In ruins.

di sleepingwithghosts
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Something inside this heart has died. ***
Capitolo 2: *** Nothing goes as planned. ***
Capitolo 3: *** When it’s time to live and let die. ***
Capitolo 4: *** We’ll get to shiver. ***
Capitolo 5: *** Here am I, lost and found. ***
Capitolo 6: *** I wanna be drunk when I wake up. ***
Capitolo 7: *** Somebody that I used to know. ***
Capitolo 8: *** Your heart is an empty room. ***
Capitolo 9: *** I've lost who I am and I can't understand why my heart is so broken. ***
Capitolo 10: *** Maybe you’re gonna be the one who saves me. ***
Capitolo 11: *** Epilogo. ***



Capitolo 1
*** Something inside this heart has died. ***


Something inside this heart has died.

 

Non c’era via d’uscita da quell’incubo. Ormai neppure tapparmi le  orecchie e chiudere gli occhi serviva a far rimanere il dolore lontano. Quel dolore che usciva dalle labbra rosse di mia madre.

Urla. Erano urla che ti entravano nei tessuti della pelle, che bruciavano, che stridevano e facevano male.

Erano otto anni che sentivo ogni maledetto giorno quelle urla, quelle richieste d’aiuto che non arrivava mai. Otto anni di cuscini sopra la testa, di labbra morse con forza, di occhi sigillati, stanchi. Otto anni da quando io, Evie Mcdonnell, non avevo più potuto essere quella bambina con le trecce sui capelli, i pantaloni sporchi di fango, i lacci dei sandali chiusi da mamma con un sorriso sulle labbra.

Ad un certo punto le urla finivano, ed era allora che indossavo le calze rosse, il vestito grigio lungo fin sopra le ginocchia, le Converse alte a stringermi le caviglie, e uscivo di casa, senza guardare mia madre, senza guardare mio padre. Era allora che, frugando nella borsa, trovavo le sigarette e fumavo, sistemandomi il cappello nero sulla testa.

Avevo diciassette anni, e niente avrebbe potuto suggerire alla gente come stavo (il mio trucco pesante poteva esser scambiato per un eccesso di eccentricità): andavo bene a scuola, ero gentile con i professori, salutavo gli inservienti della mensa. Qualche piccolo particolare come non mangia, non sorride, non parla, non fa niente se non guardare davanti a se, non sembravano turbare nessuno, perché io non ero nessuno dentro quella scuola. Dentro quella scuola eccetto gli spogliatoi della squadra maschile di football. Lì non conoscevo nessuno, ma tutti conoscevano me, Evie Mcdonnell, quella facile, la troia. Tutti conoscevano la mia pelle, le mie labbra, la mia lingua, le mie cosce. Quei piccoli dettagli come non mangia, non sorride, non parla, non fa niente se non guardare davanti a se non li notava nessuno, perché tutto quello che succedeva dentro quei bagni di un metro per due, rimaneva lì dentro, e fuori ero solo un fantasma.

Nessuno conosceva Evie Mcdonnell tranne me stessa. Mi riconoscevo quando in biblioteca lisciavo le pagine di un libro di storia seduta su una sedia scomoda, quando ascoltavo una canzone con le cuffiette chiudendo gli occhi e cantando a bocca chiusa con un sorriso, quando facevo girare un piatto di pasta precotta nel microonde, quando guardavo una serie televisiva giocando con le frange della coperta stesa sul divano. Quella era la Evie che conoscevo, e viveva nella mia testa, un fossile di ciò che avrei tanto voluto essere.

Avevo chiuso la porta pesante di metallo facendo tintinnare la campana dorata sopra lo stipide, e mi ero seduta al solito posto: moquette blu, angolo a destra, nascosta da una qualche macchinetta da gioco non funzionante, odore di fumo impregnato nelle perline di legno sulle quali appoggiavo le spalle.

L’inserviente, senza davvero avvicinarsi, mi aveva posato due bottiglie davanti ai piedi (come ogni pomeriggio alle cinque) e senza neanche guardarlo sapevo che aveva sorriso, che mi aveva guardato le gambe e dentro la scollatura. Non ringraziai e presi la prima bottiglia fra le mani. La birra era fredda, e mentre strisciava nell’esofago sentivo quel poco piacevole senso di smarrimento di quando ti trovi in mezzo alla nebbia con addosso solo una canottiera, e le braccia cominciano a gelarsi fino a far male. Faceva male, ecco qual era il bello. Sapevo che quel litro e mezzo di liquido giallastro che stavo facendo entrare nello stomaco l’avrebbe distrutto.

Sorrisi – un mio sorriso, una smorfia di amarezza, tristezza e odio – toccandomi la pancia. Ridacchiai, felice di cominciare già a sentire la testa vuota.

Svuotai entrambe le bottiglie e con le gambe che faticavano a rimanere erette, tornai a casa, mi tolsi i vestiti e mi distesi a letto, lasciando che le dita nude dei piedi diventassero viola a contatto con il pavimento di piastrelle.

Andai in bagno, raccolsi i capelli in una coda di cavallo, e riconoscendo i segnali del mio organismo, abbassai la testa sul water. Pulii la bocca con una mano e feci una smorfia: l’odore di vomito mi nauseava, e non avevo mai retto l’alcol.

Tolsi il reggiseno ed entrai in doccia. Aprii l’acqua, fredda come ghiaccio, e chiusi gli occhi, cominciando a tremare. Mi morsi il labbro inferiore per fermare i denti, spostai i capelli all’indietro e mi sedetti a terra, le spalle posate al muro.

Rimasi ferma, sperando di non riuscire a muovermi più, per un po’ di tempo, poi, a causa di uno spasmo, sbattei le gambe (magre come bastoncini di legno) alla parete di vetro appannata. Allora mi alzai, avvolsi il mio corpo in un asciugamano e mi ranicchiai a letto.

Sembrava terribilmente caldo, dieci volte più caldo di una pelle febbricitante, incandescente.

Strinsi un lembo del lenzuolo con le mani, fino a far diventare le nocche bianche. Sbattei piano gli occhi, pensando che mi fosse scesa qualche lacrima, ma niente, gli occhi erano asciutti. L’unica cosa che sentivo erano i muscoli contratti per il freddo, il battere lento del mio cuore, quello veloce dei denti.

Avevo voglia di fumare. Non avevo voglia di alzarmi.

Sospirai, e chiudendo gli occhi sentii i passi delicati di mamma avvicinarsi, il suo bacio umido sulla fronte, le sue mani sulle mie costole, il peso del lenzuolo e di una coperta a schiacciarmi sul materasso, la porta chiudersi.

Ero sola, di nuovo, con la mia pelle sottile, una voglia di nicotina indescrivibile e tanto freddo, persino dentro il cervello svuotato dall’alcol. Attorno e dentro me freddo, solo tanto freddo.

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Capitolo 2
*** Nothing goes as planned. ***


Nothing goes as planned.

 

Sbattevo le palpebre ossessivamente per rimanere sveglia, mi mordevo il braccio. Il poco sonno e l’effetto della canna che mi ero fatta prima di entrare in classe, cominciavano a farsi sentire.

Stavamo studiando per l’ennesima volta il modo in cui Cristoforo Colombo era approdato nel Nuovo Mondo, quindi alzai la mano aspettando che il professore alzasse gli occhi, e gli chiesi, cortesemente, se potevo uscire dall’aula. Acconsentì.

Invece di dirigermi verso il bagno, svoltai in direzione delle scale che portavano in terrazza, vicino ai laboratori, davvero poco forniti, di chimica e fisica.

Accesi la sigaretta che avevo portato con me, e mi avvicinai al bordo. Guardai giù. In lontananza si vedevano i campi da football e le piste d’atletica, tutto attorno un cielo limpido.

C’era il sole quel giorno, e neppure se quella giornata fosse stata la più insopportabile da mesi mi sarei buttata (non che non ci avessi pensato, solo non l’avevo mai immaginato con il sole, ero troppo melodrammatica) ma a quanto pareva quel qualcuno che aveva appena accompagnato la porta per non spaventarmi, non poteva immaginarlo. Chiusi gli occhi e aspirai la sigaretta aspettando che parlasse.

«Non buttarti, ti prego. Sono debole di stomaco».

Ridacchiai, e indietreggiando di un passo, mi voltai verso la voce maschile che aveva parlato. Lo scrutai per qualche secondo rimanendo in silenzio: indossava un maglione beige chiaro che mi ricordava quello che di solito le nonne regalano ai nipoti a Natale, dei semplici pantaloni scuri tenuti saldi da una cintura senza fibia, e delle scarpe identiche alle mie. I capelli, biondi e mossi, gli incorniciavano il viso, un viso davvero bello, da angelo. Era decisamente carino, quel ragazzo.

«Quindi, se mi buttassi giù, tu vomiteresti soltanto?», chiesi con ironia.

Lui non rispose subito, osservando ogni parte del mio corpo. Sapevo che mi trovava bella, che avrebbe voluto baciarmi sporcandosi di rossetto rosso le labbra, che voleva annusare la mia pelle chiara come il latte, soffiarmi sui capelli di un rosso stinto alla perfezione, ma invece di avvicinarmi a lui, gli diedi le spalle, stringendomi un braccio attorno al busto per l’aria fredda che trapassava la maglia di cotone fino. Sentii i suoi passi avvicinarsi, e quando mi fu accanto, mi voltai verso di lui, offrendogli la sigaretta, ma lui scosse la testa. Dire che aveva gli occhi più verdi che avessi mai visto non era un eufemismo.

«Vuoi farlo davvero?», domandò, ma la sua voce non sembrava allarmata.

«Potrei».

«Finiresti su tutti i giornali».

«Probabile».

Rimanemmo in silenzio finchè non mi abbassai sulle ginocchia per spegnere il mozzicone sul cemento del pavimento, e mi rialzai trovandomi la sua faccia a qualche centimentro dalla mia.

«Sei di poche parole, vero?». Scrollai le spalle, senza spostarmi. «Vorrei baciarti», disse guardandomi le labbra.

Sorrisi. «Fallo».

Lui mi guardò negli occhi – scompigliandomi pensieri che non mi ero accorta di avere in testa – e si allontanò di qualche passo, sorridendomi. «Sei strana».

Alzai un sopracciglio e strinsi le labbra. Mi aveva rifiutata davvero?

Avevo fame, ma sapevo bene che se avessi toccato cibo non sarei più riuscita a smettere. La famosa fame chimica non esisteva solo nelle favole con i ragazzi cattivi.

Mentre ascoltavo il mio stomaco – che sembrava la cassa vuota di una chitarra accordata male – sentii una mano stringermi un fianco. Abbassai gli occhi su di essa ed esaminai le unghie corte ben tagliate, poi lo guardai. Lui sorrise e posò le labbra sulle mie, baciandomi come se fossi il petalo di un fiore, sfiorandomi appena. Un bacio che sembrava una carezza, mentre con la mano sul mio fianco tracciava segni circolari con il pollice.

Quando, lentamente e tenendomi inchiodata a lui con lo sguardo, mi lasciò andare facendo qualche passo indietro, avrei voluto urlare, e invece strinsi i pugni lungo i fianchi, girai i tacchi, e scesi le scale di corsa.

Andai in bagno, vomitai la colazione che non avevo fatto, mi lavai via il rossetto dalle labbra strofinandole, e tornai in classe, dove non sembrava essersi mosso nemmeno un granello di polvere. Un ragazzo in ultima fila mi fece l’occhiolino, io mi limitai a sedermi al mio posto, portando i pensieri nel mio posto felice.

Era un parco giochi con delle panchine vuote, l’erba corta appena tagliata, il profumo di muffin al lampone nell’aria e delle pozzanghere su cui saltare dentro. Mi vidi proiettata in quel sogno ad occhi aperti con un grosso libro, di cui non conoscevo il titolo, in mano.

Quando suonò la campanella non me ne accorsi, rimanendo seduta al mio posto, le mani in grembo, le calze smagliate sulla coscia sinistra, lo smalto nero sulle unghie disastrosamente rovinate.

