Phobos and Deimos

di Hellionor
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Occhi di cielo ***
Capitolo 2: *** Hagar ***
Capitolo 3: *** Famiglia ***
Capitolo 4: *** La fine dell'inizio ***
Capitolo 5: *** Theseus ***
Capitolo 6: *** A volte si è così vicini da volersi lontani ***
Capitolo 7: *** Diari ***
Capitolo 8: *** Riflessi ***
Capitolo 9: *** Storie ***
Capitolo 10: *** Numeri ***
Capitolo 11: *** Compromessi ***
Capitolo 12: *** Marte ***
Capitolo 13: *** Equilibrio ***
Capitolo 14: *** Tanto il tempo passa e passerà ***
Capitolo 15: *** Sposami! ***
Capitolo 16: *** 19 ore ***
Capitolo 17: *** Umane ***



Capitolo 1
*** Occhi di cielo ***


Bene, benvenuti!
Ok, magari non si dovrebbe iniziare così, ma vi chiedo scusa.
Questa è la prima storia che decido di pubblicare su EFP, e, ad essere sinceri, è la prima Fan Fiction che scrivo sui Thirty Seconds to Mars. Spero vi piaccia almeno un pochino.
Potrei dirvi un sacco di cose su di me, ma evito di annoiarvi (senza contare il fatto che non sono poi così interessanti).
Vi lascio allora alla lettura.

 

Si dice che Deimos, un giorno, quando l'attrazione di Marte diventerà troppo forte, si schianterà sul pianeta stesso; mentre Phobos scivolerà verso gli inesistenti confini dell'Universo. 
Altri, invece, ipotizzano che anche il secondo, dopo l'impatto del primo, finirà a collidere con Marte. E così, i due satelliti verranno divisi e distrutti proprio dallo stesso che li aveva avvicinati.

 

Capitolo 1
Occhi di cielo

 



Guardò ancora una volta l'orologio al polso sinistro: non avrebbe mai creduto che si potesse essere così in ritardo rispetto alla sua tabella di marcia, non in un giorno terribilmente decisivo come quello. Le otto e mezzo.
Sentiva i secondi scorrere veloci e inarrestabili verso le nove e dieci, orario in cui avrebbe dovuto essere seduta con le gambe irrigidite dall'ansia sulle comode poltrone chiare dello studio del signor Bertoli, il suo datore di lavoro.
Si sistemò il sottilissimo cinturino nero e tornò dall'uomo rotondo e non troppo alto che già tante volte aveva risposto alle sue domande. Era stato gentile, fino a quel momento, ma sapeva bene che la sua insistenza l'avrebbe irritato e che i suoi spessi baffi avrebbero assunto una qualche strana posizione che le avrebbe fatto capire i suoi pensieri. Era sempre stata fin troppo capace di osservare ogni minimo dettaglio di chi la circondava.
“Signorina, tra poco arriverà il conducente e il mezzo partirà, non si preoccupi.” le disse non appena la vide, mentre il suo faccione bonario cercava di imporsi un sorriso rassicurante. Non era bravo a mentire, forse in questo si assomigliavano.
“Sì, mi scusi ancora, ma... tra quanto poco? Non posso permettermi di ritardare, non oggi.” rispose Nimhea, lasciando che i suoi occhi e il suo sorriso si scusassero per il tono di voce altezzoso che le era sfuggito.
“Le conviene prendere un taxi, allora.”
La ragazza lo guardò ancora per qualche istante, poi lo ringraziò in fretta, si girò e attraversò la strada, diretta a casa sua, l'ultimo condominio in fondo, sulla destra.
Arrivò velocemente alla sua bicicletta, gettò la borsa nel cestino davanti al manubrio, e legò i lunghi capelli mossi in una coda alta e innocua. Avrebbe preferito evitare di rovinare i vestiti, di sudare, di distruggere la piega che era riuscita a fare con tanta fatica, ma il tempo correva e i taxi non sarebbero serviti a niente. Guardò un'ultima volta l'orologio e partì, scivolando tra le vie meno conosciute di una Milano primaverile insolitamente calda.
Quando arrivò davanti all'edificio dove lavorava, vide che il grande orologio sul marciapiede segnava solo le nove ed emise un sospiro di sollievo, accorgendosi di aver quasi tenuto il fiato per tutto il tragitto. Controllò ancora una volta il suo orologio per assicurarsi di aver visto bene da lontano e sorrise soddisfatta.
“Ancora su quel catorcio?”
Nimhea si voltò verso Antonio, il portinaio, sorridendogli.
“Me la tratti bene.” gli disse.
“Spiegami solo perché è gialla!”
“Non è l'unica bicicletta gialla in tutto il mondo, Antonio.”
Lui non fiatò, insoddisfatto come un bambino a cui hanno negato la storia della buonanotte.
“Mi scusi, devo scappare.”
L'uomo le rispose con un cenno del capo e la ragazza si precipitò su per le scale d'ingresso. Aveva ancora qualche minuto per provare a sistemarsi.
Non era mai stata così agitata per l'assegnazione di un'intervista, ma l'intonazione che la segretaria aveva usato al telefono per convocarla sembrava lievemente agitata e tutto questo lasciava presupporre ad un incarico diverso dal solito. Adorava la musica e non le era difficile lavorare per una rivista che trattasse principalmente di ciò, ma fino a quel momento era stata relegata ad interviste di poca importanza o articoli su artisti sconosciuti.
Prese l'ascensore, insolitamente vuoto, e salì fino al terzo piano, sciogliendosi e ravvivandosi i capelli in quei pochi secondi di tempo.
Pensò a quel castano inspiegabilmente scuro e terribilmente contrastante con i suoi occhi. Nimhea. Occhi di cielo. Sua madre le aveva ripetuto un'infinità di volte questo significato che tanto si adattava a lei. Diceva che aveva aspettato tempo, prima di trovare il nome giusto e, amante com'era del mondo orientale che tante volte l'aveva ospitata e stupita, si era impegnata a cercarne uno indiano, per 'avere tutti i giorni le cose più belle della mia vita, insieme'. Non sapeva di averle affidato un peso ancora più grande.
Nimhea era cresciuta, prima di riconoscere il cielo nei suoi occhi. Sapeva che c'era di più, oltre al loro colore. Non erano solo l'insieme di azzurri, verdi e grigi poco definiti che variavano in base al sole e alla luce. C'era tutta l'insicurezza di quel cielo variabile, grande e misterioso che abbraccia il mondo e lo scruta, notando bellezze e orrori. C'erano giorno e notte, luci e tenebre. C'erano riso e pianto, gioia e sofferenza. C'erano pace e guerra.
Probabilmente era la guerra ciò che più la contraddistingueva. Non trovava un momento in cui potesse essere in pace con se stessa, un istante tale da far sì che quella barriera che aveva sempre innalzato si sciogliesse, un secondo in cui sentirsi veramente in pace.
Così sorrideva alla gente, lasciando che il dolore colpisse solo lei, quando finalmente era sola e libera di guardarsi per quello che era. Non si amava, no, ma nemmeno si odiava. Era in guerra.
Si diresse all'ufficio dalle comode poltrone beige in anticipo di cinque minuti, e si sedette appena fuori, in quella sorta di sala d'aspetto. Osservò la pianta rachitica con le foglie d'un verde troppo cupo. Sembrava velenosa, così come l'aria che respirava in quell'angolo vicino alla finestra sopra alla strada trafficata.
“Ragazza, puoi andare.” le disse dopo qualche secondo l'anziana segretaria, strappandola ai suoi pensieri. Nimhea aveva sempre odiato essere apostrofata così. Ragazza. La faceva sentire piccola e stupida e non era sicura di essere davvero meno matura di quella donna che aveva passato la vita dietro ad una scrivania, con la speranza di fare passi avanti, il terrore di cambiare e la consapevolezza di essersi arenata.
“Grazie.” rispose semplicemente, alzandosi e scivolando lungo il breve corridoio. Le pareti erano d'un bianco ottico, quasi accecante e contrastavano terribilmente con il pavimento in granito nero. Le sembrava freddissimo, quasi di ghiaccio. Una distesa di ghiaccio nero: silenzioso, profondo, mortale.
Bussò rispettosamente alla prima porta sulla destra e guardò, al centro del vetro smerigliato che la separava dalla stanza, la targhetta nera che recava il nome dell'uomo che stava per incontrare, aspettando dall'interno quel sussurro che le avrebbe permesso di entrare.
“Avanti.”
“Buongiorno.” disse la ragazza, entrando e chiudendosi la porta alle spalle con attenzione a non fare rumore, senza voltarsi.
“Buongiorno. Come va?”
Nimhea guardò quell'omino basso e magro, che sembrava sprofondare in una poltrona troppo grande per lui. Aveva occhi piccoli e leggermente incavati che sembravano ancora più insignificanti dietro ai sottili occhiali da vista che indossava. Il naso era sottile e tagliente, così come le labbra che si schiudevano in un sorriso che in qualsiasi circostanza sarebbe sembrato finto a qualsiasi attento osservatore. I capelli grigi iniziavano a diradarsi, lasciando spazio ad una fronte rugosa e corrucciata, ma allo stesso tempo capace di distendersi e di apparire calma.
“Tutto bene, grazie. Lei?”
Odiava le formalità e trovava decisamente inutile quella loro abitudinaria conversazione in cui la risposta 'bene' diventava un semplice simbolo della quotidiana falsità che aleggiava nel loro mondo. Nessuno dei due sarebbe mai e poi mai andato a raccontare i suoi problemi all'altro ed entrambi lo sapevano.
“Bene.” rispose.
“Si lavora sempre, fortunatamente. Tutti sentiamo parlare di crisi, ci sono disoccupati e quant'altro. Noi siamo qua.” riprese dopo qualche secondo.
Nimhea distolse lo sguardo. Lui era lì. Lei faceva i salti mortali per scrivere inutili articoli e per gestire quel poco di controllo che cercava di esercitare su se stessa.
Ascoltò ancora qualche divagazione sulla situazione economica e sociale della loro trasandata Italia, prima di interromperlo con un educato:
“Ha perfettamente ragione.”
Lui sorrise compiaciuto. Adorava sentirsi dire così.
“Veniamo a noi, adesso.”
Nimhea aspettò pazientemente che l'omino davanti a lei cominciasse nuovamente a parlare.
“Conosce i Sunset of Agony, signorina Adrasto?”
“No, veramente non ne ho mai sentito parlare.” rispose lei, impassibile.
Ancora una volta nessuno. Nessuno di importante, nessun articolo rilevante. Niente di niente. Cercò di non far trapelare la sua delusione e aspettò che l'altro proseguisse.
“Sono una giovane band emergente, sembra siano riusciti a farsi conoscere un po' anche all'estero. Scoprirai tutto quello che ti serve leggendo il fascicolo che...” il signor Bertoli guardò la scrivania vuota, aprì un cassetto vicino a lui, e ne estrasse alcuni insignificanti fogli tenuti insieme da una graffetta. “Oh, ecco a lei.” aggiunse poi, porgendoglieli.
“Grazie.”
“Li abbiamo già contattati, li deve chiamare quando vuole e accordarsi per un'intervista. L'articolo mi serve tra due settimane.”
“Certo, va bene.” sussurrò, cercando di trovare un modo con cui congedarsi al più presto possibile.
“Ci vediamo tra due settimane, allora.” disse.
“A tra due settimane, arrivederci.”
Nimhea si alzò e uscì dall'ufficio, voltandogli le spalle e concedendosi finalmente una smorfia di delusione.
Passò davanti alla scrivania della donna che pochi minuti prima le aveva parlato, ma al suo posto vide un'altra ragazza. Il mondo non stava cambiando solo al di fuori di quello studio.
“Io sono Ileana, la nuova segretaria, piacere.” le disse sorridendole con occhi neri come la notte.
“Oh, piacere.” rispose lei. “Devo scappare, ma credo ci vedremo.” aggiunse, prima di voltarsi ed andare. Ripensò al tono di voce agitata dell'anziana signora al telefono: probabilmente aveva associato quell'appuntamento al suo ultimo giorno di lavoro.
Altre aspettative bruciate nel nulla, altre inutili e infime illusioni.
Le sembrava di sentirla, mentre la salutava:
“Addio, ragazza.”
Scivolò fino alla sua bicicletta gialla che adesso non le sembrava avere più niente della luminosità del sole. Un vecchio ammasso di ferraglia gialla.
Non incontrò Antonio, né nessun'altra persona che la potesse far sentire parte integrante di quel mondo che continuava a girare ossessivamente. Ossessione. Lei non voleva che girasse, non voleva che il tempo scorresse e che la sua vita andasse avanti in questo insulso modo. Non voleva camminare, non voleva respirare, non voleva piangere. Non accettava la sofferenza, precludendosi così anche la gioia.
Si gettò nel traffico cittadino, optando per la via più lunga. Aveva bisogno di distrarsi, di vagare cercando consolazione in strade viste di sfuggita in altre circostanze, ma evidentemente il corso degli eventi destinati a svolgersi quel giorno era ben diverso e la ruota anteriore della bicicletta si bucò dopo poco, lasciandola a piedi.
“Favoloso!” disse, pensando velocemente al da farsi. Non poteva legarla su quel marciapiede sconosciuto che forse non avrebbe nemmeno più ritrovato e andare a casa a piedi, ma, portandola con sé, non avrebbe potuto prendere alcun mezzo pubblico. Decise di andare a piedi, sotto gli occhi curiosi della gente. Non era solo una giovane donna delusa che cercava di fuggire dal mondo. Non era neanche una giovane donna delusa che cercava di fuggire dal mondo sulla sua bicicletta gialla. Era una giovane donna che cercava di fuggire dal mondo, cercando di tornare a casa sua, trascinando disperatamente la sua bicicletta lungo i marciapiedi di una Milano affollata.
“Mi scusi, signore, permesso.” disse, mentre un uomo che leggeva un quotidiano, comodamente in mezzo alla strada, non le dava nessun segno d'ascolto, senza lasciarla passare.
“Mi scusi, dovrei passare.” ripeté convinta e, senza aspettare alcuna risposta, lo superò, costringendolo a farsi da parte e urtando il giornale da cui l'altro non azzardava a staccarsi.
“Maleducata!” gridò l'uomo, degnandola finalmente di uno sguardo.
Nimhea si voltò, sorridendogli ironica. La maleducazione era l'ultimo dei suoi problemi, in quel giorno che aveva ormai preso una bruttissima piega. Erano solo le undici del mattino e iniziava ad avere paura di come si sarebbe sentita la notte, a letto, da sola. Con la Luna pronta a sbeffeggiarla e a rinfacciarle quella sua solitudine così lontana dalla visione che ogni uomo ha del mondo. Siamo tutti uniti, e tutti così terribilmente soli. Ma anche la Luna, dall'alto della volta nera, non aveva nessun diritto di osservarla: anche lei era da sola, perché, da che mondo è mondo, nemmeno le stelle sanno essere di compagnia, nella loro silenziosa incomprensibilità che si trascina il passato nel cielo del presente.
Guardò l'uomo e lo vide voltarsi, come se non avesse mai aperto bocca e, in quell'istante, capì una cosa che non aveva mai capito prima d'allora: la gente temeva i suoi occhi, proprio come aveva paura del cielo.

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Capitolo 2
*** Hagar ***


Eccomi ancora qui.
Adesso iniziamo a fare sul serio: entrano in gioco altri personaggi decisamente importanti direi. Ma non vi anticipo niente!
Spero che la storia possa cominciare ad incuriosirvi, buona lettura! (Ultimissima cosa: 'hagar' significa 'fuga')




Capitolo 2
Hagar


 

Tre giorni dopo Nimhea stava camminando lungo una via a lei del tutto sconosciuta per arrivare al centro che le aveva indicato il chitarrista dei Sunset, anche se le era stato sicuramente indicato più volte, nel vero senso della parola, dai passanti nervosamente gentili che l'avevano aiutata a trovare la strada.
“In fondo, a destra. È quel palazzo basso che vedi.”
Le aveva detto l'ultima donna che aveva fermato, che era poi scappata via sulle note di un “Grazie” biascicato.
Quando finalmente arrivò, si fermò qualche secondo a riprendere fiato all'ombra gettata da un balcone sul marciapiede, squadrando la scritta 'Music Lab', le cui grandi lettere sembravano pesare troppo per la facciata esposta al sole tutto il giorno; poi entrò.
“Mi scusi, lei è...?”
“Adrasto. Dovrei intervistare i Sunset of Agony.”
La donna digitò qualcosa sul computer, scrutò a lungo i file, mentre l'espressione sul suo viso lasciava trapelare un certo astio per quell'aggeggio e la convinzione che tutto sarebbe stato più semplice con una tabella vecchio stile.
“Sì, certo.” disse infine con un sorriso. Sembrava simpatica, ma forse era semplicemente contenta di essersela cavata contro la tecnologia.
“Oh, ma sei in anticipo di mezz'ora, cara!” aggiunse la donna, abolendo il 'lei'.
“Non me ne ero resa conto.” mentì la ragazza. “È un problema?”
“No, non ti preoccupare. Stanza 13. Devi andare a destra e girare poi a sinistra. Trovi le indicazioni con i numeri sui muri. Se hai bisogno di qualcosa, torna qui.”
“Va bene, grazie mille. Arrivederci.”
“Arrivederci.”
Nimhea scivolò lungo i corridoi. Alle pareti erano appese fotografie di artisti che si erano recati lì per conferenze o varie interviste. Guardò le sale e scoprì che in quell'ala del centro vi erano solo i numeri dispari. Arrivò fino alla stanza numero tredici, poi decise di tornare indietro a curiosare tra le foto appese, riprendendo dall'inizio del corridoio, quando la sua attenzione venne catturata dalla prima stanza.
Sostò un po' sulla soglia. Riusciva ad intravedere come era stata allestita all'interno. Una serie di sedie pieghevoli erano disposte in varie file, probabilmente per i giornalisti che sarebbero arrivati, e in fondo vi era una sorta di palco, sul quale si stagliava solo un pianoforte nero a mezza coda. La sua lucentezza continuò ad abbagliarla, mentre iniziava a sentire un desiderio sempre più forte prendere possesso di lei: doveva andare a suonarlo.
Sfiorò con le dita il numero in rilievo sul muro, accanto alla porta aperta. Uno.
Le sembrava ardere d'un fuoco che riusciva a scaldarla senza bruciarla. Maledettamente invitante.
Guardò il corridoio vuoto e si intrufolò nel salone, sentendosi come una ladra giustificata da nobili fini.
-Nim, male che vada, entrano e ti dicono che non puoi stare qui.- si disse.
Avanzò con passo incerto ma regolare, sfiorando gli schienali della prima colonna di sedie sulla sinistra, raggiunse il palco e rimase in adorazione qualche secondo, combattuta tra il desiderio di avvicinarsi al suo strumento e la certezza di dover andare via da lì.
La stanza era scarsamente illuminata, ma dal corridoio arrivava un chiarore rilassante e sul palco era accesa una delle tante luci disponibili.
Si avvicinò ulteriormente, sedendosi sullo sgabello nero e guardando la sala sotto di lei. Era sola, eppure si sentiva così bene. Così in pace.
Iniziò a suonare, prima piano, leggermente, poi con forza, lasciandosi trasportare dalle note melanconiche di Chopin.
Le sue dita scivolavano sui tasti totalmente incuranti di tutto ciò che circondava la sala. Poco distanti, le macchine passavano veloci lungo la strada, la donna continuava la sua lotta contro il computer, gli intervistatori scrivevano sui loro taccuini o registravano le parole di artisti più o meno famosi... ma tutto scorreva rapido e silenzioso intorno a lei, finalmente sicura nella sua bolla di note e vita.
Bianco e nero assumevano incredibili sfaccettature colorate e il silenzio intorno a lei iniziava a prendere forma, quando sentì un rumore.
Interruppe immediatamente l'esecuzione e gettò uno sguardo sconvolto alla sala. Affondata nella sua convinzione di essere sola, era tornata a galla bruscamente. Ed ora gli occhi bruciavano, come al mare, senza permetterle di mettere bene a fuoco e capire chi ci fosse.
“Scusami.” disse una voce maschile.
Nimhea si voltò in quella direzione, evidentemente imbarazzata.
Le sembrava di essere stata scoperta, mentre, nel più dolce dei suoi sogni, cercava di essere felice. Ben presto l'imbarazzo mutò quindi in irritazione e l'irritazione in una sinuosa diffidenza che le fece ritrarre la mano, velocemente.
Non era solo la situazione ad infastidirla, ma qualcosa che non era riuscita a capire immediatamente e che divenne chiaro solo quando, in seguito, lui aprì nuovamente bocca.
“Suonalo.” parlava in inglese.
L'uomo si spostò lievemente, rivelando così la propria posizione. Era troppo vicino alla porta per uscire senza guardarlo o senza dare spiegazioni. O almeno lo sarebbe stato per qualsiasi persona razionale.
Nimhea si alzò di scatto, scendendo velocemente dal palco. In fuga. Fece a ritroso in un secondo il percorso che qualche minuto prima le era sembrato così lungo e faticoso e raggiunse velocemente chi l'aveva privata della sua tranquillità.
“Io non dovrei essere qui.” disse, senza badare minimamente al fatto che l'altro potesse non capire l'italiano, le iridi incandescenti e la bocca già serrata.
Alzò il mento per riuscire almeno a guardarlo, spinta da un'inspiegabile curiosità. Quando i loro sguardi si incrociarono, il suo passo sicuro vacillò e improvvisamente gli occhi che aveva ridotto a fessure si sgranarono. Respirò il suo profumo intenso, contaminato da un odore di fumo. Non le parve così difficile immaginarlo con una sigaretta fra le labbra.
In un lampo, il suo viso era già fisso nella mente della ragazza, con tutto ciò che si portava dietro. Desolazione, invito, curiosità e molto altro si concentravano nelle iridi castano scuro tagliate da bagliori più chiari tendenti al giallo.
Nimhea non si fermò e in una frazione di secondo era già sommersa dalla luminosità del corridoio e diretta verso la stanza che non avrebbe mai dovuto lasciare. Di nuovo pronta a scappare, ma terribilmente cosciente del fascino del suo cacciatore.
Con sollievo, non sentì alcun passo, dietro di lei, quando si richiuse la porta alle spalle e cercò di respirare, calmando i battiti del proprio cuore, prima che il lavoro prendesse il sopravvento e tornasse la calma, sicura e monotona giornalista di sempre.


Procedeva, posando con leggerezza i piedi nella notte che incombeva sulla città. Avrebbe potuto essere stellata, avrebbe potuto esserci almeno la Luna. Avrebbe.
Continuò a camminare, mentre l'aria diventava irrespirabile e dai locali accanto arrivavano eco di canzoni movimentate.
Aveva semplicemente bisogno di distrarsi, senza badare troppo agli sguardi indiscreti di chi aveva deciso di godersi il sabato sera. Non riusciva a dimenticarsi di quella giornata, di quell'improbabile incontro con un perfetto sconosciuto che avrebbe dovuto dimenticare.
Si strinse nella giacca blu scura, e svoltò. Non era sicura di voler andare avanti in quel gioco contro se stessa, di notte, da sola. Ma forse era proprio la paura a spingerla ad andare avanti. E forse non era la stessa paura che un occhio esterno e poco attento poteva notare: temeva tornare a casa a rinchiudersi tra quelle quattro pareti, temeva il confronto con se stessa, più che altro. E così si dava alla fuga, sgusciando tra viottoli sconosciuti, mentre il cuore sobbalzava nel petto ad ogni rumore o ad ogni passo dietro di lei.
Voleva solo qualcuno con cui stare, voleva qualcuno in grado di proteggerla, come si tiene al riparo un cucciolo, come si cura un amore.
In fuga, in fuga da quell'amore che si rifiutava di farla sua, in fuga da quella vita senza riparo, senza protezione. In fuga dalla voglia di gridare al mondo la sua solitudine e la sua paura. Eppure gridavano, i suoi occhi straziati. Ululavano al cielo, come lupi in una foresta lontana ma terribilmente presente. Si volgevano alla Luna che forse c'era, sopra alle finte stelle proiettate dalle luci delle abitazioni, e disperati la inghiottivano.
E in mente aveva ancora quell'immagine assassina, quei due occhi che l'avevano decisamente annientata. Era come se si fosse guardata allo specchio proprio nel momento in cui scrutava un passante fino all'anima, tanto da farlo sentire allo scoperto e da fargli distogliere lo sguardo.
Quando decise che ormai era troppo tardi per stare in giro e che neanche il buio la stava aiutando, Nimhea tornò al suo piccolo appartamento e arraffò il telefono, incurante dei messaggi sulla segreteria. Probabilmente sua mamma l'aveva chiamata più volte, ma per rassicurarla ci sarebbe stato tempo: adesso aveva bisogno che qualcuno rassicurasse lei.
“Ti disturbo?” disse subito, non appena sentì dall'altro capo del telefono la voce che tanto adorava:
Andrea, la sua migliore amica.
“Sai che non mi disturbi mai, comunque sono da sola. Cos'è successo?”
“Possiamo parlare un po'? Anche se alla fine non parliamo, posso stare con te a far finta di essere vicine?” sussurrò.
“Lo stiamo già facendo.” la immaginò sorridere, lontana, nella sua Firenze, l'antica città un tempo etrusca che aveva trasmesso all'amica tutto il fascino per la storia delle popolazioni che avevano vissuto in Asia minore. Ittiti, Persiani e Alessandro Magno non erano solo nomi, ma voci potenti di un passato che rivendicava con forza il suo ruolo.
“Già.”
“Cos'è successo, allora?” ripeté Andrea.
“Ho conosciuto, no anzi, conosciuto no. Ho visto uno.”
“Uno chi?”
“Uno non lo so. Ma non è importante chi fosse. È che boh, mi ha distrutta. Ho avuto in mente tutto il giorno i suoi occhi, ho fatto un'intervista del cacchio, sono rimasta fuori tutta la sera perché non riuscivo a stare in casa e sono rientrata perché non ero in grado di stare fuori.”
“Uh, era così bello?”
“Non era meraviglioso, però non lo so.”
L'aveva visto troppo poco per poter dire che fosse bello, non era nemmeno stata in grado di capire quanto fosse alto o come fosse vestito.
“Quanti anni aveva, più o meno?”
Nimhea si sforzò di ricordare meglio il suo volto, poi disse: “Non so. 30, credo. Magari 35, massimo.”
“Dovevi andare a chiedere a qualcuno che interviste erano programmate per quel giorno o... trovare un modo per scoprire chi fosse.”
“Ma fa niente, non mi interessa sapere chi sia. Non era nemmeno italiano, Nare.”
“Come non era italiano?”
“Mi ha detto di suonare il piano, in inglese.”
“Un attimo, suonare?” chiese incuriosita Andrea, che fino a quel momento aveva capito ben poco.
Nimhea si passò nervosamente una mano tra i capelli, poi iniziò a raccontare con tutta la calma possibile di come fosse arrivata in anticipo, avesse deciso di curiosare in giro, avesse iniziato a suonare e fosse stata interrotta.
“Ho capito. Ma cos'è che ti ha sconvolta così tanto?”
“Non lo so. Te l'ho detto, mi sento tutta strana. Non avevo mai provato un'attrazione così forte che combattesse con la mia voglia di scappare.”
“Che alla fine ha vinto ugualmente.”
“Già. Il problema è che non credo riuscirei a scappare una seconda volta. Ma questo non è un vero problema: non lo rivedrò mai più.” constatò con uno strano velo di malinconia Nim.
“E se invece fosse proprio questo il problema?”
“Non vedo come potrei risolverlo.”
“Deve aver proprio fatto qualcosa.” rispose l'amica, dall'altro capo del telefono. Alla milanese parve quasi di vederla sorridere e non era difficile immaginarla e arrivare fino ai suoi pensieri.
Erano sempre state unite, da quando si erano ritrovate per caso nella hall di un albergo a Roma, entrambe vittime di una vacanza studio programmata dalle rispettive scuole, anni prima. Ben presto si erano rese conto di assomigliarsi e capirsi più di quanto due persone normali avrebbero mai potuto fare. Ma la loro normalità eludeva totalmente il concetto che ne ha il mondo che, sicuro e tranquillo, non può nemmeno immaginare cosa si provi a ritrovarsi in una persona lontana, ad avere distante l'unica al mondo che si vorrebbe sempre vicino. E l'abitudine, la vita e il lavoro non sarebbero stati in grado di distrarle da ciò che di più profondo avevano creato.
I sogni infantili di ritrovarsi a vivere insieme erano scoppiati, come bolle di sapone, ma loro c'erano ancora, con i loro colori, i loro sorrisi e le loro lacrime.
E la distanza non era poi così insormontabile.
Nimhea e Andrea parlarono ancora per quasi un'ora, lasciando che il discorso scivolasse su problemi meno importanti e su altre situazioni, poi decisero di lasciare che il sonno prendesse possesso di loro, trascinandole nel suo mondo di false e momentanee gioie sicure, mentre la Luna, coperta dal suo triste velo di nubi, cercava di vegliare su di loro. 

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Capitolo 3
*** Famiglia ***


Invoco perdono, ma sono rimasta bloccata un po' più avanti nella scrittura e non ho mai avuto il tempo necessario per pubblicare questo capitolo.
Ancora una volta, spero vi piaccia, nonostante non si veda ancora in scena veramente quel tale in elenco tra i personaggi (che però, ehy, è comparso nel capitolo precedente!). Vi chiedo solo un po' di pazienza.
Buona lettura,
nora

 


Capitolo 3
Famiglia



“Come va, piccola?”
“Tutto bene, grazie.” rispose Nimhea distratta, guardando l'uomo comodamente seduto sulla poltrona rossa in salotto.
Volse lo sguardo a sua madre, Nadia, mentre raccoglieva i lunghi capelli ormai grigi con un'elegante e allo stesso tempo così apparentemente casuale acconciatura.
Piccola. L'aveva sempre chiamata così da quando aveva iniziato a frequentare sua madre. Da quando, una ventina di anni prima, era entrato in casa loro con un mazzo di rose rosse e un giocattolo forse un po' troppo costoso. Si erano sposati dopo un anno e lui non aveva fatto mai mancare loro niente, specialmente quell'amore puro e disarmante che addolciva le giornate.
Era stata fortunata. Prima di lui c'erano buste del supermercato un po' troppo vuote e sua mamma sempre di corsa. Eppure ricordava quel periodo come un periodo di tranquillità e di sicurezza. Le sembrava così impossibile, adesso.
Di suo padre, invece, non aveva mai saputo niente, ed era l'unica cosa per cui rimproverava quell'uomo, arrivato proprio nell'età in cui Nadia avrebbe potuto iniziare a raccontarle qualcosa di più consistente di un misero 'Ci ha abbandonate.' sepolto da un sorriso che voleva essere rassicurante, ma che si tingeva di un triste odio.
Le era sempre mancato qualcosa, si sentiva spesso dimezzata: combattuta tra comportamenti che vedeva del tutto simili a quelli della madre e altri di cui non riusciva ad identificarne l'origine. Non si conosceva fino in fondo. Non l'avrebbe mai fatto.
E, sebbene sentisse il bisogno di sapere chi fosse quell'uomo, ormai non le interessava nemmeno più di tanto che potesse rientrare nella sua vita.
Si scrollò di dosso i pensieri e osservò il viso così conosciuto di Pietro. Portava bene i suoi anni, e i suoi occhi scuri avevano assunto un'aria di fulminea saggezza che ne nobilitavano i lineamenti. Non era cambiato molto: rimaneva sempre l'alto uomo che torreggiava sull'esile figura della madre e la proteggeva.
“Il lavoro, Nim?” chiese Nadia.
Nimhea era andata presto via da casa, per provare a vivere da sola e lei non aveva potuto dirle niente, avendo alle spalle un passato da curiosa esploratrice del mondo. Era stato difficile, inizialmente, imparare a gestirsi totalmente da sola, ma si sentiva fiera di avercela fatta. Adorava il suo appartamentino al primo piano, l'anziana vicina di casa che la ringraziava per tenerle compagnia con la sua musica, quando suonava il pianoforte, i bambini che giocavano durante l'intervallo nel cortile della scuola elementare dall'altro lato della strada e tanto altro. Tornava spesso nella casa in cui era cresciuta, dalla parte opposta di Milano, per pranzare con la sua famiglia e cercava di farsi sentire almeno per telefono, quando non poteva andare da loro.
“Ho fatto da poco un'intervista ad una nuova band, niente di che. Prima o poi riuscirò a fare qualcosa di importante!”
“Se tu avessi impegnato tutta questa volontà nel fare l'avvocato, adesso, potresti essere una delle più brave in Italia.”
La ragazza rise, ormai totalmente indifferente a quella proposta che aveva sentito così tante volte. “Già. Mi sono sempre piaciute le sfide, Pietro.” rispose.
“Lo sappiamo.”
“Comunque” riprese dopo qualche secondo di silenziosa intesa fra sua madre e il marito “in settimana devo incontrarli nuovamente per mettere a punto una cosa.”
“C'è qualcuno di carino, nel gruppo?”
Gli occhi chiari della ragazza fulminarono la donna che incautamente si era affacciata su quel tema, sapendo bene che era come guardare dalla cima di un precipizio senza nemmeno riuscire a vederne il fondo.
“No, mamma.”
“Possibile? Hai quasi trent'anni, sei bella...”
“Ti prego, non ho voglia di tornare su questo discorso. Non c'è nessuno di carino, tra di loro.” cercò di concludere lei, accentuando un po' troppo le ultime parole.
Non era passato molto tempo dall'inesistente incontro con l'uomo e dall'inconfutabile scontro con quegli occhi. Rabbrividì ricordando le circostanze createsi quel giorno, l'aria scarseggiante, i loro corpi così vicini e così attenti a non sfiorarsi, mentre i loro occhi si imprimevano gli uni sugli altri.
Doveva dimenticare tutto. Oppure no. Perché dimenticare ciò che non avrebbe avuto seguito? Proprio per questo, le aveva risposto Andrea. Ma Nimhea non riusciva a cancellare ancora niente dalla mente ancorando il tutto quasi ad un'esperienza fiabesca discutibilmente realistica.
Sua madre la osservò incuriosita, mentre iniziava a formulare mentalmente varie domande con cui poter interpretare i pensieri che scorrevano sugli occhi della figlia, quando Pietro intervenne: “Allora si mangia?”
Nadia gli sorrise e scivolò in cucina.
“Grazie.” sussurrò Nimhea.
“Mi devi un favore.” ribatté ridendo lui e alzandosi dalla poltrona per seguire la moglie.


