And What If You..?

di Melie Devour
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte prima. ***
Capitolo 2: *** Parte seconda. ***



Capitolo 1
*** Parte prima. ***


Questa è la mia seconda fan fiction, e la prima con Kurt Cobain come personaggio. È una storia di genere "What If", cosa sarebbe successo nei giorni precedenti al suo suicidio, Kurt avesse incontrato qualcuno che fosse stato in grado di capirlo. Mi scuso per eventuali inesattezze sui fatti o sul carattere di Kurt che ho cercato di immaginare ed esprimere al meglio.

Nota: Alease, traduzione alternativa di un misto tra "Alice" o "Elisa", si legge con la prima A simile ad una "e" molto aperta, la i lunga al posto dell'"ea", con accento sulla prima i, e la s di rosa, Elìiz.

 

Di nuovo, recensioni, critiche ed osservazioni sono più che apprezzate.

 

Uscii a corsa dal locale, e presi un po' d'aria fresca dopo tutto il fumo inalato. Aria fin troppo fresca, che al primo respiro sentii mille aghi forarmi i polmoni. Pensai "Come cazzo fa ad essere così freddo ad aprile?". Frettolosamente cercai di agganciare il fondo della zip della mia giacca. Era una giacca logora e in più era da uomo, perciò con la zip dalla parte opposta, e mi faceva confondere sempre. L'avevo comprata per pochi dollari in un negozio di roba usata al porto di Salmon Bay, a pochi passi da dove vivevo. Mi ero trasferita a Seattle cinque anni prima perchè mio padre ci aveva trovato lavoro. Un lavoro che durò due settimane, dopodichè venne licenziato perchè si presentava solo al bar sotto l'ufficio, a bere tutta la mattina. Mia madre, quella donna santa, diventava matta per tenere la sua casa in stato decente quando non era in giro a fare pulizie in quelle degli altri, e in più doveva fare i conti col marito, che nonostante l'amasse, amava di più l'alcool, e non avrebbe esitato a dar contro a chiunque si sarebbe messo tra di loro. Io da cinque mesi mi ero trasferita in una mansarda nel distretto portuale, ed avevo lavorato come fattorino delle pizze, come cameriera in un ristorante di periferia, alla cassa di un fast food, e nella cucina di una tavola calda lavando i piatti, alcuni di questi contemporaneamente. Fui costretta a smettere di frequentare la scuola tre mesi prima dei finali del 12thgrade, mandando in fumo un buon, fino a quel momento, curriculum scolastico. Ero stata ricontattata da qualche docente particolarmente sensibile alla mia situazione che proponeva finanziamenti per il proseguo degli studi, ma quello che serviva a me era tempo di lavorare, e non potei accettare. A casa con i miei c'erano ancora le mie due sorelle piccole, di 11 e 13 anni, alle cui spese d'istruzione provvedevo praticamente io, pagando tutto il materiale che lo stato non passava, oltre che l'iscrizione alla scuola. Mi piangeva il cuore quando ricevevo chiamate nel mezzo della notte della più piccola, Steffeny, che chiamava da sotto il tavolo della cucina piangendo, ed io sentivo le urla di mio padre in sottofondo. A noi figlie non aveva mai fatto del male, ma non ero sicura di poter dire lo stesso di mia madre.

Mi stavo già incamminando verso la via principale quando Ronald uscì dal locale e berciò il mio nome.

«Alease, ma dove vai?» Tirò una risatina pregna di alcool «Pensavo volessi un buon lavoro!»

«Fottiti, stronzo»

L'avevo conosciuto quel pomeriggio andando a trovare un'amica alla mia vecchia scuola, e lui mi aveva invitata ad un Irish Pub, The Dubliner, con la promessa di un buon posto di lavoro, che poi si era rivelato un posto da bartender con inclusi servizietti al proprietario ed eventuali clienti affezionati.

Sentii il rumore di una corsa dietro di me e allungai il passo. Cominciai a correre, ma lo feci troppo tardi. Il fiato puzzolente di Ronald mi scaldava la nuca.