Qualcuno mi si accostò all’orecchio, e con l’alito che sapeva di tabacco e caramella alla frutta, mi disse «Ci vediamo più tardi, ho l’allenamento alle quattro».

Chiusi gli occhi e sospirai, l’ennesimo conato di vomito che saliva in gola. Perché non mi ero semplicemente lanciata giù prima? Perché c’era il sole (perché non puoi abbandonare tua madre, perché vuoi andare in libreria e comprare il nuovo album dei Placebo, perché non è ancora venuto il momento di uscire di scena)

 

Ciao lettori silenziosi, perché siete così silenziosi? Ho avuto un sacco di visite per il primo capitolo e non capisco perché nessuno nessuno abbia scritto una recensione. Magari questa storia vi fa schifo, o magari non l’avete letta davvero. L’ansia mi sta uccidendo, seriamente. Ugh, niente, vi lascio il secondo capitolo sperando che qualcuno di voi si faccia vivo!

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Capitolo 3
*** When it’s time to live and let die. ***


When it’s time to live and let die.

 

Raccolsi i capelli in una coda alta, misi il giubbino di pelle nera, gli stivali e uscii dalla mia stanza. Raggiunsi mamma in cucina e le diedi un bacio sulla guancia. «Io vado, torno presto».

Lei mi guardò, con quello sguardo freddo e vuoto di sempre, e scosse la testa freneticamente. «Non… ti prego».

Le presi il volto fra le mani. «Shh, arriverò a casa prima di lui, te lo prometto». Le carezzai una guancia e lei annuì. Sorrisi e uscii di casa, tremando.

Mi strinsi nella giacca e quando lo vidi appoggiato all’armadietto, una parte di me avrebbe solo voluto scappare. E invece mi avvicinai, incrociai il suo sorriso per qualche secondo, lo afferrai e lo trascinai dentro ad un bagno, chiudendo la serratura e incollando le mie labbra alle sue.

«Hei, calma», ansimò.

«Non ho tempo», sputai abbassandomi e aprendogli la cerniera dei pantaloni. Una sua mano mi fermò. Chiusi gli occhi. «Che cosa c’è?».

«Non hai voglia».

Mi uscì una risata dalle labbra. «No, nè ora nè tutte le altre volte, se lo vuoi sapere».

Lui mi fece alzare stringendomi un braccio e strattonandomi con la forza. Avevo ferito il suo orgoglio, poverino. «E allora perché cazzo lo fai?».

«I soldi, ecco perché. Ho bisogno dei tuoi cazzo di soldi». Lo fissai per qualche secondo eterno, poi, con rabbia, mi tolse la maglia e mi slacciò il reggiseno mentre con una mano apriva i miei pantaloni e cercava di arrivare alle mie mutande. Li aprì e mi entrò dentro mentre io mi mordevo il labbro, già sanguinante, a causa del male che faceva.

Era il quoterback della squadra, una grande promessa. Si chiamava Joe ed era il fidanzato storico della capo cheerleader, per di più la presidentessa del club della castità.

Ecco perché veniva da me, io ero il suo giocattolino soddisfa desideri.

Lo lasciai fare qualsiasi cosa con il mio corpo, poi gli poggiai le mani sul petto e lo scostai da me. Sorrisi. «È stato davvero divertente, ora però devo andare». Mi rivestii in fretta e quando mi voltai lui mi stava porgendo i soldi. Li presi, mi avvicinai a lui e gli diedi un bacio sulle labbra. «Grazie. Per i soldi». Poi me ne andai sperando non fosse troppo tardi.

Quando arrivai a casa, però, trovai mia madre in lacrime e capii che lui era tornato e la stava aspettando. Salii le scale ed entrai nella loro camera. Era nudo e ubriaco sdraiato sul letto.

Deglutii e appoggiai i soldi vicino a lui. «Vai fuori stasera, okay?».

Aprì gli occhi. «Tu non mi dici quello che devo fare. Stasera starò a casa, con te, e farò quello che voglio». Mi prese la mano e mi trascinò verso di sé, ma mi divincolai, riuscendoci solo perché era stordito dal vino.

«Mi fa sempre più schifo», sputai.

Mi guardò, non so come lucido, e si alzò dal letto, avvicinandosi a me. Camminai all’indietro, inciampando sul tappeto e reggendomi al muro corsi giù dalle scale, con ancora in mano i soldi, con ancora mio padre a inseguirmi. Corsi fino alla porta, lo vidi cadere, arrabbiato, vidi mia madre, lo sguardo vuoto e pieno di terrore, ma uscii lo stesso di casa: volevo essere egoista per una volta, perché sapevo che mio padre avrebbe fatto a lei quello che voleva fare a me, sapevo che avrei dovuto farlo ubriacare fino a farlo svenire, ma una parte di me – davvero piccola – mi voleva ancora bene. E non potevo permettermelo.

Camminai fino alla stazione e scesi fino al tunnel più distante dalla piattaforma di arrivo dei treni, e quello che vidi era tutto ciò che cercavo: alcol, droga. Quel che non mi aspettavo di vedere, però, erano quei due occhi così verdi da sembrare prati in fiore, così profondi da confondermi le idee.

Mi sorrise. «Sapevo saresti arrivata, prima o poi».

 

 

Qualcuno di voi ha recensito, qualcuno di voi ha recensito! sono stra felice, davvero.
Mh, spero continuerete a leggere così numerosi e vi chiedo scusa se alcune parti sono un pochino ‘crude’, ma non sapevo come renderle senza dirle come sono nella realtà.
Basta, non vi annoio più, ciao!

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Capitolo 4
*** We’ll get to shiver. ***


We’ll get to shiver.

 

«Dovresti almeno dirmi come ti chiami».

Lo guardai. «Perché dovrei?».

Sorrise. L’aveva fatto spesso da quando ero arrivata e mi ero accorta che sulle guance gli si formavano due fossette. Adorabile era l’aggettivo giusto, per quelle fossette. «Così, quando faremo sesso, potrò chiamarti».

Scoppiai a ridere. Non mi aspettavo quella risposta, proprio no. «Ne sei così convinto?».

«Che faremo sesso? Assolutamente. Io sarò fatto, tu sarai fatta, due più due…».

«Fa quattro, lo so». Cominciai a dimenarmi sullo scalino freddo sul quale ero seduta. «Ci muoviamo?».

«Sei impaziente?». Mi morsi semplicemente un labbro, e lui sorrise, di nuovo. «Non l’hai mai fatto, giusto?».

«Ci stiamo ponendo domande a vicenda da minuti, smettiamola. Insegnami solo come si fa, mh?».

«Come vuoi». Prese il suo braccio destro, legò un laccio di plastica trasparente sulla parte superiore e, dopo aver trovato le vene – mi stupii il fatto che non avesse molti lividi, non doveva farlo da molto – inniettò l’eroina abbassando lo stantuffo della siringa. Chiuse gli occhi, sorrise e li riaprì. «Ecco. Dovresti davvero dirmi il tuo nome, sai, se ti succede qualcosa».

Alzai gli occhi al cielo, e guardai titubante la siringa, il sangue. «Non è che hai qualche pasticca, o altro?».

«Paura degli aghi?».

Scossi la testa. «Figurati, ma ricordo che mia zia mi ha fatto vedere ‘Noi ragazzi dello zoo di Berlino’ e finire a farmi sotto le unghie non è un’idea che mi alletta molto». Non riuscivo a capire se era ancora lucido, avrebbe dovuto avere le allucinazioni, no? Non mi ero mai informata molto sulla droga, non mi sembrava una buona idea. Ora, invece, mi sembrava buonissima. L’unica cosa che mi avrebbe fatto star bene.

Si alzò in piedi e dopo avermi fatto un sorriso strano, sparì dietro ad un muro. Incrociai le braccia ignorando i ragazzi e le ragazze che mi passavano davanti, e mi fissai i piedi fino a quando non ritornò e si sedette proprio di fonte a me. Aprì la mano destra chiusa a pugno, offrendomi due piccole pastiglie bianche. Alzai lo sguardo, lo puntai nei suoi occhi. Lui annuì e io le ingerii.

Sorrisi: non sapevo come stavo, ma accettai la bottiglia di liquido scuro che mi porse e non mi tirai indietro quando prese a baciarmi, quando la mia schiena toccò il pavimento gelato, quando sentii il suo peso sopra di me. Non stavo bene, credo, ma per lo meno ridevo.

«Evie», ansimai dopo un po’. «Evie Mcdonnell».

«Finiresti su un giornale se morissi?», disse lui sul mio collo. Gli morsi la spalla.

«No, non finirei su un giornale se morissi in questo posto schifoso. Nessuno mi cerca».

«Perché?».

«Non sono nessuno».

«Sei Evie Mcdonnell».

«Appunto».

Mi guardò negli occhi. Le sue pupille erano dilatate, e immaginai le mie fossero simili. «Sei bella».

Sorrisi. «Purtroppo lo so».

Aprì la bocca e la richiuse. Non mi sentivo affatto lucida, la mia testa era un casino, ma non riuscivo a pensare, e quello mi sembrava fantastico, tutto quello che avevo cercato.

Mi alzai barcollando – la bottiglia di liquore era finita senza che mi accorgessi – e gli porsi la mano. L’afferrò, portando il suo viso a pochi centimetri dal mio, la lasciò andare, tenendomi incatenata a lui con lo sguardo.

«Ho fame», dissi.

«Seriamente?».

Ero confusa. «Non dovrei?».

«Dovresti vomitare e aver voglia di bere ancora».

Scossi la testa. «Vorrei sapere come ti chiami. Vorrei un cheesburger».

«Vorrei tornare lì sotto a fare quello che stavamo facendo».

Risi, una risata che uscì spontanea. Strana, piacevole, folle. «No».

Alzò le spalle, mi porse una mano. «Seth».

Non l’afferrai, mi avvicinai a lui e gli diedi un bacio sulla guancia liscia. «Portami a mangiare», sussurrai al suo orecchio. I suoi capelli profumavano di cocco.

Mi strinse a lui, cominciò a tremare. Cominciai a tremare.

 


Direi: ecco a voi il quarto capitolo! Grazie a voi che leggete, magari fatemi sapere che ne pensate **

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Capitolo 5
*** Here am I, lost and found. ***


Here am I, lost and found.

 

Quando aprii gli occhi ebbi la sensazione di esser stata investita da un autobus dopo essermi trasformata in lucertola.

Guardando davanti a me, vidi una pila ordinata di libri e una lampadaina da tavolo spenta sotto una scrivania completamente vuota. Piegai la testa di lato: non avevo mai visto nulla del genere.

La testa mi pesava come dopo un lungo sonno senza sogni in cui vorresti solo dormire ancora. Immaginai fosse l’alba, e muovendomi appena, toccai qualcosa di caldo con la mano. Abbassai lo sguardo e notai che era appoggiata sull’addome di qualcuno.

Quando incontrai il suo sorriso sentii lo stomaco chiudersi. Quando incontrai i suoi occhi una vocina mi disse che avrei dovuto ricordarmi qualcosa che non ricordavo.

Mi alzai a sedere, riscoprendomi completamente nuda. Confusa e anche un po’ imbarazzata sentendo il suo sguardo addosso, mi sedetti affianco a lui appoggiandomi alla testiera del letto e rubandogli il lenzuolo per coprirmi. Lui indossava un paio di boxer, per fortuna.

Deglutii e puntai gli occhi nei suoi. «Ciao», disse.

«Perché ho male in ogni centimetro del corpo?». Guardai il suo sopracciglio destro alzarsi e scoppiai a ridere. «Io non sono capace ad alzarne solo uno».

«Hai male alla testa?».

Corruciai la fronte. «Non credo, no. Sono i muscoli che mi fanno male».

Trattenne una risata. «Abbiamo fatto sesso, sarà per quello».

Lo guardai.«Abbiamo mangiato da Mc Donald?».

«Ti ho appena detto che abbiamo fatto sesso», sorrise.

Alzai le spalle. «Ricordo solo il mio Mc Chicken, e credo di aver vomitato parecchio».

Annuì. «Addosso a me, confermo».

