Anime per posta

di Jo Shepherd
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Erian Shubisky ***
Capitolo 2: *** Mara Emmon ***



Capitolo 1
*** Erian Shubisky ***


Erian Shubisky

 

Una nuvola d’uccelli scivolò dinnanzi al sole, la cui luce tremolò a intermittenza. Un gabbiano, sì separò dagli altri, e  si gettò in picchiata sulle acque del mar Stibe, fendendo l'aria che gli scompigliava le piume. Si drizzò in tempo, sfiorando con le zampe un’ onda; qualche goccia zampillò. Puntò una nave merci. La superò, con maestria: volteggiando fra l'albero maestro e le sue candide vele gonfie. S'abbassò ancora e rasentò la superficie del mare, disegnando spumose scie con la punta delle ali. S’issò e proiettò l’ombra su un paio di piccole barche e, dalla seconda, rubò un pesce che guizzò in aria sfuggendo alla presa del pescatore: l'acchiappò piegando appena la testa e lo tracanno con secchi colpi di collo.

Sfrecciò verso il porto, dove scomparve in una foresta di alberi, corde e vele; dai colori che sfumavano dal panna al cadmio. Si rovesciò ai piedi degli scalini di marmo che dal mare sorgevano solidi e appena impiastricciati da piccole e viscide alghe. Andò oltre la banchina zeppa di cittadini, per ripuntare in alto e sbucare sulla distesa infinita cremisi dei tetti. Volò dritto e a tutta velocità, mentre sotto i vicoli bui e le larghe vie principali, i canali e i rii si susseguivano labirintici.

Varcò i pennacchi di fuligine delle canne fumarie, roteò costeggiando campanili e torri che violavano la legge di tenersi ad un massimo di cinque piani per abitazione; evitava balconi ricchi di verde e finestre spalancate; ripiegò su una delle strade più larghe ed affollate dell'intera città; zigzagò fra i panni ancora umidi da poco stesi, che correvano fra le varie facciate. Stufo si volare, planò verso il mercato. Si preparò all'atterraggio: tirò fuori le zampe e stese le ali verso l'alto, smuovendo l’aria che scoppiò sorda, e le agitò con pochi battiti secchi e decisi. Affondò le zampe su un'asse di una delle tante bancarelle che occupavano ambo i lati del ciottolato. Il brusio delle voci dei cittadini, riversati in strada, mescolati alle urla dei vari venditori, erano poco piacevoli per l'amico volatile. Così, decise di andarsene, ma non prima di aver inzaccherato per bene un mal capitato: tirò fuori il posteriore, drizzò per bene le penne e fece fuoco, provando un immediato sollievo. Nel momento esatto in cui il passante sfortunato riversò verso il pennuto sentitissime imprecazioni, il gabbiano prese il volo, scomparendo nella volta limpida, lasciando qualche penna a volteggiare lì dove prima era.

 

Nessuno udì l'eco del trillo del campanello…

Il chiacchiericcio cessò, così come gli scalpitii. Non fiatava il più insignificante degli insetti. Il fiume di compratori, ormai più simili a statue inanimate, si aprì nel mezzo, accalcando tutti i cittadini ai lati della strada. Un rotolio, qualche cigolio ferroso e il fruscio di una catena proruppero in quel cimitero di suoni. Il ciclista sfrecciò fra la folla, ed una volta sorpassata, il trillo riverberò ancora: il fiume di folla si richiuse e i rumori della vita tornarono a infastidire chi affacciava su quella strada.

 

I suoi occhi tenevano sotto controllo la strada, riflessa nelle sue iridi lucide ed etero cromatiche. Seguivano l'itinerario che figurava ben distinto in mente.

Mancava poco ormai e non poteva permettersi il lusso di alcun ritardo, o sarebbe finito in tragedia. Ancora ricordava perfettamente quando gli capitò: l'emozione legata a quel momento era così tanta e così negativa che un gran senso di pesantezza e soffocamento gli attanagliò stomaco e petto. Socchiuse per qualche attimo gli occhi ed espirò a fondo.

- OHI! OHI! OHI!

Sobbalzò. Aprì gli occhi e vide il collega, parallelo a lui di un paio di metri, impaurito e impegnato nel tentare di riprendere il controllo della bici momentaneamente fuori controllo. Riuscitoci, guardò verso il collega.

- Erian!
     - Eh… scusami. Mi sono distratto un attimo.

Inizialmente titubante, il collega, alla fine, decise di accostarsi ad Erian.

- Ci vediamo dopo, al bar? Io ho ancora due consegne.

Erian esitò: - Uhm. E va bene. A me manca solo questa, poi chiudo per oggi.

- Perfetto, allora ci becchiamo fra mezz'ora, al bar. - Gli diede un leggero buffetto sulla spalla con la punta della coda vaporosa, che subito si sistemò alla base della schiena arricciandosi.

- Io giro di qui, e fa' attenzione a dove vai, che me la sono vista brutta… per entrambi. Ciaooo! -E ripiegò in un vicolo striminzito, dal quale si sentì trillare il campanello.

