I love you in a different way. I love you, forever.

di alwaysabelieber
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Where it all began. ***
Capitolo 2: *** My missing puzzle piece. ***
Capitolo 3: *** Nice to meet you, i'm Justin Bieber. ***
Capitolo 4: *** What are you doing to my heart? ***
Capitolo 5: *** You played my heart to the beat. ***
Capitolo 6: *** You make me fall in love. ***
Capitolo 7: *** Never felt this way before. ***
Capitolo 8: *** Ain't nothing that's ever gonna stop us. ***
Capitolo 9: *** I'm only me when I'm with you. ***
Capitolo 10: *** Nothing great comes so easy. ***



Capitolo 1
*** Where it all began. ***


Era la prima volta che la mia scuola facesse attivamente parte ad un'iniziativa del genere. Si chiama "Gemellaggio", o almeno così lo chiama la mia splendida professoressa di Inglese. E' un miscuglio di nazioni, di cultura, di idee, di modi di fare, è tanto semplice quanto bello, si tratta, infatti, di ospitare in casa tua, un ragazzo o una ragazza di origini americane, per un intero mese. 
-E' un'esperienza che ti rimane per sempre.- è così che la prof. incita la classe a partecipare. Io ci credo. 
Devo ancora parlarne con i miei, non mi aspetto che dicano sì, non lo faccio perché così non c'è il rischio che rimanga delusa. 
Torno a casa da scuola, non appena varco la soglia della porta, sento un profumo di vaniglia, inspiro e lo sento entrarmi dentro, nei polmoni: è buonissimo. Mi chiudo la porta alle spalle e mi trovo di fronte la mia enorme casa, a due piani. 
La cucina è di sopra, sono sicura che la mamma è ai fornelli. Faccio per salire le scale, le salgo a tre alla volta, sono eccitata al solo pensiero che lei possa cedere e dirmi di sì, al solo pensiero di trovare al mio fianco uno di quei ragazzi americani che passano le giornate allo skate, che indossano felpe larghe con i rispettivi cappucci, che indossano quei cappelli che io amo tanto, insomma, più di tutto, sono eccitata all'idea di avere qualcosa di americano in casa, e che magari dorme anche nel mio stesso letto. La porta della cucina è chiusa, sento molteplici voci e capisco che la mamma non è sola. Apro la porta, c'è anche la nonna, saluto entrambe con la mano, poi il mio sguardo cade sul tavolo, è pieno di sacchetti del McDonald's, mi brillano gli occhi e corro a mangiare. Poi chiamo al lavoro tutto il coraggio e ci provo..
-Mamma- non si capisce molto, ho la bocca piena, ma poi ingoio l'ultimo boccone. -Mamma, a scuola stanno organizzando un gemellaggio, va bene se per un mese ospitiamo un americano?-
La mamma mi guarda sbalordita, certa di non aver capito bene. 
-Scusa Ale, ripeti.- 
Lo faccio. Mi giro verso la nonna, mi fa l'occhiolino. 
-No che non va bene. Non se ne parla proprio.- mi risponde, con un tono che non ammette repliche.
E' stato un attimo, in un nano secondo mi è crollato il mondo addosso, quel mondo che dal tragitto da scuola a casa, quel giorno mi ero costruita pieno di speranze e sogni. 
Mi scende una lacrima e forse lei se ne accorge.
-però, possiamo provare a parlarne con tuo padre, va bene? va in camera tua ora.- mi sorride. Quel sorriso mi da speranza. 
Torno in camera, accendo il computer e mi connetto al gruppo della classe, su facebook. Una notifica, due notifiche, tre, quattro..
Tutti comunicano la loro disponibilità nell'ospitare quei ragazzi. Lascio il computer acceso e mi stendo sul letto a pancia in giù, sprofondo nel cuscino e spero di poter far sapere ai miei compagni una risposta positiva. 
Non passa molto, ma qualcuno alla mia porta già bussa. E' la nonna, ha un vassoio in mano con sopra due bicchieri e dei biscotti. La guardo entrare, e le faccio spazio sul letto. Appoggia il vassoio sul comodino e mi porge la tazza bollente di cioccolata calda e ne prende una per se. La sorseggiamo allo stesso tempo, intanto un silenzio imbarazzante regna sovrano tra noi, è infine la nonna a romperlo. 
-La mamma muore dalla voglia, comunque.- mi dice.
Non capisco, apro la bocca ma non emetto alcun suono. Lei ride. Che bella che è.
-Quei ragazzini di milano dico…- 
La interrompo, sorridendo. -Americani, nonna. 
-Oh, sì, certo, Americani. Dicevo, ha chiamato il tuo papà, non le ha neanche fatto finire la frase che lui ha detto di sì. Bevi la tua cioccolata e poi prepara la sua stanza per quando arriverà.- Mi da un pizzicotto sulla guancia e poi si alza, mantenendosi la schiena con la mano, come per paura che, da un momento all'altro potesse caderle.
Sento dentro una tale eccitazione, sento un qualcosa che va oltre, oltre i confini della felicità e della speranza. Qualcuno arriverà, e per un mese resterà, maschio o femmina che sia, ha origini americane. Mi passo una mano nei capelli, ho un sorriso ebete sul viso. Il computer intanto è finito in stand-by, scrollo il mouse, e rendo tutti partecipi della mia felicità.
Intanto mi arriva un messaggio al cellulare. Da: Valentina. 

"Domani arriva presto a scuola, ci verranno consegnati dei moduli da compilare. Per il gemellaggio. Un bacio. Your Bf."

Dei moduli. Prendo la sveglia e, per sicurezza scelgo già l'orario in cui deve annunciarsi. Presto, molto presto.

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Capitolo 2
*** My missing puzzle piece. ***


A darmi il buongiorno il mattino seguente, nel cielo limpido c'era un sole invernale, che penetrava nella stanza, debole ma abbastanza intenso da trasmettermi il calore necessario, fu una buona mossa, quella della sera precedente, di lasciare le tendine della finestra aperte, perché fu quella chiazza gialla in quell'infinito cielo blu a darmi la forza per alzarmi. 
Tuttavia, dovette suonare tre o, addirittura quattro volte, prima che mi accorgessi della presenza della sveglia, che annunciava ormai le sette. Il presto orario mi permise di lavarmi e vestirmi con molta tranquillità, erano infatti le sette e mezza quando, messa la cartella sulle spalle, che quel giorno contava davvero pochi libri, scesi le scale e sprofondai con un tonfo in cucina. La tavola della colazione era pronta, ed il mio posto offriva spazio ad un bicchiere di latte, biscotti, cereali e con mia grande sorpresa un abbondante piatto farcito di frittelle. Fu quella squisita vista, che mi trattenne fino alle otto meno un quarto al tavolo della cucina. Salutai poi mia madre, presi ancora una frittella e le feci un sorriso grande dall'orecchio destro a quello sinistro. Aprì la porta e quasi con la stessa velocità la chiusi alle mie spalle, attenta a non fare troppo rumore. 
Fu tanto bello quanto incredibile: il bus che dovevo prendere, aveva appena frenato alla sua rispettiva fermata, non era mai successo prima d'ora e pensai, mentre infilavo le cuffie nelle orecchie e raggiungevo il posto vuoto, che sembrava stesse aspettando solo me che lo occupassi, che il mondo capiva e sosteneva la mia eccitazione e la mia felicità, perché quella giornata non poteva presentarsi meglio di così, e sperai, in cuor mio, che finisse altrettanto bene. Fu a ritmo di una dolce melodia che percorsi tutto il tragitto, assente da tutto e tutti. Ritornai al mondo reale solo quando sentì qualcuno venirmi addosso, era una vecchietta dal viso tondo e capelli grigiastri.
-Scusa tesoro, mi faresti sedere?- aveva una faccia sfinita, non esitai neanche un secondo prima di alzarmi, con il sorriso stampato in volto.
-Oh, certo. Prego, lasci che le dia una mano - le afferrai il braccio e l'aiutai a sedersi. Non mi rispose, mi accennò un sorriso e strizzò l'occhio, dal suo gesto ne uscì un occhiolino non ben riuscito. 
Comunque, ero arrivata. 
-Ehm, io scendo, arrivederci signora. - le sorrisi in quella che mi sembrò la centesima volta.
-Ciao, ciao cara. - 

Non appena scesi, tra la folla riconobbi il volto familiare della mia migliore amica, che mi aspettava all'ingresso dell'edificio. La raggiunsi a passo svelto e le stampai un doppio bacio su entrambe le guance. 
-Ciao Vale, questo modulo, chissà cosa…- non mi fece continuare, e la sua voce subito prese a sovrastare la mia.
-Calmati Ale- mi pizzicò la guancia, ridendo. -E' solo un modulo, e poi ci sediamo vicine, sarà semplicissimo. 
Ero calma prima di arrivare e potrei giurare di aver sentito qualcosa muoversi nel mio stomaco quando la campanella suonò. Venni immediatamente sovrastata da una folla di ragazzi e ragazze, e mi feci largo a spallate per aggrapparmi allo zaino di Valentina. Raggiungemmo l'aula, metà classe era già all'interno e la prof. di inglese era seduta alla sua cattedra. Me ne accorsi solo quando mi girai per salutare il mio migliore amico, seduto all'ultima fila, che sui banchi erano sistemati dei moduli spillati. Strinsi forte la mano di Vale, forse troppo perché lei diede in un breve urlo isterico. Risi e poi le chiesi scusa. 
Ci sedemmo, attaccate come cozze, e infine, quando anche l'ultimo ritardatario prese posto, la prof. si rivolse a noi. 
-Il vostro rappresentante di classe mi ha comunicato, con mia grande felicità, le adesioni della maggior parte della classe. Ora, quindi, tutti coloro che hanno aderito dovranno compilare il proprio modulo. E' importante che voi lo facciate per due buone ragioni, che capirete soltanto quando lo compilerete. Non vi consultate con il vostro compagno di banco, non ce ne sarà bisogno, scrivete la verità, perché dopo questa andrà a vostro favore.
Io annuì, e così fece il resto della classe. Presi la penna e osservai per bene ciò che avevo davanti. Era un test, di ben quattro pagine. Lo lessi prima velocemente tutto, poi presi la penna e iniziai a riempire gli spazi vuoti.