«Scusa», ridacchiai. Mi guardò strano e io alzai gli occhi al cielo. «È stato divertente fare sesso con me?».

«Perché lo vuoi sapere?».

«Soddisfazione personale, immagino. E poi sono di buon umore, oggi. Credo di essermi divertita».

Scoppiò a ridere e si alzò dal letto, poi mi porse una mano che non afferrai. «Dovremmo andare a scuola», disse rimanendo nella stessa posizione.

Mi guardai attorno per cercare i miei vestiti, ma riuscii a individuare solo una scarpa. «Ti ho già vista nuda, Evie».

Piegai la testa di lato, e sorrisi. «Non succederà più».

«Ne sei sicura?», e dicendolo mi sfilò il lenzuolo di dosso.

Chiusi gli occhi, mi alzai e gli posai le mani sul petto. Lo guardai negli occhi, avvicinai le mie labbra alle sue, e quando la sua lingua cercò di entrarmi in bocca gli morsi forte il labbro, sentendo il gusto del sangue.

Sorrido. «Sei uno stronzo».

Trovai i miei abiti a terra ai piedi del letto e li indossai sapendo che Seth continuava a guardarmi. Una volta aver finito mi voltai e trovai lui nella stessa posizione di prima, una mano sul labbro sanguinante. Mi avvicinai «Te lo meritavi».

«Non ti chiederò scusa», disse. Aprii la bocca e la richiusi. Lui rise. «Mi deludi, di solito hai la risposta pronta».

Mi avvicinai fino a che i nostri nasi non si sfiorarono. «Devi procurarmi altre di quelle pasticche».

Sostenne il mio sguardo per secondi, poi mi afferrò la mano e mi trascinò in cucina. Si voltò verso di me con una scatola di cereali in mano. «Fame?».

Sentii lo stomaco brontolare e annuii. «Grazie».

Si piazzò davanti a me continuando a guardarmi mentre mangiamo. Sbuffai. «Che c’è? Non mi piace essere fissata».

Sorrise. «Non ce la farai a cambiarti se vogliamo andare a scuola».

Guardai i miei vestiti per bene, e mi accorsi che erano sporchi di vomito e che puzzavano di alcol. Chissà cosa avevo combinato, di preciso, quella notte.

«Mi presti una maglia?».

Lui sorrise e mi guidò al piano di sopra, di nuovo in camera sua. Non riuscii a capire se fosse stata colpa mia o no, ma era davvero un disastro: fogli a terra sparsi, cassetti aperti, bottiglie vuote.

Mi porse una maglia blu scuro decisamente più grande della mia taglia, ma la indossai. I pantaloni, in ogni caso, erano impresentabili. «Dimmi che tua mamma ha un paio di calze nere».

Si strinse nelle spalle. «Immagino di sì».

Dopo qualche minuto tornò con delle calze in mano. «Ti adoro», esclamai togliendomi i pantaloni quando lui era ancora sulla porta. Quando finii di vestirmi – per modo di dire – alzai lo sguardo, e nel suo volto c’era un sorriso furbo. Alzai gli occhi al cielo, ancora una volta.

«Devi proprio andare a scuola oggi?», chiese.

«Non verrò da nessuna parte con te a sballarmi di nuovo e a far sesso di nuovo, mi spiace».

«Vestita così sembri una prostituta, non puoi andare a scuola».

Mi avvicinai. «Non ferirai i miei sentimenti dicendo che sembro una puttana».

«Sei una puttana».

Sorrisi. «Infatti, quindi, dato che sono una puttana, posso andare a scuola e farmi sospendere qualche giorno perché trovata in un bagno con un ragazzo, oppure posso non andare a scuola, tornare là sotto e farmi dare la roba da qualcuno che non sei tu il cui unico scopo non è scoparmi. Opto per la seconda. Ciao Seth».

Feci per andarmene, ma la sua presa ferrea sul braccio mi fece fermare. «Non andare, ti prego».

«Mi preghi? Lasciami andare».

«Non voglio che vai in stazione da sola».

«Chi sei, mio padre?». Mi pentii all’istante di quella frase, dato che mio padre non si preoccupava più per me da una vita. Mi morsi il labbro inferiore.

«Ti prego», ripetè lui. Non è che avessi molta scelta con i suoi occhi che mi confondevano le idee, quindi annuii. «Grazie».

Quando mi lasciò andare, incrociai le braccia al petto. «Quindi, cosa facciamo?».

«Aiutami a sistemare qui, poi ti porto dove vuoi».

«In stazione?».

«Non ne hai ancora abbastanza? Hai detto che sei felice, no?».

Lo incenerii con lo sguardo. «Lo ero, poi tu hai cominciato a rompermi le palle», sorrisi.

Scoppiò a ridere. «Prometto di non romperti più le palle». L’ultimo pezzo di frase lo fece scimmiottando la mia voce.

«Senti, smettila. Mi dai sui nervi».

Sbuffò, e sembrò arrabbiarsi. «Perché devi essere così acida? Sto scherzando, ti sto solo prendendo in giro. Tra l’altro non mi hai ancora pagato».

Lo odiavo, era ufficiale.

Mi guardai attorno, trovai i pantaloni che mi ero sfilata da poco, e presi i soldi che avevo guadagnato il giorno prima dalla tasca posteriore, poi glieli lanciai addosso. «Ripeto, sei uno stronzo, e ne conosco già troppi, quindi davvero, addio».

Mi voltai per andarmene e ancora una volta la sua mano mi bloccà il braccio. Chiusi gli occhi. «Cazzo Seth, lasciami andare».

«Scusa», disse.

Mi voltai. «Non me ne faccio niente delle tue scuse. Tu per me non sei niente, io per te non sono niente. Lasciami solo andare, lasciami in pace, non parlarmi più è andrà tutto bene».

Lo vidi avvicinarsi, e in qualche secondo le sue labbra furono sulle mie, la sua mano dentro la mia maglietta. Non volevo quello, non da lui, non in quel momento. Mi scansai. «No».

«Non voglio lasciarti andare, non fino a stasera».

«Perché?».

Sorrise. «Perché mi piacciono i tuoi capelli, mi piace che mi offendi, mi piacciono le tue labbra, il tuo culo, mi piace che sei così dannattamente triste da non sorridere mai, mi piace che quando sorridi sei ancora più bella. Mi piaci».

Non so perché, ma lo trascinai sul letto, distendendomi sopra di lui. «Devi lasciarmi in pace, devi farlo o ti odierò per sempre».

«L’odio è un bel sentimento».

Lo baciai, gli tirai i capelli, gli morsi il collo. Sentii il suo sorriso dentro la mia bocca, e mi sentii felice. Mi alzai, e questa volta gli porsi io la mano. «Sistemiamo questo casino».

 

Ciao, è passato un sacco di tempo, ma non ho avuto molto tempo/voglia di scrivere, and so, ecco qui il nuovo capitolo. Spero vi piaccia e grazie per le tantissime visite

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Capitolo 6
*** I wanna be drunk when I wake up. ***


I wanna be drunk when I wake up.

 

«Come hai fatto a trascinarmi a scuola? Ti odio. Ho sonno», dissi sfiorandolo con la spalla.

Quella mattina, mentre me ne stavo beatamente dormendo sotto le coperte, Seth aveva avuto la splendida idea di farmi da sveglia bussando ripetutamente sul vetro della finestra di camera mia. Svegliandomi di soprassalto, avevo barcollato fino alla finestra, tirato le tende, e visto il suo sorriso al di là del vetro. Avevo aperto la finestra. «Sto seriamente pensando di lasciarti congelare, stronzo. Stavo dormendo!», avevo sbraitato con la voce ancora impastata dal sonno, tra uno sbadiglio e l’altro.

La sua faccia si era rattristata all’istante. «E io che ti avevo portato la colazione», aveva detto lanciandomi addosso un sacchetto di carta che avevo acciuffato al volo. Allora, alzando gli occhi al cielo, l’avevo fermato per una manica del giubotto e gli avevo sorriso facendolo entrare.

Ora mi ritrovavo a camminargli affianco con un sonno assurdo, senza essermi truccata, con una felpa orribile di due taglie più grandi della mia, e così tanta voglia di prenderlo a schiaffi che le mani mi prudevano.

Quel ragazzo faceva davvero un brutto effetto su di me. Bastava un sorriso a farmi sciogliermi, uno di quei suoi baci dolci, per farmi fare quello che voleva. C’era da dire che la maggior parte del tempo che trascorrevo assieme a lui ero strafatta, particolare da non tralasciare.

Lui mi guardò. «Ti ho corrotto con una faccia da cane bastonato e dei cornetti, niente di più facile, Evie-io-non-sono-nessuno».

Mi irritava quando credeva di avermi in pugno, perché non era così. La mia vita me l’era sempre gestita da sola, e sarebbe stato così anche adesso, con questo seccante ragazzo biondo con le fossette. «Lo sapevo che avrei dovuto farti morire di freddo, lo sapevo. Sai una cosa?», lo guardai. «Fottiti», sorrisi girandogli le spalle.

Lui, come da previsto, mi fece voltare e mi avvicinò a lui, appoggiando la mia fronte alla sua. «Casa mia, oggi? Ho un po’ di roba».

Chiusi gli occhi. «Ho problemi in famiglia, non so se…».

Sentii una mano carezzarmi la guancia, e aprii gli occhi. Ora il suo pollice era sul mio labbro inferiore, i suoi occhi sulla mia bocca. «Li risolvi dopo, superman».

Sorrisi. «Credimi se ti dico che sono un superman davvero sfigato».

Ridacchiò, poi puntò gli occhi nei miei, rovinando qualsiasi mia convinzione. «Alle quattro?».

Annuii, inerme. «Quante volte devo dirti che ti odio?».

«Quante vuoi, sei sexy quando lo dici», rispose lui leccandomi il collo.

«Fanculo, vattene. Voglio mantenere la mia reputazione di ragazza fantasma, se permetti».

Rise forte e mi diedi una pacca sul sedere, prima di andarsene. Riuscii solo a pensare: perché a me?

 

 

«Hai qualcosa da bere?», gli chiesi indossando gli slip e chiudendo la zip dei jeans.

Lui annuì lasciandomi da sola in camera sua. Allacciai il reggiseno e vi misi la felpa sopra. Mi affacciai alla porta. «Qualcosa di forte», dissi, sapendo che in casa non c’era nessuno, a un tono più alto del normale, poi mi sedetti a terra, appoggiando la schiena al suo letto, e chiusi gli occhi buttando la testa all’indietro. Non vedevo l’ora cominciasse a far male, la testa. Non vedvo l’ora di cadere sbronza e fatta fra le mie coperte e dormire così tanto da dimenticare il mio nome una volta sveglia – non ero sicura fosse possibile.

Seth tornò con un bicchiere contenente liquido trasparente in mano, solo i pantalonicini corti della tuta addosso. Me lo porse. «Vodka va bene?».

«Perfetta», dissi avventandomi sul superalcolico.

Lui si sedette accanto a me, fissandomi. «Che c’è?».

«Perché lo fai?», chiese.

«Bere? Mi fa vomitare senza bisogno delle dita».

Lui mi guardò strano, poi scosse la testa. «Intendevo il sesso, con me, con gli altri della squadra di football. Perché?».

Feci spallucce. «I soldi, ne ho bisogno». Non era del tutto vero ma mio padre spendeva così tanti soldi in alcol che il misero stipendio che mamma prendeva quelle poche volte che andava al lavoro, non ci bastava. Quindi i soldi erano la scusa più banale, quella che mi aiutava a mantere il muro che mi ero creata attorno ben saldo nelle fondamenta. «La droga», ammiccai.

«Non hai una famiglia?».

Lo guardai. «Te l’ho già detto, nessuno che tenga a me. Perché ti interessa tanto, comunque?».

«Perché io non farei mai un pompino a un perfetto sconosciuto».

Scoppiai a ridere. «Ci si fa l’abitudine, e poi non mi sembri proprio un estraneo, dato che è da settimane che faciamo sesso quando siamo strafatti. In un certo senso ti conosco, anche se so solo che ti chiami Seth, sei un rompi palle, ti piacciono i cornetti al cioccolato».