 

Giunto davanti una casetta un po' diroccata ai limiti della laguna, scese dalla bici e la portò con sé verso il piccolo giardinetto antistante all'entrata. La casa era piccola e quadrata, sommersa per tre quarti da piante rampicanti che gli donavano un aspetto selvaggio ma elegante. Grandi finestre rettangolari serrate da cornici di stucco bianco, aggraziavano l'aspetto esterno squarciando quel manto verde,

Si soffermò vicino la porta, dal legno umido e consunto; poggiò la bici alla parete in mattoni di terracotta e si adagiò la tracolla di canapa sulla spalla, dalla quale prese una busta di un bianco quasi accecante e pateticamente sottile; eccetto per un piccolo rigonfio nell'angolino in basso a sinistra.

Bussò tre volte alla porta e di rimando una voce maschile proruppe dal didentro. La porta si spalancò e colui che sembrava essere il padrone della casa, con occhi sgranati, accolse calorosamente l'arrivo di Erian, con un sorriso tanto grande da fargli vedere chiaramente anche la dentatura più interna.

- Oh! E’ giunto in tempo! Eravamo tutti tesissimi! L'aspettavamo con ansia… - prese la zampa di Erian fra le sue e le scosse con fermezza - non sa quanto sono stato in pensiero che... -

- Scusi... – Erian interruppe quella bocca nervosamente logorroica. - credo sia il caso di... - e gli fece intendere di farlo entrare gettando uno sguardo oltre lui.

- Oh, ma certo! Ma certo! Entri pure!

 

I sommessi rantoli di dolore fecero ben intendere a Erian dove doversi dirigere, ma il signore gli fece comunque strada. Sorpassarono un piccolo e rustico soggiorno e all'inizio di un breve corridoio, sulla sinistra, il padrone di casa esordì:- Mia moglie è lì dentro, nella camera da letto. -
Erian fece un piccolo cenno d'assenso e si diresse immediatamente verso la stanza della signora. Entrato, vide due domestiche accerchiare il letto.

- ... Finalmente! – Disse una domestica, e tutte rilassarono il volto alla vista di Erian, che non si fece pregare: subito si inginocchiò ai piedi del letto. Le domestiche si fecero da parte e Erian pose la busta alla padrona di casa. Quest'ultima la prese senza fare complimenti e si impegnò a possederne in fretta il contenuto.

Ad Erian, nel frattempo, venne spontaneo percorrere con gli occhi la piccola collina nel bel centro del letto, che si mosse per un sussulto di gioia della signora. Erian la guardò in volto, smunto e provato, ma raggiante per la contentezza. Quest'ultima, ricambiò l'occhiata di Erian e sussurrò un sentito: - Ti ringrazio; davvero tanto! - E abbellì quella frase uscitale dal cuore con un sorriso degno di far parte di un eterno dipinto.

- Padrona, la prego ce lo faccia vedere!

La signora non si fece scongiurare oltremodo, e aprì delicatamente le zampe mostrando ciò che stringeva gelosamente: un piccolo e sottile cristallo emettente luce propria.

- Oh, è bellissima mia signora!

- Sarà una creatura senza eguali!

- Certamente! - Esclamò fra minuti singulti il marito, che se ne stava poggiato all'uscio tentando inutilmente di trattenere lacrime felici.
Un forte urlo di dolore dissolse la confortevole atmosfera generatasi. Il piccolo cristallo svanì, con un lampo abbagliante e un sottile sibilo. Le domestiche ripresero posto attorno al letto ed Erian si distanziò tanto da sbattere contro il comò, dal qual cadde in terra un vaso che si frantumò in mille cocci. Il padrone di casa si gettò anch'egli accanto alla moglie, stringendole le zampe ormai vuote.

- Spinga mia signora; SPINGA!

Un altro urlo straziante squarciò l'aria. Erian scappò dalla stanza, infastidito da quei suoni troppo violenti per le sue orecchie. Si precipitò verso l'esterno chiudendo subito la porta dietro di sé.
Prese la bici e, poco prima di varcare la soglia della staccionata bianca, forti vagiti gli stuzzicarono le orecchie che guizzarono in un’unica direzione dietro di sé: ascoltò anche risate e commenti di giubilo.

Ad Erian venne da sorridere, scoprendo le zanne, soddisfatto del buon lavoro fatto. Si massaggiò il collo avvolto dalla folta pelliccia che gli ricopriva l'intero corpo: bianca sul davanti, dal muso al petto e giù fino alle zampe posteriori; e rossastra, da sopra le arcate sopraccigliari, toccando l'estremità delle orecchie fino alla punta della coda arricciata.

- È una femmina! - Urlò contento il padrone di casa. E su quel commento, Erian montò sulla bici e se ne tornò verso la città lagunare.

