Diari di un Siriano

di Talesteller
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Loneliness ***
Capitolo 2: *** Desolazione di cemento e acciaio ***
Capitolo 3: *** C'è ancora vita in noi. ***
Capitolo 4: *** Bagliori oscuri ***
Capitolo 5: *** Rompiamo questi cieli bui. ***
Capitolo 6: *** Continueremo a combattere ***
Capitolo 7: *** Si leva l'alba ***
Capitolo 8: *** Ghiaccio e acciaio ***
Capitolo 9: *** Incubi di ghiaccio. ***
Capitolo 10: *** Viscere d'acciaio ***
Capitolo 11: *** Boredom ***



Capitolo 1
*** Loneliness ***


16 dicembre 15026, Sirio.
Post dal blog “Awake”, ora locale 22.13
Post rimosso per incitazione alla rivolta.
Blog sospeso per n° 34 giorni locali.
Provenienza: IP 356.089.664


La luce pallida dei fari rischiara le strade ed i veicoli di passaggio, un centinaio di metri qui sotto.
Chi è abbastanza ricco da permettersi un velivolo non vola certo nei bassifondi, rischiando ancora di finire contro un tubo dell’aerazione o, peggio, del gas. Gli unici che passano sono i caccia della Pattuglia Cittadina e i contrabbandieri, talvolta i primi all’inseguimento dei secondi.
I palazzi svettano per non meno di ottocento metri sopra le strade. Da lassù non ci vedono neanche qui, la pressione atmosferica schiaccia a duecento metri d’altezza la polvere e i gas di scarico.
Io sono qualche decina di metri sotto la nube, di un grigio tendente all’arancio.
Mentre scrivo questa roba mi viene da chiedermi se sono in una prigione o cosa. Davanti alla mia finestra non ci sono tubi, solo una decina di metri di vuoto, prima della finestra dell’appartamento opposto, che è chiusa da anni. In alto, non si può andare. Il console di Sirio al Consiglio Imperiale ha annunciato pubblicamente alcuni mesi fa che la nube è altamente tossica, come se non ce ne fossimo già accorti da soli. Gli appartamenti a quell’altezza sono quasi tutti vuoti, gli occupanti sono finiti dritti all’Unità di Soccorso Sanitario o sono morti prima di poterci arrivare, e questo da anni prima dell’annuncio. Quei pochi che ci sono rimasti faranno la stessa fine tra poco.
Le strade sono ben poco sicure. Qui sulle ultime sopraelevate prima della nube c’è abbastanza sorveglianza e ogni tanto qualcuno viene anche a pulire, ma la qualità dell’aria è talmente pessima che è meglio evitare di andare in giro, soprattutto di giorno.
Le strade a terra non sono neanche da considerare.
Non per me, almeno.
Sono costantemente coperte da uno strato neanche tanto sottile di quello che viene da sopra. Fogli, detriti vari, ogni tanto si trova anche qualche computer da tasca funzionante, ma sono per la maggior parte polveri pesanti, sacchi di scorie varie e ammassi di componenti elettronici quasi fusi insieme dal tempo. In più il traffico veicolare è quasi costante. I ricchi abitano in centro e hanno i loro bei caccia o le piccole aeronavi, noi qui dobbiamo aggiustarci con i veicoli.
No cioè, loro, non io.
Io non ho un accidente di mezzo motorizzato.
Potrei comprarmelo, non è un problema di soldi.
Di fatto qui nessuno ha problemi di soldi.
Ma non mi va, l’idea di andare in giro con un veicolo.
Per quel poco che vado in giro io.
Insomma, le strade sono sempre piene di veicoli, con i loro scarichi e quant’altro.
E non mi sogno neanche di scendere laggiù.
Per le rare volte in cui esco ho una bombola d’azoto e un piccolo depuratore d’aria, il congegno che mi ha fatto guadagnare il diploma di tecnico avanzato in chimica inorganica, e uso le sopraelevate sul mio livello.
In giro non c’è mai nessuno.
Questa società è progettata perché tutti possano avere tutto senza muoversi da casa. Ed è lo stesso che faccio io, più o meno.
Lavoro da casa, il cibo lo compro dal Corriere Alimentare Automatizzato, quasi tutto il resto lo acquisto via Rete.
Ma qualche volta sento ancora il desiderio di lasciare queste mura.
A parte la casa, l’unica eredità che mi ha lasciato mio padre è un dispositivo mobile per ascoltare la musica, estremamente comodo anche se lo uso da talmente tanto tempo che è quasi consumato.
Ascolto prevalentemente musica terrestre. Non lo schifo di adesso, quella è musica fatta per ottenere profitto, facendo colpo su vari tipi di pubblico. Quella musica non trasmette niente, è piatta, uniforme.
Uniforme come le menti della gente che non vedo ma in mezzo a cui vivo.
Io ascolto le perle antecedenti all’Apocalisse, la musica conservata dai Pionieri, quella suonata per scuotere gli animi, non per ottenere crediti. Musica forte, i terrestri la definivano “roccia” prima della loro Apocalisse.
La vera forza di questa musica sono però in pochi a capirla.
Non potrebbe importarmene di meno.
Sono cresciuto in modo tale che ora avere il consenso e la compagnia della gente mi è completamente superfluo.
Ho passato l’infanzia a costruire versioni semplicistiche di quello che ho poi costruito all’Accademia Superiore per Tecnici ed Ingegneri.
I miei compagni dell’Istituto per l’Educazione Primaria infantile andavano a giocare nei parchi, allora ancora agibili senza maschere d’ossigeno, mentre io disegnavo e costruivo le navi da guerra che vedevo solcare i cieli. All’Istituto avanzato speravo di poter inserirmi così, di botto, tra gli altri, ma sono stato un’idiota per tutti e tre gli anni.
Non capivo che io non avevo niente a che fare con quella gente, e ascoltavo la loro musica, i loro discorsi, e tentavo di inserirmi tra di loro. Riuscii solo a stringere amicizia con alcune delle ragazze ed uno dei miei compagni. Tutto ciò non andò da nessuna parte. Avere amici comportava volerli mantenere, e io forse non lo ritenevo necessario. O comunque nel caos che regnava nella mia testa non mi rendevo conto che passando le giornate in casa credendo di divertirmi non sarei riuscito a mantenere quelle amicizie. Persi quasi tutti i contatti con una delle ragazze poco dopo aver iniziato l’Istituto per la Formazione Avanzata Giovanile, per alcuni mesi ebbi una cosa simile ad una relazione con una di loro, ma probabilmente, se vi raccontassi in cosa consisteva, mi direste che non era nient’altro che un’amicizia. Persi i contatti anche con lei, e con l’unico maschio che frequentavo. Si perse anche lui nella massa delle coscienze piatte.
Poi, a metà del primo anno all’ IFAG qualcosa cambiò in me.
Non credo nell’amore o cose varie, ma il solo incontrare una persona cambiò qualcosa, anzi, tutto, in me. Nel caos si delineò un corridoio e vi entrai. Lei mi fece finalmente capire chi ero, da quando realizzai che era il primo essere a non essermi completamente estraneo che incontravo. Il primo anno mi comportai però da idiota.
E bastò questo a rovinare gli anni seguenti, in cui mi comportai come si addice verso una persona con cui vuoi a tutti i costi mantenere i contatti.
Quando, alla fine dell’ultimo anno, le dissi chiaro e tondo ciò che provavo, la risposta fu il silenzio.
Poi vennero gli anni del grande caos, i primi anni della Seconda Guerra Galattica. Cambiai una decina di lavori in cinque anni, suscitando una preoccupazione di cui non avete idea nei miei.
Subito dopo il diploma all’IFAG, cercai di riprendere i contatti con l’essere a cui dovevo ciò che ero.
Scoprii che era morta in seguito ad una malattia rara contratta dal fratello.
Mi viene da chiedermi come sia possibile che nel sedicesimo millennio ci siano ancora malattie considerate rare.
Ma non sono qui per parlarvi della mia fottuta vita, l’ho fatto solo per farvi capire come sia possibile che sono arrivato a questo punto.
A trovarmi bene nella mia solitudine.
Non posso parlare della solitudine in generale, non sono un sociologo o psicologo o quello che è, quindi non posso fare un trattato sulla solitudine. Tutto ciò di cui posso parlarvi è la mia solitudine, ossia tutto ciò che conosco.
Secondo voi e i vostri criteri di valutazione sarei probabilmente un fallito. Non ho una compagna, figli, niente di simile ad un amico, salvo una mia parente che vive dall’altra parte della città.
Pensate ciò che volete.
Non ho bisogno di niente di tutto ciò.
La musica è probabilmente ciò che mi permette di sopravvivere e convivere con questo niente con cui convivo, con il silenzio assordante che regna in casa mia e per le strade.
Credo che questo sia perché alcuni testi potrei averli scritti io, tanto sono vicini a ciò che sento e credo. Nella musica ho trovato ciò che non ho trovato nella gente. Qualcosa che mi assomigliasse, in cui mi riconoscessi. Negli autori, qualcuno che credeva in qualcosa in cui credevo anch’io, cose che ho trovato in sole due persone.
Una è morta di una dannata malattia rara, l’altra ha chiuso l’IFAG e l’ASTI con quasi il massimo della valutazione ed ora progetta i sistemi della prossima generazione di navi da guerra dell’Impero, le nuove navi che in teoria dovranno essere completamente automatiche.
La mia solitudine è una scelta. Una scelta di vivere nell’unico modo che conosco, ossia senza costrizioni, libero da qualsiasi vincolo imposto dalla famiglia, dagli amici, dalla società. Essere soli permette di percepire chi siamo e non chi vogliamo far sembrare di essere, percezione che si completa scrivendo un diario. Uno spazio privo di influenze, riservato alla concatenazione dei nostri pensieri. Per quanto la compagnia del gruppo dei pari possa aiutare a plasmarla, la coscienza di ciascuno di noi si forma quando è costretta a fare i conti con se stessa, solo quando non ci sono forze che ci plasmano possiamo decidere quale forma assumere.
Mi capita talvolta di pensare ai miei vecchi compagni, ai loro gruppi, alle loro innumerevoli fidanzate. Mi chiedo cosa possano pensare di me.
Mi rispondo che non m’interessa.
Vivo benissimo così, ho anche imparato a cucinare, essendo costretto a mangiare ciò che cucinavo. E da allora ho iniziato a mangiare anche bene. Sarei abbastanza “ricco” da potermi permettere un caccia, ma non potrei mai mantenerlo, e comunque non ho il brevetto di volo e non ho nessuna intenzione di prenderlo. Non mi serve e non ho nessuno a cui esibirlo come status symbol.
Non ho nessuno a cui dovermi adeguare, nessuno per cui preoccuparmi, nessun impegno da rispettare. Sono me stesso come non potrei mai esserlo vivendo con qualcuno o vedendomi costantemente con uno stormo di amici.
Ed è ciò che dovrebbe fare chiunque di voi. Non adeguarsi a ciò che pensano gli altri, ragionare su ciò in cui vi imbattete, non accettarlo perché tanti altri l’hanno accettato. Maturate una coscienza.
Questa società è come è ora perché fino adesso il denaro ci ha drogati tutti. L’indice di povertà è a zero a Sirio e nei sistemi limitrofi. Bene.
Ora l’Impero spera che avendo i crediti non ci ribelleremo.
Ma si sbaglia, o almeno spero. Una buona parte del popolo Siriano non ha mai sentito parlare di musica, nessuno si è mai chiesto se è giusto che chi vive sotto la nube sia costretto a non superarla mai, nessuno va contro ciò che l’Impero ci vuole far credere per mantenersi alla guida di cento miliardi di Siriani.
Mi hanno già chiuso un centinaio di blog per post simili a questo, ma non mi stancherò mai di combattere.
Se la solitudine è l’unico modo per rendervi conto che ciò che siete stati fino ad ora non è ciò che volete essere, allora accantonate i vostri milleseicento amici che vedete ogni sera al bar di lusso di turno. Rendetevi conto che l’Impero ci sta schiacciando, non i corpi, ma le menti.
Svegliatevi, se non c’è altro modo, trovate la forza per farlo da soli.
Alzatevi e riprendetevi il potere, è tempo di farlo.

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Capitolo 2
*** Desolazione di cemento e acciaio ***


29 dicembre 15026, data locale, Sirio
Post dal blog “A Syrian’s Life”, ora locale 23.55
Post rimosso per propaganda controproducente all’Impero, incitamento alla rivolta e rivelazione di segreto militare
Blog sospeso fino a nuovo ordine
Provenienza: IP 356.089.664.
 
