De Ignoto Silmarillion

di Milako
(/viewuser.php?uid=5628)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ainulindalë ***
Capitolo 2: *** Valaquenta ***
Capitolo 3: *** Dell'Inizio dei Giorni ***
Capitolo 4: *** Di Aulë e di Yavanna ***
Capitolo 5: *** Della Venuta degli Elfi e della Cattività di Melkor ***
Capitolo 6: *** Di Thingol e di Melian ***
Capitolo 7: *** Di Eldamar (e dei Principi degli Eldalië) ***



Capitolo 1
*** Ainulindalë ***


Disclaimer: i personaggi presenti in questa storia appartengono a Tolkien e a chi ne detiene i diritti. Non scrivo a scopro di lucro e nessuna violazione del copyright è intesa.
Per citare/riprendere/tradurre questa storia in parte o in toto dovete avere il mio esplicito permesso.

_______

De Ignoto Silmarillion

ovvero

Ciò che Tolkien Non Ci Ha Mai Rivelato.

1. Ainulindalë
Il Casino degli Ainur


Esisteva Eru, l’Unico, che in Arda è chiamato Ilúvatar; ed egli era prima che ogni altra cosa esistesse.

Come chiunque al suo posto, Ilúvatar si sentì molto fiero del ruolo di divinità onnipotente e prese ad andare in giro per il Vuoto Atemporale, declamando a gran voce la propria grandezza.
‹‹Emh emh. Io sono Eru, l’Unico!››.
Ma non ricevette risposta. Riprovò.
‹‹Sono Ilúvatar, Colui che è Padre di tutti!››.
Ancora una volta nessuno gli rispose. Ilúvatar si incupì, ma prese fiato e portatosi le mani attorno alla bocca a mò di megafono, tuonò:
‹‹
Sono il Signore dell’Universo per tutti i Tempi a venire!››.
Silenzio.
Ilúvatar si sentì d’improvviso molto solo e molto triste. Che gusto c’era ad essere il Signore incontrastato dell’Universo se non ci si poteva figheggiare con nessuno? Non era affatto giusto.
L’allora giovane ed inesperto dio cominciò a camminare in circolo, rimuginando intensamente sulla questione. Insomma, lui era l’Onnipotente! Il fatto che non avesse alcun seguace, adepto o sottoposto che ammirasse incondizionatamente il suo splendore era quantomeno frustrante. E ancor più frustrante era che non gli venisse in mente nulla per risolvere l’inconveniente! Doveva assolutamente fare qualcosa, poffarbacco…
Fare qualcosa! Ilúvatar si fermò di colpo e batté il pugno sulla sua enorme mano destra. Ma certo! Sono dio da mezz’ora e non ho ancora creato nulla. Che stupido: speriamo che quello che in sette giorni ha creato l’Universo non lo venga a sapere, mi sfotterebbe a vita.
Tutto contento per la genialata, Ilúvatar trotterellò indietro sfregandosi le mani, impaziente di recuperare il tempo perduto. Si chinò, afferrò il Kit del Dio Alle Prime Armi che gli avevano consegnato Ancora Prima, si mise a gambe incrociate per terra e si alzò le maniche; una volta che ebbe tutto pronto – das, plastilina, colori, pennelli, colla vinilica e forbici dalla punta arrotondata – poté finalmente dare inizio alla Creazione.

***

Fu così che Ilúvatar creò gli Ainur, Coloro che sono santi, progenie del proprio pensiero, ed essi erano con lui prima che ogni altra cosa fosse creata.
Nervosamente, il giovane dio li mise in schiera, raddrizzò le loro spalle e li spolverò un poco. Dopodichè indietreggiò, ammirando soddisfatto il proprio lavoro.
Gli Ainur erano la rappresentazione del sottoposto ideale che ogni dio vorrebbe: bellissimi, splendenti, soavi, con i capelli setosi e le unghia perfettamente curate; erano stati creati con il preciso intento di lodare e ammirare il loro fattore oltre i limiti del possibile, sapevano cantare, ballare, recitare, guidare, fare le pulizie, programmare il videoregistratore e preparare il caffé.
Un moto d’orgoglio si agitò nel mastodontico petto di Ilúvatar: le sue creature! Impaziente, li mise alla prova.
‹‹Emh emh...›› esordì, la voce carica di aspettative, ‹‹io sono Eru Ilúvatar!››.
Gli Ainur rimasero un attimo in silenzio. Subito dopo alcuni di essi sgranarono gli occhi e si portarono le mani alla bocca in un’espressione di completa adorazione; altri si guardavano fra di loro bisbigliando increduli come in cerca di una conferma, incapaci di credere a quanto sentito; qualcuno addirittura scoppiò in lacrime, sopraffatto dall’emozione; la maggior parte di essi comunque si era immediatamente gettata ai divini piedi di Ilúvatar, in un coro di gridolini isterici che neancheun mix fra Johnny Depp, Orlando Bloom e Raoul Bova sarebbe in grado di scatenare.
A questa vista Ilúvatar fu colto dalla gioia, già gongolante al pensiero delle adulazioni in cui avrebbe sguazzato. Incapace di resistere, fece un’altra prova.
‹‹Sono Colui che è il Padre di tutti!››.
‹‹Oooh!››.
‹‹Waaaaah!!!››.
‹‹Oh , wooow!››.
‹‹Sono il Signore dell’Universo!››.
‹‹E’ vero, è vero!››.
‹‹Sì, mio Signore, dell’Universo intero!››
‹‹Oh, sì, mio Sire, lo dica di nuovo, la prego!››.
E sarebbe andata avanti così ancora per molto - gli Ainur sembravano essere tanto belli quanto ruffiani e non accennavano né a interrompere né a diminuire le lusinghe - se Ilúvatar, alzato un attimo lo sguardo dalle sue creature, non si fosse avveduto di un’anomalia. Uno degli Ainur non stava svolgendo il suo "lavoro": non sembrava né in preda all’adorazione più folle né sconvolto dalla gioia; stava seduto di spalle, lontano dal gruppetto, tutto preso dall’ultimo numero della Settimana Enigmistica. Ilúvatar ne fu turbato.
‹‹Melkor›› lo chiamò ‹‹che stai facendo?››.
‹‹I cruciverba.›› rispose l’Ainu. ‹‹Perché, non si vede?›› aggiunse, sventolando il giornaletto verso l’interlocutore.
‹‹Sì, lo vedo. Tuttavia me ne dispiaccio. Perché non vieni qua a salutare il tuo Creatore come i tuoi fratelli?›› lo incitò Ilúvatar sfoggiando un sorriso paterno.
‹‹Ma non ci penso nemmeno, guarda. Ho una dignità, io, e anche un cervello. Piuttosto, senti un po’…›› chiese Melkor tornando alle sue occupazioni ‹‹…quattro orizzontale: "Il J.R.R. autore del Silmarillion". Sai mica chi è?››.
‹‹Boh? No, mai sentito›› rispose candidamente Ilúvatar. ‹‹Comunque ci sono rimasto male, Melkor. La tua indifferenza mi ferisce e la tua ingratitudine mi offende: non ti parlo più!››, concluse, tornando a volgere il suo amore e la sua attenzione alle dolcissime e adoranti creature attorno a lui.