 

Fra i tanti bar del quartiere Nettuno, ce n’era uno assai ben voluto dai residenti della zona. Era una costruzione circolare e a due piani; l'unico edificio a poggiare le fondamenta su di un isolotto tutto per sé, nel bel centro di un rio, le cui acque formavano non pochi mulinelli sotto i suoi sei ponti. Le finestre erano a nastro e correvano lungo tutto il perimetro, incastonate in telai in legno di noce. Il tetto era conico, con tegole azzurre, terminante con sei canne fumarie che spruzzavano continuamente fumo e cenere nell'aria. L'intera struttura era circondata da palazzi più alti di ben tre piani capaci di eclissare il tramonto alle loro spalle, soffocando tutto il cortile con fredde ombre. Le finestre, quindi, brillavano di una vivida, ammaliante e calda luce, che invogliava chiunque ad entrare per farsi un goccio e riscaldarsi; e, su ognuna di essere, v’era dipinto il nome del bar, perfettamente leggibile, in una calligrafia sinuosa ed elegante, animata dalle figure dei numerosi clienti che occupavano i tavoli interni.

 

Il bar (“Tazza di latte”, si chiamava) era molto rinomato, sia per l'ottimo cappuccino che per la celeberrima accoglienza familiare dei proprietari; fra tutti, il figlio del proprietario, che instaurava quanti più rapporti d’amicizia possibili. Alcuni lo canzonavano alle spalle facendo invece buon viso alla sua presenza garantendosi favori e magari sconti. Altri, ci stringevano volentieri amicizia; ci si trovava facilmente della simpatia in lui: Erian era uno di questi ultimi.

 

Questo, quando arrivò al Tazza di latte, il viavai era quasi interminabile. Approfittò degli ultimi uscenti per entrare; seppur quasi strisciando. Cercò per tutta la sala, colma di gente che beveva, mangiava, fumava e chiacchierava, l'amico Emme, ma il figlio del proprietario lo intercettò prima:

- Erian!

- Ciao Pire! 
Pire Ceiane era un tipetto molto caloroso e per lui la stretta di mano era decisamente da evitare, da preferirsi un forte abbraccio. Così, cinse Erian, che ricambiò senza trattenersi troppo, ormai abituato ai modi di fare dell'amico. Pire lo fece affondare nella sua mole: era di almeno dieci centimetri più alto e il suo manto lungo e bianco quasi lo soffocava.

- Sono giorni che non ci vediamo. - continuò Pire, lasciando la presa – Ti stavamo dando per disperso! -

- No, è che ho avuto un po' da fare; c'è stato un bel boom di nascite in questa settimana. La gente deve aver passato un periodo di grande noia qualche mese fa. Eh, eh, eh.

- Ah, ah, ah...

- … Senti, hai visto Emme?

- No, starà per arrivare.

- Pire! - Qualcuno urlò riuscendo a sovrastare il baccano. Pire si girò verso il bancone, dove stava un signore simile a lui, ma ben più vecchio, che finì di riempire un vassoio colmo di pinte.

- Le ordinazioni! – aggiunse ancora questo.

- Subito! Erian devo andare. Ah, va' di sopra, lì c'è ancora posto. Ci vediamo dopo.

- Va bene, a dopo.

- Ti mando su Emme appena lo vedo.

 

Erian terminò la sua terza tazza di cappuccino, quando finalmente Emme arrivò. Ancora affannato si sedette di peso, di fronte Erian, sulla poltroncina attaccata alla finestra che affacciava sul cortile, ora illusoriamente scomparso nel buio ma rischiarato in pochi punti dai lampioni in ferro battuto e dalle finestre delle case attornianti.

- E' andato tutto a buon fine? - Chiese Erian, con una nota di agitazione.

- Tranquillo tutto bene, mi sono solo fermato a parlare con un nostro collega. Gino. Lo ricordi?

Erian s’accigliò con visibile sforzo. Così Emme aggiunse: - Quello basso e tozzo, col muso schiacciato e i denti di fuori... ha una grossa macchia sotto il collo… se può definirsi un collo quello!

- Non lo ricordo, ma vieni al punto.

- Be', hanno... Ah! Per me un tè ghiacciato... - una cameriera appena apparsa prese nota dell'ordine, - Grazie!

- Grazie a te.  

- Oh, allora? – Disse Erian.

- Ah, sì, scusa, niente...

- Come niente?

- In pratica, l'affiliato di un Collezionista gli ha rubato ben tre lettere.

Erian, stupito, spruzzò cioccolata calda un po' ovunque.

- TRE LETTERE? - Quasi urlò.

-... … … grazie per il bagno! - Emme si passò la zampa sul muso, tirato da una smorfia di disgusto.

- Ma com'è possibile?

- Anche se più che “affiliato” lo chiamerei “fottuto imbecille”. Per non parlare del suo padrone poi.

- Spero vada a fare rapporto.

- Certo che sì! Oh! Grazie! - La cameriera gli porse il tè freddo. Emme, però, guardò con un certo sconforto l'assenza di cibo. - Potresti portarmi degli stuzzichini?

La cameriera sbuffò vigorosamente. - Okay, aspetta.

- Pff, che modi; se non le piace questo lavoro che lo cambi!