L’unica luce è quella pallida dei riflettori sopra la mia finestra, i riflettori che rischiarano l’esercito di veicoli immobili per le strade, sui trecento metri sotto la mia finestra.
La nube blocca qualsiasi altra luce, e con il passare del tempo lo farà sempre di più, finché noi qua sotto non arriveremo ad essere completamente dipendenti da questi fari bianchi.
Sempre che non decidano di interrompere le linee che gli alimentano.
Potrete non essere d’accordo, ma questo pianeta è uno schifo.
Sono appena stato fuori.
Racconterò ciò che ho visto in strada.
Il mio appartamento da su un corridoio leggermente maleodorante. Fortunatamente, la mia porta è a chiusura ermetica. Il pavimento è costituito da una grata a fori sottili, sotto scorrono tubi di ogni genere. Di tanto in tanto compare qualche robot della manutenzione, a sostituire i tubi o ripararli, ma oggi era deserto. Il soffitto sarà alto un metro più di me, neanche. È un’uniforme lastra di metallo grigio, ai cui margini corrono due file di lampade tubolari che rischiarano il corridoio.
C’è solo un abitante, oltre me, su quel corridoio.
E non l’ho mai visto.
So che abita lì perché all’ingresso di ogni modulo abitativo, e quindi anche del mio corridoio, c’è un display su cui vengono aggiornati in tempo reale gli abitanti di ogni appartamento di quel modulo. Oltre al mio, c’era un solo nome, che dovrei andare a rileggere per ricordarmi.
Quell’uomo non l’ho mai visto.
C’era un periodo in cui uscivo spesso, nell’inutile speranza di trovare un’occupazione stabile. Non l’ho mai visto fuori, e l’unica volta in cui ho suonato alla sua porta non ha aperto.
Una corta rampa di scale collega il mio corridoio alla strada.
Prima della strada vera e propria ci sono le aiuole, che corrono ai lati di tutte le strade di Sirio, comprese quelle aeree, interrompendosi solo in corrispondenza delle connessioni con i moduli abitativi, che prevedono gli appartamenti e posti per i veicoli, che di solito danno direttamente sulle strade.
Il mio non ha mai visto un veicolo.
Lo usavo con un paio di miei compagni come laboratorio quando andavo all’ASTI, più tardi diventò un deposito dove accumulavo gli oggetti che in casa mia cessavano di essere utili e che non avevo voglia di eliminare.
Giusto per avere un motivo per stare fuori più a lungo, controllai che fosse tutto in ordine.
Lo era. Le pile di scatole erano ammucchiate nel giusto ordine, le impilavo e numeravo con una sequenza di mia invenzione, e le bombole d’azoto con cui rifornivo il mio depuratore portatile erano al loro posto. Richiusi la saracinesca e mi avviai lungo le aiuole.
Aiuole di terra importata.
Sirio è il primo importatore di terra dell’Impero.
La città occupa quasi tutto il pianeta, tanto che non ha nemmeno un nome suo. È semplicemente chiamata Sirio.
Quel poco che non è occupato dalla città è protetto da diecimila decreti e sorvegliato meglio del Palazzo Imperiale. Penso che se qualcuno si recasse là e prelevasse della terra lo fucilerebbero, così, senza processo.
Che inutile falsità.
Sommergere di acciaio e cemento il pianeta, e poi rendere i pochi giardini rimasti delle fortezze.
Quei giardini a terra non sarebbero sufficienti ad eliminare i gas prodotti della città, per questo con la terra che importiamo in quantità colossali hanno costruito un migliaio di giardini sparsi per la città, dentro enormi bocce di un qualche materiale trasparente, tenute sopra il livello della nube da pilastri che ospitano centinaia di appartamenti.
In ciascuna di quelle bocce è ricostruito un clima differente, quello di varie zone del pianeta prima che la città le sommergesse tutte. Quell’epoca risale a non meno di cinquemila anni fa, e alcune delle piante nei giardini sul pianeta non sono mai esistite, prima che iniziassero ad importarle.
Recuperare informazioni sulle piante esistenti prima che la città sommergesse tutto è troppo faticoso, quindi vengono importate piante simili a quelle sopravvissute nelle “oasi”, questo il nome con cui vengono descritti i terreni conservati, e vengono spacciate per quelle esistenti sul pianeta cinquemila anni fa.
Nelle aiuole ai bordi delle strade non c’è niente di quello che c’è nei giardini sopraelevati.
Nelle aiuole non c’è niente.
Terra secca e spaccata, e residui consumati di ceppi di alberi morti da tempo.
Anche se la nube è un livello, una decina di metri, più sopra, qui si respirano già i suoi gas, anche se in concentrazioni minori, e c’è una foschia giallognola costante.
Sopra questa strada c’è un solo livello di strade, e non ovunque, quindi guardando in alto riesco a vedere qualcosa, finché i palazzi non si perdono nella nube. Le pareti sono di due tipi: quelle d’acciaio, ondulate e rivestite di resina, sono le più vecchie, e non sono nemmeno più regolamentari. Quelle più recenti sono muri di vetro.
Oltre i quali tutto ciò che si vede sono gli oscuranti abbassati, il più delle volte, ma qualcuno che li tiene alzati si vede ancora, molto raramente. Quasi nessuno usa i vetri oscurati, sono terribilmente antiestetici e ci vuole il permesso dell’amministratore del modulo o del palazzo.
In alto, tutto ciò che si vede è la nube.
Secondo gli scienziati i cui rilevamenti sono stati pubblicati, il livello degli altri gas al suo interno è talmente alto che l’azoto corrisponde al 10-15%. In tutto il resto dell’atmosfera di Sirio è il 75% o poco più.
Concentrazioni simili esistevano solo sul pianeta originario dei terrestri, peccato che l’abbiamo usato come tiro al bersaglio per i nostri cannoni orbitali.
Le strade sono completamente deserte.
Agli angoli è accumulato un abbondante strato di non so bene che, sporcizia varia. Polvere, particelle pesanti, la carta che qualcuno ancora usa… tutto accumulato in un indefinibile grigiore che nemmeno i robot si degnano di pulire.
La pavimentazione stradale è di un arancione tendente al rosa, le linee di separazione delle corsie non sono nemmeno più visibili. Di tanto in tanto passa un veicolo della sorveglianza, o di qualche corriere di vario genere.
La gente non si muove più, almeno noi, al di sotto della nube.
Ormai rimane solo la gente del centro, dei grattacieli che svettano dalla nube, che si sposta, nei suoi veicoli fiammanti o con i velivoli che sfiorano la mach-2.
Gente che fa a gara col vicino per chi possiede più ville nei sistemi vicini, per chi ha il caccia più veloce.
La gente grazie alla quale Sirio è lo schifo che è adesso.
Gente che neanche si rende conto di quanto il governo ci stia schiacciando.
Ma loro vivono lassù, nei grattacieli di cui non vediamo nemmeno la base.
E probabilmente questo post sarà rimosso prima che abbiano il tempo di digitare il nome di questo blog.
Chi vive qui sotto non potrebbe neanche arrivarci, lassù.
La nube ce lo impedisce.
E quando è stato dato l’annuncio della sua tossicità, cos’ha fatto il governo?
Ha fatto chiudere e quindi abbattere tutte le strade che l’attraversano.
C’è un solo modo per chi vive qui sotto di andare di sopra.
Ovviamente, per chi non ha un velivolo, perché chiunque ne possegga uno e abbia un minimo di buon senso se ne andrebbe il prima possibile a vivere in un grattacielo, più in alto possibile sopra la nube.
Chi non ha un velivolo potrebbe passare da sotto a sopra la nube attraverso i tunnel ventilati.
Ce ne sono un milione o giù di lì su tutto il pianeta.
E sono chiusi.
E presidiati da torrette automatizzate, programmate per sparare a qualsiasi cosa si avvicini a meno di dieci metri.
Il governo vuole che chi si trova sotto la nube ci resti.
E ci resteremo, e a lungo, se continuiamo ad accettare questo.
Continuiamo a non uscire mai dalle nostre case, continuiamo a leggere le notizie dai forum governativi e dai notiziari televisivi.
Non arriveremo mai a capire che ci stanno schiacciando, e non riusciremo mai a fare nulla per fermarli.
Per la strada soffia costantemente un leggero vento, che di tanto in tanto alza qualcosa dalla strada.
Nei giorni di vento forte c’è una tempesta costante di pezzi di carta e strati di sporcizia grigia varia, ma la nebbia sta sempre al suo posto.
Ho camminato con la mia musica nelle orecchie, senza guardare in nessuna direzione particolare, senza pensare a nient’altro che la musica, fino al tunnel.
C’è una grossa piazza desolata, con al centro un bar chiuso da tempo.
Dall’altra parte c’è una doppia saracinesca di una lega di ferro e titanio, e ai lati tre metri di cannoni al plasma, puntati ad altezza d’uomo.
Per alcuni mesi ho studiato la tecnologia bellica del governo, so più o meno cosa sparano quei mostri.
Fasci di energia pura, sostanzialmente fulmini stabilizzati.
Attraversano un corpo siriano da parte a parte in pochi secondi.
Quella piazza segna la fine della mia uscita.
Sulla piazza si aprono solo moduli abitativi, e non ho alcun interesse ad entrare in casa della gente.
Ho perso interesse nella gente dopo l’IFAG, da quando l’unica persona verso cui nutrivo un vero interesse è morta.
Morta.
Scomparsa.
Non esiste più, punto.
Non credo nella seconda vita di Hybrjaal, non credo che ora la sua anima stia vagando per le rovine del più antico edificio della Galassia.
Suppongo che da quando il suo cervello ha cessato di funzionare lei non esista più.
Spero solo che sia morta senza rimpianti.
Soprattutto senza rimpiangere me, o chiunque altro.
Quando ho saputo che era morta, avevo quasi pensato di fare visita hai suoi. Ho accantonato l’idea all’istante.
Non mi avevano mai visto ed ero certo che lei non gli avesse mai parlato di me.
Così rimasi per un paio di giorni da solo con la forte sensazione che la mia vita avesse di colpo perso significato.
Ma non sono qui per parlarvi di lei, ne’ di me, suppongo di avervi già tediato abbastanza.
Ma perché immagino di rivolgermi a qualcuno, se questo post non verrà mai letto?
Insomma, questo è quello che ho visto in strada.
Niente.
Aiuole morte, strade vuote, nebbia gialla e finestre chiuse. Un foglio svolazzante che probabilmente faceva parte di un quotidiano d’informazione.
Se non avete un velivolo che sfiora la mach-2 e i soldi per un appartamento di lusso, non venite su Sirio.
Quel tunnel, quel dannato tunnel, se qualcuno aprisse gli occhi potremmo liberarci da quest’oppressione, lasciare questi bassifondi nauseanti.
Per alzarci dobbiamo renderci conto, tutti, di quello che ci stanno facendo.
Renderci conto che non siamo altro che ciò che gli altri vogliono che siamo, è tempo di svegliarci e capire chi siamo.
Io l’ho fatto, perché non avevo nessuno a cui adeguarmi, ho convissuto per decine di anni esclusivamente con me stesso. Sono chi voglio e so di essere.
Neanche tre pagine di post. Tutto quello che c’è fuori dal mio appartamento non occupa neanche tre pagine di post.
Ci stanno schiacciando, opprimendo, tra mille anni non solo non sarà più necessario, ma non sarà neanche più possibile uscire di casa.
Dobbiamo fermare questa cosa ora.
Ora è il momento di distruggere questa città di delusioni ed abbattere questi muri.

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Capitolo 3
*** C'è ancora vita in noi. ***


1 gennaio 15027, data locale, Sirio
Post dal blog “Sirio and Draco”, ora locale 19.45
Post rimosso per diffamazione autorità ufficiali, propaganda esplicita di prodotti estranei all’Impero, diffamazione storica ed incitamento alla rivolta.
Blog sospeso per n° 56 giorni locali.
Provenienza: IP 356.089.664.
 
Un altro blog, un nuovo post.
Credo che i vari proprietari di blog stiano iniziando ad odiarmi.
Ho contato tutte le mail di segnalazione che mi sono state mandate dall’Ufficio Governativo di Sicurezza Informatica, che io definisco in simpatia “censura”.
Centotredici blog sono stati sospesi a causa mia, alcuni definitivamente.
Forse non è questo il modo giusto di lottare. Non è far chiudere blog in giro per la rete con post che cerchino di scrollare la gente.
Ma io sento il bisogno di farlo, non riesco a piegarmi sotto il peso dell’Imperatore.
E questo è l’unico modo in cui sono capace di farlo.
Non parlerò di lei, ne’ di quanto stiano cercando di abbatterci, e ci stiano riuscendo.
Oggi, spinto da non so bene cosa, ho avuto la malsana idea di uscire.
Come ieri sono uscito, mi sono chiuso la porta alle spalle ed ho percorso quel corridoio maleodorante che c’è fuori da casa mia.
Per strada soffiava un vento molto più forte del solito, sollevava la terra nelle aiuole e riduceva ulteriormente la già scarsa visibilità per la nebbia gialla, insieme ad ogni altra sorta di detrito per le strade.
Non sentivo il sibilo del vento, ne’ nient’altro.
Come ogni altra occasione in cui sono uscito da vent’anni a questa parte.
Tutto ciò che sentivo era la musica.
I capolavori degli artisti terrestri precedenti all’Apocalisse.
Per quanto fossero arretrati, i terrestri erano una razza estremamente interessante, sviluppata sotto così tanti punti... E noi l’abbiamo distrutta.
E ne parlano i libri di storia, con orgoglio.
Abbiamo avuto il primo contatto verso la fine dell’epoca dell’esplorazione, in cui c’era ancora qualche angolo della Galassia sconosciuto alle carte dell’Impero.
Da quanto ho studiato, l’intera flotta d’assalto ha attaccato il pianeta.
Le centoventi migliori aeronavi della Galassia hanno imperversato per dodici giorni locali su una civiltà che aveva iniziato da poco la seconda fase della sua evoluzione.
Tuttavia, sono riusciti a resisterci. Due roccaforti della loro civiltà, hai due estremi del pianeta, si sono circondate di armi mostruose e hanno abbattuto a sufficienza delle nostre navi perché il Cancelliere Supremo, altro nome con cui veniva chiamato l’Imperatore prima della Pace Galattica, richiamasse la flotta.
Da allora abbiamo preso ciò che restava di quel piccolo pianeta come tiro al bersaglio per testare i nostri primi cannoni orbitali, e fecero un gran lavoro. Spazzarono la civiltà terrestre dalla Galassia.
E tutto questo senza che nessuno dei nostri scienziati tentasse di decifrare il loro linguaggio e tentare di negoziare la loro entrata pacifica nei domini di quello che allora era il Parlamento Galattico Siriano.
Avremmo potuto apprendere molto da loro, ed invece li abbiamo schiacciati.
Nel tempo che trascorse tra la ritirata della flotta e l’inizio del bombardamento orbitale, ebbero il buonsenso di approfittare delle navi che avevano abbattuto per costruirne di loro.
Ci riuscirono ed in circa due milioni lasciarono il pianeta.
Probabilmente, se loro non fossero sopravvissuti, io sarei in depressione da tempo.
La loro musica è tutto ciò che mi permette di sopravvivere al silenzio che regna ovunque, alla gente là fuori in cui non riconosco niente di quello che sento e sono.
Devo alla loro musica molto di ciò che sono, senza di loro non solo sarei crollato da tempo, ma probabilmente sarei soltanto uno di quelli che fanno a gara col vicino per chi ha il velivolo più veloce.
La musica mi riempiva le orecchie, e per quanto la mia scarsa padronanza del terrestre antico mi consentiva, la seguivo cantando.
Non sentii i passi.
Probabilmente, se non avessi avuto la musica nelle orecchie, quell’incontro sarebbe andato in maniera differente.
Avevo quasi raggiunto la piazza.
Svoltai l’ultimo angolo.
Nella nebbia tossica dei gas, qualcosa avanzava verso di me.
Qualcuno.
Per la prima volta in tredici anni, incontravo qualcuno realmente, senza cercarlo.
Non mi fermai.
Avanzava lentamente, con piccoli passi, un piede davanti all’altro.
Era una donna.
Indossava una giacca di quelle che non si vedono da almeno duecento anni, lunga fino quasi alle ginocchia.
Aveva lo sguardo abbassato, un cappello  dalla linea marcatamente antica le nascondeva il volto.
Il tutto era nero, compresa la sciarpa tirata fin sulla bocca, schiarito dalla polvere e dai gas acidi della nube.
Non mi fermai, non proferii una parola. Interruppi la musica.
Ero talmente impreparato ad una cosa simile che la sola vista di quella figura mi sconvolse.
Non vedevo nessuno da mesi, ed erano passati anni da quando avevo incontrato per l’ultima volta qualcuno per la strada.
Lei non sembrò notarmi. Procedette per la sua strada, lungo la linea sbiadita che segnava la divisione tra le corsie.
I capelli le dovevano arrivare fino alla vita, il vento li alzava alla sua destra.
Sarei finito in quella splendida chioma chiara se entrambi non avessimo leggermente deviato.
Rimanevamo maledetta temente vicini, tuttavia, e fremevo sempre più forte.
Una donna per strada, del tutto diversa da chiunque io abbia mai incontrato.
Mi venne in mente lei.
Non so perché, ma quella figura nera e quei capelli alzati dal vento mi fecero tornare in mente lei e gli anni che avevo sprecato.
Il tempo sembrò dilatarsi all’infinito.
Lei procedeva perfettamente dritta, senza alzare lo sguardo, con le mani nelle tasche della giacca impolverata.
Io potevo solo sperare di stare facendo lo stesso.
Dovevo fare qualcosa.
Era la prima creatura che incontravo da anni.
In quella zona della città non c’era nulla, nessun motivo per scendere in strada.
Quindi lei doveva essere lì per lo stesso motivo per cui c’ero io.
Anche lei doveva aver realizzato che tra i quattro muri di casa sua non c’era abbastanza aria.
Credevo di stare per impazzire.
Arrivammo fianco a fianco.
Tutto ciò che feci fu alzare un istante lo sguardo.
Aveva la sciarpa tirata  fin sopra al naso e la calotta del cappello le calava quasi sugli occhi.
Credo che non rivedrò mai due occhi così.
Non saprei nemmeno come definirli, se non verdi.
Arrivammo fianco a fianco.
Credevo che sarei crollato a terra da un momento all’altro.
Sudavo come non credevo che avrei mai fatto.
Passammo entrambi oltre.
La sentii fermarsi.
Mi fermai.
Mi scoprii ad ansimare.
Erano anni che non partecipavo ad una conversazione, avevo quasi paura che si voltasse e mi salutasse. Non avrei avuto la minima idea di come rispondere.
Riprendemmo a camminare nelle rispettive direzioni.
Di colpo, tutto ciò che provavo un istante prima scomparve e rimase soltanto il freddo.
Mi voltai solo una volta raggiunta la piazza.
Di lei, nessuna traccia.
Non avevo affatto sudato.
Che fosse stata un’illusione, una specie di sogno?
Sapevo che non era così.
Non poteva essere così.
Quella sensazione di essere sul punto di perdere i sensi era dannatamente reale.
Raccolsi un pezzo di metallo caduto dal tetto di bar e lo lanciai verso quell’enorme saracinesca di metallo.
La torretta di destra lo agganciò in pochi secondi e sparò.
Una piccola nuvola di polvere si depositò al suolo ed il cannone tornò al suo posto.
L’avevo lasciata andare via.
Il primo umano che incontravo da anni, la seconda creatura della mia vita non così dannatamente uguale a tutti gli altri.
E non l’avevo nemmeno guardata negli occhi.
Mi voltai e rifeci la strada di corsa.
Senza pensare troppo al fatto di essere sicuro che non l’avrei rivista.
Raggiunsi casa mia e continuai a correre, fino a dove la strada saliva e s’interrompeva.
Era una di quelle rampe abbattute dal Consiglio dopo l’annuncio della tossicità della nube, una delle rampe che attraversavano la nube.
Diedi un calcio alle transenne qualche metro prima della brusca fine della strada.
Erano lì da decenni, e quando il segmento cadde sulla pavimentazione sollevò una nuvola di polvere.
Mi voltai e mi guardai attorno.
Tutte le finestre erano sbarrate, la strada era tornata ad essere la desolazione polverosa di sempre.
Sono riuscito a perdere la più grossa opportunità della mia vita, non so nemmeno bene perché.
Forse per la mia paura, forse perché temevo di crollare al suolo se avessi incrociato il suo sguardo, ma ho pur sempre lasciato passare oltre la prima donna che incontravo da anni.
La prima creatura viva, che avesse qualcosa che la rendesse unica, che la differenziasse dagli altri, che incontravo in ventitré anni o qualcosa di simile.
Non posso sapere se la incontrerò ancora, ma non credo che accadrà.
Questo è ciò che non dovreste mai lasciarvi accadere.
Nessuna possibilità, di qualsiasi genere, deve essere sprecata.
Nessuna.
Questa è la nostra opportunità di alzare la nostra voce, di far sì che il nostro grido superi le mura della Sfera, e non dobbiamo permettere che ci sfugga tra le dita.
Ciascuno di voi, teorici lettori, è responsabile della sua vita, per ciò non posso dirvi altro se non di non lasciar fuggire nessuna possibilità.
Ma la nostra possibilità, la possibilità di noi Siriani che viviamo al di sotto della nube, è adesso.
Non abbiamo nessuna speranza di farci sentire da soli, ed è per questo che dobbiamo lottare insieme.
Il vostro, il nostro, tempo è adesso.

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Capitolo 4
*** Bagliori oscuri ***


4 gennaio 15027, Sirio
Post dal blog “Storie di Sirio”, ora locale 21.30.
Post rimosso per incitazione alla rivolta, rivelazione di segreto professionale e diffamazione implicita di autorità ufficiale.
Provenienza: IP 356.089.664.
 
