Fuoco nero

di Vivien L
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: un nuovo amore arriva e rovescia tutto con un gesto della mano ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** Prologo: un nuovo amore arriva e rovescia tutto con un gesto della mano ***











Sì, nient'altro che l'amore. E come scrive un poeta, tutto il resto per me sono foglie morte.
-L'amore nuovo-





Prologo



Luglio 1799



La luce del sole filtrava attraverso le spesse tende color vinaccia che ornavano le finestre. Un gelo innaturale scese intorno a lui.
Padre Merrik, vicario di Chaplam  -l'unica contea cattolica d'Irlanda-  rabbrividì; l'aria si fece improvvisamente tesa, un rantolo roco scivolò dalle sue labbra sottili.

Mrs. Aming, la vecchia perpetua che puliva regolarmente la cappella, emise uno squittio eccitato e con tre brevi falcate lo raggiunse, afferrandolo per la casacca e pregandolo di non abbandonarla. La donna iniziò a farneticare, pareva terrorizzata. Merrik sobbalzò.
Padre del cielo, questi irlandesi sono tutti uguali! Sempre a cialtrare di fate e spettri. Basta davvero poco, un’ombra in movimento, un rumore inspiegabile, per spaventarli. Sono sempre agitati, non stanno mai fermi, pensano solo ad azzuffarsi fra loro, rifletté cupamente.
Ma Merrik era un uomo di chiesa, e quando la donna si aggrappò a lui strattonandolo per il colletto della tunica non poté continuare a ignorarla. Sospirò spazientito, voltandosi verso di lei. Gli occhi della perpetua erano enormi nel viso pallido: il vicario pensò che non aveva mai visto tanto terrore aleggiare sul viso di un essere umano. Una goccia di sudore gli solcò la fronte quando Mrs Aming iniziò a farneticare qualcosa sul diavolo che stava operando in quel luogo sacro.
Merrik sperò che la razionalità gli venisse in soccorso. Non fu così. Quando si voltò, il suo sguardo fendette un'antica croce d'argento riccamente ornata. Era molto diversa dalle croci cristiane, perché i bracci avevano la stessa lunghezza e al centro della decorazione era incastonata un'enorme ametista che scintillava in modo innaturale.

«Il Diavolo è fra noi!» gemette la donna, e quando Merrik fece per tranquillizzarla questa scosse il capo, raccolse una mano del prete fra le sue e la avvicinò alla croce.
Merrik esitò, sbuffò sommessamente e premette le dita sul simulacro. Un bruciore intenso gli lambì la pelle. Balzò indietro, stupefatto, cercando di spiegarsi quell'insolito fenomeno. Fu persino sul punto di credere che sì, il diavolo si era davvero insinuato nella casa di Dio, ma una voce che pareva lontana, roca e familiare, lo riportò indietro nel tempo. 





Suo padre John era un uomo affettuoso, aveva mani gentili e un sorriso mite gli aleggiava spesso sulle labbra. Merrik aveva dodici anni, era ancora un bambino, gli piaceva sedere sulle ginocchia dell'adorato genitore e lasciare che le sue parole lo cullassero nel limbo dell'incoscienza.
John lo aveva destinato alla carriera ecclesiastica, e Merrik non aveva intenzione di ribellarsi: era convinto che Dio sarebbe stato felice di accoglierlo nella Sua cerchia di servitori. Da tempo Merrik si era accorto che il padre non godeva di buona salute: aveva smesso di lavorare, passava intere giornate immerso nei libri e, eccezionalmente, lo accompagnava in paese. Il ragazzo era convinto che il padre soffrisse per la perdita della moglie, morta di tifo alcuni mesi prima. Merrik cercava di  riaffacciarlo alla vita, inutilmente.

Quella sera, l'atmosfera nella sala da tè era particolarmente tesa. John lo cullava dolcemente fra le braccia, attendendo che il sonno lo raggiungesse.
Quando non riuscì più a trattenersi, l'uomo sbottò:

«Povero Spencer, non invidio il suo triste destino»
«Che cosa volete dire, papà?» chiese Merrik, incuriosito.
John sospirò.
«Non ti ho mai raccontato questa storia, figliolo, perché ho sempre cercato di proteggerti. Pensavo che vivere nell'ignoranza ti avrebbe reso immune alle brutture del mondo. Tuttavia, sento che la mia fine sta per arrivare ed  è giusto che tu sappia che una terribile maledizione incombe su questa terra» prese fiato «Io sono inglese, e anche tu lo sei, ma l'Irlanda mi è cara quanto la mia adorata Londra, e vederla dilaniata da epidemie e povertà mi rende immensamente triste»
«Non capisco» borbottò Merrik, turbato.
Suo padre sorrise «Certo che no» sussurrò «Vedi, Merrik, quando i Connor si impossessarono di queste terre, quasi settecento anni or sono, dovettero pagare un prezzo molto alto. Ogni primogenito avrebbe dovuto conquistare il cuore di una popolana di origini irlandesi, sposarla e renderla padrona della contea. Solo così gli irlandesi sarebbero stati ripagati della defraudazione dei loro territori. Il geis, così lo chiamano, è la punizione divina che spetta a chi non riesce a conquistare il cuore della prescelta. Spencer ha fallito, mio caro figliolo. La donna che amava, una certa Eveline, è fuggita molti anni fa con un altro uomo. Il Barone ha comunque deciso di sposarsi, ma detesta sua moglie e quasi non tollera la presenza del figlio. Vive nel ricordo della sua adorata Eveline. E la miseria si è abbattuta su Chaplam»
Merrik rabbrividì, stringendosi al petto del padre e guardandolo con occhi pieni di lacrime. Era un bambino ingenuo e fiducioso, e non dubitò mai delle parole di John.
«Che cosa possiamo fare, papà?»
L'uomo sospirò, accarezzandogli i folti capelli castani «Nulla, mio caro. Assolutamente nulla. Ma mi devi promettere una cosa, Merrik: quando sarai vicario, potresti assistere a un fenomeno un po' insolito. Se la croce celtica che custodiamo nella cappella s'illumina, dovrai chiamare  il figlio del Barone e riferirgli quanto ti ho appena raccontato» il suo sguardo si perse nel vuoto; poi, tornò a concentrarsi sul candido viso del figlio «Promettimi che lo farai, Merrik. Spencer ha fallito, ma suo figlio potrebbe riuscire nell'impresa, e finalmente la prosperità tornerà a regnare in queste terre benedette da Dio»




La voce stridula della perpetua lo riscosse. Si guardò con occhi allucinati il palmo arrossato della mano, per poi tornare a concentrarsi sulla croce, che emetteva un luccichio sinistro.
Nella cappella si respirava un'aria insolita e minacciosa, rabbrividì. Quando lo sfavillio della croce aumentò, Merrik prese una decisione.

Un'ora dopo, bussò alla porta della casa del Padrone. Una donna dall'espressione istupidita lo accolse, sussultando sorpresa quando il prete sibilò che doveva urgentemente parlare con il Barone. La sguattera lo condusse di fronte all'ufficio di Richard Connor, sesto duca di Chaplam. Richard aveva gli stessi occhi del padre; erano gelidi come l'inverno, azzurri come i fazzoletti di un cielo estivo. I capelli erano neri, identici a quelli della defunta madre, e gli sferzavano la fronte in morbide ciocche ondulate.
Quando padre Merrik varcò la soglia dello studio, Richard non si alzò.

Non ha rispetto neanche per un uomo di chiesa, quel demonio!, pensò Merrik, figurarsi se riuscirà a conquistare il cuore della prescelta.
Richard era identico a suo padre: un uomo freddo e crudele con la fama di spietato libertino. Merrik dubitava che qualcuno avrebbe potuto salvarlo dal baratro in cui era sprofondato.