- Forse è l'unico che ha trovato. - Erian bevve l'ultimo sorso di cappuccino, vuotando la terza tazza, - Comunque, spero che facciano qualcosa, perché non possiamo andare tranquillamente avanti sapendo di questi furti che continuano ad aumentare; soprattutto io! Mi mettono un'ansia! -

- Vero, vero. - Emme tintinnò volutamente il cucchiaino rubato da Erian sul vetro del bicchiere, girando, inutilmente, il tè che rovinò per alcuni rimasugli di spuma di cappuccino attaccata. Ma non parve fregarsene. Girare una qualsiasi posata in una qualsiasi bevanda era una cosa che lo rilassava, o almeno così diceva per giustificarsi quando Erian lo riprendeva.

- Solo questo dovevi dirmi Emme? - Erian si massaggiò le tempie. - Stanotte non chiuderò occhio.

- Per il momento non abbiamo altro lavoro, e magari sarà così per giorni se non settimane; quindi, non impaurirti per niente: troveranno qualche modo per garantire la riuscita del lavoro in questo arco di tempo. Vedrai.

- Speriamo. - Concluse, portando alla bocca la tazza; ma, resosi conto di aver finito il cappuccino la rimise sul tavolo con un certo dispiacere.

- Ecco a te! - La cameriera portò un piatto pieno di rustici e pasticcini vari.

- Oh, grazie mille!  

- Ma figurati!

Emme si perse nel vedere i fianchi ondeggianti della cameriera che si allontanava.

- A proposito, stasera devi lasciarmi la stanza, Howa viene a trovarmi.

- CHE? Ancora?

- Lo so, lo so, dovevo avvisarti prima, ma stamattina sei uscito presto.

- Certo, ora la colpa è mia. Potevi lasciare almeno un biglietto.

- Dai amico; non lasciare che due amanti rimangano lontani! - Emme premette sull'empatia di Erian, guardandolo con espressione sofferente.

- ... Ti lascerò la stanza.

- SI'! Dai finiamo. Che tra un'oretta dovrebbe arrivare.

- Che? Ma la stanza è un casino.

- Tranquillo, ormai lo sa che siamo dei porci. Non ci baderà.

- Ah, figurati, se lo dici tu. Non può farmi che piacere questa cosa, eh, eh, eh...

 

Mentre Emme si affrettava a riordinare la stanza il più velocemente possibile, Erian afferrò la sua chitarra e se la infilo sulle spalle.

- Dove vai? - Lo fermò Emme, con occhi strabuzzati e iniettati d’ansia e terrore.

Erian accentuò, in modo teatrale, la sua espressione stupita per l'ovvietà del suo gesto: - Ma come? ti lascio stanza libera. – aggiunse un sorrisetto sornione.

- Dammi una mano a mettere in ordine. Ti prego!

Ad Erian venne da ridere. - Un favore al giorno, Malamute!

- Non chiamarmi così!

- Ciao ragazzi! – Howa proruppe sulla soglia.

Erian sobbalzò per l'inaspettato arrivo; sperava di svignarsela prima di poterla vedere. Preso in contropiede, non seppe che fare e la sua goffaggine, accentuata dall’imbarazzo, lo condusse fuori quasi incespicando nei suoi passi. Tenne lo sguardo basso: - Ciao... Ragazzi, vi lascio. - E se la svignò lungo il corridoio.

- Ammooooreeee... - Urlò gaio Emme.

 

Il tetto era sempre stato uno dei posti preferiti da Erian: la sua pendenza gli dava anche modo di stendersi sulle tegole, poggiandosi e ancorandosi in tutta sicurezza alla canna fumaria che sbucava qualche centimetro più giù.

Steso, e con gli occhi persi nel cielo notturno, suonò le prime note lente. La notte era una meraviglia con quel cielo pieno di stelle; e anche se il profilo del pianeta Marasme ed i suoi anelli catturavano lo sguardo all'istante, Erian si allungava anche oltre.

Pizzicando corda dopo corda, si lasciava trasportare dalla calma del mondo in ombra. A quell'ora, anche il più grande e affollato degli spazi poteva dare la sensazione di ritrovarsi in una stanza piccolissima, ma sufficientemente grande a ospitare il piccolo mondo di un animo buono e introverso. Tutte le preoccupazioni volavano via su ali eteree, donando conforto e pace a chi chiedeva. Questo era il potere della musica, accentuato dalle corde di uno strumento che sembrava calmo per natura.

 

Le note evanescenti ancora si perdevano nel nulla, mentre lui faceva altrettanto nel mondo dei sogni... 