Nome: Alessandra 
Nata/o a: Napoli. Il: 4 dicembre 1996.
Capacità linguistiche: me la cavo nel parlare l'inglese, un pò meno con lo spagnolo ed il francese.
Il test continuava con altre informazioni generiche, ma l'ultima pagina occupava uno spazio non poco personale, fu lì che iniziai a bloccarmi, e premisi che quella fosse la parte più difficile, quella che mi aspettavo.

Interessi: ho una grande passione per la musica e per il canto, che studio da ben otto anni. Mi interessa tutto ciò che le riguarda e gli strumenti che servono per comporla, in particolare la chitarra ed il piano, per cui possiedo buone doti.

Passioni: può sembrare strano detto da una ragazza, ma amo il calcio. Mi interessa anche il basket, e la break dance.

Cantante preferito: Non ne ho uno in particolare, ascolto tutti i generi musicali e non credo che nella mia vita riuscirà mai ad esserci un preferito tra tutti i meravigliosi cantanti che il mondo della musica ci sforna giorno per giorno. 

L'ultima informazione diceva:
Il gemellato che arriverà, dev'essere.
1.maschio.
2.femmina.

Guardai sul foglio di Valentina, lei aveva messo una 'x' sulla seconda opzione, io scelsi di fare il contrario e la misi sulla prima. Un ragazzo americano, uno di quelli che avevo sempre sognato. Lo ricontrollai più di una volta prima di consegnarlo alla professoressa, ed ogni volta ero più sicura di aver scritto le cose per bene. Osservai i miei compagni consegnare i moduli, mentre di tanto in tanto sbirciavo quello di Vale. 
Ci sarebbe arrivato un gemellato completamente diverso, ne ero certa, io e lei avevamo sempre avuto interessi diversi, in tutti i sensi. Le tre ore successive sembrarono passare in un batter d'occhio, e nello stesso tempo mi ritrovai ad aprire la porta di casa. Raccontai tutto alla mamma, poi corsi in camera e feci visita al mio letto, rimurginando a tutto quello che era successo. Chiusi gli occhi e caddi in un sonno profondo in cui riuscii a sognare il mio Americano, alto, capelli castani ed occhi verdi, simpatico, sorridente, un gran figone...

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Capitolo 3
*** Nice to meet you, i'm Justin Bieber. ***


Mi svegliai di soprassalto, il cuore che batteva forte contro il petto. Guardai verso la finestra, che aveva ormai come sfondo un cielo grigio e ricoperto di nuvole nere. Nonostante non ricordassi il sogno che avevo fatto, sentivo di volerlo rivivere. Prima allungai una mano verso il comodino, in cerca del mio cellulare, che trovai quasi al primo tentativo. 
Due messaggi. Entrambi da Valentina. Il primo diceva: 
- Ho due notizie. Una bella ed una brutta, quale vuoi che ti dica prima? -
Il mio stomaco si contorse in una morsa, non avevo voglia di sentire quella brutta, ci misi infatti un pò prima di leggere il secondo, ma poi trovai il coraggio necessario.
- Ok, visto che non mi rispondi te le dico entrambe. Inizio dalla prima, so che mi avresti chiesto di farlo. I ragazzi, o ragazze che siano, arrivano domani. Domani Ale! Dobbiamo andarli a prendere all'aeroporto durante l'orario scolastico. La brutta notizia non esiste, era per fare sospance, ciao -
- Vaffanculo - esclamai subito, mentre mi si alleggerì lo stomaco, come se un pesante masso fosse stato tolto da lì. Non mancò una risata, forse isterica, forse di trepidazione. Avevo delle carte in mano, ed ero io e solo io a doverle giocare, a doverle mettere a terra, ma non avevo tempo per pensare, solo domani era la partita più importante della mia vita. Mancava poco, a domani. La domanda, la prima e la più importante che occupò ogni singola parte dei miei pensieri fu: quali vestiti indosserò? Ero sul letto, stesa con la schiena e fissavo intensamente il soffitto, come se potessi vedere attraverso di esso il cielo nonostante fosse impossibile, pensavo agli abiti che avevo nell'armadio, facevo abbinamenti di colore, pensavo a come avrei dovuto sistemare i capelli… poi tutto divento sfumato, nero e mi addormentai di nuovo, svuotando ogni pensiero reale e lasciando spazio alla fantasia. 

Fu come batter ciglio, la notte passò in un secondo. Guardai verso la finestra, il cielo era macchiato d'oro al sorgere del sole, ma poi mi alzai di scatto e rivolsi le spalle a quella vista mozza fiato, le braccia incrociate verso le ante aperte dell'armadio, infilai un jeans scuro, molto stretto, delle ballerine al piede ed una t-shirt col cappuccio, larga e colorata. Non ero il massimo, ma poteva andare. Tesi una mano verso la porta del bagno e pensai al trucco: un filo di fard sul viso, che avrebbe reso le mie gote rosee al punto giusto, matita nera sotto gli occhi, e lucido sulle carnose labbra. Diedi una spazzolata ai lunghi, biondi capelli e li lasciai alla loro naturalezza. Cellulare in tasca. Prima di uscire e lasciare la mia stanza, più disordinata di quanto l'avessi mai vista, diedi un'ultima occhiata in giro e poi lasciai che la porta mi sbattesse alle spalle. All'estremità delle scale c'era la mamma ad aspettarmi, lo sguardo torvo, con l'aria di una che aveva dormito poco. 
- Hai dormito tutto il giorno fino al mattino, non hai mangiato, non mi hai detto che ti avrei dovuta accompagnare all'aeroporto, niente di niente. Ho ricevuto una chiamata dalla professoressa stamattina presto, e non farmi il labbruccio - scoppiò a ridere, il che mi fece capire che, alla fine, era tutto ok. 
- Allora, andiamo? - esclamai impaziente, tutte e due le mani nelle tasche della t-shirt. Mi fece cenno di sì con la testa e andammo insieme verso la porta d'ingresso, sulla maniglia c'era il mio cappello, quello celeste che si abbina tanto con la maglia che ho indosso.
- Ecco dov'era - dissi, mentre lo infilavo sulla testa.
Mamma aprì la macchina con il telecomando automatico che aveva attaccato alle chiavi, presi posto sul sedile anteriore, lei fece lo stesso e mise in moto. 
Accesi lo stereo, impostai la mia stazione radio preferita e attesi che il segnale prendesse.
- … ed ora abbiamo il piacere di ascoltare, il nuovo singolo della talentuosa, non che bellissima Alessandra Amoroso, "Seeeeeeeenza Nuvole" -
'sognare un cielo azzurro all'orizzonte senza nuvole', sognare, sognare sempre, perché inutile è la vita di chi non sa sognare. 
Iniziavo già a vedere, sebbene in lontananza, il simpatico viso tondo della mia prof. nel suo invano tentativo di far stare calmi i miei compagni. La vidi dare uno schiaffetto dietro la testa del mio migliore amico, scoppiai a ridere, e quando la macchina si avvicinò a poco da loro, fui sollevata nel capire che non erano ancora arrivati, dall'America. Scendemmo dalla macchina e andai a salutare tutti, prof. compresa, che subito prese a parlare con mamma. Valentina stava arrivando di corsa e con il fiatone, ansimando. 
- Ale, da quanto sei qui? Le corse ho fatto…le…corse - appoggiò una mano sudaticcia sulla mia spalla.
- Ora, sono arrivata ora Vale - le sorrisi e le stampai un bacio sulla guancia. - tieni, ho portato uno specchietto, guardati e aggiustati come vuoi - glielo appoggiai sul palmo della mano.
- Saranno qui tra un minuto, l'aereo ha atterrato, non fatemi fare brutta figura - urlò la professoressa, sopra le nostre teste. 

Eccoli che arrivavano, la maggioranza erano femmine, c'erano tanti maschi quanti ne erano i miei compagni. A me sarebbe toccata la femmina, come tutte le altre, fa nulla, pensai, me lo aspettavo e per questo motivo non fu un duro colpo. 
Ma poi, dietro quella folla di volti maschili, ne spuntò un altro. Non ci sono parole abbastanza importanti per spiegare la gioia che provai quando lo vidi. 
- Hello guys - esclamò la loro prof. con un gran sorriso. Di rimando, la salutammo tutti con la mano. Lei sorrise ancora, poi prese una pila di moduli.
- Butler Ryan. - chiamò all'appello.
Un ragazzo abbastanza alto si fece largo a spallate tra i compagni e attese. 
- con Montuori Francesco , dov'è? -
Il mio migliore amico alzò la mano e accolse in modo caloroso il suo nuovo amico, dandogli una pacca sulla spalla. 
- Brown Georgia. - continuò. - con Coppola Valentina -
Vale alzò freneticamente la mano, e salutò con la mano una ragazza davvero carina e dall'aspetto molto simpatico. 
- Bieber Justin - disse la loro prof. guardandosi indietro per cercarlo, quando si fece avanti, continuò. - con Paura Alessandra - sentì il mio cuore battere forte, fortissimo, quasi poteva lacerarmi il petto, e di rimando qualcosa nel mio stomaco si agitò. Alzai la mano, un pò incerta, Justin la vide e si avvicinò a me. Lo potevo vedere meglio, adesso. I capelli, biondi quasi quanto i miei, gli cadevano spettinati sul viso, e i suoi occhi, color nocciola mi trasmettevano qualcosa di surreale. Non era troppo alto, ma neanche io lo ero. Il suo volto era perfetto, a confronto del mio. Portava una targhetta al collo, ma non riuscivo a capire cosa ci fosse inciso sopra. Lo zaino che portava dietro le spalle era quasi più grande di lui, era aperto e ci vidi quel cappello che io amo tanto. Mi sorrise. Era la prima volta che vidi un sorriso del genere, non potetti fare a meno di sorridergli di rimando, non fui io a volerlo, ma qualcosa di più grande. Gli presi il cappellino dallo zaino e glielo misi. Non protestò, sorrise di nuovo. Era buffo.
- Piacere, Alessandra - gli dissi, porgendogli la mano. 
Lui la guardò per un istante e si mise a ridere. Anche la sua risata era perfetta. 
- Sono Justin, Justin Bieber. Se mi hanno messo con te, significa che abbiamo gli stessi interessi. A me piace la musica, mi piace cantare e ballare, mi piace il calcio e il basket, e a te anche, vero, per forza, sì… -
- Parli tanto, eh? - gli domandai, ignorando tutte le domande che mi aveva fatto. - Queste cose mi piacciono, e te lo dimostrerò, Justin Bieber - gli sorrisi e lui fece lo stesso. 
Lo sentivo che gli ero piaciuta, lo sentivo pronto quanto me riguardo quella nuova esperienza, riguardo a passare un mese insieme.