Sta piovendo.
Non pioveva da circa due mesi, è un evento piuttosto raro su Sirio.
Non posso sapere da dove leggete, quindi non so cosa piove sul vostro pianeta, ma qui piovono gocce di diossido di idrogeno.
Si trasforma in gas alcuni metri prima di toccare il suolo, o meglio, quello che abbiamo costruito, sul suolo.
E in forma gassosa è altamente tossico per gli umanoidi originari di qui.
Quindi non si esce.
Per gran parte di voi, si e no nove miliardi di Siriani, non cambierà molto.
L’ultima volta in cui ho visto un po’ di gente in strada è stato quando la Flotta d’Assalto Kolbat è entrata nell’atmosfera in seguito alla nostra disfatta nella Guerra Galattica.
Per il resto, per strada non c’è mai nessuno.
Fino a tre giorni fa.
Dopo tredici anni, di cui tre li passai a vedermi solo con la gente di cui avevo strettamente bisogno per portare a termine il mio depuratore, lungo quella lingua di cemento scolorito che è la strada ho incontrato una Siriana per la strada.
Vivo in una delle zone più morte della città.
Una zona in cui non c’è altro motivo per andare in strada se non respirare un po’ d’aria, che qui è leggermente migliore che negli isolati circostanti.
Non le ho parlato, non avrei avuto la forza di farlo.
Forse non è nemmeno chi immagino che sia, forse era lì semplicemente perché si era trasferita.
Ma era lì, e tutto in lei non poteva essere più diverso da gran parte della gente che ho conosciuto finora.
Tutta la gente, eccetto una ragazza.
Chi più chi meno, tutti assomigliavano l’uno all’altro, o al limite ciascuno perfettamente identico al suo gruppo.
Tutta gente che aveva plasmato la sua coscienza in base a chi gli stava intorno.
Lei era diversa.
Ed è morta.
Tutto questo sta accadendo di nuovo.
Non permetterò che mi sfugga tra le mani la mia seconda possibilità.
Lei ha cambiato qualcosa in me, è stata l’unica persona a farlo davvero, pur non essendone consapevole.
È stato dopo averla conosciuta il primo anno dell’IFAG che ho iniziato ad interessarmi alla musica terrestre.
Musica che lei odiava o, al massimo, ignorava.
Ma non sono qui per parlarvi di lei.
Recentemente ho avuto contatti con un mio vecchio compare dell’ASTI, uno di quelli con cui ho progettato e costruito il mio depuratore.
Anzi, direi che è stato grazie a lui che ho potuto costruirlo.
Mio padre non mi avrebbe mai procurato ciò di cui avevo bisogno, e quando lui lo venne a sapere si procurò i materiali necessari di sua iniziativa, senza voler essere pagato.
Questo Siriano lavorava fino a qualche tempo fa per il Governo, ora è uno degli ingegneri più grossi della Light Industries, una compagnia aerea indipendente.
Vive su un pianeta residenziale in un sistema vicino, ha un appartamento qui su Sirio ed una villa sul pianeta che ospita i cantieri e i pozzi minerari della sua compagnia.
È uno dei trenta Siriani viventi più ricchi.
Mi ha descritto il pianeta su cui si trovano i cantieri della Light come una desolazione di ferro e roccia.
Gli ho risposto che almeno lì vede il cielo.
Non capisco come possa la gente preferire questo ammasso di acciaio e asfalto ad un pianeta quasi disabitato, con si e no il 3% della superficie occupata da edifici.
Lì almeno si vede ancora lo spazio, e sotto i piedi non c’è l’asfalto posato da una qualche macchina automatizzata, ma il ferro originatosi da una supernova.
Non so cosa darei per trascorrere qualche tempo su quel pianeta, ma questa piaga che chiamano “orgoglio” mi impedisce di chiederglielo, finché non gli potrò offrire qualcosa in cambio.
Mi ha chiamato per una di quelle che chiama “consulenze”.
Sostanzialmente, si tratta di piccolezze che gli sono sfuggite e che gli guastano tutto il suo bel progetto.
Le sue conoscenze tecniche raramente sono inferiori alle mie.
Da quando frequento l’IFAG, non ricordo di essere riuscito a portare a termine qualcosa di particolarmente impegnativo senza il suo contributo.
Normalmente iniziavamo a lavorare ciascuno per se’ sullo stesso progetto, e finiva che io eliminavo il mio file e mi mettevo a lavorare con lui.
Quell’incontro è servito solo a farmi ricordare questo e quanto odio la gente.
La sede di Sirio della Light Industries è un immenso grattacielo di vetro, costituito da due torri collegate da ponti.
L’ingresso è in un centro commerciale dismesso, adattato come residenza per chi lavora nelle torri.
Definirei entrambe le hall come monumentali.
Occupano l’intera base delle due torri e il soffitto sarà alto trenta metri.
Ovviamente, tutto trasparente e tirato a lucido dai robot.
Questo genere di edifici mi affascinava da bambino.
Sognavo di lavorare lì, un giorno, di vedere la città dall’alto.
Ora, quando vi entrai, tutto ciò che volevo era andarmene al più presto.
Non mi piace avere gli occhi della gente puntati addosso. Non mi piaceva da bambino, e con gli anni questa cosa non ha fatto che crescere, fino a farmi trovare meglio nel mio isolato deserto che non in uno di quei bar di lusso affollati nei grattacieli sopra la nube.
La gente andava e veniva in continuazione.
Dopo un po’ ho perso il conto delle occhiate torve al mio indirizzo.
Erano tutti vestiti perfettamente allo stesso modo.
Giacca nera a righe sottili quasi lucida sopra ad una camicia bianca, collo alto e chiuso, calzoni in sintonia con la giacca e scarpe nere lucide.
Io avevo un aspetto leggermente differente.
La giacca mi arrivava ben oltre ai polsi e sotto la vita, gli orli erano piegati ed il nero stava diventando grigio, sopra ad una camicia grigia con un disegno di origine terrestre.
Nel mio armadio si trovavano solo pantaloni di tela spessa blu, anche quelli terrestri. Tutti si trovavano lì da almeno cinque anni, e tutti ne portavano i segni come la mia giacca.
Tutto ciò che portavo al collo era una lunghissima sciarpa nera e grigia.
Chiesi in giro dove fosse l’ufficio di quel mio antico compagno, ma nessuno mi rispose.
Procedevano tutti a gruppi di minimo tre persone, ed il massimo che ottenni fu di interrompere una conversazione e ricevere un’occhiata torva da tutti e tre.
Più tempo passavo in quell’edificio trasparente, più odiavo tutto e tutti.
Dovetti andare in portineria per sapere dove fosse quel dannato ufficio.
Era quasi in cima alla torre in cui mi trovavo.
Durante la salita in un ascensore grande quanto una stanza di casa mia, affollatissimo, ebbi modo di vedere la città da sopra la nube, per la prima volta in sette anni.
Una foresta di enormi palazzi di vetro illuminati dalla luce di Sirio, collegati da corsie e tunnel aerei, tutti intasati di traffico, fin dove il vapore giallo bloccava la vista.
E, tra i palazzi, la nube.
La città di Sirio, che occupa l’intero pianeta Sirio, che orbita intorno alla stella Sirio.
In origine il pianeta si chiamava Sirio III, ma negli ultimi secoli il numero di distanza dalla stella è decaduto.
Quella vista un tempo mi avrebbe profondamente eccitato.
Ora mi trasmette solo desolazione.
Nove miliardi di Siriani, e uno, forse due, che si rendono conto di quello che l’Imperatore e i suoi ci stanno facendo.
Per questo continuo a lottare.
Più di cento blog chiusi a causa mia, ma non posso fermarmi, non posso sopportare che nove miliardi di miei simili si riducano ad una massa uniforme di coscienze piatte.
Raggiunto lo studio, la prima cosa che il mio compare mi disse dopo avermi salutato fu che mi vestivo come ai tempo dell’IFAG.
Io gli risposi che lui si vestiva come tutti gli altri.
Eravamo senza ombra di dubbio i più giovani lì dentro, gli altri rimasero appoggiati ad un tavolo dall’altra parte della stanza.
Avevo la sgradevole sensazione di essere sotto esame.
Mi mostrò il motivo per cui mi aveva chiamato.
Era il progetto dello scafo di una nave da trasporto di nuova generazione, una di quelle che dovrebbero essere in grado di guidarsi e difendersi autonomamente, tracciato in tre dimensioni su un grosso schermo portatile. Un altro era ingombro di calcoli. Mi misi ad esaminarli cercando di ignorare tutto il resto.
Quasi ad ogni osservazione che facevo, lui mi rispondeva che vi aveva già pensato, me lo faceva notare e non potevo che constatarlo.
Il mio unico contributo è stato una leggera curvatura nella fusoliera.
Venne fuori che si trattava di un suo errore di calcolo. Lo corresse, si congedò dai suoi colleghi e memorizzò i suoi calcoli sul dispositivo portatile su cui aveva elaborato il progetto, quindi si offrì di accompagnarmi a casa.
Mi sento un idiota tutte le volte che qualcuno si offre di darmi un passaggio, ma accettai. Durante il tragitto parlammo dell’unica cosa che non evitai, ossia i tempi dell’ASTI e dell’IFAG.
Sapevo che aveva una moglie o qualcosa del genere, ma se avessimo deviato su quell’argomento mi avrebbe chiesto se vivevo ancora solo.
Gli avrei risposto di sì e che non me ne importava nulla, ma gran parte della gente, lui compreso, sembra non ritenere possibile che io sia felice così.
Una compagna mi costringerebbe ad avere dei vincoli, ed ormai ho trascorso troppo tempo in solitaria perché possa adattarmi a vivere adattandomi a qualcuno. Dovrei anche trovarmi un’occupazione più proficua, e più volte mi è stato detto che ho il potenziale per essere più che il direttore di una piccola casa editrice, ma è l’unico lavoro che possa fare, l’unico che non mi costringa a stare a contatto con la gente, l’unico che non abbia una regolarità deprimente, e poi ogni tanto mi arriva qualche opera che mi fa sperare che i Siriani non siano ancora una massa di umanoidi apatici.
Tuttavia, la gente sembra incapace di capirlo, e probabilmente penserebbe che voglio solo tentare di nascondere uno stato di depressione in cui non mi trovo.
Soprattutto, ora che so che là fuori c’è qualcuno che non mi è completamente estraneo.
Probabilmente avrà capito ugualmente che vivo ancora solo, dalla sistematicità con cui ho evitato l’argomento.
Atterrò con il suo bel velivolo blu proprio davanti a casa mia, mi salutò e decollò non appena fui entrato nel mio corridoio maleodorante.
Da allora sono uscito sistematicamente tutti i giorni, alla stessa ora di tre giorni fa, eccetto oggi.
Non avete idea della rabbia che provo immaginando lei, seduta davanti ad un altro monitor, a contemplare la pioggia fuori dalla finestra e a desiderare di poter lasciare il prima possibile i quattro muri della sua casa.
Ma probabilmente la pioggia durerà almeno un altro giorno.
Ho grande stima di quel mio vecchio compare, e capirebbe cosa ci stanno facendo.
Se solo si ponesse il problema.
È ciò che dovremmo fare noi tutti, noi nove miliardi di Siriani.
Renderci conto che ci stanno schiacciando.
Non basta capire se siamo liberi di fare ciò che vogliamo o meno.
E comunque, non siamo nemmeno liberi di fare questo.
Altrimenti i cento e più blog chiusi a causa mia sarebbero ancora perfettamente funzionanti.
Vogliono schiacciarci, impedirci di far sentire la nostra voce.
E questa cosa continuerà, non finiranno mai di abbatterci.
Non siete soli, c’è chi sta già combattendo.
È il momento di unirci e usare questa opportunità per essere sentiti.

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Capitolo 5
*** Rompiamo questi cieli bui. ***


7 gennaio 15027, data locale, Sirio.
Post dal blog “Residential district of North-Eastern Sirio”
Post rimosso per diffamazione di autorità ufficiale e allarmismo con incitazione alla rivolta
Provenienza: IP 356.089.664.
I provvedimenti suggeriti contro il suddetto saranno applicati a breve.
 
Questo pianeta comincia ad essermi stretto, o per lo meno comincia ad esserlo l’isolato in cui vivo.
Isolato.
Su Sirio, il significato di questa parola è ribaltato.
Normalmente, significherebbe un blocco abitativo circondato da strade.
Qui significa una strada circondata da palazzi.
La mia strada, quella che percorro da vent’anni, inizia a starmi stretta.
Mi è sempre stato stretto, questo buco oppresso dai palazzi.
Ma è come se non me ne fossi reso conto fino ad ora.
Oggi ho lasciato di nuovo le mie quattro mura.
Lungo il mio corridoio puzzolente, un segmento delle luci tubolari agli angoli del soffitto ha smesso di funzionare.
Così adesso il corridoio è anche più buio del solito.
Sono uscito verso le sei, e in questa zona del pianeta, a quest’ora il buio è già notevole.
Che non è nemmeno buio.
È l’oscurità giallognola rischiarata dai fari pallidi, la luce di quelli sopra la nube diventa arancio cupo.
Ho già visto tutto questo centinaia di volte, e malgrado la mia mente non percepisca altro che la musica che mi pulsa nelle orecchie, i miei occhi non possono fare a meno di vedere questa desolazione di cemento e acciaio.
Non saprei nemmeno cosa scrivere di quello che ho visto fuori, non cambia mai nulla.
Superfici sterminate di finestre sulle facciate dei palazzi, migliaia di scuri abbassati.
Un tempo immaginavo cosa facesse la gente dietro quegli scuri di metallo, ma da tempo sto ho dimenticato tutto ciò che ritengo inutile.
Ora, tutto ciò che occupa la mia mente quando sono fuori dalle mie quattro mura è la mia musica.
Al livello della strada non ci sono solo moduli abitativi e posti per i velivoli, questo non l’avevo scritto.
O meglio, non ci sono sempre stati.
Un tempo, sulla strada si aprivano i locali.
Quando la città bassa era ancora viva, per comprare qualcosa si doveva ancora uscire di casa, si poteva ancora vedere qualcuno ad un bar senza dover chiamare un amico sopra la nube per essere portati in uno di quelli nei grattacieli che svettano nel cielo che si vedeva a stento.
Si parla di quasi trent’anni fa, quando avevo da poco iniziato l’IFAG
Già all’epoca il divario tra i locali e centri d’acquisto sopra e sotto la nube era notevole, ma almeno queste strade erano vive.
Poi hanno iniziato a spegnersi.
Con il diffondersi della ricchezza, la gente iniziò a trasferirsi sopra la nube, dove già all’epoca la qualità dell’aria era saputa esser migliore, e con l’aumento dell’estensione e dell’efficienza della Rete i punti vendita iniziarono a chiudere.
La gente iniziò a lasciare le quattro mura sempre più di rado, e anche i locali chiusero le saracinesche.
Più di dieci anni fa, l’ultimo bar, gestito dalla famiglia di un mio compagno dell’IFAG, e loro si trasferirono su un pianeta residenziale qui vicino.
Non passò molto prima che i miei morissero.
Vendetti la casa di mia madre e mi trasferii qui.
Fondai la casa editrice pochi mesi dopo, e credo di essere stato il primo a fare una cosa simile senza incontrare nessuno.
Feci tutto, da capo a piedi, sulla Rete, senza muovermi dalle mie quattro mura.
I miei attuali collaboratori, ammesso che li si possa definire tali, in gran parte miei ex-compagni dell’IFAG, si sono aggiunti solo dopo che un romanzo pubblicato da me ebbe un discreto successo e mi portò una certa notorietà, nonché abbastanza crediti per sistemarmi per anni, viste le mie spese piuttosto esigue.
Non sono nemmeno certo che la mia casa editrice si potesse definire tale, quando pubblicai quello scritto.
Aveva un nome ed un logo, ideati da me, ma non aveva una sede e l’unico membro ero io.
Non so nemmeno se una cosa simile sia stata tanto legale, ma secondo un mio professore dell’IFAG lo era.
Mi servii di lui per tutte le questioni legali e burocratiche, di un mio vecchio compagno e di una mia parente per la pubblicità e di un altro professore per le traduzioni nei vari dialetti di Sirio.
Un successo simile non si ripeté mai.
Contavo che quell’autore, che stimavo enormemente per ciò che scriveva e pensava, si facesse di nuovo vivo con un secondo scritto, ma dopo il primo sparì e da allora non pubblicai nulla di straordinario successo.
Capii che le mie quattro mura mi erano troppo strette qualche mese dopo, ed iniziai quasi subito la mia lotta per cui i proprietari di un centinaio di blog mi odiano.
Ma le strade continuano a rimanere vuote, non che mi aspettassi qualcosa di diverso.
Mi chiedo se quello che sto facendo non abbia il solo scopo di soddisfare me’ stesso.
Come ogni dannata volta, non c’era una finestra che non fosse chiusa.
La gente non ha più interesse a vedere fuori e teme che l’altra gente li veda.
Restando così non ci sveglieremo mai.
Fingendo che il mondo là fuori non ci riguardi e non ci interessi, le nostre grida non supereranno mai gli spessi muri della Sfera.
Aprite quelle finestre, guardate cosa stanno facendo a questo pianeta, e fermatelo.
Per strada, come al solito non c’era nulla.
A nord del mio appartamento c’è la piazza con il bar abbandonato e la saracinesca del tunnel ventilato, a sud, sotto la rampa tranciata, c’è una galleria che porta al livello inferiore. Da lì si accede agli alloggi e da lì al palazzo della Light Ind.
Non sono mai andato oltre, i livelli intermedi hanno strade sopra e sotto, ci sono strade deserte ovunque, e l’unica luce è quella di quei fari pallidi al neon.
Mi sono rifiutato fino ad ora di scendere laggiù, ma comincio a non sopportare più questo posto, le due torrette dall’altra parte della piazza, e le finestre chiuse.
L’unica ragione per cui sono ancora qui è lei.
È spuntata dalla nebbia poco prima della piazza, stava guardando in alto.
La stessa giacca, lo stesso cappello e la stessa sciarpa tirata sul naso.
Niente di simile alle ragazze che conoscevo all’IFAG e all’ASTI, gente che pur di non far apparire il proprio guardaroba ristretto si presentava ogni dannato giorno con qualcosa di nuovo.
Così simile a me.
Comparve in mezzo alla luce arancione  come avrebbe fatto un faro nell’oscurità.
Un faro nero in un’oscurità arancione.
Credo che per un istante abbia posato lo sguardo su di me, per abbassare subito lo sguardo alla punta degli stivali.
Stivali forse un tempo bianchi, ora di un grigio tendenti al marrone, con un disegno sul lato dello stesso stile di quello stampato sulle spalle della mia camicia logora.
Avanzammo entrambi lungo la nostra linea, io sull’orlo delle aiuole morte e lei lungo la linea perduta di separazione delle corsie.
Fermai la musica nel mio agonizzante dispositivo mobile.
Di nuovo, il mio cuore batteva all’impazzata e dovevo concentrarmi profondamente per non inciampare nei miei stessi piedi.
Lei mi veniva incontro dando a stento cenno di avermi notato.
La lunga chioma, chiara rispetto alla media Siriana, le ricadeva sulle spalle e sulla schiena, fino alla vita.
Se non avessi posato sulla sua tomba i fogli in cui le avevo scritto cos’era stata per me, avrei potuto pensare che fosse lei.
Stessi capelli, stessa corporatura perfetta e, a parte il cappello, stile identico.
Di nuovo, arrivammo fianco a fianco senza che io crollassi.
Di nuovo, il mio cervello produsse un misto di tutte le emozioni che era in grado di farmi provare.
Poteva essere l’ultima volta che la rivedevo, dovevo parlare, mostrarle almeno che l’avevo notata. Non sostenevo una conversazione che non riguardasse leghe metalliche e aerodinamica da mesi, non sapevo chi fosse, se effettivamente fosse lì per il motivo che immaginavo che ci fosse.
Non ero nemmeno certo che fosse di Sirio e che avrebbe capito un’eventuale frase che le avessi rivolto.
Di nuovo, sono passato oltre.
Di nuovo, lei si è fermata.
Io non lo feci, proseguii. Avevo valutato che non era il caso di tentare una conversazione.
Forse lei si voltò, a giudicare dal fruscio che sentii alle mie spalle.
Subito, mi ha assalito l’ira.
La controllai.
Se avessi tentano una conversazione, avrei ottenuto un miserabile fallimento.
Le emozioni sono derivate dall’istinto, scatenate dai fatti puri e semplici.
Sono irrazionali.
Dovete controllare le emozioni, o sarete guidati dal vostro istinto come uno dei tanti animali che abbiamo massacrato per ricoprire questo pianeta con milioni di miliardi di tonnellate di freddo acciaio.
Non permettete ai vostri istinti di guidarvi, o perderete il vostro essere Siriani, la razza più tecnologicamente avanzata della Galassia.
La ragione e la logica deve guidarvi.
Non vi renderete conto di quello che ci stanno facendo vedendo la desolazione che stanno creando fuori e dentro di noi.
Dovete capire, costruire ciò in cui credete, non accettarlo da altri.
Imponendoci leggi che non erano nostre ci hanno resi una massa uniforme, questo perché abbiamo accettato ciò che ci veniva dato.
Abbiamo le potenzialità per capire cosa è giusto, cosa non lo è e cosa è inutile.
Non abbiamo bisogno del codice morale di Siriani morti migliaia di anni fa.
Codice che loro sono i primi ad ignorare.
Raggiunta la piazza mi sono voltato indietro e sono tornato al mio appartamento.
Fino ad ora tutto questo lo accettavo, camminavo per questa strada vuota accettandola come tale, quando è la prima cosa che dico di non fare nei miei post poco amati dalla Censura.
Ora che so che c’è qualcun altro, e lo sa anche chiunque abbia letto i miei post, questo non sono più in grado di accettarlo.
C’è ancora vita in noi, fuori dalle vostre quattro mura e sotto la nube c’è ancora qualcuno che vive.
Fermatevi un attimo a riflettere se, soli, davanti al vostro terminal, siete ciò che volete essere e che vi piace essere.
Eliminate il resto dei nove miliardi di Siriani.
Considerate voi stessi, perché è solo così che vi renderete conto di chi siete.
E una volta che l’avrete fatto, capirete cosa intendo quando sostengo che ci stanno schiacciando.
Scendete per le strade, date nuova vita a questa desolazione.
La Censurapotrà cancellare i miei post sui forum, ma non impedirci di riunirci per le strade.
Non ancora, per lo meno.
Per il momento, se lo facesse gli si scatenerebbe addosso l’opinione pubblica.
Finché ci sarà un’opinione pubblica, non ci impediranno di riunirci.
Perché arriverà anche il giorno in cui i media moriranno, e sopravvivranno solo le agenzie governative.
E allora questo pianeta morirà, insieme ad un quarto della Galassia.