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Capitolo 2
*** Mara Emmon ***


Mara Emmon

 

Un fumo bianco si levava più maestoso di tutti gli altri nel quartiere. Sbucava dal comignolo della famiglia Emmon. Un alto fuoco si consumava nel grande camino del salotto: era di marmo bianco, decorato con motivi floreali e ghirigori vari che gli davano movimento e sinuosità. La sua bocca era tanto alta e ampia che il padrone di casa, il Signor Marc F. Emmon, noto in città sia per la sua ricchezza da mercante d'arte che per la sua grande mole, poteva appagare l'infantile sfizio di farci quattro passi dentro (a fuoco spento ovviamente) e di alzare il muso verso i fori del comignolo con la vana speranza si vedesse il cielo. A fine cena lo rasserenava consumare un buon bicchiere di vino rosso davanti allo scoppiettio dei ceppi di faggio che lentamente si incenerivano, gettando occhiate e sorrisi alla moglie che si divertiva giocando con i due gemellini nati da pochi mesi sul tappeto morbido e minuziosamente lavorato da mani orientali.

Fuori dalla stanza, si stava allontanando nel corridoio la loro primogenita, Mara, che lamentando una leggera emicrania si congedò in camera sua. La giovane sfoggiava una certa beltà, e molti pretendenti, da lei ignorati, sognavano di convolare a nozze; “soprattutto per mettere mano al patrimonio di papà”, pensava spesso fra sé e sé stizzendosi un bel po’. Alcuni di loro non si sforzavano nemmeno di celare tale intenzione. “Almeno sono sinceri...”, aggiungeva.

Aprì la finestra-balcone e si sedette su una piccola sedia in ottone, stendendosi alla meglio e allungando le zampe posteriori fino a poggiarle sulla ringhiera; posa sulla quale la madre avrebbe avuto da ridire. Un urlo improvviso la fece sussultare: qualcuno dal palazzo adiacente aveva urlato: “ammoreee!”. Interdetta si chiese chi mai fosse un tale imbecille. Il cuore le andava ancora a mille per lo spavento.

S'assopì non volendo e lì e in quel modo stette per decine di minuti, sino a quando serene note le stuzzicarono l'udito, rianimandola. Già altre volte le capitò di sentirle, tanto che era quasi convinta di averne capito la provenienza: sul tetto del palazzo di fronte, appena un piano più in alto del suo appartamento. S'alzò e si sporse d’istinto il più possibile verso l'alto ma, ovviamente, non vide un bel nulla. Subito corse dentro casa, non sopportava più di non soddisfare la sua curiosità: voleva portarsi sul terrazzo che di ben tre piani sovrastava quello di fronte: avrebbe sicuramente visto in volto colui o colei che faceva bella musica.

Girò il pomello dorato e la serratura del grande ingresso scattò, quando la madre la riprese:

- Mara! 

- Sì, madre? – sbuffò.

- Dove credi di andare?

Esitò nel risponderle. Cosa era meglio fare? Correre sulle scale il più in fretta possibile? Dire di voler prendere un po' d'aria? No, poco importavano il dove, il come e il perché; la madre le avrebbe fatto chiudere la porta a prescindere. Quindi: - Sul tetto.

La Signora Emmon rimase sbigottita e si portò una mano alla gola, come se sua figlia le avesse detto di voler abbandonare baracca e burattini e di unirsi al circo straniero che già da un paio di giorni era fisso in città, intraprendendo così una carriera da domatrice di belve selvagge.

- E a fare cosa? No, lasciamo perdere... - s'avvicinò alla figlia alla svelta, con lo scalpitio dei  tacchi che a Mara dava una certa ansia. - Bambina mia... -, continuò, facendo mollare la presa a Mara e chiudendo subito la porta con forza. Il padre fece capolino dalla soglia del salotto.

- Tu non andrai da nessuna parte, a quest'ora! E con questa umidità! Il cielo non voglia, ma potresti cadere malata.

- Va bene madre, non importa. Basta che non attacchi con la tua solita tiritera!

Le due si guardarono negli occhi per qualche istante, solo il ticchettio dell'orologio a pendolo nel corridoio impediva al silenzio di regnare. Entrambe risero cercando di trattenersi; la madre più di Mara.

Vista la situazione sotto controllo, con un inarcamento di sopracciglio destro, il padre tornò al suo posto.

- Forza tesoro; domani, con un bel sole magari, ci andrai se è così importante. 
“Certo!” pensò Mara, “Peccato che chi suona lo faccia solo di notte e fin troppo di rado.”

- Ora, fila a letto che dobbiamo alzarci di buon mattino.

- Ah, ma devo proprio venirci?

La madre prese a spintonarla verso la sua stanza. - Tesoro, - bisbigliò, - se non fosse il figlio del sindaco ti direi anche di rimanere a casa ed evitarti questa tortura di matrimonio.

- E va bene, ma lo faccio solo per papà, ehm, cioè, mio padre. - Imitò il basso tono della madre, e questa rise, ma più per la sua correzione, e le diede un buffetto sulla guancia.

- Brava.

 

Corse lungo le scale cercando di raggiungere il prima possibile il terrazzo, mentre in lei albergava una certa sicurezza nata dal fatto che i suoi genitori non l'avrebbero né scoperta né rimproverata in quanto se ne stavano beati a ronfare fra le grandi, calde e pesanti lenzuola: si sentì in una botte di metallo insomma. Spalancò la porta in ferro che cigolò e s'affacciò sul lato nord-est, dove avrebbe potuto vedere il misterioso o la misteriosa musicista.