“Mi devi un favore.”
“Per cosa? Per aver mandato la mia foto? Oddio Nare e se...”
“E se tu vincessi, Nimhea?”
“No. Ipotesi che credo non servirà a molto prendere in considerazione, ma tu sei una pazza scatenata. Oddio!”
Nimhea, totalmente incurante della curiosa disapprovazione dei passanti, urlava disperatamente il suo disappunto, mentre tentava, con una mano tremante, di legare la bicicletta alla rastrelliera. La giornata con Pietro e Nadia era trascorsa piacevolmente, senza incappare più in argomenti indesiderati e adesso si stava dedicando ad un'altra parte di lei che, in fondo, si poteva considerare ugualmente famiglia: Andrea.
Migliore amica e parte integrante della sua vita che l'aveva appena iscritta ad un concorso fotografico, inviando delle sue foto ad una rivista. Di più non era riuscita nemmeno Nimhea a capire, data la brevità della conversazione e la confusione dei dati riferiti in quei pochi secondi.
“Su, cosa può succederti? Male che vada non succede proprio niente.”
“Già. Appunto. Niente. Ancora niente. Andrea, ti prego, perché?”
“Perché due non fa tre.”
“Finiscila!”
Entrambe le ragazze rimasero in silenzio per qualche secondo: l'una convinta d'aver fatto bene a inviare il tutto, l'altra assolutamente ferma nel pensare il contrario. Due treni che correvano veloci in direzioni opposte, pronte ad andare avanti fino fermarsi entrambe, un secondo prima di scontrarsi, per sfiorarsi delicatamente. Nessun dolore.
“Perché potresti vincere, Nim.” riprese poi Nare, con voce tremendamente dolce. Sembravano abbracci, quelle parole incastrate in un aggeggio elettronico.
“Uhm, cosa si vince almeno?” chiese Nimhea, sapendo che avrebbe risollevato la contentezza dell'amica.
“Due settimane a Los Angeles, dove dovrai fare altre foto che verranno poi esposte non mi ricordo bene dove.”
“Noto una pecca nella sua preparazione, signorina Losno.” la prese in giro lei.
“Mi farai sapere quando ti diranno che hai vinto.”
Nimhea rise, salendo le scale d'ingresso e girando a destra, dopo l'ascensore, per arrivare alla scalinata che l'avrebbe portata fino al primo piano: casa. “Sei a casa?”
“Sì.” rispose da Firenze l'altra, lontana. Eppure i chilometri sembravano annullarsi e lasciare spazio a loro, alle loro parole, al loro modo di essere vicine. "Tu?"
"Sono appena arrivata."
“Oh, brava. Allora ci sentiamo al computer ché ho quasi finito il credito sul cellulare.”
“Un'ultima cosa!” disse Nim, improvvisamente desiderosa di dettagli riguardo all'ormai irrimediabile pazzia dell'amica.
“Dimmi.”
“Posso almeno sapere che foto hai mandato?”
“Il concorso riguarda le città, per cui ho mandato cinque foto tra quelle che mi avevi fatto vedere dei tuoi viaggi.”
“Quali?”
“Ti ho mandato tutto via mail, controlla la posta e scoprirai tutto.”
“Misteriosa fino alla fine? A tra poco, allora!”
“Ah, dimenticavo un particolare... per andare a Los Angeles, puoi portare un'accompagnatrice...”
“Sì, casualmente accompagnatrice e non accompagnatore.”
“Scema!”
“Mi pare ovvio che vieni tu, sei mia complice!” disse ridendo, mentre armeggiava per aprire la porta di casa.
“Tre settimane nostre. Tutte nostre. Poi io non sono mai stata a Los Angeles, tu? Tipo che saremo in un mega albergo. Già lo immagino, noi due che... ah, ovviamente si compra un sacco di roba e...”
“Mi dispiace rovinare il tuo entusiasmo, ma non ho mica vinto.” la interruppe Nimhea, tentando di riportarla alla normale tranquillità. Odiava illudere le persone. Odiava assumersi la responsabilità di arrecare dolore a qualcuno.
“Sempre positiva tu.” la rimproverò l'amica.
“Non è questione di positività.”
“Già. È questione di negatività.”
Nim spalancò la porta e si diresse ad aprire le finestre. Era ormai abitudine tentare di far entrare un po' di luce e di aria in quella vita così scomoda. Abitudine. Monotona quotidianità che aveva spinto a perdere valore anche quella sua lotta continua tra luci e tenebre. Aveva davvero bisogno di qualcosa che la rischiarasse?
“Filosofa, ci sentiamo al computer, arrivo.” rispose, dopo un breve istante di silenzio.
“A tra poco, allora. Ti voglio bene.”
“Anche io.” disse, riattaccando e gettando il cellulare insieme alla borsa e alla giacca sul divano. Si legò i capelli esattamente come aveva fatto sua madre qualche ora prima, lasciando trasparire troppa trascuratezza e troppa poca eleganza.
Arrivò fino al computer portatile che aveva lasciato sul tavolo in sala, lo accese e andò ad infilarsi una tuta, prima di sedersi davanti allo schermo e leggere con un briciolo di eccessiva curiosità la mail.
Scoprì così le famose foto inviate, che forse erano proprio quelle di cui lei stessa era più orgogliosa. Aveva fatto un corso, qualche anno prima, per riuscire finalmente ad assecondare quella sua passione e a realizzare un sogno che aveva sempre avuto. Lasciava che le immagini si imprimessero sulla carta per puro gusto di trovare il bello di ogni cosa, in ogni secondo, e per la semplice paura di dimenticare tutto un giorno.
L'oblio è forse uno degli aspetti che più terrorizza l'umanità stessa, inconscia del fatto che sia stata creata anche per dimenticare e che il buio dei ricordi sia fondamentale anche per la più nobile delle dimenticanze: il perdono.
La sua posta elettronica conteneva però anche un altro messaggio con cui i Sunset le chiedevano se era disponibile ad incontrarli al Music Lab per terminare l'intervista due giorni dopo e per raccontarle una novità.
Riguardo a cosa, non l'aveva capito nemmeno la stessa Nimhea. Sembrava una sorpresa, un qualcosa che non avrebbe saputo almeno per 48 ore, e la ragazza, passando con l'indice destro sul sopracciglio, rimase qualche secondo a pensarci.
Non trovando alcuna soluzione, si limitò ad aspettare, e contattò Andrea.
-Alla buonora!- scrisse l'amica.
-Dovevo leggere una certa mail. Ah, mi ha scritto anche la band che ho intervistato dicendomi che mi devono dire una cosa. Sembra quasi una sorpresa.-
-Oh, abbiamo fatto colpo su uno del gruppo?-
-Sì, ovvio, come no. Solo che mi sembra abbastanza strano. Li vedo martedì, ti farò sapere.-
-Va bene.-
-Anche perché- Nim inviò il messaggio ed esitò un po' prima di andare avanti a scrivere, battendo piano le dita sulla tastiera, in cerca delle parole giuste per esprimere ciò che forse realizzava solo in quel momento.
-Perché?-
-Perché devo andare dove li ho intervistati l'altra volta.- concluse, spronata da Nare.
-Uh, e questo significa andare nel posto dove hai visto l'uomo misterioso.- aggiunse l'altra, da Firenze, ridendo con infantile orgoglio di quella specie di nome in codice appena inventato.
-Già. Comunque direi di cambiare discorso.-
Così, battendo con l'anulare sul misero quadrato di plastica che dava origine al punto, pose fine alle parole dell'amica, provando ad impedire anche ai suoi pensieri di scorrere. Ma non esiste alcuna tastiera, per la mente: non ci sono punti, né virgole, né altro. Nemmeno quel tanto desiderato tasto 'delete' che in molti vorrebbero avere. 

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Capitolo 4
*** La fine dell'inizio ***


Buongiorno a tutti!
Eccomi con il quarto capitolo della storia, che però ha bisogno di una piccolissima premessa (o di un'invocazione di perdono, vedetela anche così): non ho voluto, né tanto meno sono riuscita, a rispettare i veri tempi del tour. Mi dispiace, ma non sarei poi stata in grado di sistemare tutto il resto, con le tempistiche del racconto.
Detto ciò, finalmente in questo capitolo vengono nominati sul serio i protagonisti (i colpevoli della mia pazza idea di scrivere una fan fiction).
Si inizia veramente ad entrare nella storia, che spero vi possa piacere almeno un po'.
Ah, se avete tempo, vi chiederei di lasciarmi una recensione per farmi sapere cosa ne pensate.
Un bacio, buona lettura.
-nora



Capitolo 4
La fine dell'inizio



La voce meccanica registrata annunciò quella che sarebbe stata la fermata successiva dell'autobus su cui si trovava. Nimhea si sistemò la leggera giacchetta blu e si alzò dalla plastica gialla della sua sedia. Erano in pochi sul mezzo, evento incredibilmente raro, considerato il fatto che era un martedì pomeriggio. La signora seduta qualche posto più indietro di lei la squadrava ancora, senza riuscire però a sostenere il suo sguardo, esattamente come quando, qualche fermata prima, era salita. Sembrava ce l'avesse con il mondo intero, mentre si lasciava trasportare per tutta la città. Nim si chiese se avesse una vera meta e non fosse salita lì solo perché quell'autobus attraversava Milano facendo un lungo giro che le avrebbe permesso di trascinare ancor più nel passato quello da cui probabilmente stava sfuggendo.
Le porte finalmente si aprirono e la ragazza uscì e respirò quasi con cautela l'aria circostante. Forse per inconscia paura che potesse arrivare alle sue narici anche quel profumo.
Il tempo era cambiato, rispetto alle settimane precedenti, e quell'inaspettato caldo afoso che troneggiava sul capoluogo lombardo si era dileguato, lasciando spazio a piogge notturne che avevano abbassato la temperatura, e a nuvole pesanti.
Raggiunse velocemente l'edificio e scivolò oltre la porta, come se avesse paura di far rumore e disturbare la donna all'ingresso del Music Lab. La guardò, senza badare troppo al fatto che l'avesse riconosciuta, né tanto meno alla sua apparente simpatia o alla sua voglia di non usare il computer, e ascoltò docilmente il numero della stanza in cui sarebbe dovuta andare cercando di raggiungerla il più velocemente possibile. Non riuscì però ad evitare di sostare qualche secondo davanti alla stanza 1, già sede di ricordi.
La porta spalancata distruggeva quell'aria di misterioso segreto che si era creata la settimana prima, e al suo interno non si trovava più il pianoforte lucido e attraente nella sua scintillante semioscurità. Tutto era immerso nel buio.
Lui non c'era più.
E questa certezza la fece sentire incredibilmente vuota, per quanto poi avesse potuto far finta di non volerlo rivedere e per quanto sapesse che, anche se lo avesse visto, sarebbe scappata ancora.
Era finito tutto. Tutta la magia legata a quello strano incontro si era dissolta, perdendosi completamente. Neanche gli stessi ricordi sembravano più in grado di colmare quel vuoto creatosi così velocemente.
Arrivò mestamente alla sala indicatale e aspettò che i Sunset la raggiungessero. Le pareti erano chiare e una grande finestra dava su un moderno cortiletto interno. Era speculare rispetto a quella in cui si erano trovati la volta precedente, forse lievemente più piccola.
Alla parete sinistra era appeso un cd di dimensioni esageratamente grandi, che fungeva da specchio. Nimhea guardò la sua immagine riflessa. I capelli mossi erano legati in una coda alta, che evidenziava i tratti fini del volto. Gli occhi più grigi del solito erano spenti e sfuggenti: non riusciva a vedersi nemmeno in quella che avrebbe dovuto essere la sua più veritiera rappresentazione. Non avrebbe dovuto rimanerci così male. Non per ciò che sapeva sarebbe accaduto.
Esasperata, andò a sedersi su una delle sedie presenti e fissò la porta, in attesa.
Forse era sempre stata in perenne attesa, lei. In molti l'avevano definita speranzosa, ma era solo una delle tante povere vittime di un tempo malefico, che la faceva rimanere costantemente a mani vuote e l'aveva obbligata ad abituarsi a soffrire e sognare come una qualsiasi altra persona s'abitua a svegliarsi alle sette del mattino.
“Ciao!” la salutarono i quattro ragazzi appena entrarono, strappandola ai suoi pensieri.
La ragazza sorrise, alzandosi e avvicinandosi un po' a loro. Erano stati da subito molto cordiali e a loro agio con lei, che, in fondo, era loro coetanea.
“Allora, finiamo prima quello che dobbiamo finire e poi ti spieghiamo il resto o il contrario?” chiese Marco, il bassista della band. Aveva già fatto vedere, anche precedentemente, come fosse così invidiabilmente poco timido, aperto e incoraggiante.
Nim passò qualche secondo chiedendosi se fosse meglio assecondare la sua tremenda curiosità o se dovesse prima terminare il lavoro, mentre i suoi occhi scivolavano piano sulle facce rilassate e gioiose dei membri dei Sunset. Evidentemente avevano qualcosa a cui tenevano davvero molto da dirle.
“Credo dovrei prima finire il mio lavoro, ma sono troppo curiosa di ascoltarvi, per cui raccontatemi tutto!” rispose con un sorriso lei, improvvisamente così poco professionale e molto più amichevole di quello che fosse mai stata.
“Abbiamo avuto la possibilità di far sentire la nostra musica ai 30 Seconds to Mars!” annunciò entusiasta Luca, sorridendo contento e lasciando quella frase gettata senza troppi preamboli e priva di una vera e propria conclusione.
“Signor cantante, se parla così, non spiega niente!” lo rimproverarono immediatamente gli altri membri del gruppo.
“Siamo riusciti a conoscerli e ci hanno voluto sentire suonare e cantare.” ammise Stefano, il batterista. Era forse il più pacato dei quattro ed era di certo quello in grado di spiegare più chiaramente la situazione di per sé neanche troppo complicata, ma resa tale dal terribile impatto emotivo che aveva avuto sui ragazzi.
Nimhea non era una fan della famosa band americana: non conosceva più di due o tre canzoni e non aveva ben presenti i volti del cantante e degli altri. Fatto, quest'ultimo, decisamente trascurabile, almeno a suo parere. Non le sarebbe mai servito saperli riconoscere per strada, né, in quel momento, le sembrava così importante saper dire di che colore fossero gli occhi di uno o dell'altro. Ripensandoci meglio, non sapeva veramente nemmeno quanti fossero i membri della band e da quanto suonassero o quanti cd avessero inciso.
Sorrise però, sinceramente contenta per tutto quello che era successo ai Sunset. Perché la gioia non prevede esclusivamente la nostra felicità, ma il gesto di un cuore sincero pronto ad emozionarsi per chi lo circonda.
“E cosa vi hanno detto?”
Federico, l'unico dei quattro che non aveva ancora parlato, le rispose, indirizzando i suoi occhi neri su di lei: “Hanno detto che adorano il nostro nome e che ricordiamo un po' i loro primi tempi, non tanto come musica, ma per il modo di fare, più o meno.”
“Tralasci al cosa più importante, Fede!” lo redarguì Luca.
La notte liquefatta delle iridi del tastierista sembrò improvvisamente bloccarsi, come indecisa se propendere per l'entusiasmo o per l'ansia, come incapace di stabilire quanto ci fosse di positivo e quanto di negativo, in bilico come un funambolo. Dopo qualche secondo, sbatté le palpebre velocemente e riprese: “Ci hanno chiesto di aprire il loro prossimo concerto a Milano. Saranno qui a inizio luglio.”
Nimhea, forse un po' per tentare di alleviare quel tormento così evidente, si fece sfuggire un entusiasta “Sono davvero felice per voi!”che lasciò un tenero sorriso sul volto di Federico, ma fece calare un profondo silenzio nella stanza.
Nessuno sembrava saper cosa dire per distruggere il vuoto di parole creatosi, forse talmente concentrati sulle proprie idee da non avere veramente nemmeno la voglia di provare ad aprire bocca.
Tutti tranne Marco, i cui pensieri, forse, erano gli unici davvero pronti ad uscire dal confine mentale che segregava quegli degli altri.
“Verresti a sentirci?”
“Io? Oh, sì, ne sarei felice.”
La ragazza scrutò gli occhi azzurri del bassista le cui labbra si erano arcuate, lasciando spazio a dei denti bianchissimi. E, le costò pensare, quel sorriso era decisamente meraviglioso, probabilmente in grado di mettere di buonumore qualsiasi persona avesse l'occasione di posarvi i suoi occhi.
Ripensò a quello che le aveva detto la madre qualche giorno prima. Effettivamente non poteva considerarlo un brutto ragazzo. Gli occhi chiari splendevano, incorniciati da un viso particolare, ma affascinante. I capelli scuri, tendenti al nero, erano corti e lievemente spettinati. Volutamente o meno, riuscivano a sembrare così per un qualche disegno specifico. Era decisamente più alto di lei, che raggiungeva le sue spalle, cosa alquanto facile dato il suo misero metro e sessantacinque che, ogni tanto, sui mezzi pubblici o in famiglia, riusciva anche a farla sentire alta.
Eppure, nonostante vedesse l'indiscutibile bellezza di quel ragazzo, non riusciva a vedere in lui la persona in grado di conoscerla e di aiutarla a conoscersi.
Strano ripensasse a quegli occhi, quelli da cui era scappata, e si chiese se forse scappare non fosse stata un'ulteriore via per conoscersi.
“Adesso ci dedichiamo alla fine dell'intervista?” chiese timidamente, svincolandosi dalle sue riflessioni decisamente poco consone alla situazione.
Riprese velocemente a parlare, scaricandosi in domande e affondando in un attento silenzio quando i ragazzi iniziavano a risponderle.
Ascoltare era una delle poche cose che riusciva a fare in modo decente, probabilmente proprio perché non era mai stata brava a parlare di sé. Preferiva nascondersi dietro alle parole degli altri, cercare elementi in comune e differenze, trovare dolore e felicità anche negli altri, quasi avesse bisogno di una prova del fatto che il mondo girasse davvero allo stesso modo per tutti, che davvero non era così diversa.
Poi si era rassegnata a trovarsi perennemente dissimile e aveva iniziato ad accontentarsi di aiutare gli altri, lasciandosi raccontare i loro problemi. Pareva riuscirci bene, tutto sommato.
E forse sapeva anche leggere, che in fondo è solo ascoltare con gli occhi parole lasciate da qualcun altro, perso nel tempo e nello spazio.
“Allora direi che abbiamo finito, grazie mille.” concluse Nimhea, quando ormai non c'era altro da dire a proposito. Sorrise educatamente e aspettò che uno dei ragazzi parlasse, si salutassero e finalmente si potesse mettere in viaggio verso casa.
“Grazie a te!” risposero loro, più o meno sommessamente mentre si alzavano e iniziavano a raggiungere la porta, insieme alla ragazza che, allo stesso modo, si preparava a combattere l'aria esterna, accodandosi ai Sunset.
Marco la lasciò passare, prima di chiudersi la porta alle spalle e raggiungerla. Non parlò, limitandosi ad osservare i capelli mossi di Nim che scivolavano a destra e a sinistra, adesso che con un gesto fulmineo aveva sciolto la coda.
“Arrivederci.” salutò la donna con rinnovato entusiasmo, quando arrivarono nell'ingresso ancora una volta deserto. Sembrava quasi avesse aspettato fino a quel momento che passasse qualcuno, annoiata dal pallore e dalla pulizia della sala e stanca della sua stessa voglia di lottare contro la tecnologia.
Si levò un coro di saluti biascicati e, senza che nessuno si fermasse, i cinque si guadagnarono l'uscita, sostando poi qualche secondo sotto alle grandi lettere dell'insegna 'Music Lab'.
“Per il concerto ti facciamo sapere tutto, manca più di un mese.”
“Va bene.”
Il gruppo si scambiò ancora qualche saluto, poi Nimhea si diresse verso la fermata dell'autobus e salì sul mezzo. Ad ogni fermata e ad ogni curva, quella bestia di ferraglia sbuffava, quasi fosse stanca del peso portato e dei chilometri percorsi senza variare minimamente.
Guardò la città scivolare sotto i suoi occhi, dietro a quel finestrino troppo spesso. Le strade erano vuote, probabilmente a causa dell'orario: i ragazzi sarebbero usciti più tardi, quando la notte chiara si sarebbe insinuata su quel pezzo di mondo.
Lei si sarebbe chiusa in casa, invece, a lavorare, a leggere, a parlare con la parte della sua vita che viveva lontana da lei.
Non che non volesse uscire o fosse sola. Non del tutto, almeno. Aveva amici preziosi a cui voleva bene, rideva e scherzava con tutti, ma erano solo bei passatempi. Non inteso nel terribile egoismo del termine, ma come il semplice fatto che, finché stava con loro, il tempo scorreva velocemente e Nimhea poteva tranquillamente illudersi di essere felice e di saper ridere delle avversità. Invece sapeva solo mostrare il suo sorriso in compagnia, per poi rimuginare una volta rimasta sola con se stessa e con le apparenti soddisfazioni della sua vita, che tutto potevano essere tranne che insoddisfazioni.
Scese dall'autobus, salutando con un sospiro quella stanchezza così simile alla sua, e si incamminò verso casa, guardando l'ombra che il Sole alle sue spalle proiettava davanti a lei. Vide la sagoma strascicata che di solito segregava dietro la schiena, per cause fisiche o forse per la semplice volontà di non volersi riconoscere. Sembrava non volesse abbandonarla, ricordandole che una parte di lei avrebbe sempre camminato su quella Terra, gridandole in silenzio la sua presenza costante. Non si distrugge la propria ombra.
Camminò frettolosamente, distogliendo lo sguardo e provando a veicolare i pensieri verso mondi più leggeri.
Presto sarebbe finita un'altra giornata.
Era finita un'altra giornata. 

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Capitolo 5
*** Theseus ***


Buonasera a tutti!
Ecco finalmente il quinto capitolo. Ed ecco finalmente una Nimhea pronta a conoscere quel 'cacciatore' di cui si parlava nel secondo capitolo. Chi sarà mai?!
Ahah buona lettura, a voi pochi che leggete.
Le visite al quarto capitolo sono davvero poche rispetto alle altre, ma non mi sembrava giusto farvi aspettare.
Spero che possa piacere a voi (e a qualche povero visitatore che magari vi si imbatterà!).
Un bacio,
nora



Capitolo 5
Theseus



“Mi scusi, dovrebbe farmi vedere il suo pass.”
“Eccolo.” rispose con un sorriso Nimhea all'uomo che la squadrava.
Le dava fastidio essere guardata in quel modo appiccicoso e cercò di scivolare via al più presto possibile, sperando di trovare i Sunset nel labirinto dietro al palco del Forum.
Si osservò, riflessa sulla superficie nera di una porta di sicurezza, e rimase qualche secondo a pensare alla telefonata di tre settimane prima.

-Buonasera, parlo con Nimhea Adrasto?-
-Sì, ma mi scusi, se vuole vendermi qualcosa, le dico subito che non sono interessata, mi dispiace.- aveva risposto lei, già pronta a riattaccare.
-Veramente la chiamavo per informarla che ha vinto il concorso fotografico a cui ha partecipato che aveva come tema le città. Congratulazioni! Presto verrà contattata via mail per confermare i suoi dati e ricevere i biglietti per il viaggio a Los Angeles. Le ricordo che potrà portare con sé un'altra persona e che, in due settimane, dovrà scattare un minimo di quindici foto che verranno poi esposte alla mostra che si terrà a Roma, in novembre.-
Nimhea si era persa probabilmente tra quell' 'ha vinto' e il successivo 'concorso fotografico', ma sperava nella comprensione della donna che, dall'altro capo del telefono, le ripeté più volte le informazioni essenziali.
La prima persona ad essere informata era stata ovviamente Andrea, che entusiasta e orgogliosa l'aveva presa in giro per tutta la serata e le aveva raccontato che, forse con una punta di preveggenza, aveva già fatto un programma di cosa fare durante quelle due settimane.
-E se io non ti portassi?-
-Non lo faresti mai!- aveva risposto l'amica, scoppiando a ridere.

Avrebbe dovuto essere già lì anche lei, ma aveva chiamato da poco, avvisando Nim che il treno stava ritardando e che avrebbe fatto in tempo ad arrivare solo per il concerto. La sera sarebbe rimasta a dormire da lei e il giorno successivo sarebbero partite alla volta di quella città sconosciuta.
Camminò ancora per qualche minuto, pensando, chissà perché, al mito di Teseo e ricordando il mostruoso Minotauro e la dolce Arianna.
Fortunatamente non c'era nessuno con cui combattere, nessun sacrificio sanguinoso a cui porre fine, rischiando la propria vita nell'ingegnosa opera di Dedalo.
Decise però di chiedere disperatamente aiuto ad un addetto alla sicurezza che la vedeva passare ormai per l'ennesima volta.
“Posso chiederle aiuto?” azzardò lei.
“Certo.”
“Ecco, io sarei una giornalista.”
“E...?” la interruppe lui, con un sorriso cordiale di chi ha voglia di rendersi utile, ma non vuole perdere tempo.
“Dovrei arrivare ai camerini, ma non riesco a trovarli.”
L'uomo gettò uno sguardo distratto al pass della ragazza, e rispose:
“Sì, è un labirinto quaggiù. Deve aprire quella porta nera che trova sulla destra, percorrere il corridoio, e arriva ai camerini. In realtà, i due camerini più grandi, che sono quelli dove deve entrare, sono comunicanti. Si trovano in fondo al corridoio, non può sbagliare.”
“Grazie mille, davvero.” gli rispose, allontanandosi e ricercando la porta davanti alla quale, qualche minuto prima, aveva riportato a galla la gioia della sua vittoria.
Si appoggiò al maniglione, lo spinse, scivolando in avanti, e percorse velocemente quel lungo tunnel che la divideva dai camerini. Cos'avrebbe fatto, una volta arrivata là, non lo sapeva ancora.
“Permesso?” chiese, bussando alla porta chiusa.
Sentì una voce lontana e attutita risponderle, così decise di farsi avanti, dopo qualche secondo. Aprì la porta chiara e si affacciò sull'interno, prima di entrare del tutto nella sala. Era luminosa, forse un po' meno del corridoio, a causa del disordine che erano già riusciti a far regnare i quattro ragazzi. Sulla destra, due scalini portavano al camerino comunicante. Entrò, posando i piedi leggermente, mentre gli occhi vagavano curiosi e le labbra rimanevano lievemente socchiuse.
Dimenticandosi totalmente della voce sentita poco prima, arrivò fino all'altra stanza, convinta d'essere l'unica in quel posto che tanto le ricordava un film.
“Chi c'è?” chiese all'improvviso qualcuno, aspettando un suono che confermasse la presenza estranea.
Inglese.
Quella voce. Calda, profonda come non era riuscita a dimenticarla. Avanzò ancora un po', curiosa di vederlo, di assicurarsi che fosse sul serio lui e non un gioco della pessima memoria che si ritrovava.
Lo vide riflesso in uno specchio sulla destra e si fermò, a distanza. A distanza di sicurezza.
“Dio, scusami, non...” sussurrò lei, piano.
L'uomo si girò, con lo sguardo incuriosito da quel balbettio in una lingua per lui straniera. Si alzò dalla sedia su cui si trovava e si avvicinò piano a Nimhea, puntando lo sguardo sul suo viso.
La ragazza rimase un attimo incantata e spaventata da quelle iridi che adesso si nascondevano dietro ad un verde cupo, terribilmente diverso dal castano che le era rimasto in mente fino a quel momento. Si irrigidì improvvisamente, convinta che ormai fosse troppo tardi e che i suoi occhi fossero già riusciti a impossessarsi di lei, frugandole nell'anima.
“Noi...” quella parola le scivolò addosso come una lacrima di pioggia.
Non avrebbe dovuto ricordare.
Nimhea rimase qualche secondo immobile, pensando se fosse meglio fare finta di non capire a cosa si riferisse o di non saper parlare in inglese e scappare via e, senza rispondergli, accarezzò con gli occhi quel viso che vedeva veramente bene per la prima volta. Era, nel complesso, particolare e assolutamente lontano dall'idea comune di perfezione. L'attenzione era veicolata dagli occhi, sormontati da due sopracciglia stranamente poco arcuate, che davano allo sguardo una forza crudelmente inaspettata.
Le guance erano coperte da una barba lievemente incolta. Nim si stupì imbarazzata di soffermarsi a lungo sulle labbra morbide e sulla linea del mento, scivolando poi lungo il collo. Indossava una canottiera improbabile, ma tutto sommato non era vestito particolarmente male.
Quando finì di analizzarlo, combattuta da due forze opposte, si decise a rivolgergli la parola, usando quella lingua che conosceva bene, grazie ai suoi studi influenzati anche dalla madre, e ai viaggi. Le parole che tagliarono l'aria risuonarono di minacciosa curiosità.
“Cosa ci fai qui?”
“Io? Cosa ci fai tu, qui?” ribatté lui, evidenziando con un tono di sfida interessata quel 'tu'.
“Chi sei?” sibilò incurante Nimhea, guardandolo fisso negli occhi, quasi fosse sicura che l'unica risposta sincera sarebbe giunta da quelli, seppur così mutabili. Come i suoi.
“Davvero non mi conosci?”
Quella domanda la fece sentire improvvisamente insicura di sé e allo stesso tempo certa di aver capito quello che fino a due secondi prima le era ignoto. Il suo sguardo sbigottito fece ridere l'uomo, che la osservava ancora. Aveva un sorriso perfettamente abbagliante che chiunque, anche la stessa Nim a cui costava terribilmente, avrebbe definito contagioso.
“Vedo che vi siete già conosciuti.” disse Marco, che finalmente entrava nella stanza con gli altri membri dei Sunset.
“No, veramente noi...” balbettò Nimhea, tornando a parlare comodamente in italiano.
“Piacere, Shannon Leto. Batterista dei 30 Seconds to Mars.” s'intromise nel discorso ancora una volta, con la mano tesa pronta ad accogliere quella della ragazza. L'irriverente minuziosità con cui si era presentato dava a Nimhea un ulteriore motivo per desiderare che si aprisse immediatamente una voragine sotto ai suoi piedi e che una forza misteriosa la trascinasse fino ai confini del mondo, immediatamente lontana da quegli occhi che finalmente appartenevano ad un nome proprio: qualcosa di reale.
“Nimhea.” rispose, distrattamente interessata all'apparenza, fissando la sua mano. Quando finalmente si decise a stringerla, si concentrò su qualunque pensiero potesse portarla lontana da lì. Non voleva che la toccasse.
“Nimhea? Che nome è?”
“Significa 'occhi di cielo' ed è indiano.”
“Mi piace.”
“Grazie.”
Nimhea si girò, avvicinandosi contrariata ai Sunset. Non gli avrebbe più rivolto la parola. Mai più.
“Dovremmo andare a provare.” le disse Marco.
“Sì, certo. Posso venire a sentirvi?”
“Va bene.”
Federico informò 
del fatto che sarebbero andati sul palco per il soundcheck Shannon, che rispose che li avrebbe raggiunti dopo qualche minuto, smanettando con un Iphone.
In un silenzio visibilmente emozionato, il gruppo si spostò, entrando da dietro le quinte e affacciandosi su quella che per il momento era solo un'interminabile distesa vuota e che, dopo qualche ora, sarebbe stata gremita di persone.
Nim rimase in un angolo in piedi ad ascoltarli, dopo aver declinato qualsiasi proposta di sedersi.
Era sempre stata affascinata da qualsiasi genere di musica e rimase colpita da quei quattro ragazzi: non si aspettava potessero sprigionare un'energia così forte anche dal vivo.
Si lasciò trasportare dalle note, fino a che la sua voce non la disturbò.
“Sei sempre così scontrosa?”
Era arrivato da qualche minuto, protetto dal rumore che li circondava, e l'aveva osservata a lungo, prima di avvicinarsi. Non capiva perché volesse nascondersi da lui e allo stesso tempo era divertito da questo suo comportamento.
“Si vede che riesci a tirare fuori il meglio di me.” rispose lei girandosi di scatto. Era sempre stata troppo sarcastica, forse per paura di lasciarsi andare. E così fece, quando dopo qualche secondo cercò di dimostrarsi minimamente gentile, almeno per rispetto nei confronti di tutti quelli che avrebbero dato di tutto per essere al suo posto.
“Comunque no, in genere so essere anche simpatica. È che tu...”
“Io?” la spronò lui, curioso.
“Tu niente. E mi hai sentita suonare.”
“Già. Sei bravissima.”
“Non credo proprio.”
“Sono io che ti ho sentito.”
“Allora grazie.” rispose lei sorridendo, presto ricambiata da Shannon.
“Quale onore. Addirittura un sorriso?”
Si accorse che stavano sussurrando e che riuscivano a sentirsi, nonostante fossero circondati dalla musica ad alto volume, perché decisamente troppo vicini. E notò, con una certa soddisfazione, di essere ben poco più bassa di lui.
“Scusa, il cellulare...” balbettò Nim, prendendo dalla tasca il telefono che continuava a vibrare. Guardò il display illuminato: Andrea. Evidentemente il treno era riuscito ad arrivare prima di quanto ormai si erano rassegnate a credere.
“Pronto?”
“Sono arrivata. Sono passata a casa tua, ho lasciato le valigie e adesso sono qui. Il tuo piano geniale ha funzionato, anche se è strano entrare in casa tua senza che tu ci sia.”
“Dove sei?”
“All'ingresso. Mi hanno fatto entrare per il pass, ma dove devo venire?”
“Vengo a prenderti, aspetta.”
“Va bene.”
La ragazza riattaccò, scusandosi con uno sguardo con l'uomo che l'aveva ascoltata parlare in quella lingua praticamente sconosciuta.
“Devo andare da Andrea, è... storia lunga. Scusami, ciao.” gli disse, pronta a scappare di nuovo dai suoi occhi. L'oscurità dietro al palco li aveva fatti tornare di quel castano che tanto l'aveva impressionata la prima volta.
“Aspetta, lì fuori ci sono Jar...” provò ad avvertirla lui, interropendosi a metà frase, quando Nimhea ormai si era già ritrovata in mezzo a due uomini che la guardavano curiosi.
Shannon la seguì e comparve ridendo alle sue spalle nel giro di qualche secondo.
“Fratello, Tomo, lei è Nimhea.”
La ragazza arrossì, sentendosi profondamente stupida per aver sbagliato strada per l'ennesima volta in quella che in fondo non poteva certamente essere l'opera di Dedalo. Le parve così incredibilmente strano, inoltre, vedere la fatica con cui quelle labbra pronunciavano il suo nome, calcandone con difficoltà la 'i'.
“Loro sono Jared e Tomo, rispettivamente cantante e chitarrista dei Mars.” continuò la presentazioni lui, divertito dal suo imbarazzo.
“Non credi ci conosca?” chiese l'uomo presentatole come Jared, di cui per ora riusciva a concentrarsi solo sui due occhi incredibilmente azzurri. Sembrava che cielo e mare si fossero sfidati in una battaglia all'ultimo sangue per strapparsi i pigmenti d'azzurro da donare a lui.
Shannon l'aveva chiamato 'fratello' ed effettivamente c'era qualcosa di simile in loro, anche se era difficile identificare cosa fosse veramente.
“Io in realtà dovrei andare. Ehm... piacere di avervi conosciuto! In bocca al lupo per il concerto!” disse lei, scivolando via e imboccando l'altra uscita. Questa volta, quella giusta. Forse. 