***

Trascorsero lieti giorni. Gli Ainur pendevano dalle labbra di Ilúvatar, che dal canto suo non sembrava desiderare altro nella vita. Il Vuoto Atemporale sembrava un enorme frappé al cioccolato con sopra la panna e le roselline di zucchero, dal momento che gli Ainur, ad un cenno di Ilúvatar, gli riversavano addosso fiumi delle più stucchevoli e fantasiose lodi (dove arriva la ruffianeria… Che schifo. N.d.A).
Disgustato da tutto ciò, Melkor trovò saggio continuare a dedicarsi alle parole crociate, ai sudoku, agli origami, ai castelli di carta, alle freccette, ai francobolli, al ricamo, ai manuali di cucina orientale e a tutto ciò che potesse in qualche modo distrarlo da quel nauseante e continuo spettacolo.
Ilúvatar però si dispiaceva molto degli atteggiamenti dell’Ainu ribelle. Non sopportava di vederlo così solo, triste e cupo: ci doveva essere di sicuro qualcosa che poteva fare per aiutarlo! Scosse la testa e si voltò verso gli Ainur.
‹‹Creature mie, io mi allontano un attimo…›› cominciò, ma non fece in tempo a finire la frase che gli Ainur precipitarono nello sconforto.
‹‹No! E nooo! E ci lasci soli?›› pigolò la piccola Varda in tono lamentoso.
‹‹Ma solo per poco, piccina mia…›› tentò il dio.
‹‹Dove vai, padre?›› intervenne Manwë saltando su. ‹‹Eh? Dove vai? E quando torni? E…Padre! Non avrai forse intenzione di andare da Melkor!?›› aggiunse guardando Ilúvatar con tanto d’occhi.
‹‹Sì, Manwë, vado da tuo fratello Melkor. Nonvedi com’è sempre triste e isolato? O ti fa forse piacere che lui stia sempre da solo in camera sua mentre tu ti rallegri del mio amore?›› indagò Ilúvatar, sospettoso.
Manwë, che per la verità odiava profondamente Quello Sfigato -come fra sé e sé chiamava Melkor-, stava già per rispondere: "Sì, ci godo come un riccio!"; fortunatamente Mandos fu veloce a tappargli quell’infame boccaccia e rispose al suo posto: ‹‹Ma no, padre: Manwë dice sempre che gli piacerebbe tanto che Melkor giocasse con noi. Vero, Manwë?››.
L’antica ruffianeria risorse immediatamente in Manwë che confermò docilmente.
‹‹Ne ero sicuro›› disse Ilúvatar sorridendo bonario. Ah, com’era bello l’amore fraterno!
Prese in braccio il piccolo Manwë (che tanto piccolo non era, ma in confronto a Ilúvatar… N.d.A.), gli scompigliò i capelli e si rivolse al resto degli Ainur.
‹‹Ora papà va un attimo via, va bene?››. Gli Ainur annuirono amorevolmente. ‹‹Voi nel frattempo state buoni e giocate. Mi raccomando, non mi fate preoccupare!›› aggiunse, con una nota di apprensione. Dopo aver messo giù Manwë, il buon Ilúvatar si avviò verso la cameretta di Melkor.

***

Dev’essere triste per qualche motivo, pensava Ilúvatar mentre camminava, forse è geloso perché sto sempre con gli altri Ainur e mai con lui. Magari è sempre così triste e scontroso perché gli manca l’affetto paterno. Sì, dev’essere sicuramente così. Ma non sia mai che una delle mie creature debba sentirsi poco amata!
Cuore di padre!
Ilúvatar si fermò davanti alla porta della stanzetta, rimanendo per un attimo ad osservare i vari adesivi che recitavano avvertimenti come ‹‹Vietato l’accesso ai non addetti ai lavori›› e ‹‹Pericolo di morte!››. C’era anche un grossa foto adesiva di Ilúvatar con la scritta: ‹‹Io non posso entrare››. Il dio sospirò, quindi si risolse a bussare.
‹‹Melkor?›› chiamò, esitante.
L’unica voce che gli rispose fu quella del cantante dei Blind Guardian: il giovane Ainu stava ascoltando Nightfall in Middle-Earth a tutto volume (Mi rendo conto che i gusti musicali di Melkor siano prevedibili, ma... N.d.A.).
Ilúvatar sbuffò. ‹‹Melkor? Sono io, apri!›› disse, bussando per la seconda volta.
La musica si interruppe. Ilúvatar sperò che le sue divine orecchie lo avessero ingannato, perché gli era parso di aver sentito qualcosa che assomigliava terribilmente a: ‹‹Oh, no, di nuovo lui… Che sacrosante palle!››…
‹‹Melkor! Avanti, dai!››.
Un tintinnare di catene metalliche accompagnò i passi di Melkor, che aprì la porta con la migliore delle sue facce schifate.
‹‹Beh?›› chiese, scostante, rimuovendo inesistenti granelli di polvere dal cappotto di pelle nera. ‹‹Che vuoi?››.
Ilúvatar sospirò: stava cominciando a scoprire le gioie di avere un figlio adolescente.

***

‹‹E noi che facciamo?›› sbuffò Manwë incrociando le braccia, contrariato. ‹‹Papà è da Quello Sfigato!››.
‹‹Facciamo i gavettoni!›› propose speranzoso Ulmo, futuro Signore delle Acque.
‹‹No! Giochiamo con i Lego!›› ribatté Aulë, che col tempo sarebbe divenuto il Maestro degli artigiani.
‹‹Io voglio giocare ai cavalieri!›› si intromise Oromë, ignaro di avere davanti un’intera vita di cavalcate.
‹‹Facciamo i Quattro Cavalieri dell’Apocalisse? Io faccio la Morte !›› saltò su Mandos, che come sentiva la parola "morte"si sentiva stranamente a suo agio.
‹‹Ma noi siamo quattordici, non quattro…›› obiettò timidamente Lórien.
‹‹E allora gli altri dieci fanno gli Stallieri dell'Apocalisse!››.

***

‹‹Melkor, figliolo…›› cominciò Ilúvatar, intimidito.
‹‹No, no… aspetta…›› Melkor aveva la faccia di uno che ha appena ingoiato un limone intero ‹‹…se mi chiami un’altra volta "figliolo" è la volta buona che mi suicido e libero questo Universo dal male…››
Ilúvatar impiegò un attimo ad interpretare la frase. Dopo essere giunto alla conclusione che quello non era decisamente un complimento si sentì mancare: in fondo lui aveva ascoltato soltanto complimenti in vita sua! Si riscosse e decise di tentare con un altro approccio.
‹‹Melkor… ho bisogno di parlarti!›› disse speranzoso.
L’Ainu lo fissò per due secondi. ‹‹Capisco…››.
‹‹Oh, pace…››.
‹‹…però io non ho bisogno di ascoltarti!››.
Ilúvatar gemette. Insomma, gli altri quattordici gli erano venuti così carini! Cosa aveva sbagliato con lui? Tentò con la forza.
‹‹Melkor! Non parlare così a tuo padre!››.
‹‹Ecco, ora mi suicido veramente…››.
‹‹
Melkor!››.

***

‹‹Facciamo a braccio di ferro?›› suggerì il forzutissimo Tulkas, ma tutti rifiutarono con decisione.
‹‹Giochiamo che io ero la Regina delle Stelle e Manwë era il mio sposo!›› disse Varda in tono sognante. Subito Manwë si tirò indietro rabbrividendo: non avrebbe passato con quell’insopportabile piccola dea nemmeno un giorno della sua millenaria esistenza!
‹‹Io voglio cantare! Cantiamo?›› cinguettò Yavanna.
‹‹No!›› la metà maschile degli Ainur non ne aveva la minima intenzione.
‹‹Ma a me piace cantare… e anche a Varda…›› pigolò la dea raggiungendo l’amica del cuore. ‹‹Manwë, mio sposo! Convincili tu!›› disse questa, rivolta allo "sposo".
‹‹Taci, oca!›› rispose Manwë.
Il labbro inferiore di Varda cominciò a tremare. Yavanna fulminò Manwë con lo sguardo e fece un passo verso di lui. Manwë deglutì.

***

‹‹Cos'hai da urlare!›› sbottò Melkor. ‹‹Sono giovane, IO - ci sento!››.
‹‹Sì! Sei giovane, e stronzo!›› gli gridò contro Ilúvatar, che a quel punto aveva già perso il lume della ragione.
‹‹Cosa hai detto, vecchio?›› sibilò Melkor.

***

‹‹Come hai chiamato Varda, verme?›› inquisì Yavanna minacciosa. Manwë fece immediatamente appello a tutta la sua ruffianeria.
‹‹Io… "cara"! L'ho chiamata "cara"!›› rispose prontamente il piccolo Signore dei Venti.
‹‹Ah, bene…›› rispose Yavanna ‹‹…perché altrimenti Varda piangerebbe, e noi non vogliamo che Varda pianga, vero? Anche perché altrimenti piangerebbe anche Nienna…››
‹‹NO!››intervennero in coro Mandos e Lórien con gli occhi di fuori: conoscevano bene l’entità e la durata dei pianti di loro sorella Nienna. La piccola, sentendosi chiamata in causa, cominciò a preparare le ghiandole lacrimali: non si sa mai…
‹‹No, Yavanna!›› esclamò orripilato Manwë a quella vista. ‹‹D’accordo, facciamo quello che decidete tu e Varda! Basta che Nienna non si metta a piangere››.
‹‹Bene! Allora canteremo!›› concluse vittoriosa Yavanna.
Nel tempo sarebbe diventata, oltre alla dea della fertilità, anche il simbolo della supremazia femminile sull’uomo.