«Mi sembravi una ragazza così disponib..» Una gomitata nelle costole gli tolse il fiato, e lui si piegò in avanti, lasciandomi andare. Potei sentirlo imprecare mentre correvo verso la fermata del pullman più vicina. Controllai più volte che non avesse deciso di inseguirmi, e un volta svoltato l'angolo, cercai di riprendere fiato. Dannazione, mi ripromisi di non accettare nessun'altra proposta da nessun uomo. Mi strusciai la spalla che quel bastardo mi aveva stretto con la mano destra, e mi avvicinai al ciglio di Aurora Avenue. Sulla destra c'era una fermata del pullman, 200 metri più in là. La paletta degli orari era stata mutilata da chissà quale ubriaco o drogato, non ero sicura fosse la linea giusta. Alzai gli occhi e scrutai intorno. Neanche un'anima per chiedere informazioni. Non c'era da sorprendersi, quella periferia sudicia non era un bel posto, figurarsi di notte.

Appoggiai la spalla al palo della fermata con le mani in tasca, e sospirai. Sentii la campanella della porta di un negozietto di alimentari 24h/24 suonare dietro di me. Quando mi voltai, nel buio vidi solo una persona avvolta in un impermeabile con cappuccio tirato su che se ne usciva abbracciando due buste di carta. Sembrava vacillare un po', ma una volta ristabilizzato si avvicinò a capo chino verso la fermata. Si sedette sulla panchina sotto la tettoia di plexiglas, accanto al cartellone pubblicitario. Non riuscivo a vedere niente sotto il cappuccio, non sapevo se fosse uomo o donna, magari un barbone, o un ubriaco. All'inizio esitai, ma la via era deserta e la situazione non sarebbe cambiata, mi decisi ad avvicinarmi. Mi sedetti un posto più in là dalla persona, e avvicinando la faccia al cappuccio dissi sottovoce «Mi scusi.» aspettai una qualsiasi reazione che non arrivò, e provai a continuare «Sa se per caso questo pullman arriva al porto?»

Allora la persona si voltò verso di me e con una mano si tirò un po' indietro il cappuccio sulla testa. Ne uscirono un paio di ciuffi biondi ed un viso bianco coperto di barba. Non avrei saputo dire l'età dell'uomo, ma aveva le palpebre cadenti, gli occhi sciupatissimi, gonfi e rossi, che col colore chiaro dell'iride facevano quasi sparire la pupilla. Per un attimo pensai che avrebbe tirato fuori un coltellino, mi avrebbe ucciso e preso il mio portafogli. Invece aggrottando le sopracciglia sembrò che cercasse di schiarirsi la vista. Sottovoce ripetei «Sa se questo pullman passa per il porto? Salmon Bay.» precisai. Lui prima guardò per terra, poi di nuovo me e farfugliò «Il porto.. Ehm, vediamo.. Sì, se vuoi fare il giro lungo.. Questo poi dovresti prendere la coincidenza e però non so aiutarti di più.» e con l'aria di chi sta soffrendo di emicrania si strusciò gli occhi con pollice ed indice della mano sinistra, e se ne tornò in catalessi. Ok, non avevo capito un'h di quel che aveva detto. Forse entro il passaggio del pullman sarebbe arrivato qualche altro passeggero a cui chiedere.

Mi raddrizzai a sedere e mi voltai di nuovo verso il vicolo dell'Irish pub, per controllare che nessuno mi tendesse un assalto. Si alzò una folata di vento e il freddo mi entrò dal collo fino alla schiena. Mi ritirai nella giacca fino al naso, tenendola stretta con le mani, che si stavano congelando. All'improvviso sentii qualcosa urtare contro il plexiglas, alla mia destra. Mi voltai, e l'uomo nell'impermeabile, stringendo le buste della spesa, era scivolato di lato ed aveva la testa appoggiata al cartellone pubblicitario. Aveva gli occhi chiusi, per un attimo pensai che stesse male, così mi avvicinai e gli posai una mano sulla spalla.

«Mi scusi, sta bene?»

 

  

Lui si scosse e il cappuccio gli scivolò indietro. Si risollevò diritto spingendosi con una mano, ma una delle buste cadde a terra. Sentii rumore di plastica rotta, e da sotto la busta uscì qualcosa di liquido. Pensai di avergli rotto una bottiglia di alcol, cavolo, sarebbe stato un guaio. Mi chinai per raccogliere la busta, da cui erano usciti un cartoccio di latte, un paio di barrette di cioccolato e tre sacchetti grandi di patatine salate. "Che razza di spesa è questa?" pensai. La busta di carta, impregnata di liquido, si era sfatta, e la bottiglia rotta era una bottiglia di succo d'arancia. La raccolsi e la gettai nel cestino lì accanto, dicendo «Cavolo, mi dispiace.»