La melodia continuò ancora per qualche minuto, ma il problema fu che non vide proprio nessuno su quelle tegole. Che in realtà le note provenissero da dentro il palazzo?

Delusa e sconsolata ripiegò nel suo appartamento, cercando di fare ciò che la madre le consigliò caldamente: dormire. Domani l'avrebbe aspettata una giornata piena di buone maniere e falsi perbenismi, non poteva far sminuire la figura del padre. Avrebbe dovuto indossare la sua migliore maschera.

 

Le vie principali erano tutte addobbate a festa: enormi bandiere porpora con lo stemma di famiglia in bianco sventolavano maestose; anche la facciata slanciata e finemente decorata della chiesa era rivestita da panneggi di seta, di colore sempre porpora, che dalle guglie laterali scendevano dritte fino a rivestire la scalinata, ricoprendo buona parte della struttura fatta di: statue, colonnati e volte. A cerimonia conclusa, si diressero tutti verso Villa Ondina, per il rinfresco, percorrendo la banchina tutta adornata dai ripetitivi stendardi, che scendevano liberi fino a svanire dentro l'acqua verdastra del canale. Il pranzo si consumò nella veranda esterna della villa, posta sulla terrazza che affacciava sul canale, al limite dell’immenso giardino opulento. La veranda era una struttura in legno bianco e vetro. Anche qui, metri di stoffa porpora erano stati sfruttati sottoforma di tende, nastri e gigantesche coccarde filamentose, sia dentro che fuori la struttura. Il banchetto fu tremendamente abbondante; le portate erano tutte accompagnate da pompose coreografie da parte dei camerieri e i musicisti non smettevano un solo attimo di fare musica d'ogni genere, seguiti da bravi coristi.

 

Dopo aver assaporato un delizioso sorbetto al limone, che le sigillò definitivamente lo stomaco, Mara chiese gentilmente al padre il permesso di potersi alzare da tavola per fare quattro passi; quest'ultimo acconsentì senza troppa resistenza, con un sorriso benevolo; Mara gli mise una mano sulla spalla e si chinò a baciarlo sulla guancia.

Passò dinnanzi al tavolo degli sposi, dove sedevano sia l’intera famiglia del sindaco sia la famiglia della sposa, e salutò con garbo e grazia tutto il quadretto. Il neo-sposo le lanciò un'occhiata palesemente lasciva, un po' proibita per la parte che ora vestiva; Mara fece finta di nulla e sorrise maliziosamente anche alla sposa, come per dirle: - Povera te!

Lasciò la grande veranda bianca uscendo per un cancelletto esterno che dava proprio sulla banchina privata della villa. Era collegata a quella pubblica, ma una recinzione in ferro ricoperta di rampicanti e un alto cancello del medesimo metallo in fondo ne delimitavano i confini. Quasi ai confini con quel cancello, c’era un porticciolo in legno, che si diramava anche oltre il limite della proprietà, zeppo di piccole barche attraccate. Su alcune di esse qualche pescatore ancora sistemava le reti, mentre il compagno portava i barili pieni di pesce sulla terra ferma. Forse facevano parte dello staff.

 

Finalmente all'aria aperta e sola. Gioiva ad ogni passo di quella momentanea libertà, fingendo di gettare a mare la maschera scelta quel giorno. Mentre la musica s'affievoliva alle sue spalle, camminando quasi a passo di danza sulla banchina, sfiorava con le dita la stoffa degli stendardi che accennava appena dei movimenti. Molti curiosi si accalcarono con le barche a una ventina di metri dal porticciolo e tutt’intorno alla veranda sulla terrazza. A Mara parvero solo tanti sciocchi.

Scese i pochi scalini di marmo bianco che svanivano fra i flutti e, tirando appena la tela di uno stendardo sotto il sedere, vi si sedette su; immerse le zampe posteriori nell'acqua gelida e si rilassò. Si imbambolò sulle prue ondeggianti, perdendosi totalmente in quell'andare su e giù.

 

Improvvisamente, le sembrò di avere un’illuminazione, le venne un'idea, a cui più e più si meravigliò di non averci pensato prima. S'alzò e diresse sul piccolo pontile. Sottopose a rassegna ogni imbarcazione legata ai corrispettivi pali; ad ogni passo era sempre più convinta dell'illuminazione ricevuta: possedere una barca tutta per sé le avrebbe dato un senso di libertà, in più le avrebbe donato una pacifica solitudine laddove ne avesse avuto bisogno, e poi, poteva godere in silenzio dello sconfinata linea azzurra dell'orizzonte e colmare così la sua voglia di perdersi in grandi spazi aperti; tutta da sola… o magari con un buon libro. Ma il padre avrebbe mai accettato? Sperava ardentemente di sì.

 

Uno scricchiolio la destò dal suo fantasticare; capendo subito di cosa si trattava indietreggiò con cautela, ma una crepa si estese sulle assi sotto le sue zampe fino a squarciarsi del tutto facendo precipitare la giovane fra le onde. Scomparve fra esse.