***

‹‹Stronzo: ti ho chiamato stronzo! Lo sei!›› sputacchiò Ilúvatar fuori di sé.
‹‹Ma taci, specie di impedito, almeno fai più figura…›› disse disgustato Melkor. ‹‹Va', torna dai tuoi lecchini, di sicuro loro non ti fanno venire il sangue acido!››. Gli sbatté la porta in faccia e accese di nuovo lo stereo. Ilúvatar era sgomento: cosa aveva detto dei suoi Ainur?!
‹‹Melkor!›› chiamò, bussando forte. ‹‹Melkor!››

***

‹‹La la laaaa…››
‹‹La laaa…›› ♪
‹‹Lalallàààà la là!›› ♫
‹‹Lalà laaaalà!›› (*)

(*) Antichi canti che in lingua Valarin vogliono dire: "Stiamo creando tutto quanto l'Universo semplicemente cantando". N.d.A


***

‹‹Apri subito, giovane Ainu dalla faccia perennemente corrucciata!››
‹‹
Niiiiiightfaaaaaaaall – Quietly it crept in and changed us aaaaaaaaall ♪ ♫››

***

‹‹Firulì, firulà…››
‹‹Trallallero trallallàààà…›› ♫
‹‹La… la laaa… la LAAA!›› ♪

***

‹‹Melkor! Apri subito o sfondo la porta!››
‹‹
…Valinor's empty, now allied the Elves and Meeen - they shall be damneeeeed! ♪ ♫››

***

‹‹Etrallallalleru lalleru lalleru lalleru lallààà!›› ♪
‹‹Loondon Bridge is falling down, falling down, falling dooown…››
‹‹…my fair Lady!›› ♫

Nel mezzo di questo scontro, che scosse le aule d’Ilúvatar e che diffuse un tremito nei silenzi ancora immoti, Ilúvatar bussò una terza volta e il suo volto era terribile a vedersi. Poi egli alzò entrambe le mani e, con un unico colpo contro la porta di Melkor, più profondo dell’Abisso, più alto del Firmamento, penetrante come la luce dell’occhio d’Ilúvatar, il Casino cessò.

***

Gli Ainur accorsero e alla vista della porta sfondata furono colti da terrore. Tutti tranne Manwë, che già gongolava all’idea delle legnate che Melkor avrebbe preso.
Poi Ilúvatar parlò e disse: ‹‹Ecco, bravo, bravo l’adolescente problematico! Lo vedi cosa mi hai fatto fare? Io ora non te la faccio la porta nuova, resti così, non me ne frega niente! E non fare quella faccia che mi spaventi i piccoli!›› aggiunse, facendo da scudo alle sue creaturine. Melkor era rimasto immobile, quasi ammirato del fatto che "il vecchio" fosse stato in grado di buttare giù la porta. Notevole. La voce di Manwë lo riscosse da queste riflessioni.
‹‹Ora lo picchi, padre?›› disse il futuro Signore dei Venti tirando l’orlo della veste di Ilúvatar. ‹‹Ora picchi Melkor?››. Gli brillavano gli occhi e gli tremava la voce dell’emozione.
Ilúvatar dovette ammettere a se stesso di aver considerato per un paio di secondi l’intenzione di massacrare Melkor fino a farlo diventare viola; tuttavia nella sua infinità bontà fraintese la malizia della domanda di Manwë, scambiandola per apprensione fraterna.
‹‹No, piccolo mio››. Manwë scattò su ma trattenne un grido di protesta. ‹‹Non picchio tuo fratello e nemmeno lo punisco, stai tranquillo. Tuttavia, Melkor, è bene che tu veda come non sia possibile eseguire alcuna azione che non abbia la propria ultima origine in me e come nessuno abbia il potere di alterare la Volontà a mio dispetto››.
Allora gli Ainur ebbero paura e non compresero ancora le parole che venivano dette loro. Ilúvatar rimuginò soddisfatto sulla sua perla di saggezza: in realtà aveva detto una cazzata, ma tanto nessuno l’avrebbe smentito.
Melkor si voltò lentamente verso il dio: ‹‹Sarà, ma secondo me hai detto una cazzata…›› disse.
Gli Ainur sgranarono gli occhi, turbati; in Manwë rinacque la speranza di vedere un po’ di sana violenza su suo fratello e Ilúvatar si disse: Beh, tre volte buono è uguale a cretino!.
‹‹Bambini, andate in camera vostra›› ordinò loro guardando fisso Melkor.
‹‹Ma, padre…››.
‹‹
Bambini, andate in camera vostra!››.
Gli Ainur eseguirono, nonostante le lamentele di Manwë.
Allora Ilúvatar afferrò Melkor, gli abbassò i pantaloni, se lo mise sulle ginocchia e, ignorando proteste e calci, quel giorno diede al futuro Signore Oscuro le più sonore sculacciate della sua immortale esistenza.

***

‹‹Tutto a posto, piccoli miei?›› domandò placidamente Ilúvatar facendo capolino nella stanza delle pesti. In volto gli brillava un’inedita scintilla di sadismo appagato.
‹‹Padre! L’hai picchiato, padre?›› chiese subito Manwë saltandogli in braccio con la sua faccetta più innocente. Il dio sospirò.
‹‹Sì, Manwë…›› l’Ainu sorrise, incoraggiante, sperando nei dettagli, ‹‹…ma se l’è meritato. Ora ha imparato la lezione e non sarà più necessario››.
‹‹Oh›› borbottò il piccolo, deluso, ‹‹Sì, capisco…››.
‹‹Ma non pensiamoci più! Su, piccoli, ditemi: che avete fatto mentre io ero via?››.
‹‹Abbiamo cantato!›› enunciò Yavanna tutta contenta.
‹‹Sì! Abbiamo cantato tante canzoni!›› disse Varda andandosi a sedere sulle ginocchia del "papà".
‹‹E di cosa parlavano queste canzoni?›› chiese Ilúvatar. Sorrise. Era di nuovo felice! Era circondato dalle sue creaturine e niente, niente avrebbe disturbato questo momento di pace.
‹‹Parlavano di tante cose›› rispose Varda con voce sognante. ‹‹Del cielo, delle stelle…››
‹‹…della luce, della natura…››
‹‹…delle acque e degli oceani…››
‹‹…dei venti, delle montagne…››
‹‹…dei sogni…››
‹‹…e della
mooooorte!›› concluse Mandos tutto contento. Un brivido percorse la sala.
‹‹Erano tanto belle quelle canzoni›› mormorò Nienna, triste. Va bene, lo so che Nienna èsempre triste, ma questa volta lo era particolarmente.
‹‹Perché ti addolori, piccolina?›› le chiese Ilúvatar sorridendo forzatamente. Ecco, se lo sentiva! Era un momento perfetto e i Fratelli Morte & Malinconia dovevano sempre arrivare a guastare tutto!
‹‹So-sono triste perché le co-cose delle canzoni n-non esistono; è tutto nella nostra fantasia!›› si lamentò la piccola. ‹‹Le ste-stelle esistono solo nei pensieri di Varda. Non sono vere. Io vo-voglio vedere le stelle!›› singhiozzò Nienna, cominciando a tirare su col naso.
Gli Ainur si guardarono l’un l’altro, inquieti. Mandos si tappava già le orecchie con le mani, Manwë buttò lo sguardo al cielo, Varda strizzò gli occhi preparandosi all’onda d’urto, mentre Yavanna accarezzava con scarsa convinzione i capelli di Nienna: la piccola, lieta di constatare il terrore che era riuscita a diffondere con un singhiozzo e due lacrime, aprì la bocca con tutte le intenzioni di piangere le sue lacrime fino ad esaurimento scorte.
Fiutando la catastrofe imminente, Ilúvatar si affrettò a rimediare.
‹‹No, no!›› disse, sorridendo rassegnato. ‹‹La mia Nienna non deve piangere!
Non deve!››, tuttavia c’era ben poca tenerezza in quelle parole: il dio sembrava piuttosto in preda al panico. ‹‹Sai cosa fa ora il papà?››.
Nienna si arrestò un attimo prima dell’esplosione, guardando interrogativa il "papà" con due occhi grandi come uova di struzzo. Mandos, speranzoso, ebbe addirittura l’ardire di stapparsi le orecchie.
‹‹Ora il papà crea le stelle! Va bene se il papà crea le stelle?›› propose Ilúvatar, chiudendo gli occhi al pensiero dell’immane fatica che lo aspettava. Nienna sembrò pensarci su per un attimo, trattenendo i lacrimoni in posizione strategica: pronti a straripare al minimo ripensamento!
‹‹Sì››, mormorò infine. ‹‹Per le stelle va bene. M-ma per t-tutto il resto?›› si affrettò ad aggiungere, tornando in assetto d’attacco. ‹‹E’ br-brutto il cielo senza le nuvole!››.
‹‹E va bene…›› concesse il buon dio ‹‹…allora papà fa le stelle e le nuvole in cielo!››.
‹‹Ma non è giusto!›› Ulmo scelse il momento meno adatto della sua vita per lamentarsi. ‹‹Fai le stelle a Varda e il cielo e le nuvole a Manwë. Perché a me non fai gli Oceani? Vuoi più bene a loro due!››.
‹‹E’ vero!›› concordò Aulë. ‹‹Se fai l’Oceano a Ulmo io voglio le montagne!››.
‹‹E io la terra!››.
‹‹E io i giardini!››.
‹‹E io le aule degli Spiriti!››.
‹‹E io McDonald’s!››.
‹‹E io il Disney Store!››.
A quel punto Ilúvatar vacillò. Passino una manciatina di stelle e due nuvole giusto per fare contenta la piccola, ma montagne, terre e oceani erano un altro paio di maniche! Per non parlare del fast-food... No, non poteva accontentarli tutti - sarebbe stata una fatica immane anche per lui, e poi non poteva di certo viziarli! Gli Ainur lo guardavano con tanto d’occhi, stampandosi in faccia tutta la tenerezza di cui erano capaci. Ilúvatar scosse la testa e aprì la bocca, intenzionato a fare ai piccini un discorso su quello che un papà può regalare ai propri figlioli e quello che non può, ma una voce lo interruppe.
‹‹Oh… Cosa sono queste preferenze? Guarda che io voglio l’Inferno, eh!››.
Melkor, più morto che vivo dopo le divine sculacciate ma sempre strafottente, metallaro e con la sua faccia eternamente corrucciata, si era intromesso nella discussione.
‹‹Melkor…›› Ilúvatar chiuse gli occhi ‹‹L’Inferno lo scatenerò sul tuo sedere se non ti levi di qua. Mi spaventi i piccoli; guardati: sei allegro come la Morte!››.
‹‹Morte? Dove?›› Mandos si guardò attorno speranzoso, ma mai quanto Manwë che non stava più nella pelle dalla voglia di assistere ad un potenziale bis di legnate.
‹‹Mandos, zitto – Melkor, non parlare di queste cose davanti ai bambini. E tu sta giù, Manwë: non gli faccio niente, tranquillo!››. Manwë gemette impotente di fronte a tanta ottusità.