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Capitolo 6
*** A volte si è così vicini da volersi lontani ***


Eccomi!
Questa volta non anticipo niente (dovrei dire troppe cose) e vi lascio direttamente alla storia.
Spero vi possa piacere anche questo capitolo!
Buona lettura,
nora




Capitolo 6
A volte si è così vicini da volersi lontani



“Nare!” esclamò Nimhea non appena vide l'amica, e affrettò il passo. Aveva voglia di parlarle, di arrivare a lei ed abbracciarla, di sentire vicino il suo respiro, di lasciarsi stringere dalle sue braccia e di alzarsi in punta di piedi, per arrivare alla sua altezza. Aveva voglia di volerle bene da vicino, di esserci.
“Com'è andato il viaggio?” le chiese, una volta sciolta la stretta. Osservò quella massa incredibile di capelli ricci scuri e i grandi occhi luccicanti: le era mancata.
“Bene grazie. Allora, sei pronta per domani?”
“Sì. Non vedo l'ora. Valigia rigorosamente mezza vuota, ché voglio comprare una marea di vestiti là, intese?”
“Mi fai paura quando parli di shopping!” rise l'amica.
Nim la guidò, tra una chiacchiera e l'altra, in quell'intricato intreccio di corridoi fino ai posti riservati loro, sul primo anello alla destra del palco. Tra pochi minuti sarebbero stati aperti i cancelli e migliaia di persone avrebbero colmato parterre e posti a sedere, in preda alla trepidazione scalpitante di chi, di lì a poco, era certo che avrebbe potuto vivere uno dei momenti migliori della sua vita.
Chiamò i Sunset, sottraendosi a malavoglia dalle parole di Andrea, per avvisarli del fatto che fosse andata a prendere l'amica e che si fossero già sedute tranquillamente, facendo loro ancora una volta gli auguri per lo spettacolo.
“Nare, giusto una cosa.” disse, dopo aver riattaccato e gettato il cellulare in borsa. Si era finalmente decisa a raccontarle dell'incontro con Shannon.
“Sì?”
“Lui è qui.”
“Lui chi?” chiese Andrea lanciandole uno sguardo preoccupato, e, quasi le avesse letto la risposta negli occhi, continuò immediatamente: “Lui lui?”
“Già.”
“Come? Dove? Perché è qui? Come l'hai visto?”
“Ecco, è... è il batterista dei 30 Seconds to Mars.” annunciò velocemente lei, facendo vedere quanto le costasse quella consapevolezza.
“Fantastico. Voglio vederlo.”
“Sì, lo vedrai sul palco.”
“Intendevo di persona, Nim.”
“Non ci pensare nemmeno: io non voglio più vederlo.”
“Perché mai?” le domandò ironica.
“Perché non lo sopporto.”
Andrea scoppiò a ridere, decisamente scettica nei confronti di quella che era uscita dalle labbra dell'amica come un'aspra e incontrovertibile sentenza. Poi, fingendosi spenta dall'occhiataccia di Nimhea, aggiunse:
“Un attimo, ma vi siete parlati? Ti ha riconosciuta?”
Gli occhi chiari dell'amica si sforzarono di guardare indietro e di rimestare tra le parole sprecate e quelle inutilmente taciute, rendendosi subito conto del fatto che ormai fosse passata più di un'ora dallo scontro.
“Cosa ti ha detto, Nimhea?” incalzò Andrea.
“Niente di importante. Anzi, proprio niente. Secondo me mi detesta e si diverte a prendermi in giro. Comunque mi ha riconosciuta, sì.”
“Secondo me non ti detesta per niente. A fine concerto mi fai sfruttare 'sto pass e andiamo da loro, capito? Anche solo perché sono troppo curiosa di vederlo. Devo. E poi mi devi presentare i Sunset e tutti. E non vorrai fare la maleducata asociale, no? Ti hanno invitata, non puoi non andare nemmeno a salutarli e ringraziarli.”
“Mi sa che hai ragione.”
“Io ho ragione.” stabilì con orgoglio l'amica.
Nimhea inarcò lievemente un sopracciglio: “Pensiamo a domani.” disse.
“Giusto. Sei al corrente del fatto che fare delle belle foto di Los Angeles sia pressoché impossibile?”
“Non è impossibile.”
“Però è una gran bella sfida. Non c'è assolutamente niente in quella città.”
“Sì, è vero. Ho visto anche io. A parte le villette di chi caga soldi c'è poco. Però magari troviamo posti meravigliosi o ci inventiamo qualcosa. A volte, nelle foto, i luoghi ritratti sembrano sconosciuti e migliori.”
“Giusto. E dopotutto hai vinto, quindi sei bravissima, quindi ce la farai ancora.”
“Tu hai sempre creduto troppo in me.”
“Non è vero. E, se proprio non ne sei convinta, vedila così: è per compensare il tuo non crederci assolutamente.”
“Psicanalista?”
“Migliore amica.”
Nimhea sorrise, appoggiandosi alla sua spalla in un sospiro. I ragazzi avevano ormai riempito parterre e numerosi anelli di posti a sedere: ben presto i Sunset avrebbero iniziato a suonare, scaldando l'atmosfera o forse, più semplicemente, aiutando il tempo a passare e la mente a liberarsi per qualche tempo dall'ansia.
“Marco è il bassista, Federico il tastierista, Simone il batterista e Luca il cantante.” li presentò da lontano, quando salirono sul palco e carichi ed emozionati si imposero sulla scena.
Andrea li ascoltò incuriosita e, nonostante non fosse amante di quel genere, le annunciò che erano riusciti a piacerle ed erano davvero molto bravi.
Come sempre, la musica fu in grado di far scorrere il tempo più velocemente e di trascinare irrefrenabilmente nel passato emozioni che chiunque avrebbe voluto si protraessero all'infinito.
Il gruppo dei ragazzi lasciò il palco e il pubblico iniziò a ruggire, aspettando ansioso ed agitato.
Nim vide comparire Shannon, che si sedette e iniziò a suonare, mentre le persone che l'avevano accolto entusiaste, aspettavano l'ingresso degli altri membri.
Quando sentì la voce di quello che prima le era stato presentato come Jared, intuì che non si sarebbe più liberata facilmente della loro musica. Sul palco c'erano ormai i tre che poteva identificare come 30 Seconds to Mars e altri ragazzi, che con buona probabilità credette supportassero la band nei live.
“Ti sei resa conto del fatto che sia terribilmente... sexy?” non c'era bisogno di alcun soggetto perché Nimhea capisse a chi si riferiva l'amica.
“Andrea, sei una pervertita.”
“È un dato oggettivo Nim. Hai visto che bicipiti ha?”
“Veramente non ci avevo fatto caso, prima.”
“Come hai fatto a non farci caso? Sono grandi quanto te!”
“Andrea!” esclamò, scoppiando a ridere Nimhea, osservando affascinata l'uomo mentre il suo corpo dialogava con lo strumento che sembrava redistribuirgli l'energia necessaria per continuare ad ardere insieme.
Le due ragazze si ritrovarono a saltare e ad urlare come due disperate, nonostante fino a poco prima non sapessero nemmeno di chi si trattasse effettivamente. Si sentivano lievemente stupide, ma era divertente tornare a scatenarsi così, insieme. Forse era sempre stato tutto bello, se insieme.
Quando il concerto finì, il pubblico si divise in vari gruppi: c'era chi stava uscendo entusiasmato dopo lo spettacolo; alcuni raggiungevano il palco vuoto per osservarlo da vicino; altri si accalcavano ai banchi che vendevano magliette e fasce; altri ancora pensavano a come poter raggiungere il backstage in qualche strano modo.
Andrea e Nimhea scivolarono dai loro posti e mostrarono i pass all'uomo che bloccava l'accesso al retro.
“Adesso me li presenti tutti.” si limitò a dire Nare.
“Nemmeno li conosco!”
“Non mi interessa.” rispose ridendo l'amica.
Arrivarono davanti alle due porte, questa volta entrambe chiuse.
“C'è un problema. Non ricordo qual è quella dei Sunset e quale quella dei Mars.”
“Aprine una e lo scoprirai!”
“Quale apro?”
“Non lo so, scegli.”
Nimhea rimase qualche secondo davanti alla porta di destra, poi si spostò e aprì la sinistra, decisa, anche se timorosa.
“Oh, chi si rivede.”
Aveva parlato Tomo, osservando incuriosito le due ragazze. Andrea, che parlava un inglese molto scolastico, ma che se la sapeva cavare decisamente bene, si presentò, ma fu presto interrotta dall'arrivo dei due fratelli Leto.
“Una volta si bussava.”
Nim lanciò un'occhiata insofferente a Shannon, notando in un misto tra disgusto e interesse come la canottiera aderisse alla pelle per il sudore, e disse, subito bloccata da una gomitata dell'amica: “Non cercavamo voi.”
“Io sono Andrea, piacere.” s'intromise lei.
“Finalmente incontro quella simpatica.” disse il batterista, stringendole la mano, seguito dal fratello.
“Prima ci siamo presentati male anche con te. Eri di fretta.”
Jared, che sembrava quasi infastidito da quel suo averli considerati poco in precedenza, le si avvicinò, porgendole la mano.
“Finalmente incontro quello intelligente.” disse Nimhea.
Alla risata di Jared e Tomo, si aggiunse presto quella di Shannon che, nonostante avesse provato a fingere una certa disapprovazione, doveva ammettere di aver trovato qualcuno in grado di sfidarlo.
“Permesso?” chiesero in italiano i Sunset, capiti all'istante dalle due ragazze, ma accompagnati da sguardi perplessi degli altri che si voltarono verso di loro.
Finito il giro di presentazioni e di complimenti per il concerto, il gruppo si divise e le due ragazze seguirono la band italiana nel loro camerino, con grande soddisfazione di Nimhea.
“Noi andiamo a cenare, voi che fate?” chiese Luca.
“Dobbiamo andare a...” provò a rispondere miseramente la milanese, presto bloccata da Andrea:
“Noi chi?” disse.
“Noi. Jared e Tomo devono tornare in albergo e Shannon ha un After Party.”
-Ovvio.- pensò Nim prima di dire, questa volta senza alcuna interferenza:
“Comunque mi dispiace, ma dobbiamo tornare a casa: domani mattina abbiamo un aereo da prendere prestissimo.”
“Va bene. Allora ci sentiamo. Grazie per essere venute.”
“Ma grazie a voi. Siete bravissimi! Vi sentiremo ancora, ne sono sicura.”
I quattro sorrisero, proponendo di andare a salutare un'ultima volta i 30 Seconds to Mars, che si preparavano a rientrare. Nare trascinò con un sorriso l'amica che non riuscì ad opporsi, ma, dopo qualche minuto, si ritrasse nell'altro camerino, per sfuggire agli sguardi indagatori che si soffermavano continuamente su di lei, incurante del fatto che i più severi fossero proprio i suoi: nonostante non si potesse vedere, si scrutava benissimo.
“Ho lasciato di là la borsa, vado a recuperarla.”
Non era riuscita a venirle in mente una scusa realmente più convincente, in quel momento. Si sedette sul tavolo appoggiando la schiena alla parete. Voleva semplicemente convincersi che la presenza di quell'uomo non le desse poi così tanto fastidio.
“Lo sapevo. Scusa poco credibile, la tua.” la interruppe quella voce che iniziava a sentire come insopportabile.
“Finiscila. Cosa ci fai qui?”
“Dovevo andare in bagno.”
“Sì, scusa decisamente credibile anche la tua, eh?” disse lei, con un sorriso ironico. Sarebbe mai riuscita a ridere?
“Direi di tornare di là, o si insospettiranno.”
“Ma per favore, cosa dovrebbero sospettare?”
“Cazzo ne so. Era per dire. Tanto sei venuta qui per nasconderti da me, e, dato che anche io sono qui, non credo che possa servirti a molto rimanerci.”
Nimhea lo guardò, indecisa se negare quello che aveva detto lui o seguirlo, dandogliela vinta per una volta. Scivolò giù dal tavolo, sistemandosi i jeans e raggiungendolo, mentre si avvicinavano all'altra stanza.
“Buonanotte, comunque.”
“Buon divertimento.” rispose lei, facendogli capire, forse sbagliando, di sapere cos'avrebbe fatto più tardi.
“Potresti venire anche tu.”
“Potrei.” ammise lei con un sorriso, mentre con uno sguardo tentava disperatamente di prevedere cosa avrebbero ribattuto quegli occhi.
“Ti dispiace così tanto divertirti?”
“Dipende dalle circostanze.”
“Dipende da te.” rispose Shannon, bloccandosi e guardandola: se lei non aveva paura di sfidarlo, lui non avrebbe avuto certo paura di sostenere quello sguardo indagatore. Osservò ancora una volta quegli occhi chiari che adesso tendevano ad un grigio contaminato dal verde, a causa della scarsa luminosità.
“Arriverai in ritardo, a furia di provare a cambiarmi. Divertiti.”
“È divertente provare a cambiarti.”
Nimhea si impossessò dei suoi occhi. Sembrava davvero che gli piacesse perdere tempo in quell'inutile conversazione.
“Sei snervante, lo sai? Comunque non posso. Domani devo prendere un aereo molto presto.”
“Non stai dicendo però che non vuoi. Potresti non andare proprio a dormire.”
“Ma sei sempre così?” sbuffò lei.
“Pare. Dove vai di bello?”
“Los Angeles.”
Shannon sorrise e aggiunse, senza perdere troppo tempo in spiegazioni: “Ah, sì. Bella città.”
“Non dovevamo andare di là?” chiese Nim, infastidita.
“Inizia a piacermi anche qui.”
La ragazza gli lanciò un ultimo sguardo disperato, poi si sciolse la coda con un gesto involontario, raccolse le sue cose e gli passò accanto, superandolo velocemente.
“Sei insopportabile.” le disse lui.
“Già, lo sono sempre stata. Non dovevate andare?”
“Stai provando a cacciarmi?”
“Non lo farei mai.” rispose Nimhea che, con un ultimo sorriso, si buttò nel camerino affollato, tornando con un sospiro dall'amica.
“Trovata la borsa?” chiese Nare non appena la vide avvicinarsi.
“Poi ti spiego.” le sussurrò.
Dopo qualche minuto le due ragazze abbandonarono definitivamente la struttura e uscirono nella notte calda di Milano, lasciando gli altri ancora spersi in quella sala nei meandri del labirinto.
“Shan, si può sapere cos'hai combinato? Ti detesta.” aveva chiesto Tomo, non appena erano riusciti a rimanere soli.
“Dici? Credevo mi amasse.”
E Jared, con uno sguardo severo e divertito: “Sì, ti ama. Preparati, allora, perché il tuo amore, se potesse, ti avrebbe già lanciato addosso una scarica di fulmini.”


“A che ora ci dobbiamo svegliare domani?” chiese Andrea, una volta intrufolatasi nel letto matrimoniale, unico nell'appartamento dell'amica. La luce della lampada sul comodino dava alla stanza un'atmosfera famigliare.
“Alle sei.”
“Ma Nim, non sono nemmeno cinque ore di sonno!”
“Dormiremo in aereo.”
Udiva sua mamma, in quelle parole. Quante volte si era sentita rispondere così dagli occhi dolci di Nadia, quando la sveglia prima di un viaggio le sembrava ad un orario esagerato. Dormirai. A dire la verità, poi, non c'era mai riuscita. Gettava sempre occhiate attente fuori dal finestrino, fantasticando, inventando storie curiose che aveva come protagonisti gli abitanti di quei luoghi: reali o immaginari che fossero.
“Ah prima, sul taxi, visto che hai deciso di abbandonarmi sui sedili posteriori,” interruppe i suoi pensieri l'amica “ero andata a gironzolare su facebook con il cellulare e ho scoperto che il tuo amico è un truzzo che gioca ancora con gli autoscatti, oltre a vestirsi in un modo improponibile.”
“Tu non avevi niente di meglio da fare?” disse ridendo Nimhea.
“Che poi è alto come me.”
“Sì, vorrà dire che quando mi mancherà verrò a mettermi accanto a te.”
“Io non credo che tu non lo riesca a sopportare sul serio. Secondo me un po' ti piace.”
Nimhea si tirò a sedere, fissando l'amica per tentare di capire se fosse seria o meno. O forse, semplicemente, per riuscire a non vedere almeno una volta nei suoi occhi quel bagliore di verità di chi capisce sempre tutto prima che accada.
“Ma ti prego, è un idiota.” rispose. 

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Capitolo 7
*** Diari ***


Salve! Ecco il settimo capitolo.
Capitolo un po' di passaggio sì, ma vogliamo lasciare un po' di aria a queste due povere ragazze?
Ah, due piccolissimi dettagli:
-il numero della stanza di Nimhea e Andrea a Los Angeles è un omaggio (se si può dire così) ad un cd dei Negramaro: casa 69
-il depliant dell'hotel, di cui sono riportate le parole, è stato scritto da me, ma ho semplicemente messo insieme tutte le informazioni trovate sul sito. Così come l'hotel, anche i negozi/musei e le vie che citerò saranno tutti esistenti. Non sono mai stata a Los Angeles, ma diciamo che con Google alla mano si può fare.
Detto questo, vi lascio alla lettura!


Capitolo 7
Diari



Giorno 1
Bene, siccome siamo in aereo e non abbiamo niente di meglio da fare, abbiamo deciso che terremo un fantastico diario di bordo. Più o meno.
Stamattina, dopo una faticosa sveglia, abbiamo chiamato un taxi, messo a posto le ultime cose e siamo arrivate in aeroporto, controllando (sotto continue richieste-minacce di Andrea, preciserei) se avessimo preso i biglietti o se questi, disperati, non si fossero suicidati, sparendo alla nostra vista, nella mia borsa.
Arrivate, siamo (incredibile!) riuscite a cavarcela senza troppi problemi e, in un negozio dei tanti, abbiamo comprato questo quaderno, dopo la brillante idea della sottoscritta (ampiamente incoraggiata dall'amica che al momento insiste perché scriva queste parole).
Hai una bella e inutile copertina bianca, ma non temere, ti tappezzeremo di foto al nostro ritorno.
Come si è capito, scriveremo qui tutte le idiozie che ci passeranno per la testa e, visto che sono le undici e l'atterraggio è previsto per le sette di sera, la cosa si preannuncia faticosamente lunga (ancora più lunga se si pensa alle due settimane che abbiamo davanti: meraviglia!).

Andrea guardò l'amica, ridendo, poi prese penna e quaderno-diario ed iniziò a scrivere con la sua calligrafia più precisa e rispettosa nei confronti delle lettere, anche se meno lineare e ordinata.
Correggerei la qui presente Nimhea Adrasto per aggiungere un piccolo dettaglio: quando arriveremo, lì saranno le dieci del mattino. Jet laaaaaaaag!
Ci terrei inoltre a sottolineare il fatto che la tenera e dolce ragazza dagli occhi di cielo non fa altro che pensare a Sha----

Nim, che stava leggendo divertita, strappò il quaderno alla ragazza, prima che andasse avanti a scrivere quel nome. Scrutò il risultato del suo gesto: una linea nera occupava ora il posto delle altre lettere.
“Nim, sei infantile.” le disse Andrea, con un sorriso di superiorità.
“Sì, molto infantile.” ammise lei, poco convinta.
“Cambia molto il fatto che sia scritto solo nella tua mente e non sul foglio?”
“Nare, per favore.” rispose l'amica, giocando con un ciuffo mosso che usciva dalla coda, senza guardarla negli occhi.
Andrea sbuffò e scivolò in profondità sul suo posto, riprendendo a scrivere senza essere considerata da Nimhea, i cui pensieri volavano lontani, insieme alla terra che, dal finestrino, diventava sempre meno dettagliata e più affascinante.
Nimhea guarda fuori dal finestrino, sperando di addormentarsi e di dimenticare tutto. Io, che non sono stronza e le voglio bene, la lascerò dormire stupidamente.
Qui continua a passare una fastidiosa hostess che ci guarda come se stessimo scappando da chissà cosa o, ancora peggio, squadrandoci come se fossimo su questo aereo perché possiamo permetterci tutti i viaggi del mondo, nonostante la nostra età.

“La mia amica ha vinto un concorso di fotografia, ok?”
Gettò uno sguardo all'altra ragazza. Aveva chiuso gli occhi e si era appoggiata al finestrino completamente, con le cuffie nelle orecchie. Voleva essere lasciata in pace e si sarebbe addormentata presto.
Prima o poi glielo urlerò sul serio, al costo di svegliare la bella addormentata nel bosco.
È ripassata. Forse ci invidia, semplicemente.
Credo che, arrivata a questo punto, afferrerò l'ipod e la smetterò di scrivere, tanto abbiamo un sacco di tempo per raccontarti tutto, diario. A meno che un milione di mostriciattoli non ribaltino il mondo, cambino il corso del tempo e...
e mi facciano diventare intelligente. Scrivere fa male.


Mancano quattro ore all'atterraggio. Non mi ricordavo fosse così stancante dover fare un viaggio da una parte all'altra del mondo.
Nimhea aveva riletto le poche righe scritte dall'amica, e aveva cercato l'hostess di cui si parlava, ma senza risultati. Probabilmente si stava riposando o, semplicemente, si era rassegnata e non le guardava più.
Aveva ancora nelle orecchie l'eco di quella verità fastidiosa: scritto o meno che fosse, non cambiava niente.
Continuò a scrivere, cercando di scacciare quel pensiero insolente che la riportava al viso dell'uomo incontrato la sera prima. Era passato così poco tempo.
Elenco dei film che potremmo vedere (potere del diario aiutaci tu a scegliere!):
-Titanic (ma non abbiamo voglia di deprimerci e di far affondare un aereo. Altrimenti, avremmo preso una nave.)

Andrea rise, collegando con una freccia enorme un: Sì, sappiamo che non ha senso, ma cosa ci vuoi fare, non siamo normali. Poi continuò l'elenco al posto dell'amica.
-Il diavolo veste Prada (questa potrebbe essere una scelta decisamente più interessante.)
-Il cacciatore di aquiloni (che nessuna delle due ha mai visto)
-Sherlock Holmes (scelta caldeggiata assolutamente da Andrea -me medesima-)
Altrimenti potremmo vedere un bellissimo horror-thriller, spaventando con le nostre fantastiche urla tutti i passeggeri dell'aereo.

Nimhea si impossessò nuovamente del diario e riprese a scrivere.
Io invece eviterei volentieri di vedere un horror, non voglio morire qui, senza vedere Los Angeles, portare a termine la mia missione (fare le foto) e ritornare a Milano.
“Dillo che, se lo guardassi abbracciata a qualcuno, non avresti paura.” proruppe Andrea, che, almeno questa volta, non sembrava alludere a nessuno in particolare. Si era rassegnata a sciogliere i capelli, per potersi appoggiare più comodamente allo schienale del suo posto.
“Può essere, ma non ci tengo.”
“Nim!” urlò, facendo voltare l'uomo seduto nella fila opposta alla loro, che, con uno sguardo severo, sembrò quasi ringraziarle di averlo distratto dal computer che (almeno finché erano state sveglie) non aveva mai spento.
“Cosa c'è?”
“Il re leone! Ti prego, guardiamolo. Il re leone! Ti prego, ti prego, ti prego, ti prego!” la supplicò.
“E va bene, piccola.” disse ridendo Nimhea, mentre faceva partire il cartone animato. “Noi non abbiamo quasi trent'anni.” aggiunse poi.
“Io ne ho 25 tesoro, parla per te.”
“Giusto.”
Andrea la guardò, poco convinta dal tono di voce sarcastico. Poi le chiese, con l'aria dolce di una bambina che chiede al padre di raccontarle una storia: “Non ti addormenti, vero?”
“No, non mi addormento.” le sorrise Nim. “E poi non dormo mica così tanto!”


Giorno 2
Ieri non abbiamo più scritto niente. Il viaggio è finito tranquillamente e, all'arrivo, abbiamo chiamato i trecento parenti in ansia, rassicurandoli del fatto che l'aereo non fosse caduto (cosa tra l'altro ovvia, perché, se fosse precipitato, non li avremmo potuti chiamare, ora che ci pensiamo).
Una volta arrivate in albergo (missione non da poco, perché abbiamo trovato l'unico taxista idiota di Los Angeles) (Nimhea, dai piani alti -è in piedi dietro a me, che sono seduta- mi urla di scrivere che la nostra stanza è enorme ed è una grandissima figata. Io ne approfitterei per dirle che non c'è bisogno che urli, perché le mie orecchie sono all'altezza giusta perché possa anche solo sussurrare)... una volta arrivate in albergo (che per la cronaca si chiama The Standard e si trova a Downtown), dicevamo, abbiamo lasciato le valigie nella nostra stanza 69 e ci siamo buttate in giro per la città: un ammasso di grattacieli e stradoni, niente a che fare con la mia amata Firenze. Volete mettere la meraviglia del mio Duomo?
Sì, aggiungiamo anche il Duomo di Milano, per par-condicio.
Nimhea è praticamente fissata con i particolari più inutili, per fare le sue fotografie: non avrei mai immaginato che ci mettesse così tanto tempo per trovare un soggetto che le possa piacere del tutto. Ogni tanto sono riuscita a rubarle la macchina fotografica per farle qualche foto, andando contro alla sua ira (no, è tanto buona, però detesta essere fotografata).
Tornando alle conseguenze del viaggio, direi proprio che ci siamo ritrovate un po' spaesate per via dell'orario, ma siamo giovani e forti e...

“Ma ti prego, tu sarai giovane e forte! Io ho un sonno allucinante!” disse Nimhea, interrompendo la scrittura e scoppiando a ridere.
Rettifico: quella giovane e forte sono io, Nimhea è vecchia e debole. E, siccome sono brava, le voglio bene lo stesso.
“Andrea Losno, la nuova martire. Ti è costato davvero così tanto venire in vacanza con me?” chiese Nimhea allontanandosi e lanciandosi sul suo letto, rigorosamente vicino alla finestra. Osservò la stanza. Era luminosa e spaziosa, arredata con attenzione ai particolari, sebbene votata al minimalismo.
L'amica, intanto, continuò a scrivere, senza curarsi troppo delle obiezioni dell'altra.
Sono solo le nove di sera, ma abbiamo già cenato e, non sapendo ancora bene cosa fare, siamo ritornate in albergo, anche perché effettivamente un po' stanche lo siamo: anche oggi abbiamo camminato quasi tutto il giorno e devo ammettere che vivere con questa disperata è divertente. (Nim, se leggerai, sappi che l'ho fatto per il tuo bene (?))
Ci siamo anche impegnate a tradurre il depliant dell'albergo che abbiamo trovato in camera, questo è il risultato:

Benvenuti nel nostro Hotel.
La struttura del The Standard è situata nel centro di Los Angeles, a soli quattro isolati dalla Walt Disney Concert Hall. Soggiornerete a meno di 1.6 km dal Los Angeles Museum of Contemporary Art e a circa 6 km dal Dodger Stadium. L'aeroporto Internazionale di Los Angeles (LAX) si trova a 29 km dall'albergo.
Le camere moderne, arredate con stile esclusivo e minimalista, dispongono di cabina doccia in vetro con docking station per ipod, minibar e aria condizionata. Potete inoltre trovare TV (con annesso lettore Dvd) e connessione WiFi gratuita.
Piscina panoramica e terrazza prendisole presentano capanne con letti ad acqua e un bar a bordo piscina con Dj serali. Lo Standard Restaurant è aperto tutti i giorni 24 ore su 24 e propone una cucina mediterranea.
L'albergo offre saloni interni e all'aperto, dove troverete alcuni tavoli da biliardo. Potete recarvi, inoltre, nel nostro negozio di souvenir.
Buona permanenza, lo staff.

Inutile descrivervi l'espressione di Nimhea quando ha scoperto della docking station: non l'ho mai sentita ripetere così tante volte “Wow” nel giro di un secondo. E, soprattutto, si è rintanata di là, ululando che “Era stanca e doveva farsi una doccia.”
Cosa ci volete fare, quella ragazza vive per la musica. Se avesse potuto, si sarebbe anche portata dietro il pianoforte.
Detto questo, direi che domani andremo a comprare un costume da bagno, perché non possiamo assolutamente perderci una serata di divertimento in piscina (o meglio: ci vergogneremo da morire entrambe, ma ci divertiremo).

Buonanotte diario, ti saluto. Vado a guardarmi un po' di tele con la pazza, sperando che non si addormenti troppo presto. Anche se per questa volta è perdonata: su 48 ore, avremo riposato sì e no per 8.
Ci si sente, domani sarà già il nostro terzo giorno di convivenza (sì, va bene, ho sonno anche io.)
'Notte.

Andrea posò la penna e chiuse il quaderno, tornando verso l'amica che nel frattempo si era cambiata. Nessuna delle due aveva mai adorato particolarmente il pigiama e così dormivano l'una in pantaloncini e canottiera, l'altra con una maglietta troppo lunga e troppo larga.
“Domani cosa si fa?”
“Girovaghiamo e... shopping?” chiese Nimhea con occhi imploranti. Non che avesse poi questa marea di soldi da spendere, ma aveva voglia anche solo di buttarsi in un negozio e provare qualcosa.
“E va bene. Ma solo perché dobbiamo trovare un costume.”
“Per cosa?”
“Come sarebbe a dire 'per cosa'?”
“Sarebbe a dire 'per cosa'.” ribatté Nimhea ridendo, mentre si impegnava a raccogliere i capelli nel solito chignon notturno: alto e fondamentalmente comodo, almeno per non sentire troppo il caldo.
“Ti ricordo delle serate in piscina.”
“Ah, già. Nare, ti prego. Io mi vergogno da morire! Sai che non sono adatta a queste cose.”
“Nemmeno io, ma lasciati andare per una volta. Siamo in America, girl! Ed è estate, divertiti un po'. Magari incontri qualcuno...”
“O magari lo incontri tu.” rispose la milanese, lanciandole un'occhiata di sfida.
“Magari.” 