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Capitolo 6
*** Continueremo a combattere ***


Sirio III, Sirio, distretto residenziale nord-orientale.
Data e ora locale, 10 gennaio 15027, 22:45
 
Questo è il mio diario personale.
La Censura ha infine deciso di restringermi l’accesso alla Rete.
Mi hanno mandato una mail di notifica in cui mi hanno cordialmente avvisato che viste le mie attività contrarie all’ordine pubblico e a favore della lotta armata mi sarebbe stato bloccato l’accesso alla Rete.
Quindi devo a causa di forze superiori cambiare modo di lottare.
Da scriverlo su blog a caso in  giro per la Rete sono passato a gridarlo per le strade, con parole che non sarei mai stato capace di produrre, o anche se lo fossi stato non l’ho fatto.
Parole di gente esistita cinquemila anni prima di me in cui riesco a trovare ciò che penso.
Penso quello che pensava cinquemila anni fa gente appartenente ad una civiltà indietro di millenni rispetto alla mia.
O i terrestri erano una razza tanto avanzata nella logica e nella mentalità quanto arretrata sotto l’aspetto tecnico, o in me qualcosa è cresciuto terribilmente storto.
Per quanto ne so, potrebbero essere vere entrambe.
Non ci siamo nemmeno degnati di operare un esame anatomico su un cadavere di umano.
Non sappiamo nulla su come ragionasse il loro cervello prima dell’Apocalisse.
Ora vivono su un pianeta sperduto, Andromeda I, che orbita intorno ad una nana bianca.
Non so quanto sappiamo su quella gente.
So solo che molto pochi sono i Siriani che hanno visitato quel pianeta, anche perché una volta appreso chi li aveva sterminati, i Terrestri ci hanno banditi dal loro pianeta.
Decisione discutibile, avrebbero potuto imparare da noi almeno quanto noi avremmo potuto imparare da loro.
La loro mentalità attuale sarà comunque molto diversa da quella precedente alla nostra invasione.
Erano l’unica forma di vita intelligente e civilizzata della Galassia ad essere convinti che non esistessero forme di vita al di fuori del loro pianeta, o comunque quelli che se ne interessavano di meno.
Una civiltà vissuta così a lungo senza nessun tipo di contatto con razze estranee deve aver maturato una cultura quantomeno singolare, che noi non ci siamo nemmeno degnati di studiare, e ora che hanno perduto quel loro isolamento da migliaia di anni, è logico pensare che la loro mentalità sia cambiata.
Come, non so e non posso dirlo.
Tutto ciò che posso sapere è ciò che accade qui, su Sirio III, nel distretto residenziale di nord-est e nel mio isolato.
Per adesso.
Sono riuscito a trovare una certa regolarità nelle mie uscite da quando mi hanno ristretto l’accesso alla Rete.
E ogni giorno da allora incontro lei.
Ha sempre la stessa giacca e la stessa sciarpa.
L’ondata di emozioni a caso che mi travolge ogni volta che la incontro va lentamente scemando.
Dall’ultimo incontro che ho caricato su un blog, le nostre strade si sono incrociate sei volte.
Non temo più che si volti e mi saluti, sarei estremamente felice se lo facesse.
Non posso continuare a vivere all’ombra dei rischi e lanciarmi nelle battaglie da cui sono certo di uscire senza ferite.
Lei non camminerà lungo questa strada vuota per l’eternità, e prima che si stanchi di farlo io devo ricordarle che non è sola.
Pensavo che non l’avrei incontrata, in questa giornata diversa da quella precedente solo per un numero.
Era nella piazza da cui si accede al tunnel ventilato, o meglio, si accederebbe.
Era appoggiata a quello che un tempo era il bancone del locale che si erge ancora al centro della piazza, e aveva lo sguardo rivolto a quella saracinesca grigia che la separava da chissà cosa.
Mi portai al suo fianco e portai lo sguardo su quel cancello invalicabile.
È all’interno di un palazzo, un grattacielo commerciale con cui condivideva il sistema di aerazione.
Tutto il resto delle facciate che opprimono quella piazza sono i muri di vetro e le saracinesche chiuse che sono ovunque, quella era la zona di costruzione più recente dell’isolato.
Avevo visto decine se non centinaia di volte quello spettacolo desolante, ma di colpo era diventato nuovo.
Ora, so di non essere solo.
So che queste strade non sono più morte come credevo.
Non credevo che sarei mai riuscito a sentirmi bene in vicinanza di un Siriano.
Oggi è stata la prima volta che mi è accaduta una cosa simile in trent’anni.
Non le ho parlato. Non sono molto coerente con quanto ho detto fino adesso.
Ma non mi sembrava di doverlo fare.
Appoggiati ad un bancone che da decenni non subiva altra pressione che quella atmosferica.
A guardare un cancello che probabilmente non valicheremo mai, non finché Sirio non si risveglierà, io a chiedermi cosa pensasse lei.
Credo mi abbia notato, ha alzato leggermente lo sguardo poco prima di andarsene.
Non mi basta più avere la certezza che una sui sei miliardi di Siriani che vivono sotto questa nube, che pur sapendo che si sarebbe formata non hanno fatto nulla per impedirlo, si sia resa conto che tra quattro mura non c’è più aria per i suoi polmoni.
Non c’è abbastanza aria per nessuno di noi, non c’è posto per avere un’anima da proteggere dall’Impero.
Chissà se riuscirò mai a pubblicare questo diario.
Spero di riuscire a farlo, prima o poi.
Nei primi anni dell’IFAG ho iniziato a rendermi conto di essere diverso dal resto della gente, negli ultimi ho trovato il coraggio di darne dimostrazione, ed ho iniziato a fare domande a cui stavo ancora cercando di trovare una risposta.
“Che senso avrà la tua vita dopo la tua morte? Cioè, una volta che sarai morto, cosa resterà della tua vita?”
Gran parte della gente era solita rispondere che ciò che da senso alla vita è la memoria dei cari.
Se fosse questo, allora una volta che sarò trapassato la mia vita non avrà avuto molto senso.
Ed è per questo che spero, in un modo o nell’altro, in questo o in un altro degli imperi che si contendono la Galassia, un giorno o l’altro, di pubblicare questi diari.
Lasciare una traccia di me, da qualche parte.
Traccia che magari sarà utile a qualcuno, in futuro.
Per adesso, Sirio non mi permetterebbe mai di fare una cosa simile, o i centotrenta miei post rimossi dalla Rete sarebbero ancora là.
Quindi o aspetto che qui le cose cambino, e questo succederà quando troveremo un pianeta a forma di otto, se non ci svegliamo adesso, o vado da un’altra parte.
L’unica cosa che mi trattiene qui è lei.
Non posso andarmene finché non sarò certo che sia chi immagino che sia.
E finché rimarrò qui, continuerò a lottare con l’unico modo che mi è rimasto.
Continuare a percorrere questa strada corrosa da tutto, gridando ai vetri insonorizzati parole di estranei vissuti migliaia di anni fa.
Sperando che per qualcuno siano qualcosa di più di sussurri in quest’oscurità tossica.

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Capitolo 7
*** Si leva l'alba ***


Sirio II, Sirio, distretto residenziale nord-orientale
Data e ora locale, 26 gennaio 15027, 23.30
 