La ragazza, del tutto impaurita per via della sua incapacità di nuotare, rimase per qualche secondo sul fondo, intrappolata in una soffocante quanto opprimente gabbia d'acqua, che mai come allora parve densa e malvagia. Ma con una spinta involontaria e provvidenziale riuscì a salire a galla e a tentare di tenersi in superficie annaspando con forza. Per quel po’ che vide, era riemersa lontano dal porticciolo, e troppo dagli scalini. Lanciò un grido disperato. Sentiva le energie consumarsi alla svelta. Era ormai stanca e senza forze. I polmoni erano esausti e sempre più acqua minacciava di invaderli

Un tonfo le gettò acqua sul viso che bevve inevitabilmente bruciandole la gola. Presa dal terrore e dai tremendi colpi di tosse che le facevano mancare quel po' di respiro involontariamente recuperato, finì ancora una volta sotto e li rimase fino a che una salda presa la cinse alla vita e spintonò verso l'alto.

- Ah! s-smettila di... ah-agitarti o affogheremo tu.. tutti e due!

Lottando contro il suo istinto fece, nel migliore dei modi, come suggerito da una voce rauca. Sentì la schiena avvolta dal corpo di qualcuno, e una presa salda mantenerla a galla; cosa che le diede un minimo di conforto. Avvertendosi ben sostenuta si rilassò e, fra gli ansimi e gli sforzi muscolari del suo salvatore, in men che non si dica si ritrovò ai piedi della banchina, dove si aggrappò al primo degli scalini boccheggiando.

- Respira, respira... - La rassicurò il suo eroe con piccoli massaggi sulla schiena.

Saziatasi d'aria, guardò in volto all'estraneo. La sua razza era fra le più famose e note per la loro spiccata eleganza ed intelligenza: il colore nero, del muso affusolato, sfumava fino a cingere i piccoli occhi dorati; il pelo ocra su fronte e guance gli donava più rotondità, seppur zuppo d'acqua; le orecchie lunghe e appuntite si tenevano ritte, a sottolineare l'attenzione per la giovane. Mara distolse lo sguardo da quella faccia appena s'accorse che una certa folla, fatta di apprensivi e normali curiosi al sicuro sulle loro imbarcazioni, si era creata attorno a loro. Anche dietro di loro c’era della gente. Fu allora che Mara s’accorse di ritrovarsi sulla banchina pubblica: alla sua sinistra c’era il cancello della banchina privata a un paio di metri da lei. Facevano tutti delle domande a raffica, molte rese indistinte dal forte chiacchiericcio. Nessuno dei due prestò orecchio a qualcuno.

- Ce la fai ad alzarti?

Mara ancora si perse in quel timbro adulto e grave, seppure fisicamente le sembrava non più vecchio di trent'anni. Scrollò le spalle e finalmente si rimise in piedi, tremolante, ma non proferì parola.

- Anche se non sai parlare... -, le sorrise, - l'importante è che tu stia bene, e sembra di sì. Anche se stai tremando. Tieni! - E si girò per afferrare il mantello aggrovigliato sullo scalino più in alto, gettato dal salvatore poco prima di correre sul pontile e tuffarsi in mare. Lo avvolse sulle spalle di Mara.

- E' pesante ma anche bello asciutto. – Disse l’estraneo.  Non c'era bisogno del mantello, perché la ragazza già divampava per l'imbarazzo procurato dalle attenzioni dello sconosciuto. In quel momento i rintocchi di un campanile vicino riverberarono. Il salvatore di Mara, come se si fosse appena ricordato di un importante impegno, sì fece cupo e si voltò fulmineo, allontanandosi dalla banchina come nulla fosse accaduto, svanendo fra il piccolo capannello di gente che si aprì per lasciarlo passare. Solo quando anche la folla si dissolse, ignorandola completamente, Mara si riprese del tutto. Solo un’anziana signora le si avvicinò, e le chiese come si sentisse. Fu per le gentili parole della signora che si ricordò di aver appena sfiorato la morte per annegamento.

 

- No, no, e ancora no! - Fece perentorio il padre, andando avanti e indietro di fronte l'imponente bocca del camino proiettante una calda luce per tutto il salotto e allungando le ombre danzanti di mobili e presenti. Mara abbassò la testa, con un certo sconforto; la madre, che assistette in silenzio al battibecco fra i due, limitandosi a guardare prima una poi l'altro e viceversa, si decise a parlare:

- Cari miei... - iniziò la Signora di casa, contendendosi il posto del marito per essere bene in vista - credo abbiate ragione entrambi. Tu... - indicò la figlia - hai tutto il diritto di realizzare un piccolo progetto, ma concordo anche con tuo padre. Nello scoprire, per bocca di sconosciuti per giunta, che oggi stavamo per perderti proprio per annegamento... oh... - gli occhi le divennero lucidi - … è, è difficile accettare questo tuo voler possedere una barca. Non ci farebbe stare tranquilli.

- Oh, finalmente qualcuno che ragiona.- incalzò il marito - Ben detto Giorgia!  