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Capitolo 8
*** Riflessi ***


Perdonate il ritardo imperdonabile (?)
Naaa, vabbè, non è poi così in ritardo, vero?!
Chissà chi torna all'attacco, a Los Angeles. Povera Nimhea, noi (c'è qualcuno anche di voi, ditemi di sì, vi prego ç_ç) siamo con te!
Ahah buona lettura! Se avete tempo, aspetto le vostre recensioni. Siate critici, davvero v.v


Capitolo 8
Riflessi



Los Angeles quella mattina splendeva. Il sole si specchiava negli scintillanti grattacieli del centro, abbagliando chiunque osasse passare di lì. Il cielo limpidissimo brillava d'un azzurro cupo, intenso, che Nimhea ricordava aver visto a Milano solo in alcune occasioni, in genere in inverno.
Sebbene avessero trovato bel tempo anche nei giorni precedenti, quella terza mattina di permanenza, sembrava che tutto fosse migliore, e forse anche più adatto a loro, ai loro sorrisi e alla loro felicità.
Sapeva che sarebbe stato così ancor prima di guardare fuori, quando, dopo essersi alzata, aveva guardato i suoi occhi riflessi nello specchio del bagno: verde e azzurro si mischiavano, lasciando solo un orlo ambrato intorno all'iride. Erano sempre stati dei buoni segnali premonitori anche se, in realtà, si limitavano a riflettere ciò che li circondava.
Le due ragazze, finalmente riposate a dovere, inforcarono gli occhiali da sole e sfidarono l'unico effetto negativo di quel clima: il caldo.
Andrea indossava un vestito leggero, di un celeste chiaro colorato da piccoli fiorellini color pesca, lungo fino al ginocchio, che non stonava per niente con le comode Superga, sicuramente molto più adatte a camminare di un paio di ballerine. Nimhea, invece, con le sue inseparabili Converse, portava dei normalissimi jeans e una canottiera doppia: la prima bianca, la seconda, superiore, in pizzo blu.
La sua macchina fotografica, l'amata Canon, le rimaneva al collo, nonostante avesse deciso che per quel giorno si sarebbe dedicata poco al concorso: voleva divertirsi.
“Nim, ricordati che siamo in giro per te.”
“Non eri tu a volere un costume?”
“Sì, ma...” tentò di controbattere l'amica. “H&M, ti prego, entriamo?” esclamò poi, quasi illuminata, lanciandosi all'interno del negozio.
“Cambia discorso, mi raccomando.” rispose Nimhea ridendo e tirando gli occhiali sui capelli, prima di seguirla.
Si ritrovarono immerse tra pantaloni, magliette, felpe, vestiti e accessori di ogni sorta. Entrambe le ragazze afferrarono un paio di jeans leggerissimi e numerosi altri abiti e si diressero con energica e minacciosa felicità ai camerini.
“Tesoro...”
“Nare, quando mi chiami tesoro hai bisogno di qualcosa! Cosa ti serve?”
“Non è vero! Non sono così opportunista!” ribatté ridendo, prima di chiederle: “Tu hai già provato tutto?”
“Sì. Compro la camicia. Quella verde, leggerissima e larga. È un po' trasparente, ma vedrò come metterla. E poi prendo i pantaloncini, evento straordinario.” rispose, sapendo bene che quella domanda ne precedeva un'altra, forse ben più interessata.
“Oh bene. Ti ricordi quel vestito chiaro che volevo provare e che non ho preso? Potresti portarmelo qui?”
Nimhea scoppiò a ridere, attirando l'attenzione di una ragazza che aspettava comodamente il suo turno, poco più indietro di lei. Sembrava incuriosita dalla loro lingua, più che dalla risata o dalla sua stessa attesa.
“Per favore!” aggiunse l'amica.
“Vado, arrivo subito.”
Nim si allontanò velocemente, sentendo un “Grazie” ormai leggero uscire dal camerino di Andrea. Ricordava il vestito, ma non ricordava assolutamente dove potesse trovarsi nella vastità di quel luogo. Decise di fare un giro completo, partendo dall'entrata e percorrendolo tutto da destra a sinistra, facendosi guidare dai colori secondo alla quale era organizzata l'intera esposizione.
-Vestito chiaro. Vestito chiaro.- si ripeté, cercando di visualizzarlo nella memoria.
Quando finalmente lo trovò, frugò a lungo tra la stoffa morbida alla ricerca della taglia giusta, trovandola ovviamente solo nell'ultimo abito appeso.
Con un sorriso vittorioso, si girò e, nel vedere davanti a sé quel volto che credeva dimenticato nella sua insopportabilità e quegli occhi che sembravano voler smentire tutta la sua capacità di convincimento, quell'espressione di trionfo sui lineamenti si trasformò in astiosa sorpresa, animata da un certo spavento.
Le labbra dell'uomo si schiusero piano, prima che la sua voce profonda lasciasse nell'aria tre parole, che sembrarono colpirla a più ondate.
“Ciao. Come va?”
“Mi hai fatto venire un infarto!”
“Non credevo di farti questo effetto.” rispose Shannon ridendo.
Nim lo guardò sforzandosi di mantenere il suo scetticismo, pur sapendo quanto fosse messo a dura prova da quel sorriso.
“Perché sei qui?” gli chiese, lanciando un ultimo sguardo alle sue iridi, prima che lui si nascondesse dietro agli occhiali da sole. Erano verdi. C'era il sole, già.
“Fai sempre la stessa domanda?”
“Da quando si risponde ad una domanda con un'altra domanda?” si pentì immediatamente d'aver dato quella risposta così banalmente infantile.
“Anche la tua è una domanda.” le rispose, prima che calasse un apparentemente lungo silenzio durante il quale i due ebbero modo di guardarsi veramente. Correvano troppo, quelle loro conversazioni.
“Comunque io ci vivo, e tu non mi rispondi.” riprese lui.
“Se mi lasciassi il mio spazio vitale, risponderei.”
Shannon rise e fece un passo indietro, rendendosi conto del fatto che effettivamente le fosse rimasto un po' troppo vicino. Sembrava divertirsi di quel suo comportamento scontroso, anziché irritarsi e lasciarla definitivamente perdere.
“Perché non mi hai detto che vivi qui?” domandò Nim, cambiando improvvisamente tono di voce. Arrendendosi un po'.
“Secondo te sapevo che ti avrei incontrata? E poi probabilmente non saresti venuta a Los Angeles.” rise lui.
“Figurati, per te?”
Shannon la guardò, quasi volesse farle capire che la risposta era lì, dipinta nei suoi occhi, sospesa sulle sue labbra che non osavano aprirsi.
“Comunque devo andare, Nare... Andrea, la mia amica... Insomma, lei è in un camerino e devo portarle questo.” cambiò discorso lei, facendo cenno al vestito.
“Va bene. Quando deciderai di non fuggire...” disse, lasciando in sospeso la frase e cercando un seguito adatto, con aria da filosofo.“nevicherà nel deserto, sì.” concluse.
“Io non sto scappando da niente.”
“Allora ti aspetto. Non mi hai ancora detto come stai.”
“Bene, grazie.”
“I tuoi occhi dicono che stavi meglio prima.” sentenziò.
“Posso andare o vuoi continuare ancora?”
“No, ti lascio andare. Ti aspetto fuori.”
“Va bene. Ma non ti stanchi di perdere tempo con me?”
Nim si voltò, senza aspettare una vera risposta. Senza vedere gli occhi dell'uomo guardarla con tristezza sotto alle lenti scure, come se quelle parole fossero riuscite a tradirla, anche se non definitivamente.
Ritornò velocemente dall'amica, passandole l'abito.
“Ci hai messo una vita!”
“Lo so, è che... non importa, quando hai finito ti spiego.”
“Sai che non puoi dirmi così.”
“Non ti preoccupare, non è niente. Quando esci ti dico tutto.” sussurrò Nimhea, cercando di mostrarsi il più sicura e calma possibile.
Andrea spalancò la porta del camerino e si avvicinò a lei, reggendo tra le braccia i vestiti provati e quello ancora intatto.
“Adesso tu mi spieghi cosa cavolo è successo, perché non credo che un vestito sia tanto destabilizzante!” le disse, lanciandole uno sguardo severo e preoccupato.
“Shannon. E non è destabilizzante, sto benissimo. È che vorrei vivere la mia vita tranquillamente senza continuare a ritrovarmi quell'uomo davanti.”
Aveva completamente ripreso il controllo su di sé. Eppure, per un attimo, sembrava che le sue difese si fossero rivelate penetrabili e terribilmente fragili.
“Magari è destino.” la prese in giro l'amica.
“Sì, ovvio.”
“Adesso dov'è?”
“Ha detto che ci aspetta fuori. Comunque prima finiamo di comprare questa roba. Non ho nessuna intenzione di uscire di corsa per lui. Potrebbe investirlo un'orda di ragazzine che lo costringe ad allontanarsi senza parlarci.”
“Sì, o potrebbero rapirlo gli alieni.” rispose Andrea, dirigendosi verso le casse.
Purtroppo non c'era così tanta fila da permettere loro di farsi aspettare e di ritardare più di tanto quell'incontro, così arrivò presto il turno di Nimhea, che allungò camicia e pantaloncini alla cassiera.
“Ciao.” le sorrise la ragazza.
Nim rispose e ricambiò il sorriso, poi pagò ed aspettò che l'amica facesse altrettanto, scrutando la luminosità all'esterno del negozio.
Il sole. Era davvero così stupido essere convinta che tutto potesse andare bene, se il cielo fosse splendente?
“Nare, sono meteoropatica.” annunciò, quasi fosse una notizia d'importanza vitale o una serissima diagnosi medica.
“Non credo. Mi avevano spiegato che in pratica un meteoropatico diventa nervoso prima che ci sia un cambiamento climatico e poi si lascia andare ad una fase di apatia durante la variazione del clima.”
“Quindi la roba di essere di buonumore con il sole non c'entra niente?”
“Così pare.”
Nimhea delusa, uscì all'aria aperta, faticando un po' per abituare la vista a quella luminosità: non voleva indossare gli occhiali, ma godersi il bagliore invaderle il viso.
Le due ragazze si guardarono intorno e videro, all'angolo della strada, Shannon circondato da alcune fan, che firmava autografi e si preparava a fare qualche foto con loro.
Lanciò a Nimhea uno sguardo apparentemente distratto, scusandosi, e tornò a concentrarsi sulle richieste delle fan.
“Com'era? Gli alieni?” disse con tono canzonatorio Nim.
“Intanto non mi sembra un'orda, Nimhea.”
“Potremmo andarcene.” replicò, dopo qualche secondo di silenzio alla ricerca di qualcosa con cui controbattere o cambiare discorso.
“Seguimi.”
Andrea la afferrò per un polso e la trascinò vicino al gruppo, frugando nella borsa, per cercare qualcosa da fargli autografare.
“Se è furbo, capisce.” le disse, prima di affidarle il pezzo di carta e di spingerla in avanti.
Shannon afferrò velocemente il foglietto, sorridendole.
-Non sei obbligato a sorridere, puoi anche farne a meno. Sopravviverò.- pensò cinica.
“Come ti chiami?”
“Nimhea.” rispose, fingendo un tono particolarmente emozionato, smentito facilmente dal suo sguardo.
“Come si scrive?” le chiese, scoppiando a ridere.
Nim fece lo spelling, poi si avvicinò fino a sfiorargli il braccio sinistro, spinta da una ragazzina alle sue spalle. Le lanciò un'occhiataccia che sembrò lasciarla del tutto indifferente: aveva davanti a sé uno dei suoi idoli, non aveva tempo di stare attenta a chi la circondava.
“Hai un accento strano, di dove sei?”
Lo guardò, indecisa se sentirsi innervosita o divertita dal gioco. “Milano.”
“Ti piace Los Angeles?”
“Sì, abbastanza. Rimangono assolutamente migliori le città italiane.”
La ragazzina dietro di lei si svincolò e le passò davanti, scaricando una marea di parole sull'americano che si limitò a riconsegnare a Nimhea il suo foglio, abbozzando un “Ciao” contaminato e distorto dal suo accento.
Lei gli voltò le spalle, calcandosi gli occhiali da sole e dirigendosi da Andrea. Una volta arrivata, lesse il frutto di quella messinscena.
Com'era? Occhi di cielo?
Nome perfetto.
Margaret Herrick Library, 4 PM
Ringrazia la tua amica intelligente.

“Potresti considerarlo un appuntamento.” la punzecchiò Andrea.
“Non credo proprio. In qualsiasi caso non ho tempo di giocare a nascondino con lui.”
“Cosa ne sai, magari è divertente.”
“Divertentissimo.” disse, prendendo l'Iphone dalla borsa per cercare dove si trovasse quella biblioteca.
“333 South La Cienega Boulevard, Beverly Hills. È qui vicino. Che ore sono?”
“Quasi mezzogiorno. Rimanendo in zona, abbiamo praticamente tutto lo shopping del mondo, a parte il Fashion District che è molto più vicino al nostro albergo. Giriamo, mangiamo qualcosa e poi andiamo al tuo appuntamento.”
“Che non è un appuntamento.” ribadì Nimhea, voltandosi. All'angolo della strada dove si trovava fino a qualche minuto prima, non c'era più traccia dell'uomo. Rimanevano solo gli sguardi sognanti negli occhi di chi si era avvicinato a lui. 

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Capitolo 9
*** Storie ***


Ebbene sì, sono ancora qui a propinarvi la mia storia.
Spero che possa sembrare ancora interessante, siamo solo all'inizio, dai!
Oggi sono quasi di poche parole, vi lascio alla lettura!
Grazie a tutti quelli che hanno letto e recensito/inserito la storia tra le seguite fino ad ora.
Un bacio,
Nora



Capitolo 9
Storie



“Margaret Herrick Library.” lesse ad alta voce Andrea, su di un cartello poco distante dall'ormai visibile luogo dell'incontro.
Era un grande edificio chiaro, con il tetto in muratura d'un rossiccio contrastante. Le caratteristiche lasciavano intuire una probabile origine ispanica. Tutto intorno, si trovavano dei giardini rigogliosi, modestamente grandi e accoglienti in quel loro estendersi verticalmente, quasi ad emulare i grattacieli del centro. Grande ribaltamento della situazione, quello: non era l'uomo ad aver copiato la natura?
Nimhea, che sembrava volersi aggrappare al cellulare stretto nella mano destra, lanciò uno sguardo all'orologio: 16.07. Ritardo trascurabile per due ragazze che non conoscevano la città e, soprattutto, risultato incredibilmente positivo per lei, se considerato l'abitudinario quarto d'ora di ritardo minimo che l'accompagnava.
“Oh, guarda Nim, è anche puntuale.” esclamò Nare, quando vide in lontananza il batterista salutato qualche ora prima.
“Magari è la prima volta in vita sua che si presenta in orario ad un appuntamento.”
“Mi ero dimenticata questa tua favolosa capacità di contraddire tutti. Comunque hai detto appuntamento.” concluse con una certa noncuranza, sapendo bene che l'amica avrebbe deviato velocemente il discorso.
“Sì, ma no.” rispose Nimhea, procedendo lungo il viale centrale circondato dall'alto verde.
“Sì o no?”
“Sì, ma non nel senso i cui lo usavi tu prima. Non si usa forse la stessa parola anche per andare da un medico o per fare un colloquio di lavoro?”
“Filologa, ti farei notare che sei riuscita a trovare un giorno in cui è vestito quasi decentemente.” le disse Andrea, prima che si avvicinassero definitivamente troppo per non farsi vedere.
Nimhea osservò l'uomo venir loro incontro: possibile che non riuscisse mai a focalizzare l'attenzione sulla sua figura alla prima volta?
Indossava dei pantaloni scuri e una canottiera su cui era stampato un qualche disegno: una di quelle canottiere che sperava mettesse solo ai concerti.
“Ciao.” le salutò Shannon non appena arrivò a meno d'un metro da loro.
Le due ragazze fecero solo in tempo a ricambiare il saluto, prima che un inevitabile silenzio crollasse sui tre. Sembrava si stessero studiando, cercando di ascoltare dagli occhi altrui storie che forse non avrebbero mai sentito uscire dalla loro bocca.
“Prima sono dovuto scappare, scusatemi. Un'intervista.” distrusse quell'assenza di parole l'uomo, abbozzando un sorriso.
“Com'è andata?”
Andrea era sempre stata curiosa e, bravissima a distinguersi dalla massa che in genere pone domande simili per semplice noia travestita d'educazione, riusciva a mostrare il suo effettivo interesse anche solo con un'espressione sul viso o un'intonazione particolare della voce.
“Niente di che. A volte i giornalisti non sanno davvero cosa inventarsi.”
Shannon volse lo sguardo alla ragazza dagli occhi chiari. Indossava gli occhiali da sole, ma non era difficile immaginare il bagliore nelle sue iridi: sapeva bene d'averla attaccata.
“A volte gli artisti non sanno cosa rispondere.” ribatté Nimhea, aprendo veramente bocca per la prima volta da quando erano arrivate.
L'amica la redarguì con un'occhiata severa, ma sul suo volto si intravedeva il riflesso di un sorriso divertito.
“Benissimo, io direi che vi lascio girare Los Angeles da soli. Ho bisogno di nascondermi un po' dal caldo e sono curiosissima di scoprire cosa c'è qui dentro.” annunciò Andrea.
“No Nare, non ci pensare nemmeno. Non lasciarmi da sola con lui.” proruppe in italiano l'altra, senza preoccuparsi minimamente di Shannon che le osservava, avendo capito solo la prima affermazione. Strano come le negazioni siano uguali in tutte le lingue.
“Mi ringrazierai.”
“Ti odio.” replicò Nimhea, poco convinta lei stessa di quel tono apparentemente saldo della sua voce.
“Ciao Shannon. Riportamela sana e salva, ti prego. Alle sei e mezza massimo.”
“Ciao... Andrea, giusto?”
“Giusto.” annuì lei. “Ciao Nim.”
“Ciao.” rispose seccata, vinta dall'evidente inutilità di qualsiasi possibile tentativo di sottrarsi al futuro imminente.
L'amica rise e, gettando un ultimo sguardo ad entrambi, entrò e scomparve nell'edificio.
I due rimasti sotto al sole non si mossero per qualche secondo, dopo, quasi di comune accordo, si misero a camminare piano, lasciandosi alle spalle gli alberi del giardino della Margaret Herrick Library.
“Dove dobbiamo andare?” chiese Nimhea guardandolo preoccupata.
“Dove vuoi tu.”
Da qualche parte, incastrata tra l'eco di quelle parole, una gentilezza disarmante impose alla ragazza di calmarsi un po' e di rispondergli con maggior cortesia:
“Ecco, io non conosco ancora niente in questa città. Mi fido di te, diciamo.”
“Diciamo di sì.” disse lui, ridendo e riprendendo a camminare. “E comunque, sono meglio le Nikon.” stabilì, dopo aver osservato la macchina fotografica al collo della ragazza.
“Sono più maneggevoli per farsi foto da soli?”
Il tenue sorriso cortese di qualche secondo prima si era trasformato nuovamente in astio e sfida, ma sembrò non scalfire particolarmente l'uomo.
“Vedo che ti sei informata.”
“No, io...” provò a giustificarsi Nim che, senza riuscire troppo in quel tentativo, cambiò velocemente discorso: “Da quando sai qualcosa di fotografia?”
“Da quando sono un fotografo, ragazzina.”
“Ragazzina? Ma per favore. Quanti anni credi di avere?”
“Quarantuno. Vedo che non ti sei informata abbastanza.” disse, scoppiando a ridere dell'improvviso sguardo sconvolto e incredulo di Nimhea.
“Quarantuno?”
“Hai visto un fantasma?”
Lei lo osservò, cercando un possibile indizio di quella verità, poi, forse senza un vero motivo, iniziò a ridere. Una di quelle risate che riuscirebbero a far sentire allegre anche le nuvole e che muovono il Sole a splendere più intensamente.
“Che onore, una risata.”
“Non so perché. Ma quarantuno?”
“Sì. Quarantuno.” rispose, riprendendosi la sua rivincita sul riso. Sembrava una convenienza, un giusto compromesso, quasi il mondo avesse paura di tremare, se entrambe le loro risate si fossero unite.
“E sei un fotografo?”
“Pare. Nuove scoperte?” le domandò con ironia.
“Sì. Ti avevo sottovalutato, batterista.”
“Comunque dovresti ridere più spesso.” le disse, dopo qualche secondo in cui l'unico rumore che percepivano era quello dei loro passi sull'asfalto bollente. Quanti altri suoni si trovavano, nascosti. C'era quel ragazzo sullo skateboard più avanti, così come si poteva sentire lontano il latrato di un cane ed immaginare il fruscio delle onde, a qualche chilometro da lì. E, in fondo, c'erano anche i battiti dei loro cuori e il flebile soffio dei loro respiri, pronti a sommarsi a quell'incantevole melodia che nessuno udiva.
“Io rido sempre, sei tu che non mi conosci. E comunque non attacca, Shannon.”
Nim si sorprese a sentire sulle labbra quel nome che pronunciava veramente per la prima volta e che sembrava fosse sempre stato con lei, che l'avesse aiutata a girare le pagine della sua storia fino a quell'istante in cui finalmente entrava in scena. Non era poi così difficile stare con lui.
Arrivarono velocemente alla fine della via, dove, in uno spiazzo, si trovavano parcheggiati alcuni taxi. I conducenti, al loro interno, sembravano ringraziare l'inventore dell'aria condizionata senza sapere chi fosse veramente, riproponendosi di andare a cercare su internet qualche informazione su quel santo non riconosciuto dalla Chiesa.
Shannon si avvicinò ad una macchina, salutò il conducente e vi salì, esortandola con un gesto a fare lo stesso. Lei gli lanciò uno sguardo titubante, poi aprì la portiera colorata ed entrò, ritrovandosi seduta accanto a lui.
“Dove mi stai portando?”
“Non preoccuparti. Non ho nessun'intenzione di rapirti.”
“Non temevo il sequestro di persona.” annunciò secca, squadrandolo: stava ancora aspettando una risposta.
“Non troverai un posto migliore, conoscendone prima il nome.”
“Dovrai pur dirlo al taxista.” rispose lei, con apparente calma.
“Cazzo, non ci avevo pensato.” esclamò, trascinandola con sé nella sua risata. E sì, il mondo sembrò aver tremato, per un istante.
Il conducente, che fino a quel momento aveva aspettato in silenzio, si voltò verso i due passeggeri, invitandoli a dirgli dove volevano andare.
“Venice beach.”
Nim gli lanciò uno sguardo al limite tra l'incredulo e il preoccupato, ma non aprì bocca, facendosi sommergere per una ventina di minuti dalla voce dell'uomo al volante. Parlava del passato e della sua famiglia, con gli occhi, riflessi dallo specchietto retrovisore, pieni di ricordi che vedeva troppo lontani.
Quando scesero dall'auto, salutando cordialmente l'uomo e pagandolo, il vociare inconfondibile delle grandi folle colpì il loro udito.
“Ma è affollatissima!” esclamò Nimhea.
Shannon le sorrise, gli occhi ancora nascosti dietro alle lenti. “Il modo migliore per non farsi notare è stare in mezzo alla gente.” le disse, lasciandola abbastanza dubbiosa. “E poi è affollatissima solo se non si conoscono i posti giusti.”
“In sintesi, ti devo seguire.”
“Brava.”
“Grazie.” rispose, mettendo a sua volta gli occhiali da sole e buttandosi nella calca, che, superato l'impatto iniziale, in realtà andava disgregandosi e lasciando il passaggio leggermente più libero.
“Stammi vicina, altrimenti Andrea mi uccide.”
“So badare a me stessa. Istinti paterni?”
“Però un po' stronza lo sei, eh?”
Indecisa se confutare o approvare quella tesi, la ragazza sorrise e si avvicinò a lui di quel tanto che bastava per non perdersi di vista e per dare l'impressione, ai passanti, di essere lì insieme e non vicini per caso.
“Ti spaventa il fatto che potresti essere fotografata con me?” le chiese dopo qualche minuto, mentre proseguiva costeggiando la spiaggia, lasciando il lungo mare affollato al di là delle aiuole trafitte da palme.
“Non hanno niente di meglio da fare che documentare i tuoi rapimenti?”
“Lo prendo come un no.”
Entrambi rallentarono il passo, facendosi prendere dalla curiosità di guardarsi intorno, scivolando tra i colori accesi che li circondavano. Quando il viale sembrava finire, lui continuò a camminare, svoltando e ritrovandosi in una spiaggia più silenziosa. All'ombra gettata dalle piante, si trovavano alcune panchine, che sembravano invitarli ad avvicinarsi.
“Visto che si tratta solo di conoscere i posti giusti?” disse Shannon.
Nimhea, con un sorriso, si voltò ed osservò il posto in cui si trovava, andandosi a sedere, seguita da lui. Era la prima volta in cui quel senso di disagio iniziava a sciogliersi.
“Come mai sei qui? Vacanza?”
“No, veramente ho... avrei vinto un concorso di fotografia. Sono qui per scattare delle foto che verranno esposte a Roma.” l'incredibile imbarazzo evidenziato dal rossore sulle guance di Nimhea, cancellò qualsiasi idea di vanto potesse nascere da quell'affermazione.
“Allora te la cavi anche tu, collega.”
“Colpa di quella pazza di Andrea, mi ha iscritto lei al concorso.” ammise.
“Be', ma le foto non erano sue. E ha fatto bene ad iscriverti. Credo l'avrei fatto anche io.”
“Non esisteva una cosa, un tempo, chiamata libertà di scelta?” rispose lei ridendo.
“Non significa non scegliere, però.”
Si scambiarono uno sguardo curioso, poi si volsero entrambi al mare. La superficie sembrava tingersi d'argento nei punti in cui rifletteva il sole in lontananza, mentre a riva l'azzurro s'increspava in lievi onde di schiuma bianca.
“Posso chiederti una cosa?”
Con la coda dell'occhio, vide Shannon annuire, così proseguì. Non che fosse una domanda di vitale importanza, quella che stava per fuggirle dalle labbra, ma aveva bisogno di distrarsi. Un po' per curiosità, un po' per codardia.
“Cos'è la Margaret Herrick Library?”
“Ah sì. Jared l'adora. C'è stato un periodo in cui ci andava spessissimo e si perdeva nel silenzio. È una specie di biblioteca dove hanno però un sacco di materiale cinematografico. Una... biblioteca del cinema, ecco.”
“E come mai ci siamo visti lì?”
“Perché è stato il primo posto che mi è venuto in mente e non volevo sembrare una guida turistica. Mi avresti odiato ancora di più.”
“Io non ti odio. Non mi avresti vista lì, se ti odiassi. O forse sì, ma per educazione. Non staremmo parlando adesso, se ti odiassi.”
“Davvero?” sembrava conoscere già benissimo la risposta che di lì a poco sarebbe giunta alle sue orecchie, eppure aspettava, in silenzio, per trovare quella che voleva diventasse una certezza.
“No, per finta.”
Si scusò di quel suo stupido lasciarsi andare al sarcasmo e si voltò verso di lui, cercando una risposta accettabile. “È solo che... non lo so. Io non so quasi mai spiegarmi e comunque non credo ti interessi più di tanto.”
“Se mi interessasse?”
“Perché dovrebbe? Comunque non c'è molto da dire. L'unica che sa capirmi nel mio essere incomprensibile è Andrea.”
Tornò nuovamente alla distesa di acqua salata, sollevando gli occhiali sui capelli e mettendo a confronto le iridi con quel colore così diverso, eppure imparentato: era semplicemente più puro, il mare.
“Su, dammi la macchina fotografica.” disse lui all'improvviso, strappandola ai suoi pensieri.
Nimhea lo guardò con uno sguardo interrogativo, senza aprire bocca.
“Voglio fare una foto. Non ti fidi?”
“Ecco, detto sinceramente io...” provò a rispondere con poco successo. “Va bene.”
I minuti seguenti passarono alla rincorsa degli scatti dei due che più di una volta si fermarono anche a parlare con qualche artista di strada che aveva concesso loro delle foto. Erano i colori, l'elemento più impressionante di quel pomeriggio assolato. Tutto sembrava incredibilmente vivo e acceso, e non morto sotto al caldo.
Poi, quando il tempo presentò il suo conto, salirono su un taxi, diretti al luogo di partenza. Questa volta, al volante c'era una donna sulla sessantina, vispa e cordiale. Adatta al luogo in cui si trovavano.
Nimhea chiamò l'amica per dirle che sarebbero arrivati di lì a poco e, dopo che ebbe riattaccato, Shannon le sfilò il cellulare dalla mano, prendendo a digitare velocemente qualcosa.
“Cosa stai facendo?”
“Secondo te?” rispose con un sorriso, dopo aver chiamato il suo telefono e averle riconsegnato quello che le apparteneva.
“Non ci sono più i ragazzi di una volta che ti chiedevano il numero.” disse la conducente, ridendo insieme ai due passeggeri.
Una volta scesi dalla vettura, si ritrovarono davanti alla Margaret Herrick Library, esattamente come due ore prima. Il tempo sembrava aver deciso di accelerare il suo scorrere, scandendo minuti da dieci secondi anziché sessanta, lasciando ad entrambi un ritorno più confuso della partenza. Ritorno che forse faceva ancora parte dell'andata, perché nessun arrivo si era degnato di inserirsi sul loro cammino.
“La prossima volta il taxi lo pago io.”
L'uomo la guardò sorridendo, piegando lievemente il collo in un cenno di diniego.“Mi stai dicendo che vuoi uscire ancora con me?”
“Forse.”

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Capitolo 10
*** Numeri ***


Eccomi!
Chiedo scusa per il ritardo, ma purtroppo non sono riuscita a scrivere molto in questi giorni e inoltre in pochissimi hanno letto il capitolo precedente.
In qualsiasi caso, non credo sia giusto far aspettare chi ha letto fino ad adesso!
Spero che vi piaccia anche questo capitolo, nonostante sia un po' di passaggio. Bisogna prepararsi alle prossime vicende, eh?
E poi queste due ragazze hanno bisogno di un po' d'aria.
Buona lettura!
Un bacio,
Nora




Capitolo 10
Numeri



“Nare, la prossima volta potresti gentilmente avvisarmi quando hai intenzione di scaricarmi come un pacco al primo che passa?”
Nimhea si raccolse i capelli, tirando un sospiro di sollievo che andò a mischiarsi con l'aria condizionata della metropolitana. Lo stridore del vagone sulle rotaie che le aveva accompagnate per tutto il tragitto si fece brevemente più acuto, come se volesse coprire le loro parole straniere.
“Il primo che passa?” le chiese l'amica, seduta al suo fianco.
“Non fare la finta tonta.”
Una ragazza, appoggiata alla parete del mezzo, continuava ad ascoltare la musica, alternando occhiate curiose dirette a loro a sguardi annoiati verso una coppia seduta poco più lontano. L'unica altra presenza, che silenziosa scivolava insieme alla metropolitana, era quella dell'anziano signore che, seduto qualche posto più avanti, leggeva il giornale, nel suo abito elegante. A lui non sembrava che il caldo desse troppo fastidio.
“Ah, Shannon.”
“Andrea! E poi spiegami cos'era di così importante da farmi abbandonare la mia migliore amica in un posto sperduto a Los Angeles.”
“Effettivamente Beverly Hills è un orribile posto sperduto, sì. È stato davvero così insopportabile uscire con lui? Da come mi hai raccontato il tutto, mi è sembrato proprio il contrario.”
Inutile dire che fino a quel momento, infatti, Nimhea, sotto le bombardanti domande dell'amica, aveva riportato pazientemente qualsiasi parola, gesto o minimo dettaglio fosse entrato in gioco qualche ora prima. Così, l'idea di prendere un taxi era passata in secondo piano e, dopo una lunga camminata, avevano optato per affrontare il resto del percorso in metropolitana.
“Già.”
“Allora non è un idiota?” la prese in giro, riportandole alla mente le parole di pochi giorni prima. “Sai che il fratello è anche un attore?” riprese poi, quando le porte della metropolitana si chiusero nuovamente. “Mi sono informata sul tuo futuro cognato.”
“Ma per favore! Non c'è niente, siamo solo usciti una volta e abbiamo chiacchierato un po'.”
“Il fatto è che tu non capisci che, volendo, potrebbe esserci anche solo qualcosa, senza poi tutto il resto. Voglio dire, non deve essere per forza una storia seria.”
“Volendo, Nare. L'hai detto tu. E io ho bisogno di una storia seria.”
Non andava veramente bene da troppo tempo. Qualche minuscola relazione strappatale da chi si era perso nei suoi occhi o nei suoi sorrisi e, dicendo d'amarla, si riparava nella sua maturità, sprofondando poi nell'inutile e monotono scorrere del tempo. Ma nel 'per sempre' non aveva mai creduto. Non può far parte della vita umana qualcosa costretto da una parola a durare più a lungo persino di essa. Tutto, sulla Terra, è destinato a finire. E non ci sono carte migliori da giocare, miracoli a cui aggrapparsi, numeri migliori con cui giostrarsi per impedire che ciò accada. Nessun 'per sempre' quindi, e senza troppo rancore.
“Hai il suo numero?” le chiese Andrea.
“Forse.”
Nim non aveva voglia di fare la misteriosa, semplicemente non aveva controllato che lui avesse salvato i suoi dati nella rubrica. In qualsiasi caso, quel 'forse' sapeva tanto di bugia, visto che sull'elenco delle chiamate effettuate l'avrebbe rintracciato immediatamente.
“O sì o no.”
“Sì, credo.” la guardò con un sorriso incerto e inspiegabile, poi recuperò il cellulare dalla borsa e cercò nella rubrica. Vederlo lì, le fece credere per qualche strano motivo che tutto fosse diventato reale, adesso che era archiviato in una memoria oggettiva e sempre presente sullo schermo. Lui esisteva. Lui non sarebbe mai stato per sempre.
Nel 'mai', che poi non è altro che un 'per sempre' visto a testa in giù, aveva sempre creduto fin troppo bene, invece.
Porse il cellulare all'amica, quasi in segno di trionfo, e tirò un calcio ai suoi pensieri tanto profondi quanto insensati.
“Ottimo punto di partenza.”
“Già. Comunque, se ne avrà voglia, mi chiamerà lui.”
“Se non ti chiamasse?”
“Sopravviverò.” stabilì Nimhea, incurante della sottile differenza che divide il sopravvivere dal dimenticare.
“Intendevo, se aspettasse te?”
“Non se ne parla nemmeno.” rispose decisa, ritrovando il suo contatto tra l'elenco e aprendolo:
Shannon
Rise nel vedere le informazioni aggiunte nei dettagli successivi, disseminate di abbreviazioni e di qualche errore.
Quando leggerai questo messaggio sarò ormai lontano... No, ok, inizi a guardarmi male, è meglio che smetta di fare l'idiota qui. Tra l'altro mi copi anche telefono, complimenti Nimhea (si scriveva così, vero?). Va bene, ciao.
Shannon (Christopher) Leto
Ps: batterista dei 30 Seconds to Mars, nel caso dovessi dimenticarlo.