«Fatevi avanti, padre» mormorò svogliatamente il Barone. Merrik obbedì, trascinandosi dietro la pesante croce d'argento. Per evitare di bruciarsi le mani l'aveva avvolta in un sacco di juta. Posò la croce sull'imponente scrivania di mogano, guardando con occhi inquieti il volto del suo giovane padrone.
«Dunque?» insistette Richard, annoiato, aspirando una boccata di fumo e versandosi un'altra dose di liquore in una delicata coppa di cristallo.
Merrik sospirò, scoprì la croce e disse «Vorrei raccontarvi una storia, Richard»




«Non capisco a che pro assecondare questa follia» berciò Richard, facendosi strada nell'oscurità.
Merrik lo ignorò.
Continuò ad avanzare, lo sguardo fisso sull'inconsueto sfavillio della croce che reggeva strettamente fra le mani.
Pochi metri lo separavano da una casupola di paglia che giaceva ai piedi di una collina che gli abitanti del luogo chiamavano Colle del diavolo. Dicevano che ci viveva una strega, una donna dall'aspetto spettrale e dagli occhi vitrei come gelide palle di vetro.
Si chiamava Mary, non era sposata, non aveva nessuno che si prendesse cura di lei. In paese era nota per il suo carattere schivo e taciturno. Molti erano convinti che la vecchia fosse posseduta dal demonio.
Merrik sperò che non fosse lei la prescelta.
Sangue di Dio, quella donna aveva settant'anni! Come avrebbe potuto ricambiare l'amore del Barone?
Scosse il capo, irritato, e quando si fermò davanti alla baracca la croce iniziò a risplendere di una luce talmente intensa che Merrik dovette distogliere lo sguardo per evitare di rimanerne accecato.
Il Barone continuava a squadrarlo con espressione gelida. Richard lo aveva seguito solo per dimostrare che il geis era un'assurdità, una di quelle sciocche leggende a cui nessun uomo sano di mente avrebbe creduto.

Merrik bussò alla porta della casupola.
Passò un minuto, ne passò un altro e un altro ancora; poi, una vecchia dall'aria smunta andò ad aprirgli, guardandolo con occhi assenti e sconfitti. Aveva i capelli raccolti sulla sommità del capo, indossava abiti impoveriti dall'usura, stringeva fra le braccia un fagotto di coperte che si dimenava freneticamente. Il pianto di un bambino riempì l'aria.

«Che cosa volete?» sibilò la donna, ma Merrik non le prestava più alcuna attenzione.
Il suo sguardo era ipnotizzato dagli occhi più belli che avesse mai visto. Erano grandi, azzurri come l'oceano, incastonati in un ovale perfetto, la pelle di porcellana, le ciglia nere come la notte che le sferzavano le guance arrossate dal freddo. La bambina gorgogliò, doveva avere al massimo sei mesi. La croce s'illuminò, il suo calore penetrò la stoffa dell'involucro e Merrik sussultò, lasciandola rotolare sul pavimento.

«È lei» sussurrò incredulo, guardando la bambina con occhi nuovi e consapevoli del destino che l'attendeva «È  lei la donna di cui v'innamorerete»



















Note storiche: 
Nel 1171 il re Enrico II d'Inghilterra sbarcò a Waterford e occupò le terre irlandesi divenendo il primo sovrano d'Inghilterra a mettere piede in Irlanda. L'isola d'Irlanda cominciò a cadere interamente in possesso delle forze inglesi a partire dal 1500. Le infrastrutture antiche gaeliche caddero definitivamente nel XVII secolo, come risultato di vari insediamenti di forti comunità inglesi e scozzesi su terre strappate ai cattolici irlandesi e affidate ai britannici. Intorno al XIV secolo la popolazione anglo-normanna era integrata con quella nativa irlandese tanto che la corona, nel tentativo di riprendere il controllo, cercò di stabilire delle differenziazioni fra nativi e colonizzatori.  Il risultato furono gli statuti di Kilkenny, che introdussero una serie di discriminazioni: dal divieto di contrarre matrimoni "misti" al divieto di usare nomi, lingua, abbigliamento e usanze irlandesi. Nonostante ciò, gli irlandesi sono sempre rimasti molto legati alle loro usanze, tanto che gli scontri d'identità fra inglesi e irlandesi si sono perpetrati per secoli. Il XVII secolo fu comunque forse il più travagliato della storia d'Irlanda. Due periodi di guerra civile (1641-53 e 1689-91) causarono grosse perdite di vite umane e si conclusero con l'espropriazione dei beni della classe dei proprietari terrieri irlandesi e la loro sottomissione alle discriminatorie Leggi penali irlandesi. Intorno al 1790 iniziarono le prime ribellioni da parte degli irlandesi per riprendere possesso dei loro territori.

Nella mia storia, la famiglia Connor appartiene a una lunga dinastia di sudditi inglesi che nel 1.200 circa si stabilì in Irlanda conquistando la contea di Chaplam (il nome è di pura invenzione). La contea e i possedimenti vengono tramandati di generazione in generazione: in L'amore perenne ho iniziato col raccontare le vicende di Spencer Connor, padre di Richard; in Fuoco nero  proseguirò col narrare le avventure del figlio.
(Da Wikipedia)







Nda: Come promesso, sono tornata con lo spin-off di L'amore perenne: chi lo ha seguito ha il vantaggio di conoscere in anticipo le vicende di Eveline e Spencer, ma non è necessario averlo letto per potersi avventurare in questa storia. Fuoco nero è tratto da un libro intitolato Spell of love, di Megan McKinney. Capisco che il prologo potrebbe risultare un po' noioso, ma era necessario per introdurre i principali personaggi. Ovviamente spero che mi facciate sapere cosa ne pensate, le recensioni sono sempre bene accette e... beh, penso di aver detto tutto. A presto, Elisa.










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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***







Capitolo 1


Tutti e due sputiamo tutti e due
su ciò che abbiamo amato
su ciò che abbiamo amato tutti e due.
Parlo al passato; ridete!,
se vi va, al suono delle mie parole.
Sputiamo sull'amore
sputiamo se vuoi.
-Valzer di Siviglia-