Sorrise debolmente, poi tornò serio. «Non dovresti farlo, comunque».

Mi stavo arrabbiando. Chi era lui per dirmi quello che dovevo o non dovevo fare? Mi alzai da terra e presi la mia borsa dal letto. «Non posso non farlo. Voglio farlo».

«Vuoi?».

Aveva colto la parola giusta. Mi morsi il labbro. Non doveva capire. «Ti ricordi dove mi hai visto la prima volta, no?».

«Non volevi buttarti».

«Potrei farlo, vorrei».

«Fallo, allora».

Mi stava sfidando. Mi urtava i nervi, avevo cominciato a tremare. «Non posso».

«Hai una famiglia?».

Chiusi gli occhi. «Ho un padre e una madre», risposi. Non capivo se aveva colto la differenza, ma erano affari suoi.

Quando riaprii le palpebre, lui era a pochi centimetri dal mio viso. «Non sembri una puttana, comunque».

«Ti ricordo che l’altro giorno hai detto l’esatto contrario».

«Stavi andando a scuola con un paio di calze praticamente trasparenti», ribattè.

«Non sarebbe stata la prima volta».

«La prima da quando ti conosco, direi».

«Mi controlli?», chiesi sorpresa.

Sorrise. «Non è difficile, ti siedi al tavolo più isolato della mensa, non mangi niente, fumi, guardi il muro. So dove abiti, vieni da me per la droga». Si strinse nelle spalle. «Non è difficile».

«Smettila di ostinarti a conoscermi, Seth».

Lui si leccò le labbra. «Adoro quando dici il mio nome».

Alzai gli occhi al cielo e feci per uscire dalla porta, ma lui mi prese per il polso e mi baciò. Un bacio gemello al primo che mi aveva stampato sulle labbra, senza lingua, senza sesso.

Lo odiavo con tutta me stessa, ma lo desideravo. Era il mio biglietto per la rovina, non potevo respingerlo, era tutto quello che volevo. Dovevo solo innamorarmi di lui.

Quando finalmente si staccò da me, lo guardai negli occhi. «Non dovresti continuare a vedermi».

«Voglio farlo», rispose.

«Non dovresti».

«Voglio farlo», ripetè.

Sospirai. «Non innamorarti di me, Seth, non farlo». Non doveva ascoltarmi, sperai non mi ascoltasse. «Ti prego».

Mi spostò una ciocca dietro l’orecchio. «Come vuoi Evie, come vuoi».

Sofferenza, quanta me ne aspettava ancora? Gli diedi le spalle cominciando a scendere lentamente le scale, e dopo un tempo che mi era sembrato infinito sentii una lacrima scendermi sulla guancia. Ma era solo pioggia, fredda e sabbiosa. Pioggia.

 

 

Hola chicos! sono così felice che qualcuno legga questa storia che non potete immaginare. È importante per me, e forse perché ci sono più dentro di quanto pensassi.

Non so mai cosa dire oltre ai grazie, quindi buona lettura, e fatevi sentire ogni tanto (:

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Capitolo 7
*** Somebody that I used to know. ***


Somebody that I used to know

 

 

Mettevo un piede davanti all’altro, lentamente, cercando di non perdere l’equilibrio. Nascondevo la faccia dentro il cappuccio, dietro i capelli, e piangevo. Questa volta piangevo davvero, niente pioggia, niente faccia imbronciata, solo lacrime e dolore.

Mi appoggiai alla balaustra di un ponte e vi premetti forte lo stomaco, guardando l’acqua scura e probabilmente gelata del fiume che mi passava sotto i piedi. Posai una mano sul fianco e alzai lentamente la canottiera gialla che indossavo: il livido era ancora lì, scuro e malato. Mi voltai, e appoggiando le spalle alle colonnine, mi lasciai scivolare a terra prendendomi la testa fra le mani.

 

«Evie, portami una birra», disse mio padre. Era stato sdraiato per tutto il giorno davanti alla tv, sobrio e lucido come probabilmente non lo era da mesi e la cosa mi spaventava parecchio: aveva qualcosa in mente.

«Sto studiando, vieni a prendertela», risposi dalla cucina. Stavo seriamente cercando di studiare, poiché, sebbene avessi una reputazione di bad girl, l’ambiente scolastico era quello in cui mi sentivo più sicura. Amavo leggere, le biblioteche, le librerie, un semplice scaffale pieno di libri con la polvere accumulata sopra mi faceva star bene. Studiare, quindi, era un miracolo del cielo, nella mia vita orribile.

Sentii i suoi passi strascicati e pesanti avvicinarsi, e non alzai gli occhi quando udii la porta del frigorifero sbattere e delle lattine di birra tintinnare. Li alzai, invece, quando percepii il peso della sua mano sui miei capelli. «Serve qualcosa?», chiesi alzandomi di scatto e allontandomi da lui addossandomi al mobile della cucina.

Lui scosse la testa, un sorriso sulle labbra. «Non esci oggi?».

«Devo aspettare mamma. Sarà stanca, le cucinerò qualcosa e poi esco».

«Dove vai?».

Alzai le spalle. «Dove mi pare».

Subito si fece scuro in volto. «Sono tuo padre, dovrei saperlo».

A quel punto, non resistetti: scoppiai a ridere. Avrei voluto lanciargli addosso il vasetto di caffè che era quasi certa fosse alle mie spalle, e riversargli addosso tutto quello che avevo subito in quegli anni. Avrei voluto urlargli a due centimetri dalla faccia, fargli capire che cosa era diventato.

Invece risi, forte, e lui si arrabbiò. Senza darmi il tempo di scansarmi, m’intrappolò fra il suo corpo e il mobile, fermandomi le mani con le sue. «Sei una stupida».

Devi stare zitta, devi stare zitta, zitta, mi ripetevo. Mi morsi il labbro già distrutto e dilatai gli occhi: non avevo capito che cosa voleva. Quando però sentii la sua mano entrare sotto la mia maglia e carezzarmi prepotentemente la schiena, capii perfettamente e cominciai a opporre resistenza. «Questo no. Non ti basta avermi distrutto la vita, aver distrutto quella della mamma, la tua? Non ti basta tutto il male che hai fatto fino ad ora? Che uomo sei?». Speravo di scalfire il suo orgoglio con le accuse contro di lui, di solito funzionava, ma questa volta no, non era ubriaco e riusciva a contenere la rabbia riversandola in un sorriso che mi faceva accaponare la pelle. Dovevo scappare.

Avvicinò le labbra al mio collo e ci stampò un bacio umido, poi mi prese i capelli e tirò per farmi alzare gli occhi su di lui. Mentre con una mano ruvida mi accarezzava il profilo della faccia e con l’altra mi stringeva un fianco, gli tirai un calcio su una gamba, l’unica sua parte del corpo che mi era accessibile. Indietreggiò appena, ma riuscii a scusciare fuori dalla sua trappola. Pronta a scappare, gli diedi le spalle, ma lui tirò di nuovo i capelli e caddi con le ginocchia a terra. Allora cercai di rianzarmi, ma lui mi braccava, mi bloccava sul pavimentro, mi teneva ferma con le gambe. Si abbassò e mi girò di forza facendo arrivare il mio volto a pochi centimetri dal suo, poi mi baciò le labbra. In quel momento irreale, mi ricordai dell’uomo che era, di quando i suoi baci sulla bocca erano solo quelli di un padre felice della sua bambina con le treccine fra i capelli e il maglioncino a righe sporco di cioccolata. Ricordai che quando mi prendeva in braccio e con le dita piccole e chiare gli tiravo le orecchie e ridevo forte perché lui mi faceva le facce buffe, poi mi accocolavo sul suo petto ad ascoltare il battito del suo cuore, il rumore delle sue parole reso sordo dalla cassa toracica. Ma ora le sue labbra premevano sulle mie, la sua lingua entrò nella mia bocca, la sua saliva si mescolava con la mia, e non era giusto, lui era mio padre. Mi spinse addosso al mobiletto e maldestramente cercò di slacciarmi i bottoni dei pantaloncini corti di jeans che indossavo, ma non riuscendoci cercò di abbassarli spingendoli verso giù con entrambe le mani. Pensavo solo che non potevo lasciarglielo fare, che era sbagliato, che non poteva farlo. Allora cominciai a prendergli a pugni il petto con tutta la forza che avevo, a calciare per farlo scendere dalle mie gambe, e sputargli in faccia, ma era pesante, io troppo magra, debole.

Improvvisamente, mi fermò il viso con una mano e con l’altra stretta a pungo mi compì l’occhio, poi si avvicinò e mi morse il labbro fino a farlo sanguinare. Sentii il gusto pungente del sangue e quello amaro delle lacrime entrarmi in bocca. Quando mi liberò le gambe alzandosi in piedi cercai di imitarlo, ma lui mi tirò un calcio alle costole, e un altro ancora sulle gambe, sull’addome, alla pancia, la testa sbattè addosso al mobile dietro le mie spalle. Chiusi gli occhi.

Era diventato una bestia che piacchiava sua moglie, la frustava a un’ora regolare tutti i giorni costringendola a mentire quando un nuovo livido le appariva sul corpo e le sue colleghe di lavoro se ne accorgevano, studiando tecniche per non colpirle il volto in modo da non destare sospetti.

Era diventato una bestia che cercava di stuprare sua figlia, il sangue del suo sangue, quella che anni prima chiamava la luce dei suoi occhi, il miracolo della sua vita e che ora pestava a sangue. Ora, l’unico miracolo era che fossi ancora viva, anche se per l’ennesima volta chiesi a Dio, o chi per lui, di morire. Ma la testa pulsava, ogni muscolo del corpo bruciava, e sentivo solo male.

Lo sentii salire le scale, e mi feci forza: tirai su i pantaloni, mi alzai in piedi e reggendomi uscii di casa, l’aria fresca che mi sferzava il volto facendomi bruciare maggiormente le ferite aperte e sanguinanti.

 

Mi tastai l’occhio con due dita e il livido prese a pulsare come non aveva smesso di fare la testa. Ero riuscita a lavarmi via il sangue in una fontana, ma le gambe, le labbra, gli indumenti rimanevano macchiati in modo indelebile. Alzandomi barcollai battendo la coscia addosso alla balaustra; un’altra di dolore scese gemella a quelle che l’avevano preceduta.

Camminai lentamente cercando di schiarirmi le idee, di sovvrastare il mal di testa per pensare qualcosa di razionale. Dove sarei andata ora? Se fossi rimasta lì fuori per molto, svestita com’ero, sarei morta d’ipotermia. Avevo male le costole, erano rotte me lo sentivo, e il sangue dalle ferite non smetterva di uscire. Come l’avrei curato, non avendo con me un centesimo?

Volevo chiamare mia madre, dirle di non tornare a casa, di non farlo mai più. Quell’uomo doveva marcire in galera, ubriacarsi e vomitarsi sui piedi prima di morire. Doveva sparire per sempre. Volevo chiamarla e dirle che ora sarebbe andato tutto bene perché saremmo scappate via insieme in un posto in cui lui non avrebbe potuto trovarci. Ci saremmo fatte curare, avremmo comprato dei vestiti nuovi, trovato un lavoro e un mini appartamento in cui avrei avuto una grande libreria colma di volumi di letteratura antica e di vinili di David Bowie.

Volevo chiamarla e dirle che le volevo bene, anche se i suoi occhi erano vuoti, anche se il suo cuore ora batteva velocemente ogni volta che qualcuno la sfiorava, anche se non si truccava più con quell’ombretto marrone che le aveva sempre dato un’aria elegante, o non metteva più il rossetto rosso sulle labbra che inevitabilmente mi spalmava su tutto il viso quando mi baciava. Avrei voluto chiamarla anche per dirle che una volta l’avevo sorpresa a fumare e mi aveva sconvolto la vita, perché lei era la mia mamma perfetta. Le volevo dire che mi era sembrata la creatura più bella, affascinante e sexy che avessi mai visto.