Mi misi a raccogliere le altre cose, ma sentii di nuovo battere contro il plexiglas. Alzai lo sguardo. Era di nuovo appoggiato al cartellone. Occhi chiusi, naso rosso, bocca aperta. Ora che lo guardavo meglio, era più giovane di quanto avevo pensato, non avrà avuto più di trent'anni. Però quel viso l'avevo già visto da qualche parte. I suoi capelli biondi e lunghi mi erano familiari, ma non riuscivo a capire in che modo. Sembrava addormentato, non avevo voglia di far cadere anche l'altra busta. Posai i pacchetti di patatine, il latte e il cioccolato sulla panchina, ed entrai nel negozietto. Cercai negli scaffali il succo d'arancia che aveva comprato lui, e chiesi al cassiere una busta di carta grande.

Lui sembrava essersi destato e quando tornai alla fermata stava guardando i suoi oggetti sulla panchina in silenzio.

«Sono caduti quando ti ho chiamato. Sembrava che stessi male, scusami.» arrangiai velocemente, imbarazzata. Misi gli oggetti nella busta, mi sedetti e gliela porsi.

«Non dovevi. Sei stata gentile.» Non mi aspettavo che avrebbe parlato, e lo guardai. Guardava dentro la busta. Poi guardò il liquido per terra e di nuovo nella busta. Mi sorrise e con anche troppo entusiasmo disse «E mi hai anche comprato un altro succo!»

Non sapevo se essere inquietata o divertita. Decisamente divertita. Quello sguardo non aveva niente di cattivo, quell'uomo aveva gli occhi stanchi ma sinceri e buoni. Gli sorrisi, lui chinò di nuovo il capo in avanti, con aria sognante.

«Come ti chiami?» mi chiese, senza muovere lo sguardo.

«Io? Alease.» risposi non molto prontamente. Dopo qualche secondo aggiunsi «E tu?»

«Io?» mi scimmiottò bonariamente «Io Kurt.»

Kurt. Eppure quella faccia la conoscevo, ma il nome non mi aiutava a ricordare. All'improvviso Kurt si piegò un po' in avanti con espressione dolorante, in silenzio.

«Va tutto bene?» Gli chiesi, ormai sinceramente preoccupata che potesse svenirmi davanti da un momento all'altro.

A denti stretti sibilò un «Sì.» poco credibile.

Mi accorsi a malapena che davanti a noi il pullman vecchio e fumoso aveva aperto le porte. Mi alzai camminando verso i gradini, e mi accorsi che il ragazzo era ancora seduto a capo chino. "Mio dio, che ha che è così rincoglionito?" Sbottai all'autista «Aspetti un minuto, per favore.» con tono di supplica, e sgambettai velocemente verso quel cappotto gobbo e le sue buste di carta.

«Ma tu devi prendere il pullman o no?»

«Il pullman? È già qui?» Lui per un attimo si rinvenne «Certo che devo prenderlo.» Disse alzandosi in piedi stringendo le buste «Sennò perché avrei aspettato qui?» Lo disse in modo così spontaneo e logico che per un attimo mi fece sentire stupida. "Ma che cazzo, non era così ovvio che tu sapessi cosa stavi facendo!" pensiero che sfociò in un semplice «Eh sì, hai ragione». Lo vidi alzarsi e barcollare.

«L'altezza mi fa girare la testa, sai? Me lo faceva anche da bambino.» Ammise sorridendo lui. 

Io sinceramente non sapevo cosa dire. Da quelle labbra chiare circondate di barba bionda usciva una sorgente di candore capace di farti cadere le braccia. Gli presi una busta dalle mani e gli feci cenno con la testa di salire. Sul pullman c'era odore di tristezza e di gente persa. Pure i seggiolini piangevano di sporco. Io mi sedetti, Kurt rimase in piedi lì vicino con la busta tra le braccia, appoggiato solo con la schiena ad un divisorio di vetro. Mi metteva un senso d'ansia terribile, soggetto com'era ad addormentarsi all'improvviso. Avrei preferito vederlo seduto ben saldo.