Tredici anni dopo



«Io dico che è uno stregone»
Un silenzio attonito riempì l'aria.
Tentando di mascherare il suo imbarazzo, Magnus si esibì in una risata di scherno.
Il sole filtrava attraverso le spesse nuvole che slittavano sull'arco celeste. Il vento frustrava le chiome degli alberi: si contorcevano, ondeggiando e lamentandosi coi loro deboli fruscii. La testa di uno scoiattolo spuntò da un basso cespuglio di more selvatiche, restituendomi uno sguardo sospettoso. Il freddo pungente di fine febbraio mi penetrò nelle ossa, facendomi rabbrividire. Magnus se ne accorse.
Si accigliò, aggrottò la fronte e, esitando imbarazzato, si sfilò il pastrano e me lo posò sulle spalle. Arrossii.
I miei compagni di gioco saltellavano impazienti intorno a me, guardandomi con occhi curiosi.
«Mia nonna non vuole che faccia queste cose!» gridai serrando le mani a pugno e nascondendole dietro la schiena. Magnus sghignazzò, una smorfia sarcastica gli piegò le labbra.
Quando voleva, sapeva essere un vero demonio. Ma le sue labbra erano così rosee, incredibilmente morbide e invitanti. Voluttuose.  Una volta gliele avevo toccate con la punta delle dita; lui si era scostato, disgustato, balbettando che ero una svergognata e che sarei finita all'inferno per questo.
«Sei una codarda, Annabelle senza cognome» sibilò inviperito.
Sentii un rossore imbarazzato inondarmi le guance. Gli abitanti del villaggio mi disprezzavano: dicevano che ero la figlia del peccato, che nessuno avrebbe dovuto avvicinarmi, che sarei dovuta marcire all'inferno, io e la lurida sgualdrina che mi aveva messa al mondo. La reputazione di mia madre mi avrebbe perseguitata per il resto dei miei giorni. Quella sporca puttana, la chiamavano, e io non avevo il coraggio di difendermi dai loro insulti. Sapevo che erano veri.
Ma Magnus... Magnus era l'unico che mi trattava come una persona normale e non come la disgraziata che ero; il pensiero che anche lui potesse sentirsi disgustato da me...
Un moto d'indignazione mi fece tremare, strinsi i denti: se la nonna fosse qui gliela farebbe pagare, pensai incollerita lanciandogli uno sguardo torvo. In paese correva voce che Mary fosse una strega, ma io sapevo che erano tutte fandonie. Nonna Mary era la persona più dolce, saggia e altruista di questa terra. La dedizione con cui si prendeva cura di me, l'affetto che mi riservava, la dolcezza con cui mi diceva che no, non ero una derelitta, ero una bambina speciale, e le porte di un meraviglioso futuro si sarebbero spalancate davanti ai miei occhi...  non ero nulla senza di lei.
Mary era la madre che non avevo mai avuto. Era il mio oggi e il mio domani, il mio tutto. Era le mie radici, il mio unico legame di sangue. Si era sempre fatta carico dei miei problemi, aveva guarito le mie ferite, asciugato le mie lacrime, non mi aveva mai fatto mancare nulla.
A parte... beh, a parte un padre. E una madre. Una vera famiglia, dei genitori. Quelli non ce li avevo mai avuti. Nonna diceva che mamma e papà si amavano molto ma che erano morti quando ero troppo piccola per capire. Per questo motivo non serbavo alcun ricordo di loro.  Gli abitanti del villaggio conoscevano una storia diversa: si bisbigliava che mia madre fosse una cortigiana, una donna impudica e corrotta, e che mio padre l’avesse messa incinta abbandonandola al suo triste destino.
Per questo Magnus -e con lui tutti gli altri- aveva preso l'abitudine di chiamarmi Annabelle senza cognome. Io non avevo un cognome e nessuno voleva avere a che fare con me, neanche i figli dei contadini e delle sguattere del maniero. Persino il Barone faceva finta che non esistessi. Le poche volte che l'avevo incontrato, nei suoi occhi vibrava un tale odio da costringermi a indietreggiare, terrorizzata. Una volta l'avevo sentito pronunciare il mio nome. Annabelle, aveva detto, e la sua voce era così sprezzante, come se detestasse il solo pensiero di me, come se contaminassi l'aria che respirava.  
Richard Connor aveva trentatrè anni ed era il padrone della contea di Chaplam. Era alto e scuro; i suoi capelli erano neri come la notte, gli occhi azzurri brillavano di un'intelligenza inquieta e calcolatrice. Aveva l'ossatura di un gigante, le spalle larghe, il petto possente, la pelle diafana -quasi trasparente-, lineamenti algidi, aristocratici, ciocche corvine che gli sferzavano la fronte aggrottata in un'espressione impenetrabile. La gente pensava che il Barone fosse posseduto dal demonio: le puttane e il gioco d'azzardo erano il suo pane quotidiano. 
«Io so cosa fare» 
Magnus mi prese per i capelli, facendomi contorcere dal dolore. Mi voltai a guardarlo infuriata, e lui sorrise. Quel sorriso mi avrebbe fatto perdonare qualsiasi sua malefatta.
«Belle è l'unica femmina del gruppo» continuò sprezzante «E, in quanto tale, se il Barone la trova nella sua stanza non le farà nulla di male» 
«Mi ucciderà»  piagnucolai dibattendomi, tentando di sfuggire alla sua presa. Odiavo la sua prepotenza. Quando eravamo soli mi trattava come una fragile bambola di porcellana. Era delicato, quasi adorante. Ma quando era in compagnia dei suoi amici indossava la maschera di ragazzaccio collerico e ignorante, e io ero costretta a tollerare i suoi sconcertanti sbalzi d'umore.
Magnus scosse il capo, alzò gli occhi al cielo e il suo viso si tese in un'espressione stizzita.
Voleva dimostrare che Connor era uno stregone, un figlio del demonio. Incoraggiato dai suoi compagni di malefatte, pretendeva che m'intrufolassi nella camera da letto del Barone e che gli rubassi alcune ciocche di capelli. Solo così, diceva, avrebbe potuto provare che Richard Connor era un'anima malvagia e che sarebbe presto marcito all'inferno. Io non credevo a quelle fandonie. Il Barone era soltanto un uomo dal carattere altero e schivo, una creatura solitaria, nulla più. Poteva anche non essere una brava persona, ma questo non significava che il diavolo si fosse impossessato di lui.
