemi sapere che cosa ne pensate. *Deborah fa
ciao ciao
con la manina*
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