«Dove devi scendere?» Gli chiesi.

«Ehm, tra tre fermate.. quattro.» parve pensieroso e buttò gli occhi al cielo, o meglio, al soffitto decadente del bus.

I cinque minuti seguenti li passai guardando quel volto che dovevo aver già visto in vita mia, svolgendo sforzi immani per ricordare. Lui oscillava senza che il pullman facesse curve, il che da un lato mi preoccupava, dall'altro m'ipnotizzava. Osservavo il suo bilico permanente.

Tenni il conto delle fermate «È questa la tua?»

Lui guardò fuori. «Sì.»

Mi alzai e gli porsi delicatamente la busta perché potesse prenderla pur garantendo al suo corpo un certo equilibrio. Ma lui non la prese. Le porte del bus si erano aperte, e il conducente ci guardava per capire che volessimo fare. Allora lui mi disse «Ti va di scendere qui? Potrei aver bisogno d'aiuto.»

Anche se sapevo fosse più che fondata, quella richiesta sembrava provenire da un molestatore/violentatore esperto. Ma lui non era nessuno dei due. Nell'ansia di dover pensare in fretta, decisi di scendere insieme a lui. E nel momento in cui decisi, ero già scesa comunque. La mia reazione aveva preceduto la decisione di qualche secondo. Lui camminava piano, diritto, con la sua spesa tra le mani, ed io lo seguii verso la scaletta di metallo di un motel. Lui si fermò davanti alla targhetta con su scritto 226 Marco Polo, e dalla tasca dei jeans estrasse una chiave. Con la stessa mano con cui teneva la chiave tastò il buco della serratura, e fece buca al primo colpo. Ero molto ammirata. La televisione berciava risultati di partite di baseball sola nella stanza. Lui posò la busta accanto ad essa, e continuò verso il bagno. La busta che tenevo in mano andò accanto all'altra. Non c'erano attaccapanni nei paraggi, così lasciai il cappotto steso sul letto a due piazze. Sentii l'acqua del lavandino aprirsi e scorrere per qualche minuto, poi sentii che Kurt mi chiamò.

«Vieni, Alease.» Quando mi affacciai nella stanzetta lui teneva le mani fisse sotto l'acqua, ancora con l'impermeabile addosso.

«Tutto ok?» Non capivo perché mi avesse chiamata.

«Vieni, puoi scaldarti le mani.» Era quasi scocciato che non capissi al volo. Per un attimo mi irrigidii. «No grazie, sto bene così.» e tornai di là. Mi sedetti sul fondo del letto con le mani tra le cosce per scaldarle, e mi chiesi perché mi trovassi lì. Lui intanto chiuse il rubinetto ed entrò nella stanza. Si fermò in piedi di fronte a me, ed alzai lo sguardo. Mi porgeva le mani col palmi verso l'alto. Temetti di non capire, feci un tentativo. Estrassi le mani dalle cosce e le feci fluttuare sulle sue. Lui me le chiuse a preghiera e le avvolse con le sua dita, calde e ancora un po' bagnate d'acqua. Le strusciò un paio di volte avanti e indietro e le lasciò, sorridendomi. «Meglio, vero?» Annuii, sorridendo un po' imbarazzata.

Si fece da parte e adagiò il suo impermeabile sopra alla mia giacca, sul letto. Tempo di fare un paio di passi verso il centro della stanza che si piegò in avanti con la bocca contratta. Si piegò fino ad appoggiare una mano sulla moquette sudicia, e ci si accasciò. Quell'uomo non stava per niente bene.

«Mi vuoi dire che cos'hai?»

«È l'effetto che mi fa essere stato triste per tanti anni» Disse con un gemito di dolore. Perché parlava a suon di rebus? Mi stava facendo impazzire. «Posso fare qualcosa?» 

Lui mi guardò in viso, e seriamente disse «Forse sì.» Aspettai che continuasse, e lui se ne accorse.

«Io però non so come.» Aggiunse come scrollandosi di dosso una responsabilità. Alzò la mano aperta, l'afferrai e lo aiutai ad issarsi sul bordo del letto.

«Tu perché sei venuta fin qui con me?» Mi chiese.

«Me lo hai chiesto tu.»