Conto le ore.
Si, mi sono ridotto a contare le ore.
Le valigie sono pronte a lato della porta, per casa non c’è più niente, scrivo dal portatile.
L’agenzia di trasloco ha preso tutto tranne il letto, e io ho raccolto il mio guardaroba esiguo.
Calma, dovrei prima dire perché sono qui, cosa diavolo è successo e perché mancano esattamente diciannove ore e trentaquattro primi alla mia partenza.
Tutti i fottuti giorni da quando la Censura mi ha tolto l’accesso alla Rete, non mi riesce di passare più neanche un giorno intero tra queste mura fredde.
Ed ogni dannato giorno, incontro lei, quasi sempre nello stesso posto, nella piazza chiusa dalla saracinesca.
Quel muro non significa più nulla per me.
Non c’è più niente al di là, o niente che mi interessi.
La Censura ha annientato me i miei post, e lo capisco.
Deve fermare chiunque non si sia piegato, chiunque sia diverso dalla massa, o in un paio di generazioni rischierà una rivolta planetaria.
E con la guerra dietro l’angolo, è l’ultima cosa che vogliono.
Insomma, non posso più combattere, non in un modo che possa avere un’efficacia su una scala più o meno vasta.
Sirio si è svegliato?
No.
Non mi interessa più.
Forse ho sbagliato a credere che eravamo ancora in tempo per alzarci, forse non ho lottato con abbastanza intensità.
Non abbastanza da ridare vita a queste lingue morte di cemento.
Io e lei, continuiamo a battere queste strade solo io e lei.
Ma non per molto.
Solo per altre diciannove ore e venticinque primi.
In tutto questo tempo in cui non mi sono degnato di scrivere nemmeno una dannata pagina le cose sono cambiate abbastanza nettamente.
Dicevo che ero stanco di lasciare che lei passasse oltre, di godere per pochi istanti del calore di un altro umanoide che fosse vivo.
Evidentemente lo era anche lei.
Due giorni fa.
Il segmento della lampada al neon nel mio corridoio continua a non funzionare ed è terribilmente buio nelle ore tarde, specie in queste fredde giornate d’inverno.
Dove sono andato lo sapete. A sud fino alla rampa e a nord fino al bar distrutto.
Ho recentemente scoperto che progettano di abbatterlo.
Ci piazzeranno un altro di quegli enormi palazzi a cui si accede da sotto e che svettano per centinaia di metri sopra la nube.
Raggiunta la rampa non l’ho presa.
Avevo quasi intenzione di scendere al livello inferiore.
Quell’isolato mi era diventato terribilmente stretto, e laggiù c’ero stato si e no una decina di volte in vent’anni o qualcosa di simile.
Ma, davanti a quell’oscurità e a quel labirinto di strade morte ogni proposito è crollato.
È uno spettacolo troppo desolante perfino per me.
Mi sono voltato indietro e ho ripreso verso la piazza del bar.
La incrociai verso la metà strada.
Per quanto mi sia abituato alla sua presenza, questo cuore corrotto dalla nube continua ad accelerare ogni volta che la incontro.
Arrivammo fianco a fianco.
Era tempo di finire questa cosa, dovevo voltarmi.
Stavo per farlo.
L’avrei fatto.
O forse no.
No, probabilmente non l’avrei fatto, non avrei avuto questo minimo di coraggio.
Lei evidentemente lo aveva.
-È la decima volta che ci incontriamo. Non pensi che forse dovremmo almeno salutarci?-
Dèi di tutti i tempi, ricorderò queste parole finché non sarò disperso in cenere per lo spazio.
Mi voltai.
Aveva la tesa del cappello alzata e la sciarpa avvolta intorno al collo e non tirata sul naso.
Fui assalito, in modo del tutto identico, dalle stesse emozioni a caso che avevo percepito la prima volta che l’avevo incontrata.
Non voglio descrivere quel volto, le mie parole non potrebbero mai rendervene un’idea fedele.
Ricordo ogni parola.
Non credo che un ricordo simile potrà mai lasciare la mia testa.
-Potremmo. Non dovresti sentirti obbligata a farlo, soprattutto perché dopo averti salutata non avrei nulla da dirti-
-Allora siamo in due… Talesteller- Talesteller.
Il nome con cui avevo scritto i miei innumerevoli post di rivolta.
Soppesai accuratamente ogni parola, sembrò trascorrere un’eternità prima che riuscissi ad elaborare una risposta.
Perché ora che questa cosa era cominciata, non avrei sopportato che se ne andasse.
-Quel nome l’ho usato finché ho potuto scrivere sulla Rete-
-Ora cos’è cambiato?-
-Conoshci l’Ufficio Governativo di Shicure…- Mi tolsi il depuratore dalla faccia –L’Ufficio Governativo di Sicurezza informatica-
-È uno dei motivi per cui sono su Sirio-
-Quindi… non sei di qui?-
-No, e mi ritengo fortunata. Ho letto molti dei tuoi post sulla Rete prima che l’Ufficio li Cancellasse-
-Censura-
-Come?-
-La Censura. Quell’ufficio non garantisce nessuna sicurezza, elimina dalla Rete contenuti scomodi per l’Imperatore-
-Avevo immaginato qualcosa di simile, ma immaginavo fossero i proprietari dei blog a cancellare i tuoi post. Li ho letti quasi tutti- Io ho passato la vita nella convinzione che nessuno avesse mai letto i miei post e lei li aveva letti tutti e centotrenta –E capisco che questo pianeta non è altro che lo schifo che dici. O almeno la sua popolazione-
-Quale popolazione?- Chiesi urlando all’aria.
Quando terminò l’eco, rimase solo il silenzio.
Lei rise.
Non posso ne’ voglio descrivervi il suo sorriso.
-Sembra impossibile che un pianeta così ricco sia in questo stato. Queste strade dovrebbero essere popolate di Siriani, e questa…-
-La nube- Indicava il muro arancione sulle nostre teste –Gas pesanti che l’atmosfera schiaccia a questo livello. È lì da vent’anni, forse di più-
-Questo pianeta è per gran parte il più desolante che abbia mai visto e per una minima parte il più caotico. Sembra impossibile che con così tanti posti occupati dalle macchine la disoccupazione sia una delle più basse della Galassia-
-La Rete è la risposta. Più macchine venivano costruite, più aumentavano le possibilità di lavoro sulla Rete. Adesso come adesso, non c’è quasi più nulla che non possa essere fatto da dietro un computer. In gran parte dei cantieri non opera nemmeno un Siriano. Tutti robot- Feci una pausa. Una domanda mi sorse spontanea nella testa –Tu invece no. Tu… devo chiedertelo, perché percorri questa strada deserta tutti i dannati giorni?- Sorrise.
-Non sarei mai uscita dal mio appartamento se non fossi incappata in uno dei tuoi blog. E non sai quanto hai ragione. Queste strade sono morte, ma non possiamo diventare schiavi delle macchine. Forse lo hanno fatto perché la gente per le strade è un rischio. Attraverso lo schermo dei computer non si conosce la gente, si conosce ciò che la gente vuole far credere di essere-
-Non hai idea di quanto mi faccia piacere sapere che non sono l’unico in tutta la Galassia a pensarla così-
-Credimi, nemmeno io e te siamo gli unici. Da qualche parte ci deve essere qualcuno che sia nato al di sopra della massa. Altrimenti non potremmo essere arrivati a questo punto, altrimenti-
-La questione è se riusciremo a trovarlo prima che lo rinchiudano in una clinica neuronale o che si uccida credendo di essere solo nell’universo. Credo che avrei fatto qualcosa di simile se non avessi incontrato te-
-Devo dire che è la prima volta che mi sento dire una cosa simile- Sorrise.
Non mi ero fatto illusioni per le ultime settimane.
Era realmente la persona che pensavo fosse.
Avrei voluto protrarre quella conversazione per l’eternità.
No, questa frase è stupida, l’eternità non esiste.
E probabilmente lei si sarebbe scocciata ben prima di arrivare a qualcosa di simile.
Non volevo annoiarla.
Dovevo far andare quella conversazione in una direzione, qualsiasi.
-Non mi sorprende. Non capita spesso di incontrare depressi del mio livello-
-Talesteller… No, aspetta, voglio sapere il tuo nome- Glielo dissi senza neanche pensarci.
Non le chiesi il suo.
Non so esattamente il perché, non certo perché non mi interessasse.
Ma non glielo chiesi –Se fossi depresso ti guarderesti bene dal scendere per le strade e gridare “They will not control us” a questi chilometri di finestre chiuse- Rimasi quasi scioccato.
Non immaginavo che mi avrebbe sentito qualcuno.
Tanto meno, qualcuno che conosceva il terrestre.
Non so esattamente perché lo facevo, ma non ci facevo quasi più caso.
-Aspetta un attimo, sai il terrestre?-
-Sto lavorando ad un progetto di migliaia di pagine su tutti i sistemi di governo della Galassia… quindi si, so il terrestre e una decina di altre lingue-
-Se stai studiando il sistema di governo di Sirio, temo che resterai molto delusa-
-In effetti, ho appena finito. Tra qualche giorno dovrei tornare al mio pianeta-
Congelai.
Stava per andarsene.
-E… quale sarebbe, il pianeta che ha l’onore di ospitarti?-
-Thelaar terzo- Un sistema neutrale.
Il più ricco dei sistemi neutrali.
Ricoperto di città, ma non come questo schifo.
-Immagino sia molto meglio di qui-
-In effetti si, o almeno per quello che ho visto-
-Come… ci torni?-
-Una grossa AIC diretta lì parte tra quattro giorni, quando qui dovrebbe essere tarda notte-
Non aspettavo altra occasione.
Avrei finalmente potuto lasciare il pianeta avendo un posto dove andare e senza dover lasciare lei.
Sempre ammesso che avrebbe accettato di ospitarmi.
Ad ogni modo, ci parlavamo per la prima volta, non mi sembrava ancora il caso di tirare fuori l’argomento.
-Siamo in due, a voler lasciare questo pianeta-
-Ti fa proprio schifo eh?-
-Ne ho la nausea. C’è ancora posto su quella nave?-
-Ha quasi undicimila posti, è piena per poco più di metà- Fece una pausa e ci guardammo –Nemmeno ci conosciamo e tu sei pronto a seguirmi dall’altra parte della galassia-
-Sei la prima- Avevo parlato senza neanche rendermi conto di dov’era finita la conversazione. Lei mi guardò storto. Feci una pausa –Sei la prima ad essere diversa. Non solo perché scendi in strada quando potresti vivere una giornata appagante senza alzarti da una sedia, ma perché sei viva. Ti guardi intorno, cerchi, trovi e giudichi, non come questi nove miliardi di persone in questi palazzi, che prendono ciò che gli arriva e lo accettano…-
-Tutto questo lo devo a te-
-Se fossi stata come tutti gli altri, non avresti cercato il mio blog, o mi avresti ritenuto pazzo. Tu sei diversa da tutto e tutti. E non voglio perderti-
-Hai realizzato che è la prima volta che ci parliamo e tu stai già flirtando?- Sorrise.
In effetti, non mi ero quasi reso conto di tutto ciò che avevo detto.
I miei pensieri si erano collegati direttamente ai miei muscoli senza il tramite del cervello.
-Flirtando? No. Non potrei trovare una cosa che odio più di questa parola. Ciò che ho detto è ciò che penso. Non voglio perderti. Non ho mai detto di volerti costringere a dividere la tua vita con me. Non so nemmeno se sei fidanzata. A vederti mi sembra impossibile che tu non lo sia, ma non lo so. E poi, non sarei mai capace di condividere la mia vita con un’altra persona, senza danneggiarla, o ferirla. Tu meriti di meglio. Ed il giorno in cui lo troverai, tutto ciò che voglio è non perderti. Non ci siamo mai parlati fino ad ora, ma… tu hai rivoltato la mia vita. Non credo tu possa capire, ma… sei troppo importante per me. Anche se è la prima volta che ci parliamo. Non potrei accettare di perderti- Lei sorrise e abbassò lo sguardo.
Avevo esternato pensieri a caso.
Tutto ciò che pensavo, senza riflettere sul come e sui possibili effetti.
Sono stato un idiota.
Era la prima volta che parlavamo.
Doveva essere la prima volta nella sua vita che aveva a che fare con discorsi simili.
-La nave partirà il 20 alle 23, si chiama Discovery. Vedi di esserci o ti verrò a cercare, tre giorni sono lunghi da passare rinchiusi in una camera- Mi sorrise, si voltò e proseguì.
La guardai allontanarsi.
Non mi ero sbagliato.
Quella giacca scolorita, quei pantaloni stretti sbiaditi ed il cappello che non si vedeva da secoli volevano dire qualcosa.
Ho passato il resto della notte a cercare sulla Rete i biglietti per quella nave e li ho trovati.
Non credevo fosse possibile una conversazione simile.
Se n’era andata dandomi… no, non userò appuntamento, non era un appuntamento. O forse si, ma mi piace credere di essere diverso anche in questo dal resto della gente.
Siamo ancora dominati dall’istinto.
Avere una compagna, avere con lei una relazione stabile e, possibilmente, dei discendenti.
Io spero di non essere guidato dalla stessa cosa.
Io non voglio lei.
Voglio che lei sia felice, sia viva.
Voglio starle vicino.
Forse è il mio cervello che funziona male, forse mi sbaglio su tutto, ma ho bisogno di alcune certezze, anche a costo di crearmele dove non sono.
-Non sono fidanzata e non lo sono mai stata per più di cinque primi-
La sua voce mi raggiunse dalla nebbia arancione quando ormai non la vedevo più.

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Capitolo 8
*** Ghiaccio e acciaio ***


DG0 114795, DG0 114795 IV
Data e ora locale, 25/07/10507, 23.40
 
Fa un dannato freddo.
Se credevo che su Sirio d’inverno facesse freddo, era solo perché non ero mai stato qui.
È cominciato tutto un centinaio di ore solari dopo il decollo.
Qui non esistono date, il tempo si calcola in ore trascorse dalla partenza.
Io e lei eravamo in uno dei corridoi panoramici della nave, quelli con le pareti esterni completamente trasparenti.
Le stavo raccontando i miei anni passati, e perché me l’aveva chiesto lei.
Altrimenti non avrei mai pensato di annoiarla con quella successione di fallimenti che è la mia vita.
Eravamo da poco usciti dal sub-spazio, una di quelle regioni di spazio artificiali dove lo spazio intorno alla nave è dilatato e le distanze compresse.
Tutto quello che si vede dall’iperspazio è un fondo bianco dove talvolta scorre rapida una macchia colorata.
Eravamo ancora sopra l’atmosfera di questo blocco di ghiaccio planetario.
Non era male come pensavo, ma questo credo di doverlo al fatto che lei fosse con me.
Quando sono con lei, è come se il resto della gente sparisse.
È quello che ho cercato di fare per anni. Ignorare quella massa uniforme di menti che vanno in tutte le direzioni, ma tutto ciò che sono riuscito a fare è maturare un odio pazzo verso di esse.
Su quella nave eravamo quasi undicimila.
Era uno degli ultimi modelli, costruiti perfezionando il progetto originale della AIC Genesis.
E abbiamo fatto la sua stessa fine, o pressappoco.
Una voce metallica aveva da poco annunciato in un siriano perfetto che ci eravamo appena inseriti nell’orbita del pianeta e noi stavamo lasciando il corridoio.
Un lampo inondò di luce la passeggiata, rischiarata dalla debole luce della nana blu al centro del sistema.
Ora, per quanto poco io ne possa sapere di navigazione interstellare, sapevo che quello era l’effetto prodotto da una nave che usciva dal salto.
E a giudicare dall’intensità, ci era molto vicina.
Troppo.
Era uscita dal salto gravitazionale a neanche mille metri dalla fiancata, non molto sotto il corridoio.                 
Doveva essere una nave doraniana da carico, slanciata e con i vani di carico modulari.
Era grande almeno dieci volte meno di noi.
-A tutti i passeggeri, allontanarsi immediatamente dalla fiancata…-
La frase della voce elettronica fu interrotta dallo schianto.
Le barriere di elettroni alzate a poco più di un metro dalle fiancate delle navi servono a fermare polveri spaziali, piccoli missili e piccoli oggetti in generale, quelli più avanzati distruggono anche testate più grandi, ma non siamo ancora neanche arrivati vicino a qualcosa in grado di bloccare un’intera nave con lo slancio del salto gravitazionale e del calcio gravitazionale di un grosso pianeta.
Chissà che diavolo trasportava.
L’esplosione ha mandato in frantumi il pavimento del corridoio.
Se avessimo camminato leggermente più lentamente, a quest’ora staremo bruciando entrambi nell’atmosfera.
Ci saranno state più di cento persone in quel corridoio.
Lo sbalzo di pressione deve averle catapultate chissà dove.
Non appena avevo visto la nave, l’avevo spinta oltre il limite, e mi ero lanciato subito dopo di lei.
Le paratie di sicurezza, saracinesche di un qualche metallo molto solido, sono progettate per chiudersi in meno di un secondo non appena il sistema di controllo ambientale percepisce uno sbalzo di pressione o temperatura nell’ambiente o subisce danni.
Se fossimo stati un po’ meno rapidi o fossi stato un po’ meno reattivo, quel cancello spesso un metro ci sarebbe caduto addosso.
Ricordo secondo per secondo quello che successe da allora.
Mi tirai in piedi e la aiutai ad alzarsi.
-È un danno grave?-
Aveva visto perfettamente cos’era successo.
Gran parte delle poche altre che ho frequentato avrebbero chiesto cos’era accaduto. Lei mi aveva chiesto se era un danno grave.
Studiava legge su uno dei pianeti più ricchi di Kolbat.
Il pianeta nei cui pressi dovremmo essere adesso.
-Non posso dirlo. Questo tipo di nave non era nemmeno ancora stato ideato, quando studiavo all’ASTI. Direi di no, ma…-
Ero profondamente inquieto. Inquieto, non spaventato.
Era più probabile che fosse un danno grave che non uno leggero, visto quanto eravamo vicini ai reattori, ma preferii non allarmarla.
La mia frase fu interrotta da uno scoppio e un tremore nel pavimento.
-Non mi piace. Segui questa paratia verso la prua, ad un certo punto troverai una scala in discesa…-
-…che conduce ai gusci di salvataggio. Tu dove pensi di andare?-
-A recuperare un paio di cose. Se dovremo evacuare, finiremo per forza di cose sul pianeta, e ci servirà qualcosa di più addosso- Avevamo solo le nostre giacche nere, i pantaloni leggeri.
Feci per voltarmi, lei mi fermò.
-Questa cosa l’ho cominciata io, e non ti permetto di metterci fine- Mi sorrise.
Ero quasi certo che non mi avrebbe lasciato andare.
Arrivammo di corsa alle nostre cabine, avevo faticato l’impossibile per trovare la sua e farmi dare quella accanto.
Un paio di scosse attraversarono il pavimento, ma lei non mostrò di farvi caso, e io feci lo stesso.
-Prendi solo i vestiti pesanti. Per adesso siamo ancora in orbita, ma forse il danno non è così leggero-
Entrammo nelle camere.
Io non avevo nulla oltre i vestiti.
Il resto l’avrebbe portato la nave della compagnia di trasloco.
Sirio mi era diventato stretto al punto che non avrei potuto sopportare l’idea di tornarvi dopo aver passato un mese nel suo appartamento.
Uscii pochi minuti dopo con una piccola valigia e una borsa.
Lei era già sulla porta della sua con addosso un cappotto pesante che le arrivava alle caviglie e due enormi valigie –Solo i vestiti pesanti?-
-Sai già perché ero su Sirio-
Era venuta per completare un suo superprogetto sulle differenze tra la società ed il sistema governativo di tutte le razze di umanoidi della Galassia.
Scendemmo verso il corridoio.
La nave era ancora calma.
Finché il pavimento non fu scosso un’altra volta, con tanta forza che tutti quelli che erano nel corridoio finirono a terra.
Sentimmo il boato dell’esplosione.
Evidentemente lo schianto non era avvenuto così lontano dalla sala macchine.
-A tutti i passeggeri, siamo entrati in rotta di collisione con DG0 114795 IV. Recatevi ai corridoi di…- La voce si interruppe in uno stridore metallico. Un’altra esplosione. Ci tirammo in piedi. Tutti si erano messi a correre verso il più vicino corridoio con i gusci d’emergenza, sfere dotate di quattro propulsori progettate per staccarsi dalla nave in casi d’emergenza, con spazio per dieci umanoidi.
Non riesco quasi a credere che una cosa simile sia accaduta a noi due.
Erano anni che non si aveva notizia di una collisione spaziale.
Tutte le navi, dalla distruzione della Genesis, che postò con se’ diecimila persone, sono dotate di un qualche dispositivo che avrei anche studiato, ma che ho rimosso, per evitare di uscire dall’iperspazio addosso, o peggio, dentro, ad un’altra aeronave.
Evidentemente, quel fottuto cargo doraniano no.
Tutto ciò a cui pensavo era lei.
Non perché l’amassi, o cose di questo genere, sempre ammesso che io possa parlare di cose che non conosco del tutto.
Non nel senso che gli da la gente.
Lei era viva.
Avrebbe saputo fare quello che non avevo saputo fare io in anni di permanenza su Sirio, lottare davvero, combattere per risvegliare il nostro popolo.
Tutto ciò che io sono stato capace di fare è stato caricare qualche pagina di scritti su blog a caso in giro per la Rete, scritti che non suscitavano altro che un pronto intervento della Censura.
Lei avrebbe potuto fare di più, e lo stava facendo.
Doveva salvarsi, non era possibile che la sua lotta finisse su quella nave e su quel dannato blocco di ghiaccio.
Più ci avvicinavamo al corridoio, più gente c’era.
Quando arrivammo alla scala, eravamo pressati e fermi.
Stavamo per arrivare al corridoio, quando il leggero ronzio di sottofondo dei propulsori che evidentemente avrebbero dovuto salvare la nave mutò in un ruggito e la nave vibrò leggermente.
-Sovraccarico- I razzi di allineamento non erano progettati per tenere in orbita una delle più grandi navi mai costruite.
Iniziammo a sentire gli effetti della gravità.
Eravamo stesi su un fianco, se così si può dire.
La fiancata su cui ci trovavamo era rivolta verso il pianeta, e cominciammo a sentirci attratti da essa, come il resto della nave, che iniziò ad abbassare il muso verso l’atmosfera.
Da lì a poco sarebbe diventato difficile muoversi.
A forza di farci largo a gomitate riuscimmo ad entrare nel corridoio.
Ad ogni portellone chiuso che incontravo la mia ansia cresceva.
Il corridoio più vicino, dopo l’impatto, era dall’altra parte della nave.
Ne trovai uno aperto, ma gli occupanti premettero il pulsante di espulsione poco prima che lei potesse entrare.
Arrivammo agli ultimi tre.
Finalmente, ne trovammo uno libero.
Feci per entrare.
Mi bloccai quando gettai uno sguardo all’interno.
Nove occupanti, un posto libero. Dissi all’umanoide con la mano sul pulsante di non premerlo, mi tirai fuori.
-Vai tu- Le dissi.
-Cosa?- Guardò all’interno. Notò un solo posto -Ce ne sono altri…- In quei pochi istanti erano passate oltre almeno trenta persone e i due gusci erano partiti.
-Non più. Vai, ci sono altri corridoi, ti raggiungerò-
-Non te lo permetto- Mi porse una delle sue valigie –Tu mi hai svegliata, è solo grazie a te e ai tuoi post se mi sono resa conto di chi ero e perché. Questa è la mia ricerca. Prendila e conservala, sarà molto più utile a te che a me, se non dovessi farcela-
-Il corridoio più vicino…- Mi guardò storto e mi sorrise.
Sapevamo entrambi che se non avessimo lasciato la nave da lì non l’avremmo mai fatto –Stiamo precipitando e saremo sempre più veloci. Entra adesso o vi schianterete-
-Tu non…- Presi la valigia.
Non credevo che l’avrei fatto.
Forse era l’unico modo per farlo, forse sentivo solo il bisogno di farlo, e spero che sia così.
Le nostre labbra si unirono a lungo.
Gli insulti e le imprecazioni degli occupanti del guscio e di tutti quelli che ci stavano intorno scomparvero, rimanemmo solo io, lei, e la nave che precipitava.
Ora dovevo agire.
O sarebbe stato troppo tardi. Mi separai da lei e spinsi la valigia.
Non si era completamente ritirata dal margine del guscio, la guarnizione che separava il portello interno da quello esterno.
Scivolò e cadde all’indietro nel guscio.
-Addio- Premetti il bottone, i portelli si chiusero e il guscio partì.
Infine, qualcosa di utile nella mia vita ero riuscito a farlo.
O almeno lo spero.
Non posso sapere cosa sarebbe successo se fossi entrato io, tutto ciò che posso sapere è che ora io sono nell’emisfero nord di questo blocco di ghiaccio, senza la minima idea di dove sia lei.
Non so per quanto tempo rimasi a guardare quel portello chiuso.
Molto, di certo.
Finché non ho realizzato che stando lì a chiedermi se avessi fatto una cosa sensata o meno non sarebbe stato d’aiuto a me come a nessun altro.
Mi feci strada tra la gente e lasciai il corridoio.
Era forse la prima volta in cui avevo occasione di applicare tutti i miei sforzi nel valutare la situazione nel modo più completo possibile.
Valutare, calcolare, elaborare.
Sono forse un computer?
Comincio a pensare che tutti gli umanoidi lo siano.
Dovevo cercare di salvare i miei bagagli per avere qualcosa da mettermi addosso.
La gravità cominciava ad essere piuttosto intensa e presto gli oggetti avrebbero cominciato a scivolare verso la prua.
Se ci fossimo schiantati poi, ammesso che non fossimo esplosi, i danni minori li avrebbero subiti le zone dello scafo più alte e posteriori.
Lasciai le valigie in una camera che trovai aperta, sul ponte più alto e vicina alla sala macchine, e corsi verso la plancia di comando.
Se potevo essere utile in qualche modo, era lì.
Sapevo che sarei crollato se mi fossi fermato.
Dovevo trovare qualcosa di cui occuparmi, o sarei impazzito aspettando la fine in uno dei comparti più estremi.
Non avevo una gran esperienza nel volo delle aeronavi, ma non me la cavavo male con le dinamiche del volo in generale e ho lavorato ad una parte consistente al progetto di uno dei più affidabili simulatori di volo della Galassia.
Dovetti inventare di essere un pilota in congedo temporaneo perché mi facessero entrare nella cabina.
Del resto non ricordo molto.
Metà della mia mente era occupata a pensare dove potesse essere lei, il resto da calcoli che non voglio e non posso riportare.
Il pianeta si avvicinava sempre di più e la gravità divenne talmente forte che mi ritrovai a stare in piedi sullo schermo di navigazione anteriore.
Il comandante non accettò di molto buon grado la mia presenza, ma gli fui utile.
Senza di me avrebbe bruciato tutti e quattro i generatori in pochi istanti.
Riuscimmo a far rallentare la nave alla velocità di duemila chilometri l’ora e a riportare l’angolo d’attacco a meno quindici gradi prima di entrare nell’atmosfera.
Durante la discesa abbiamo perso pezzi considerevoli dello scafo, ma siamo ugualmente riusciti a rallentare a millecento chilometri l’ora a qualche migliaio di metri dal suolo.
A quel punto ci siamo resi conto di cosa sia questo pianeta.
Un labirinto senza fine di picchi e montagne ghiacciati.
Manovrare una nave simile, a quella velocità e su quel terreno era impensabile.
A quel punto, nemmeno un computer poteva riuscire ad elaborare calcoli tanto rapidamente da evitare uno schianto.
Lasciai sconfitto la cabina di comando quando la nave rallentò a novecento chilometri l’ora.
Eravamo troppo lenti per tentare di risollevarci e troppo veloci per tentare di atterrare, visto che grazie a quel comandante geniale non avevamo più i propulsori d’arresto.
Spero lei, e i tremila passeggeri che dovrebbero aver lasciato la nave, se la siano cavata meglio.
Le navi Siriane non hanno da tempo abbastanza gusci per l’intero equipaggio.
Montarne mille sarebbe troppo costoso e il risultato sarebbe troppo pesante, quindi richiederebbe più carburante.
La probabilità di un’emergenza tale da dover evacuare l’intero equipaggio è troppo bassa per compensare questi costi.
E col tempo questa cosa non ha fatto altro che aumentare.
Più siamo, meno valore ci attribuisce l’Impero.
Però intanto noi siamo precipitati.
Mentre tornavo verso la stanza in cui c’erano le mie valigie, urtammo qualcosa e la nave si inclinò vistosamente. Finii a terra, e prima che mi potessi rialzare ci schiantammo di nuovo e la poppa fu sbalzata verso sinistra.
Per andare ad impattare qualcos’altro.
Si staccò qualcosa di grosso dallo scafo, e ci inclinammo di qualcosa come novanta gradi a destra.
La poppa si lanciò verso destra ed iniziò a scendere.
La fiancata su cui ero sdraiato toccò terra.
Lo scafo si spezzò ad un paio di metri da me. Il pezzo su cui mi trovavo continuò a strisciare producendo un rumore allucinante, e si fermò poco dopo l’altro.
 