“Cosa c'è?” le domandò l'amica, notando la sua reazione.
“Niente, ha scritto delle informazioni intelligenti.”
“Posso leggere?”
Lei le passò silenziosamente il telefono e scrutò il viso dell'amica, per leggerne nei lineamenti un qualche commento. Sorrise, sembrava divertita e contenta di quell'inutile gioco. E nei suoi occhi scuri un bagliore di certezza voleva animare quella che nel cuore di Nim era solo una tacita speranza.
“E comunque, per me, si sta solo divertendo un po'.” il suo tono di voce era convinto, non cercava una smentita adorabile dell'amica.
“Non credi che, se volesse solo divertirsi, avrebbe a disposizione mezzo mondo e non verrebbe a cercare proprio te?”
“Nare, nessuno ha cercato nessuno. Ci siamo incontrati per caso.” concluse, prima di sprofondare in un nuovo silenzio.
Osservò un foglietto lasciato nel posto accanto a lei e lo prese in mano. Era il volantino di un qualche evento che aveva a che fare con finti maghi e chiromanti e la sua curiosità la portò a sbirciare tra i vari dettagli, trovando riportati i diversi significati dei numeri.
Il sei è un numero ambivalente nel suo significato, in quanto è il numero dell’equilibrio e dell’ordine perfetto, ma allo stesso tempo può generare confusione, turbamento e illusione.
“Nim, dobbiamo scendere alla prossima fermata.”
Con un cenno del capo si alzò, prima di gettare un ultimo sguardo al foglio e riprendere velocemente la lettura.
Il numero sette esprime la globalità, l’universalità, l’equilibrio perfetto e rappresenta un ciclo compiuto e dinamico.
Otto è simbolo dell'infinito

“Cosa leggi?”
“Non è niente, significati dei numeri. L'ho trovato qui e non sapevo cosa fare, sai come sono. Il sei rappresenta sia equilibrio che confusione, il sette completezza e l'otto infinito.”
“Già imparati?” le chiese sorridendo Andrea.
“Tra dieci minuti non li ricorderò nemmeno!” osservò con una risata Nim, lasciando il volantino dove l'aveva trovato e scendendo dal mezzo.
“Adesso direi che una bella doccia non ce la toglie nessuno, poi tutti a cena. Ah Nim, dovresti ricordarti di chiamare Nadia e Pietro su Skype.”
“Giusto! Me n'ero completamente dimenticata. Là saranno le undici, li avviso con un messaggio, così li trovo collegati.”
Programmare e contemporaneamente informare gli altri dei suoi piani, senza un apparente senso e di sicuro non per chiedere loro consensi era tipico della sua personalità. Prese l'Iphone e velocemente avvisò la madre.
“Tu non devi chiamare i tuoi?”
“Già fatto ieri.”
Nimhea le sorrise, prima di ritornare all'aria calda e assolata di una Los Angeles serale. Ormai le ore cocenti erano passate, lasciando però un'aria secca e tiepida, che sembrava insinuarsi sotto agli abiti, facendoli aderire ancor di più alla pelle infastidita.
La stanza 69 del The Standard sembrava averle aspettate nella sua adorabile frescura per tutto il giorno, in quell'ordine tipico delle camere d'albergo.
“Doccia!” gridò Andrea e si diresse in bagno, mentre l'amica prese il piccolo notebook e si sedette a gambe incrociate sul letto.
“Momento, dimenticavo la figata che abbiamo in bagno. Ipod!” disse Nare, correndo a prendere la borsa. “Nim, mi presti il tuo? Ti prego! Hai molte più canzoni e...”
“Va bene, va bene.” l'interruppe Nimhea ridendo e passando l'oggetto all'altra. “Ma solo perché sei tu, sappilo.”
“Grazie!” le urlò, ormai in bagno.
Nimhea ritornò al suo portatile ed entrò su Skype, trovando subito Nadia ad aspettarla.
“Ciao tesoro, come va?”
“Ciao. Tutto benissimo, grazie. Voi come state?”
“Bene. Pietro è uscito un attimo, si arrabbierà quando scoprirà che hai chiamato mentre non c'era.” rise la madre.
“Oh, la prossima volta saluterò anche lui, promesso. Basta trovarsi con il fuso orario.”
“Non vuoi raccontarmi niente? Non sono mai stata a Los Angeles.”
“È una grande città. Non è un capolavoro artistico, però è molto moderna e, non so, mi piace.” non era mai stata capace di descrivere a fondo qualcosa, ma andò avanti a parlare, mettendo insieme le immagini di quello che aveva visto durante i primi giorni e cercando di portarlo agli occhi della madre.
“Ciao Nadia!” la salutò Andrea, quando tornò in camera, con i capelli ricci ancora leggermente umidi.
“Ciao cara. Riesci a sopportare Nimhea giorno e notte?”
“Certo che riesco. Ah, sai che abbiamo anche incontrato il batterista della band del concerto dell'altra sera?”
“Un attimo.” rise Nadia confusa da quell'intreccio di parole. “Batterista, concerto... ci sono. Vi ha riconosciute?”
“Sì.” tagliò corto Nim.
La conversazione andò avanti ancora per qualche minuto, poi le due ragazze salutarono la donna dall'altra parte del mondo e Nimhea decise di andare a buttarsi sotto l'acqua tiepida della doccia.
“Mi spieghi perché l'hai detto a mia mamma?”
“Così. Era un argomento come altri per parlare un po'.”
“Già, sì. Come tantissimi altri.” disse, prendendo dalla valigia un cambio.
“Nim, stasera possiamo mangiare qui vicino? Non ho troppa voglia di girare.”
“Va bene. Se vuoi c'è anche il ristorante dell'albergo.” propose l'amica, dirigendosi verso il bagno.
“No, non ce n'è bisogno. Basta non allontanarci troppo.”
“Andata.” le sorrise l'altra.
“Ah, Nim!”
“Sì?” chiese bloccandosi per l'ennesima volta in quel breve tragitto che doveva percorrere per arrivare alla tanto ambita doccia.
“Domani sera c'è una festa in piscina, qui.”
“Ne parliamo quando esco dalla doccia.”
“Dai, cosa ti costa? Ci divertiremo. Per favore.”
“Va bene, domani ci informiamo.”
“Grazie!” esclamò Andrea andandole incontro ed abbracciandola. “Ti prometto che non ti stresserò più con Shannon.”
“Non so perché, ma mi fido poco.” sorrise l'altra, dandole le spalle e sciogliendosi i capelli per ravvivarli velocemente con le dita.
“Come sarebbe a dire? Non ti fidi di me?”
Nimhea rise, poi chiuse la porta del bagno e, finalmente, si lasciò affondare sotto alle gocce d'acqua, pregando che, per quanto fosse possibile, trascinassero con loro tutti i problemi che lei, per il momento, non voleva nemmeno si avvicinassero al suo campo visivo. Le avrebbe volute contare. Una ad una. Vederle infinite e stupirsi del fatto che le sue preoccupazioni, al confronto, fossero miseramente poche.
Ma si dovette rassegnare e così, chiudendo gli occhi, si lasciò finalmente consolare dalle lacrime della doccia.

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Capitolo 11
*** Compromessi ***


So bene di essere imperdonabile, vi chiedo scusa!
In questi giorni però non sono davvero riuscita a scrivere, né tantomeno ad aggiornare, nonostante sia abbastanza avanti con la scrittura e quindi possa permettermi di lasciarvi il capitolo anche senza essere andata particolarmente avanti.
In ogni caso, adesso ho recuperato quello che andava recuperato e son tornata qui a rompervi adorabilmente le scatole!
Ci eravamo lasciati con Nimhea obbligata ad andare ad una festa, no? Come finirà adesso?
*fa finta di essere reticente*
Be', non vi rubo altro tempo, direi che ho fatto già aspettare abbastanza voi lettori. Quindi mi dileguo, buona lettura a tutti.
Spero che il capitolo vi piaccia e che la storia continui a incuriosirvi: siamo solo all'inizio (un po' inoltrato, ma pur sempre inizio), in fondo!
Ed anticipo già che probabilmente cambierò il rating in
Arancione, più avanti.
Un bacio,
Nora

p.s. Grazie a tutti quelli che hanno letto, recensito, e inserito la storia tra le 'seguite'!



Capitolo 11
Compromessi



La sera successiva, Andrea riuscì a convincere l'amica a farsi trascinare alla festa organizzata in piscina.
“Nimhea, non vorrai metterti i jeans!”
“Veramente io...”
“Non se ne parla nemmeno!”
“Non credi sia abbastanza grande per decidere da sola come vestirmi?”
“No, non lo sei. Ed è passata la fase 'ma non mi sta bene niente', quindi adesso la finisci, ti siedi e decido io. Almeno per stasera.”
Nim borbottò qualcosa, poi si sedette sul letto, scrutando scettica il continuo ravanare nella valigia dell'altra.
“Costume!” esclamò Nare, lanciandole sul letto il bikini. “Non ho finito e non replicare: è una festa in piscina, ergo ti metti anche il costume, sì.”
“Ti diverti?” bisbigliò l'altra, facendo scorrere tra le dita il liscio tessuto verde smeraldo.
“Molto.”
“Posso almeno sapere come ti vestirai tu?”
“A me ci pensiamo dopo, eh? Tieni, vestito!”
Nare si rialzò trionfante, sventolando l'abito davanti agli occhi dell'amica.
“No! Andrea non ci penso nemmeno. Un vestito no. Vengo, ok. Metto il costume, ok. Se vuoi mi vesto pure poco. Ma un vestito no. E non così corto!” disse esasperata Nimhea, alzandosi e andando verso la valigia. “Ho capito, non temere. Pensa a come vestirti, io intanto cerco qui.” riprese e, aggiungendo qualche altra parola di convincimento, allontanò l'amica, cercando qualcosa che potesse accontentare entrambe.
Riemerse dai vestiti stringendo in mano dei pantaloncini e una camicia lunga. Afferrò poi il costume comprato il giorno precedente e, abbandonando l'amato verde sul letto, andò in bagno a cambiarsi.
Si osservò allo specchio compiaciuta. Il beige piuttosto scuro del costume contrastava con la sua pelle ancora chiara, così come con i lunghi capelli castani che disegnavano greche fantasiose sulla schiena nuda. Iniziava ad amare quel tipo di indumento da spiaggia, trikini, come l'aveva definito la commessa del negozio. I due lacci, che partivano dal nodo dietro al collo, scendevano lungo il petto, arrivando interrotti da tre pietre scure fino alla fascia sui seni. Parte superiore e inferiore erano unite da un lembo di tessuto, che lasciava scoperti i due fianchi con una curva sinuosa.
Infilò i pantaloncini di jeans e la camicia bianca, lasciandola sbottonata, e si diresse dall'amica, sedendosi accanto a lei sul letto.
“Va bene?” chiese quasi con tono di sfida.
“Direi che sei bellissima.”
“Diresti. Io mi sento abbastanza nuda.”
“Ma quale nuda! È come se avessi una canottiera. Ti rimangono solo i fianchi un po' più scoperti se si sposta appena la camicia.”
Nim sorrise. Si fidava, nonostante fosse poco convinta. “E te?”
“Io non discrimino i vestiti.” la prese in giro ridendo e scuotendo la massa di capelli ricci. Poi, senza aggiungere altre spiegazioni, prese il posto dell'amica in bagno. Ne sbucò fuori dopo qualche minuto indossando un abito corto, sui toni del blu e del bianco. Il costume, di cui si vedevano solo i lacci, era di un blu elettrico, così come lo smalto che portava alle unghie delle mani, messo con attenzione (e un po' di coraggio) da Nimhea.
“Fai bene a non discriminarli.”
“Scarpe e si scende.”
“Sissignore.” rispose la ragazza alzandosi di scatto con una sonora risata. Andò verso l'angolo della stanza, aprì la scatola dei sandali comprati insieme all'amica e appallottolò la carta dell'involucro, prima di infilarsi le calzature.
“Secondo me non hai ancora smaltito l'effetto Shannon di ieri. Ridi in continuazione. Non è che si è fatto sentire e non mi hai detto niente?”
“Effetto Shannon?” la riprese, continuando a sorridere. “Nessun effetto. E comunque no, non mi ha chiamata o altro.”
“Peccato, vi ci vedevo bene, insieme.”
“Ancora con 'sta storia? Nare, ti prego.”
“No, anche come altezza, dico. Due giganti come voi...”
Nimhea non le lasciò terminare la frase, tirandole addosso la palla fatta da poco con la carta. Leggero e impreciso, il lancio riuscì ugualmente a colpirla tra l'ombelico e il fianco, azzittendola. O almeno facendolo per qualche secondo.
“Come siamo suscettibili.”
“Siamo in ritardo, non dovremmo scendere?” chiese Nim correndo verso la porta e voltandosi a guardarla, il collo inclinato in segno d'attesa.
Andrea si arrese ed insieme raggiunsero velocemente la piscina.
Erano circa una ventina le persone sedute intorno al bordo della vasca, qualcuno stava anche affrontando l'acqua. Altre, invece, erano in piedi, su una sorta di strada invisibile che collegava il bar all'aperto con la console del dj.
Il sole era già tramontato, ma il cielo diffondeva ancora un certo chiarore e, da quella posizione, si potevano vedere i tanti altri grattacieli della città riflettere quella strana luminosità.
“Nim, ti prego, possiamo fare un bagno? Finché non c'è troppa gente.”
“Io lo eviterei volentieri, ad essere sinceri.”
“Non è che le rime siano più convincenti, eh?” la prese in giro Nare.
“Va bene, facciamo 'sto bagno. Solo se... non so, mi inventerò una condizione.”
“Mi dovrei fidare?”
“Vuoi entrare in acqua?”
Andrea guardò l'amica. Gli occhi chiari vispi animavano il sorriso intelligente. Inevitabile dirle di sì, almeno in quel momento.
“E va bene.”
Rimasero in acqua per una buona mezz'ora, poi dovettero uscire, costrette dai troppi ragazzi che continuavano a tuffarsi e dalla voglia di tornare all'asciutto. Si sedettero su di una sdraio lì vicino, ad ascoltare la musica e guardarsi intorno, asciugandosi un po' prima di andare a prendere qualcosa da bere e buttarsi nella mischia.


“Come mai questa voglia improvvisa di sentire la concorrenza?”
“È sempre musica! E poi è per divertirsi un po'. Da quando non vuoi venire?” Antoine rise, varcando la soglia dell'albergo.
“Ero ironico.” suggerì Shannon, seguendolo.
Nessuno sembrò degnar loro di troppa attenzione, quando insieme si aggiunsero alla gente che già affollava l'enorme terrazza. Costeggiarono la piscina, gettando occhiate interessate attorno a loro. Gran bella compagnia, sì.
“Posso vedere il tuo Iphone un attimo?”
“Tieni. Ma perché adesso?”
Shannon gli consegnò il telefono distrattamente e Antoine, con un sorriso divertito, lo spinse in acqua prima che lui potesse anche solo rendersene conto.


“Andrea, spiegami perché la gente deve fare l'idiota. Anzi no, non dirmelo. Non dirmi nemmeno chi è il genio che mi ha appena schizzata, così si salva e io non mi macchio di nessun crimine.”
Nimhea aveva arcuato la schiena, lanciando un sospiro profondo per il contatto con l'acqua non troppo calda.
“Oh, Nim, io non te lo direi, ecco. Ma forse è meglio che tu ti giri, perché... perché sì.”
“Chi è?” chiese Nimhea voltandosi e puntando gli occhi chiari sull'unico uomo vestito nella piscina. “Non ci credo.” sussurrò.
“Vai!” la spronò Nare, mentre, seduta di fronte a lei, la spingeva con un piede.
“Perché?”
“Tu vai, aiutalo ad uscire.” rispose semplicemente quella.
“Devo? È capace di farlo benissimo da solo.”
“Vai!”
Con un altro sospiro la ragazza si alzò, raccogliendo due ciocche di capelli sulle tempie e legandoli con poca cura dietro alla nuca. Quando si avvicinò a lui, notò il compagno del batterista, che smetteva di ridere e raggiungeva a sua volta quella posizione, facendo il giro della vasca.
“Tutto questo ha un nome: mania di protagonismo.”
Nim porse una mano all'uomo che ormai stava uscendo dall'acqua. Shannon la guardò e le sorrise, del tutto impreparato a quell'incontro.
“Potrei chiederti cosa ci fai qui.” disse, una volta all'asciutto, osservandola ancora. I suoi occhi erano diversi, quella sera. Le iridi castane venivano tagliate da riflessi dorati, ma non era il colore a renderli così nuovi. Era una strana scintilla che Nim non aveva mai notato e che fece finta di non notare nemmeno in quell'istante, sentendo le guance velarsi di rosso nel ricordare di essere in costume.
“Giusto, visto che non abbiamo mai iniziato così una conversazione.” rispose sorridendo e provando a dimenticare l'imbarazzo. Poi, lanciandogli uno sguardo esaustivo, aggiunse: “Sono qui perché questo è il mio albergo. Risposta sufficiente? E noi continuiamo ad incontrarci. Mi sta pedinando, signor Leto?”
“Magari è destino.”
“Non chiamarlo destino, ti prego. Hanno inventato un nome così bello: coincidenze. Mai sentito?”
“La prossima volta che capita, ricordami di farmi spingere in acqua.” Antoine arrivò finalmente vicino ai due e scrutò Nimhea, quasi si volesse complimentare con l'amico.
-Ma per favore. Davvero ho l'aria di una ragazza che salta addosso al primo che passa ad una festa?- si chiese, mentre sperava che l'amica, seduta comodamente a godersi la scena, venisse a salvarla.
“Antoine, lei è Nimhea.” Shannon volse poi lo sguardo alla ragazza: “Nim, Antoine.”
“Un attimo, Nimhea... Nimhea lei?” domandò l'altro, sgranando gli occhi.
“Quante credi ce ne siano al mondo?”
-Sì, molto divertente. Oh, gli ha addirittura parlato di me. Fantastico. Rientro tra tutte le possibili ragazze di un uomo di 41 anni, che vive dalla parte opposta del mondo e che adesso è qui con... una maglietta scura no, eh?- pensò. La maglietta bianca di Shannon era (triste sorte degli indumenti chiari) praticamente trasparente e del tutto incollata al suo corpo. -Andrea, ti prego. Muovi il culo e vieni qui.-
Quando smise di lanciare preghiere silenziose all'amica, i due avevano finito di parlare ed Antoine si allontanò con disinvoltura.
“Possibile che ogni volta che ci vediamo ripartiamo da capo?” chiese Shannon.
“Cosa?”
“Fai sempre così. Prima mi prendi in giro, e poi ti sciogli. Non sei normale, Nimhea.”
“Mai detto di esserlo. Comunque credo che tu non sia la persona più adatta a giudicarmi.”
“In qualsiasi caso dovrei essere io quello che oppone resistenza. Sono io la star, qui. Sono io quello che deve stare attento.”
“Attento a cosa? Ti prego, mica ti sto seguendo o... adescando? È questo che intendi? Ma per favore.”
“Appunto. Mi spieghi come fai a capitarmi sempre addosso?”
“Addosso. Non esageriamo. Te l'ho detto: coincidenze.” sorrise convincente e si fece trasportare al bar, dove incontrarono entrambi i rispettivi amici, accompagnatori e abili disegnatori della loro vita.
“Andrea!” urlò Nim non appena la vide, quasi avesse paura che non la potesse sentire. Sorrise sollevata, quando la vide raggiungerli. Indossava nuovamente il suo vestito blu.
“Chi è?”
“La sua migliore amica.” rispose in un sussurro Shan all'amico.
“Sempre detto di amare l'Italia, io.” ridacchiò l'altro.
Nimhea fece finta di non sentire e scrollò leggermente le spalle, trascinata da Shannon lontana dai due.
-Andrea non guarderà mai uno come Antoine.- pensò con un sorriso, decidendo di lasciarla però lì, in balia di quell'uomo. Se la sarebbe cavata. E poi, poteva finalmente prendersi una piccola rivincita.
“Shannon, ti prego, la Redbull è una cosa imbarazzante.”
Lui rise, senza provare a ribattere. Gli occhi scuri divertiti cercarono qualcosa dove appoggiare la lattina. “È finita.” aggiunse poi.
“Mi sembrava strano che mi ascoltassi così.”
“Non pensavo questo fosse un posto adatto a te.” riprese a parlare lui, cambiando discorso.
“Infatti. Sono qui perché me l'ha chiesto Andrea. Anche se sono capace di divertirmi, sai? Comunque io ero sicura che fosse adattissimo a te, ed eccoti qui.”
L'uomo sorrise, fermandosi improvvisamente e bloccandola tra il suo corpo e la piscina, senza sfiorarla.
“Esci con me?” le chiese, con aria innocentemente felina.
L'acqua dietro alla schiena di Nimhea era limpida; la vasca ormai vuota. Tutti erano usciti per andare a ballare o prendere qualcosa da bere.
“Altrimenti?”
“Altrimenti sei pericolosamente vicina all'acqua e non vorrei che io, per sbaglio, potessi...”
Shannon non riuscì a finire quel discorso insensato, interrotto dal rumore del tuffo di Nimhea e dagli schizzi leggeri che gli bagnarono i piedi. Due secondi. Aveva distratto gli occhi da lei due secondi, ed ora era già lontana, in acqua, incurante degli sguardi fissi sulla sua schiena. Quando riemerse gli sorrise, dall'altro lato della vasca, e tornò alla sedia a sdraio abbandonata con i suoi vestiti, afferrando un asciugamano.
“Esci con me.” le disse lui, non appena la raggiunse.
Nimhea rise, forse cosciente di stare solo aumentando la determinazione dell'uomo. “Suona tanto come un'affermazione.”
“Lo è.”
“Quando?” chiese.
Alla fine era contenta di quella domanda. Innegabilmente e per qualche strano motivo, non poteva che volerlo vedere ancora. Distolse lo sguardo da lui, per evitare che si accorgesse di quel suo pensiero e passò velocemente un dito sulle labbra, poi si sistemò il costume con fare distratto, aspettando una risposta.
“Domani sera, dopo devo ripartire per il tour.”
“Non posso lasciare ancora Andrea.”
“Troviamo un compromesso.”
“Sarebbe?”
“Ti porto fuori dopo le nove di sera.” disse, come se fosse un piano programmato già da lungo tempo.“E ti riporto indietro a mezzanotte, come Cenerentola, va bene?” aggiunse, notando lo sguardo perplesso della ragazza.
“Non sei un po' grande per pensare alle fiabe? Oh, Cenerentola avrebbe fatto i salti mortali per stare col principe.”
“Tu no?”
Nim arcuò le labbra, in un ulteriore sorriso, attribuendo ancora una volta quella sua improvvisa felicità alla serata, al clima, al fatto che fosse lontana dal mondo e libera dai pensieri. Non a lui.
“Io non vivo in una fiaba. Ma domani vengo.”
“Passo a prenderti qui alle nove?”
“Va bene.”
“Vieni a ballare?”
“Non prenderti troppe libertà!” lo prese in giro, infilando velocemente i pantaloncini e la camicia, distogliendo lo sguardo dall'uomo davanti a lei. La metteva in imbarazzo, doversi vestire così di fronte a lui.
“Vengo. Non credere di aver vinto qualcosa, eh?”
“Non crederò niente, promesso.”
La sua maglietta era ormai asciutta, così come gli scuri pantaloni che indossava. Nim non riuscì nemmeno ad accorgersi immediatamente del contatto con lui, quando si ritrovarono vicini, schiacciati dalla folla.
-È una pazzia. Pazzia, pazzia, pazzia. Però sorride. Ed è assolutamente incapace di ballare.-
Si lasciò trasportare ancora un po' dalla musica, sapendo di essere l'unica, tra i due, con una base seria di danza. Lei stava ballando. Lui... lui si muoveva in qualche modo. Facendola ridere.
“Andrea!” esclamò, ricordandosi solo in quell'istante dell'amica lasciata da qualche parte, in compagnia di chissà chi. L'aveva incrociata diverse volte, nel giro della serata, ma quella aveva sempre trovato un modo per lasciarla sola con il batterista. Credeva molto più di lei, in quell'improbabile uscita. Uscita. Loro erano vicini. E le piaceva. Un crampo alla bocca dello stomaco, forse un po' troppo vicino al cuore, la prese all'improvviso, lasciandola alla sprovvista ad un millimetro da una strana paura. Doveva andarsene, immediatamente. E non tanto per Andrea. Doveva scappare, ancora.
“Eh?”
“Andrea, la devo ritrovare!”
“Ti accompagno.” propose lui, svincolandosi dalla gente che lo circondava. Possibile che nessuno lo riconoscesse, lì?
“Non ce n'è bisogno, davvero. Faccio io. Ci vediamo domani.” rispose, salutandolo con rinnovata timidezza e sparendo alla sua vista, prima che potesse obbiettare.
Shannon uscì a sua volta dalla massa, provando a respirare. -Ci vediamo domani.-


“Ti saresti stancato di sorridere così ad una qualsiasi altra ragazza al mondo. E non l'hai ancora sfiorata. Non ti starai innamorando?”
Antoine aveva passato tutto il viaggio di ritorno a ricordare come avesse dimenticato facilmente il rifiuto di Andrea al suo invito a ballare, destando occhiate irriverenti di Shannon, e a insistere su quella sua convinzione.
“Io? E di chi? Di lei? L'ho vista tre volte. No. Mai. Mi conosci. No. Te l'ho detto, mi interessa. Tutto qui. È una ragazza strana.”
“Scommettiamo?”
“Andata.”
Niente amore, Shanimal. Solo compromessi. 

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Capitolo 12
*** Marte ***


Ed eccomi ancora una volta qui!
In questi giorni ho scritto un po', per cui cercherò di aggiornare al più presto possibile, ma direi di non parlarne troppo adesso.
Prima di lasciarvi alla lettura, però, vorrei solamente avvisarvi che questo capitolo (o meglio, una parte) è stato assolutamente la prima cosa che ho scritto di questa storia. Forse non sarà difficile capire a quale mi riferisco, facendo leva anche sul titolo della  Fan Fiction.
Vorrei dirvi anche, poi davvero vi lascio andare, che probabilmente vi sto affidando una parte enorme di me, perché, volente o nolente (e molto nolente in questo caso, ve lo assicuro), alla fine assomiglio maledettamente a Nimhea e qui, oh, qui c'è tanto.
Ma non vi disturbo oltre,
buona lettura a tutti,
un bacio!
(Se vi va di lasciare una recensione, sono solo contenta.)




Capitolo 12
Marte


 

Giorno 5
Ciao diario! Sono già due giorni che non scriviamo niente, ma recuperiamo ora, aggiornandoti immediatamente su tutto.
In questi giorni (ripetizione), la nostra carissima Nimhea ha incontrato Shannon che, grande scoperta, si è scoperto (appunto, viva le ripetizioni! No, in realtà è una figura etimologica.) vivere proprio qui, a Los Angeles. I due, dopo essersi scontrati (sì, credo sia la parola giusta) l'altro ieri mattina, sono rimasti fuori tutto il pomeriggio e (cosa ancora più wow) si sono ritrovati ieri sera alla festa organizzata in piscina proprio qui, al nostro albergo. Non che avessimo (avessero) organizzato qualcosa per incontrarsi, anzi: è capitato casualmente per l'ennesima volta.
Bene, diario, non può essere destino, dato che Nimhea si rifiuta, ma, se posso esprimere la mia umilissima opinione (e posso farlo, visto che la mia migliore amica è in bagno, pronta ad uscire di nuovo con... indovina con chi?), quei due condividono una destinazione, se proprio non vogliamo parlare di destino.
Per quanto riguarda me, ieri sera, dopo il tristissimo tentativo di abbordaggio di Antoine che è simpatico e tutto quello che vuoi, ma... proprio no! Beh, ecco, dopo questo tentativo mi sono divertita ad osservare come se la cavavano quei due per un po', prima di dedicarmi ad altro. C'è tanta gente carina, qui a Los Angeles! Carina in tutti i sensi, ecco. Ho evitato di allontanarmi troppo da Nim, visto che era l'unica in grado di salvarmi (e in modo da tenermi pronta a salvarla), che è venuta di corsa a recuperarmi, passata mezzanotte. Peccato, perché tale Robert era decisamente un bel ragazzo. Alloggia nel nostro stesso albergo, magari capita di rivederlo per caso.
Oggi, nonostante fossimo stanche per la serata, abbiamo camminato a lungo, scoprendo nuove zone di questa città che, rimanendo sempre un ammasso di grattacieli, si dimostra veramente accattivante.
Sono le otto e un quarto, e abbiamo già cenato velocemente. A dir la verità, senza nemmeno troppa fame.
Ma divertiamoci un po' (si fa per dire):
Nuova playlist di Nimhea sotto la doccia.
Al quarto posto troviamo 'Feeling good' cantata da Michael Bublè, ma veniamo rapidamente al podio: al terzo posto possiamo sentire 'Don't stop me now' dei Queen (che, non dovrei dirlo, ritroveremo più avanti). Occupano invece il secondo gradino del podio i Muse, con 'Time is running out'. E infine (esigo un rullo di tamburi), al primo posto troviamo ancora una volta i Queen con 'Bohemian Rhapsody'.
Vi prego, toglietele la docking station.
O forse no. In fondo si diverte così tanto: sembra una bambina. Bambina che adesso arriverà e spero non cancellerà nulla di quello che ho scritto qui, dopo tanta fatica e tanto impegno.