Mara s'illuminò improvvisamente in volto e s'alzò dalla poltrona, proponendo: - E se prendessi lezioni di nuoto?

- Cosa? - sbottò il padre.

- Era esattamente qui che volevo arrivare.- Disse la madre. - Magari se imparassi a nuotare, tuo padre, - si guardarono in viso - ti lascerà prendere la licenza, ed entrambi saremmo più tranquilli.

Dopo qualche momento di silenzio, Mara richiamò il padre: - Papà, che dici?  
Quest'ultimo sbuffò un paio di volte e non staccò gli occhi dalla punta delle scarpe.

- Chi tace acconsente! - Esclamarono madre e figlia all'unisono.

- Tu prendi lezioni di nuoto. Poi vedremo se è il caso o meno.- Disse la sua il padre, mentre si diresse fuori dalla stanza. - E comunque... - si bloccò sulla porta - è Padre! - E così il Signor Emmon uscì di scena a grandi falcate. Mara rise di quell'ultima affermazione. - Va bene! - Era un po' burbero in certi momenti, ma in realtà le signore di casa sapevano perfettamente che in lui si celava un gran tenerone.

- E vediamo di rintracciare colui che con tanta generosità ti ha dato il suo mantello, e con tanto coraggio ti ha salvato la vita! - Suggerì la madre raccogliendo l'indumento, che analizzò. - Oh, molto pregiata come stoffa. Sentì com'è morbida! E guarda com'è accuratamente ricamata. Un magnifico lavoro di sartoria. –

Mara annuì, serena.

 

Una settimana dopo, la giovane diede inizio alle sue lezioni, lottando contro la paura. Due mesi dopo, una volta aver dato dimostrazione pratica al padre che davvero riusciva a galleggiare perfettamente sull'acqua, ce la fece, non senza qualche ulteriore sforzo, a convincerlo a farle prendere la licenza per poter tenere una piccola imbarcazione.

Studiò per un mese e mezzo, dopo il quale, nonostante sventolò dinnanzi la faccia del padre la carta che attestava le dovute conoscenze nautiche, perfettamente riconosciuta dalla legge, questo titubò ancora nel volerle realizzar il desiderio. La madre, intercedendo, riuscì a convincerlo e, tempo un paio di settimane, si ritrovò una piccola imbarcazione sullo striminzito pontile alle spalle del proprio palazzo.

Con grande gioia diede i primi colpi di remi davanti lo sguardo vigile del padre e della madre che dal pontile la vedevano prendere il largo. Il Signor Emmon non comprò una barca troppo sfarzosa, si tenne sul semplice per non dare nell'occhio dei mal intenzionati; fece solo aggiungere a poppa una semplice poltroncina sulla quale era possibile aprire un piccolo ombrellone arancio; perfetto per le letture in mare aperto della figlia.

 

Da due settimane possedeva il suo mezzo per la libertà e la solitudine, e per ben cinque volte ne fece già uso quando un pomeriggio, uscendo di nascosto ad insaputa del padre che acconsentiva a far andare in barca la figlia solo entro le quattro del pomeriggio, dirigendosi verso il pontile, sentì delle note familiari provenire da esso. Si fermò, sorpresa per il suo riuscire a riconoscerle e soprattutto lo stare lì a sentirle ancora una volta: era da tanto che non succedeva. Con una strana ma allegra agitazione che le cresceva in petto, si diresse in tutta fretta verso la propria barca.

Svoltato l'angolo, vide un giovane, di tre quarti, concentrato a pizzicare le corde della propria chitarra; un giovane dal pelo rossiccio e bianco. Si avvicinò cautamente, rapita dalla musica e dall'aspetto dello sconosciuto. Quando fu abbastanza vicina, l'udì fare dei sottili vocalizzi a bocca semichiusa. Quando il non più misterioso musicista si fermò a guardarla, a Mara si bloccò il respiro; non aveva mai visto qualcuno dagli occhi di colore differente.

- Ehm, è la tua barca questa? - Disse il giovane alzandosi impacciato.

- Un momento... - Mara finalmente se ne accorse - tu sei nella mia barca!

- Ecco. Lo sapevo!. - Subito ne uscì, guardandosi intorno con un certo imbarazzo. - Be', ti chiedo scusa. - Liberò la barca salendo sul pontile che scricchiolò, - Sono stato catturato da quell'ombrellone con la poltrona, perfetto per suonare. - Standole molto vicino le sorrise. Mara s'imbambolò per l'imbarazzo.

- V-va bene; ma che non capiti più!

- Promesso, la eviterò come la peste. - E la sorpassò in tutta velocità.

Provò uno strano e inatteso dispiacere nel vederlo allontanarsi. Era combattuta se fermarlo e scusarsi per i suoi modi e finirla lì o se chiedergli se avesse voglia di andare in barca con lei. Immagino il padre andare su tutte le furie.  Si rassicurò promettendosi che la prossima volta glielo avrebbe chiesto. Ma, lo avrebbe rivisto?

Per il momento s'accontentò di poter dare finalmente un volto a quella musica.

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