Forse persi i sensi, non so, so solo che mi risvegliai sul soffitto di un corridoio, con il pavimento accartocciato a pochi centimetri dal petto.
Faceva un dannato freddo.
E lo fa ancora.
Il corridoio s’interrompeva a poca distanza da me.
Ho avuto parecchia fortuna a non essere lanciato fuori.
Le mie valigie erano misteriosamente integre, a poca distanza da me.
Mi sono mosso in quella direzione, o almeno ci ho provato.
Mi sono spezzato una fottuta gamba.
Sarei congelato se non mi fossi messo qualcosa di più addosso, e credo che l’ipotermia sia un modo pessimo di trovare la morte.
Un po’ imprecando e un po’ strisciando ho preso una fottuta valigia l’altra era stata schiacciata.
Sono strisciato fuori.
 
Mi sono ritrovato nel mezzo di una catastrofe.
Gran parte della gente non potrebbe capire queste parole.
Non avrei potuto capire queste parole se non avessi vissuto quello che ho vissuto.
Per gran parte degli abitanti di Sirio, una catastrofe è un caccia che si schianta dentro un palazzo.
Non potete immaginare cosa sia stato per me trovarmi lì in mezzo.
Meno di metà dell’aeronave torreggiava su di me per non meno di duecento metri.
Non aveva preso fuoco, o non tutta, per lo meno.
Tutto intorno, in un raggio di… saranno stati un migliaio di metri, non c’erano altro che corpi.
Acciaio distorto e corpi.
Qualcosa bruciava.
Per un po’ pensai di essere l’unico superstite.
Poi, dall’altro pezzo della nave, quello che si era fermato, iniziò ad uscire gente.
Giaceva su un fianco, inclinato di oltre novanta gradi.
Un mostro di duecento metri d’altezza e almeno ottocento in lunghezza, accartocciato ed in fiamme in diversi punti.
Faceva un dannato freddo. Il mio primo pensiero fu di infilarmi quei dannati abiti che avevo in quella valigia, ma pensai che probabilmente c’era qualcuno che ne aveva bisogno più di me.
Raccolsi la valigia e mi avviai verso gli altri sopravvissuti.
Posando lo sguardo per caso su un pezzo di specchio notai che avevo anche un taglio sulla fronte.
L’aria per lo meno sembrava respirabile.
Non saprei nemmeno cosa stessi provando.
Niente. Stavo pensando a cosa era accaduto a lei e alla sua ricerca.
Tutti quei morti… E tutto ciò a cui riuscivo a pensare era una persona, che tra l’altro non sapevo nemmeno dove fosse. Se fosse viva, morta, sul pianeta, vagante per lo spazio.
Forse è proprio questo che una vista simile provoca.
Gli altri si muovevano lentamente.
Non ce n’era nessuno illeso, e si muovevano tutti lentamente.
Voltandomi, vidi che anche dalla mia parte di nave stava cominciando ad uscire gente.
Non avevo la minima idea di cosa fare.
Quando accade una cosa simile, non c’è nulla di già fatto, nulla a dirti come comportarti, nessuna legge che ti guidi.
Continuai a camminare verso i superstiti dell’altro pezzo di nave ed entrai tra loro.
Nessuno proferiva una parola.
Ad un tratto, un rumore acuto seguito da un basso ruggito mi fece voltare.
C’è un unico punto debole nel sistema di propulsione delle nostre navi, una sola occasione in cui i motori rischiano di esplodere.
Quando uno dei fasci di elettroni che alimentano i generatori si spostano.
Ed ora, c’era un fascio violaceo che spuntava da una fiancata.
Non vi servirà sapere come è successo.
Probabilmente non vi servirà nemmeno sapere che è successo, ma è successo.
-A terra!- Fu la prima cosa che mi venne in mente di gridare.
Una vampata di luce azzurra avvolse quel pezzo di relitto, poi fummo travolti dall’onda d’urto.
Il tutto si ripeté altre tre volte.
Quattro reattori, quattro reattori esplosi.
Al posto di quattromila metri cubici di acciaio e vetro c’era un piccolo cratere annerito.
Chissà quanta gente c’era ancora, là dentro.
Altri morti.
Distrutti, i loro corpi polverizzati dalle esplosioni.
Per quanto tanti possiamo essere, non è possibile rimanere freddi davanti ad uno spettacolo tale.
Centinaia di persone che muoiono sotto i tuoi occhi… non è possibile immaginare cosa si prova, finché non lo si vive.
Sta calando la notte, e io mi sento distrutto.
Ho perso il conto dei cappotti che mi sono messo addosso, e sono in una delle stanze più interne del relitto.
È maledettamente buio, le uniche luci sono quelle dei dispositivi della gente che c’è accanto a me.
Mi sento distrutto.
Continuo a ripetermi che non avrei potuto fare nulla per impedire tutti questi morti, che probabilmente sarebbe successo anche se io non fossi mai salito su quella nave, ma non ho la forza di rispondermi.
Non so dove sia lei.
Potrebbe essere anche già al sicuro, in un’unità di soccorso sanitario su Sirio.
Potrebbe essere morta, non lo so.
Non so niente.
Tutto ciò che so è che devo sopravvivere insieme a questa gente.
Non so come dovrò rapportarmi con loro, mi sento terribilmente spaesato.
Non so quanto duri la notte qui, ma immagino molto più che su Sirio.
Non credo che domattina questo dispositivo funzioni ancora.
Questa potrebbe essere la mia ultima pagina di diario per molto tempo.
Sempre ammesso che sopravvivrò a stanotte.
Devo tentare di dormire.
Fa molto freddo.

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Capitolo 9
*** Incubi di ghiaccio. ***


DG0 114795, DG0 114795 IV
Data e ora locale, 26/07/10507, 00.20
 
C’è poco da scrivere.
Gli incendi si sono spenti in tutta la nave, e alcuni ufficiali sopravvissuti stanno cercando di organizzarci, ma sarebbe più facile per un Siriano organizzare uno sciame di insetti.
Qui ciascuno pensa a far sopravvivere se’ stesso.
Ho prestato una delle mie giacche ad un Doraniano a cui uno dei medici superstiti ha amputato un braccio, e mi sono messo addosso il resto.
Qui il giorno non è così diverso dalla notte.
La stella di questo sistema è una nana bianca, che di giorno alza la temperatura di si e no un paio di gradi, e siamo a qualcosa come duecentoventi gradi standard galattici, un po’ più di meno cinquanta gradi celsius.
Poteva andarci molto peggio.
La Galassiaè piena di pianeti che di giorno sono spazzati da venti a novecento ggs e di notte congelano a meno cento, su cui saremmo finiti congelati o bruciati prima di entrare nell’atmosfera.
Ma forse sarebbe stato meglio.
Già una trentina dei supersiti sono morti assiderati questa notte, almeno due terzi di noi sono feriti chi più gravemente e chi meno.
Io rientro tra quelli gravi.
Non riesco ad alzarmi.
La gravità qui è qualcosa come tre volte quella di Sirio, e senza una gamba non posso riuscire ad alzarmi.
Così me ne resto sdraiato qui a congelare, a chiedermi cosa sarebbe successo se non l’avessi spinta nel guscio di salvataggio.
Forse l’ho uccisa.
Probabilmente non lo saprò mai.
Non ha senso pensare a ciò che avrei potuto o non dovuto fare.
Devo concentrarmi a sopravvivere.
Un medico sopravvissuti mi ha più o meno sistemato la gamba, ma se provo ad alzarmi tutto ciò che ottengo è una fiammata di dolore.
Ho sentito uno dei pochi rimasti indenni che uno dei gusci si è schiantato qui vicino, e il radiofaro di segnalazione funziona ancora.
Se è vero, potenzialmente potrebbe arrivare una squadra di salvataggio questa notte.
Se non lo fosse, è comunque probabile che almeno uno dei cento o quanti sono gusci siano rimasti intatti, e quindi venga prima o poi trovato. Potrebbero però metterci mesi a cercarci sul pianeta.
Gli indenni ci stanno distribuendo il cibo.
È incredibile come queste situazioni possano sconvolgere un umanoide.
O forse è il semplice fatto che non sono più con lei, l’unica che mi riuscisse di non odiare, e sto lentamente scendendo a compromessi con il mio odio.
O forse è solo che mi servono per sopravvivere, che mi piaccia o no.
Non posso muovermi e non potrò farlo ancora per molto. Il cibo rimasto nelle dispense della nave lo distribuiscono i pochi che sono rimasti interi, che saranno si e no un centinaio, quindi sono costretto ad affidarmi a loro se non voglio crepare di un misto di ipotermia, disidratazione e malnutrizione.
Non mi sono mai realmente affidato a nessuno nella mia vita, forse un paio di persone.
Affidarsi a qualcuno comporta per forza di cose fidarsi di qualcuno, e da quando ho realizzato che tutti coloro di cui mi fidavo nella mia prima giovinezza e nell’infanzia non avevano fatto altro che truffarmi e usarmi ho smesso di fidarmi della gente, e da allora lo faccio di malavoglia.
Forse c’è davvero qualcosa che funziona male nel mio cervello, perché più crescevo più mi rendevo conto di quanto la società Siriana fosse basata sulla fiducia.
Questo dannato freddo mi sta facendo congelare le dita.
Mi hanno spostato dall’enorme corridoio dove mi ero sistemato, e li capisco. Eravamo uno sopra l’altro, quasi, saremo stati in ottocento ammassati lì dentro. Se uno di noi avesse avuto la più ridicola malattia, sempre che sia possibile che dei batteri sopravvivano a queste temperature, si sarebbe sparsa a tutti in trenta secondi.
Ma almeno gli altri corpi irradiavano un po’ di calore.
Sono finito in una camera da letto a metà della nave, più vicino alla prua che alla frattura.
Non appena riuscirò a mettermi in piedi senza che una fiammata mi attraversi la gamba devo assolutamente rendermi utile in qualche modo.
È da anni che lotto contro la sensazione di essere inutile, non posso sopportarla.
Cosa che è strettamente collegata a quello che a mio giudizio è il senso della vita, che da qualche parte ho già scritto e non voglio ripetere, se avete letto le pagine precedenti con la mente sullo schermo ve lo ricorderete, se no andateci a riguardare.
Bene, avrei fatto prima a riscrivere qual è secondo me il senso della vita che a scrivere tutta questa roba, ma non mi sembra il caso di stare a cancellare.
Sono ancora capace di ironia in questa situazione.
Devo proprio essere nato male.
No, non nato male, è qualcosa di diverso, se fosse solo questo ora sarei incredibilmente più stupido di ciò che sono ora.
Devo ciò che sono a una concatenazione di cose poco piacevoli accadute nella mia vita e che scriverò solo dopo che avrò lasciato l’atmosfera di questo posto.
Devo riscaldarmi le dita.
Continuerò a scrivere tutti i giorni, così se mai questo portatile sarà ritrovato saprete da una fonte attendibile quando sarò crepato.
Ma siccome suppongo che non avrò molto da scrivere, continuerò su questa pagina.
 
27/07
Non sono ancora morto.
Ho passato tutto il dannato giorno sdraiato sulla parete di questa stanza.
Fa troppo freddo anche per dormire, e non riesco a definire la sensazione che provo.
Là fuori muoiono decine di umanoidi ogni ora e io devo stare qui disteso ad aspettare che mi portino del cibo.
Quello che dovevo scrivere l’ho scritto.
 
28/07
Non sono morto neanche oggi.
Mi sono fatto dire da un ufficiale di passaggio quanti sono morti tra oggi e ieri.
Mi ha risposto sui novanta tra Siriani e Kolbat.
Il che vuol dire almeno due volte, almeno secondo me.
L’ultima cosa che vogliono è che sappiamo che non riescono a tenerci in vita.
Fidarsi è secondo me un non voler analizzare una persona, i suoi interessi e i suoi limiti, o credere di conoscerla abbastanza.
Io ritengo che per quanto riguarda un essere senziente non si può mai sapere abbastanza. Non si può mai sapere che dopo aver prestato mille crediti ad un amico te li ridarà tutti, o almeno io non lo potrei sapere.
In questo credo che abbia influito molto la gente che ho incontrato.
Passavo i giorni a chiedermi se erano davvero chi pensavo fossero, e ciononostante continuavo a frequentarli.
Basta, mi stanno congelando le dita. Sono ancora vivo.
 