Ilúvatar, del resto, aveva già i suoi problemi: le crisi di pianto di Nienna, i capricci degli altri Ainur, i gusti macabri di Mandos e ora pure le pretese di quella piaga di Melkor! C’era un limite anche a quello che l’Onnipotente poteva sopportare e i suoi nervi erano già tesi come le corde di un violino reduce da dodici ore di concerto ininterrotto: sarebbe bastata un’altra, un’altra sola goccia e il vaso sarebbe drammaticamente traboccato…
Manco a dirlo, la "goccia" assunse le fattezze di un singhiozzo di troppo di Nienna, che non fece in tempo a dire "Porco Melkor!" e si ritrovò, assieme a tutti gli altri Ainur, scaraventata su Arda, il mondo appena creato.
‹‹Eh, quando ci vuole ci vuole!››. Uno schermo nero apparve davanti agli Ainur e su di esso il volto di Ilúvatar li guardava torvo.
‹‹Ma… Padre! Perché ci punisci così? Perché ci privi dello splendore della tua vista?›› si lamentò Manwë, di ritorno all’antica ruffianeria.
‹‹Taci, lecchino!›› disse rabbiosamente il dio. Manwë calò il capo, umiliato. ‹‹Ora tu e tutti i tuoi fratelli abiterete in Arda. Vi chiamerete Valar…››
‹‹…Valar? Perché Valar?›› domandò timidamente Varda.
‹‹Perché Ainur non mi piace più, sembra un nome da Pokémon; e poi Valar viene meglio da pronunciare›› spiegò rapidamente Ilúvatar. ‹‹Ora vi impegnerete per realizzare con le vostre mani le cose che avete immaginato e cantato›› proseguì senza pietà.
‹‹Ma come!›› si sbalordì Aulë. Lui aveva pensato a montagne alte tremila metri e pesanti innumerevoli tonnellate, ma mica si era mai sognato di farle con le sue mani! E che diamine!
‹‹E’ così, e taci!›› ripeté Ilúvatar godendosi per la prima volta appieno il suo potere. ‹‹Melkor!›› tuonò in direzione della "pecora nera". ‹‹Tu invece ti impegnerai a distruggere tutte le cose create dai Valar! Mi raccomando, olio di gomito e mano pesante, eh!››.
‹‹No! Ma perché! Lui si diverte così!›› obiettò Manwë. ‹‹E’ un premio, non una punizione!››. Melkor non disse nulla, avendo già fiutato il bidone.
‹‹Sì, ma che c’entra…›› spiegò Ilúvatar ‹‹…è perché poi voi lo terrete prigioniero per tre ere: ve lo rivelo in anteprima››.
‹‹Ecco, e ti pareva…›› Melkor scosse la testa e si allontanò con le mani in tasca.
‹‹Ah, un’altra cosa.›› aggiunse Ilúvatar richiamando l’attenzione dei Valar. ‹‹Fra un migliaio di anni o due, non so… quando mi tornerà la voglia di lavorare, comunque…›› i Valar si guardarono scettici ‹‹…ho intenzione di mandare su Arda delle mie nuove creaturine››.
‹‹Ma no! Ma basta!››.
‹‹Ancora?››.
‹‹E che è?››.
‹‹Ma che bisogno c’è?››.
‹‹Beh, avete ragione›› ponderò l’Onnipotente, ‹‹in realtà non c’è alcun bisogno, ma è così… tanto per il gusto di farvi provare com’è bello essere circondati da piccoli Elfi orgogliosi e viziati come voi…›› concluse ghignando al pensiero del malsano seme della follia dilagante che aveva intenzione di impiantare in gran parte dei suoi Elfi. I Valar, non sapendo più cosa aspettarsi da colui che nel giro di dieci minuti era passato dalla modalità "papà buono" a quella "ira divina" fino al "vecchio buontempone", scossero la testa e si allontanarono lentamente, facendo una rapida stima delle loro disgrazie.
‹‹Ah. Manwë!›› ilSignore dei Venti si voltò, sperando in un improvviso cambio di idee. ‹‹Ho deciso che sposerai Varda. Contento, sì?››. Il dio a quel punto non poté più trattenersi e scoppiò a sghignazzare senza ritegno. Manwë impallidì, rantolò e non proferì verbo; raggiunse i suoi fratelli ed essi scorsero da lontano Melkor che si dava già alla pazza gioia, distruggendo quelle quattro pietre che c’erano ai tempi in Arda.

Ebbe così inizio la prima battaglia dei Valar contro Melkor per il dominio di Arda; e di quei tumulti gli Elfi conoscono ben poco […] . E tuttavia le fatiche dei Valar non furono tutte invano; e sebbene il loro volere e il loro progetto non ebbero compimento in alcun luogo e in alcuna opera […], nondimeno la Terra venne lentamente modellata e resa stabile. E così alla fine la dimora dei Figli d’Ilúvatar venne edificata nelle Profondità del Tempo e al centro delle stelle innumerevoli.


Note:
Sì, lo capisco che il Professore sarà lì a rivoltarsi nella tomba, ma che posso farci? Stavo rileggendo il Silmarillion e le idee sono venute tutte da sé...
Nel caso in cui qualche anima pia abbia voglia di puntarmi il dito addosso accusandomi di blasfemia ed eresia, che si calmi: Ilúvatar non esiste.
Nei prossimi capitoli ci sarà un po' più di movimento, spero... =P

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Valaquenta ***


Disclaimer: i personaggi presenti in questa storia appartengono a Tolkien e a chi ne detiene i diritti. Non scrivo a scopro di lucro e nessuna violazione del copyright è intesa.
Per citare/riprendere/tradurre questa storia in parte o in toto dovete avere il mio esplicito permesso.

_______

2. Valaquenta

Novero dei Valar e dei Maiar

secondo le tradizioni e le fonti degli Eldar

(di cui io personalmente non mi fido, considerando che stiamo parlando di gente come Fëanor…).

 

 

Riassunto delle puntate precedenti:

 

In principio, Eru, l’Unico, che nella lingua elfica è chiamato Ilúvatar, creò gli Ainur dal proprio pensiero; ed essi fecero un Gran Casino al suo cospetto. Allora Ilúvatar conferì Essere al loro Casino e lo collocò in mezzo al Vuoto, e il Fuoco Segreto fu inviato ad ardere nel cuore del Mondo; e questo fu chiamato Eä. A lungo gli Ainur s’impegnarono nelle regioni di Eä, fino a quando nel tempo stabilito fu fatta Arda, il Regno della Terra. Poi gli Ainur vestirono gli indumenti della Terra e discesero in essa, e vi dimorarono.

 

 

Dei Valar

 

 

Manwë e Melkor erano fratelli nella mente di Ilúvatar… e già questo è sufficiente a farsi un’idea del sadismo e della follia dominanti nella mente di Ilúvatar.