Nimhea uscì in quell'istante dal bagno, smanettando con l'Iphone.
“Mi ha detto di portare una felpa.” annunciò con tono confuso.
“Un attimo: da quando vi mandate messaggi?”
Andrea lasciò il diario e si avvicinò all'amica avvolta nell'asciugamano. Si sedettero su uno dei due letti.
“Da adesso. È il primo.” rispose “E mi dice di portare una felpa.”
“Le felpe esistono, Nim.”
Nimhea strabuzzò gli occhi, con fare incredulo, e la prese in giro: “Oddio, davvero? Non l'avrei mai detto! E da quando?”
Nare, dopo averle lanciato un'occhiataccia per quel suo tentativo di ironia, riprese come se niente fosse: “Magari vuole tenerti fuori tutta la notte.”
“No, mi farei portare indietro immediatamente.” rise, pensando all'idea dell'amica. Possibile che non si capisse? Solo amici. Anzi, amici era un parolone in confronto al loro essersi visti e parlati qualche volta.
“Più che altro non avrebbe senso dire di vestirti di più.” continuò il ragionamento Andrea, che sembrava divertirsi. “Magari è anche meteorologo e non lo sai.”
“Sì, e anche scrittore, cuoco, astronauta e tutto!”
“Boh Nim, non so. Vedrai! Anzi, non vedrai, se non ti muovi. Hai mezz'ora.”
“Giusto, scappo!” rispose raccogliendo i vestiti ed entrando nuovamente nel grande e moderno bagno della stanza.
Si asciugò i capelli, infilò velocemente un paio di jeans ed una maglietta bianca a maniche corte, passò un velo di trucco sulle guance e sugli occhi ed uscì. Passò davanti all'amica con fare assorto ed estrasse dalla valigia la sua adorata felpa bordeaux. Infilò le All Star, dopo di che controllò di aver preso tutto ciò che le serviva, lanciò uno sguardo all'orologio e si convinse a scendere, un po' titubante.
“C'è brutta gente in giro. Tra scale, ascensori, corridoi e hall... vengo anche io con te.” annunciò con un sorriso sornione l'amica.
“Non dovresti poi tornare su da sola e rischiare la vita tra scale, ascensori, corridoi ed altre creature selvagge?”
“Sì, ma...” sul viso di Andrea si dipinse un'aria di cauto ragionamento “Ma saperti al sicuro mi darà la forza per rischiare la vita.”
“Quanto sei scema. Prendi le chiavi, ché altrimenti rimani chiusa fuori.”
Nim scrollò leggermente le spalle, prese la borsa ed uscì dalla stanza 69, seguita dall'amica.
“Tu sei agitata!”
“No Nare. Io semplicemente vorrei sapere dove sto per andare.” ribatté entrando in ascensore ed immergendosi nel silenzio.
Non era consigliabile controbattere, quando usava quel tono secco e tagliente; non era consigliabile anche solo per il semplice fatto che, se proprio non avesse risposto in modo aggressivo, si sarebbe concessa un semplice 'lascia stare': tanto breve quanto inutile.
In poco tempo raggiunsero l'ingresso e si ritrovarono all'esterno, sulla strada. L'impatto con il riflesso dei grattacieli, il cielo chiaro e senza sole come quello della sera prima, le lasciò spaesate ancora una volta.
Shannon che era poco distante da lì, le raggiunse velocemente e le salutò, guardando con curiosità Andrea. Cercò risposte nello sguardo di Nimhea e sorrise, nel leggervi una sorta di scusa.
“Piccolissimo dettaglio. Perché hai in mano due caschi?” Nim fu la prima a rompere veramente il silenzio.
“Perché ti devo portare in un posto. Hai paura?” perché aveva una voce così terribilmente assuefante?
“No, io...”
“Io credo di sì.” riprese, gettandole un'occhiata sinuosa e profonda.
“Io credo di no.” s'intromise Nare.
“Io, invece, non credo proprio niente, guardate un po'.” sbottò Nim, pentendosi di aver fatto scendere anche l'amica e di aver accettato l'invito.
“Certo, non ce la faresti.”
“Ma se è solo una stupida moto!”
“Non è stupida.” rispose Shannon, punto sul vivo da quello scambio velocissimo di battute.
Nimhea si gettò nei suoi occhi, poi passò a quelli dell'amica e, con tono arrendevole chiese: “Cosa devo fare?”
Sul viso dell'uomo si dipinse un sorriso vittorioso.“Niente. Faccio tutto io.”
“Perché dovrei farlo?” domandò ancora, poco convinta.
“Ti porto nel posto più bello di Los Angeles e avrai le foto migliori di tutta l'esposizione.”
Aveva assolutamente capito da che verso prenderla: competitività e voglia di fare sempre di meglio.
Inutile dire, inoltre, che la macchina fotografica era già pronta nella sua borsa.
“Ci sto.”
“Ecco, io vi lascio.”
“Ciao, attenta ai corridoi.” la prese in giro Nimhea.
L'uomo non capì troppo il rapido dialogo in italiano che seguì, ma si rassegnò ad aspettare per qualche secondo, fino a che Andrea non voltò loro le spalle e sparì dentro la hall.
Per poco tempo si fermarono in silenzio, studiandosi a vicenda e lasciando ai rumori del traffico per strada la libertà di sovrastarli. Sembrava iniziassero a guardarsi davvero, come alla ricerca forsennata di dettagli mai visti.
Nim sorrise imbarazzata. Continuava a distogliere lo sguardo, lanciandolo ai grattacieli intorno. Eppure continuava a ricadere su di lui.
“Imbarazzata?”
“Sarebbe giusto, se non lo fossi?” ribatté, scattando immediatamente sull'attenti.
“Vieni.” le disse, iniziando ad incamminarsi verso una moto parcheggiata poco più in là, all'angolo della strada. Le porse il casco e infilò il suo velocemente, osservando la ragazza che faceva scorrere l'oggetto tra le mani nel tipico tentennamento di chi sa bene cosa deve fare, ma non sa come farlo.
“Davvero è la prima volta che sali su una moto?”
“Io non l'ho detto! Comunque sì.”
“Ci sono tantissime cose che non dici e si vedono!” rispose lui ridendo.
Nimhea si infilò definitivamente felpa e casco, cercando di nascondere il rossore alle guance in quel suo sistemare i capelli per non distruggerli.
“Come... Come mi devo tenere?”
“Come hai sempre visto fare nei film.”
“Questo non è un film!”
“Non vuoi abbracciarmi?”
“Vuoi che ti abbracci?”
Shannon rise, ormai convinto di una cosa: non gliel'avrebbe mai data vinta.
“Andiamo, migliaia di ragazze al mondo sognano questo momento, sai? Potersi stringere a me, poter scappare con me...”
-La cosa più preoccupante è che non si capisce se sia serio o meno.- pensò lei.
“Migliaia?” lo prese in giro poi, cercando di non far notare l'evidente imbarazzo.
“Sì. Magari lo sognano anche sul serio.”
“Ovvio, e tu mi staresti facendo un favore?” domandò scettica.
“Ci si può tenere anche così. Sarebbe tecnicamente il modo più corretto.” si arrese, mostrandole come fare.
Salì sulla moto, seguito da Nimhea, rassicurata da uno dei pochi effettivi vantaggi di quella situazione: non avrebbe potuto leggerle gli occhi per un po'.
Al primo semaforo incrociato, però, quando entrambi dovettero posare i piedi per mantenersi in equilibrio, scivolò verso di lui e passò le braccia intorno al suo torace, attenta a non avvinghiarsi troppo. Shannon sorrise, sollevando piano i gomiti per permetterle di tenersi meglio.
“Non farti strane idee.” gli disse, alzando un po' la voce in modo da farsi sentire. “È solo che fa freddo, e così è decisamente più comodo.”
“Come vuoi.” ridacchiò.
Dopo una ventina di minuti, stavano correndo per le strade semi deserte di un parco e, una volta arrivati a destinazione, Nim, a cui sembrava di aver trattenuto il fiato per tutto quel tempo, si sfilò il casco in un sospiro, ravvivandosi i capelli e stringendosi un po' nella felpa.
“Dove siamo?”
“Griffith. Non so se ci sei già stata. È un parco enorme. C'è un osservatorio astronomico, che ormai sarà chiuso. Credo sia bellissimo. Vedere Los Angeles da qui è davvero meraviglioso, vieni!”
Camminarono un po' riacquistando il calore di un qualsiasi corpo perso nell'aria notturna di luglio, ed arrivarono davanti ad un vasto edificio. Le enormi mura bianche erano illuminate da alcuni fari, posti lungo tutta la superficie, e dal cielo non ancora totalmente nero. Tre cupole scure, a destra, al centro e a sinistra, si stagliavano davanti ai grattacieli del centro. Di fronte al tutto, un obelisco chiaro e dei giardini bene inquadrati davano un'idea ordinata all'intero luogo.
Nimhea si guardò intorno, le iridi chiare esplodevano di luminosità ad ogni particolare che man mano entrava nel suo campo visivo.
Non si era nemmeno resa conto di trovarsi su di un promontorio. Era sola, sola davanti al mondo. Eppure non si sentiva schiacciata da quella sua misera inferiorità.
“Ti piace?”
Non era sola, a dire la verità. Shannon si era avvicinato, o probabilmente si era sempre trovato lì, a guardare il paesaggio riflesso negli occhi della ragazza, che ora annuiva.
“Guarda, quella è Hollywood, lì ci sono i grattacieli di Downtown, dove c'è il tuo albergo. E lì” disse, lasciando scivolare un braccio intorno alla vita della ragazza e spostandosi verso destra “lì c'è l'oceano.”
“Come guida turistica non sei male, devo riconoscertelo.” rispose Nim dopo qualche secondo di silenzio assorto, svincolandosi dalla presa. “Foto?” sorrise, mentre estraeva dalla borsa l'amata macchina fotografica.
“Foto.”
Aveva portato solo un obiettivo quella sera, per fare in modo di non portarsi una valigia, più che una borsa. Fortunatamente aveva trovato quello giusto.
Shannon la seguiva, ascoltandola chiacchierare tranquillamente nascosta dietro all'oggetto. Stava calmo e aspettava, quando la vedeva concentrata, o ridendo si buttava nel bel mezzo dello scatto.
“Vuoi un servizio fotografico?” azzardò.
“Magari ci penso. Credo dipenda dalla fotografa...”
“Oh, Shan, finiscila!”
Scoppiarono a ridere entrambi, non tanto per ridicolizzare l'affermazione uscita dalla bocca dell'uomo, ma per fingersi inconsapevoli di qualsiasi forza fosse nascosta in essa. Il cielo ormai nero lasciava capire che il tempo fosse passato anche lì, nonostante fossero nascosti dal resto del mondo.
“Come mi hai chiamato?”
“Con il tuo nome.”
“Già. Con il mio nome, Nim.” disse sottolineando il diminutivo. “Che poi... perché non Mea?”
“Che domande sono? Non lo so. Forse perché in italiano assomiglia a 'mia', cioè, ad essere precisi è 'mia' in latino. E non credo lascerò mai qualcuno chiamarmi 'mia'.”
Shannon sorrise, sedendosi. Anche la ragazza si accomodò sull'erba accanto a lui.
“Potrebbe esserci Marte, da qualche parte.”
Non era un'associazione scontata con il nome del suo gruppo, avrebbe davvero voluto poter vedere il grande pianeta rosso.
“Sorge alle dieci di sera, quindi c'è già da un po', però si vede bene verso le quattro del mattino, mi sembra.”
“Come lo sai?”
“Mi ha sempre affascinata. Lui e Phobos e Deimos, i suoi due satelliti.” rispose con sincerità Nimhea. Non sapeva molto altro, di astronomia. Solo il triste, incerto ed inevitabile destino di quei due satelliti disperati. Paura e terrore. Distrutti.
Shan cercò di distrarla. “C'è la Luna piena.”
“Già.”
“L'hanno sempre amata, in tutti i secoli.”
“Io no. È sola.”
“Ha le stelle.” rispose lui voltandosi, mentre gli occhi chiari della ragazza non mostravano avere nessuna intenzione di separarsi dalla Luna che si rifletteva in essi. Le iridi sembravano liquide, come il mare. Profonde e capienti, accoglievano quella sfera biancastra che trascinava con sé il suo mondo lontano e sconosciuto.
“Anche io ho il resto del mondo. Te lo assicuro, le persone non servono a niente.”
“Perché hai così poca fiducia in noi?”
Nimhea si girò, guardandolo con tenerezza. Il suo tono di voce sembrava un triste nascondiglio di insicurezze e inadeguatezza. Per la prima volta lo vide piccolo, davanti a lei.
“Oh, io... non intendevo questo. Ho molta fiducia anche in te, per quanto possa sembrare strano e sarò sempre troppo orgogliosa per provare a dirlo un'altra volta. Ho fiducia anche nel mondo. È solo che...” si interruppe per qualche secondo, cercando le parole giuste per spiegare qualcosa di cui in realtà non sapeva assolutamente niente. Si arrampicava spesso sulle parole, ancora prima di capire veramente cosa dovesse dire. “Non lo so.” aggiunse dopo poco.
“Ti senti spesso sola?”
Lo guardò negli occhi, specchiandosi in quel colore indefinito che le ricordava tanto il suo. Erano solo più scuri, foreste fitte: sottobosco, foglie, terra, alberi, luce, cielo. Provò un senso di pace, immaginandoli insieme ai suoi. Un po' come la sicurezza spaventata che provava nel guardare un'immagine della Terra immersa nell'Universo. I mari si univano alle terre emerse, i grigi e gli azzurri giocavano con marroni e verdi. La vita si eclissava, eppure l'immagine che ne usciva era del tutto vitale e faceva impallidire la morte. Sorrise: insieme avevano tutto.
Si rigettò nella Luna, imbarazzata. Era tutto così improbabile, tutto così difficile.
“Non ne ho mai parlato con nessuno, tranne che con Andrea. Lei sa tutto di me.”
“Già.”
“Non è facile parlarne, tutto qui. Io poi piango sempre come un'idiota, quindi eviterei di...” si girò con gli occhi già troppo lucidi e il cervello che prendeva in giro il suo stupido e infantile comportamento.
“Non adesso!” la rimproverò ridendo lui, mentre velocemente si inseriva tra lei e l'astro notturno, impedendole di guardare qualsiasi cosa non fossero i suoi occhi.
“Scusami.” replicò, nascondendo un tacito ringraziamento a quella protezione datale con tanta prontezza e finta indifferenza.
Shannon la osservò ridere, con gli occhi d'acqua che ancora avevano voglia di liberarsi. Nimhea era sempre stata così: rideva e piangeva allo stesso tempo, lasciando che le lacrime salate solcassero il viso e si scontrassero contro la forza delle labbra arcuate e dei denti bianchi.
Nimhea era sempre stata così: un contrasto al limite della comprensibilità.
Forse perché è un disastro essere forti e dolci allo stesso momento. Cuore e cervello sono costantemente in lotta, pronti a criticare i comportamenti dell'altro e a distruggerti. 

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Capitolo 13
*** Equilibrio ***


Oddio, sono davvero imperdonabile!
Per questo capitolo vi ho fatto aspettare una vita, soprattutto dopo avervi detto che avrei aggiornato presto! (Che i miei 'presto' abbiano lo stesso effetto dei 'soon' di un tale di nostra conoscenza?!)
Vorrei solo dirvi che ultimamente in pochissimi hanno letto la storia e mi dispiace un po' siano calate così tanto le visite (e le recensioni), ma, soprattutto, io ho perso l'ispirazione per andare avanti. E anziché scrivere sotto forzatura, ho preferito prendermi una pausa per un attimo. In qualsiasi caso non posso lasciare mica tutto in sospeso! Nimhea ha bisogno di avere un futuro v.v
Buona lettura a tutti,
Nora





Capitolo 13
Equilibrio



“Comunque non sei un'idiota, quando piangi.”
Hai capito diario? Mi ha detto così.
No, non mi interessa.
Cosa?!
E vorrà anche solo portarmi a letto, però è stato dolce (sì, continua ad essere insopportabile, però non del tutto, ecco). E boh. E basta, vado a letto, che è meglio.
La notte porta consiglio, non è forse così? Tanto, tantissimo consiglio. Consigli su consigli su consigli. Che poi, ora che torna dal tour, io faccio in tempo ad essere tornata a Milano. E... e no, niente, questo discorso non regge nemmeno. Nessun 'partire', 'Milano', 'lontana' e blabla. Non c'è niente, ergo, non ci sarà niente, né tanto meno ci deve essere. Quindi ciao diario, anche se ho le idee più confuse di prima.
Perché sono così complicata?!
E sono stanca, persino per leggere quello che stava scrivendo Andrea poco sopra. Per cui ti lascio così, a domani.

“Tu che sei lì a scrivere, sai vero che voglio sapere tutto?”
Andrea si buttò sul letto, splendente persino in quella sua maglietta lunghissima che usava a mo' di pigiama.
Nimhea posò la penna con apparente tranquillità, voltandosi verso di lei. Prese un respiro profondo, sperando che l'ossigeno riuscisse a riportare calma anche nei suoi pensieri.
“Nare! Oh, da quanto tempo non ci si sente. Cosa ti devo dire?”
“Non fare la scema e parla.”
“Lasciami dieci minuti. Mi strucco, lavo i denti, infilo il pigiama e arrivo.” mentre parlava si era alzata, andandosi ad appoggiare alla parete chiara alle sue spalle, già pronta per entrare in bagno.
“Posso dirti di no?”
“No.” sorrise l'amica, chiudendo velocemente la porta alle sue spalle e scappando ancora per qualche minuto dal racconto. Non sarebbe stata una semplice fiaba della buonanotte, quella. Non sarebbe bastato cercare senza risultati un principe e una principessa troppo finti per il mondo. Non c'erano un buono scrittore, un narratore adatto. Non c'era nemmeno qualcuno pronto ad ascoltare nella stessa disposizione d'un bambino.
“Intanto, se vuoi, puoi prendere la macchina fotografica e guardare le foto che ho fatto, mentre aspetti.” le gridò.
Quando uscì, si buttò addosso i pantaloncini e la canottiera che usava per dormire e si sedette sul letto di fronte all'amica, incrociando le gambe.
“Allora siete andati in moto?”
Nimhea rise: “Sì, siamo andati in moto. E non è così male, credevo facesse più paura, non so perché. Non sento l'equilibrio.”
“Non vada fuori tema, signorina. Senza contare il fatto poi che vai sempre in giro in bicicletta.”
“Giusto. Non lo so. È diverso. Comunque siamo arrivati in un parco e...”
“Un parco?” chiese Andrea con fare malizioso, lasciandosi sfuggire un sospiro prolungato.
“Non è successo niente, ok? Direi che come premessa può benissimo funzionare, così eviti di interrompermi in continuazione.”
“Uff, niente di niente?” sbuffò Nare.
“No. Dai, ti prego, non è una persona adatta a me!”
“Ovvio, decidi sempre tutto tu. Esistono anche gli imprevisti, Nimhea. Esistono le cose inaspettate, quelle su cui tu non hai controllo. Per cui, o trovi una motivazione sensata e reale, oppure evita di dirmi cose del genere.”
“Non è adatto a me, semplicemente. Siamo troppo diversi. Abita dalla parte opposta del mondo. È troppo grande. Ha abitudini troppo diverse. E, cosa più importante, non ho bisogno di stare con lui.”
“Va bene, va bene, scusa. Vai avanti: voglio sapere com'è andata.”
Nim scosse piano le spalle, contrariata, poi riprese a parlare e a descrivere la serata appena conclusa. No, non era malinconia quella vena sottile nella sua voce che lasciava alcune parole in sospeso. Era solo stanchezza.


“Scrivigli!”
Il sole estivo aveva già trascinato la sera precedente nel passato, lasciando a Nimhea il ricordo lievemente amaro di quel suo stupido essersi fatta vedere così debole. Passò davanti all'ampia finestra della camera, preparando la borsa per uscire e cercando di non dare ascolto all'amica.
“Perché?” domandò.
“Dovresti. Male non fa.”
“Ma cosa gli scrivo?”
“Già mi manchi da morire, ti aspetto.” rispose ridendo Andrea, mentre l'amica continuava a concentrarsi sulla borsa, trattenendo una risata.
-Macchina fotografica, portafoglio, cellulare... cellulare!- Andò a recuperare il telefono dal comodino, fermandosi per un istante. Troppo.
“Su, scrivigli!”
“Cosa dovrei dirgli, Nare?”
Andrea la guardò, senza aprire bocca, sistemandosi i ricci. Non poteva risponderle, non questa volta.
“Va bene, ho capito. Devo mandargli qualcosa perché mi obblighi a farlo, ma devo decidere io cosa scrivere. Favoloso.”
“Esatto, vedi che quando vuoi sei intelligente?”
Nimhea non diede troppa importanza alla presa in giro e si fermò sorridendo a pensare cosa potesse scrivere e mandare all'uomo. Rimase a lungo ad osservare lo schermo vuoto dell'Iphone, pronto ad accogliere il tocco leggero delle sue dita.
Trovare qualcosa di semplice, sincero e azzerare le aspettative di una qualsiasi possibile risposta: ecco cos'avrebbe dovuto fare, trascurando il piccolissimo dettaglio che non fosse veramente capace di limitarsi a fare qualcosa senza avere nulla indietro.
-È solo un messaggio.- si disse, iniziando a scrivere velocemente quelle poche parole balzate alla mente, prima di rileggerle quanto bastasse per conoscerne il contenuto, la disposizione dei caratteri, la quantità di spazio vuoto tra le righe.
“Su, è così difficile? Allora ci tieni!” gridò trionfante Nare.
“No, eviterei di dire qualcosa che possa proprio far pensare questo.”
Poi si decise ed inviò il messaggio.


“Alla buonora.” Jared aveva sul viso un'espressione scocciata e allo stesso tempo divertita. Gli occhi di ghiaccio avevano aspettato così tanto tempo quell'apparizione, che ora la vista del fratello che li raggiungeva sembrava quasi un miraggio. “Possibile che tu sia sempre in ritardo?”
“Scusatemi, ieri sera ero con... con una ragazza e stanotte ho dormito poco.”
“Non sai nemmeno come si chiama e ci sei finito a letto? Wow, complimenti.” disse Emma, vinta da un po' di sano femminismo. Non le dava fastidio il fatto che quell'uomo fosse così, ormai ci si era abituata. Era l'idea di quelle ragazze che si accontentavano banalmente del sesso che la faceva dannare. Ma non era suo compito preoccuparsene, purtroppo.
“Non ho detto questo.” sibilò Shannon.
Il fratello emise un grido cupo di sbeffeggiamento. “Qualcuna non vuole più il fratellone?”
“Finiscila.”
“Non vorrei disturbarvi,” s'inserì nella conversazione Tomo, dopo aver riso a lungo insieme al cantante. “ma abbiamo un aereo da prendere. Ne parliamo lì, eh?”
Il gruppo si mosse velocemente, scivolando tra la folla all'ingresso. Dopo essere stati fermati da qualche Echelon, contenti di aver fatto brillare gli occhi di quella loro famiglia, raggiunsero l'aereo e s'imbarcarono. Nei minuti che passarono non accennarono più a niente che avesse a che fare con la dichiarazione di Shannon.
“Comunque l'ho semplicemente riaccompagnata in albergo un po' dopo mezzanotte. Non c'entra volersi o meno.” puntualizzò lui, diretto al fratello, dopo quasi un'ora dal decollo.
“Anche se tu...”
“Ma la smettete? Posso anche uscire normalmente con una ragazza.”
Capì di credere poco in quella sua stessa affermazione nel momento in cui il sedile parve diventare improvvisamente scomodo.
“E hai dormito poco perché...?” chiese il chitarrista ancora confuso, senza badare troppo all'amico che continuava a spostare nervosamente il braccio sul tessuto liscio del bracciolo.
“Perché ho pensato.” ammise lui.
Jared e Tomo si bloccarono, staccandosi dal comodo schienale e fissandolo con le loro grandi iridi così contrastanti tra loro.
“Cosa c'è?” domandò Shan.
“Chi è lei?”
“Perché vuoi saperlo, Jay?”
“Su, Shan, è un nome!” intervenne Tomo, lasciando al cantante il tempo necessario per mettere insieme una buona risposta.
“Perché sì. Perché vogliamo scoprire chi è la santa donna che è riuscita a trattenerti così e a farti pensare tutta la notte.” poi, con un sospiro, scandì piano le due sillabe: “Chi è?”
“Nimhea.”
“Perché ho già sentito questo nome?” sussurrò a Tomo con aria pensosa.
“Era... era al concerto a Milano. Era...”
“La giornalista?!” esclamarono entrambi.
“Sì.”
Shannon era calmo e sorrideva. Ricordava bene le parole che suo fratello aveva usato qualche giorno prima: -Preparati, allora, perché il tuo amore, se potesse, ti avrebbe già lanciato addosso una scarica di fulmini.-
Di fulmini ne aveva visti ben pochi. Magari qualcuno, leggero, in lontananza. Uno di quelli che preannunciano un temporale o che si fanno ambasciatori di scrosci d'acqua lontani. Non che gli dispiacesse poi così tanto farsi travolgere, nell'eventualità.
“Cosa ci fa qui a Los Angeles? Come l'hai vista? Ed è uscita con te? Lei?!”
Il fratello maggiore lo guardò in cagnesco, prima di aprire bocca. “Sì, con me. Io l'avevo sempre detto.”
“E ha attraversato mezzo mondo per seguirti, uomo desiderato?”
“Ha vinto un concorso di fotografia.” rispose seccamente lui, reprimendo a stento un conciso e forse più incisivo 'Vaffanculo'.
“È troppo intelligente per te.”
Tomo tirò una gomitata all'amico, lasciandosi fuggire uno sguardo divertito.“Quanti anni ha?” domandò, tentando di portare la conversazione ad un piano normale.
“Ha...”
Dai suoi occhi riusciva a vedersi il caos regnante nella sua mente durante quei secondi. Non è poi così distante dalla realtà, la metafora dei cassetti. Sembrava infatti ne stesse aprendo in fretta e furia migliaia e migliaia, rovistando tra il loro contenuto e gettando cianfrusaglie tutto intorno, senza arrivare ad alcuna soluzione.
No, non sapeva quanti anni avesse. Veramente non sapeva assolutamente niente, se non quello che era sempre parso bastargli in quei giorni e che adesso iniziava a stargli stretto. Forse per la prima volta, sentì il cervello vibrare forti colpi che risuonavano come accuse di stupidità.
Si riscosse velocemente, appena in tempo per sentire l'amico.
“Fantastico! Il cognome non te lo chiedo nemmeno.”
“Comunque è più piccola. Dieci anni in meno di sicuro.”
In fondo non aveva bisogno di un'età precisa. Le sue idee bastavano. Avrebbe benissimo anche potuto non rivederla mai più e allora che problemi rappresentava quel suo non sapere così tanto?
“Non che ci voglia molto ad avere dieci anni in meno di voi, eh?” lo prese in giro Tomo, strappandolo ancora una volta ai suoi pensieri.
Shannon abbozzò un sorriso, Jared finse di prendersela e l'istigatore si lasciò scivolare di nuovo sullo schienale, permettendo così che la conversazione terminasse, sprofondando nel silenzio confuso dell'aereo, forse l'unico veramente in equilibrio in quel momento.
Quando scesero dall'aereo, si ritrovarono a camminare per l'aeroporto affollatissimo un po' indolenziti per il viaggio, ma subito destati da un altra parte della loro famiglia. Diverse persone, sparse per il mondo. Tanti fiori splendenti sbocciati su diversi rami: alcuni diversi, altri del tutto simili, ma tutti appartenenti e nutriti dallo stesso identico tronco.
Il batterista, una volta in taxi, si ricordò di accendere il telefono. Un nuovo messaggio.
Va bene, te lo concedo, ieri sera mi sono divertita.
Buon viaggio, batterista.

“Io cosa vi avevo detto?” domandò con un sorriso di sfida che forse, in un lievissimo tratto dell'increspatura del labbro, nascondeva un piacere diverso, quasi nuovo.
Grazie per la concessione.
Spero di (voglio) trovarti al mio ritorno.
Buona Los Angeles e buona calma in mia assenza, italiana.
 

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Capitolo 14
*** Tanto il tempo passa e passerà ***


Eccomi qui!
Sì, ho deciso di aggiornare un po' prima, non tanto perché abbia scritto chissà quanto, ma per provare a farmi un po' perdonare, ecco.
In questo capitolo di passaggio troverete tanto usato il 'diario', che devo dire mi diverte molto!
Ah, e quando si parla di musei ed esposizioni, sono tutte esposizioni che erano a Los Angeles esattamente in quei giorni! Se posso complicarmi la vita, me la complico, perché no.
Detto questo, vi lascio alla lettura!
Sono curiosa di sapere cosa pensate anche di questo capitolo, per cui, se vi va, una recensione è ben accetta!



Capitolo 14
Tanto il tempo passa e passerà



Giorno 6
Siamo qui da quasi una settimana, ormai. Sembra impossibile! (Soprattutto se consideriamo il fatto che il povero Shannon e i suoi colleghi sono ripartiti solo ieri.)
A proposito di ieri: non ho mai camminato così tanto. Chi l'avrebbe detto che Nim fosse capace di marciare a quel passo per una giornata intera (sostenendo che non lo stesse facendo per distrarsi, ma per trovare luoghi sconosciuti e particolari)!
Ormai ci siamo quasi completamente adattate a questa città. Conosciamo qualsiasi cosa circondi l'albergo, sappiamo quali sono gli orari migliori per prendere i mezzi, i luoghi giusti in cui potersi riposare, le vie più frequentate ad un certo punto della giornata, le strade più rumorose e quelle più silenziose... tutto il resto di Los Angeles non è ancora nelle nostre mani, ma abbiamo un alibi: insomma, è un po' grandina.
Ok, tutto ciò non ha senso, maaaa... non tutto deve avere un senso.

Nimhea, appollaiata dietro alle spalle dell'amica, scoppiò a ridere. “Sì, Nare, hai già la risposta pronta nel caso ti arrestino perché guidi in contromano!”
“Non sei simpatica, Nim.”
“No, infatti. Sono fottutamente geniale.”
“E non sei fine.” la prese in giro l'amica.
“Oh, questo è risaputo.”
Comunque diario, adesso dobbiamo andare, perdonaci. Questo è il nostro primo sabato qui e dobbiamo anche trovare qualcosa da fare stasera. Insomma, siamo a luglio, abbiamo il dovere di divertirci! Probabilmente andremo in spiaggia a ubriacarci e a darci alla pazza gioia. No, veramente andremo in spiaggia a vedere cosa combinare e a buttarci nella mischia: per il resto siamo due ragazze serie (forse).
Oh, ricorderei anche che una settimana fa eravamo al concerto (in questo momento paragonabile al Big Bang).
Ciaociao, adesso ti abbandoniamo!

“Sì, Nare, seratona al limite della trasgressione?!”
Andrea rise a lungo, raggiungendola all'uscita della stanza 69. Piaceva ad entrambe un sacco, come numero, quell'incredibile e costante ribaltamento di cifre. Indossava un abito chiaro, un altro, vittima di quella sua passione per i vestiti poco condivisa dall'amica, che invece li portava solo se costretta dalle circostanze, o da lei.
“Ti dispiace tornare a Venice beach?”
“E perché dovrebbe?”
“Non so, sei andata lì con un tale, ultimamente, e...”
“Ma ti prego! Non crederai quei due messaggi che mi ha mandato da non so quale parte del mondo siano bastati a farmi cambiare idea! Sai quello che penso. Non fa per me.”
“Ma Nim, tu...”
“No, Nare.” la interruppe immediatamente Nimhea con volto serio. “Non fa per me.” scandì lentamente, fissando l'amica.
“E va bene. Quando qualcuno farà per te, sappi che io sono pronta a fare da testimone alle nozze. E sappi anche che voglio essere chiamata zia dai tuoi figli.”
Andrea sembrava essersi dimenticata cosa l'avesse portata a quelle conclusioni e sui suoi occhi scuri scorrevano veloci le scene immaginate.
“Non ti sembra di correre un po' troppo?” sorrise Nim.
“No. E poi sai che ti ci vedo un sacco mamma.”
“Ho tempo, non ti preoccupare.” rispose ridendo e precipitandosi fuori dall'hotel. “Venice beach?” domandò, mentre tentava di fermare un taxi. Sul suo volto, il sorriso incoraggiante di chi sembra non provare né caldo né freddo per le sue stesse parole. Sui suoi occhi, il riflesso di una mente che cercava disperatamente di credere alle sue illusioni, con discreto successo.


Giorno 7
Sì, hai visto bene. 'Giorno 7'. UNA SETTIMANA.
Non è possibile!
Ormai siamo a metà (passata da un po') di questa nostra vacanza e boh.
Oddio.
Io sto morendo.
Non ce la posso fare.
Tra una settimana tornerà tutto alla normalità. Che tristezza.

Nare, che per una volta aveva lasciato la penna all'amica, si impossessò nuovamente del diario e riprese a scrivere, accovacciata sul letto: un groviglio di gambe, braccia e capelli dal quale spiccava nettamente la maglia di un azzurro intensissimo.
Su, non fare troppo caso alle sue preoccupazioni, è sempre stata così: pensa a quanto è passato e non a quanto manca. In qualsiasi caso, siamo a metà strada e abbiamo ancora una bellissima settimana da goderci, per cui non vedo dove siano tutti questi problemi.
Nimhea rise, e ritornò alla scrittura, inserendosi al posto dell'altra.
Informerei la mia gentile collega che 'i problemi' risiedono nel fatto che una settimana passa troppo velocemente per qualsiasi essere umano dotato di un minimo di senso pratico. Sette, sei, cinque,
“Quattro, tre, due, uno... buon anno!” gridò Andrea, lanciandole addosso un cuscino.
L'altra parò il colpo con un braccio e allungò una gamba verso di lei, dandole un colpo leggero ma fastidioso in tutta risposta.
“Ma ti leggi?” riprese Nare “Sembri un'ottantenne! Nim, goditi questa settimana e, detto sinceramente, vai a farti una meravigliosa flebo di gioia di vivere.”
L'amica la guardò sconvolta e divertita, con le dita serrate intorno alla penna.
“Sì, non che non esistano altri modi più... be', decisamente diversi, per essere euforici, diciamo.”
“Andrea, io non lo voglio sapere!” scattò Nim scoppiando a ridere.
“Io non ho detto niente.”
“Non fare gli occhi da cucciolo. Sai benissimo cos'hai detto. E non provare a far passare me per pervertita!”
“Oh, non ti farei mai passare per qualcosa che non sei.”
Nimhea lanciò un'occhiataccia all'amica e riprese a scrivere.
Bene, dato che il conto alla rovescia è stato così brutalmente sminuito, mi dispiace doverti abbandonare, ma devo vincere una guerra non ancora dichiarata contro Andrea.
“Carina e coccolosa, dimentichi?” domandò con voce morbida, abbandonando la penna e il quaderno per terra e voltandosi verso l'amica.
“E ingenua, casta e pura.”
“Esatto.” rise.
“Shannon, salvaci tu!”
La riccia aveva alzato gli occhi al cielo in un atteggiamento di preghiera solenne.
“Sei esattamente riuscita a centrare uno dei principali motivi per cui lui non è una persona adatta a me.”
“E cioè?”
“Quanta gente si sarà portato a letto, Nare? Quanta? Io... io voglio innamorarmi, adesso. Il tempo per i giochi è finito, per me. E quelli come lui non vanno bene per quelle come me.” concluse con un velo di amarezza che, per quanto fosse ben nascosta, non sfuggì all'amica.
Anche quella era amicizia: capirsi dalle sfumature, dai sussurri, da tutto quello che in fondo si vuole nascondere al resto del mondo, ma che siamo ben contenti di lasciare a chi vogliamo bene.
“E poi, direi di chiudere qui il discorso, per favore. Lui ha la sua vita, io la mia. Posso essere felice di essere uscita con lui, e non semplicemente perché è famoso, ma si ferma qui. Non ho nessun'intenzione di andare avanti. E anche se andassi avanti, ragionando per assurdo, cosa potrei fare? Siamo troppo diversi, troppo lontani. Non sarebbe fattibile, dai. Una cosa del genere non fa per lui. Né per me.”
Guardò Los Angeles fuori dalla finestra della stanza. I grattacieli intorno a loro riflettevano le luci della strada che sembravano sfidare la notte. Los Angeles era una città che non aveva paura del buio, pensò.
“Parli come se lo conoscessi del tutto.” sussurrò Andrea stendendosi e allungandosi verso di lei.
“Parlo come se mi conoscessi del tutto.” fece eco l'altra, spegnendo la luce e cadendo nell'ombra.


Giorno 9
Ed eccoci qui anche stasera!
Sì, ieri non siamo riuscite a scrivere niente, ma eravamo davvero troppo stanche e i giorni qui sembrano volare.
Va bene, forse sono tutte scuse. Non ti abbiamo scritto. Possiamo farci qualcosa, ormai? No, quindi tanto vale recuperare!
Oggi, abbiamo approfittato di una giornata particolarmente calda per rinchiuderci in un museo (siamo andate al LACMA -il nome completo è troppo lungo perché io lo scriva qui, ora-). Incredibile come sia capace di stancarti anche stare al chiuso e camminare così a lungo senza accorgertene!

“Nare, com'è che si chiamava la mostra? Quella 'worlds' qualcosa...” chiese Nim mordicchiando l'estremità della penna.
“Possible worlds?”
“Giusto!”
Tra tutte le esposizioni che potevamo vedere, due sono state quelle che ci hanno colpite di più:
(Questo fa molto tema di seconda elementare e noi siamo leggermente cresciute, direi. Ma che vuoi che sia? Siamo giovani inside.)
-Possible Worlds
-The Sound of One Hand
Direi che su internet trovi tutto anche tu (sì, perché tu sei un diario intelligente e con uno sviluppato senso tecnologico, quindi puoi pensare di andare su internet e, cosa ancora più importante, riuscire a farlo).
Adesso ti abbandono, Nare è in coma davanti alla televisione: direi che posso raggiungerla.
Ci sentiamo presto!