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Capitolo 4
*** What are you doing to my heart? ***


Dopo aver salutato i miei compagni, e i loro rispettivi ospiti Americani, tornammo a casa in macchina, io e Justin occupammo entrambi i sedili posteriori. 
La mamma guidava e di tanto in tanto faceva qualche domanda a quel ragazzino, credo che si piacquero subito a vicenda. 
- e così sei Canadese? - gli chiese, guardandolo dallo specchietto. 
- Canadese e fiero di esserlo, sì - rispose Justin. 
- Sono sempre voluto venire in ltalia - continua, - mi ha sempre attirato, forse per le belle ragazze - ride da solo alla sua battuta e mi rivolge uno sguardo malizioso. Non ci metto più di un secondo a distogliere i miei occhi dai suoi. 
- Non guardarmi così - gli sussurro. 
- No? E sentiamo, perché? - alza un sopracciglio e ride, cavolo, l'ho detto dall'inizio che era buffo. Non gli rispondo.
Non appena la macchina si fermò, mi accorsi di aver perso il cellulare, non ci misi molto a capire che si trovava sotto il mio sedere. La porta si aprì da sola, un tantino perplessa scesi. 
- BU! - Justin si era nascosto dietro la portiera. 
- Idiota! - non posso fare a meno di ridere. Gli do uno schiaffo sul braccio, e lui sfreccia verso la porta d'ingresso di casa mia.
E' assurdo, è come se lo conoscessi da una vita, come se non stavo aspettando nient'altro che lui, che arrivasse a stravolgere i miei piani. Lo raggiungo e riesco a sorpassarlo.
- Vieni, Bieber, ti faccio vedere la tua stanza - lo tiro per il braccio, e inizio a correre, costringendolo a starmi dietro. 
- Ok, ok, vengo - mi dice col fiatone. - Ma dopo voglio vedere anche il resto, ci tengo eh - ride. 
Saliamo le scale ed atterriamo sul piccolo pianerottolo dove affacciano tre porte.
- Qui dentro - gli dissi, aprendo la porta sulla destra, ma prima di lasciarlo entrare lo fermai. - Quella - ed indicai la porta a sinistra, di fronte a questa, ora di Justin. - è la mia camera, e.. - 
Non mi lascia finire. - Ah, non dormiamo insieme? - mi fa una faccia supplichevole, lo guardo, come a sfidarlo di non ridere, ma subito perde. 
- Smettila! - rido anche io. - dicevo, questa porta al centro, invece è il bagno - 
- Perfetto, ho capito. Sono un tipo intelligente io - 
- Davvero? Io una tipa aggressiva invece. Ti dice niente? - gli sorrido.
Scherzo, ma non c'è bisogno di dirlo prima, lui lo sa, lo capisce, ha già imparato a conoscermi, a differenza di persone, che al contrario, mi sono amiche da una vita. 
- Quindi qui dormirai per un mese, se ti piace bene, se non ti piace cazzi tuoi - gli rivolgo una smorfia. 
Mi prende la mano e mi tira dentro la stanza. 
- Già lo conosco questo posto, io. Tranquillo - 
- Io no. Me lo potresti, gentilmente perlustrare, signorina? - mi pizzica una guancia. 
Gli rivolgo uno sguardo torvo, poi comincio. 
- Questo è il letto, quella la porta, quello l'armadio, tutto chiaro? si, ciao - gli stampo un bacio sulla guancia. E' morbidissima, liscia, perfetta, come lui. 
Corro nella mia stanza prima che Justin potesse fermarmi nuovamente. 
Avevo bisogno di stare da sola. 
Entrai e socchiusi la porta, mi stesi sul letto, a pancia in giù. 
Ebbi finalmente l'opportunità di mettere tutto in ordine, i pensieri, le idee, tutto. 
Come prima cosa, a me stessa ammisi che quel ragazzo mi piaceva, tanto anche. 
Non volevo farglielo capire, volevo stuzzicarlo, provocarlo con la mia freddezza, con la mia acidità, insomma, farmi desiderare. 
Se c'era una cosa che avevo imparato in quattordici anni di vita, è che maggiore è il desiderio di ottenere una cosa, più la si apprezza quando la si ha. 
Se, al contrario, una cosa la si ottiene facilmente, significa che non è poi tanto preziosa, tanto bella. 
Questa era la mia filosofia, ora, se avrebbe funzionato, non lo so, ma che l'avrei messa in atto, era poco, ma sicuro. 
Mi girai, stesa con la schiena, quando guardai verso la porta, potetti giurare di aver visto qualcuno, mi alzo e la spalanco, mi guardo in giro e per un attimo non vedo nessuno, poi mi giro e lo trovo lì, in piedi, spiaccicato al muro per non farsi vedere. Gli sbatto la porta in faccia, ci appoggio la bocca vicino ed urlo. 
- Questa, ad esempio, è una cosa che non devi fare - appiccico l'orecchio alla porta e lo sento ridere come un bambino. 

Di solito era la mamma che lo faceva, lei urlava quand'è che era pronto il pranzo, questa volta a farlo fu Justin.
- E' pronto, brutta - disse qualcosa a mia madre, da dov'ero qualcosa di indecifrabile. 
Attraversai il pianerottolo e percorsi il dritto corridoio. La porta della cucina era aperta, erano tutti seduti attorno al tavolo, anche il mio adorabile papà.
- Brutta… a me… non… lo… dici - gli dissi, riempendolo di botte e ridendo. 
- Ora fatti perdonare - mi disse. - Dammi un bacetto, uno di quelli tuoi - 
Lo guardai male, proprio non sapeva quand'è che era il momento di smetterla. Voglio dire, c'era anche mio padre. Ma con mia grandissima sorpresa, rideva di gusto. 
- Non se ne parla - gli risposi, poi andai verso papà e lo salutai con un abbraccio. 
C'era un'armonia diversa con quell'idiota a tavola, si potrebbe dire che era, se non fossi stata così maledettamente attratta da lui, il fratello che non avevo. 
- Allora, dopo ci facciamo una partita all' x-box? - gli chiede papà, gliela leggo negli occhi la felicità.
Io sapevo quanto aveva desiderato quel figlio maschio, quello che morì prematuro e che non ebbero mai il coraggio di provare a rifare. 
- Oh, solo se è l'ultimo modello - risponde Justin, la bocca piena, ma nonostante questo riesce a ridere. 
- E' l'ultimo modello, sono un fanatico almeno quanto te. E ti batterò Justin, lo farò - ride davvero, per la prima volta di fronte ad un mio amico. 
Ma con Justin era diverso, l'avevo capito dal primo istante, lui era diverso, aveva un non so che di speciale. 
- Non credo, davvero, non ci spererei troppo, signor Francesco - fu la risposta. 
- Insomma, la finite tutti e due? Che poi se voglio, gioco io e vi batto entrambi - 
Li vidi guardarsi con la coda dell'occhio, poi scoppiarono a ridere e si diedero il cinque. 
Sferrai un calcio sotto il tavolo, riuscì a colpirli entrambi, lo percepì dalla loro, dolorante, faccia. 
Rivolsi ad entrambi un largo sorriso, loro fecero lo stesso. 
Si alzarono non appena ebbero finito di mangiare e corsero in salotto a giocare.
- No ma tranquilli, tanto la tavola la togliamo io e la mamma, eh - urlai. 
- Ok, grazie - risposero Justin e papà all'unisono. 
La mamma mi strinse in un abbraccio e si avvicinò al mio orecchio.
- Ti piace, non è vero? Piace anche a me - mi fece l'occhiolino, era terribile la somiglianza tra lei e la nonna. 
Non diventai rossa dall'imbarazzo, né il mio viso s'infuocò, alla mamma ero abituata a dirle certe cose. 
- Perché mi conosci così bene? - le dissi, stampandole un bacio ed aiutandola a pulire la cucina. 
Dal salotto provenivano urli di esultanza, e sentì anche qualche parolaccia.
Quando finimmo di sistemare, scendemmo da loro. 
La mamma si stese sul morbido e lungo divano bianco, appoggiata al bracciolo, con il suo fedele libro. 
Io, al suo fianco, ad osservare papà e quel ragazzino che tanto era piaciuto sia a lui, che alla mamma.