«Sì, lo so, ma intendo.. Tu non hai qualcuno.. a casa che ti aspetta? Voglio dire, un padre a cui non farebbe piacere saperti qui con.. me.»

Perché ha dovuto farmi questa domanda? Mi morsi un po' la lingua. «Mio padre ha altre preoccupazioni. Se hai paura che possa venire a cercarmi, allora stai tranquillo.» aggiunsi amaramente. «Non vivo più insieme a loro.»

«Perché?»

«Perché ho trovato lavoro un po' lontano da casa.» sbottai con sufficienza.

«Perciò non penso che tu vada ancora a scuola. E non penso che tu volessi lavorare invece che studiare.»

«Come fai a dirlo?»

«Perché nessuno lo vuole, a meno che non sia uno stupido. Tu non sei stupida.»

«Beh, c'hai preso. Lavoro perché le mie sorelle piccole possano continuare a studiare.»

«Loro sono ancora con i tuoi.» Non era una domanda.

«Sì.»

«Tuo padre vi ha mai fatto male?»

Mi si inumidirono gli occhi, e non risposi per non cominciare a piangere. Arricciai forte il naso per non farlo pizzicare così forte. Lui mi si fece vicino e con un fil di voce mi sussurrò «Ti va di chiamarli?»

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Capitolo 2
*** Parte seconda. ***


«Pronto?»

«Mamma? Sono io..»

«Alease! Amore come stai? È successo qualcosa?»

«No, no. Volevo solo sapere come stavate.»

«Noi.. sì, stiamo bene.»

«Papà è lì accanto, vero?»

«Sì.»

«Come stanno Stef e Rudi?»

«Stanno dormendo. Stanno bene. Ora va', non voglio farti spendere troppi soldi.»

«Non è un.. Ok, hai ragione. Dai un bacio alle piccole, ok? Ho preso loro una scatola di matite nuove, gli piaceranno»

«Ok tesoro. Buonanotte.»

 

Riattaccai la cornetta alla parete. Kurt mi guardava sorridente dal letto. Io avevo gli occhi pieni di lacrime, ma ero felice di aver parlato con mia madre, dopo almeno due mesi. Lo ringraziai con un soffio di voce. Mi avvicinai alle buste della spesa e ne estrassi un pacchetto di patatine al formaggio. Lo aprii e sedendomi accanto a lui, gliele offrii. «Come ti senti?»

«Molto bene» cinguettò lui.

«Posso farti una domanda?» Lui annuì con la bocca piena di patatine.

«Cosa ci fai qui?»

Mi guardò smettendo di masticare. «Qui in un motel sperduto con due sacchi della spesa pieni di patatine, succo di arancia e cioccolato? Voglio dire, non sembra una sistemazione permanente. Allora che ci fai qui? Non hai una casa?»

«Io ce l'ho una casa.» Rispose lui àtono, che nel frattempo aveva mandato giù l'immenso boccone. «È da quella casa, che scappo.»

«Dalla casa o da quello che contiene?»

«Da tutti e due, in verità.» Addentò un altro paio di patatine.

«E perché fuggi?»

Lui abbassò il capo, rattristito. «Perché ho paura. Perché la mia vita mi ha travolto e ormai scorre da sé. E stando qui riesco a scordarmene. E sto qui anche perché ho fatto scelte molto sbagliate nel mio passato, e sono anche un po' arrabbiato con la gente.» Aveva l'aria di chi non vuole dire una parola di più, e mi accontentai.

«Kurt?» Dissi, buttando giù un boccone a mia volta «Penso di averti già visto da qualche parte ma non so perché. Tu sai niente?»

Lui sorrise e mentì «No, mi spiace.» Feci spallucce, prima o poi mi sarebbe venuto in mente. 

Kurt emise un grido soffocato all'improvviso, stringendosi il petto tra le braccia, coi pugni serrati, facendomi trasalire. Mi tesi verso di lui, senza dire niente. Stette in quella posizione qualche secondo, poi ad occhi chiusi aprì le braccia e mi ci strinse dentro. Mi abbracciò posando la testa bionda sulla mia spalla, e mi sembrò di sentirgli pronunciare qualcosa.

«Tu non sei la gente con cui sono arrabbiato. Queste ore sarebbero terribili se tu non fossi qui.»