La mattina successiva, le ragazze ripresero il loro giro per Los Angeles.
Al decimo giorno, la memoria della macchina fotografica stava per esplodere, ma mancava ancora qualcosa che convincesse seriamente Nimhea.
Il sole non aveva mai cessato di splendere, cuocendo il cemento e riflettendosi nei grattacieli, pronto ad abbagliare quegli sventurati turisti che non avevano con sé qualcosa per proteggersi dalla sua furia luminosa.
Andrea si era riparata all'ombra e, seduta su una panchina, osservava l'amica incontentabile, benedicendo quel momento di pausa. Si legò i capelli ricci, liberando il collo liscio imperlato di sudore, e scrutò un attimo i passanti, per poi tornare con lo sguardo all'altra che, poco distante, continuava a scattare, alzarsi, spostarsi, fermarsi, trovare una posizione giusta, regolare l'obiettivo... All'improvviso, prima che riprendesse il suo nervoso e assiduo movimento, la vide fermarsi per un istante, come se finalmente fosse riuscita a trovare il dettaglio millesimale che l'avrebbe almeno fatta avvicinare alla sua idea.
Nimhea scattò un'ultima foto, poi lasciò scivolare al collo la macchina fotografica e strinse la coda alta, andando a raggiungere l'amica all'ombra.
“Finito?”
“Sì.” rispose con un sorriso, per poi sfilare di tasca il telefono che era appena squillato. Un suono breve, incisivo, forse noioso. Un nuovo messaggio.
Andrea accanto a lei aspettava in un silenzio implorante che l'amica leggesse e le riferisse il contenuto. O almeno provasse ad accennare ad una qualche reazione.
Buongiorno.
Già dimenticata di me?
Sono atterrato adesso a Los Angeles.
Pensi di poter uscire domani sera a cena? Uscita di gruppo.
Ovviamente è invitata anche Andrea.

“Tu hai sorriso. Chi è?” chiese Nare emozionata, dopo aver visto le labbra della ragazza arcuarsi involontariamente o, forse più semplicemente, guidate da un muscolo involontario.
“Shannon.”
“Cosa vuole?”
“Ti va di uscire a cena domani?” 

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Capitolo 15
*** Sposami! ***


Eccomi!!
Una settimana è passata dall'ultimo aggiornamento ed è quindi ora di annoiarvi con un altro capitolo.
Volevo lasciarvi una piccolissima anticipazione, ma... ma no, scoprirete tutto leggendo!
Be', allora buona lettura a tutti.
Un bacio,
Nora




Capitolo 15
Sposami!



-Come mi vesto?- si domandò Nimhea, sedendosi sul letto e guardando con disperazione la valigia aperta. -Come mi vesto, come mi vesto, come mi vesto?!- ripeté a tutta velocità.
“Sai anche tu qual è la soluzione: mettere un vestito.”
Nare si avvicinò all'amica e rimase in piedi a fissarla. Era già pronta: indossava una canottiera chiara ed una gonna a vita alta blu. I ricci perfetti erano già sistemati con cura, anche se alcune ciocche restavano indomabili e le davano un'aria sbarazzina.
“Hai capito bene.”
Sul suo viso si dipinse un'espressione compiaciuta: sapeva che questa volta la vittoria sarebbe stata sua.
“Ho un'idea geniale! Amami!” esclamò all'improvviso, raggiungendo con una corsa leggera la sua valigia.
“Prendi questo, provalo!”
Nim afferrò l'abito un tempo piegato e, senza preoccuparsi troppo, sfilò la canottiera e lo indossò, togliendo poi anche i pantaloncini. Si diresse verso il grande specchio sulla parete e si osservò.
Le piacevano le spalline larghe e la forma di quella scollatura forse un po' troppo profonda. Fece mezzo giro su se stessa: le piaceva anche come lo scollo posteriore scendeva fino a metà schiena. Nero. Un tubino nero. Un semplice ed elegante tubino nero. Esageratissimo per quella situazione.
“Nare, non è, ecco, un po' troppo serio?”
“Sì, toglilo. Era solo per farti passare il tempo, mentre cercavo questo.” rispose scoppiando a ridere Andrea, mentre si alzava e le porgeva un vestito.
“Sono un genio. Sono un genio.” annunciò seriosa, osservando l'amica indossare il secondo abito.
La scollatura era ancora pronunciata, ma sembrava giustificarsi di quell'azzardo con le leggere maniche a tre quarti. La stoffa morbida era color crema, tempestata di piccoli fiori rossi dai contorni non del tutto definiti, e superava la metà coscia.
“Però manca ancora qualcosa.”
Con aria pensosa, ma decisa, Nare si avvicinò alla valigia di Nimhea.
“Sapevo che l'avresti portata!” disse vittoriosa estraendo la cintura di cuoio chiaro intrecciata che l'amica portava praticamente ovunque.
Nimhea sorrise. Finalmente capiva dove voleva andare a parare: voleva farle indossare le scarpe appena comprate. Il giorno precedente, infatti, ne aveva comprato un nuovo paio esattamente di quel colore. Avevano un tacco forse un po' troppo alto, ma erano comode e meravigliose. Non sapeva quando le avrebbe mai potute mettere, ma era stato un acquisto impulsivo e, forse, provvidenziale. L'unico paio di scarpe col tacco che si era permessa di comprare lì: in valigia ci sarebbero poi dovute stare, in un modo o nell'altro.
L'amica le passò velocemente la cintura in vita e aspettò poi che l'altra infilasse le scarpe rimaste in una scatola dentro all'armadio.
Tornò a guardarsi allo specchio.
“Va bene, per questa volta direi che posso permettermi di metterlo.”
Finse di non sentire il disagio di indossare un vestito e trascurò la fitta d'ansia che le percosse lo stomaco.
Sorrise a Nare, la ringraziò e corse a darsi un'ultima sistemata: passò un velo di cipria sul viso e il mascara sulle lunghe ciglia, raccolse i capelli ed uscì.
Andrea la guardò, senza parlare e si avviò alla porta: erano in ritardo di soli cinque minuti, un evento storico!
“Ultima cosa:” disse quando ormai le porte dell'ascensore si stavano aprendo sulla hall semivuota. Le slegò i capelli con un gesto fulmineo e inaspettato, sistemandole le onde che creavano sulla schiena. “Slegati sono più sexy.” la prese in giro uscendo con ampie e sinuose falcate e attraversando la sala.
Nim rimase un attimo interdetta, poi la seguì, tentando di non concentrarsi troppo sul rumore dei tacchi e degli sguardi curiosi diretti ad entrambe.
Quando uscirono, l'aria della città le inghiottì, avvolgendone gambe e braccia. Nim osservò la punta delle scarpe che fendeva l'asfalto e sollevò lo sguardo, trovandosi di fronte Shannon che la osservava. Preferì non decifrarne lo sguardo, ma continuò a fissare quegli occhi, come se il tempo si fosse fermato. Giocò piano con una ciocca e la sistemò dietro l'orecchio sinistro, prima di aprire bocca.
“Buonasera!”
“'Sera.” rispose lui con un sorriso.
Credeva di averli dimenticati, i suoi sorrisi. Quando si voltò e si accorse dello sguardo loquace e incuriosito di Andrea accanto a lei non poté fare a meno che sussultare, imbarazzata, e arrossire.
“Ciao Andrea.” la salutò.
Nare ricambiò il saluto, con un sorriso divertito dallo strano suono che aveva quel nome uscito da labbra straniere.
“Pronte?” il suo tono sembrava tremendamente provocante. “Non spaventatevi se ci sarà... un po' di gente, ecco.”
Iniziò a camminare, seguito dalle due ragazze.
“Un po' di gente quanta?” chiese Nim, provando a deglutire l'agitazione e distendendo lo sguardo. No, non era calma per niente.
“Perché agitarsi tesoro? Ci sono io con te.”
“Tesoro?” domandò sarcastica, mentre sentiva il sangue schizzare alle guance: rabbia, non imbarazzo. “Figurati. Chi si agita con te?”
“Ma fa sempre così?”
Sul volto di Shannon, mentre si rivolgeva ad Andrea, si dipinse uno sguardo preoccupato, come di chi sta per scoprire della malattia terribile di un parente.
La ragazza annuì, soffocando una risata, e osservò i due accanto a lei.
-Come fa a non vedere niente, quella ragazza? Dovrei fermare i passanti e chieder loro se...-
“Eccoci.” disse l'uomo aprendo la portiera di un'auto scura.
Nim lo guardò titubante, quasi non si fidasse di lui, e osservò l'amica sparire alla sua vista, entrando nell'abitacolo.
Shannon scoppiò in una risata luminosa. “Su, cosa vuoi che ti succeda!”
“Ti difenderò da tutti.” aggiunse poi, prendendola in giro. Nonostante tutte le intenzioni, le sue parole non suonarono del tutto come una presa in giro.
“Mi difendo benissimo anche da sola, Leto. E soprattutto, mi difendo benissimo da te.”
“Come vuoi. Vedo che non sei cambiata per niente.”
“Ti sono mancata?”
L'uomo non rispose, ma rimase a scrutare i suoi occhi chiari. Un bagliore di adorabile strafottenza li percorreva, facendoli apparire ancora più grandi e fieri. Ancora più belli. Distolse lo sguardo per qualche secondo, incespicando tra i suoi pensieri. Non era quello il momento giusto per fermarsi a riflettere.
Nim ne approfittò e allungò un passo verso la vettura.
“E io ti sono mancato?” le sussurrò all'orecchio, riprendendo lucidità. Lei si voltò, riportando al cervello l'analisi immediata di tutto ciò che non andava.
-Primo: è troppo vicino. Secondo: si prende troppe libertà. Terzo: è troppo fastidioso.-
“Assolutamente no.” rispose con un sorriso. L'aria leggera mossa dalle sua labbra scalfì decisa il 'no' a pochi millimetri dalla guancia dell'uomo che scrollò le spalle e le lanciò uno sguardo divertito e sicuro di sé.
Si voltò e richiuse la portiera alle sue spalle, con un gesto deciso: l'aveva chiuso fuori dal suo mondo ancora per qualche secondo.
“Com'era? 'Non fa per me'.” le sussurrò l'amica, facendole il verso. Quando si voltarono, scoprirono di non essere sole e si guardarono intorno confuse.
“Nessun sequestro di persona, non vi preoccupate ragazze.” disse loro un'altra ragazza sui sedili posteriori. Il viso era incorniciato dalle due ciocche di capelli scuri che rimanevano libere dallo chignon alto sulla nuca, gli occhi sovrastati da una frangia. Indossava degli strettissimi pantaloni neri a vita alta da cui usciva una camicetta scura e leggera.
Alla guida dell'auto si trovava Tomo che si voltò e le salutò. In fondo era un gesto normale. In fondo si erano visti appena una settimana prima.
“Fatemi indovinare, lo so, lo so! Tu sei Nimhea!” esclamò ancora l'altra passeggera, dopo aver osservato Nim per qualche secondo. Doveva ammettere che, per quanto essere conosciuta da qualcuno di cui ignorava l'identità la infastidisse un po', un pensiero strisciante s'insinuò nella sua mente. Allora aveva parlato di lei! Allora.... allora niente. Dovevano uscire insieme, era ovvio che avesse informato i compagni di serata.
“Indovinato.” sorrise, mentre intravedeva Shan sedersi davanti e voltarsi a guardare la scena.
“Piacere, Vicki.” disse porgendole la mano e passando poi a Nare, dopo la stretta.
“Andrea.” si presentò.
“Fantastico, direi che non c'è stato bisogno di me.”
“Da quando Vicki ha bisogno di qualcuno per le presentazioni?!” esclamò Tomo azzittendo l'amico e ingranando la marcia.
Tutti sorrisero, lasciandosi poi sovrastare da un silenzio imbarazzato, ma inevitabile. Shannon fu il primo a cercare di spezzarlo. “Come potete notare, l'altro Leto ha lasciato a me il servizio taxi.”
“Sì, ed è proprio faticoso guidare, eh Shan?”
“Oh, ma oggi mi dovete prendere tutti per il culo?” sbottò l'uomo sollevando le braccia al cielo.
“Che linguaggio scurrile. Non si addice ad una persona fine come te, e ti ricordo che abbiamo ospiti, qui.”
“Diciamo che di ragazza particolarmente fine qui c'è anche Nimhea.” aggiunse Andrea ridendo.
Nim, che si stava perdendo ad osservare il tatuaggio sulla spalla sinistra dell'uomo, alzò lo sguardo di scatto e si ritrovò fissata da Shannon, che con un sorriso beffardo sembrava contento di averla sorpresa ad indugiare sul suo corpo, da Andrea e da Vicki e, sebbene il quarto fosse concentrato sulla guida, riusciva a percepire come una sorta di attenzione vincolata che non le lasciava scampo. Tirò una gomitata all'amica e provò a difendersi: “Io... non è vero! Cioè sì, ma diciamo che in certe situazioni una parolaccia è fondamentale. Rende molto meglio di perifrasi insensate.”
“Visto? Nimhea, sposami!”
“Inizia a comprare un anello. Poi ti voglio in ginocchio. Poi posso dirti di no.”
Shannon guardò il sorriso brillante della ragazza festeggiare sulla sua sconfitta, mentre sentiva le risate degli altri passeggeri piombargli addosso. Si voltò verso la strada, ridendo a sua volta. Avrebbe potuto rispondere in un migliaio di modi, ma non disse niente. Era una cosa apprezzabile, si disse, riconoscere una sconfitta. Oltre tutto gli pareva decisamente contraddittorio ed infantile pensare di rispondere con qualcosa che suonasse come 'ma chi vuole sposarti' e frasi di significato simile.
Nel giro di un quarto d'ora, la tensione all'interno dell'auto si era alleggerita, e la vettura stava rallentando la sua corsa, andando a parcheggiare vicino ad una casa. Dall'interno, di cui si vedeva solo la luminosità, proveniva una musica ad un volume non particolarmente esagerato.
Shan rimase indietro a chiudere il gruppo, quasi volesse controllare che le due ragazze non decidessero di scappare all'ultimo secondo, senza un motivo reale. Quella paura lo fece sentire particolarmente stupido, eppure era convinto che Nimhea sarebbe riuscita a fuggire ancora. A fuggirgli ancora.
Quando entrarono, la confusione si mostrò ai loro occhi. Il suono che dall'esterno sembrava attutito era più alto di quanto pensassero, ma comunque abbastanza basso perché i presenti potessero parlare senza doversi preoccupare di sovrastare la musica. Tomo e Vicki si staccarono dal gruppo e lasciarono gli altri tre vagare alla ricerca del cantante.
Fortunatamente, trovarono presto Jared tra la folla, che salutò il fratello e poi loro, studiandole con un sorriso leggero. Sembrava come contento che fossero lì.
“Non spaventatevi.”
“Sei la terza persona che ce lo ripete, credo.” rispose ridendo Andrea avvicinandosi per lasciare spazio ad un uomo che dietro di lei, cercava di attraversare la sala.
“Ecco, allora evito di ripeterlo per ottenere l'effetto contrario! Lui” disse Jared afferrando per un braccio l'uomo che era appena passato dietro alla ragazza “lui è Terry, ed è un tuo collega Nimhea. Vi lascio alle presentazioni.”
“Io... è un piacere, forse dire che siamo colleghi è un po' troppo, ecco...”
L'uomo davanti a lei rise. Aveva una faccia particolare, allegra, quasi buffa in alcuni casi. “Piacere mio. So che sei qui perché hai vinto un concorso, quindi metti da parte l'imbarazzo e la modestia, collega.”
Nimhea sorrise e gli strinse la mano, sotto lo sguardo curioso di Shannon e Andrea. Si salutarono tutti velocemente, poi le due ragazze furono accompagnate dai due fratelli a conoscere qualcuno dei numerosi presenti, quanto bastava per trascorrere insieme la serata.
Quando Jared si allontanò ed Andrea si ritrovò a seguirlo per bere qualcosa e a chiacchierare con Tomo e Vicki, Nimhea si guardò intorno sconsolata e la risposta alla sua solitudine non tardò a mancare: Shannon. Entrambi avrebbero benissimo potuto fingere di non stare aspettando quel momento dall'inizio della serata, o avrebbero potuto guardarsi e iniziare a parlare seriamente per una volta, come quella sera all'osservatorio, o avrebbero potuto pensare per la prima volta che forse non era così faticoso stare insieme.
“Con me non hai fatto tutta quella scena quando ti ho detto che ero un fotografo.”
Questo fu il risultato di quei secondi passati a scrutarsi.
“Non per essere scortese, Shan, ma non è che tu sia così conosciuto, ecco. E poi non sarai mica geloso!” lo prese in giro ridendo di una risata cristallina.
“Vuoi uscire?” era la prima volta che abbandonava così una festa, e tutto sommato gli sembrava di avere degli ottimi motivi per farlo: faceva caldo, non si riusciva a parlare, non era solo con Nimhea.
“Mi posso fidare?”
“Puoi decidere di non farlo.” ribatté, lanciandole un'occhiata convinta per il giusto tempo e indicando poi con un cenno del capo la porta dall'altro lato della stanza. Non era la stessa da cui erano entrati, ma poco importava. Nim pensò un attimo ad Andrea, che sicuramente l'avrebbe uccisa se fosse venuta a sapere che aveva rifiutato di uscire, poi si voltò verso l'uomo e lo superò, dirigendosi verso l'uscita. Era abituata a passare in mezzo alle folle e a svincolarsi dagli sguardi altrui.
All'improvviso si sentì stringere per la vita e il braccio di Shannon le tolse il respiro per un secondo. Si schiantò contro il suo petto, appena in tempo per vedere la ragazza alla sua destra voltarsi con un bicchiere in mano e tagliarle la strada. Sospirò, contenta di essere scampata alla figuraccia e di aver salvato il vestito, poi sentì battere tra le sue scapole il cuore dell'uomo alle sue spalle.
“Dovresti solo stare più attenta, tesoro.” le disse, spostandole lievemente i capelli mossi e incastrando le parole nell'incavo del collo.
“Grazie, ma bastava prendermi per un braccio.”
“Non sarebbe stato così divertente.” sorrise lui lasciandola andare e uscendo dopo di lei. L'aria esterna era calda, ma non insopportabile.
Nimhea era felice di poter sentire l'aria sferzarle sulla schiena, ma sentiva ancora il calore del suo petto e la forza del braccio stretto in vita. Era felice di sentire l'aria, ma non voleva ammettere che quell'euforia nascesse dal fatto che la stesse sfiorando dopo di lui.
“Com'è andato il viaggio?” chiese, sperando che quel balbettio nervoso uscito dalle sue labbra fosse semplicemente un brutto scherzo della sua mente.
-Che ti prende, Nim?!-
“La parte stronza ha deciso di lasciar prevalere la tua parte dolce?”
“Chi ti dice che esista la parte dolce?”
“Non bluffare Nimhea. So che esiste. Gli occhi non hanno nemmeno la scusa di essere di un altro paese per non farsi capire.”
Nim sorrise, lievemente imbarazzata. Ma, pur trovandosi a disagio, si sentiva al sicuro vicino a quell'uomo appartenente ad un mondo così distante. Le sembrava rassicurante vedere come il distante fosse totalmente diverso dall'irraggiungibile.
Osservò lo sguardo di Shannon percorrerla dai capelli liberi che aveva appena spostato su una spalla fino ai tacchi delle scarpe.
“Se non la smetti di guardarmi le gambe, giuro che vado indietro e mi vesto da eschimese! Sono già abbastanza in imbarazzo!”
“Ti metto in imbarazzo?”chiese lui sfoggiando un sorriso provocatorio e avvicinandosi a lei più di quanto Nim volesse sopportare o permettergli.
“Non era questo il punto, Shannon Christopher Leto.” rispose secca, allontanandosi piano e distogliendo lo sguardo.
“Ricordi anche il secondo nome?”
“Credi abbia una memoria così insignificante?”
“Tu non hai...”
“Ehi, avete intenzione di abbandonarci definitivamente o volete entrare? Non è poi così comodo stare lì fuori.” gridò qualcuno ridendo e rientrando immediatamente in casa. Non erano poi così al sicuro. Non era poi così difficile far scoppiare la bolla che si era creata intorno a loro e che sembrava proteggerli dal mondo.
“Arriviamo!” rispose Shannon staccandosi dalla balconata della veranda a cui era appoggiato.
“Cosa stavi dicendo?”
“Tu... tu non hai freddo?”
Nimhea sorrise e, assolutamente poco convinta da quella risposta, preferì non indagare e rientrare in casa, seguita dall'uomo.
-Tu non hai niente di insignificante. Era un complimento. Un fottuto complimento che potevi farle. Perché sei stato zitto?!-
“Da dove sbuchi?” le chiese Andrea osservandola arrivare seguita dall'uomo. Sui volti di entrambi una sorta di felicità interrotta, delusa, troncata. Shannon le passò accanto, posandole una mano sul fianco per farla spostare quanto bastasse per superarla e insieme salutarla.
“Da... fuori. Faceva caldo e così...”
“Dentro faceva caldo. Sì Nimhea. Non mi starai nascondendo qualcosa?”
“Secondo te? Sai come la penso.”
“Fa fin troppo per te.” 

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Capitolo 16
*** 19 ore ***


Buooongiorno!
Eccomi qui, in questi due giorni ho scritto un capitolo, quindi posso tranquillamentissimamente (?) aggiornare, con vostra grande gioia.
Be', questo capitolo è un po' lunghetto, lo so, ma succedono talmente tante cose...
Buona lettura a tutti,
Nora



Capitolo 16
19 ore



“Posso rapirti domani pomeriggio?”
Nimhea sorrise. E questa volta non poté permettersi di negarlo a se stessa: era davanti ad uno specchio, aveva visto arcuarsi le labbra, le aveva osservate tendersi verso gli occhi illuminati all'improvviso, lasciando allo scoperto i denti bianchi.
“Non credo avresti mai molto successo come rapitore.” rispose lei, aggirando la domanda. Sapeva che in un modo o nell'altro sarebbe riuscito a portarla fuori.
'Ciao Shannon, domani partiamo e torno in Italia, quindi lasciami stare, ti prego.' quello sì che sarebbe stato un attacco più convincente. 'Ciao Shannon, non fare altri casini e lascia che ti dimentichi in santa pace.' questo invece era troppo triste, nonostante coincidesse alla perfezione con il piano che si era prefissata.
L'uomo, in piedi in cucina, tamburellò con le dita sul piano del tavolo, e decise di stare al gioco, squarciando il velo di silenzio pensieroso dall'altro capo del telefono.“Tu dici?”
“Dico.”
“Allora non resta che scoprirlo.” disse con voce calma, calda quasi come il sole.
Nim finse di non sentirsi come l'asfalto che straziato, fuori dalla finestra della stanza, implorava d'avere un po' d'ombra, almeno per evitare di sciogliersi.
“Ecco, io non so se posso... vedi, Andrea....”
“Passamela.”
Il suo tono era deciso, come se si fosse preparato a dover affrontare una situazione del genere. Il suo tono sembrava ancora più deciso di quanto fosse in realtà, in confronto al balbettio di Nimhea.
“Come?” finse di non capire lei.
“Posso parlare con lei?”
“Perché?”
“Perché sì!” disse ridendo Shannon. “Dai, su, non temere. Due secondi!”
Nimhea lanciò uno sguardo implorante all'amica, pregandola di non accennare minimamente al fatto che l'indomani sarebbero ripartite.
“Non ti preoccupare. È tutta tua.” la sentì rispondere, dopo qualche secondo.
“Tutta tua? No, ma grazie Nare, vendimi così!” le sussurrò in italiano ridendo, mentre riprendeva in mano il telefono.
“Passo a prenderti verso le quattro.”
“Va bene. Hai intenzione di venire in moto?”
Shan rise per il tono preoccupato della ragazza. “Ok ok, non vengo in moto, promesso.”
“No, puoi, cioè, fai come ti pare insomma... è solo che mi devo preparare!” rispose con una risata. Come le era venuto in mente di pensare alla moto?
“Allora passo tra due ore.”
“Sì, a tra” Nim prese un respiro profondo, quasi le costasse fin troppo fiato pronunciare anche solo un'altra parola “poco.”
“Ciao.”
Quando la telefonata finì, Nimhea si sedette sul letto, percorse con due dita della mano destra l'arcata delle sopracciglia per poi muoversi verso i capelli, che spostò con un gesto nervoso. Poi si lasciò scivolare supina sopra alle lenzuola morbide.
Andrea guardò gli occhi chiari dell'amica chiudersi sui pensieri.
“Nim, non avere paura.”
“Io non ho paura.”
“Devi dirgli che domani partiamo.”
“Lo so.” rispose alzandosi e sfoggiando un sorriso melanconico. “Non ti dispiace che vada? Volevo stare con te, l'ultima sera qui.”
“Siamo state insieme due settimane, vai.” sorrise Andrea passandole una mano dietro alla schiena e stringendosi a lei.
“Però usciamo a cena.”
“Questo è ovvio.”
Nimhea sorrise e si guardò intorno. Le valigie erano ormai piene e difficili da chiudersi, i biglietti dell'aereo e tutti i documenti, preparati per la mattina successiva, riposavano sul tavolo in attesa di rendersi utili.
Anche le foto per il concorso erano pronte, Nare entusiasta e sicura del successo, Nimhea un po' meno.
In fondo non sarebbe stato così difficile sopravvivere alla serata. Bastava accettare quel limite. Bastava rassegnarsi ad avere un tempo contato: 19 ore. In 1140 minuti avrebbe detto addio a quella città che le aveva accolte due settimane prima. Avrebbe salutato l'albergo, il cuscino che ormai aveva il suo profumo nonostante le federe fossero state cambiate, le strade caotiche, il sole cocente, i grattacieli abbaglianti. Avrebbe salutato Shannon e quel saluto, a differenza di tutti gli altri, sarebbe stato eterno. L'albergo, i grattacieli, il sole... tutto sarebbe rimasto. E forse, la cosa che faceva veramente più male e che sembrava incastrare il cuore nel tempo, era che 1140 minuti sembravano quasi tanti, davanti a lei.