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Capitolo 5
*** You played my heart to the beat. ***


La settimana passò velocemente, e assieme ad essa io e Justin coltivammo sempre di più il nostro rapporto, rendendolo, giorno per giorno, più profondo ed intenso.
Avevamo entrambi imparato a conoscerci, a volte c'erano stati addirittura dei momenti in cui ci fissavamo, senza parlare. Ascoltando uno i silenzi dell'altra. 
Eravamo andati a visitare tanti posti, e tra una chiacchiera e l'altra, lui mi aveva promesso che, prima della fine del mese, molto attento a non farmi sapere una data precisa, mi avrebbe fatto ascoltare la sua voce. 
Questo pomeriggio saremo scesi con Valentina e Georgia, la sua nuova amica. 
Justin mi aveva accennato di voler chiedere di uscire anche ad un suo compagno, Ryan, ospite del mio migliore amico. 
Gli avevo detto che per me era indifferente e così, ora, ognuno di noi era nella propria stanza a prepararsi. 
Avevo già fatto la doccia, e sentito l'acqua gelida scorrere sul mio corpo. 
Ora ero alla solita scena: braccia incrociate rivolte verso le ante aperte dell'armadio. 
Alla fine, scelsi di mettere un vestitino blu elettrico. Era stretto nel suo lato superiore, ma aveva un rigonfiamento, come una sorta di palloncino che partiva dalla vita alle ginocchia. Infilai le ballerine al piede e mi truccai al solito modo leggero. 
Spalancai la porta della mia camera e mi diressi verso quella di Justin.
- Ti muovi? - urlai, appoggiata con un fianco al muro - possibile che sia io a dover sollecitare te? - 
- Eccomi, scusa, dovevo farmi ancora più bello - allungò la mano avanti al suo viso e finse che fosse uno specchio - Ok, può andare - rise come un pazzo.
Non potetti fare a meno di ridere anche io. 
Aveva indossato una felpa larga, bianca che però sfumava nel celeste, e portava la stessa targhetta della prima volta che lo vidi, aveva un bermuda largo e marrone, e delle scarpe di gran lunga più grandi dei suoi piedi. I capelli spettinati erano in parte coperti da un cappellino, anch'esso marrone.
Era il suo stile, e gli donava.
- Dai, andiamo, è già tardi - gli camminai avanti, non sentivo rumore di passi dietro di me e mi girai. Justin era rimasto fermo, imbambolato. 
Gli andai incontro e gli diedi una spintarella. 
Niente, continuava a restare lì, come un coglione. E per di più mi guardava a bocca aperta. Lottavo con me stessa per cercare di fare la seria, ma era impossibile, avrei sfidato chiunque a non ridere per più di un minuto alla presenza di quel ragazzo. 
- Che c'hai? - gli chiesi, mentre continuavo a ridere.
- Niente, sei bella. Tutto qui - mi disse, con una perfetta sfacciataggine, come se dirlo non gli fosse costato niente, neanche un pò di imbarazzo.
Abbassai lo sguardo, sentì un calore invadermi il viso. 
Justin fece qualche passo avanti e si fermò non appena fu a pochi centimetri da me, mi tirò su il viso con la mano e subito dopo ci guardammo intensamente, per qualche minuto, forse. Sentivo il suo respiro sulla mia bocca, il suo naso che sfiorava l'estremità del mio. 
Fui sollevata quando la voce di mia mamma rimbombò fino a dov'eravamo, perché quella scena mi aveva messo imbarazzo, e per giunta, dovevo lottare con me stessa per non cedere alle sue soffici labbra.
Ci guardammo per un altro istante, poi scendemmo assieme le scale, accompagnati dal sonoro scricchiolio del legno di cui erano fatte. 
- Noi andiamo, ciao mamma - urlai, con la speranza che mi avesse sentita.

Stavamo aspettando che un tavolo per sei persone si liberasse fuori ad un pub nei paraggi, non ci avevamo messo parecchio ad arrivare, o almeno, con Justin al fianco era stato più piacevole di quando ci venivo da sola. 
- Prego ragazzi, il vostro tavolo - esordì il cameriere, la mano volta ad indicare l'unico tavolo libero in un giardino dietro il locale, sistemato sotto un gazebo. 
Ci fece strada e ci sedemmo, occupammo solo quattro posti perché Valentina era, come suo solito, in ritardo. 
Fu solo in quel momento che passammo alle presentazioni. 
- Ryan, lei è Alessandra, chiamala Ale altrimenti s'incazza - sghignazza Justin rivolto verso il suo amico. 
Gli accenno una smorfia, mista in una risata e afferro la mano che Ryan mi pone.
- Oh, allora piacere Ale, pronuncia bene il mio nome altrimenti picchio Justin - mi dice Ryan. E' più idiota dell'amico. Poi continua. 
- Justin, questo è Francesco, chiamalo come cazzo vuoi - ride e da uno schiaffetto al mio migliore amico. 
Cacciai il cellulare dalla tasca, ignorando le voci di quei tre attorno al tavolo, che un secondo mi entravano nella testa, e quello dopo tornavano ad uscire. 
Digitai il numero di Valentina, con un'espressione leggermente adirata, e attesi una sua risposta. Dopo una serie di squilli, aveva attaccato. 
Mi resi conto del motivo solo quando la vidi girare l'angolo, seguita da Georgia. 
Si sedettero, Valentina accanto a me e Georgia dall'altro lato, accanto a Justin, che si girò immediatamente per stamparle un sonoro bacio su tutte e due le guance.
La cosa mi infastidì, ma più di tutto mi saliva il sangue alla testa nell'osservare il modo in cui lei lo guardava, lo divorava con lo sguardo e ovviamente lui apprezzava. 
- Posso portarvi qualcosa, ragazzi? - ci chiede improvvisamente il cameriere, un blocchetto in mano per segnare le nostre richieste. Tutti finirono per chiedere una coca alla spina, compresa me. 
- Perfetto, allora sette alla spina, arrivano subito - ci rivolse un gran sorriso e riportò dentro i Menù sparsi sul nostro tavolo. 
La presenza di quella ragazza che non aveva neanche avuto il buon senso di presentarsi, aveva sovrastato di gran lunga la mia, ed era evidente dato che Justin non mi degnava neanche più di uno sguardo, conservando i sorrisi migliori per lei. 
Ero incazzata nera, e chi, se non la mia migliore amica, poteva accorgersene?
- Ehm, scusate, noi andiamo un attimo in bagno - disse Valentina, piatta.
Mi afferrò la mano e mi costrinse a seguirla, raggiungemmo il bagno e una volta che ci fummo assicurate di non essere alla portata di orecchie indiscrete cominciò.
- Cos'hai? - mi disse, l'aria preoccupata.
- Cos'ho? No ma dico, lo vedi? E già, come si fa a non vedere che è fottutamente preso dall'amichetta tua. Ah, ma io uccido sia lei che lui. Prima lui però. Li sbrano! - cacciai tutto quello che avevo dentro, con la mia migliore amica mi veniva naturale, tutto era più semplice, fu lei a cacciarmele quelle parole di bocca.
- Calmati Ale, non sta andando giù neanche a me tanto quella lì, sai. Da quanto mi hai raccontato vi piacete a vicenda, sceglierà te, alla fine - disse, stringendo entrambe le mie mani. 
- Se sceglierà me, è soltanto perché riceverà un rifiuto da lei. Ma io non sono la fottuta seconda scelta di nessuno. Basta, non mi va più di parlarne. Andiamo - le dissi, prendendo iniziativa, aprì la porta del bagno con tutto lo sdegno del mondo e tornai al tavolo altrettanto sdegnata. 
Justin era lì, che faceva il casanova con lei proprio come almeno un'oretta fa lo faceva con me, le aveva stretto il viso tra le mani e le aveva stampato un bacio sulle labbra, non curandosi minimamente della mia presenza. 
Tirai la sedia verso di me, che quasi cadde a terra per la forza con cui l'afferrai. 
Bevvi quella coca con malavoglia, riservando la mia parola solo a Valentina, l'unica che la meritava. 
- Brutta, mi hai lasciato solo soletto - mi disse Justin dall'altra parte del tavolo. 
Sentì le vene pulsarmi rabbiose ovunque, serrai i pugni e tentai di ignorarlo, proprio come lui aveva fatto con me. 
Feci come se non esistesse finchè non ebbi terminato la mia coca, salutai Valentina con un sussurro, lasciai una banconota da cinque euro sul tavolo, e senza dire una parola mi alzai. 
La strada al ritorno era fredda e buia.
Lacrime minacciavano di rigare il mio viso, ma non glielo impedì, mi avrebbero aiutato a sfogare. 
Mentre proseguivo per il lungo viale, pensai che l'errore che avevo commesso era crearmi delle aspettative su quel ragazzo.

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Capitolo 6
*** You make me fall in love. ***


Sentivo un respiro pesante ed affannato seguire i miei passi, ed immediatamente mi raffigurai un Justin pentito ed ansante, che cercava dannatamente di starmi dietro. 
Sperai con tutto il cuore che non fosse come avevo immaginato, perché davvero non sapevo come avrei potuto reagire. 
Fui costretta a voltarmi quando sentì una mano afferrarmi il braccio. 
- Hey, è tutto apposto? - era Ryan, aveva una mano posata sul cuore, la testa china e l'aria di chi aveva corso parecchio.
Non ebbi il tempo di chiedermi perché fosse venuto proprio lui, lui e non quell' ipocrita, bastardo ed infame, privo di sentimenti. 
- Sì, tutto bene, grazie. - mi limitai a rispondere.
- Non ne vuoi parlare, ti capisco. - aveva un'espressione a dir poco contrariata. 
Infilò il braccio sotto il mio e ascoltò i miei silenzi lungo tutto il tragitto.
- Ecco, casa mia è qui - indicai la prima abitazione bianca sulla destra - allora ciao eh. - gli rivolsi un sorriso incerto. 
- Oh certo, ciao. - mi sorrise e lo vidi voltarsi, intercettai la sua espressione delusa stampata in volto - Quanto mi piacerebbe però… - 
- Cosa? - chiesi. 
- Oh no, l'ho davvero detto ad alta voce? - esclamò, l'espressione vaga - comunque, guardare un film sotto un caldo copertone di pile, e perché no, con una depressa a fianco, c'è una depressa in giro? - mi provocò, i suoi occhi color cioccolato giravano in tutte le direzioni. 
Lo guardai divertita e lo invitai ad entrare. 
- Non sono depressa! - dissi, indignata, dandogli un leggero pugno sulla spalla.
Non so chi l'avesse mandato e per quale assurdo motivo, ma fu capace di farmi tornare il sorriso e gliene fui infinitamente grata. 