Un bel dì, giusto per rinnovare la fama della sua sottile malvagità, Ilúvatar decise di eleggere, fra tutti i Valar, il Re di Arda. La notizia fu accolta controvoglia dai Valar: si stava tanto bene in anarchia totale…! Legnate, contrabbando, mafia, scommesse clandestine, spaccio di stupefacenti senza che nessuno si prendesse la briga di andarli a contestare... Eh no, certo! Ecco che il Signore dei Piani Alti si svegliava e si metteva a distribuire corone.

Ma che gliene fregava? Ma i fatti suoi?

Tutti i Valar, comunque, nel tentativo di farsi belli agli occhi di Ilúvatar, presero a dedicarsi a grandi opere: tutti tranne Manwë e Melkor che, scartata l'ipotesi della regolare campagna elettorale senza nemmeno pensarci un attimo, si gettarono sull’arma della corruzione.

 

Il più potente dei Valar era, all’inizio, Melkor; ma Manwë era il più ruffiano: fu la sua arte nel leccare spudoratamente - assieme a innumerevoli atti di cortigianeria ai limiti della decenza - a fare capitolare Ilúvatar, che  alla fine, travolto da un vero e proprio uragano di adulazion, cedette e assegnò a Manwë il potere su Arda.

I Valar tirarono un sospiro di sollievo: Manwë era il più drogato e corrotto fra di loro… erano salvi! Potevano riprendere le loro liete attività senza timore alcuno!

Melkor, invece, non la prese affatto bene. Ma proprio per niente. Lui non era mai stato bravo a corteggiare il prossimo, per cui aveva dovuto mettere a frutto le abilità acquisite durante le lunghe ore di solitudine nel Vuoto Atemporale. Aveva tentato di prendere Ilúvatar per la gola (alla fine tutti quei manuali di cucina per corrispondenza gli avevano insegnato qualcosa!), ma senza successo. Umiliato e incazzatissimo se ne andò a meditare vendetta.

 

Manwë era raggiante: era il Re di Arda! Ilúvatar gli aveva raccomandato di non montarsi la testa, ma come avrebbe potuto evitarlo? Essere Re, per Manwë, significava innanzitutto avere attorno schiere di adulatori, sia Valar che Maiar - quella nuova, adorabile specie di celestiali lecchini che Ilúvatar aveva approntato e spedito in Arda per l’occasione. Per un ruffiano dell’entità di Manwë non esisteva al mondo soddisfazione maggiore che l’essere a propria volta circondato da ruffiani, e in questo i Maiar erano l’ideale: sorridenti, buoni, belli e reverenti.

Il novello Re era già in brodo di giuggiole al pensiero del radioso (ed eterno) futuro che lo aspettava: lusso sfrenato, vizi, rave-parties una sera sì e l’altra pure, per non parlare di tutte le ingiurie che avrebbe potuto finalmente infliggere a Melkor in piena podestà!

Il Signore dei Venti meditava soddisfatto su queste cose mentre camminava verso il suo Palazzo sulla cima del Taniquetil, il monte più elevato di Arda (prego figurarsi la faccia di Aulë appena gli viene detto che deve costruire, da solo, un Palazzo Reale sul monte più elevato di Arda. Ah, i vantaggi di essere l’unico artigiano al mondo…-  N.d.A.).

La mia è una vita perfetta, considerò Manwë entrando a Palazzo, non potrei desiderare niente di meglio. C’è solo un piccolo, fastidioso problema…

 

 

 ‹‹Manwë, mio Re e mio sposo! Bentornato!  Non vieni a darmi un bacio?››.

Con Manwë dimora Varda Elentári, Regina delle Stelle, e tutt’ora Manwë fra sé e sé si chiede quale sia stata la cattiva azione che ha fatto per meritarsi questo. Lui odia le donne in generale, odia le regine, odia i matrimoni e soprattutto odia le stelle; quindi il fatto che Ilúvatar gli abbia fatto sposare Varda gli fa pensare che l’Onnipotente ce l’abbia con lui!

Grande è la bellezza di Varda ed enorme la sua stupidità: ormai da millenni, con la vecchia scusa del "Tesoro, scendo un attimo a comprare le sigarette", Manwë sfugge alle grinfie smaltate delle moglie e si dedica tranquillamente alle sue attività preferite - giocare d’azzardo e ubriacarsi con Aulë nei sobborghi di Valinor.

Il sospetto non sfiora neanche da lontano l’ingenua testolina di Varda, che comunque a quanto pare è felice così: è convinta che gli Elfi la venerino e ne invochino il nome nelle difficoltà, ignorando che "Ah, Varda Elentári!", "Ah, Elbereth Giltoniel!" siano in realtà presso gli Elfi imprecazioni pesantissime, seconde solo a "Porco Melkor! ".

 

Ulmo è il Signore delle Acque. Egli non dimora a lungo nello stesso posto, fa quello che gli pare e vive da solo, per questo è un po’ l’idolo segreto di Manwë. E’ un bohemien fallito e vive all’insegna della libertà e del fancazzismo più assoluti: non si reca nemmeno ai Consigli dei Valar, provocando la delusione di Manwë e il sollievo di Varda, che poco ne tollera la vocazione al celibato e l’influenza sul marito.

La vita di Ulmo, però, priva di regole e doveri, finisce col causargli dei fastidi; il più evidente è la circonferenza del suo giro vita che, incoraggiata da ore e ore di permanenza in poltrona, già da tempo raggiunge i tre metri e continua ad espandersi.

Non ama camminare sulla terra e solo eccezionalmente si fa vedere in giro: se Elfi o Uomini lo vedono vengono colti da grande sgomento, poiché il levarsi del Re del Mare è terribile e orribili a vedersi sono i rotoli di lardo che fuoriescono un po’ dappertutto. Nonostante i soprannomi poco lusinghieri con cui gli Elfi e gli Uomini sono soliti chiamarlo - il Grassone, il Panzone, l’Orca Assassina, l’Elefante Marino e via dicendo - Ulmo ama molto queste creature si diverte a spettegolare con loro delle ultime novità da Valinor.

 

Aulë ha potenza di poco inferiore a Ulmo. Grande amico e compagno di birra di Manwë, a lui si deve il (pessimo) modellamento di tutte le terre. E’ un fabbro ed è perennemente in competizione con Melkor, che non riesce mai a fregargli le idee. I Valar, i Maiar, i Vanyar, i Teleri, i Sindar, gli Uomini, i Nani, gli Ent, gli Hobbit, gli animali e un po’ tutte le razze viventi su Arda lo maledicono pesantemente, sostenendo se non si fosse preso la briga di insegnare ai Noldor quei quattro trucchetti con i metalli e le gemme la Guerra dei Gioielli non sarebbe mai scoppiata.

Di Aulë inoltre c’è da dire che nemmeno lui è riuscito a scampare alla congiura matrimoniale di Varda, che dopo essersi accasata col Sire dei Venti è riuscita a sistemare tutte le sue amiche.

 

Ad Aulë, per la precisione, è toccata Yavanna Kementári, la Dispensatrice di Frutti (chiamata da Aulë "il Frigorifero" durante le nottate ad ubriacarsi con Manwë per affogare i dispiaceri). E’ l’amica del cuore e la comare di Varda, e il suo potere riguarda tutte le cose che crescono sulla terra. Aulë, cercando di sfruttare l’abilità della moglie, l’ha convinta a seminare interi campi di piantine dalle proprietà allucinogene e benefiche per l’umore, di cui egli stesso e Manwë fanno grande uso. E’ probabile che l’assidua frequentazione con Varda abbia contribuito ad incrementare la sua ottusità, dal momento che da millenni Yavanna continua candidamente a coltivare piantagioni di cannabis senza alcun sospetto.

 

I Fëanturi, Signori di Spiriti, sono fratelli, e vengono chiamati Mandos e Lorien. In realtà si chiamerebbero Námo e Irmo, ma Mandos e Lórien suonano meglio e fanno più epic tale. Nienna è loro sorella, e i tre vengono chiamati dagli Elfi "i Fratelli Morte, Miraggio & Malinconia".

 

Mandos, il maggiore, è il custode delle Case dei Morti, perfettamente in linea con i gusti gothic che lo caratterizzavano fin da piccino. Egli conosce tutte le cose che saranno, eccetto le malsane idee che stanno ancora nella mente d’Ilúvatar; ciononostante Manwë ebbe qualche perplessità nel concedergli la carica.

‹‹Mandos››, gli diceva ‹‹…tu per me puoi essere tranquillamente il custode delle Case dei Morti, non ci sono problemi, del resto basta poco a farti felice. Ma spiegami una cosa, no?›› aggiunse, contando sulle dita. ‹‹I Valar e i Maia sono immortali, gli Elfi non muoiono di cause naturali e le anime degli Uomini scompaiono dopo la morte. Che spiriti pensi di accogliere?››.