Avrei voluto chiamarla, ma non avevo il cellulare con me, come neanche una qualche bottiglietta di alcol per ubriacarmi e morire sul ciglio della strada, o delle cuffiette per ascoltare per l’ultima volta le mie canzoni preferite.

Ero rimasta con me stessa, l’unica cosa che da sempre cercavo di evitare. Eppure avrei dovuto essere contenta: era rovinata, distrutta, la mia vita era appesa ad un filo. Era quello che volevo, smetterre di essere in questa terra, no?

No, vuoi un sorriso sulle labbra, una sigaretta, una passeggiata al parco con un libro in mano, carezzare la coda di uno scoiattolo, mangiare una caramella alla liquirizia, riempire una vasca di bolle e immergerti dentro.

Ma quella non era la mia vita. Io ero dolore, sofferenza. La mia vita era dolore, freddo.

Quando mi ritrovai davanti alla sua porta e meccanicamente bussai mi ripetei che quella era l’unica soluzione, perché morire congelata sotto un ponte, non era la morte che mi spettava.

Non so per quale ragione quando vidi i suoi occhi posarsi sulla mia faccia e le sue mani abbassarmi il cappuccio e carezzarmi i capelli, le lacrime scesero più forti.

«Che cosa ti sei fatta, Evie?», chiese Seth con la pena nella voce.

Scossi piano la testa e cercai di sorridere, ma mi faceva male la faccia, e sorridere era l’ultima cosa che volevo fare. «Credimi, non è colpa mia questa volta».

Mi avvicinò a cercò di stringermi, ma io mi allontanai. Faceva male. Faceva male qualsiasi parte del corpo per i lividi, faceva male sapere che lui non avrebbe potuto far niente per aiutarmi.

«Ti va una doccia calda?», domandò con un sorriso, offrendomi una mano.

Annuì e la strinsi. «Grazie». Le lacrime continuavano a scendermi sulle guance, e mi sentivo uno schifo. Ero uno straccio con quell’occhio nero e il sangue incrostato e scuro su tutto il corpo, ma lui continuava a guardarmi con gentilenzza. Feci un passo verso di lui e appoggiai piano la testa sul suo petto, stringendogli la maglia con le mani. Lui mi passò un braccio sulle spalle, come a cingermi in un abbraccio.

Profumava di pulito, dell’ammorbidente della sua maglia. Alzai gli occhi sul suo volto e tirai su col naso. «Ho bisogno anche di un posto dove dormire, e di qualcosa da indossare, e di cibo».

Seth ridacchiò e mi trascinò in casa sua, ci chiuse la porta alle spalle. «Stai bene?».

Scossi la testa. «Mi hai promesso una doccia». Non ero pronta a dirgli quello che era successo. Lui, infine, non era niente per me. Forse tiene a te, davvero non t’importa di questo? disse una vocina dentro di me.

Dato che continuavo a fissarlo alla ricerca di una risposta, lui mi strinse un braccio. «Va tutto bene adesso, okay?», disse con tono dolce.

Annuii.

Non andava tutto bene.

 

Papà mi stava abbassando le bretelline del vestito a poi bianchi e blu che amavo tanto. La mamma era al lavoro, così lui aveva insistito per farmi un bagnetto sebbene la doccia l’avessi fatta la sera prima. Forse se ne era dimenticato. «Papà, la mamma mi ha fatto fare la doccia ieri, non senti come profumo?», chiesi avvicinando il mio collo al suo naso. Lui cominciò a baciarlo. Mi faceva il solletico, mi misi a ridere. Era serio, mi guardava con un’aria strana, io volevo solo giocare, così corsi via dalle sue mani e mi nascosi dietro il letto di mamma e papà, nella loro camera. Mi piaceva giocare a nascondino, vincevo sempre contro di lui.

Quando mi trovò nascosta mi sorrise. «Questa volta ho vinto io».

Io mi alzai in piedi sbuffando. Non era giusto, ero io quella che vinceva in quel gioco. Odiavo perdere, ero la principessa del nascondino. Mio padre mi prese in braccio e mi carezzò i capelli. «Ho scoperto un nuovo gioco, vuoi provarlo?».

Io sorrisi: sarei diventata la principessa di quel gioco, la regina. Annuii. «Sì papà».

 

Avevo nove anni, ero solo una bambina. Perché mi hai fatto questo, papà?

 

 

Ciaaaaao, non uccidetemi, okay? Lo so che non posto da secoli, ma tra la scuola, il sole, altri impegni, sono stata super occupata a fare di tutto tranne che scrivere. Oggi avrei dovuto studiare biologia ma ero davvero troppo ispirata per non scrivere questo nuovo capitolo.
Ringrazio le persone che hanno recensito lo scorso capitolo e quelle che leggono la storia in modo silenzioso, come sempre.

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Capitolo 8
*** Your heart is an empty room. ***


Your heart is an empty room.

 

 

Trattenendo il respiro, mi alzai velocemente dal letto bloccando qualsiasi urlo volesse uscirmi dalla bocca per il dolore intenso che quel minimo movimento mi aveva provocato. Le gambe, comunque, non ressero il mio peso facendomi cadere sul pavimento. Boccheggiai, e un lamento scappò più forte del previsto dalle labbra.

Dovevo rimanere in silenzio, non si sarebbe dovuto muovere un granello di polvere. Dovevo rimanere immobile nel mio dolore. Zitta, immobile, una statua.

Lentamente appoggiai la tempia destra al pavimento, e chiusi gli occhi mordendomi il labbro inferiore come sempre, rannicchiandomi su me stessa come sempre.

La cosa che mi mancava di più al mondo, a pensarci bene, era un abbraccio. Non ricordavo nemmeno l’ultima volta che qualcuno mi aveva stretto facendomi pensare che mi volesse bene. Solitamente, quindi, avevo l’abitudine di abbracciarmi da sola. Incrociavo le braccia al petto, e stringevo forte finchè la sensazione di benessere scompariva, poi mi voltavo spostandomi dall’altra parte del letto, e cercavo di dormire quelle quattro ore sufficienti a non farmi addormentare sul banco di scuola il giorno dopo.

A volte lo facevo anche mentre camminavo in mezzo alla gente. Così, dopo una folata d’aria fredda, dopo essere inciampata su una buca poco profonda che non avevo notato, guardando l’acqua scura del fiume scorrermi sotto i piedi, mi abbracciavo per sentirmi meno sola, più protetta. Per tornare piccola e pensare che il sole era una palla gialla che potevo disegnare con gli occhi tondi e neri perché a papà facevano sorridere, o perché potevo ricordare quando il mio vicino di casa quel giorno si era presentato in camera mia mentre mi stavo sporcando la faccia con i trucchi di mamma e mi aveva baciato la guancia perché era innamorato di me.

Ora non potevo nemmeno abbracciarmi, o mi sarei fatta ancora più male.

Avevo una voglia incredibile di urlare fino a dovermi fermare per riprendere fiato. Avevo voglia di tirare le freccette al muro perché comunque non sarei mai riuscita a lanciarle nel centro esatto del cerchio. Avevo voglia di avvicinarmi alla radio e mettere la stazione in cui passavano la canzone più brutta che avessi mai sentito, alzare il volume al massimo e ballare anche se non ero proprio mai stata brava, a ballare. Avevo voglia di mettermi un paio di calze e guardarmi allo specchio senza farmi ribrezzo da sola. Avevo anche voglia di fare l’amore con qualcuno che mi amava, perché io quella sensazione non l’avevo mai provata, anche se come voleva lui ero diventata la regina di quel gioco.

Era stato facile imparare le mosse, come nel gioco degli scacchi. Ma qui era tutto più veloce, doloroso, piacevole, distruttivo. Avevo imparato in fretta a stare zitta mentre lui mi stendeva sul letto di mia madre, mentre mi toglieva i vestiti che mia madre lavava ogni giorno, mentre mi spostava i capelli perché “hai gli occhi di tua mamma e voglio vederli mentre giochiamo”, mentre mi tappava la bocca quando, inevitabilemente, gridavo. Avevo imparato in fretta a raccogliere i vestiti dal suo comodino, appallotolarli, gettarli fra i panni sporchi, e lavare via con il bagnoschiuma alla vaniglia qualsiasi traccia di lui su di me.

Ripetevo lo stesso rituale ogni volta che accadeva, come quando impari una poesia a memoria e senza volerlo, quando ti svegli la mattina sei lì che ne ripeti le parole mentalmente.

Sospirai e mi misi a sedere. Chissà dov’era Seth, avrei dovuto aspettare il suo ritorno per riuscire a tornare fra le coperte del suo letto.

Non sapevo che ore erano, le tende facevano entrare poca luce che non avrei saputo dire se erano raggi di sole o la luce pallida della luna. Non sapevo quanto tempo avevo dormito, se Seth era andato a scuola essendo sicuro che mi sarei svegliata quando ormai lui era rientrato, o se sapeva che mi sarei svegliata e se ne fosse andato via comunque perché avermi prestato il suo letto era tutto quello che poteva fare per me. Non sapevo quanto sarei potuta rimanere da lui, se i suoi genitori mi avrebbero buttato fuori da casa loro e dove sarei andata dopo. Non sapevo se sarei mai guarita da quelle brutte ferite e se prima o poi avrei potuto mettere qualcosa sotto i denti, qualcosa che assomigliava a cibo delizioso come una pizza.

Non seppi proprio niente fino a quando Seth non apparse nella mia visuale con un vassoio in mano e due occhiaie da far invidia a un panda. Esitò dieci secondi guardandosi attorno. «Che cosa ci fai lì per terra?».

«Sono caduta», risposi con voce roca. Mi sentivo abbastanza stupida, in effetti.

«Come hai fatto a cadere?».

Gli lanciai un’occhiataccia. «Ti prego non chiedermelo».

Seth ridacchiò e si sedette affianco a me mettendomi il vassoio con il cibo sulle gambe. «Non pensavo ti saresti svegliata proprio adesso, ma avevo fame. Scusa».

Non capivo. «Per cosa ti scusi?».

«Quando ti sei svegliata non c’ero, hai cercato di alzarti ma sei caduta. Avrei dovuto aiutarti io a scendere dal letto, scusa».

Addentai il panino. «Non è colpa tua se le mie gambe sono ridotte in queste condizioni, non devi scusarti. E il panino è buono, grazie».

Rimase in silenzio mentre mangiavo guardando davanti a sé, poi si voltò verso di me. «Vorrei spaccare la faccia a quel bastardo che ti ha ridotto così», disse con un tono aggressivo che non si adiceva per niente al suo viso d’angelo.

«Non farlo».

Sbuffò. «Non posso farlo fino a che non mi dici chi è».

«Non te lo dirò mai, allora, discorso chiuso».

«Chiunque sia stato ti ha quasi ucciso Evie, vorrai vendicarti almeno un po’».

Lo guardai e gli appoggiai una mano sulla guancia, poi sorrisi. «Lascia perdere, per favore Seth».

«Mi fa schifo vederti così».

Mi sentii come se fossi stata trafitta. Come ero stupida a pensare di piacere a quel ragazzo, quanto ero stupida. Abbassai la mano e la incrociai in grembo con l’altra, posandoci lo sguardo sopra. In tutti quegli anni non avevo imparato ancora che per me c’erano solo male e dolore? Evidentemente la speranza è davvero l’ultima a morire.

Sentii una sua mano prendermi il viso e farmi voltare verso di lui. «Sai che non era quello che intendevo dire». Rimasi lì a guardarlo, ancora una volta non sapendo che cosa dire. «Sei letteralmente distrutta, ti hanno picchiato a sangue. E va bene se non vuoi dirmi chi è stato, va bene se non vuoi dirmi perché l’hanno fatto, ma ti prego, dimmi qualcosa perché vederti così mi sta torturando».

Sorrisi, circa. «Non è niente che si possa risolvere, è così e basta. Questi lividi passeranno, e se non passeranno andrò dal medico, dirò che sono caduta dal motorino di un mio amico. Ma poi starò bene, quindi non ti preoccupare, starò bene».