Eravamo entrambi sul divano. 
Io, appoggiata contro il bracciolo, le gambe incrociate ed il volto tra le mani. 
Lui, le gambe stese sul tavolino d'appoggio, il braccio avvolto intorno alle mie spalle ed una ciotola gremita di pop-corn nella mano libera. 
- Vuoi sapere che mi ha detto? - esordì Ryan, gli occhi fissi sullo schermo. 
Non risposi e probabilmente lo prese come un si, perché continuò. 
- Ha detto che non era mai stato così bene con una ragazza, e in così poco tempo. - mi accarezzò dolcemente il viso. 
- Oh davvero? ma che carino! - lo presi in giro. 
Accadde in un attimo. Si alzò di scatto e mi lanciò il cuscino in pieno volto. 
Feci lo stesso, lui mi mostrò i suoi addominali ben scolpiti e mi prese in braccio come fossi un sacco, corse con me indosso per tutto il salotto e poi cadde sfinito sul divano, per poi ricominciare.
Non so per quanto tempo andò avanti, ma so per certo che eravamo davvero felici, come dei bambini che per la prima volta sperimentano il piacere del divertimento. 
Questo ragazzo era arrivato al momento giusto, mi dissi, mentre lo guardavo dritto negli occhi, dentro i quali non si celava niente che lo potesse tradire, ma soltanto infinita sincerità. 
Non mi aveva voltato le spalle, aveva corso senza fermarsi per formularmi una domanda di cui, forse, già conosceva la risposta, già sapeva che gli avrei mentito, e tuttavia l'ha fatto.
Pensai che da quanto tempo conosci una persona non è poi così importante, la cosa fondamentale è ciò che ti trasmette nel tempo in cui la frequenti, anche se è poco.

Aprì gli occhi alle undici del giorno dopo, ero nel mio letto. Non sapevo chi mi ci avesse portato.
Feci peso sulle mani per alzarmi, e sentì la carta di un biglietto al tatto, lo lessi, avevo la voce impastata di sonno.


"Ho segnato il mio numero nella rubrica del tuo cellulare.
Se hai bisogno, chiama. Ryan."


Sorrisi istintivamente, quel ragazzo era un vero tesoro.
Sussultai quando lo vidi. 
Appoggiato con la schiena al muro c'era Justin, sentivo il suo sguardo penetrante addosso, lo sentivo dappertutto, ma decisi di ignorarlo. 
Aprì la porta e feci per uscire, ma quando fu abbastanza vicino per farlo, afferrò la mia mano e fece sì che le mie dita combaciassero con le sue.
Non mi mossi, non perché mi piacesse, ma volevo che fosse lui a fare la prima mossa.
Mi trasse pericolosamente a se e mi guardò negli occhi, feci lo stesso accorgendomi di non vederci più quel color nocciola intenso come qualche giorno prima, ma solo due occhi privi di emozioni.
Se ciò che provavo per Justin era cambiato tutto in un giorno ancora dovevo capirlo, ma fatto sta che delle farfalle continuavano a vorticare nel mio stomaco, e il mio cuore cominciò a battere irregolare, nonostante ora come ora non provassi nient'altro che totale disprezzo.
- Scusa - ammiccò.
- Non ci siamo fatti delle promesse, non devi chiedermi scusa. - risposi senza guardarlo, totalmente impassibile.
- La mia promessa io l'ho fatta in silenzio. - disse, girandomi delicatamente il volto con la mano. 
- Ma andiamo, è il meglio che sai fare? - lo provocai. 
- Non proprio. - 
Sentì le sue mani calde scivolare sui miei fianchi, fece un passo avanti e il suo naso sfiorò, di nuovo la punta del mio. 
Fu un attimo. 
Le sue soffici labbra gioirono per un attimo sulle mie, ma quando successe, il palmo della mia mano esultò freneticamente, appiccicandosi sul suo viso una volta trionfante, lasciandolo di stucco.
Riuscì a incontrare la delusione regnare nei suoi occhi.
- Sono uno stupido per tante ragioni, ma la prima è perché ti ho lasciato scappare così. Non me lo perdonerò mai, e il tuo pensiero mi tormenterà sempre. Sono rimasto a guardarti dormire dalle tre di questa notte, e non mi ero ancora stancato quando ti sei svegliata. Potrei farlo ancora, ma è ovvio che tu non mi v… - 
- Zitto. - appoggiai l'indice sulla sua bocca e mi avvicinai. 
Allungai le mani attorno al suo collo e cedetti alla volontà delle mie labbra, che si appoggiarono frenetiche alle sue. Avrei potuto giurare di aver sentito Justin sorridere sotto quel bacio.
La sua lingua rincorse la mia per qualche istante, per alcuni attimi in cui mi resi conto di non essere mai stata così contenta, e quando mi staccai gli lessi la stessa felicità negli occhi, che mi confermava il suo pentimento. 
- Hai gli occhi lucidi. - mi disse, con quel sorriso che mi era mancato tanto. - 
- Oh, sei patetico. E' impossibile. - provai a mentire. 
Rise e mi avvolse in un abbraccio, indietreggiammo e sprofondammo con un tonfo sordo sul letto.
Si mise al mio fianco e mi guardo, spostando una ciocca di capelli ribelle dal mio viso. 
Mi baciò la guancia più volte, e infine mi stampò un ulteriore bacio sulle labbra.
Se ne andò lasciandomi distesa sul letto a rimurginare per qualche istante, quando tornò aveva un'iPod stretto in mano, le cuffie alle orecchie, una mano sul petto e l'altra tesa verso di me.
- La nostra canzone. - disse.
Mosse le labbra e ne uscì una voce meravigliosa, un suono che mai, mai era arrivato alle mie orecchie. Una voce che penetrò negli abissi del mio cuore, inondandomi di brividi che mai, mai avevo ospitato sul mio corpo.

"I'm into you, and girl no one else would do, cuz with every kiss, and every hug, you make me fall in love.."








Ecco il sesto capitolo, la storia si sta lentamente sviluppando, offrendo spazio ad un bacio e alla nascita di una nuova amicizia che continuerà a fortificarsi.
Grazie alle 7 persone che hanno messo questa storia tra le preferite e alle 3 che la seguono. Davvero ragazze, significa davvero tanto per me! :D
Fatemi sapere che ne pensate del capitolo. 
Much love :) XxX
A. 

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Capitolo 7
*** Never felt this way before. ***


- Wow. - dissi, mentre l'ultimo brivido mi percorreva la colonna vertebrale. - Soltanto wow. - 
Amavo davvero la musica, ma non avevo mai ascoltato nulla del genere. 
Quella voce non poteva rimanere il semplice passatempo di un quattordicenne, non l'avrei permesso. 
Se Dio aveva donato quella spettacolare dote a quel ragazzino, mi dissi, era il momento di sfruttarla.
Fu allora che la mia mente prese a girare vorticosamente, la realtà sfumò davanti ai miei occhi e sfiorai il sogno di Justin tra le mani, era tremendamente vicino. 
- Hey, hey - tornai bruscamente alla realtà, mettendo a fuoco un Justin divertito che mi pizzicava il braccio. - Wow cosa? - mi chiese. 
- Wow tu, la tua voce, anzi! - ammiccai. 
- Oh sì, niente di che. - rispose, con un tono di ridicola finta modestia. 
- Andiamo, non fare lo sciocco, Justin! Non permetterò che il tuo talento finisca per essere dimenticato. - gli dissi, mentre afferrai una delle sue felpe e la infilai. - Resta qui. - continuai, e le mie labbra sfiorarono le sue in un tocco leggero. 

Bussavo ripetutamente il campanello di casa Montuori da più di cinque minuti, e la speranza che qualcuno mi aprisse stava lentamente svanendo.
Ma riapparve non appena girai i tacchi e feci per andarmene, perché quasi allo stesso istante sentì la porta alle mie spalle spalancarsi. 
- Ale! Che ci fai qui? - era Francesco, aveva una maglietta stropicciata appoggiata sulla spalla e la faccia di chi era appena stato svegliato.
- Scusa se ti ho svegliato, Ryan è qui? - chiesi torva. 
- Si, a proposito, scusa se l'altra sera non sono venuto io a.. - cominciò, ma la sua voce fu sovrastata da quella di Ryan. 
Aveva una faccia compiaciuta mentre scendeva le scale per raggiungerci.
Ero sulla soglia di casa Montuori, per l'unico Butler che ci abitava, mi dissi, era ovvio che fosse entusiasta.
- Quanto mi sei mancata! - esordì lui, avvolgendomi in un caloroso abbraccio. 
Mi sollevò per le gambe e alzò la testa per guardarmi, di conseguenza io appoggiai le mani sulle sue spalle come leva per non fargli troppo peso. 
Intercettai lo sguardo ebete di Francesco, aveva perso tutto il trionfo che gli avevo letto negli occhi quella sera al pub, e mi sorpresi nel trovarmi contenta.
- Devi venire, Ryan, ora! - dissi, non curandomi degli sguardi furiosi che lanciava ad entrambi il proprietario di casa.
- Cosa? - 
- A casa mia, sbrigati! - 
Lui parve colto di sorpresa, ma poi salutammo entrambi Francesco, e vidi Ryan rivolgergli un sorriso incerto prima di lasciare che lo trasportassi.
- Si può sapere cosa sta succedendo? - mi domandò, sbarrandomi la strada per impedire che continuassi a camminare senza dargli spiegazioni.
- Dopo - la sua espressione cadde in un misto di euforia e delusione, quando si arrese si mise di nuovo al mio fianco.
- Ci ho fatto pace, sai. - dissi, le mani nelle tasche del felpone di Justin.
- L'ho saputo un secondo dopo che è successo. - rispose, con un largo sorriso.
- Come? - chiesi, certa di non aver capito bene.
- Io e Justin viviamo teoricamente insieme anche quando praticamente non lo siamo. - tentò, certo che quella risposta mi sarebbe bastata.
Fu esattamente come aveva previsto.