29/07
La mia vita continua a conservarsi, ma suppongo non per molto.
Sto iniziando ad ammalarmi. La mia temperatura corporea è leggermente salita e mi sento sempre più a pezzi.
Un ufficiale è venuto a portare a me e agli altri sette nella stanza da mangiare e ci ha detto che sono stati ritrovati tre gusci e con essi tre sopravvissuti.
Non ha detto altri ventisette morti, ha detto tre sopravvissuti.
Come se non sapere che con il passare del tempo non fanno che aggiungersi morti al conteggio possa risparmiarci di morire di freddo.
A proposito di freddo, sto cercando di prenderne il meno possibile per evitare di peggiorare, quindi basta scrivere
 
30/07
Siamo qui da cinque giorni e io continuo a vivere e a stare sempre peggio.
Questa notte è possibile che arrivino i soccorsi, in cinque giorni nell’iperspazio si arriva in qualsiasi posto della galassia da praticamente qualsiasi altro posto.
E comunque non siamo poi così lontani dal suo pianeta, su cui c’è il più grande aeroporto di questo settore.
Forse è legato all’atmosfera di questo pianeta, forse stanno cercando un posto su cui atterrare, forse l’hanno già trovato ma è dall’altra parte…
Bene, basta fare ipotesi che non posso verificare.
Devo cercare di recuperare le forze, voglio alzarmi il prima possibile.
La vampata è sempre sotto il mio piede, pronta a risalirmi su per la gamba non appena vi carico un minimo di peso, ma ora riesco per lo meno a muovere il ginocchio con un dolore sopportabile.
Questo subire le scelte di altri mi sta dando alla testa.
 
31/07
Niente soccorsi e ho sentito dire da una civile che i morti sono più di seicento, e più passa il tempo più rapidamente aumentano.
Inizio a pensare che ci sia qualcosa che non funzioni.
Non siamo così isolati, questo è un grande pianeta, e ci saranno trenta radiofari sparsi sulla superficie, più l’SOS che immagino il comandante abbia mandato.
Dev’esserci un motivo che li trattiene-
E anche qui potrei solo corrodermi con ipotesi indimostrabili.
Continuo a pensare a dove sia lei, e lo scrivo solo perché nutro la vana speranza che così riuscirò a smettere, ma non credo sia possibile.
È stata troppo per me, per quanto lei forse non lo sapesse nemmeno, le devo troppo, per cessare di pensare a lei.
Sono riuscito a tirarmi in piedi, peccato che per uscire dalla stanza dovrei fare un salto di un metro.
Se voglio tirarmi fuori prima che arrivino i soccorsi dovrò ancora una volta fare affidamento su qualcuno.
 
01/08
Le giornate continuano a susseguirsi una dietro l’altra, e siamo alla settima.
Sette giorni passati su quest’inferno di ghiaccio e acciaio.
Un giorno dura sulle trenta ore siriane, ma gli effetti del divario stanno già quasi scomparendo. Mi sveglio poco prima dell’alba e se mi va bene mi addormento molto prima del crepuscolo della stella che dovremmo metterci d’impegno per vedere.
Sono sempre più stanco di tutto questo.
Vorrei amputarmela, questa fottuta gamba che si è messa a funzionare male.
Se la situazione non cambierà entro un paio di giorni, chiederò a qualcuno di spararmi.
 
02/08
Quasi dieci giorni.
Siamo qui da quasi dieci giorni e non è ancora successo niente.
La gente continua a morire, questa mattina non si sono svegliati due dei miei compagni di stanza. Li hanno portati via e sostituiti.
Sto iniziando a ragionare sul motivo per cui non sono arrivati i soccorsi.
In dieci giorni si potrebbe percorrere un’intera galassia con gran parte dei mezzi di propulsione per-luce.
Se ci fosse una flotta ostile o di predoni sopra le nubi, non saremmo più qui. Avrebbero avuto occasione di distruggerci tutti anche con una singola bomba, o ci avrebbero deportati da tempo.
Le condizioni atmosferiche non sono particolarmente proibitive, almeno secondo l’ultimo ufficiale che ho visto.
Dice che i sistemi di rilevamento ambientale della cabina funzionano ancora, e la composizione dell’aria non è troppo ostile al volo.
Mi sentirei di escludere che nessuno abbia ricevuto i segnali dei radiofari.
Ce ne saranno trenta sparsi su entrambe le facce del pianeta, più quello della nave e il nostro SOS, lanciato su una trentina di frequenze.
Tutte ipotesi che mi sto inventando per tentare di nascondermi la cruda verità.
Non vogliono recuperarci.
Vogliono far sembrare che la nave non sia mai precipitata, forse faranno arrivare alla destinazione la nave gemella di questa cambiata di nome, inventeranno una scusa per i radiofari.
Non vogliono ammettere di aver perso diecimila umanoidi provenienti da quasi tutte le razze senzienti della Galassia.
Non vogliono far sapere che anche le solidissime supernavi della Light Industries possono essere passate da parte a parte da un’altra nave e precipitare.
O forse la mia mente poco ottimista ha già corso troppo. Non mi sono neanche reso conto che una cosa del genere non è nemmeno lontanamente possibile.
Ci saranno stati più di diecimila portatili su tutta la nave, e solitamente quando una creatura intelligente si trova in pericolo tende a mettere altre creature in condizione di assisterla.
Chiede aiuto.
Saranno partite almeno seimila chiamate interstellari dalla nave, e non siamo precipitati in trenta secondi, le onde dovrebbero aver avuto tutto il tempo per raggiungere la stazione di comunicazione più vicina e da lì le destinazioni.
È possibile che non vogliano venirci a prendere, ma una cosa simile sarebbe difficile da immaginare.
L’Impero dovrebbe controllare tutte le reti di informazione di mezza galassia, dai network governativi ai portatili dei parenti e degli amici dei sopravvissuti.
Forse non voglio credere che una cosa sia possibile.
Forse, forse, forse.
Non so niente, e quelle poche cose che so per certo mi servono solo per arrivare a nuovi forse.
Sto impazzendo, forse sto iniziando a delirare.
Basta scrivere, forse il sonno mi restituirà la lucidità. 

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Capitolo 10
*** Viscere d'acciaio ***


Data e posizione sconosciuti.
Circa dieci ore dalla partenza da DG0 114795 IV
 
Parto dicendo che questo non dovrei stare scrivendolo, e che se dovessero entrare e vedermi rischierei la fucilazione diretta senza processo.
Ma non posso tacere su questa cosa.
Una dozzina di ore fa, nella mia cabina è spuntato un ufficiale euforico, mi ha svegliato e mi ha urlato che ci venivano a prendere, come se non fossi stato in grado di determinarlo da solo dal ronzio assordante. Mi ha sorretto ma mi sono rifiutato di farmi prendere come una lamiera di metallo e mi ha portato fuori dalla nave.
Ho studiato quei motori per anni, e più ci avvicinavamo all’uscita dal pezzo di nave più la mia preoccupazione aumentava.
Erano i motori di una nave da guerra dell’Impero.
Una volta fuori notai che non mi sbagliavo.
Fluttuava poco sopra il luogo dello schianto, i getti di scarico avevano spazzato via tutto da sotto. Ghiaccio, detriti, corpi, tutto.
Avevano calato delle corde attorno a cui si stavano accalcando i sopravvissuti.
Ci accalcammo anche noi.
Quella folla riusciva quasi a cancellare il freddo abissale del pianeta.
Le corde continuavano a salire e scendere dai portelloni di carico inferiori, con appesi membri dell’equipaggio della nave.
Finalmente era finita.
Tirato a bordo, chiesi che mi portassero dal comandante.
Era come se fossi scomparso.
Ogni membro dell’equipaggio a cui chiedevo spostava lo sguardo su di me e passava altrove.
Li capisco anche, stavano prendendo a bordo migliaia di persone, ma poco fa questa cosa mi rese terribilmente furioso.
La gamba mi faceva un male allucinante, ma avevo urgentemente bisogno di trovare quel comandante.
Non potevo sopportare l’idea di lasciare lei sul pianeta potendo fare qualcosa per salvarla.
O recuperare la sua ricerca.
Dei di tutte le epoche, se non l’avessi spinta in quel guscio tutto questo non sarebbe successo.
Tutta la marcia fu piuttosto dolorosa, e quando raggiunsi il ponte di comando dovevamo stare lasciando l’atmosfera.
Per la seconda volta faticai l’impossibile per entrare in cabina, ma stavolta non ci sono riuscito.
Sarei saltato addosso ad una di quelle fottute guardie se non fosse uscito un uomo dalla cabina.
Un Siriano, con l’uniforme di ufficiale della marina militare.
Prima che potesse dire qualsiasi cosa gli ho chiesto una lista di coloro che erano stati portati a bordo.
È iniziato un folle girare per la nave finito più o meno così.
Più il tempo passava più impazzivo, e credo che questa cosa continui ancora.
Sono infuriato come non mai.
Fuori dall’atmosfera avevano recuperato dodici gusci.
In nessuno dei quali risultava esserci una Siriana corrispondente alla descrizione che gli avevo fatto.
Mi hanno detto che i superstiti sarebbero stati riuniti nella sala tattica per l’identificazione.
E ce ne siamo andati.
Senza di lei.
Non avevo molte possibilità, lo riconosco.
Ma non riesco a non sentirmi uno schifo lo stesso.
Tutto ciò è molto breve, ma non ho voglia ne’ modo di soffermarmi sugli avvenimenti delle ultime ore.
Avverto una forte incongruenza tra ciò che penso.
Mi rifiuto di scrivere che la mia mente sia divisa in due perché è un’espressione pessima, e poi non è nemmeno divisa in due.
È frammentata in chissà quanti pezzi, di ciascuno dei quali sento distintamente la voce.
Avrei potuto fare qualcosa, non avrei potuto, l’ho uccisa, l’ho salvata…
E qualcos’altro con cui non vi annoierò.
Ora come ora sono fermo su un letto dell’infermeria in attesa che raggiungiamo la nostra ignota destinazione.
Al momento sono nell’infermeria di questa nave.
Solo robot, i medici sono solo robot.
E funzionano bene, direi, dal modo in cui mi hanno risistemato la gamba.
Adesso ho una specie di armatura intorno al polpaccio.
Sostanzialmente, cammino appoggiandomi su quella e non sulla mia gamba.
Nuova frontiera dell’invasione delle macchine, adesso puoi anche camminare senza toccare il suolo.
Non la sto contrastando, non fraintendermi, eventuale lettore, perché in questo la sto usando e mi fa estremamente comodo. È una constatazione.
Le macchine sono ovunque.
Deducine cosa vuoi, eventuale lettore.
Subito dopo l’intervento mi sono venuti a prendere.
Ci vuole veramente poco per adattarsi all’esoscheletro, una volta che smettono di pruderti i chiodi piantati nelle ossa diventa solo un peso extra sulla gamba.
La sala tattica è una grossa stanza ad anfiteatro abbastanza simile alle aule dell’ASTI.
Ci avevano stipati e compressi tutti e tremila in quella stanza.
Si distinguevano abbastanza chiaramente i membri dell’equipaggio dai superstiti.
Noi stavamo in piedi e ci guardavamo attorno come morti viventi, ed in un certo senso proprio questo eravamo.
Loro ci vedevano probabilmente come un grosso, malato e ingombrante problema, viste le facce. Presidiavano a distanze regolari le pareti, come se avessimo avuto una qualche possibilità di lasciare quella stanza.
Una trentina giravano tra i superstiti, chiedendo nomi e dati personali vari.
Mi spinsero in mezzo agli altri e scomparvero.
Fantastico, di nuovo ammassati come la prima notte.
E giù epidemie.
Evidentemente non interessiamo più di tanto vivi all’equipaggio.
Più tempo passo qui più l’ipotesi che avevo pensato all’inizio diventa plausibile. Spero ancora di stare sbagliandomi.
Quando mi hanno chiesto il nome gli ho chiesto di lei, e tutto ciò che ho ottenuto è stata una cosa del genere, che ci saranno state cento persone lì in mezzo che corrispondevano a quella descrizione, e che senza un nome non poteva fare nulla.
Un nome.
Questa è una cosa che avrei potuto cambiare.
Non avete idea di come mi sia sentito quando mi ha chiesto il nome.
Ma forse è meglio così, forse è meglio non sapere cosa le sia accaduto.
Cosa io le abbia fatto.
Forse starei peggio.
Il dolore che provo adesso è pareggiato solo dalla rabbia per un insieme di cose cui accennerò adesso.
A un certo punto, a gruppi di cinquanta ci hanno portati fuori dalla stanza.
Ero tra i primi. Cinque guardie ci hanno condotto lungo una cifra di corridoi, rampe e ascensori fino ad un’ampia stanza.
Alla scrivania seduta al fondo c’era quello che doveva essere il comandante, vista la corazza e i gradi sulla spalla.
Ci hanno fatti entrare e ci hanno chiuso la porta alle spalle.
Riporterò parola per parola ciò che ho sentito.
-Sono desolato che non ci siano abbastanza sedie per tutti…-
-Le sedie sono l’ultimo dei nostri problemi, comandante- Risposi io –Farebbe una cosa più utile dicendoci perché siamo qui-
-Ègiusto. Ho molto da dirvi al riguardo. Innanzitutto, devo anticiparvi che tutto ciò che verrà detto in questa stanza non dovrà uscirne per nessun motivo. Più tardi vi chiarirò questo. Sono qui per ordine dell’Imperatore in persona. Il vostro SOS è stato ricevuto pochi minuti dopo il lancio. Ciò che è avvenuto allora corrisponde approssimativamente a questo: i segnali provenienti dalla vostra nave sono stati bloccati-
-Cosa?!- L’ho urlato.
Era successo davvero.
Avevano tentato di nascondere lo schianto. E se quanto diceva il comandante era vero, c’erano riusciti.
-Non è come pensate. Eravate molto prossimi al confine con i Domini Stellari, ed è stato ritenuto opportuno…-
-Cosa è stato ritenuto opportuno? Far morire di freddo e fame centinaia e centinaia di compatrioti e non? Perché eravamo vicini al confine? Ci siamo persi una dichiarazione di guerra?-
-No, ma recentemente le ostilità sono…-
-Aumentate. E avete oscurato i segnali della nostra nave per proteggerci. E dopo di questo a cosa ci chiederete di credere, al fatto che la Galassia è a forma di W?-
-Signore…- Mi interruppe uno dei superstiti.
-Prima di fermarmi ragiona, compare. Se fosse andata così, perché non sareste intervenuti per cinque fottuti giorni?-
-Sono state rilevate navi Kolbat e Doraniane nei paraggi, e non volevamo causare tensioni-
-Così avete pensato bene di lasciar morire centinaia se non migliaia di umanoidi?-
-Una crisi galattica…-
-Crisi galattica? Ora fatemi capire, comandante, che tipo di crisi galattica causerebbe una flotta sanitaria mandata su un pianeta a recuperare migliaia di superstiti di uno schianto?-
-Non è così se…-
-Vi fornisco una versione alternativa. Avete bloccato i segnali della nave, ma quando si sono attivati i radiofari dei gusci di salvataggio avete scoperto di essere fottuti, perché qualcun altro avrebbe rilevato i radiofari e si sarebbe chiesto cosa ci facevano più di trenta segnali di emergenza su un pianeta popolazione 0, e avrebbero scoperto lo schianto. Così prima avete tentato di oscurare anche quelli, non ci siete riusciti, così avete optato per fare finta di nulla, e qui si spiegano i giorni trascorsi prima del vostro miracoloso arrivo qui. Poi improvvisamente avete rilevato forse una nave estranea in avvicinamento al sito dello schianto, e allora avete preso la brillante decisione di mandare questa nave da guerra, con tanto di caccia che probabilmente ora stanno vagando per il pianeta alla ricerca dei gusci di salvataggio, per distruggerli e spegnere i radiofari. E intanto magari, mentre eravamo tutti radunati a prua, ben distanti dai cannoni, avete fatto saltare il relitto. E tutto questo magari con l’appoggio dei Doraniani a cui non andava tanto a genio che si sapesse che una loro nave avesse causato il più grande disastro umanitario degli ultimi mille anni. E siete così riusciti a nasconderlo al resto della Galassia- Avevo per tre quarti macinato ragionamenti alimentato dalla rabbia e per un quarto improvvisato, specie nella parte dell’oscuramento dei gusci e dell’arrivo della nave estranea. Ma sembrava avessi colpito nel segno.
Il comandante restò a lungo in silenzio.
-Tutte supposizioni esatte, signore, meno la caccia dei gusci. Tutti i radiofari sono stati disattivati da una pulsazione elettromagnetica che abbiamo lanciato nella ionosfera. A questo punto posso anche dirvi il resto. Non appena avremo terminato l’identificazione i vostri parenti saranno avvisati della vostra posizione e incolumità, ma non potrete raggiungerli. Tra breve saremo accostati dalla nave gemella di quella su cui viaggiavate, il cui nome sarà modificato, e concluderete il vostro viaggio. Allora sarete liberi di riunirvi con i vostri amici e parenti. I vostri bagagli saranno sostituiti con indumenti offerti dalla Light Industries. Per ogni altra cosa, potrete chiedere agli ufficiali di bordo. L’unica cosa che vi chiediamo è di evitare di fare parola con chiunque del disastro-
-Evitare di farne parola con chiunque. E con i familiari dei morti?- Quel bastardo non ha risposto. Ha sospirato e guardato lo schermo della scrivania.
-I familiari saranno compensati per la perdita e trasferiti su un pianeta non ancora determinato. Scompariranno dai registri d’imbarco-
-Non avete pensato, neanche per un secondo, che ammettere un errore di calcolo da parte dei Doraniani e una progettazione e organizzazione non adeguata da parte vostra sarebbe stato più semplice che dare vita all’insabbiamento più grande dell’ultimo millennio?-
-Signore, siamo sull’orlo della guerra. I Doraniani spendono ogni singolo credito che gli resta in tasca in armi, i Kolbat hanno spostato tutte le navi armate dei Domini lungo il confine e i Borg hanno aspettano solo di schierarsi dalla parte di quello che si rivelerà il più forte. Tutte le altre razze si preparano a difendersi dalla distruzione. Se si venisse a sapere cos’è accaduto, quanto meno il Senato dichiarerebbe guerra a Doran, i Kolbat si metteranno dalla nostra finché i Doraniani non saranno schiacciati e una volta fatto ciò ci verranno contro. Non possiamo rischiare una guerra. E non potete farlo voi spargendo la voce di quanto vi è accaduto. Vi chiedo solo questo: pensate ai vostri familiari. Pensate ai vostri simili- Non aveva idea di quanto poco quella frase avesse effetto su di me.
Questo è forse uno dei più grandi vantaggi di vivere la vita quasi completamente in solitaria.
Non c’è nulla da perdere.
Non appena ho trovato qualcuno con cui dividerla questa vita, l’ho persa, e mi ha causato un dolore che non immagini, soprattutto perché lei era l’unica.
Quell’infame ci ha congedati ma ha fatto chiudere la porta prima che io, rimasto solo, potessi uscire.
-Quanto vale il vostro silenzio, signore?- Mi chiese, con un sussurro.
Immaginavo che avrebbe tentato di comprarmi.
Il denaro.
La migliore droga di tutti i millenni, la risorsa alla base di tutte le società civilizzate della Galassia.
Non avevo una chiara idea di cosa rispondere.
Se avessi dovuto fare ciò che ritenevo giusto, avrei disarmato una delle guardie della porta e sparato a quell’infame, ma non sarei mai riuscito a lasciare la nave, e comunque non aveva un gran senso una simile azione.
No, dovevo fingere che il denaro mi interessasse.
E siccome si trattava di una cosa grossa, la sparai grossa.
-Sette milioni e mezzo di crediti, più la cancellazione a vita della mia restrizione all’accesso alla Rete- L’altro scrisse sullo schermo e mi fissò a lungo.
-Voi mi state chiedendo la pistola con cui mi sparerete dopo aver giurato di proteggermi-
-Non potete sapere cosa farò con la pistola, mentre sapete per certo che se non me la darete la prenderò da qualcun altro-
-Maledizione, sei una specie di genio. E va bene, la tua restrizione d’accesso alla rete la farò cancellare. I crediti ti arriveranno sul portatile tra poco. Ora vai, ti prego-
E questo è quanto. Ora sono di nuovo in infermeria, ma alla rabbia e allo sconforto si è unita una mia netta sensazione di disagio.
Sono diventato di punto in bianco un pericolo per loro.
E sono pronto a pensare che faranno tutto per eliminarmi.
Bizzarro, la mia situazione non è cambiata di una virgola.
Sul pianeta rischiavo di crepare congelato, adesso potrebbe entrare un soldato da un momento all’altro e spararmi.