Rinunciai a scoprire cosa lo affliggesse, ma capii che era un'anima delicata, così sensibile che avrebbe potuto soffrire per qualsiasi cosa. «Secondo me dormire ti farebbe bene. Potresti provarci.» Tentai.

Lui sciolse l'abbraccio, e con aria desolata annuì appena. Raddrizzò la schiena, si alzò, e con immensa fatica afferrò l'orlo inferiore del maglione di lana che portava, facendolo scorrere verso l'alto. I capelli biondi furono spazzati in su dal passaggio del maglione sulla sua nuca, e ricaddero in basso subito dopo, scarruffati se possibile più di prima. Rimasto con addosso una canottiera di cotone, camminò verso un borsone smorto e mezzo vuoto in un angolo e fu in quel momento che notai l'incavo del suo gomito destro. La pelle era gialla e bluastra, quasi tumefatta. Ebbi una fitta allo stomaco terribile. Mi alzai di scatto e mi avvicinai a lui. Gli presi il braccio, speravo di aver visto male. Lo guardai negli occhi, non mi aspettavo che fosse un drogato. Lui mi guardò con aria triste e ritirò piano il braccio. Tenendo la mia mano con la sua.

«Kurt.» Non rispose, ma si sedette sul lato del letto. Continuai.

«Cos'è.. cocaina?» Chiesi incerta, non avevo certo esperienza in materia.

«Cocaina? Ma no, la cocaina.. È ero.» "Ero", eroina. Ovviamente non era cocaina, che si sniffava. L'eroina si inietta nelle vene.

«È per questo che stai male, perciò. Quant'è che non ti fai? Qualche giorno?»

«Cinque ore.» Ormai non penso si vergognasse neanche più di ammetterlo «Diciamo che sono in piena crisi di astinenza.»

«E quando passerà?» Chiedi speranzosa. Lui rise alla mia ingenuità.

«I dolori passeranno tra ore. Ma starò male per tanto altro tempo.» E subito finito il pronostico, pronunciando una specie di "ouch", si buttò indietro sdraiato sul letto, di fianco ai nostri giacchetti.

«Voglio dirti la verità.» Mi disse rivolto verso il soffitto «Se tu non fossi qui, sarei sicuramente già uscito a cercare uno spacciatore. E lo avrei trovato.» Fece pausa di riflessione per qualche secondo e continuò. «Ma devo fare gli onori di casa.» Altra pausa. «Dopo avermi visto così, però, non penso che ti avvicinerai mai al mondo della droga» Pausa. «Perciò non puoi dire che non ti abbia salvato la vita, stasera.»

Lo guardavo, ancora in piedi accanto al suo borsone. «Neanche tu puoi dirlo.» Lo feci ridere.

Frugai nel suo borsone e ne estrassi una t shirt di cotone. Gliela lanciai sul viso. Lui fece un molto realistico grido di dolore agitando le braccia, poi lasciandole accasciate aperte, muscoli rilassati. «Colpito.»

Davanti a me non c'era un drogato. C'era una persona che aveva sofferto troppo per gli altri e troppo poco per sè stesso. Alzai il pacchetto di patatine dal letto, lo chiusi, e con l'altra mano liberai il letto dalle briciole. Posai la busta appoggiata alla tv che ancora ciarlava. Decisi di metter fine alle sue pene e premetti il bottone sotto lo schermo, e lei, con un botto di elettrostaticità, si spense. Per la prima volta guardai bene intorno a me. Sul mobile intorno alla TV e alle buste c'erano effetti personali vari, come qualche spicciolo, le chiavi della stanza ed una cintura arrotolata. Su di uno dei due comodini c'era una bottiglia d'acqua semipiena, e nell'altro un quaderno, un paio di penne a sfera e dei fogli sparsi, tutti interamente scritti, fino ai bordi, in una calligrafia infantile e quasi con schema di brainstorming, più che una riga sotto l'altra, il tutto accompagnato da una miriade di disegni e schizzi. Decisi di non leggerli, a lui avrebbe potuto non far piacere. Lui, da quando aveva parlato l'ultima volta non si era più mosso. Mi avvicinai piano, e appoggiando un ginocchio sul letto, allungai la mano per togliergli il panno dal viso. Si era addormentato con la testa girata e le labbra leggermente dischiuse. Beh, dopotutto per quanto ne sapevo io poteva non aver dormito per giorni di fila.