La mia mente vagava, girava vorticosamente verso una soluzione, una via d'uscita. 
Ma certo, come avevo fatto a non pensarci prima? 
Mi vennero immediatamente in mente dei ricordi che solo un attimo prima pensavo di aver sepolto. 
Era tutto più nitido, adesso.
Mio zio, pensai: trentotto anni, uomo d'affari nonché direttore di un'importante casa discografica Londinese, avrebbe di certo avuto le conoscenze necessarie per lanciare Justin verso il successo.
Tuttavia mio padre non ne parlava spesso, anzi, di quel quasi inesistente zio non ne parlava quasi mai, ma ero certa che in fondo avesse ancora dei contatti con lui, ero certa che avrebbe potuto accostarlo nuovamente alla famiglia. 
Era anche nel suo interesse, mi dissi, se c'era un essere vivente su cui poteva guadagnare dei soldi, quell'uomo non avrebbe esitato un secondo ad accoglierlo tra le sue grinfie..
- Perché? Perché non mi avevi mai fatto ascoltare la forse unica cosa di cui puoi vantarti? - scherzò Ryan con Justin, riportandomi senza saperlo alla realtà.
- L'unica cosa prima del basket, dell'hockey, del calcio, ah e del mio bel faccino, certo. Perché non ne ho mai avuto l'opportunità. - rispose, con tono totalmente indifferente.
- Mr. modesto, smettila! Prima della fine del mese ti esibirai avanti a mio zio - dissi, con fare eloquente.
- Cosa? No, assolutamente no. E poi che c'entra tuo zio? - chiese, spaventato.
- Il direttore di una casa discografica c'entra sempre, credo. - risposi, con un tono che evidenziava a pieno ciò su cui volevo andare a parare.
Justin e Ryan tacquero, ed io mi unì a loro in quel tacito momento con piacere, approfittandone per tornare alle mie fantasie.

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Capitolo 8
*** Ain't nothing that's ever gonna stop us. ***


- Allora, squilla? - chiesi impaziente.
- No, è occupato - fu la risposta di mio padre, la stessa che mi aveva dato almeno un'abbondante decina di minuti fa. 
- Ma con chi parla? E' un'ora che proviamo! - dissi, i pugni serrati e i denti stretti.
- Possiamo sempre riprovare più tardi - tentò mio padre, cercando di placare la mia impazienza mista di rabbia, - e poi - aggiunse - non mi hai ancora detto il motivo di tanta fretta. - incalzò, aggrottando le sopracciglia.
- Vorrei spiegarti, papà, ma ora devo proprio andare - esordì, indietreggiando di un passo ad ogni parola.
- Non voglio costringerti a dirmelo adesso, ma non ti nego che se lo farai, faciliteremo molto le cose - disse, con tono quasi supplichevole.
Mi arresi al suono della sua voce, e cercai di articolare perfettamente il mio discorso, per non rischiare di doverlo ripetere una seconda volta.
- Justin possiede doti per la musica, ha una bella voce e sa suonare vari strumenti, pensavo che lo zio potesse aiutarci, sai, il dirett…- iniziai, ma prima ancora che potessi finire la sua voce sovrastò la mia.
Esitò un momento prima di parlare, ma poi si decise: - Ma è fantastico! Sapevo che quel ragazzino era speciale, l'avevo detto, io! Provo a chiamare finché non risponde, anche all'infinito se è necessario, tu vai, andate, ci penso io! - esclamò.
Mi girai per prendere la giacca dalla sedia, e mentre lo stupore di quelle parole iniziava a farsi vivo dentro me, immaginai il viso di mio padre contorsi in un grosso sorriso. 
Mi invase una sensazione di assurda felicità, un'eccitazione mai provata prima, mi sentivo ridicolmente forte con l'appoggio di mio padre, sentivo di riuscire a concludere qualunque cosa mi capitasse tra le mani, adesso.
Feci mente locale e dopo pochi attimi ricordai che Justin era a casa di Francesco, con Ryan. 

- Goal! Sei a zero per me, ti basta o continuo ad umiliarti? - esclamò Justin rivolto a Ryan, con il joystick in una sola mano ed un'espressione di assurda fierezza.
- Solita fortuna dei principianti - rispose Ryan di rimando, cercando in tutti i modi di far trasparire il suo nervosismo, ma con evidenti scarsi risultati.
- Manca poco dai, non puoi recuperare, molla, tocca a me! - si intromise Francesco, allungando il palmo della mano verso Ryan.
- Smettetela! - li zittì io con fermezza.
Si fermarono di botto, e Justin prese iniziativa spegnendo l'x-box, ignorando poi l'espressione contrariata di Francesco.
Justin fece un passo verso di me e afferrò la mia mano, si trascinò verso il divano e si stese, allargò meccanicamente le gambe, lasciandomi lo spazio per sedermi. 
Afferrò il mio viso e fece sì che il suo petto mi facesse da cuscino, e prese ad accarezzarmi dolcemente i capelli. 
Incoraggiata da quella piacevole scena, decisi di rompere il silenzio.
- Papà è contentissimo della mia idea, la appoggia a pieno, e a quest'ora dovrebbe già aver parlato con lo zio! - incalzai.
Sentì che il cuore di Justin a momenti potesse lacerargli il petto e fuori uscire da quella gabbia, batteva forte e percepì la sua tensione. L'espressione di Ryan si trasformò, era eccitato almeno quanto me. 
- Ho sempre cantato per… voglio dire, sempre e solo per divertimento. Non credo di essere all'altezza, nessuno si metterebbe in gioco a tal punto da farmi firmare un contratto. - disse Justin, intimorito.
Mi girai di scatto per guardarlo, i miei occhi azzurri incrociarono per un lungo istante i suoi color nocciola, limpidi, vivi, pieni di emozioni.
- Tu sei all'altezza. - mi limitai a dire.
Strinse la mia mano ed io feci lo stesso, vivendo a pieno quel momento, pensando che tra soli sette giorni non avremmo più respirato la stessa aria, che tra una settimana mentre lui mangiava, io ero a letto a dormire, e magari a sognare di noi.
Dovette percepire la mia paura, perché si alzò di scatto costringendomi a seguirlo, dopo pochi attimi eravamo in una stanza piccola e illuminata dalla sola fioca luce del sole.
Mi prese le mani ed io non esitai un momento a cingerle attorno al suo collo, lui appoggiò le sue lungo i miei fianchi ben delineati, mi guardò intensamente, ed io sostenni il suo sguardo.
- Me ne andrò, ma non ci lasceremo davvero. Lo sai questo, vero? - disse in un sussurro.
Sentì una lacrima minacciare di scendere, e subito abbassai lo sguardo, posandolo su un punto impreciso del pavimento.
Poi il tocco della sua morbida mano sul viso, il suo respiro quasi sulle labbra fecero sì che quella lacrima vincesse quella battaglia che da quando eravamo entrati in quello stanzino, stavo lottando senza dare a vedere.
Scese senza esitazioni, senza vergogna, l'asciugai con la manica della felpa e sentì Justin tirare su col naso. Non avevo il coraggio di parlare.
- Non mi sono mai sentito così, prima d'ora, così.. bene, dico. Siamo come Bonny e… -
- e Clyde - continuai io per lui, sentendomi improvvisamente meglio.
- Esatto, nessuno può fermarci, o almeno non una cosa stupida come la distanza. Se ci vogliamo bene, lo faremo anche a migliaia di chilometri. - disse, tutto d'un fiato.
Qualcosa dentro di me mi disse che tutto ciò di cui avevo bisogno era un suo abbraccio, così lo strinsi forte e guardai per quelli che mi apparvero anni, il mondo tra le sue braccia.
I nostri cuori battevano all'unisono, forte, e mi apparve quasi una ribellione, come se anche loro avessero bisogno di stringersi, di unirsi per completarsi l'uno con l'altro. 

Quando ci staccammo le lacrime erano cessate, ora lui mi sorrideva ed io non potendone fare a meno ricambiavo.
Justin fece per aprire la porta, ma io fui pronta a bloccare il suo movimento.

- Non dimenticarmi, quando diventerai famoso. - dissi.
Questa volta fui io ad andarmene, lasciandolo fantasticare su quelle ultime parole, pronunciate con la convinzione di chi raccomanda un qualcosa che accadrà per certo.
Mi accorsi che il cellulare aveva vibrato perché sentì un fastidioso formicolio percorrere il mio corpo in tutta la sua lunghezza. Lo tirai fuori dalla tasca e lessi il messaggio di mio padre.
"Dopo insistenti tentativi di chiamate, mi ha risposto una voce femminile, che ho scoperto essere quella della sua segretaria. Mi ha dato l'indirizzo dello studio discografico a Londra, ed un eventuale numero di telefono in caso non dovessimo trovarlo. Partiremo questa notte alle quattro. Ricorda che i sogni non cercano le persone, ma sono queste ultime ad inseguirli, dillo a Justin. A dopo."
Londra, questa notte, alle quattro, che cos'era, uno scherzo poco divertente o un sogno che si realizzava?
Corsi immediatamente in salotto, e li trovai li, seduti sul divano a giocare. Piombai davanti a loro, ostacolandogli la visuale dello schermo.
- Qualcuno mi dia un pizzico, ora! - dissi, non curante delle loro espressioni incerte.
- Un pizz… cosa? - chiese Ryan, perplesso.
- Tu fallo! - 
- Hai la febbre? - mi domandò Justin, con la faccia di uno che stava faticando parecchio, per non scoppiare a ridere.
- Lascia stare! - mi pizzicai la guancia provocandomi un dolore che mi fece capire che quello che stavo vivendo era tutto tranne che un sogno.
Osservai le loro tre facce per un minuto prima di farli sobbalzare col suono della mia voce squillante.
- Le valige non si prepareranno da sole! - ammiccai, rivolta verso Justin. 
Al suo sguardo, se possibile ancora più perplesso di prima, pensai che non c'era dimostrazione migliore di mostrargli il cellulare col messaggio di mio padre sotto il naso.
Fu esattamente quello che feci e quando terminò la sua lettura, alzò lo sguardo verso di me, ed intercettai i suoi occhi, increduli di ciò che avevano appena avuto il piacere di leggere. 
- Londra? - urlò. - Ciao, ciao fratelli - disse, rivolto verso i suoi amici, che annuirono senza capire.
Non ebbi neanche il tempo di salutarli, perché Justin afferrò il mio braccio e mi trascinò verso la porta, una volta fuori riuscì a percepire l'aria gelida invadermi i polmoni.
Justin strinse la mia mano e prese a correre verso il vialetto di casa mia, che sembrava ormai conoscere a memoria, sentivo il fruscio del vento nelle orecchie, osservavo le foglie scivolare lungo i marciapiedi quasi fossero impaurite, percepivo il vento battere forte contro il mio viso, scompigliarmi i capelli, ma con la mia mano in quella di Justin, sentivo che nessuno avrebbe potuto fermarci, non ora. 