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Capitolo 11
*** Boredom ***


Data e ora indeterminata, conteggio del tempo trascorso dalla partenza dal pianeta dimenticato.
Posizione ignota, guscio di salvataggio della A.I.M. Victory.
 
Fantastico, ho sempre desiderato trovarmi in una situazione del genere.
Almeno ho tutto il tempo e la voglia di scrivere nei minimi dettagli perché ora sono qui a fluttuare da qualche parte nell’universo nei minimi dettagli, forse annoiandoti a morte, eventuale lettore, ma non avendo altro con cui tenermi la mente sgombra da rimorsi e dolore a palate, lo farò ugualmente.
Ho concluso la precedente pagina di diario dicendo che ero sul punto di morire.
Ebbene, le mie preoccupazioni erano fondate.
Me la sarei potuta risparmiare quella scenata nella cabina del comandante. Almeno finché non saremmo giunti in vista della nave sostitutiva di quella su cui stavamo viaggiando. O forse no, ho fatto bene a gridarglielo in faccia cosa ci aveva fatto, o contribuito a fare, e a gridarlo agli altri quarantanove nella cabina con me, forse non avrei avuto occasioni migliori, anche perché visto che sono ancora vivo alla fine non ho molto da rimpiangere.
Dopo aver urlato in faccia al comandante sono tornato all’infermeria prima di tutti gli altri, e sono rimasto lì per non so quanto. A guardarmi intorno.
Ero circondato da corpi sull’orlo della perdita di coscienza.
Avvolti da strati di coperte, gli sguardi persi nel vuoto.
Sperai di non essere come loro, e lo ero. Lo sono. Dove in loro ci sono paura e tristezza in me c’è la rabbia che sconfina nell’ira, per quanto cerchi di restare lucido e vigile.
Non è passato molto da quando me ne ero andato dalla cabina del comandante, prima che sul pratico computer da tasca che permette a un qualsiasi umanoide della Galassia di avere accesso a tutti i suoi soldi senza doversi alzare dal divano, il PCM, la stessa cosa su cui sto scrivendo in questo momento, comparisse la richiesta di conferma dell’accredito di tre milioni di crediti.
Mi chiedo perché l’abbia fatto, visto che subito dopo ha mandato due ufficiali con l’incarico di uccidermi. Forse sperava che così mi sentissi al sicuro.
Si sono presentati un paio di minuti dopo la comparsa dei crediti sul PCM, sono comparsi nell’infermeria in armatura d’assalto, placche di qualche astruso materiale semi-indistruttibile, che però continua a lasciar morire i nostri soldati a 10^un-numero-molto-grande anni luce da casa.
Le navi da guerra partono, lasciano l’atmosfera e ritornano cariche per metà di uomini e per metà di bare.
E tutto quello che quella gente e le loro famiglie meritano è un assembramento delle più preziose teste dell’Impero e un minuto di raccoglimento. Quando poi le armature lasciano morire qualcuno di particolarmente alto in grado, il suo nome viene inciso su una lastra nera alta quanto un palazzo che spunta dal centro della piazza davanti al Palazzo.
Perché il valore della vita è relativo.
Insomma, sono entrati questi due.
Ed hanno iniziato a sparare a caso per tutta l’infermeria.
Per cercare di uccidere me, avranno crivellato cinquanta persone.
Mancando me.
Devo ringraziare il rivestimento antiproiettile robot-medico che mi stava davanti quando quei due sono comparsi.
Hanno cessato la raffica per qualche momento, e mi sono lanciato fuori mentre ispezionavano i cadaveri.
Prima spara, poi guarda se hai ucciso quello giusto.
La vita di quella gente non è niente per uno che comanda un pezzo di metallo da centocinquanta milioni di crediti.
Non si sono accorti subito che qualcuno era uscito, per mia fortuna, grazie ai sopravvissuti che si sono messi a correre in tutte le direzioni e alle loro urla.
Solo una volta fuori ho ripensato ai sopravvissuti.
Alcuni stavano uscendo dalla stessa porta da cui ero uscito io, altri erano ancora dentro.
E probabilmente ci sono ancora adesso.
Hanno aperto il fuoco un’altra volta, su quelli rimasti dentro.
Occhi che vedono, bocche che parlano, quindi hanno pensato bene di uccidere tutti.
Gli spari mi rimbomberanno nelle orecchie finché avrò vita.
Basta morte. Ho visto troppa gente morire, per l’idiozia di chi si crede un dio per il fucile che ha in mano, di chi piuttosto che risolvere tensioni con diplomazia e logica preferisce lasciare migliaia di persone a morire di freddo ed epidemie.
Immagino che se i sopravvissuti che sono riusciti a fuggire dell’infermeria raggiungeranno un’altra delle stanze dove ci hanno “immagazzinati”, non esiteranno a fare fuori anche loro, magari assicurandosi che stavolta non fugga nessuno.
Non voglio neanche pensare a cosa stia succedendo ora su quella nave.
Potrebbero… potrebbero aver preso la decisione di ucciderli tutti, l’Imperatore attuale potrebbe prendere una simile decisione.
Le persone la cui testa sta più a cuore a quel genio sono gli ammiragli, i generali e gli ignoti al comando della Censura.
Gli altri sono fuggiti in direzioni a caso, io ho cercato di fermarne qualcuno, ma come al solito mi hanno rivolto uno sguardo di sfuggita e hanno continuato a correre nella stessa direzione. Il massimo che ho ottenuto è stato un “corri, ti prenderanno!”. Come se non lo avessi saputo.
Mi chiedo come sia possibile dopo dei milioni di anni, che la logica abbandoni completamente la gente nei momenti in cui potrebbe averne bisogno.
Se siamo inseguiti, che motivo avrei di fermarti, se non dirti dove fuggire.
Il risultato è che non sono riuscito a portare nessuno al corridoio d’accesso ai gusci d’emergenza.
Non ho trovato molta gente sulla nave, solo qualche quartetto di soldati di pattuglia.
Evidentemente il comandante aveva preferito mettere al corrente meno gente possibile su quello che aveva intenzione di fare.
Alcuni hanno fermato, mi hanno chiesto dove stessi andando.
Ho tirato fuori una storia su uno dei superstiti dello schianto che aveva iniziato a sparare in infermeria, e mi sono liberato di tutti loro.
Quanto dev’essere incapace quel comandante.
Non ha mai superato quella che è la natura dei Siriani.
Io sono superiore a loro, per questo basta che vado lì con la mia superiorità e loro soccomberanno.
Perciò perché prendere contromisure preventive? Perché mettere dei soldati a guardia dell’infermeria?
Spero che non siano così tutti i capitani della Flotta d’Assalto.
Comunque, grazie a questo idiota, ora sono vivo.
Solo quando sono arrivato ai gusci di salvataggio e sono passato davanti ad un terminal, ho visto la mia faccia accanto alla scritta “terrorista, responsabile di circa cento morti in infermeria”.
Peccato che gli unici soldati nel corridoio erano dall’altra parte rispetto a dove si trovava il terminal.
Poco prima che entrassi nel primo guscio, è suonato l’allarme, e i due ufficiali sono spuntati nel corridoio.
Con il sussurro con cui la porta si è chiusa, mi sono lasciato alle spalle la strage che è avvenuta nella nave.
Lo scrivo chiaro e tondo, così, nel caso non dovessi sopravvivere, il che è probabile, visto che non credo che una volta che avranno realizzato che sono fuggito mi lasceranno tranquillamente scorrazzare per la Galassia: sulla A.I.M Victory, su ordine del comandante, sono stati uccisi tra i settanta e i novanta umanoidi di varie razze della Galassia, nel tentativo di uccidere me.
Premuto il tasto di espulsione, mi sono abbandonato sul cuscino finché la gravità artificiale non è stata abbastanza debole perché iniziassi a fluttuare per l’interno.
Ora, sarei ridotto in cenere dai cannoni della Victory, se pochi secondi dopo il lancio, la nave non avesse eseguito il salto gravitazionale, lasciandomi da solo a fluttuare.
L’onda d’urto creata dal salto mi ha catapultato abbastanza lontano dal pianeta, quindi ora non rischio di schiantarmi su di esso, almeno non prima che finisca l’aria.
Fluttuo da circa venti minuti, nel silenzio più completo. Il mio dispositivo multimediale mobile è andato a farsi fottere con il resto del relitto della Discovery, con tutto il resto di ciò che avevo portato con me nel viaggio.
Fortunatamente, il mio archivio di musica è al sicuro su Thelaar terzo, in un albergo vicino al suo appartamento.
Forse.
Se non li faranno confiscare prima che li avrò raggiunti
Mi aveva detto dove abitava, prima dello schianto. Un appartamento in uno dei grattacieli vicini al centro.
Non una cosa ridicola tipo il mio prefabbricato.
Il problema è che credo che non l’abbia lasciato aperto, quindi non potrò entrarvi.
Meglio non pensare a cosa sarebbe potuto essere se ci fossimo arrivati a quell’appartamento.
Ma non devo dimenticarmi di lei, per quanto potrebbe essere piacevole.
È ancora da qualche parte, deve esserci. Dispersa sul pianeta o alla deriva nello spazio, deve essere ancora là fuori, con il suo progetto di tremilaseicentododici pagine.
Ho tre milioni di crediti, devo ritrovarla.
Non posso tollerare che resti dispersa da qualche parte, viva o meno. Sarà forse la prima cosa che tenterò di fare, su Thelaar.
Non importa quanto dovrò spendere, devo solo avere la certezza di aver fatto tutto ciò che potevo per ritrovarla.
Bene, ed ora che sai questo, eventuale lettore… continuerò a scrivere, finché le palpebre non mi crolleranno sugli occhi, perché non ho altro da fare e non posso accettare di abbandonarmi alla rassegnazione.
I gusci di salvataggio standard hanno in dotazione un radiofaro su diverse frequenze e diverse torce molto potente, ma io ho preferito disattivarli. È una cosa che si può fare solo dalla Seconda Guerra Galattica, da quando i progettisti hanno realizzato che se il motivo per cui i gusci vengono lanciati è l’attacco di una nave nemica, non è un’ottima cosa che emettano un segnale recepibile da chiunque nel raggio di un anno-luce o due.
Non ho dubbi che torneranno a cercarmi, per questo ho spento tutto e fluttuo nella penombra dello spazio interplanetario.
Per poco, forse, visto che mi sto lentamente spostando dal cono d’ombra gettato dalla palla di ghiaccio da cui me ne sono appena andato.
Forse poi potrei anche provare a fare uno scarabocchio di ciò che vedo da fuori dalla finestra, anche se non so cosa possa uscire vista la mia scarsa abilità nel disegno, per di più in assenza di gravità.
No, meglio niente scarabocchio.
Tanto quello che vedo non è altro che questo: una palla nera ed una fonte di luce più lontana, che rende invisibili tutte le stelle alle sue spalle. Quando sarò fuori vedrò anche una parte della zona illuminata, ma a parte le nubi azzurre non so cosa vedrei del pianeta.
Bizzarro, non sono mai stato nello spazio ed ora mi ci ritrovo disperso in mezzo. Disperso, distrutto, freddo e confuso.
Ho sempre immaginato scenari grandiosi, enormi navi che solcano nebulose, resti di supernove... viaggi turistici nei sistemi più belli della Galassia.
La realtà non è altro che un lenzuolo nero punteggiato di stelle e qualche lontana nube di gas. Aspettative, basate su null’altro che la speranza di un posto migliore. Non sapevo nulla, neanche m’interessava, sapendo che difficilmente sarei riuscito a lasciare i bassifondi di Sirio.
Ho già esaurito le cose da scrivere.
Non potrei fare altro che speculazioni su ciò che potrebbero farmi.
Di certo, non mi lasceranno qui indisturbato.
Come minimo manderanno qualche caccia a cercare di ridurmi a brandelli, o addirittura qualche A.I.M..
Se così sarà, il massimo che posso fare è… niente.
Ho sempre odiato non fare niente.
Al punto da iniziare a scrivere questo diario.
Se dovessi sopravvivere, o non mi trovassero, poi è probabile che rintraccino dov’ero diretto.
Grazie a questi cazzo di PCM, la Banca Governativa sa sempre dove trovarci. E abbandonarlo da qualche parte equivarrebbe a perdere l’unico accesso che ho ai miei crediti. Ci controllano con qualcosa di cui abbiamo bisogno, l’unico modo per non essere pedinati è privarsi della totalità del proprio denaro. Non si può neanche cambiare banca, siamo arrivati al punto che è stato convalidato un decreto che rende fuorilegge tutte le organizzazioni bancarie al di fuori della Banca Centrale.
“Per distruggere la speculazione finanziaria e monitorare gli investimenti, rendendoli più sicuri e responsabili”.
Tutto ciò che monitorano sono i nostri soldi e i nostri spostamenti.
Il denaro contante è fuorilegge da secoli, forse un millennio.
Se non voglio passare il resto della vita in una situazione che non è diversa da quella in cui sono adesso, i crediti mi servono, quindi temo che dovrò continuare a fuggire, o proteggermi.
E non so quanto possa essere facile.
Mi chiedo quanto ci metteranno, a divulgare per tutta la Galassia un file con la mia faccia sopra, dichiarandomi il terrorista responsabile della distruzione della Discovery e della sparatoria nell’infermeria della Victory.
Se poi l’Imperatore ha anche l’appoggio dei Doraniani, l’avviso di ricerca non ci metterà molto a spargersi e a mettere tutti i governi sulle mie tracce.
E magari anche su quelle di tutti gli altri superstiti.
Dèi di tutte le epoche, se penso alla piega che questa cosa potrebbe prendere…
Potrebbe finire con la guerra che l’Imperatore sperava di evitare lasciandoci a morire sull’inferno di ghiaccio.
O forse sto solo divagando con la mente.
Mi capitava spesso da bambino… No, è una cosa che ho sempre fatto. La mia vita è sempre stata troppo noiosa perché io avessi potuto accontentarmene, e questa credo sia la cosa che mi ha condannato alla mia attuale solitudine.
È la prima volta che ripenso a mia cugina.
Molta della musica grazie alla quale non sono depresso, la devo a lei. Non l’ho nemmeno salutata prima di salire sulla Discovery. Credo che mi avrebbe capito se le avessi spiegato il perché, ma è comunque una cosa che mi sembra quantomeno… ingiusta.
Ora, credo che smetterò per un po’. Che io sappia, nei gusci ci sono delle provviste alimentari.
Le cercherò.

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