Il diavolo, riflettei cupamente, si nutre di queste sciocche credenze. Opera il male convincendo i suoi servi di fare del bene. Distorce i concetti di giusto e sbagliato.  Il diavolo sente gracidare il dolore del mondo, e se ne nutre,  come una linfa vitale  e corroborante.
«Se non vai non ti sarò più amico».
Incrociò le braccia al petto, le labbra tese in un sorriso testardo. Spalancai gli occhi, scioccata. Magnus sghignazzò, conscio di aver centrato il bersaglio.
Scacco matto, Magn, avrei voluto urlargli, inviperita. Lui era il mio unico amico, l'unica persona cui cui potevo giocare e confidarmi, coltivando i miei sogni e le mie speranze per il futuro, immaginando i miei genitori, i loro visi, la loro vita, il loro amore. Soltanto Magnus sembrava capirmi. Soltanto lui riusciva a farmi sorridere. Il pensiero di perderlo, di vederlo allontanarsi da me mi faceva piombare in uno stato di profonda angoscia.
Mi riscossi, raddrizzando la schiena e lanciandogli uno sguardo omicida, tentando di non fargli capire quanto le sue parole mi avessero turbata.
«Come vuoi»  borbottai con voce tremante. Mi sfilai un nastro color vinaccia dai capelli e lo gettai ai suoi piedi «Mi introdurrò nella sua stanza. Se non dovessi tornare, porta questo alla nonna e dille che le ho voluto tanto bene» 
Una risata divertita abbandonò le sue labbra socchiuse.
Era gongolante: la mia disfatta lo aveva reso più spavaldo che mai «Non sarà così terribile, Belle! Connor non ti ucciderà» 
«Invece sì» sillabai.
«Vai, vai!»  presero a gridare gli altri bambini e, incoraggiata dalle loro urla, iniziai a correre verso il ripido pendio del castello. I miei piedi nudi sfiorarono i fazzoletti d'erba selvatica. Li guardai: erano sporchi e raggrinziti dal freddo. Anche il mio abito era sudicio, le maniche sgualcite, le gonne consumate.
Alzai le spalle, cacciai un sospiro sommesso e continuai a correre.
Entrare nel castello si rivelò un'impresa più facile del previsto. Nessuno sembrò accorgersi di me, i servi parevano tutti molto impegnati nelle loro faccende quotidiane. Persino la governante, una certa Mary, sembrò non notare la mia presenza, impegnata com'era a scrutare con occhi malinconici il ritratto di un uomo che non conoscevo. Ipotizzai che fosse il precedente Barone di Chaplam: aveva folti capelli biondi che gli sferzavano la fronte in morbide ciocche ondulate, gli erano occhi gelidi, le labbra stette in una smorfia infelice.
M'introdussi nella cucina del maniero, sentii una serva mormorare che il Barone non sarebbe rientrato prima del giorno dopo e sospirai di sollievo.
Rischiai di perdermi un paio di volte: il castello era enorme, aveva moltissime stanze e infiniti corridoi che non sembravano portare da nessuna parte.
Mi piacerebbe vivere in un posto del genere, pensai con occhi sognanti. Essere ricca, bellissima e amata, mangiare tartine al salmone e pasticci di carne, indossare abiti costosi e sventolarmi il ventaglio davanti al viso con fare civettuolo... era una prospettiva invitante, sì. 
All'improvviso raggiunsi la stanza del padrone. Un moto di paura mi assalì.
Strinsi i pugni, determinata, ignorando il brivido d'inquietudine che mi percorse tutta quando varcai l'uscio della camera.
L'interno, con i pannelli di legno scuro e la moquette verde giada, era molto elegante. Una lunga panca imbottita, ricoperta di velluto, girava intorno a un immenso letto a baldacchino; dalla parte opposta c'era un divano, strategicamente sistemato davanti a uno scrittoio.
Ai lati del letto intravidi due poltrone di pelle: una era vecchia e usurata dal tempo; l'altra sembrava talmente nuova che dubitai fosse mai stata usata. 
E all'improvviso lo vidi, addossato alla parete, largo, imponente, minaccioso e austero: uno specchio impreziosito da intarsi dorati che s'intrecciavano in fantasiosi ghirigori. La toeletta del Signore era ingombra di ninnoli: un portachiavi, un fermacravatte d'argento, un pennello da barba, una ciotola di legno e una spazzola di ceramica. Fra i nodi del pettine s'incastravano ciocche di peli neri e leggermente arricciati. Sorrisi trionfante, avvicinandomi e strappandone alcuni fili, nascondendo le braccia dietro la schiena.
In quel momento accadde. La porta della stanza si socchiuse. Sentii una voce cupa  risuonare nell'aria. Il calore defluì dal mio viso.
Il Barone. Qui. A Chaplam. Nel suo castello, nel suo corridoio, che camminava sul suo pavimento, che parlava con le sue cameriere, che varcava la soglia della sua camera da letto. Proprio dove non avrebbe dovuto essere. Proprio dove io non avrei dovuto essere.
Imprecai silenziosamente, fuggii verso l'anta del guardaroba e mi nascosi dentro l'armadio. Lo vidi entrare, guardarsi intorno con aria circospetta, le labbra piegate in una smorfia inquieta. Trattenni il fiato, sperando che non si accorgesse di me. Appena si fosse sufficientemente distratto, me la sarei data a gambe.
Quando lo vidi sedere sul letto e tentare di sfilarsi gli stivali, borbottando a mezza voce, pensai che Richard Connor non somigliasse affatto al figlio del demonio. Era tremendamente buffo. La risatina che mi abbandonò le labbra fu la mia condanna. L'uomo drizzò le orecchie, allarmato. Mi morsi il labbro inferiore con tanta forza che un piccolo gemito risuonò nell'aria, e i suoi occhi si puntarono sull'anta socchiusa dell'armadio. Aggrottò la fronte, perplesso, e poi si alzò, incamminandosi verso di me. Mai come in quel momento pensai che, se il Barone mi avesse scoperta, sarei sicuramente morta. Mi avrebbe fatta impiccare o, peggio ancora, mi avrebbe sbattuta in uno dei suoi terribili sotterranei. Correva voce che il padre di Richard ci avesse rinchiuso il fratello pazzo e completamente fuori controllo, e che il fantasma di Anthony Connor vagasse fra quelle prigioni come un'anima in pena...
Richard aprì l'anta dell'armadio, e i suoi occhi incontrarono i miei.



