‹‹Tranquillo, Manwë. Io conosco tutte le cose che saranno, ricordi? Aaaah, mi pare già di sentire l’odore del sangue ad Alqualondë…!›› sospirò Mandos con gli occhi che quasi gli brillavano.

Vairë la Tessitrice è la sua sposa, e questo è probabilmente l’unico matrimonio veramente riuscito fra i Valar. Vairë, che non sfigura accanto al marito, è pallida, magra, si trucca pesantemente di nero, ascolta solo gothic metal scandinavo e ha un’intera videoteca di film horror.

 

Lórien, il minore, non condivide i gusti del fratello maggiore e della cognata. Lui e sua moglie Estë sono i fondatori di un circolo ricreativo per tossicomani,  in cui giungono tutti coloro che hanno fatto un uso eccessivo delle magiche piantine di Yavanna.

 

Nienna vive da sola: inizialmente Varda aveva tramato di farla sposare con Ulmo, ma poi ha provato pietà per il misogino Signore delle Acque. Nienna infatti è la Signora del Lutto, e le sue ghiandole lacrimali super-allenate sono, come abbiamo visto, il terrore di mortali, immortali e dèi. Le pesti un piede? Nienna piange. Le dici che è ingrassata? Nienna piange. Manwë prende a parolacce Varda? Nienna piange. Una piantina di Yavanna appassisce? Nienna piange.  Piove? Nienna piange. Insomma, in sua presenza non si può parlare di nulla, ed ella vaga raminga alla ricerca di qualcuno che la consoli: gli unici che ogni tanto ne hanno pietà sono suo fratello Mandos e sua cognata Vairë, che la ritengono una buona compagnia per i morti che giungono alla Casa degli Spiriti.

 

 

Supremo in forza e in atti di prodezza è Tulkas, soprannominato l’Idiota. Egli infatti ride sempre, in pace e in guerra, e rise perfino di fronte a Melkor nelle battaglie che precedettero la nascita degli Elfi: momenti, insomma, in cui tutti tacevano o al massimo ringhiavano, e in cui ridere sembrava per l’appunto un’idiozia. Cintura nera di karate  e grande lottatore di sumo, Tulkas si diverte a spaccare tutto quello che gli capita sottomano. Anche per questo motivo Nessa, la sua sposa, è bravissima a correre.

 

Anche Oromë è un nevrotico e trae diletto dal distruggere ogni cosa al suo passaggio a cavallo, però almeno non ride come Tulkas. Al contrario, la sua espressione corrucciata è seconda solo a quella di Melkor. Il suo arrivo è sempre accompagnato dal suono del suo corno bianco e argentato, che in tempi antichi utilizzava per fare gli scherzi agli Elfi nel cuore della notte. La sua sposa è Vána la Sempregiovane, ma si dice che Oromë passi molto più tempo con Nahar, il cavallo, e che questo abbia sostituito la moglie in tutti i ruoli che una moglie può assumere: chi ha orecchie intenda.

 

 

Dei Maiar

 

Con i Valar giunsero altri spiriti, del loro stesso ordine ma di grado inferiore: lecchini, insomma, come Manwë li ha subito etichettati. Il loro numero è ignoto agli Elfi e pochi hanno un nome in una delle lingue dei Figli d’Ilúvatar, perché nessuno si è mai preso la briga di chiamarli per nome: "Tu, con i capelli" o "Tu, schiavo" andavano benissimo come appellativi.

 

I principali fra i Maia di Valinor sono Ilmarë, la ruffiana di Varda, Eonwë, il tirapiedi di Manwë e Ossë e Uinen, i lecchini di Ulmo. Poi c’erano Melian, una doppiogiochista che serviva sia Vána che Estë, ed Olórin, il più saggio e il più potente, ma che un giorno commise l’errore di vestirsi di grigio, farsi chiamare "Gandalf" e fare amicizia con gli Uomini: tutti cominciarono a considerarlo un simpatico vecchietto un po’ misterioso alla stregua di Albus Silente e la sua dignità finì in miseria.

 

 

Dei Nemici

 

Ultimo di cui viene fatto il nome è Melkor, Colui che si leva in Possanza. Ma quel nome egli l’ha usurpato; e Fëanor, che fra le altre cose era anche un abile affibbia-soprannomi, cominciò a chiamarlo "Morgoth", che significa Nero Nemico del Mondo; oppure, quando proprio voleva umiliarlo, lo chiamava "Calimero". Non so voi, ma io adoro Fëanor…

Melkor schifava tutto tranne sé stesso, era uno stronzo, un ladro, un ingannatore, un malvagio; aveva votato Berlusconi alle elezioni e soprattutto, cosa che nessuno in Arda gli perdonava, era un metallaro. Eppure fu capace di scatenare tanto casino che alla fine Ilúvatar perse la pazienza e lo tenne chiuso in Camera Sua fino alla fine del Tempo.

Ma non fu solo. Molti Maiar, infatti, stanchi di servire alla corte di Manwë, passarono al Lato Oscuro e cominciarono ad ascoltare metal e a servire Melkor. Il più spudorato fra i Maiar che leccarono ai piedi di Melkor fu Sauron, stronzo quasi quanto il suo padrone; non imparò mai la lezione che diceva "Non ti mettere mai in mezzo fra i Valar, gli Elfi e i gioielli": fece forgiare lo Sfigatissimo Anello e il resto lo conosciamo tutti…

 

 

 

Qui termina il Valaquenta.

(Era ora…)

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Dell'Inizio dei Giorni ***


Disclaimer: i personaggi presenti in questa storia appartengono a Tolkien e a chi ne detiene i diritti. Non scrivo a scopro di lucro e nessuna violazione del copyright è intesa. Per citare/riprendere/tradurre questa storia in toto o in parte dovete avere il mio esplicito permesso.

Quenta Silmarillion
La storia dei Silmaril
________________________

Capitolo I
Dell’inizio dei giorni
ovvero: se il buongiorno si vede dal mattino…

In quel tempo i Valar diedero ordine alla Terra; "ordine", tuttavia, è una parola non dico grossa, ma quantomeno colossale se riferita al macello che esisteva ai tempi in Arda.
E del resto come avrebbe potuto essere altrimenti, in un regno che aveva Manwë al comando?

Il sovrano dei Valar, difatti, era solito dedicare tutte le sue energie ad attività quanto mai sane e costruttive, alle quali abbiamo già accennato in precedenza: bere, fumare, giocare d’azzardo e organizzare festini. Poteva mai, povera stella, badare alle regolari questioni amministrative presenti in ogni stato? Ovviamente no; di conseguenza Arda era abbandonata allo sfacelo totale.
E, no, se ve lo state chiedendo, non era affatto colpa di Melkor.

…D'accordo, d’accordo, diciamoci la verità: il diabolico fratello di Manwë ci metteva pure la sua candida manina, distruggendo quelle quattro cose buone che i Valar riuscivano a tirare su, ma gran parte del "merito" era da attribuire proprio ai Valar.

La permanenza in Arda non li aveva migliorati di una virgola, come audacemente sperato da Ilúvatar… tutt’altro.
Ottusi, ripiccosi e bastardi da fare schifo, i Valar impiegavano le loro giornate in continui tentativi di ingannarsi a vicenda: in particolare, la frode di territori era ormai all’ordine del giorno.

Ah, le prime gioie della proprietà privata…!

Gli oceani di Ulmo si espandevano clandestinamente sopra le pianure di Aulë; le piantagioni di Yavanna erano insediate dai pascoli dei cavalli di Oromë; Manwë spazzava via con i suoi venti dozzine delle odiatissime stelle di Varda… perfino Mandos e Lórien, che erano fratelli e in teoria si dovevano volere tanto bene, spintonavano di continuo i limiti dei rispettivi possedimenti, che confinavano fra di loro.
‹‹Mi serve spazio, Mandos, il mio circolo ricreativo per tossicomani ha bisogno di grandi prati e tanta aria; non posso ammucchiarli tutti come in un hotel giapponese! Hai presente quanti ne arrivano ogni giorno?›› si lagnava Lórien. ‹‹Aulë la deve finire di far coltivare tutte quelle piantine a sua moglie, non si può vivere così…››.
‹‹Sì, a te serve spazio›› rispondeva Mandos, ‹‹ma a me ne serve di più. Non hai idea di quanti morti ci dovranno stare, qui dentro… Aaaah, Alqualondë! Il Doriath! La Nirnaeth Arnoediad!›› profetizzava con la bavetta alla bocca e gli occhi iniettati di sangue.
‹‹Che fa, la finiamo con tutta questa cagnara?››* borbottava irritato Manwë. ‹‹Qua c’è gente che cerca di lavorare!››. Tuttavia mentiva spudoratamente: in giro non c’era l’ombra di un lavoratore nemmeno a pagarla oro, e lui non faceva di certo eccezione.