“A cosa devo questa puntualità incredibile?”
Nim si voltò verso destra, e osservò l'uomo quasi cercasse una conferma della sua reale presenza.
“Eravamo su a non fare niente e sono scesa in anticipo.” spiegò brevemente. Sistemò la borsa a tracolla sulla camicia chiara sbottonata e lisciò il lembo inferiore della canottiera sui pantaloncini di jeans.
“Sarà che non vedevi l'ora vedermi?”
“Sicuramente.” rispose con un sorriso e accettando il braccio che le aveva offerto, anche se con qualche secondo di indecisione, timorosa che la sua fragilità potesse essere distrutta dalla sua forza, o ancor peggio protetta. La sua pelle combaciava alla perfezione, in quel poco spazio concessole, all'avambraccio dell'uomo.
Abbassò lo sguardo, cercando di sfuggire alla strana sensazione di imbarazzata agitazione che la percuoteva.
“Belle scarpe.” sussurrò, notando i colori improponibili ai piedi dell'uomo.
Shannon la guardò. Sembrava rassegnato e allo stesso tempo divertito, quasi quella constatazione fosse già stabilita da un copione, ma tutte le volte si stupisse di non trovare una risposta giusta da dare. “Non capisco perché vi accanite tutti sulle mie scarpe. Cos'hanno di male?”
“Niente no, cioè, ecco, ammiro il tuo coraggio.”
“È una presa in giro implicita?”
“Non credo sia molto implicita.” disse Nim scuotendo la testa con fare saccente e stringendo inconsapevolmente il braccio, come se avesse paura di poter essere allontanata così rapidamente.
“Mi chiedo perché non ti sia candidata a Miss simpatia 2011.”
“Probabilmente perché avrei rischiato di batterti.”
“Vuoi avere sempre l'ultima parola, eh? Sei una cosa pazzesca.”
“Spero per te che sia un complimento.” ribatté con un sorriso.
Shannon rise e le diede una spinta leggera verso destra, a cui lei provò a rispondere con poco successo.
“Allora, come hai intenzione di portarmi non so dove, questa volta?”
“Il taxi è una scelta così tragica?”
“No, credo sopravviverò.”
“Non volevo farti morire di caldo, tesoro.”
“Ancora con 'sto tesoro?” rise Nimhea. Si sentì bella in quell'istante, forse senza un vero motivo. Si sentì bella per le gambe abbronzate che fendevano l'asfalto a ritmo, si sentì bella per il sorriso splendente e per gli occhi illuminati, si sentì bella perché era felice, si sentì bella perché era accanto a lui. Ecco a cosa non era disposta a rinunciare.
“Faccio così ridere?”
“Non devo ridere?”
“No. Sei bella quando ridi.”
Nimhea arrossì e si rese conto di averlo guardato fino a quel momento, quando di nuovo distolse lo sguardo. “Questa volta te lo concedo, va bene.”
“Ti ho fatta imbarazzare!” esultò l'uomo, avvicinandosi ad un taxi.
“Devo farti i complimenti?” domandò lei scontrosa, salendo sulla vettura, mentre alla sua mente balenò il ricordo del pomeriggio a Venice beach. Non era possibile che fosse già passato così tanto tempo.
“Che hai?”
“Niente.” rispose voltandosi verso di lui, con un sorriso che voleva apparire rassicurante.
Shannon dettò un indirizzo al conducente nascosto dal sedile e la vettura partì. Questa volta il viaggio fu silenzioso e sembrò terribilmente lungo. Nimhea osservava la città strisciare fuori dal finestrino e non aveva nessun'intenzione di osservare l'uomo alla guida, né quello che, seduto accanto a lei, si tormentava per trovare qualcosa da dire, senza riuscirci.
Quando scesero dall'auto, il sole sembrò restituire alla ragazza un po' di tranquillità. Tornò a sorridere, distese lo sguardo e aprì le spalle, si sentì stupida e si dispiacque per quel suo comportamento incomprensibile ed infantile.
Si lasciò guidare fino ad entrare nel giardino di una casa chiara. Tra loro e l'ingresso, si trovava una piscina, la cui acqua chiara sembrava invitarli a lasciarsi andare alla sua freschezza, scappando dal caldo.
“È casa tua?” domandò Nim, spezzando il silenzio. Nel suo tono si nascondevano anche quelle scuse che tanto avrebbe voluto dire, ma che si erano incastrate in gola.
“No, in realtà è di mio fratello. Però diciamo che è un po' condivisa.”
Il suo sorriso sembrò rispondere a tutto quello che non era riuscita a dire, dimostrando ancora una volta che quell'uomo era in grado di capirla più di quanto sperasse. Poi, le sue labbra si arcuarono ulteriormente e i suoi occhi si dipinsero di una nuova luce.
“Scommettiamo che mi tuffo?”
“È una scommessa inutile!” rispose ridendo Nimhea e osservando i suoi occhi di quell'indefinibile e ineguagliabile colore.
“Non è inutile, è una scommessa, bisogna solo decidere qual è la posta in gioco.”
“Sì che è inutile. Se vuoi ti tuffi, altrimenti non lo fai! Non è una scommessa.”
“Se vinco io, ti tuffi anche tu.”
“Non ho nessuna intenzione di farlo, Shannon! Dipende tutto da te. Non puoi perdere, qui.”
“Appunto.” disse lui, svuotando le tasche lontano dall'acqua e lanciandosi in piscina.
Nimhea, incredula, sbatté le palpebre più volte. A quanto pareva era destinato a finire in acqua vestito, quell'uomo.
Shannon tornò a galla, con un sorriso che lo fece sentire in qualche modo vincente, seppure cosciente di aver barato spudoratamente.
“Vuoi uscire o no?” chiese Nim con voce seria.
“Mi devi ancora un bagno in piscina.”
Sembrava calmo. Troppo calmo. “Io non ti devo niente. Non ho accettato nessuna scommessa.”
Prese un altro respiro e, cercando di essere il più convincente possibile, disse: “Esci, dai!”
Sul suo volto troneggiava un sorriso, ma, visto che l'uomo non dava intenzione di muoversi e anzi, si avvicinava al bordo della vasca, osservandola dal basso in alto, si sfilò la camicia e la infilò nella borsa, lasciandola per terra lontana dall'acqua e allungò una mano verso di lui, più che altro per abitudine o simbolismo: di certo non sarebbe mai riuscita a tirarlo su così.
Lui le afferrò il polso con una stretta troppo forte per potersi svincolare, nonostante la pelle bagnata. Nim lo guardò con occhi taglienti, e rimase interdetta nel vedere che non aveva nessun'intenzione di rompere quel contatto. “Shannon lasciami andare immediatamente.” scandì con la mascella serrata.
“Altrimenti cosa fai? Vieni qui?” aveva un'espressione vittoriosa e spavalda.
“Sei scorretto.”
Quelle, che riecheggiarono come l'ultimo desiderio di un condannato a morte, furono le ultime parole che le sue labbra incisero nell'aria, prima che finisse velocemente in acqua.
“Tu sei” Nimhea prese un respiro enorme, tentando di calmarsi, poi continuò a parlare “Tu sei un pazzo, idiota, deficiente. Tu... guarda come sono adesso!”
“Sei bellissima.”
“Vaffanculo Shannon. Vaffanculo.” rispose senza muoversi e guardando ancora incredula i suoi vestiti bagnati e sentendo l'acqua che la separava dal fondo della vasca.
“Non farla tragica. Fa così caldo, fuori.” disse avvicinandosi a lei.
“Sì, e ti dovrei ringraziare, suppongo!”
Nim alzò lo sguardo verso di lui. Sperava che i suoi occhi, tra il sole e l'acqua, si fossero schiariti e fossero gelati, almeno quanto bastasse a farlo riflettere.
“Prego.”
Le sue iridi, il suo volto, lui... era troppo vicino.
“Non credere che non mi sappia vendicare!” esclamò allontanandosi quanto bastava per riprendere il controllo di sé.
“Cosa vorresti fare?”
“Non lo so, ma inizio così!”
Nimhea iniziò a schizzarlo velocemente, divertita, mentre guardava le espressioni sulla sua faccia tempestata di gocce passare da una sfumatura all'altra.
“Ferma!” tuonò lui ridendo e cercando di afferrarle le braccia per fermarla. Quando riuscì a bloccarla, si spostò di qualche metro in modo da riuscire a toccare il fondo. I loro occhi si scontrarono per diversi secondi. Erano così diversi e così simili. Erano in fondo così terribilmente vicini. Erano insieme e tutto sembrava essere così maledettamente facile.
-Nimhea, inventati qualcosa ti prego. Siete da soli, in piscina. Siete troppo vicini. Sei sempre scappata, no? Sai farlo anche ora.-
Sentiva le sue mani sciogliere piano la stretta intorno alle braccia e lasciarla libera. “Avrei potuto provare ad affogarti, ma sarebbe stato più difficile.” gli disse, ruotandogli intorno per sfuggire al suo sguardo.
“Credo non riusciresti mai.”
“Senti vecchietto, avrai due bicipiti grandi più o meno otto volte i miei, però questo non ti autorizza a sottovalutare le mie capacità.” ribatté Nim, completando il giro e tenendo l'indice ben alzato davanti al suo naso, quasi ad indicare che anche le alte sfere approvavano quel suo ragionamento.
Shannon scoppiò a ridere e si avvicinò di qualche centimetro, sussurrandole quasi sulle labbra con un sorriso provocatorio “Basta spingere.”
“Come se io non lo sapessi!”
Perché era cambiata anche la sua voce? Il suo tono adesso sfiorava una provocazione decisamente eccessiva. Doveva distrarsi, immediatamente.
Shan la osservò curioso. Per un istante, sembrò vedere chiaramente quello che stava accadendo, come se improvvisamente un lampo li avesse illuminati per poi lasciarli di nuovo nell'oscurità. Per la prima volta, in realtà, si fermò a pensare che, se avesse voluto, sarebbe benissimo riuscito ad averla. Le sue labbra erano così vicine, il suo corpo quasi a contatto con il suo. E la voleva. Eppure non mosse un muscolo, non ripeté quei movimenti che ormai non sembravano più suoi e che ripeteva ritmicamente. Non doveva farla scappare, non adesso che era riuscito ad avvicinarsi così tanto. Insomma, per quale motivo l'aveva invitata lì? Per potersi divertire ancora? Perché diventasse una delle tante?
Si allontanò e si issò con le spalle fino ad uscire dall'acqua. “Non puoi stare con tutti i vestiti fradici, vieni.” le disse con un sorriso e l'aiutò ad uscire.
Nimhea si limitò ad annuire, confusa, e recuperò la borsa. Non aveva dovuto fare niente, nemmeno tentare di scappare. E, senza agire, si ha tutto il tempo di pensare a quello che si sta facendo, torturandosi per trovare motivazioni ugualmente insensate.
“Vuoi fare una doccia?”
“Farò più tardi in albergo. Adesso ti ruberei solo una maglietta, se posso.” rispose con un sorriso. Si lasciò guidare all'interno della casa, senza fare in realtà troppa attenzione a ciò che la circondava. Le scarpe bagnate si appiccicavano al suolo con un rumore umido e scomodo.
Entrarono in una camera da letto. Di sicuro non era la principale, anzi, probabilmente era quella che il fratello aveva lasciato a Shannon. Questi si diresse verso un cassettone, lo aprì, ed estrasse velocemente una maglia e un paio di pantaloni, mentre Nimhea rimaneva poco più indietro ad osservarlo.
“Vediamo cosa posso darti... saranno in tutto tre magliette, quindi non c'è molta scelta.” annunciò con aria pensosa. “Questa credo proprio di no.” continuò con una risatina, cacciando una canottiera in fondo al cassetto.
“Perché?” domandò incuriosita.
“È meglio che non ti veda con una cosa così addosso.”
Quello che non era riuscito ad essere chiaro nelle sue parole, fu sintetizzato da un lungo sguardo, dopo di che Shan si voltò, guardò nel cassetto e prese un'altra canottiera che le lanciò velocemente con un sorriso.
Nim si sentiva lontana da tutto, sembrava impossibile concepire quella situazione. Non era nei piani, no. Non sarebbe dovuto accadere niente del genere. Anche se di fatto non era successo nulla. Anche se di fatto... di fatto aveva desiderato che succedesse qualcosa.
“A cosa stai pensando?”
La voce dell'uomo la strappò alle sue condanne. Chissà che ore erano, chissà quanto tempo era passato ormai...
“A niente.” rispose, osservandolo mentre toglieva la maglietta inzuppata e la lasciava a terra. Ne osservò la schiena e tracciò i confini di ogni muscolo, provando l'impulso irrefrenabile di permettere alle sue dita di sfiorare piano la spina dorsale, arrivando a quel tatuaggio che non aveva mai notato veramente, prima. Un globo, le Americhe. Per qualche strano motivo le parve di ritrovarsi anche lei, lì, nascosta in un puntino sperso nel nulla. Insieme a lui.
“Fai pure, eh?” disse sarcastica, riprendendo il controllo di sé.
“Cosa? Ah, giusto.”
I suoi occhi, particolarmente verdi quel pomeriggio, sembravano smarriti e la sua voce aveva un tono così calcolatamente innocente, che Nimhea, se prima si era lievemente lasciata andare, ritrovò completamente le briglie e si impose su se stessa. In qualsiasi caso, preferì distogliere lo sguardo mentre passava accanto a lei, per lasciarle la stanza libera.
“Sei imbarazzata.” constatò divertito, prima di chiudere velocemente la porta alle sue spalle e di concederle un po' di solitudine.
Nim alzò la voce, in modo da farsi sentire. “Io non sono imbarazzata!”
-Io non sono imbarazzata.- ripeté mentalmente mentre si cambiava il più rapidamente possibile, cercando di riflettersi nel vetro della finestra per guardare in che stato pietoso fossero i suoi capelli, che imprigionò in uno chignon sulla nuca. Di sicuro non aveva alcun problema con il trucco, visto che aveva messo solo un po' di mascara assolutamente resistente all'acqua (e di questo era ben sicura: faceva fatica persino a toglierlo quando lavava il viso a fine giornata).
Squadrò poi la maglia che avrebbe dovuto indossare e strabuzzò gli occhi, infilandola senza pensarci troppo. Sul tessuto scuro era raffigurato un cavallo bianco, incorniciato, sopra e sotto, dalla scritta 'white horse'. Appoggiata al cavallo, una ragazza...
-Nim, non pensarci. Non pensarci. Non pensarci.- si disse, sollevando con l'indice il tessuto e pensando a come sistemare i profondi tagli laterali che le lasciavano scoperti i fianchi.
-Non voglio sapere come doveva essere l'altra maglietta.-
Fortunatamente, ricordò di avere in borsa la camicia e per un istante pensò anche di poter indossare solo quella, rimanendo delusa dal fatto che avesse il reggiseno bordeaux bagnato che di certo si sarebbe visto alla perfezione sotto al tessuto leggero e bianco.
Senza esitare ancora, infilò l'indumento di salvezza sopra a quello prestatole ed uscì dalla stanza.
“Ti sta bene.” disse lui. Non sembrava prenderla in giro, ma sul suo volto c'era un sorriso divertito. “Sembri così piccola.” sussurrò abbassando lo sguardo.
“Sei tu ad essere troppo grande.”
“Troppo grande per te?” il suo mento tornò ad alzarsi, in segno di sfida.
“Forse.”
Shannon rise, sollevando le braccia come a dire che non l'avrebbe mai capita. E in fondo sapeva bene che, almeno in quel caso, non era poi così difficile arrivare alle sue verità. Inoltre, doveva ammettere che quel suo continuo rispondere e sfuggirgli, sebbene lo innervosisse, lo divertiva oltremodo.
“Giro della casa?”
“Va bene.” sorrise lei.
Era più che altro curiosa di guardarsi intorno e impossessarsi mentalmente di tutti quei dettagli che non avrebbe più rivisto. Voleva ricordare tutto, come se stesse scattando una fotografia ad ogni millimetro di quella casa.
“Un attimo, ho lasciato su il telefono. Aspettami qui, siediti!” disse Shannon, sparendo sulle scale e lasciandola nel salotto luminoso che si apriva proprio all'ingresso. Rimase un po' interdetta in piedi a guardarsi intorno, poi si lasciò scivolare su di un divano e si sedette. Ma, non appena riuscì a tranquillizzarsi un attimo, seduta lì, sentì la porta alla sua destra aprirsi e si scontrò con le iridi chiare di Jared.
“Ciao Nim!”
Si alzò velocemente. “Oh, ciao Jared.” perché il suo nome in bocca a lei usciva come un balbettio insignificante? “Scusa l'intrusione, io non...”
“Non ti preoccupare. Shannon mi aveva avvisato.” rispose lui con un sorriso splendente. “Visto che mio fratello è troppo testardo per chiedertelo: quanti anni hai?”
Il suo tono di voce non era invadente, né fastidioso. Sembrava semplicemente curioso.
“Ventisette.”
“Sappi che mi hai appena fatto vincere una scommessa con... be', non importa con chi. Avevo indovinato!”
“Credo sia tuo fratello, quello che sconvolge il mondo dicendo la sua età.”
“Non è l'unico.”
“Oddio, tu quanti anni hai? Ottanta?!” chiese ridendo e puntandogli addosso i suoi occhi chiari. Non aveva paura di sfidare il ghiaccio, no.
“Trentanove.”
“Ma non è possibile.” sussurrò in un misto di disperazione e ironia la ragazza, prima di rendersi conto d'indossare di fronte ad un uomo sconosciuto, famoso, e quasi quarantenne, solo una lunga canottiera del fratello che arrivava a coprirle anche i pantaloncini bagnati.
“Non arrossire, ormai ci sono abituato.”
“Sono io quella non abituata.”
“E così sei caduta anche tu. Un'altra vittima.” andò avanti con un sorriso beffardo lui. Sembrava stupito e infastidito, quasi avesse scommesso di più su di lei e sulla sua capacità di resistenza.
“Io? Cosa?” domandò Nimhea imbarazzata. “Veramente mi ha catapultata in piscina e mi ha prestato una sua maglietta, tutto qui.”
“Ah. Voi non...?”
“Noi niente!” esclamò arrossendo ancora più violentemente e sentendosi stringere dalla schiena. La pelle scoperta dei fianchi rabbrividì al contatto con le braccia dell'uomo.
“Noi niente cosa?” disse Shannon con voce suadente a qualche centimetro dal suo orecchio.
Nimhea spostò prima un braccio, poi l'altro, sillabando a ritmo un 'Niente', mentre osservava Jared ridere e alzare gli occhi al cielo, scuotendo lievemente il capo.
Il tempo trascorse, non senza incespicare qualche volta perché finito in situazioni troppo rischiose, tra chiacchiere e discorsi interessanti.
“Ah, Shan, andremo a Parigi, la città della moda.” disse Jared, mentre le iridi azzurre si ingigantivano luccicanti.
“La città della moda è Milano.” si lasciò sfuggire Nimhea. Non che osasse andare contro l'adorazione per quella città che ristagnava negli occhi dell'uomo, ma era stato più forte di lei aprire bocca per difendere casa sua.
“Ma quale Milano! L'unica città della moda è Parigi.”
“Ma ti prego, cos'hanno in più di noi i parigini? Le baguette?”
“Nim, direi che è ora di andare.” disse Shannon tutto d'un fiato, tirandola per un braccio e inserendosi tra lei e il fratello.
“Ciao Jared, noi andiamo.”
“Ciao.” ridacchiò lui e trascinandola all'esterno, dove il sole e il caldo si riaffacciarono su di loro e sull'acqua della piscina, che rifletteva disegni d'onde sulle pareti bianche della casa.
“Tu sei pazza! Pazza, pazza, pazza!” esclamò ridendo e bloccandosi davanti a lei. In quel 'pazza', probabilmente, si erano nascoste tante di quelle parole che i suoi occhi sentirono la necessità di rafforzarla e di chiarirsi con uno sguardo importante.
“E perché mai?”
“Mio fratello ama Parigi, abbiamo origini francesi e...”
“Ops.” rispose con aria innocua ed innocente.
“Ops?”
La risata dell'uomo risuonò ancora, mentre si dirigevano verso la stessa auto che due sere prima le aveva accompagnate alla festa.
“Direi che lasciamo perdere i taxi ora, eh?”
Nim annuì e salì in macchina, elencando mentalmente tutte le cose che aveva quando era arrivata lì qualche ora prima e cercandole, sperando di non aver dimenticato niente. Non lì. Non per sempre.
Il viaggio fu breve e silenzioso, proprio adesso che iniziava a desiderare che il tempo tirasse fuori qualche coccio di vetro e bucasse le ruote dell'auto, rallentandoli. Eppure, desideri o meno, i secondi continuavano a scorrere, e di sessanta in sessanta incidevano minuti pesanti, fangosi, difficili.
Doveva dirglielo, tirare fuori il coraggio e parlargli.
-'Shannon, domani parto.' Non è poi così difficile, no? 'Shannon, domani parto e boh, addio.' Non è difficile. È un addio. Addio e difficile non sono sinonimi. Addio è... è troppo difficile. Tutto troppo difficile.-
I pensieri di Nimhea continuarono su questa scia fino a quando sentì l'auto fermarsi e vide fuori dal finestrino il suo hotel e si maledisse per non aver aperto bocca.
“Se aspetti due secondi o vuoi salire, cambio la maglietta e ti restituisco la tua.” disse sorridendo, prima di aprire la portiera e scendere.
“Non ce n'è bisogno, me la ridarai.”
Nim si dondolò un po' sulle punte, continuando a passare lo sguardo su ciò che la circondava, senza avere il coraggio di soffermarsi su di lui. “Domani parto.” annunciò poi tutto d'un fiato.
“Oh, e quanto aspettavi a dirmelo?”
Si era incrinato qualcosa, l'aveva sentito. Si era incrinato qualcosa e, nonostante rimanesse dritto e forte, sembrava si stesse accartocciando.
“Te l'avrei detto.”
“Forse domani, quando ormai saresti stata sull'aereo.”
“Non è vero. È solo che detesto queste situazioni.”
“Cosa?”
“Detesto gli addii. Ed evita di rispondermi 'non è un addio', perché è una grandissima stronzata e lo sai.”
“Ci rivedremo.”
“Non credo, non questa volta. Ma va bene così. Perché dovresti ricordarti di me? Ti darei solo noie. Lasciami stare, davvero. Hai altro da fare.”
“Ti odio quando parli così. Credi di sapere tutto. Credi che qualunque cosa possa riguardarti sia stupida, inutile, tempo sprecato. Credi di essere tempo sprecato, di affondare senza trascinare nessuno con te.” quel crescendo di analisi terribilmente precise si concluse sprofondando in un silenzio di lotta colossale tra i loro sguardi.
Gli occhi di Nimhea lo scrutarono: il grigioazzurro sanguinante e sconfitto che non voleva ammettere d'essere stato messo indiscutibilmente allo scoperto, le barriere innalzate ora completamente distrutte. Si lasciò abbracciare, portando le mani dietro al suo collo e stringendosi a lui, mentre una timida lacrima strozzata le scivolava senza alcun seguito lungo il viso, disinfettando le ferite alle iridi. Sfiorò piano con l'indice della mano destra la triade dietro l'orecchio sinistro dell'uomo, e, con un gesto delicato e continuo, la seguì piano, gli occhi fissi sull'asfalto serale.
“Devo andare. C'è quell'odioso portinaio che ci sta squadrando da un'ora.” provò a distrarsi ridendo, quando decise che quell'abbraccio era ormai durato troppo a lungo, sebbene iniziasse a temere che avrebbe voluto rimanere tutta la vita in quella posizione.
Shannon le sorrise, senza aggiungere altro. Si fermarono, ancora una volta circondati da nessun rumore, mentre entrambi aspettavano che qualcuno venisse a trascinarli via, separandoli definitivamente: aspettavano di diventare mandanti, scappando dalla vera colpevolezza.
Lei si avvicinò di nuovo, posando piano le labbra sulla guancia dell'uomo. Era la prima volta che si azzardava a farlo. Inspirò profondamente e si impose di non pensare troppo a quel contatto che la stava stravolgendo.
Il batterista sorrise ancora e voltò piano il viso, quanto bastasse perché il suo labbro inferiore sfiorasse quello superiore di Nimhea, che si stava già allontanando. Unica certezza che si fossero incontrati davvero era quell'incredibile bruciore alle guance. E al cuore.
“Scusa.” le disse, senza specificare veramente se fosse per le parole di prima, per il fatto che ormai si dovessero salutare o per quello che non si poteva definire un bacio, ma che, sicuramente, aveva distrutto l'inesistente e tanto proclamata voglia di partire della ragazza.
“Non sarebbe giusto, vero, se tu rimanessi qui?” le chiese.
Nim si sentì improvvisamente adulta, forse più di lui. Si vide per la prima volta veramente in bilico, come funambola sul mondo: unica salvezza era quella corda che l'aveva spinta a sfidare la morte.
“Non credo, no. O forse non possiamo parlare di giusto o sbagliato. Non sarebbe semplicemente possibile.” provò a sorridere, per sembrare almeno più convincente.
“Già. Buonanotte Nim. Ci sentiamo.”
“'Notte Shan.” concluse lei, per poi voltarsi, con uno sguardo di sfida rivolto a quel portinaio che ancora la squadrava.
Sfrecciò tra i turisti che affollavano la hall e si infilò velocemente in ascensore. Non avrebbe pianto, non l'avrebbe fatto per lui, lì. No. Mai.
Quando entrò in camera, chiudendosi alle spalle il continuo e disastroso rovesciamento dei ruoli nascosto nel '69', trovò Andrea che stava sistemando le ultime cose, con un ordine del tutto insolito per la sua personalità.
“Ciao tesoro com'è andata?” domandò senza voltarsi.
“Bene.”
Nonostante gli innumerevoli sforzi, la sua voce uscì piatta e in terribile contraddizione con l'affermazione.
“Nim.” disse Nare voltandosi e arrivando ad abbracciarla, come se qualsiasi parola non sarebbe mai potuta essere utile ad esprimersi. E in quel momento, in effetti, c'era solo un'estrema necessità di lasciare il suo nome sospeso, precipitante nell'aria, aggrappato alle braccia che le circondavano.
“Sto bene, sto benissimo. È giusto così. È... è troppo grande.”
“Non regge Nimhea, lo sai.”
“Troppo lontano.”
“Questa potrebbe essere una motivazione valida.” sorrise Andrea allontanandosi un po' per guardarla negli occhi.
Nim la scrutò attentamente. Sapeva bene che non sarebbe riuscita a simulare gioia o normalità, né tanto meno voleva davvero farlo con l'amica. “Usciamo a cena, su.” disse poi. Aveva bisogno di distrarsi, di non pensare. E, soprattutto, non avrebbe pianto. Ormai l'aveva promesso a se stessa.
“Sicura?”
“Sì.”

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Capitolo 17
*** Umane ***


Eccomi!
Vi chiedo scusa per il ritardo allucinante con cui ho aggiornato, ma, oltre ad essere stata via quattro giorni all'isola d'Elba con la scuola, ho ritrovato il modem fuori uso al mio ritorno, e quindi non mi è stato davvero possibile lasciarvi un capitolo.
Spero quindi di recuperare al più presto e di mettermi a scrivere decentemente, appena riesco a prendere un attimo di fiato dalle verifiche e interrogazioni dell'ultimo mese (mi aspetta un fantastico libro di chimica, ora!).
Buona lettura a tutti, mi auguro che questo capitolo, sebbene sia un po' di passaggio, vi piaccia.
Un bacio,
Nora





Capitolo 17
Umane



Chiunque, quando 'le cose' cambiano, si aspetta di poter cogliere una differenza nel suo momento di stacco netto. E invece, il più delle volte, il passaggio avviene in sordina, nascosto in noi e in ciò che ci circonda, rincorrendo i secondi che scorrono senza la nostra attenzione. Non c'è un istante da inchiodare al tempo, alla parete, da poter ricordare in quanto tale. Non c'è un prima o un dopo, solo la consapevolezza di essere cambiati.
A questo pensava Nimhea, in aereo, mentre tornava a casa sua. A questo e a tante altre cose che non riusciva ancora a definire.
La maglietta di Shannon era in valigia, nascosta insieme alle altre, e sperava, anche se tacitamente, che non ci fossero problemi con l'arrivo del bagaglio. Non voleva perderla.
“Nim...”
“Sì?” si voltò lei verso l'amica, sorridendo.
“Grazie.” rispose Andrea sollevandosi piano dalla posizione in cui era sprofondata e avvicinandosi Nimhea.
“Per cosa? Sarei io a doverti ringraziare.”
L'altra sorrise e l'abbracciò ancora, per quanto potesse permettere la loro posizione.
“Su, passami il diario. Almeno lasciamo tutta questa dolcezza e ci rendiamo utili alla società.”
“Utili alla società con il diario?” domandò Nimhea scoppiando a ridere. Gli occhi, contratti e divertiti, proiettavano i loro colori e sembravano protrarre nel tempo il suono tintinnante della sua voce.
“No, hai ragione. Noi saremmo utili alla società in qualsiasi caso.” disse Nare scintillante, prendendole di mano il quaderno e cercando una penna in borsa.
Ultimo giorno
Oggi iniziamo così, mettendo ben in chiaro che questa è l'ultima volta che potremo scrivere qui, o, ad ogni modo, questa è l'ultima volta che ti scriveremo a causa di questa vacanza.
Le foto di Nimhea sono meravigliose, te l'ho detto? E, ovviamente, andremo insieme anche all'esposizione a Roma. Tornare in quella città sarà destabilizzante (ci siamo conosciute lì, sai?), ma sarà bellissimo, io ne sono sicura. E poi senza di me sarebbe persa, diciamolo pure. Servo io, a salvarla.
A parte il fatto che devo essere assolutamente con a lei quando esporranno le sue foto perché sì, devo (e poi voglio: chi sarebbe tanto folle da non voler vedere qualcosa di così splendido e meraviglioso?).

“Nare, ti prego! Non esagerare, tu sei di parte!” disse e, come se volesse dare maggiore rilievo e credibilità alle sue parole, prese a scrivere al posto dell'amica.
Lei è di parte (e io le voglio bene perché è oh, la mia migliore amica/sorella/tutto quello di cui qualcuno può avere bisogno). Saranno gli altri a giudicare, però.
“Nimhea, io non sono di parte.” scandì lentamente Andrea, per nulla rassegnata a doverlo ripetere per l'ennesima volta. Poi si impossessò nuovamente del diario e continuò.
Appunto, saranno gli altri a giudicare e a darmi ragione.
Io avrò una nuova foto profilo su facebook, perché ne ho approfittato, va ammesso. A proposito di facebook e social network in generale... chissà se Shannon tenterà di ritrovare la mia adorabile migliore amica da qualche parte.

“Non sa qual è il mio cognome.” la ammonì Nim, dopo aver letto le ultime parole scritte sul foglio.
“Tu però sai il suo.”
“Oh, no! Non pensarci! Figurati, poi è impossibile che lui controlli le richieste di amicizia, sempre che abbia facebook. Chissà quante gliene avranno inviate. No, non se ne parla.”
“Se ti aggiungesse lui?”
“L'ho detto, non sa il mio cognome. E poi sopravviverò, se non lo farà.”
“Giusto, tanto ha il tuo numero di telefono.”
Nimhea sospirò rassegnata, mentre l'amica sorrideva in segno di trionfo e riprendeva a scrivere.
Potremmo fare come nei libri/film e metterci a scrivere tutti i ringraziamenti possibili, ma non ne abbiamo voglia, oltre al fatto che questo farebbe molto finale strappa lacrime da 'ommioddio non ci rivedremo mai più' e pianti, urla, gente che si strappa i capelli e... ma anche no, ecco.
Quindi, cosa vuoi che ti racconti? Parliamo di ieri sera?
No, metterebbe troppa tristezza anche questo. Però c'è da dire che siamo uscite e ci siamo divertite, godendoci il clima meraviglioso, la notte illuminata dalle luci dei palazzi, la vita e... tutto quello a cui ci siamo abituate in queste due settimane.
Sottolineerei comunque che almeno questa volta abbiamo trovato un taxista intelligente (ovviamente loquace e cordiale come i tre quarti delle persone che fanno questo mestiere. Credo sia uno di quei mestieri per cui devi amare la gente incondizionatamente: devi saper parlare, ma allo stesso tempo mettere da parte te stesso, saper stare in silenzio e accogliere gli altri. Ma comunque, lasciamo perdere le mie riflessioni filosofiche, ecco.)... stavo dicendo? Ah, sì, che abbiamo trovato un taxista simpatico e intelligente e che siamo arrivate qui velocemente. Forse fin troppo, a dire la verità. Ma stiamo cadendo ancora nella tristezza, quindi

Nim distolse lo sguardo e si affacciò di nuovo sui suoi pensieri, sempre più rovinosi. E la cosa peggiore era che era tipicamente 'da lei' fare una cosa del genere, per cui non c'era alcuna via di scampo.
-Non è strano che ci sia un ritorno, se c'è una partenza. Non è strano, è solo estremamente triste.- si disse un'ultima volta, prima di osservare l'amica ancora intenta a scrivere. Intorno a loro, gli altri passeggeri sembravano rilassati, diversi. Sembravano tranquilli, quasi avessero fermato il tempo prima di partire e adesso stessero semplicemente tornando a prendere il loro posto nel mondo, quello giusto. Ecco qual era un altro dei problemi: a Nimhea sembrava che il posto giusto fosse quello che aveva appena lasciato. E, per quanto contasse poi il suo ritorno e sapesse che fosse ovviamente una cosa giusta, intuiva (se per intuire si può intendere il rendersi conto di aver qualcosa di inciso sulla pelle) che quello che era accaduto in quei giorni sarebbe rimasto dentro di lei e, ancora di più, l'aveva ormai completamente intaccata.
Ma forse temeva inoltre quello che non voleva ancora ammettere: Shannon le sarebbe mancato maledettamente; Shannon sarebbe stato troppo lontano; Shannon... già questo era motivo di difficoltà. Vederlo protagonista dei suoi pensieri non era concepibile per la sua mente stanca e schiacciata dalla pressione.
“Nim, io non riesco a vederti così. Vuoi parlarne?”
La voce dell'amica la riportò al mondo reale, quello in cui i problemi ci sono, ma si nascondono per riuscire a vivere.
“Non c'è molto da dire.” sorrise l'altra.
“Odio quel sorriso! È una coltellata, e lo sai. È un sorriso arreso e triste e tutto il resto. No, non va bene.” riuscì a rincuorarla.
“Va bene, la smetto. Non mi vedrai disperata. Però sai che sono fondamentalmente nostalgica e che quando finisce qualcosa inizio a pensare a tutto quello che è passato e sì, insomma, boh, sono così.” rispose, spostando i capelli mossi da una spalla all'altra con un gesto veloce e gettando i suoi occhi stanchi e chiari in quelli profondi e rigeneratori di Andrea.
“Film?”
“Sì, direi proprio di sì.” rispose Nimhea con il volto molto più rasserenato. Andava tutto bene. Andava tutto bene perché erano insieme.
“Potremmo farci un'ipermaratona di boh, qualche film idiota.” propose con un sorriso incoraggiante Nare. Sapeva benissimo che l'amica, poi, avrebbe seguito ben poco il film e si sarebbe lanciata in commenti su qualsiasi cosa le saltasse all'occhio.
“Potremmo, sì. Di sicuro evitiamo qualsiasi cosa c'entri con l'amore o la tragedia. Ancora peggio la tragedia d'amore, credo.”
“Esiste?”
“Hai presente Titanic? O Giulietta e Romeo, per tornare ai classici, ecco.”
“Giusto.” rise, scrutando tra gli altri titoli disponibili.
“Nimhea!” urlò, fissando un nome sull'elenco. Alcuni passeggeri si voltarono increduli e disturbati, mentre Nim si lasciava sfuggire una risatina divertita e volgeva intorno a lei occhi di scusa.
“Sherlock Holmes.” sillabò con calma agitata Andrea, abbassando la voce. “Non l'abbiamo visto all'andata. Adesso noi dobbiamo vederlo. Dobbiamo, capisci?”
“Ovvio che dobbiamo!”
Il viso di Andrea si aprì in un sorriso estatico e prese momentaneamente in mano il diario. Non aveva poi scritto molto, da quando l'amica aveva iniziato a distrarsi.
Ti abbandoniamo per quel grand... uomo (e tanto altro, ma concedici un po' di reticenza)
Nimhea scrollò le spalle e prese con un gesto sinuoso la penna dalla mano dell'amica.
Quella qui sopra chiamata 'reticenza', in realtà, è un modo carino per dire che ci auto-censuriamo.
Scritto questo, riconsegnò il tutto a Nare.
Comunque, parlavamo di Robert e Jude che ecco, parliamone! Sì, Nim, so benissimo che tu sei schieramento Rob e che blablabla, però cioè, oddio.
“A proposito di Robert...” disse Nim, lasciando la frase in sospeso, quasi volesse godersi la risposta nello sguardo dell'altra prima ancora di aver posto veramente la domanda.
“Sì?” chiese titubante.
“Robert. Quello della serata in piscina. Quello carino da cui sono venuta a rubarti per salire in camera.”
“Ah, Robert.” annuì lei, sollevando la mano destra e lasciandola cadere, quasi il ricordo di quel volto fosse arrivato in contemporanea al gesto. Poi, con tutta tranquillità, riprese: “Quello della sera in cui tu ti sei lanciata in acqua per scappare a Shannon per poi finire a ballargli addosso?”
Nim arrossì leggermente, serrando la mandibola con convinzione: l'argomento Shannon doveva rimanere lontano, come d'altronde era ormai l'uomo, a chilometri e chilometri da lei. “Non c'è bisogno di cambiare l'oggetto della conversazione.”
Andrea ridacchiò e si arrese. “Comunque non l'ho più visto.”
“Ma come?”
“Ebbene sì. Non ti preoccupare, sopravviverò. Non ricominciamo con la storia dell'amore e tutto. Sai bene cosa penso dell'amore e del sesso maschile. Inutilità.”
“Non fare la dura, tu!” la prese in giro Nim. “Anche perché gli uomini ti sembrano inutili finché non iniziano a piacerti.”
“Credi potremo iniziare a vedere il film?”
Nare, contenta del silenzio dell'amica, riprese a scrivere velocemente.
Va bene, dopo questa chiarissima delucidazione sui nostri punti di vista riguardo ai due attori in questione, ti abbandoniamo per stare un po' in loro compagnia. (Ma che cavolo, non potevamo incontrarli? -da leggere con tono disperato e straziante, tipo 'non potevamo incontraaaaaaaaaarli?'-)
Addio diario, ti abbiamo voluto bene (?)

“Ti abbiamo voluto bene?” domandò ridendo Nimhea, che sembrava aver cancellato non solo la conversazione appena conclusasi, ma anche tutti i suoi tristi e confusionari pensieri dei minuti precedenti.
“Be', sì, nel caso l'aereo precipiti. Pensa, magari potrebbe rimanere per anni sott'acqua e potrebbero trovarlo degli studiosi nel futuro, sì. Stiamo facendo un favore all'umanità, io e te, qui. Sempre che l'aereo precipiti, ecco.”
“Prospettiva positiva! Vai così Nare!” andò avanti la milanese in un eccesso di crisi d'identità che la stava portando ad assimilarsi ad una cheerleader particolarmente convinta dei suoi inni.
“Tu sei pazza!” disse con una risata Andrea, fingendo sconvolgimento e scrollando le spalle.
“Ragazze, potete abbassare la voce?”
Una hostess si era avvicinata loro con fare minaccioso, per poi allontanarsi subito dopo aver lasciato in aria quella domanda. Eppure, in realtà, sembrava sotto sotto divertita da quelle due ragazze che stavano stravolgendo la calma noiosa di sempre, dipingendo allegria colorata sulle pareti crema dell'aereo. Portavano amicizia, spensieratezza, serenità. Portavano quello che la gente trovava fastidioso nel momento in cui, troppo impegnata, provava a lavorare, oppure, stanca, si dedicava alla lettura o ad altro. Portavano umanità, a 11000 metri d'altezza, lontane dall'acqua, dalla Terra, da tutto ciò che in realtà era da sempre etichettato come umanità. E davano fastidio all'uomo, loro che erano umane.
Le due ragazze si concentrarono sullo schermo, ridacchiando e vociferando ogni due per tre.
“Comunque è evidente: questi due stanno insieme. Sono troppo... aaaaah, sono troppo!”
Andrea, con gli occhi brillanti, proseguì più o meno in questo modo per tutta la durata del film, ad annotare (e far notare) all'amica quanto fossero incredibilmente complementari Holmes e Watson e quanto un gesto, o un altro, lasciavano trasparire una certa intesa.
Nimhea, ridendo, si mostrava ascoltatrice attenta e ottima stanatrice di dettagli infinitesimali, che fecero perdere loro il senso del tempo, della lontananza, e di tutta la crudeltà che la vita normale comporta.

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