Ecco il secondo capitolo. Un grazie di cuore a jakefan per averlo betato e per avermi bacchettata quando era necessario :) Grazie davvero, J! Ringrazio anche tutte le persone che hanno inserito la storia fra i preferiti, seguiti e ricordati: aumentate ogni giorno di più, e questo mi fa molto piacere! *___* Grazie ai 4 lettori che hanno commentato lo scorso capitolo, sono stata felice di sapere che il prologo vi è piaciuto e che siete disposti a seguire la mia storia. Alla prossima, Elisa.

Quasi dimenticavo! Mando un bacio enorme alla mia cara mogliA, che come al solito è troppo indulgente con me, nonostante i miei difetti e le mie dimenticanze! Ti adoro, Vale! *__*









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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***










Capitolo 2





L'amore, essendo l'esperienza sconvolgente del nulla, dimostra di esistere solo se muore e dunque deve sparire, annullarsi, per testimoniare di esserci davvero stato.

-L'amore nuovo-






I suoi occhi fiammeggianti di furia m'inchiodarono sul posto.
Una ciocca di capelli corvini, così simili ai miei, gli solcava la fronte, le labbra strette in una smorfia sprezzante, le narici frementi d'indignazione. Un moto di paura mi sopraffò. Non riuscivo a muovermi, ero paralizzata, la mente che esplorava una vasta gamma di conseguenze provocate dal mio folle, insensato gesto. Maledii la mia incoscienza: com'ero potuta essere così avventata da intrufolarmi negli appartamenti del Barone? Con che coraggio avevo frugato fra le sue cose, violando la sua intimità, impicciandomi di affari che non mi riguardavano? Tutto per una stupida scommessa, tutto perché non avevo il coraggio di contrariare il mio migliore amico, l'unica persona che mi era vicina, che sembrava capirmi e apprezzarmi per ciò che ero. Imprecai silenziosamente, stringendo le mani a pugno, tentando di nascondere il ciuffo di capelli di cui mi ero appropriata. Per un attimo pensai di lasciarlo andare, di lasciarlo cadere sul pavimento, ma neanche l'inquietante presenza del Barone riuscì a scacciare dai miei pensieri l'immagine del volto deluso di Magnus, della sua espressione contrariata, delle prese in giro di cui sarei stata vittima.
Richard mi afferrò per le spalle, scuotendomi come una bambola di pezza. Mi costrinse a barcollare in avanti, ignorando il mio gemito terrorizzato.  Il sudore iniziò a bagnarmi la fronte, le mani tremanti si accostarono alle sue, implorandolo di lasciarmi andare.
«Posso sapere che cosa ci fai qui, ragazzina?» la sua voce era cupa, ombrosa. Rabbrividii, sentendomi così piccola in confronto a lui, così insignificante. Era una sensazione che conoscevo bene: Annabelle senza cognome non era degna di rispetto, di comprensione, di considerazione. Nessuno voleva avere a che fare con me, la figlia di una sgualdrina, una bastarda, rifiutata dai suoi genitori, dalla vita, dallo stesso destino. Ma il Barone riusciva a farmi sentire ancora più misera degli sguardi sprezzanti dei contadini, dei mormorii indignati che mi seguivano quando mi avventuravo in paese, dei risolini affettati dei figli delle sguattere.
«Io... non stavo rubando, lo giuro» presi fiato «Lo giuro, non...»
Alzò un sopracciglio, squadrandomi con aria indagatrice.
«No?» ghignò «Non ricordavo di averti dato il permesso d'intrufolarti nelle mie stanze»  mi lanciò un'occhiata intensa.
Nella profondità dei suoi occhi azzurri scorsi una scintilla di qualcosa che non seppi decifrare: rabbia, paura, indignazione?
Guardò i miei piedi nudi, laceri e sporchi, salendo sul mio abito sgualcito, macchiato d'erba e fuliggine, sulle mie mani ruvide, piene di calli e duroni, sullo stretto scollo del corpetto rovinato da anni di rammendi e cuciture.
Aggrottò la fronte, perplesso, e un silenzio agitato scese su di noi. Le sue dita indugiarono sulle mie, avvolgendole in una presa ferrea. Il calore della sua pelle mi fece fremere; avvampai, smarrita, tentando di arretrare, di non lasciarmi sopraffare dalla prepotente dolcezza del suo profumo, che sapeva di menta e tabacco e aria pulita. Una fragranza nuova, inaspettata e inebriante. Ero ipnotizzata dalla durezza del suo sguardo, dalla forza delle sue braccia che mi stringevano a sé, dalla determinazione che modellava i suoi lineamenti. I suoi occhi scesero sulla mia mano sinistra, quella che avevo nascosto dietro la schiena.
Quella in cui stringevo il ciuffo di capelli che gli avevo rubato. 
Mi divincolai, inorridita, e lui me lo permise. Arretrai, sperando che la mia riluttanza lo annoiasse, convincendolo a lasciarmi andare. Il Barone era noto per i suoi scatti di rabbia, per il suo carattere ostinato e irremovibile. Nei confronti di tutti tranne che di se stesso, considerando le voci che circolavano sul suo conto: era un dissoluto, proprietario di numerose case di gioco, guardava gli altri dall'alto in basso, testardemente convinto di essere l'uomo più illuminato d'Irlanda.
Si diceva che, in uno dei suoi numerosi eccessi d'ira, avesse ucciso la prima moglie, tale Scarlett Patchett, e con lei il figlio che portava in grembo. Non sapevo se credere a queste voci: nonostante tutto, non riuscivo a immaginare Richard Connor nei panni di un assassino.
«Cos'hai lì?»  indicando con un cenno del capo la mano che tenevo nascosta dietro la schiena. La sua voce mi colse di sorpresa, sobbalzai. Le mie guance divennero scarlatte. Maledii ancora una volta la mia arroganza: come avevo potuto essere così sciocca da...
«Sto parlando con te, maledizione!»  i suoi occhi, adesso, erano socchiusi in un'espressione irata. Un brivido gelido mi scosse tutta.
«Non è nulla. Io non ho...»
«Voglio sapere perché sei qui» 
ringhiò. Un lampo d'odio illuminò il suo sguardo. Non riuscii a spiegarmi il perché di tanto fervore; la consapevolezza che quell'uomo bello e irraggiungibile mi detestasse mi causò una fitta di disappunto allo stomaco.
«Non volevo rubare, ve lo giuro»
«Signore»  mi corresse con voce sferzante, corrosa da rabbia e risentimento. Spalancai gli occhi.
«Cosa...»  
«Sono il tuo Signore, esigo rispetto e considerazione. Tua nonna non ti ha insegnato l'educazione, bambina? Non ti ha detto come rivolgerti ai tuoi superiori?»
Cercai di trattenere la rabbia nascondendomi dietro una maschera di affettata compostezza.
«Non stavo rubando, Signore»  il mio tono questa volta era serio, rispettoso, talmente compìto che il Barone intuì l'ironia che trasudava dalle mie parole. Un moto di irritazione gli fece tendere la mascella.
«Fammi vedere cosa nascondi»  ordinò.
Scossi il capo, risoluta «Io... vi prego. Signore, giuro che non stavo rubando. Non ho fatto nulla di male. Lasciatemi andare e...»
La sua risata sferzò l'aria, uno strano scintillio gli oscurò il volto «Che io sia dannato se ti permetterò di uscire da questa casa prima di sapere il motivo per cui sei qui» sbottò.
Mosse un passo in avanti, ignorando il mio debole ritrarmi. Sentii la schiena addossarsi alle gelide pareti della camera e rabbrividii. Iniziai persino a pensare che il Barone mi avrebbe uccisa, perché l'odio che sfigurava la sua espressione era tanto incomprensibile quanto terrificante.
«Dimmi cosa nascondi dietro la schiena»  sillabò.
Scossi il capo, confusa, decisa a non rivelare il motivo per cui mi ero intrufolata nel maniero, conscia che non sarei stata l'unica a pagarne le conseguenze: Magnus si fidava di me, mi aveva accolta nella sua cerchia di amici e io non potevo tradirlo. Non lo avrei fatto.
Il mio diniego fece infuriare Connor.
Un sibilo roco abbandonò le sue labbra. Mi afferrò per le spalle, scuotendomi leggermente, ma io non cedetti. Scalciai, mi dibattei, urlai persino, lo colpii sul petto, ignorando il suo profumo che mi penetrava le narici, il rassicurante calore della sua pelle, la sua forza, la prepotenza con cui mi trascinò sul baldacchino e m'imprigionò i fianchi fra le sue grandi mani, immobilizzandomi.
Un singhiozzo attonito esplose nell'aria. M'impietrii, guardandolo con un misto d'odio e implorazione. Il cuore mi batteva all'impazzata nel petto, le guance bagnate di lacrime di disappunto, gli occhi fissi nei suoi, che all'improvviso si socchiusero, facendosi impenetrabili come la notte.
«Fammi vedere cos'hai in quella mano, maledizione!»
«Non stavo rubando!»  ripetei come un mantra «Lo giuro, Signore, io...»
«Fammi vedere»  le sue mani raccolsero le mie; erano calde, morbide e vellutate. Richard Connor non conosceva il significato della parola lavoro.
Quando mi aprì a forza le dita, sollevando con aria perplessa alcuni ciuffi di capelli corvini, una risata sarcastica gli scivolò fra le labbra.
«Cos'avevi intenzione di fare con questi?»  
Arrossii, imbarazzata.
«Io non.... non stavo...»
«Non stavi rubando»  ripeté Connor, annoiato «Questo lo avevo capito. Ciò non toglie che ti sei intrufolata negli appartamenti del tuo Signore senza il mio permesso. E che hai spulciato fra le mie cose.  Se vuoi che ti lasci andare» i suoi occhi scintillarono maliziosi «Devi prima dirmi perché eri qui e a cosa ti servono i miei capelli»
«Non posso...»
«Ora»  m'intimò minaccioso.
Presi un respiro profondo, guardandolo dubbiosa. Non volevo tradire Magnus, ma quali altre alternative avevo? Non potevo finire al patibolo per una simile sciocchezza!
Sospirai «I miei amici sostengono che voi siate uno stregone. Sì»  continuai prima che Connor potesse interrompermi «Dicono che avete ucciso vostra moglie e che vivete nel peccato, che è colpa vostra se a Chaplam la gente muore di fame. Io non ci credo»  borbottai, ricordando le risate di scherno dei miei compagni. Misi il broncio, e il Barone strinse le labbra spostando lo sguardo sulla finestra, come se all'improvviso il panorama del giardino fosse divenuto straordinariamente interessante
«Ma Magnus non voleva darmi ascolto, e mi ha costretta a intrufolarmi nelle vostre stanze e a rubarvi una ciocca di capelli. Solo così avrebbe potuto rivelare la vostra vera identità. Mi ha minacciata!»  piagnucolai, tentando di impietosirlo.
Serrò la mascella «Cosa ti ha detto?»  
«Che non sarebbe più stato mio amico»
Lo sentii ridere e lo guardai, incuriosita.
«Tu... tu non dovresti neanche...»  cominciò, ma poi s'interruppe, lasciando la frase in sospeso. Uno strano silenzio scese su di noi, e il Barone s'irrigidì. Il suo sguardo vagò lentamente sulla virginale scollatura del mio corpetto, e vidi una scintilla rancorosa illuminare il suo viso.
Pochi istanti dopo mi aveva di nuovo afferrata per le spalle. Confusa, lo vidi spingermi frettolosamente verso la porta, come se la mia presenza lo avesse disgustato al punto da non poterla sopportare un minuto di più.
 «Vattene»  disse con voce distorta dall'ira «E non osare mai più mettere piede in questo castello»  
Mi sbatté la porta in faccia, letteralmente.