Sì, in teoria Manwë era Re… ma in realtà il vero Sovrano di Arda era il Caos assoluto.

In tutto questo, l’unico che non causava problemi era il buon Melkor. Nel momento stesso in cui Manwë era salito al trono, lui - avendo forse fiutato le disgrazie che ne sarebbero venute - prese armi, bagagli e servi e se ne andò in un luogo remoto chiamato Utumno. Lì costruì una cupa fortezza, vi si rifugiò e se ne rimase buono buono con i suoi uomini di fiducia a rimuginare su piani visionari di conquista del mondo, e usciva soltanto qualche volta per rovinare le fatiche dei Valar (e quindi, poveraccio, non usciva praticamente mai…).

***

Nel regno dei Valar, intanto, la situazione degenerava.

Dal momento che nessuno era intervenuto a placare la disputa territoriale dei fratelli Morte&Miraggio, questa aveva cominciato ad assumere proporzioni sempre più vaste. Manwë, precursore di tanti futuri capi di governo, se ne sbatteva alla grande, lasciando che fossero gli stessi interessati ad arrangiarsi.
E gli interessati si arrangiarono: di necessità virtù!
Gradualmente si armarono di lupare, scacciacani, sfollagente e cecchini, rivendicando i loro confini più o meno civilmente. A quel punto molti dei Valar si allarmarono e divennero inquieti; all’unanimità decisero di inviare un portavoce a Manwë, affinché la situazione non sfociasse nell’irrimediabile.
‹‹Ok…›› disse allora Aulë, rivolto agli altri Valar ‹‹…chi va da Manwë?››. Tutti deglutirono alla prospettiva di un incontro ravvicinato con il loro poco amato Re, che ultimamente - forse anche a causa dell’abuso di sostanze strane - era caduto preda di qualcosa che assomigliava tremendamente alla demenza senile (o alla demenza e basta).
‹‹Beh, mandiamo un Maia, no?›› propose saggiamente Yavanna.
E manco a dirlo, tutti i Maiar presenti nel raggio di dieci chilometri si eclissarono all’istante.
‹‹Vigliacchi… sempre pronti a leccare, ma per una volta che c’è davvero bisogno di loro…›› sibilò Oromë, sdegnato.
‹‹E dai, compatiscili… a me fanno pena, mandiamo sempre loro! Beh, allora…›› Aulë si voltò verso i compagni ‹‹…dovrà andare uno di noi. Il volontario faccia un passo avanti››.
Nel mezzo secondo che seguì, i Valar si guardarono con aria complice e fecero tutti un saltello all’indietro. Aulë alzò le sopracciglia e si guardò intorno con aria prima basita, dopo sospettosa, infine esasperata.
‹‹E che strazio, mi fate ‘sto giochetto del passo indietro da millenni, non sarebbe ora di crescere un po’?!›› gemette.
‹‹Non è colpa di nessuno di noi se sei fesso, Aulë›› rispose Oromë cercando in tutti i modi di mantenere un brandello di serietà, sebbene si stesse spezzando le costole nel tentativo di non ridergli in faccia. ‹‹E poi, dai, lo sai… tu sei il più saggio e il più diplomatico, e ci vai così d’accordo con Manwë, quale ambasciatore migliore di te?›› si affrettò ad aggiungere, seminando con precisione millimetrica piccole dosi della ruffianeria delle origini.
Aulë non sembrò pienamente soddisfatto dalla spiegazione, tuttavia, rassegnato, si volse in direzione del Palazzo di Manwë, lasciando finalmente i suoi (presunti) amici liberi di sghignazzare di tanta irrimediabile ingenuità.

***

In quel momento il Re dei Valar si trovava nelle sue stanze, intento ad ultimare la sua beauty-routine quotidiana.

‹‹Specchio, servo delle mie brame… chi è il Re più bello del Reame?›› chiese ammiccando al proprio riflesso nello specchio.
‹‹Eeeh, ci fosse tutta ‘sta gran varietà di scelta…›› sospirò lo specchio.
‹‹Eh?››.
‹‹Ho detto che sei l’unico babbeo dotato di corona in tutto il mondo... Ci fosse un altro Re stai certo che parteggerei per lui, così, soltanto per farti dispetto›› sogghignò lo specchio.
‹‹Ah… eh?››.
‹‹Lascia stare, rinuncio perfino a sfotterti, non c’è gusto››.
‹‹…Comunque non mi hai risposto. Ti rifaccio la domanda: specchio, servo delle mie brame, chi è il Re più bello del Reame?››.
A quel punto, se avesse potuto, lo specchio avrebbe alzato le spalle e scosso la testa, sospirando esasperato. È ingiusto che agli specchi siano preclusi certi diritti, soprattutto agli specchi che hanno a che fare con Re megalomani che non si stancano di fare la stessa domanda tutto il giorno, tutti i giorni. Lo specchio mise da parte quel poco di dignità che gli restava e rispose:
‹‹Ma sei tu il Re più bello del Reame, Manwë…››.
‹‹Ah! Lo sapevo! Nessuno mi può resistere, nemmeno gli specchi!›› gongolò lo stupidissimo Re, mentre lo specchio si appuntava mentalmente di tentare il suicidio il prima possibile. ‹‹E ora dimmi: mirror, mirror on the wall… true hope lies behind the coast?››*.
‹‹Sì, sì, come vuoi tu, guarda…›› rispose lo specchio, con una pazienza invidiabile. ‹‹Ma ora fammi la carità, piantala di citare i Blind Guardian, che probabilmente nemmeno sai chi sono… Piuttosto, alleggeriscimi la sofferenza: hai un brufolo sul naso››.
‹‹Oh›› disse Manwë, avvedutosi della pustola.
Si stava appunto preparando a giustiziarla come si conviene, quando un orripilato Aulë tossì leggermente per segnalare la sua presenza. No, non aveva proprio lo stomaco necessario a sopportare tutto questo.

Seguì un breve silenzio imbarazzato, durante il quale Manwë dovette lottare contro se stesso per assimilare la figura di merda; Aulë dovette trattenersi per non vomitare; mentre lo specchio dovette farsi forza per non scoppiare a ridere.

‹‹Emh… Aulë, amico mio!›› borbottò infine Manwë alzandosi e andando incontro all’ "amico" (che dal canto suo in quel momento rinnegava qualsisi legame di amicizia col Re). ‹‹Qual buon vento ti porta qui?››.
‹‹…il vento non è MAI buono: lo governi tu!›› precisò lo specchio. Manwë decise di ignorarlo, mentre Aulë indietreggiava quanto più discretamente possibile dalla mano tesa del Re.
‹‹Oh… Eh, ambasciata, Manwë›› riferì nervosamente.
‹‹Ambasciata? E da chi, scusa?››.
‹‹Dai Valar…›› rispose Aulë, pregando che l’altro non chiedesse delucidazioni.
‹‹Ah… sì, capito…››.
‹‹Oh, bene, allo – ››
‹‹…ma in genere non mandate i Maiar per queste cose?›› inquisì il Re. Aulë imprecò mentalmente.
‹‹Ehr… i Maiar… hanno detto che andavano un attimo a comprare le sigarette, ma non sono ancora tornati!››.
‹‹Oh, capisco, capisco... e quindi hanno mandato te›› annuì Manwë, apparentemente soddisfatto della spiegazione. Aulë non proferì verbo, non potendo capacitarsi di tanta imbecillità: gli aveva rifilato la stessa scusa che Manwë stesso usava da millenni per scappare da Varda, e quello non aveva dubitato nemmeno un momento per errore! Vergognoso, semplicemente vergognoso.
‹‹E dunque? Che notizie mi porti?››.
‹‹Mandos e Lórien si ammazzano, Re››.
‹‹Eh››.
‹‹E…?››.
‹‹E allora?››.
‹‹Come "e allora"?›› sbottò Aulë.
‹‹Lo fanno sempre, mi sarei aspettato qualche novità…››.
‹‹Sì… stavolta usano anche i kalashnikov!›› ironizzò il Vala.
‹‹Oh! Vedere! Vedere!›› esclamò tuttavia Manwë correndo ad affacciarsi alla finestra, speranzoso.
Aulë rimase fermo a fissarlo, indeciso se spingerlo fuori dalla finestra; accoltellarlo ora che non guardava o aprirgli il cranio per controllare cosa c’era dentro, se mai ci fosse stato qualcosa. Lo specchio espresse la sua preferenza per la terza opzione; tuttavia il buon Vala, che forse in tutto il regno era l’unico con una briciolina di giudizio, fece appello a tutta la sua forza e andò a riprendere il Re.
Questi, tuttavia, non sembrava intenzionato a mettere in azione il misterioso contenuto della sua scatola cranica, cosicché il povero Aulë, come risorsa ultima, invocò il nome di Ilúvatar.
Ma così, tanto per abitudine, mica perché ci sperava veramente...