Tornai nei pressi del borsone di Kurt, sopra il quale c'era la finestra che dava su Aurora Avenue. Era buio pesto e metà dei lampioni non andavano. L'orologio alle mie spalle segnava le tre e mezzo. Abbassai lo sguardo e cercai una maglia e dei pantaloni da notte, non ne trovai e neanche me ne sorpresi. Così estrassi una t-shirt enorme. Mi girai un'altra volta verso di lui, per esser certa che dormisse davvero, poi velocemente mi sfilai la mia felpa e mi infilai la t-shirt. Mi arrivava a metà coscia. Ci pensai un attimo su, poi feci spallucce e mi sfilai agilmente scarpe e pantaloni, che piegai insieme alla felpa.

 


 

Raccolsi i nostri giacchetti e li ammassai su una sedia di legno e paglia accanto alla porta, poi tirai le tende della finestra sporca, smorzando l'unica luce che proveniva dal parcheggio esterno del motel, più forte di quanto non avrebbe dovuto.

Gattonai sul letto e senza fare rumore mi rannicchiai di fianco a lui, che essendo sdraiato diagonalmente, mi precludeva non poco spazio. Mi addormentai non molto dopo.

 

Aprii leggermente gli occhi quando mi sentii chiamare da vicino.

«Alease. Alease?» Grugnii un verso che doveva significare "Oh, Kurt, sei sveglio, dimmi pure. È successo qualcosa?"

«Alease, ho paura»

«Di cosa, Kurt?» Doveva essere passata mezz'ora da quando mi ero addormentata.

«Ho paura di uscire.» Non capii, poi realizzai. Era inginocchiato sul letto accanto a me, aveva il giacchetto addosso. Voleva uscire a cercare dell'eroina. Ma si era fermato, e mi aveva svegliata. Mi tirai su a sedere, e senza dir nulla, infilai le dita tra il cotone che copriva le sue spalle e l'impermeabile, sfilandoglielo.

 


Con la mano destra afferrai l'orlo delle coperte e le tirai. Poi posai appena la mano intorno alla pelle del suo avambraccio e non ebbi da tirare, lui mi venne dietro da solo. Mi sdraiai di fianco, portandomi lui dietro. Finalmente potevo appoggiare la testa al cuscino. Lui si sfilò le scarpe con i piedi, ed entrò sotto il lenzuolo. Impacciato si stese a pancia in su, con ogni muscolo e nervo del corpo tesi, gli occhi spalancati. «Ho paura.» Sussurrò.

Allora mi feci vicina, con il braccio gli avvolsi il torace, e la mia gamba girò intorno ai suoi jeans. «Se te ne vai mi sveglio.» Avevo già gli occhi chiusi. Avvicinai la bocca al suo orecchio, e dissi con un filo di voce «Non svegliarmi.»

Lui si girò verso di me, il suo naso ad un centimetro dal mio. Già dormivo quando sognai un bacio leggero dato a fior di labbra.

 

Mi svegliai con la luce del sole e la fronte appoggiata alla sua barba. La mia gamba era ancora intorno alla sua, e il giacchetto in terra. Non era uscito. Sciolsi il braccio dal suo petto e lo portai sopra il suo viso, scostandogli un ciuffo di grano dalla fronte. Lui mosse appena gli occhi emettendo un flebile suono. Gli sussurrai «Come ti senti?» in un orecchio.

Lui si destò un momento, si contorse un po' nel letto e poi borbottò «Sto bene.»

Io ero felice. Per me quella notte e il fatto di essermi svegliata con lui ancora a fianco costituivano una piccola vittoria personale contro il male del mondo. Sfiorai con la mano la sua guancia, e lo portai a voltarsi dalla mia parte. Entrambi ancora con gli occhi chiusi, lo baciai. Rimasi con il suo labbro tra le mie per qualche secondo, poi lui si staccò e subito tornò indietro, stampando le sue labbra sulle mie. 

Forse fu in quel momento che lui decise che poteva valere la pena di vivere questa vita.

 


Grazie d'aver letto fin qui! I disegni li ho fatti io e aggiunti in corso d'opera, l'ultimo è solo un bozzetto ma mi piaceva e l'ho aggiunto!
Fammi sapere che ne pensi! :3
~ Melìe Devour

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