Quando rientrai a casa ero ancora in uno stato di trance. La confusione si era impossessata dei miei pensieri. Perché il Barone mi odiava? Non poteva essere solo a causa dei miei sordidi natali. Gli abitanti del villaggio mi disprezzavano, certo, ma non avevano mai mostrato un tale risentimento, un così appassionato rifiuto della mia persona.
Nonna Marie mi accolse con un abbraccio caloroso.
«Belle! Oh, Belle, ero così preoccupata...»
Non riuscii a prestarle attenzione. Tremavo di ansia e paura e preoccupazione: se il Barone avesse deciso d'impiccarmi? Rabbrividii. Se...
«Ti ho aspettato per oltre un'ora, signorina»  disse con voce improvvisamente seria.
La scrutai, insospettita dalla sua espressione tesa, dalla smorfia inquieta in cui si erano piegate le sue labbra.
«Io... nonna, temo di aver... »  non riuscii a continuare. All'improvviso, una presenza che non avevo notato si palesò nel piccolo, malandato salotto. Era Padre Merrik, il vicario di Chaplam.
In altre circostanze sarei stata felice della sua venuta: Merrik era un uomo saggio e compìto, non era bigotto, non m' imputava le colpe dei miei genitori, mi aveva sempre trattata con gentilezza e sapevo, anche se la nonna non lo avrebbe mai ammesso, che era lui a pagare la mia istruzione. Ogni giorno un precetto veniva a farmi visita e mi insegnava a leggere, scrivere e comportarmi, ma i precetti erano costosi e Marie non avrebbe mai potuto permettersene uno: qualcun'altro se n'era dovuto assumere l'onere, e questo qualcuno era quasi sicuramente il vicario.
Tuttavia, la sua espressione dispiaciuta mi fece immobilizzare: sapevo che i miei sospetti stavano per divenire  realtà. Una fitta di dolore mi trafisse lo stomaco e fui costretta a piegarmi su me stessa, tentando di non stramazzare al suolo. Era successo, dunque. Il Barone aveva deciso la sua punizione. E aveva affidato a Merrik il compito di metterla in atto.
Forse sarei stata impiccata. Probabilmente mi avrebbero mandata via. Non sapevo cosa mi riservasse il futuro, ma il pensiero di allontanarmi da Marie era insopportabile.
«Devo andarmene, vero? Lui ha detto che devo lasciare Chaplam»  dissi con voce amara.
Merrik scrollò il capo, impietosito dalla mia espressione implorante «Il Barone non c'entra assolutamente nulla, bambina. Hai tredici anni, stai crescendo, è ora che trovi il tuo posto nel mondo. Sei una signorina, ormai, e prometti di diventare una grande bellezza: è giunto il momento che tu la smetta di avventurarti con quegli straccioni dei tuoi amici.  Abbiamo trovato un collegio che sarà felice di accoglierti e educarti ai dettami della cristianità e del savoir faire. Avrai una bella divisa, una camera accogliente, professori premurosi che ti insegneranno le meraviglie dell'arte, della letteratura, della matematica e del rammendo.»
«Dove...»  tremai, strinsi i denti e continuai: «Dov'è questo collegio?»
Le sue labbra si piegarono in un tremulo sorriso «In Inghilterra»
Il mondo parve crollarmi addosso. L'Inghilterra era il posto più infimo in cui potessero mandarmi. Quei bastardi inglesi, come li chiamava Magnus, erano persone fredde, crudeli e spietate, le loro terre aride e inquinate, non come le lussureggianti campagne irlandesi, le distese di girasoli e le scintillanti cascate, i boschi folti e pieni di vita, di leggende secolari, tradizioni che neanche il più violento degli invasori sarebbe riuscito a sradicare.
E io stavo per essere spedita in un luogo che non conoscevo, proprio come se fossi un pacco postale. Risi istericamente: per Richard Connor la mia vita non valeva più di quella di uno dei suoi cavalli. Cosa poteva importargliene se la punizione che mi aveva inflitto mi avrebbe gettata in un baratro d'infelicità?
Quando capii che le suppliche, i pianti e le invocazioni non sarebbero serviti a nulla, se non a peggiorare la situazione -sarei andata in Inghilterra, punto. Il Barone aveva deciso e io dovevo obbedire ai suoi ordini- mi rassegnai al mio destino.



Il mattino dopo Marie mi rammendò in tutta fretta l'unico vestito da viaggio che possedevo: nero, bordato da nastri di seta color zaffiro, accompagnato da una cuffietta di velo grigio e da un ombrello recuperato chissà dove.  Mi diede anche una lettera, raccomandandomi di aprirla solo quando fossi giunta a destinazione, mi strinse a sé per quelli che mi parvero secondi, e che invece si rivelarono ore. Poi mi fece fare colazione, mi prese la mano e mi portò fuori.
Tutto si svolse come a rallentatore: una carrozza nera si fermò davanti alla porta di casa. Marie mi prese in braccio, mi diede un bacio sulla guancia e mi fece accomodare sul sedile della vettura. Mi rannicchiai su me stessa, guardandola lottare contro le lacrime e la commozione, la paura e la nostalgia. Perché già mi mancava, nonostante non l'avessi ancora lasciata, ed ero certa che quegli stessi sentimenti avrebbero tormentato anche lei. 
Ero intontita, quasi non udii il suo saluto, il suo ti amo sussurrato. Tutto ciò che sapevo era che odiavo Richard Connor. Lo odiavo con tutta me stessa, e forse Magnus aveva ragione, Connor era davvero un figlio del demonio, gli piaceva seminare dolore nel mondo.
Una lacrima mi bagnò la pelle, strinsi i pugni.
In quel momento, una voce ansiosa s'intromise nel caos dei miei pensieri.
«Belle! Belle, dove stai andando? Belle!»
Era Magnus, correva così veloce che per un attimo pensai avrebbe tenuto il passo con la carrozza. Mi sporsi dal finestrino, guardandolo con occhi angosciati.
«Mi mandano via, Magn!»  urlai a mia volta, e le sue labbra si tesero in una smorfia incollerita.
«E' stato lui, vero? E' stato il Barone!»
Mi chiusi in un eloquente mutismo, e lui serrò la mascella.
«Gliela farò pagare, Belle, te lo giuro! E quando tornerai...»  la sua voce si faceva sempre più lontana. Lo stavo perdendo. Chissà quando ci saremmo rivisti...
Un singhiozzo sconsolato mi nacque nel petto.
Ora o mai più, pensai. Al diavolo la timidezza, non m'importava se Magnus avrebbe giudicato le mie parole roba da femminucce.
«Ti voglio bene, Magn!» urlai, e lui s'immobilizzò, sorpreso. Un dolce calore si accese nei suoi occhi.
Il cocchiere colpì i cavalli con il frustino, e la carrozza accelerò.
Continuai a guardare il viso di Magnus, che si faceva sempre più lontano e sfocato.
L'angoscia minacciava d'impadronirsi di me, ma un debole raggio di speranza mi fece fremere in un impeto di orgoglio misto a fiera determinazione.
Tornerò, pensai. Tornerò e riprenderò in mano la mia vita, i miei affetti, il mio futuro. Tornerò e Richard Connor si pentirà del male che mi ha fatto.























Babbo Natale quest'anno mi ha portato un regalo davvero gradito: l'ispirazione. Ed eccomi quindi a postare il terzo capitolo di Fuoco nero. Come vi avevo già anticipato, questi primi capitoli sono puramente introduttivi: dal prossimo entreremo nel cuore della vicenda. Ringrazio le cinque persone che hanno commentato lo scorso aggiornamento, chi segue, preferisce, ricorda e anche chi legge soltanto. Spero abbiate passato un buon Natale, pieno di risate e regali e persone che vi vogliono bene. :) Alla prossima, Elisa.