Seth si alzò in piedi e strinse i pugni. Non lo avevo mai visto con un’espressione così cattiva in volto. «Non starai mai bene, lo capisci? Non so quale sia la tua storia, a quanto pare non ti fidi abbastanza di me per raccontarmela. Non so perché fumi, bevi, ti droghi, perché sei ridotta in questo modo, ma se la tua vita non cambia tu non starai mai bene. Devi fare qualcosa, e devi farlo tu».

«Sono stanca di lottare, ci ho provato per troppo tempo perdendo tutte le battaglie. Sono stanca, stanca che non ti immagini. E hai ragione, non starò mai bene, ma io non voglio più far niente. Sto quasi bene quando sto male, perché mi sento normale. Vivo nel dolore, mi sento a mio agio nel dolore. Sono dolore».

«Tu sei bellissima, mettitelo in testa. Non c’è niente di sbagliato in te».

Mi portai le mani alla testa: stavo impazzendo. Doveva starsene zitto. «Smettila, ti prego».

«No».

«No cosa? È la mia vita, smettila».

«Devi darmi la possibilità di aiutarti».

«Non voglio essere aiutata».

«Quando ieri sei arrivata davanti alla mia porta, mi sembra avessi bisogno di aiuto, mi sbaglio?».

Sbuffai. «Vaffanculo Seth». Quello sarebbe stato il momento in cui mi sarei alzata e me ne sarei andata dalla sua stanza imbronciata e con le palle girate, e invece non potevo muovermi, inchiudata al pavimento com’ero a causa di quei maledetti dolori ovunque.

«Parlami», disse guardandomi, scrutandomi dentro. Non potevo parlare, sarebbe cambiato tutto, sarei crollata e non potevo. Dovevo rimanere me stessa. «Parlami, perché io ci tengo a te e non sopporto di vederti in questo stato». Zitta, rimani zitta Evie. «Lo ammazzerei di botte. Non è umano fare una cosa del genere a una ragazza».

Ha detto che ci tiene a te. – urlai mentalmente un ‘taci’ alla vocina nella mia testa.

La sua faccia, repentinamente, diventò pallida, come se avesse visto un fantasma, o un cadavere aprire gli occhi. Non ne capivo il motivo, non avevo parlato, nessuno aveva parlato dopo di lui, ne si era mosso. Niente era apparentemente cambiato. «Che cosa succede?», chiesi allarmata e curiosa.

Seth cercò di emettere un suono, ma non uscì nulla dalla sua bocca. Chiuse gli occhi e prese un respiro profondo. Poi li riaprì. Gli era appena saltato in mente qualcosa, ne ero certa. Qualcosa di brutto, che non riusciva a tollerare. Non riuscivo a capire che cosa, in ogni caso. Non leggi ancora nella mente, scema, disse la mia amica. Appuntai mentalmente di murarla viva da qualche parte, in modo da non doverla più sentire.

Poi, finalmente, parlò. «Ti ha stuprata, non è vero?».

Lo guardai negli occhi, la faccia impassibile. Poi, improvvisamente, urlai. Urlai con tutto il fiato che avevo in corpo, ignorando il dolore impossibile da sopportare alle costole, alla pancia, alla gola, ai polmoni. Urlai, forte. Un urlo lungo, senza senso, prolungato, stanco.

Non stavo lottando, non mi stavo risvegliando, non stavo bene ora che ero riuscita a emetterlo. Era un urlo di dolore, dolore fisico, psicologico. Era il mio ritratto fatto a suono. Era un urlo che chiedeva aiuto anche se fino a cinque minuti prima sostenevo che di aiuto non ne volevo. Era un urlo che sostituiva tutti gli urli che non avevo mai emesso perché la sua mano mi tappava la bocca. Un urlo che sembrava una morte, non una rinascita.

Ero io espulsa da me stessa, troppo stanca per continuare a mantenere il segreto. Troppo stanca per non fare qualsiasi cosa se non guardare gli occhi di Seth e sputare fuori tutta la verità. «Mio padre abusa di me da quando avevo dieci anni, ecco qual è la mia storia». Lo ansimai. Ansimai il riassunto della mia storia in modo triste. Mi ero arresa da tanto tempo, stavo male da tanto tempo. Non ero più me stessa, in realtà non ero più nulla. Mi ero annullata, mi aveva annullata.

Non uscirono lacrime, neanche una quando pronunciai quelle parole. Non sentivo niente se non i nostri respiri, a dirla tutta. Il mio accelerato dopo l’urlo, il suo pesante, incredulo.

Seth si portò una mano alla bocca, e dalla mia, invece, uscì una risata isterica. Stavo impazzendo, e non c’era una cura per tutto quello che avevo passato. Non ci sarebbe mai stata una cura alla mia triste, inutile, stanca esistenza. L’avrei ricordato per tutta la mia misera viva, e niente, nessuna cosa bella l’avrebbe mai cancellato. Niente e nessuno.

Risi, la gola mi face male per ore dopo quella risata che si traformò lentamente in un lamento, un pianto senza lacrime, in qualcosa che la mia mente chiamò disperazione. Ero disperata. Ero disperazione concentrata.

Lui rimase fermo a guardarmi per un tempo indicibile, a elaborare quello che avevo appena detto, e quando si risvegliò dal trance fece qualcosa che sembrava un sorriso. Un sorriso cattivo «Lo ammazzo».

Rimasi immobile, un po’ perché avrei tanto voluto che lo facesse, un po’ perché sapevo che stavo morendo dalla paura. Non conoscevo la persona davanti a me, mi spaventava. Allungai un braccio, sospirando per il dolore, e rimasi in attesa. Lui mi guardava, continuava a guardarmi gli occhi, a vederci il mio male. Continuava a farlo e io lo lasciavo fare, perché doveva capire che l’unica cosa che volevo era che se ne stesse con quei pantaloni del pigiamacalati sui fianchi alla perfezione, che mi sorridesse, uno dei suoi sorrisi gentili e che mi mentisse spudoratamente dicendomi che quella sera saremmo andati a mangiare un dolce alla panna. Volevo che capisse che a me piaceva il Seth buono, perché nella mia vita non c’era mai stato nessuno buono con me. Ne mio padre, ne quei ragazzi che mi scopavano in un cesso, neppure mia madre, che se mi voleva bene era solo perché io gli servivo.

Volevo che capisse, e non so se lo fece, sicuramente non del dolce alla panna, ma mi si avvicinò lentamente e dopo avermi presa in braccio come si fa con un bambino che si è addormentato in macchina al ritorno di un lungo viaggio, mi riposò fra le coperte del suo letto.

Mi spostò i capelli con una mano, posandola poi sulla mia guancia. «Dimmi che cosa devo fare».

«Puoi rimanere con me se vuoi».

Mi strofinò il labbro inferiore con il pollice. «Non riesco a resisterti».

«Innamorati di me. Fammi sentire che cosa si prova a essere amati, cosa vuol dire camminare per strada tenendosi per mano, trascorrere una giornata a giocare a scarabeo invece di andare a scuola, andare al mare senza costume e fare il bagno nudi, bere un frappè con la stessa cannuccia».

Mi guardò come solo Seth mi guardava, con quel misto di pena, odio, frustrazione e forse anche amore. «Ho promesso che non mi sarei innamorato di te».

Sorrisi, sorrisi davvero dopo due giorni, ignorando il male alle guance. «Meno male. Ora però resta con me».

 

 

 

Vorrei solo scusarmi con voi perché sono mesi che non aggiorno, e con molta probabilità a causa di ciò nessuno leggerà questo capitolo, ma non importa. Fatevi sentire, se vi va. Aloah, spledide personcine **

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Capitolo 9
*** I've lost who I am and I can't understand why my heart is so broken. ***


I've lost who I am and I can't understand why my heart is so broken.  

 

Suggerimento musicale (canzone da cui deriva il titolo, canzone che mi ha sempre ispirato per loro, canzone che è l’amore, canzone che… la smetto): http://www.youtube.com/watch?v=w_LOOKssMpA

 

Gli stavo mordendo ancora una volta il labbro inferiore, quello che gli sporgeva un po’, quello che ormai sanguinava. Sentivo le sue mani pesanti sui fianchi, le gambe fra le mie, che spingevano per aprirle di più. Mi sfiorò il naso con il suo, mentre ansimavo. I suoi occhi sembravano più grandi, profondi, accesi di eccitazione com’erano. Ammettevo a me stessa che era bello da morire, che profumava di pulito, e che scoparlo era decisamente piacevole.

Gli baciai l’incavo del collo e feci scendere le mani sul suo corpo, lentamente, come sapevo fare. Gemé. «Cazzo», boccheggiò. Mise una mano sopra alla mia prima che arrivassi al suo membro. «Non siamo ne fatti ne ubriachi. Sei sicura di volerlo?».

Ero sicura di volerlo fare? No. Ma mi sarei sentita di merda a farlo godere, quindi annuii. Non era il caso di parlare, per qualche strana ragione mi capiva meglio di chiunque altro, e non mi conosceva nemmeno un po’. Con la bocca scese fino alla mia pancia, lasciandosi dietro una scia di baci. Mi contrassi: faceva ancora male. La pancia, i fianchi, le cosce. Tutto doleva ancora, come a ricordarmi quello che era successo. Non che avessi scelta, i lividi erano ancora lì, ben visibili, scuri e malati. Seth mi guardò con dolcezza, ma io gli tirai i capelli. «Non ti fermare». Con incredibile lentezza, allora, fece entrare due dita dentro di me, da sotto la biancheria. Gemetti. Era cominciata la tortura che conoscevo bene. Riuscii a non chiudere gli occhi, li tenni fissi per tutto il tempo nei suoi, come a dirgli che andava tutto bene, che sapevo resistergli. Ed era vero, ci riuscivo. Quella era l’abitudine per me, non provavo niente escluso il piacere involontario. Se ne accorse, si fermò. «Perché lo stai facendo?», mi chiese. Non seppi cosa rispondere, mi strinsi nelle spalle. Chiuse gli occhi a due fessure. «Tutto questo non dovrebbe farti schifo, farti soffrire?».

Sorrisi. «Come siamo perspicaci». Dilatò le pupille. Non l’aveva ancora capito, dopo tutto quello ce gli avevo detto, gli avevo dimostrato, che odiavo me stessa più di qualunque altro, più di lui? Gli presi la testa fra le mani e lo baciai, spingendo per fare entrare la lingua nella sua bocca. Non oppose resistenza. Forse perché aveva voglia di baciarmi, forse perché era confuso e stava ancora pensando alle mie parole, non lo sapevo, ma rispose al bacio con cattiveria, spingendo la lingua sempre più infondo, mordendomi, piantandomi le dita nella carne dei fianchi. Io, di rimando, gli tiravo i capelli, aggrappandomi alle sue spalle larghe. Continuando a baciarmi, infilò le dita sotto le spalline del reggiseno e le fece scendere sulle braccia, poi, con un movimento repentino, slacciò il gancetto e me lo tolse guardandomi il seno. Si morse il labbro inferiore e piantò i suoi occhi nei miei. «Non fraintendermi, ma sei bellissima». Non sorrisi anche se sapevo che dovevo farlo, non arrossii perché ero nuda davanti a lui, mi avvicinai soltanto e, abbassando il busto, gli leccai i peli del petto, una linea netta, fino alla fine. Poi alzai gli occhi e gli sorrisi. «Anche tu non sei niente male». Lui si accese e mi sbatté sul letto, sotto di lui. Mi fece aprire le gambe e vi si inserì in mezzo. Poi, come se avesse appena accolto una sfida, come se davvero volesse torturarmi, comincio a pizzicarmi i capezzoli con la bocca, facendoli indurire in un secondo. Chiusi gli occhi e mi godei quel piacere immenso che si espandeva dal centro del mio corpo fino a che non sentii tutto il suo peso mentre affondava in me. Spalancai gli occhi e urlai aggrappandomi a lui.

Mi guardò negli occhi. «Non voglio permetterti di farti del male. Non lo permetterò».

«Purtroppo è la mia vita, non hai voce in capitolo».