 

Salve mie care lettrici! 
Scusate se vi ho fatto aspettare tanto per quest'ottavo capitolo che, modestia a parte, secondo me non è neanche un granché, perciò vi chiedo nuovamente scusa per questo. 
Ci tenevo a ringraziare coloro che hanno recensito questa storia, invogliandomi a continuare a scrivere, e poi per ultime, ma di certo non per importanza a coloro che hanno messo questa storia tra le preferite, seguite e quant'altro. 
Grazie! 
Per questo capitolo mi farebbe un immenso piacere ricevere più recensioni, positive, negative o neutre che siano, ma non pretendo nulla, perciò fatelo soltanto se vi va e ve ne sarò grata. 
Ps. se lo farete vi prometto che sarò più frequente nel scriverli e postarli. 
Grazie! :D
Ale.

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Capitolo 9
*** I'm only me when I'm with you. ***


Nonostante avessi corso per quelli che sembrarono anni, fui lieta di trovarmi appoggiata, benché sfinita, al muro accanto la porta di casa.
Il mio cuore stava iniziando a rallentare i suoi battiti e renderli regolari, e cominciavo a sentirmi meglio nonostante il fiatone.
Sentivo Justin ansimare dietro di me, mi girai e lo vidi toccarsi una costola. 
- Mi fa…male…il…pancreas. - ammiccò, passandosi il braccio contro la fronte bagnata.
Scoppiai a ridere di fronte a quella scena buffa, neanche avessimo corso per mille miglia, eppure eravamo esausti, entrambi.
- Il pancreas, eh? - dissi, sarcastica.
- Non importa. Le chiavi? - chiese, squadrandomi forse per trovare una di loro traccia.
- Le hai tu, andiamo, non fare il coglione. - risposi, cambiando pericolosamente il tono di voce.
- Io? Da quando ho le chiavi di casa tua? - disse, mutando altrettanto la tonalità della sua voce.
In effetti non gli avevamo lasciato le chiavi di casa, semplicemente non ce n'era mai stato il bisogno, e non so adesso per quale assurdo motivo ero convinta che le avesse lui.
- Bussiamo, no? E' tanto semplice. - incalzai. 
Mi fulminò con lo sguardo prima di appoggiare l'indice sul campanello. 
Aspettò in silenzio che per cinque minuti nessuno rispondesse prima di girarsi verso di me, gli occhi fuori dalle orbite.
- E' tanto semplice! - disse, con un'imitazione perfetta della mia voce. 
- Non fa ridere. - replicai, gelida.
- Purtroppo no, chiama qualcuno. - esordì, passandosi una mano nei capelli disordinati. 
- Non darmi ordini! - dissi, spazientendomi. 
- Assolutamente! Restiamo qui a congelarci, è divertente. - replicò, con quel sarcasmo che stava iniziando ad innervosirmi, e non poco.
- Senti, pensavo le aves.. - cominciai, ma non feci in tempo a concludere che la sua voce imminente vinse la mia.
- Sbagliato. - 
- Ho sbagliato, che vuoi fare ora, uccidermi? - chiesi, facendogli notare quanto stesse irritando la mia suscettibilità.
Forse se ne accorse, perché cambiò espressione e si avvicinò a passo incerto verso di me, guardandosi intorno e toccando a tentoni gli oggetti circostanti.
Feci un passo indietro e trovai il muro gelido a farmi sostegno, rabbrividì non appena mi ci appoggiai. E mi maledì di averlo fatto quando mi accorsi di essere in una specie trappola senza via d'uscita.
Justin fece l'ultimo passo che bastava per trovarsi a pochi centimetri da me, allungò le mani e appoggiò i palmi di entrambe sulla spessa muratura in tufo a cui ero appoggiata.
Lo spinsi e cercai di liberarmi dalla sua presa, ma Justin faceva più forza di quanto credevo ne possedesse.
- Guardami. - tentò, dato che il mio sguardo si posava ovunque tranne che nei suoi occhi color nocciola. - Pace? - 
- No, troppo facile. - alzai lo sguardo e indugiai sulla catena che Justin aveva al collo, soffermandomi sulle lettere che vi erano incise.
- Che c'è? Ti piace? - sorrise e in un gesto abile se la sfilò, lasciando che pendesse dondolando dalla sua mano. 
- Si. - dissi, ricordando che quella targhetta gliel'avevo vista indosso il primo giorno del mese, quando c'eravamo stretti la mano per la prima volta.
- E allora vieni a prenderla. - urlò - Se l'afferri, giuro che te la regalo - 
Feci un profondo respiro e richiamai a me tutta la forza che avevo nelle gambe, lasciai cadere la borsa pesante che avevo al collo, e quando atterrò sulla strada fui sicura di aver sentito un tintinnare prolungato di quello che mi apparve un mazzo di chiavi, ma non me ne curai.
Corsi finché non lo raggiunsi, mi aggrappai alle sue spalle e cademmo entrambi, lui sotto e io sopra.
Lo guardai intensamente come a sfidarlo di non distogliere lo sguardo, mi posai sulle sue labbra e allungai la mano verso la sua, lui l'aprì e lasciò che afferrassi la collana. 
- Presa! - esclamai, attenta a non far trasparire il mio entusiasmo. 
- Brava, ora è tua, così ti ricorderai di me quando saremo lontani. - disse sottovoce.
"Quando saremo lontani", quelle parole erano le ultime che avrei voluto arrivassero alle mie orecchie, il fatto che un giorno saremo dovuti essere lontani mi rendeva infinitamente triste e malinconica. E non volevo darlo troppo a vedere, così cambiai discorso con un'agilità che stupì anche me stessa.
- Sono pesante? - gli chiesi. 
- Neanche un pò. - rispose prontamente lui.
- Mi sposto lo stesso. - dissi, e mi distesi a terra anche io, al suo fianco, non curandomi del fatto che eravamo stesi in mezzo alla strada con un'eccezionale disinvoltura.
- E se passa una macchina? - incalzò Justin, divertito.
- Moriamo. - risi io.
Rigirai più volte nella mano quella targhetta d'acciaio, poi la strinsi e la portai all'altezza degli occhi. 
Sopra, incise a caratteri cubitali c'erano due lettere, frutto di un lavoro eseguito con particolare finezza: c'era una 'J' ben ricamata, e una 'B' , le sue iniziali. La infilai e sentì il tocco gelido dell'acciaio contro il mio petto, che mi portò bruscamente alla realtà.
- Che ore sono? - chiesi. 
- Quasi le tre. - replicò Justin, calmo. 
Mi alzai di scatto e corsi, se possibile più veloce di prima, afferrai la borsa e dopo molteplici tentativi trovai le chiavi.
- Le ho trovate! - urlai.
- Cos.. wow. - biascicò Justin, alzandosi a fatica e correndo a sua volta verso di me.
Le infilai nella serratura e girai. Lo spettacolo che mi si presentò avanti mi fece riflettere e mi domandai se erano effettivamente davvero le tre di notte.
Una valigia aperta era ai miei piedi, almeno una decina di paia di calzini e mutande erano sparsi disordinatamente sul pavimento, dalla cucina proveniva un intenso e piacevole odore di frittelle, e lo stereo cantava a tutto volume. 
Mi feci largo in quella confusione di indumenti sparsi a casaccio, e spensi lo stereo. Dall'altra parte della casa arrivò una voce debole ma chiara.
- Perché hai spento lo stereo? - era mia mamma.
- Mamma, sono io! - dissi di rimando, urlando perché mi sentisse.
Sentì dei piedi scendere di corsa le scale e un attimo dopo la mamma atterrò in salotto in vestaglia. 
- Che razza di fine avevate fatto voi due? - urlò, come se stesse ancora dall'altra parte della casa e avesse timore che non la sentissi.
- Eravamo chiusi fuori la porta, non trovavo le chiavi! - mi giustificai subito.
- Hanno inventato un campanello! - replicò lei, piatta.
- Un campanello che tornerebbe sicuramente utile se lo stereo fosse impostato ad un volume moderato. - dissi, senza troppi complimenti.
Con quella risposta l'avevo decisamente spiazzata.
- Avete meno di mezz'ora per preparare le vostre cose. Sbrigatevi! - disse, girò i tacchi e salì di nuovo le scale.
- Sì, mezz'ora - cantilenò la voce di mio padre dalla cucina. 
Guardai Justin perplessa, poi seguì immediatamente i passi di mia madre e salì anche io. Dentro di me regnava il panico più totale, ero certa che in trenta minuti non sarei riuscita neanche ad aprire la valigia.


Salve mie care lettrici!
Come potete constatare voi stesse questo è un capitolo di transito, il prossimo sarà quello del viaggio per Londra, non ho ancora scritto il decimo, ma ci sto pensando e voglio che vi sorprenda tutte e vi invogli a leggere.
Grazie a chi ha recensito questa storia, a chi l'ha messa tra le preferite e chi tra le seguite, significa tantissimo per me!
Mi farebbe piacere se il numero di chi recensisce aumentasse, dai vi prego (?)
Fatemi sapere cosa ne pensate. Much love.
Ale. 

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Capitolo 10
*** Nothing great comes so easy. ***


Fui lieta di constatare che non fu esattamente come avevo previsto, che sia stata la voglia di salire su un aereo e giocare a rincorrermi con un sogno o l'eccitazione di un viaggio non previsto non seppi dirlo, ma non solo in mezz'ora avevo preparato per bene tutte le mie cose, avevo trovato anche il tempo per andare a salutare i miei due migliori amici. 

Casa Montuori fu la prima tappa, non per scelta, semplicemente perché precedeva quella di Valentina e benché fosse notte fonda, trovai Francesco e Ryan ancora svegli a giocare, e allora fui certa che il cielo avesse decisamente sbagliato la tonalità del suo colore e che la luna avesse fatto la prepotente non volendo lasciare spazio al sole, ma mi convinsi che non era così quando, una volta varcata la soglia della porta, mi chiesero all'unisono cosa ci facessi esattamente in giro in un'ora così tarda. 

Ero rimasta con loro per un po', rimurginando sul possibile posto di Londra in cui saremmo andati per lasciare l'indirizzo a Ryan semmai sarebbe voluto venire a stare con noi, ma non conoscendo la benché minima cosa sul mio destino, gli promisi soltanto di farglielo sapere.