Mi dimentico sempre di farlo, ma ci tenevo a lasciarvi il link del mio profilo facebook. Se volete chiedermi l'amicizia sarò felicissima di accettarvi :)




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Volete ricevere spoiler, anticipazioni e curiosità sulle mie storie? Volete sapere che aspetto hanno Annabelle e Richard, stare al passo con gli aggiornamenti, sapere a che punto sono con la stesura dei capitoli? Io e Matisse abbiamo creato questa paginetta in comune:











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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


Fuoco nero, capitolo quattro




Capitolo tre





Se ci pungete non sanguiniamo? Se ci fate il solletico non ridiamo? Se ci avvelenate non moriamo? E se ci fate un torto, non dovremmo vendicarci?
-Il mercante di Venezia-










Quattro anni dopo






E' con mani tremanti che ti scrivo questa lettera. Mia cara Annabelle, dolce bambina, la notizia è giunta così inattesa; il pensiero di separarmi da te mi sconvolge, ma il Barone ha deciso di allontanarti da Chaplam e né tu né io avremmo avuto la forza di contrastarlo. Ci sono così tante cose che vorrei dirti. Vorrei raccontarti dei tuoi genitori, della tua nascita, della gioia che ho provato accudendoti e prendendomi cura di te. Hai riempito le mie giornate, attenuato la solitudine, mi hai fatto scoprire cosa significhi amare qualcuno con tutta me stessa.
Non ti ringrazierò mai abbastanza per l'affetto che mi hai regalato, e che spero di averti restituito in egual misura. Nutro il presentimento che non potrò mai dirti queste parole ad alta voce, per cui perdonami se i miei ti sembreranno i vaneggiamenti di un'anziana signora.
E troppo tardi, Belle, troppo tardi per tutto. Ma avevo bisogno di ricordarti quanto tu sia stata una presenza fondamentale nella mia vita. Sei una bambina speciale: le porte di un meraviglioso futuro si apriranno dinnanzi ai tuoi occhi, ma dovrai guadagnarti il tuo lieto fine poiché scoprirai presto che sono poche le persone di cui ci si può davvero fidare. Non smettere mai di combattere: il potere risiede dentro di te, le tue scelte determineranno le sorti di Chaplam e della nostra amata Irlanda. Il potere, mia Belle. Il potere è tutto ciò che conta, la sola arma che avrai a disposizione per portare a termine la tua missione.
Con amore, Marie.



Aggrottai la fronte, perplessa. Le parole di Marie erano così enigmatiche, e io non riuscivo a spiegarmene il significato. Pensai che il dolore l'avesse accecata al punto da farla uscire di senno: Marie era sempre stata una donna piuttosto particolare, molti la definivano eccentrica, altri pensavano fosse una strega,  ma non si era mai profusa in inutili farneticazioni.  Sfiorai i solchi che la penna aveva lasciato sulla carta; un tremulo sorriso mi fiorì sulle labbra. Erano passati quattro anni dalla prima volta in cui l'avevo letta. Quando sentivo nostalgia di casa la recuperavo dal fondo del materasso, l'unico posto in cui i miei effetti personali potevano considerarsi al sicuro. Nulla sfuggiva al controllo delle insegnanti di Frieding House. In fondo alla lettera una piccola incisione vergata con mani tremanti: Mors tu vita mea. La tua morte è la mia salvezza.
«Belle? Belle, dove ti sei cacciata?» Bridget, la mia compagna di stanza, mi apostrofò con voce petulante, guardandomi con occhi sospettosi. Non potevo biasimarla: avevo la pessima abitudine d'isolarmi, sola coi miei pensieri, lontana da tutto e da tutti, forse persino da me stessa. Insegnanti e studenti mi consideravano una ragazza strana, bizzarra, solitaria. La verità è che non mi ero mai sentita naturale, mi ero impegnata per esserlo, tentativi striduli, perchè impegnarsi per sentirsi naturali è già una sconfitta.
Frieding House era un collegio destinato ad accogliere fanciulle appartenenti all'antica nobiltà inglese: creaturine graziose, compite, con un parlato colto e affettato. Conoscevano tutte le regole del savoir faire, guai a sbadigliare senza coprirsi la bocca col ventaglio o a lasciarsi sfuggire un'imprecazione. Il rito della mescita era considerato l'evento più eccitante della giornata, quando un' insegnante diceva inchinati tu ti dovevi inchinare, quando intimava silenzio!, nell'aria si potevano udire il ticchettio dell'orologio e il fruscio delle gonne che si sfregavano contro le cosce nude. Io ero considerata un pesce fuor d'acqua: quando ero arrivata a Frieding House avevo solo tredici anni, non sapevo inchinarmi né servirmi il bianco mangiare - gli inglesi sembravano prediliger
e i cibi insapore- con le giuste posate. Non avevo una forchetta personale, nessuno mi aveva avvertita che a Frieding House fosse obbligatorio possederne una. Quando le insegnanti lo avevano scoperto, ero stata esposta a pubblica umiliazione. Tutti avevano preso a deridermi: i primi giorni avevo cercato di combattere la fame, ma quando questa aveva avuto il sopravvento sull'orgoglio mi ero accontentata di piluccare fette di pane rappreso aiutandomi con la punta delle dita. Mangiavo tenendo la testa alta, sfidando chiunque a bistrattarmi, avvelenata dal risentimento, fiera del mio essere una bastarda irlandese senza amici. E i giorni erano passati, scanditi dall'incessante brontolio del mio stomaco vuoto, finché una cameriera mossa a pietà aveva deciso di prestarmi una forchetta e un cucchiaio ammaccati appartenuti a chissà chi prima di me. Tre mesi dopo, un misterioso donatore mi aveva inviato un intero set di posate d'argento con sopra incisa una sola lettera, una C, e nient'altro.
«Allora, ti vuoi sbrigare?» Bridget contrasse le labbra in un sorriso sprezzante «I tuoi amici sembrano ansiosi di salutarti»

Le lanciai uno sguardo colmo di disprezzo. Era semplicemente gelosa, Bridget, e con lei la maggior parte delle mie compagne di corso.
Nonostante non fossi ancora riuscita a dare un senso alla lettera di mia nonna, le sue ultime parole mi avevano affascinata: il potere.

Il potere rende le persone invincibili. Invulnerabili. Nel corso degli anni mi ero appropriata di quella bizzarra filosofia di vita, e avevo constatato che Marie aveva ragione: nessuno sarebbe riuscito ad ammansire il mio spirito, se io non glielo avessi permesso. Le insegnanti mi definivano una creatura ribelle: avevo scoperto che bastava un'occhiata sprezzante per allontanare le mie indisponenti compagne di corso. Il potere. Erano anni che nessuno si azzardava a prendersi gioco di me. Al tempo stesso, crescendo mi ero accorta che gli uomini non erano indifferenti alla mia presenza. Il potere. E allora sbattevo le ciglia, contraendo la bocca in un tremulo sorriso,  assecondando la vanità dei miei corteggiatori,  e in quel modo ero riuscita ad abbindolare alcuni giovani signorotti che frequentavano clandestinamente il collegio, facendomi regalare la maggior parte degli effetti personali di cui avevo bisogno -spazzole, ninnoli e sali profumati-, e che nessuno, dalla scomparsa di Marie, aveva più provveduto a procurarmi.  Mia nonna era morta, sì. In un caldo pomeriggio di fine giugno mi era stata recapitata una lettera in cui si annunciava la dipartita di Marie Anne Chandler. Con lei avevo perso non solo l'unica persona su cui sapevo di poter contare, ma anche la possibilità di rivedere la mia amata Irlanda. Per poi scoprire che, in mancanza di parenti che si prendessero cura di me, al compimento dei miei diciassette anni -l'età in cui una signorina dabbene debutta in società, ed è quindi costretta ad abbandonare il collegio-  il padrone della Contea avrebbe dovuto riportarmi a casa, accollandosi il ruolo di tutore. Ma io non avevo intenzione di piegarmi ai voleri del Barone. Nessuno aveva ascoltato le mie proteste, costringendomi a rassegnarmi al mio destino: sarei stata scortata a Chaplam dall'uomo che detestavo più di ogni altra cosa, l'uomo che mi aveva rovinato la vita,  esiliandomi in un Paese che non conoscevo, precludendomi la possibilità di dire addio a mia nonna, di assistere al suo funerale, di poterla vedere un'ultima volta.  
Mancavano poche ore, e Richard Connor sarebbe venuto a prendermi. I bagagli erano pronti: non avevo nessuno da salutare, se non alcuni giovani contadini che mi avevano aiutata nei momenti di sconforto. Non sapevo cosa sarebbe successo dopo, e non avevo nessuna intenzione di scoprirlo.