Serrò la mascella e cominciò a muoversi, velocemente, prepotentemente. Faceva male, quasi. Male e bene allo stesso tempo. Era arrabbiato e si stava sfogando su di me. Riuscivo ad assecondarlo, era facile sebbene fossi travolta da una miriade di sensazioni allo stesso tempo, sebbene stessi per crollare. Gemevo gemevo, continuavo a gemere sotto di lui. Mi stava facendo male sul serio.

Delle lacrime mi scesero sulle guance, gli morsi la spalla per non mettermi a singhiozzare. Lui continuava, dentro e fuori. Arrivò all’apice, e poco dopo lo feci anche io. Rimasi aggrappata alle sue spalle, le lacrime che scendevano silenziose, il respiro affannato e il mio cuore che batteva veloce contro il suo. Uscì da me e fui costretto a guardarlo negli occhi, le lacrime ancora evidenti.

Mi accarezzò il labbro inferiore con il pollice. «Scusami».

Scossi la testa e azzardai un sorriso, ma proprio non ce la facevo. Non riuscivo nemmeno a respirare bene. Inspirai forte, ma niente. Ci riprovai, ancora nulla. Le lacrime continuavano a scendere. I pensieri si erano fermati tutti di colpo, ora nella mia testa vedevo solo bianco. Poi, senza che me lo aspettassi, un conato di vomito mi salì in gola e feci sono in tempo ad alzarmi dal letto per rigettare tutto quello che avevo ingerito sul pavimento. Mi guardai le mani sporche e mi accasciai a terra, in ginocchio. Cominciai a singhiozzare forte, tutto intorno a quella pozza sparì. Appoggiai la testa al pavimento e mi raggomitolai in me stessa.

Stavo naufragando davvero questa volta. Stavo marcendo da dentro. Tutto le cose sbagliate che avevo fatto, tutte quelle che avevo subito, tutto il dolore che mi ero inflitta mi si stava ritorcendo contro. Guardai i segni ormai rosa sui polsi e singhiozzai, guardai le gambe senza più carne e singhiozzai, presi un ciuffo di capelli sfibrati fra le mani e singhiozzai, vidi quel livido sul fianco, quello più grosso ed evidente e singhiozzai. Stavo morendo, ero l’assassina di me stessa.

Mi alzai, e senza sentire davvero la voce preoccupata di Seth, mi divincolai dalle sue braccia e andai in bagno. Aprii l’acqua della doccia in modo che uscisse fredda, e vi entrai, già nuda. Guardai in alto e un getto gelato mi colpì in faccia, ripulendomi la bocca del vomito e le guancie dalle lacrime. Sentii l’acqua scendere fluida su tutto il mio corpo, spazzare via ogni cellula morta, lasciare una scia di pelle ustionata, fino a cadere dentro il buco dello scarico. Sapevo che si stava portando via anche me. Mi sedetti sul fondo della vasca e chiusi gli occhi cominciando a tremare. Mi lasciai andare alla stanchezza, mi lasciai portare giù per quel buco una volta per tutte, insieme alla pelle morta del mio corpo, allo sporco dei miei capelli, all’odore di sesso. Mi lasciai andare.

 

La vidi rannicchiata su se stessa, la guancia appoggiata al ruggine della vasca, immobile, bianca: mi sembrò un cadavere. Mi avvicinai, con la paura che mi montava in petto. Non ero pronto a lasciarla andare ora, ma avevo paura. Paura di averla già persa. Mi inginocchiai lì affianco e con un sospiro di sollievo notai che il suo petto si alzava e si abbassava, lentamente. “Sei viva”, pensai. Le scostai i capelli bagnati dal viso, le sue labbra si dischiusero lasciando uscire lo sgradevole rumore dei suoi denti che battevano. Solo in quel momento mi resi conto della temperatura dell’acqua: la spensi e presi Evie fra le braccia, facendola stringere a me. Ma lei non reagiva, le sue braccia rimanevano a peso morto, gli occhi chiusi, il respiro era irregolare, e tutto il suo corpo continuava a tremare. Le schiaffeggiai la faccia. “Non lasciarmi, non lasciarmi. Svegliati, ti prego”. Mentre ripetevo quelle preghiere, la portai nel mio letto e la coprii con tutte le coperte che trovai, stando attento a non schiacciarla troppo. Poi mi distesi accanto a lei e la strinsi forte a me. “Non lasciami Evie, non adesso, non farlo. Ti prego”. Le toccavo i capelli, carezzavo il viso, ma lei non reagiva. Immobile, morta. Le baciai le labbra viola per il freddo e lei aprì gli occhi. Mi guardo dritto in faccia. Stavano urlando qualcosa che la sua voce non le aveva mai permesso di fare. Stavano chiedendo aiuto. Il mio aiuto. Stavano dicendo «lasciami andare». Stavano dicendo «amami». Mi dicevano che non avevo scelta, che dovevo lasciare andare via perché “non innamorarti di me”, aveva detto. E io mi ero innamorato, innamorato perso di quella ragazza che continuava ad urlare con gli occhi. «Ho capito Evie, non mi devo innamorare di te».

Scosse la testa. «Devi lasciarmi».

«Lo so».

Chiuse gli occhi e con le ultime forze rimaste disse «…perché anche io ti amo e non posso, io non posso».

 

 

Ciao, scusatemi per il ritardo e per la lunghezza minima di questo capitolo. L’ispirazione è tornata solo oggi, e so che questo capitolo è forte e che probabilmente continuate ancora a non capire un tubo della storia, ma capirete prima o poi, abbiate fede. Grazie per le visite e le recensioni, siete i migliori **

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Capitolo 10
*** Maybe you’re gonna be the one who saves me. ***


Maybe you’re gonna be the one who saves me.

 

Non avevo più visto Seth dal giorno in cui ero uscita da camera sua, raccogliendo frettolosamente i miei averi, una mattina presto, mentre lui ancora dormiva. Non mi ero più drogata, non bevevo più. Al fumo non ero riuscita a rinunciare: i vizi ti entrano sotto pelle.

Continuavo a farmi pagare dai ragazzi per le mie prestazioni negli spogliatoi, mio padre continuava a picchiare mia madre. Avevo deciso di ignorarli entrambi: se non potevo salvare me stessa, non avrei salvato neppure loro.

Ero entrata in una nuova fase della mia vita, quella in cui avevo smesso di farmi del male e mi ero annullata (o almeno ci provavo). Se per la gente non ero nessuno, non sarei stata nessuno nemmeno per me. Non sarei più esistita. Mangiavo poco, parlavo ancora meno, mi nascondevo dagli altri, studiavo di più. Stavo diventando invisibile, e non aspettavo altro che esserlo completamente.

Passarono cinque mesi, prima di rivederlo. Ero appena stata a prendermi delle sigarette, e in bocca avevo una gomma da masticare, per allentare il nervosismo. Entrai nella libreria del centro, l’unico posto in cui mi concedevo di essere qualcuno: una ragazza a cui piace leggere più di qualsiasi cosa. Mi sedevo in uno sgabello, nascosta alla vista di quasi tutti, in un angolo del locale, e passavo interi pomeriggi a leggere, ad ascoltare musica con un paio di cuffiette.

Lo vidi proprio nel mio angolo felice, con in mano un libro di Bukowski e la barba cresciuta. Sembrava che il suo corpo si perdesse dentro la felpa verde consumata che indossava, nonostante fuori cominciasse a fare caldo. Persino le gambe apparivano più magre, il viso più scarno. I capelli erano lunghi, e li aveva raccolti con una piccola coda, sulla nuca. Ammisi fra me che quell’aria trasandata gli donava, anche se ero sicura stonasse con le fossette sulle guance. Mi avvicinai per osservarlo meglio, e come se avesse sentito la mia presenza, alzò gli occhi e si guardò in giro, incontrando poco dopo i miei. Sorrisi e mi avvicinai, alzandomi sulle punte dei piedi per lasciargli un bacio sulla guancia destra. «Ciao».

Mi scrutava, come avevo fatto io poco prima, solo più apertamente, scendendo e risalendo con lo sguardo sul mio corpo, sul mio volto. Disse «ciao» anche lui. Mi chiese come stavo, e io risposi che stavo meglio. Era una bugia, ovviamente, e lui non se la bevve, ovviamente, ma si limitò ad annuire e a dirmi che anche a lui andava tutto bene. Gli chiesi se aveva lasciato la scuola, e lui disse che si era trasferito a casa di suo fratello maggiore, in un’altra città, ed era stato costretto a cambiare istituto. Vidi i suoi occhi diventare lucidi, e non ne capii il motivo, ma mi si strinse il cuore. Dopo un po’ glielo dissi. «Sembri diverso».

«Ho solo i capelli più lunghi».

«E sei più magro».

«Anche tu».

Alzai gli occhi al cielo. «Che cosa succede, Seth?».

Si strinse le braccia al petto, come facevo io quando avevo il disperato bisogno di un abbraccio. E allora lo feci, mi avvicinai a lui e lo abbracciai, facendomi posto fra le sue braccia stese lungo i fianchi, che poi presero a stringermi, come se non avessero aspettato altro che quel momento, come ad urlare grazie. E fu quello che mi disse, dopo alcuni minuti, fra i capelli. «Grazie».

 

Gli erano morti i genitori in un incidente stradale, ecco cos’era successo. La colpa non era neppure stata loro, ma del conducente che viaggiava nella direzione opposta, ubriaco fradicio.

Me lo disse seduto sullo sgabello di legno diventato mio grazie ad un tacito accordo che avevo stretto con l’anima della libreria concludendo il racconto con un sorriso amaro e una battutina poco convinta su come avrebbe potuto fare i soldi raccontando la loro storia in un libro, se solo avesse saputo scrivere e avesse avuto i contatti giusti. Sorrisi, non sapevo cos’altro fare, lì accucciata a terra. «Mi dispiace».

«Muoiono sempre i migliori. Tuo padre, sempre il solito verme?».

Alzai le spalle. «Sembra si sia dimenticato della mia esistenza».

«Meglio così».

«Meglio così», acconsentii. Rimanemmo così, a fissare i libri, impacciati nonostante tutte le notti passate insieme. «Ci vai ancora, giù alla stazione?».

«A volte capita, ma se il tuo intento è capire se continuo a drogarmi, la risposta è sì, a volte lo faccio, ma niente di pesante. Non morirò. Tu piuttosto? Non ho mai sentito parlare di te, e li ci conosciamo tutti».

Scossi la testa. «Non ci sono più andata dall’ultima volta in cui mi ci hai portata tu».

«Scelta saggia».

«Grazie».

Silenzio. Di nuovo. Sembravamo due estranei, noi che un tempo avevamo detto di amarci. E fu proprio quello, che mi chiese Seth quando parlò di nuovo. «Mi ami ancora?».

Mi sembrò un bambino indifeso, sebbene non ne avesse affatto l’aria. «Non lo so. E tu?».

«Sono successe tante cose».

«Che risposta del cazzo».

«Lo so».

«Mi ami ancora?».

«Probabile». Lo guardai, lui mi sorrise e si avvicinò per baciarmi le labbra, in quel suo modo dolce di sempre. Doveva aver capito che, nonostante tutto, mi piaceva da impazzire. «Sembri diversa».

«L’ho detto prima io».

«Sembri diversa. Più serena e più triste. Si può essere sereni e tristi contemporaneamente?», lo chiese più a sé stesso, che a me, come perso in qualche meccanismo del suo cervello. «Si può decide di essere troppo stanchi per essere tristi, troppo stanchi di farsi male, ancora più stanchi di volersi bene? Si può?». Rimasi muta, a fissarlo. Lo prese come un gesto di assenso. «Mi ami ancora?», ripeté.

Annuii, perché sì, pensavo di amarlo ancora, perché sì, baciava ancora divinamente, perché sì, con lui mi sentivo meno sola. Annuii perché non ero mai riuscita a dimenticarlo, anche se a lui ci avevo pensato raramente, in quegli ultimi cinque mesi. Ma infine stavo cercando di essere invisibile, e avevo smesso di pensare alle cose a cui una volta ero interessata. Sembravo diversa? Ero diversa. Avevo deciso di interrompermi, di tagliare il cavo che mi legava al mondo esterno, alle persone, al cibo, ai colori. Avevo deciso di non essere nessuno, ma con lui, così perso, così vuoto, non ce la facevo ad essere invisibile. E cominciai ad essere per lui quello che era stato per me: la medicina che faceva male, la cura che lo avrebbe portato alla distruzione.