Quando mi accorsi che se non fossi andata via non avrei fatto in tempo ad andare dalla Vale, girai i tacchi e tornai sui miei passi, le mani nelle tasche dell'enorme felpa di Justin, i denti che facevano a cazzotti tra di loro e la pelle d'oca, l'aria era gelida.

Aspettai al numero 5 per almeno un'abbondante ventina di minuti prima di arrendermi e andarmene, lasciai un messaggio a Valentina e tornai verso casa.

Camminavo a testa basta come se potessi evitare che il gelo penetrasse in ogni parte di me, quindi mi accorsi che un Justin ansante correva verso di me soltanto quando mi atterrò davanti ai piedi. 

- Giri notturni? - esordì, un sorriso incerto stampato in volto.

- Nessun giro, sono andata a salutare. Magari sarebbe carino se lo facessi anche tu. - dissi, piatta.

- Magari sarebbe stato carino se mi avessi avvertito. - rispose di rimando, le sopracciglia aggrottate.

- Levati. - dissi soltanto, spingendolo di lato in modo da avere la strada libera.

Mi si piantò di nuovo avanti e prese a fissarmi, era impossibile reggere il suo sguardo, così fissai nel vuoto, il capo chino.

- Cos'hai? Non devi seguirmi per forza, se non vuoi. - proferì, cercando il mio sguardo, forse provocandomi.

- Se non voglio, dici? Se non avessi voluto non avrei messo su tutto questo casino, Io ho sol.. - articolai il mio discorso tutto d'un fiato, ma la sua interruzione arrivò puntuale.

- Non dirlo, non lo fare. - ammiccò.

- Devi saperlo, io ho paura, paura di perderti, paura di essere dimenticata. Mi sto fidando di te. - dissi, vociando confusamente, certa che non avesse capito.

Lo interruppi prima che potesse parlare di nuovo.

- E poi voglio Ryan, voglio che lui faccia la sua parte in quest'avventura, voglio averlo accanto, portamelo. - sbottai, incrociando finalmente il suo sguardo.

Lui non rispose, e allora pensai che forse stavo chiedendo troppo, o anche se era poco lui era convinto di non significare abbastanza per poter realizzare la mia richiesta, così delusa lo spinsi nuovamente al lato.

Sentì la sua mano calda afferrarmi il polso e fermarmi non appena avevo ripreso a camminare, e un incredibile tepore mi invase, sentivo il volto riscaldarsi, ma ero convinta che non c'entrasse niente con il tocco della sua pelle sulla mia, era qualcosa di più, mi sentivo debole ed incredibilmente vulnerabile, e non era una bella sensazione, dopo tutto.

Lo vidi aprire la bocca, ma non emise alcun suono. 

Si schiarì la voce con un colpo di tosse e afferrò anche l'altra mano.

- Andiamo a prenderlo. - biascicò nel mio orecchio, come se avesse il timore di parlare ad alta voce per paura che potessi captare il suo stato d'animo, ero brava in questo tipo di cose.

Lo abbracciai così forte che fui convinta di avergli tolto per un attimo il respiro. Ma ero felice adesso. E anche lui lo era, io lo sapevo quand'è che era felice e quando no, lo sapevo meglio di tutti. Però aveva anche paura, ma quella l'avevo anche io. 

- Speravo proprio mi dicessi una cosa del genere. - dissi, manifestando la mia felicità.

Ryan non fu felice quanto noi quando bussammo ininterrottamente alla sua porta decisi a farlo svegliare, ospitarci in casa al caldo, fargli preparare le sue cose in un nano secondo e caricarlo su un aereo, tuttavia lo fece e superato il grande passo sembrava felice anche lui, almeno quanto noi. 

Lasciò un biglietto scritto a Francesco, che adesso dormiva russando schifosamente, lo ignorai e tutti e tre ci avviammo carponi ma svelti verso l'uscita.

Decisamente non mi andava di percorrere tutta la strada fino a casa per l'ennesima volta, ma camminando al centro tra Ryan e Justin giurai che fu più piacevole di quanto mi aspettassi. Il rientro a casa non fu altrettanto piacevole, e scommetto che per i miei genitori non lo era stato neanche vederci sparire all'improvviso. Già, doveva essere stato terribile, non avere più notizie.

- Non vi meritereste di partire più, nessuno di tutti e due, due… tre… cosa succede? - sbraitò puntuale mia madre, prima urlando e poi abbassando pericolosamente il tono di voce.

- Scusaci mamma, davvero. Lui è Ryan, parte con noi. - spiegai, come se tutto già fosse deciso.

- Si, perché è così facile, non è vero? - sbottò, avvicinandosi di un passo ad ogni parola.

- Calmati, mamma. Lui è il nostro migliore amico, verrà, è così che deve andare. - inveì, con un tono che quasi non ammetteva repliche, beh, non per mia mamma. 

- E' così che dovrebbe andare se avessimo un altro biglietto a disposizione. - si giustificò lei.

- Troveremo un modo, Lily. - irruppe mio padre, stranamente calmo, ma euforico allo stesso tempo.

Era la cosa giusta? partire intendo, lo era? E se poi Justin diventasse davvero famoso, così famoso da dimenticarsi di me? No, non potrebbe. E invece lo farà, alla fine, cosa sono io per lui, per Justin, cosa sono? un'avventura scolastica, tutto qui. E' questo che significo per lui, lui per me no naturalmente, ma come glielo spiego? 

Perché lui è sempre pronto a dirmi quelle quattro paroline dolci, ma fin quando crede che mi basteranno? Io mi stancherò, un giorno. 

E se lui me le dicesse solo per arrivare al suo scopo? Potrebbe essere, ma non lo so e forse c'è una parte di me che neanche vuole saperlo, eppure non posso fare a meno di pensarci.

Porto improvvisamente le mani al volto e scappo in camera, mi faccio una tana con le coperte e rimango ad indugiare. Su tutto, ogni singola cosa. 

Ma era evidente che il tempo stringeva, non potevo permettermi il lusso di pensare troppo a lungo. Quindi non giunsi ad una vera e propria conclusione, e quando ero quasi sul punto di farlo mio padre aveva bussato agitato alla porta vociando confusamente, e allora mi resi conto che non c'era. Una conclusione. 

Ma dopo tutto, chi se ne frega? Avrei rischiato, è così che si fa nella vita.

- Arrivo, arrivo. - mi limitai a dire, e sentì mio padre allontanarsi a grandi passi, lo sentì scendere le scale e quando mi fui sistemata per bene mi decisi ad andare.

Era tutto pronto, ed era assurdo. Lo era davvero, ma alla fine mi andava bene.

Così passarono le ore successive senza che io rivolgessi la parola a nessuno, se non mi avevano concesso di riflettere quando ero al caldo sotto le coperte, dovevano darmi almeno un po' di tempo per farlo adesso, e benché inizialmente insistevano tutti e quattro con le domande, adesso si erano finalmente arresi.

Solo dopo aver stabilito che alla fine se proprio doveva andare tutto male, comunque avrei fatto un'esperienza ed avrei visto Londra, - la città dei miei sogni, dopo New York - decisi di sorridere e parlare amorevolmente con tutti, in aereo, al decollo e anche all'atterraggio. L'atterraggio, eravamo atterrati ed era stato più difficile dirlo che farlo, alla fine.

L'aria era così… così diversa rispetto alla nostra. In realtà tutto era diverso, perché era Londra, semplice. La era tutto bello, c'erano i prati, i bus a due piani, lo Starbucks, China Town, il fatto è che la mentalità è diversa, diversa positivamente. E poi c'erano i ragazzi, quelli belli, quelli che ti tolgono il fiato e devo ammettere che questo era stato uno dei pensieri che mi aveva spinto ad essere così allegra nelle ore precedenti. Non che io abbia bisogno di uno che non sia Justin, certo che no, ma insomma, a quale ragazza sana di mente dispiacerebbe? 

- Forse è da questa direzione che dobbiamo andare - esordì mio padre facendo un cenno con la testa, una mappa alla mano e il trolley nell'altra. Era stato il primo a parlare da quando eravamo arrivati, tutti eravamo stati troppo impegnati ad analizzare ogni singolo particolare di quella, per tutti, nuova città. Era mozzafiato.

Ci ritrovammo davanti ad un tipico appartamento inglese, un Loft, era così che lo chiamavano da queste parti. Da qualche parte avevo sentito che non era solo il nome di un'abitazione, ma che era diventato un vero e proprio stile di vita. 

Quando entrammo non potetti fare a meno di cacciare un grido strozzato, soffocato da me stessa, ne seguirono altri quattro e mi resi conto che quella meraviglia che avevamo avanti non aveva fatto quell'effetto soltanto a me. 

Era un ambiente unico, completamente ricoperto di un bianco ancora più bianco del bianco stesso, non c'erano porte, soltanto archi che dividevano i vani, e a volte non c'erano proprio, era enorme con una TV altrettanto grande, due divani ed una poltrona incorniciavano un salotto perfetto, che mi fece rilassare soltanto a vederlo. 

Mi chiesi come avesse fatto mio padre a sopportare una spesa del genere, non che i soldi ci mancassero, ma quello era troppo anche per noi. 

Lasciai che i bagagli cadessero con un tonfo per terra, e poi corsi ad esplorare ogni angolo dell'appartamento e scelsi io la prima camera, destinata a diventare la mia, prima che gli altri avessero il tempo di reagire alla mia impulsività.

- E' pazza. - sentì la voce di Ryan. 

- Lo è, davvero. - acconsentirono gli altri. 

Forse lo ero, ma avevo analizzato tutte le camere e quella che avevo scelto era di gran lunga la più bella, andai a riprendere la valigia e la depositai a terra ai piedi del letto, la aprì e afferrai un leggero completo intimo, lo infilai e mi concessi di sistemare il bagaglio il mattino seguente, mi infilai sotto il copertone e aspettai finché le mie palpebre non si fecero pesanti. 

Era stato un grande giorno, e domani ne iniziava un altro altrettanto grande ed allettante. 

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