Si fece sera, e finalmente una carrozza giunse ai cancelli del collegio. Ignorando i mormorii indignati della governante «Che il diavolo ti porti, Annabelle senza cognome!», i borbottii affettati delle mie compagne di corso «La bambolina se ne va, era ora! Chi la sopporta, quella sgualdrina dagli occhi spiritati!», i sussurri a denti stretti con cui mi apostrofarono le insegnanti «Cerca di non comportarti come una languida servetta, Belle: il barone è un uomo importante e andrà su tutte le furie quando vedrà che razza di creaturina svenevole sei diventata», afferrai l'unica valigia che possedevo e mi precipitai da basso. Il maggiordomo mi rivolse un cenno di commiato che non ricambiai.
La pungente aria autunnale mi sferzò il viso, strinsi le labbra, socchiudendo gli occhi e incamminandomi verso l'austero profilo della carrozza. Il veicolo messo a disposizione dai Connor  era di gran lunga il più lussuoso in cui avessi viaggiato, coi finestrini coperti da tende di velluto, l'esterno laccato decorato con motivi ornamentali in oro e l'interno foderato di pelle.
Il valletto mi fece entrare nell'abitacolo, non prima di avermi lanciato un lungo sguardo ammirato. Il cuore mi batteva all'impazzata: non vedevo l'ora di affrontare Richard Connor, di guardare in faccia la causa della mia infelicità. Tuttavia, quando mi accomodai all'interno incontrai gli occhi supplichevoli di una fanciulla che non doveva avere più di diciotto anni.
Ero stupita, e lei dovette notare la mia espressione stranita poiché si affrettò ad allungarsi verso di me. Mi strinse le mani fra le sue, e un pallido sorriso fiorì sul suo volto. Aveva i denti ingialliti, i capelli sporchi, neri come la notte, dita ruvide e nodose, nonostante la giovane età.
«Mi chiamo Francine e sono qui per servirvi, Madame»
Scossi il capo «Piacere di conoscerti, Francine» fece per parlare, ma io continuai «Ti prego di chiamarmi semplicemente Annabelle. Non c'è bisogno di darmi del voi: sono soltanto una serva, esattamente come te. Immagino sia questo il motivo per cui il Barone si è premurato di venirmi a prendere»
Si rilassò, afflosciando le spalle «Come ti pare, Belle» partì a tutto spiano «Sono contenta di non aver trovato una spocchiosa signorina inglese. Proprio non le sopporto, le inglesi» una fossetta le solcò il mento.
«A proposito, come mai lui non è qui? Pensavo si sarebbe precipitato di persona» mormorai sarcastica.
Francine sghignazzò e tacque. Non c'era bisogno di aggiungere altro; era una domanda retorica, la mia
, e nonostante la giovane età Francine pareva sapere che alle domande retoriche non si  doveva
rispondere.  Il silenzio scese su di noi, intensificato dal nitrire dei cavalli e dalla pioggia che aveva preso a ticchettare sul tetto della carrozza. Fu col cuore in subbuglio e la mente piena di angosciosi ricordi che dissi addio all'Inghilterra.

 


Il viaggio si rivelò stancante, ma ero talmente ansiosa di tornare a casa che quasi non me ne accorsi. Ci fermammo un paio di volte; in entrambe le occasioni il cocchiere insistette per farmi entrare in una locanda e consumare un pasto caldo. L'eccitazione non mi impedì di approfittare della generosità del mio accompagnatore. Mi mancava tutto della mia terra, persino le cose più elementari come il cibo -non più insipido pane bianco e fettine di vitello, ma ceci e fagioli e carne generosamente speziata- e la torbida aria autunnale che frustrava le chiome degli alberi, sibilando minacciosamente.
La contea di Chaplam e i suoi dintorni erano esattamente come li ricordavo, con grandi pascoli, terreni incolti e paesini con ponti che scavalcavano le rive dei fiumi. La carrozza abbandonò la strada principale per imboccarne  una molto più piccola, costeggiò la periferia di Chaplam e s'introdusse in una lunga strada privata. Superammo i cancelli della tenuta dei Connor  che, come spiegò Francine, aveva un'estensione di circa ottocento ettari. Mezz'ora dopo la carrozza giunse in paese, e anche lì i luoghi mi erano così familiari, tutto sapeva di casa, di appartenenza, del dolce sapore dei ricordi: la bottega del pescivendolo, la piazza costeggiata da arcate di cemento, il mercato dei fiori, le bancarelle di frutta e verdura, i portici gremiti di ambulanti, aristocratici, ladri, gente di teatro e prostitute.
Lacrime di nostalgia mi riempirono gli occhi, ma non mi lasciai sopraffare dalla tristezza. Pensai che il cocchiere mi avrebbe scortata sino alla vecchia capanna in cui io e mia nonna avevamo abitato, ma non fu così.

Sentii l'agitazione farsi strada dentro di me, e guardai Francine con espressione atterrita. La ragazza sorrise: «Non pensavi che ti avremmo portato in quella lurida capanna, vero?»  disse «Per tutti i diavoli dell'inferno, certo che no! Annabelle, il Barone non ha intenzione di mettere in pericolo la tua vita e la tua reputazione: non puoi vivere da sola. Sua Signoria si è rivelato un uomo previdente, considerando la bellezza che sei diventata» ridacchiò «Il Barone è stato così buono da chiedere a una sua lontana parente di ospitarti. Lady Philippa è vedova e non ha figli, sarà felice di prendersi cura di te. Non è particolarmente ricca e la sua tenuta non è neanche lontanamente paragonabile a quella del nipote, ma...»
«Non preoccuparti, Francine
» mormorai a denti stretti. Apprezzai le premure del Barone, nonostante il mio odio non si fosse affatto attenuato. Il pensiero di dover abitare in una casupola isolata senza la protezione di nessuno mi atterriva.  Fu così che, venti minuti dopo,  varcai la soglia di una piccola abitazione tutt'altro che lussuosa, ma dall'aspetto caldo e confortevole. Una donnina vestita di nero mi accolse stringendomi in un abbraccio materno, guardandomi con occhi prima curiosi, poi ammirati. Resistetti all'impulso di scostarmi: non ero abituata agli abbracci, né a simili slanci di benevolenza.
«Una vera bellezza-ah» mormorò con voce accorata. Il suo tono aveva una cadenza singolare, quasi pomposa. Notai una vaga somiglianza coi lineamenti decisi di Richard Connor, ma i modi della donna erano molto più amichevoli «Vallo a sapere che saresti stata così attraente, bambina!» ridacchio, incurante della mia espressione smarrita «Ti dovrò nascondere se non vorremo avere a che fare con un'orda di giovanotti innamorati» notando la mia confusione le sue labbra si schiusero in un dolce sorriso «Io sono Philippa, la tua nuova tutrice. Conoscevo tua nonna, anche se solo per sentito dire» sghignazzò «E adesso vieni con me» raccolse le mie mani fra le sue e mi fece fare un giro della casa, cincischiando sugli abiti che mi avrebbe voluto confezionare «Sono un'ottima sarta-ah» disse, «e tu saresti un modello perfetto per le mie creazioni», sul fatto che avesse proprio bisogno di qualcuno che vivacizzasse le sue giornate «Da quando è morto mio marito mi sento così sola-ah!», su libri e musica e argomenti che non conoscevo. Fu così che conobbi la mia protettrice, la donna che si sarebbe presa cura di me solo come mia nonna avrebbe saputo fare. Fu così che il pensiero di riprendere in mano le redini della mia vita fece divampare una scintilla di speranza nella mia mente.





 



















Non mi sono mai sentita naturale, mi sono impegnata per esserlo [...], frase tratta dal libro Venuto al mondo, di Margaret Mazzantini.
L'idea di enfatizzare le parole di Philippa mi è venuta in mente leggendo un libro di S.King, Cose preziose.


E' tardissimo e sto praticamente crollando sul pc, quindi rimando i convenevoli al prossimo capitolo. Un grazie speciale a chi legge e recensisce, a chi preferisce, segue e ricorda e ai lettori che mi hanno inserita fra gli autori preferiti. Il prossimo capitolo sarà il vero inizio di questa storia.
Risponderò ai commenti entro domani sera, giuro :). A presto, Elisa.




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