Appoggiai la fronte alla sua, sentii il suo alito sulle guance, il suo respiro sulle labbra. Se non potevo salvare me stessa, avrei salvato almeno lui.

 

 

 

 
A quanto pare il blocco dello scrittore è terminato. Halleluia, sia ringraziato il cielo e tutti i santi del paradiso. Vi comunico che questo è l’ultimo capitolo della storia, che sarà seguito da un epilogo, che pubblicherò a breve. Spero di non aver deluso nessuno (soprattutto quelle persone che sono rimaste fedeli a questa storia nonostante io non aggiornassi m a i), sono pronta per la ghigliottina, Deborah.

 

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Capitolo 11
*** Epilogo. ***


Epilogo.

 

Uscii dalla libreria e chiusi la porta a chiave. Mi accesi una sigaretta. Era una giornata cupa, di quelle in cui il cielo è bianco e gli occhiali da sole ti servirebbero anche se di sole non ce n’è nemmeno l’ombra. Strizzai gli occhi, infastidito. Magari avrebbe piovuto. Sinceramente lo speravo: non avevo mai adorato il caldo umido di Agosto. Non avevo voglia di tornare a casa, sapevo che Rachel aveva organizzato una festa a sorpresa per il mio compleanno. Non era mai stata brava a nascondere le cose, e infatti nel suo cassetto dell’intimo avevo trovato una lista, una delle tante che era solita comporre, e un punto mi era saltato all’occhio: festa Seth. Pensavo fosse un gesto carino da parte sua, voler festeggiare con tutti i nostri amici i miei trentacinque anni. E io che pensavo sarei morto sotto un ponte, appena superati i vent’anni, per via di tutta quella droga. Avevo un sospetto, che tanto sospetto non era, dato il tremolio alle mani che mi perseguitava, di essermi bruciato qualche cosa nel cervello. Ma infine vedi sempre tutto da un’altra prospettiva, quando hai vent’anni e non sai come salvarti. Decidi che se nessuno lo farà al posto tuo, tu ti lascerai andare, tu non farai assolutamente nulla. E invece lei mi aveva salvato.

Avevo visto Evie l’ultima volta qualche anno prima, quando ancora non avevo conosciuto Rachel, mia moglie, in un supermercato. Non l’avevo riconosciuta subito, era cambiata molto, con gli anni. I capelli, lunghi fino alla base della schiena, li aveva tinti di nero (il giorno del suo diciottesimo compleanno, in camera sua, un muffin comprato al bar all’angolo sulle lenzuola, con solo la biancheria addosso, le canticchiavo all’orecchio ‘tanti auguri a te’ soffiandole fra i capelli rosso stinto che le arrivavano alle spalle), il corpo, fasciato da un abito da lavoro blu scuro, era maturato, e sebbene fosse ancora magro, aveva l’aspetto sano (il giorno del suo diciottesimo compleanno, in camera sua, un muffin comprato al bar all’angolo sulle lenzuola, con solo la biancheria addosso, le accarezzavo la pancia con le dita, sentendo la pelle cambiare aspetto, diventare come la buccia del limone, e capivo, lo capivo dalla sua pelle, che mi amava). Le gambe, quelle le erano rimaste uguali: lunghe e smilze, del genere che si avvicina alla perfezione (il giorno del suo diciottesimo compleanno, in camera sua, un muffin comprato al bar all’angolo sulle lenzuola, con solo la biancheria addosso, posavo gli occhi sulle sue cosce sfregiate, e mi ripetevo che non era colpa mia, che non era colpa mia, che davvero, non era colpa mia). Da dove mi trovavo potevo osservarle anche il volto: i lineamenti duri e seri, le labbra piene e le ciglia lunghe. La trovai cambiata, ma riconoscevo in lei tutto di quella ragazzina che avevo amato fino a farmi male, letteralmente. Mi ero avvicinato a lei, indeciso se chiamarla, oppure rimanere ad ammirarla, seppure più da vicino, ma lei aveva alzato lo sguardo e mi aveva trovato lì, con una felpa grigia pendente sulle spalle e le scarpe sportive ai piedi. Mi aveva sorriso, e accostatasi a me, mi aveva lasciato sulla guancia un bacio, senza alzarsi sulle punte, come faceva un tempo, a causa delle scarpe con i tacchi che indossava. Aveva detto «ciao», io gli avevo risposto lo stesso. Era diventata un avvocato, mi disse, ed era per quello, che la vedevo vestita in quel modo, perché a lei piacevano ancora le calze e le maglie lunghe come una volta, mi spiegò. Le dissi che lavoravo nella libreria del centro, quella in cui andavamo sempre insieme, e dopo aver sorriso, disse che di tempo per leggere ne aveva davvero poco, ormai. Affermai che era una cosa triste, e lei annuì, per poi guardarsi i piedi. Le chiesi se era sposata – portava una fedina al dito e io non me ne intendevo molto né di matrimoni, né di anelli – ma lei scosse la testa e disse che stava davvero bene, ora. Domandò di mio fratello, come stava e se era riuscito poi a metterla incinta, quella ragazza che amava tanto. Scoppiai a ridere: mio fratello l’aveva abbandonata dopo il terzo figlio. Disse che era proprio da lui, e rise con me. Volli chiederle dei suoi genitori, e lei si fece scura in volto, rispondendo poi che non li aveva più visti, da quando se n’era andata di casa, insieme a me. Mi vennero in mente subito i mesi passati dentro quel piccolo appartamento malsano, e sebbene avessi dovuto ricordare le litigate, che in quel periodo erano all’ordine del giorno, l’immagine che mi apparse fu quella di noi, seduti sul divano, a mangiare cereali perché senza un soldo, la sua testa posata sulla mia, una canzone degli anni sessanta che usciva dalle casse dello stereo nell’angolo. Prima di andarmene da quel supermercato l’avevo abbracciata, sussurrandole all’orecchio la parole che probabilmente le avevo detto più spesso «grazie». Dovevo ringraziarla per aver passato con me il periodo più brutto della mia, e per avermi fatto uscire da esso amandomi come nessuno aveva mai fatto. A guardarla bene, a guardare quell’Evie che non assomigliava alla mia Evie, mi dissi che l’amavo ancora, l’avevo sempre amata (anche quando mi aveva puntato la pistola alla tempia, quando eravamo fatti, stra-fatti, in quel periodo buio che aveva seguito un altro periodo buio, e mi aveva supplicato di andarmene, per poi cercarmi due giorni dopo,  chiedendomi di scomparire con lei dentro un letto) e probabilmente l’avrei sempre amata. Anche in quel momento mi ripetei che era riuscita a salvarmi, era riuscita a salvarsi, era riuscita a salvarci entrambi.

Ora, che di anni ne avevo trentacinque, non mi drogavo più e amavo un’altra donna che mi stava aspettando a casa, avrei tanto voluto vedere Evie. Magari davanti una tazza di caffè, per chiederle come le stava andando il lavoro e magari regalarle un libro, magari ripensare a quella volta in cui ci eravamo lasciati perché finalmente eravamo cresciuti, e anche se non stavamo ancora bene, sapevamo che saremmo andati avanti, che ce l’avremmo fatta. Avrei tanto voluto vedere Evie.

E la vidi. Vidi i suoi capelli neri, i suoi occhi verdi, le sue labbra carnose dischiuse, ad accennare uno strano sorriso, i suoi zigomi alti. La sigaretta mi scivolò fra le dita, i piedi cominciarono a muoversi da soli. Fissavo la sua foto, e mi dicevo che non era possibile. Mi dicevo che non stavo davvero guardando la sua epigrafe, che non stavo davvero leggendo che era morta. Un signore, fermatosi affianco a me, un vassoio in mano, mi chiese se la conoscevo. Annuii, incapace di parlare. Disse che era morta in un incidente d’auto, che non era stata colpa sua ma del conducente che viaggiava nella direzione opposta, ubriaco fradicio. Disse che ogni mattina entrava nel suo bar, con il sorriso, incespicando sui suoi passi perché, come diceva sempre lei, odiava quelle maledette scarpe con i tacchi.

E la vidi, vidi di nuovo l’Evie fragile, quella che si sognava le urla di sua madre durante la notte e poi mi stringeva forte, impaurita. Vidi i lividi sul suo corpo quando, in quel giorno che si era presentata davanti casa, mi disse che quella volta non era stata colpa sua. Vidi il sorriso sul suo volto, nei giorni del suo, di compleanno, quando scartava i pacchetti e sapeva di già che le avrei regalato dei libri. Vidi l’Evie diplomata con il massimo dei voti, che mi diceva che ora si sarebbe meritata un premio. Vidi le sue lacrime, le sue calze bucate, i capelli rossi, i capelli neri, la sua mano fra la mia, le sue spalle, le costole che le bucavano la pelle, lei dentro una vasca, l’acqua gelata che la faceva tremare, una pistola puntata male, una pasticca sulla lingua, lei che si guardava la pancia allo specchio perché c’era una vita che le nasceva dentro, le sue lacrime quando aveva scoperto che quel bambino non c’era più. Vidi Evie, la ragazza che avevo amato, la donna che avrei amato per sempre.

Mi scese una lacrima, e allungata una mano, accarezzai la sua foto con le dita, lentamente, con leggerezza, come se fosse ancora fragile, come se fosse ancora quella che avevo conosciuto su quella terrazza. Ma sapevo benissimo che era diventata una donna forte. E sorrisi. Sorrisi perché era proprio vero che la vita era una puttana.

Lasciai suonare a vuoto il telefono, mentre camminavo verso casa. Presi le chiavi dal mazzo, e aprii la porta. C’era ancora il suo profumo impregnato nelle pareti, nella stoffa del divano in cui mangiavamo i cereali, nell’aria di quel posto che non ero mai riuscito ad abbandonare, quel posto che avevo acquistato quando ci eravamo lasciati. Ci eravamo lasciati perché ci eravamo salvati. Eppure ci amavamo ancora. Lo avevo visto negli occhi dell’Evie del supermercato, che mi amava ancora. E allora lo feci: mi avvicinai al mobiletto dell’entrata, estrassi la pistola e me la puntai alla tempia. Ci eravamo sempre salvati a vicenda, io e lei. Sparai.

 

 

 

 

 

 

Tempo di ringraziamenti.

Ringrazio Alice (Noneoftheabove_) che, da quel che ho capito, ha amato questa storia davvero tanto: graziegraziegrazie, è bello scrivere se persone come te sono disposte a leggere.
Ringrazio Michela e Stefano, che mi sostengono sempre quando me ne esco fuori con “ho iniziato una nuova storia”. Sono sicura alzino gli occhi al cielo ogni volta, ma va bene così.
Ringrazio tutte le persone che hanno letto, recensito, quelle che hanno messo la storia tra le seguite o le preferite: siete delle personcine meravigliose e finirete in paradiso.
Infine ringrazio Evie e Seth, che mi hanno fatto piangere come una cretina nella stesura di questo ultimo capitolo. Non prendetemi per pazza, lo so che li ho fatti morire io, ma io me li ero sempre immaginati così, un po’ alla Romeo e Giulietta, “a pair of star-cross’d lovers”, diceva Shakespeare. Io me lo ero sempre immaginati così: destinati a farsi del male, a salvarsi a vicenda, a morire per il loro amore. E adesso di preciso non so quanti di voi mi odino per questo finale a sorpresa, ma era così che doveva andare. Quindi li ringrazio, i protagonisti della mia storia, perché sono stati due miei amici, che ho visto crescere in mezzo a tanto dolore. Proprio per questo motivo sono sicura che prima o poi scriverò di nuovo di loro, magari narrando qualche fatto non scritto in questi capitoli, o non lo so, approfondendone qualche altro, quindi non dimenticatevi di loro.
Ora me ne vado, voi come sempre fatemi sapere che cosa ne pensate. *Deborah fa ciao ciao con la manina*

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