E allora Ilúvatar, che fino a quel momento se ne era stato tranquillo a spiare col cannocchiale le disavventure dei Valar, parlò.
Attenzione, però: non lo fece né per pietà né per amore paterno. In realtà ci godeva da morire a vedere Aulë che sprecava la sua voglia di vivere appresso a quel babbeo… ma ci sono dei casi in cui è necessario l’intervento della Divina Provvidenza, e mettere Manwë in condizione di pensare è uno di quei casi.
L’Onnipotente si schiarì la gola. La sua voce tuonò all’improvviso nelle orecchie dei due Valar.

‹‹Manwë!››.
‹‹Eh? Chi è?››.
‹‹Sono io, Eru, Ilúvatar!››.
‹‹Oh… Eh… Ilúv… Ah! Padre! Che meraviglia!›› replicò Manwë quasi istintivamente.
‹‹Padre!›› urlò invece Aulë, alzando le mani e il volto al cielo, quasi in lacrime, sinceramente commosso. ‹‹Ma allora esisti davvero! Ti giuro che da quando Manwë è Re non ci credevo più… Oh, Ilúvatar, Eru, Yaveh, Buddah, Allah, Tizio, Lenin o come vuoi essere chiamato, grazie, grazie!››.
Tuttavia Ilúvatar lo ignorò quasi del tutto, preferendo dedicarsi al difficile miracolo di mettere in moto il criceto che abitava la mente di Manwë.
‹‹Manwë, figlio mio, ora ascoltami›› gli disse con tutta la pazienza possibile. ‹‹Con attenzione, però, eh? Non al solito tuo che fingi di ascoltare e invece pensi al Fantacalcio!››.
‹‹Uh-uh›› bofonchiò il re, ferito nell’orgoglio.
‹‹Ecco… bravo. Dunque, hai presente Mandos?››.
‹‹Mandos? Mandos chi?››.
‹‹Manwë…››.
‹‹Ok, scherzavo, ce l’ho presente…››
‹‹Eh. Che Vala è Mandos?››.
‹‹Il Vala dei Morti…››
‹‹Eh. E qual è la sua parola preferita da ancora prima che mettesse il suo primo dentino?››.
‹‹Ehr… "sangue"?››.
‹‹Bravo. E se gli si lascia uno sfollagente, un kalashinkov o un’arma qualsiasi in mano, che cosa succede?››.
‹‹…››.
‹‹Dai, te lo dico io: l’ecatombe, succede››.
‹‹Oh››.
‹‹"Oh" non corrisponde nemmeno lontanamente a quella che dovrebbe essere la risposta adeguata alla mia affermazione, Manwë›› commentò stizzito Ilúvatar.
‹‹Ma…››.
‹‹No, tappa la fogna e lasciami finire, se mi interrompi non ti do la paghetta.›› Manwë tappò la fogna immediatamente. ‹‹Bravo, gioia di papà. Allora… io sono l’Onnipotente e tutto il resto, giusto?››.
‹‹Emh… giusto?›› chiese il Vala voltandosi verso Aulë in cerca di suggerimento.
‹‹Era una domanda retorica…›› sospirò Ilúvatar, mentre lo specchio gli offriva tutto il suo sostegno ("Pensa a me, io ci ho a che fare ogni giorno…").
‹‹Comunque… sì, sono l’Onnipotente. La sai tutta quella tiritera sul mio disegno imperscrutabile e tutto il resto, no? Te l’hanno insegnata a catechismo, la devi sapere per forza. Ecco. Siccome io ho deciso che in questa storia il ruolo del pazzo sterminatore fratricida spetta a *qualcuno* che nascerà fra circa un paio di millenni…›› cominciò, ma a quel punto anche Aulë lo interruppe.
‹‹Chi? Chi è?›› chiese curioso.
‹‹Non te lo posso dire… il disegno è imperscrutabile!›› nicchiò Ilúvatar.
‹‹Ma io lo voglio sapere!›› si intromise Manwë.
‹‹Ecco, bravo! Ora non ce lo dice per dispetto!››.
‹‹Esatto… dai, mi fate pena, però…›› disse l’Onnipotente, che in fondo in fondo aveva pur sempre un cuore di padre. ‹‹E va bene, vi anticipo qualcosa, però poi tacete e mi fate finire il discorso››, concesse. I Valar esultarono.
‹‹Dunque… Il pazzo sterminatore fratricida avrà un’infanzia così tragica che pure Remì, Georgie, Lovely Sarah, Candy Candy, Heidi, Harry Potter, la Piccola Fiammiferaia e tutti i personaggi di Dickens lo guardano, scuotono la testa e dicono: "Che ragazzo sfortunato". Sarà di carattere gentile, solare e disponibile come un’ulcera particolarmente violenta; e nel tempo libero farà figli come un coniglio, salvo poi portare tanta di quella sfiga da farne morire sei su sette. Ho detto››.
Aulë e Manwë si guardarono poco convinti. Ilúvatar tornò allo scopo principale del suo intervento divino.
‹‹Dicevo… Manwë, capisci bene che, essendo il ruolo dell’assetato di sangue già occupato, Mandos non può usurparlo come invece brama follemente, con tanto di rivoletto di bava all’angolo della bocca. E considerato che tu sei il Re, tocca a te impedire che questo accada. Ora ti metti la corona sul tuo capoccione vuoto, vai là e fai sì che Morte & Miraggio la piantino di scannarsi per quei due pugnetti di terra. Altrimenti…››.
‹‹…mi tagli la paghetta?››.
‹‹No. Ti stacco Sky›› tuonò Ilúvatar, e non parlò più, lasciando il silenzio nella stanza e nel cuore di Manwë.
…Che obbedì.

***

‹‹Eh?›› Aulë aveva ascoltato le richieste di Manwë con crescente incredulità. ‹‹Scusa, puoi ripetere? Vuoi due pali alti tremila metri e pesanti seicento tonnellate l’uno… e li vuoi con le lucette in cima? Manwë…›› disse il Vala con appena un filo di voce ‹‹…capisco l’idea di delimitare in modo definitivo i confini delle Aule di Mandos e dei Giardini di Lórien, d’accordo. Ma lasciatelo dire: ci sono almeno altre due dozzine di modi per farlo! Che so, una staccionata, un cancello, le transenne, del filo spinato, un muro… e tu no! Tu te ne esci con i pali luminosi! Ma posso sapere da dove ti è uscita quest’idea?!... Oddio, per la verità ce l’avrei un’ipotesi, ma siamo in prima serata…››.
Manwë, stravaccato in poltrona intento ad arrotolare erbe di dubbia origine, guardò l’amico con una faccia che sottintendeva qualcosa tipo "io-sono-un-genio-e-tu-sei-scemo".
‹‹Ah, Aulë, Aulë… mio buon Aulë…›› esordì, costringendo l’altro a farsi forza per non azzannarlo al collo ‹‹…possibile che ti debba spiegare tutto io? Come si vede che non sei Re! Beh, ma dimmi… hai parlato di staccionate e cancelli. Ma ai costi di manutenzione ci hai pensato?›› chiese, e a quel punto Aulë sgranò gli occhi.
‹‹I costi di manut – ››.
‹‹Sì… e il pensiero di aprire cantieri per tutti quei chilometri di confine mi fa stare male, non puoi capire›› concluse il Re con tono teatrale e l’espressione criptica alla Elijah Wood. ‹‹Naaah, naah, molto meglio i pali! Uno a nord e uno a sud: solidi, visibili, luminosi anche al buio…››.
‹‹…e in vendita nei migliori negozi di giocattoli››.
‹‹Cosa?››.
‹‹Niente. Piuttosto, scusa se ti ribadisco il concetto, Manwë, ma vorrei ricordarti che io sono l’unico artigiano di Arda. Non è che ti passa per la testa che l’impresa vada un po’ oltre le mie possibilità?››.
‹‹Uff. Stai sempre a lagnarti, sei una piaga. Cosa vuoi che ti dica? Fatti aiutare da Tulkas, no?››.
Aulë aprì la bocca per ribattere, ma non ne aveva nemmeno la forza.
Dire "Fatti aiutare da Tulkas" equivaleva più o meno a "Legati una pietra al collo e gettati da un ponte": quale, quale aiuto avrebbe mai potuto fornire l’Idiota che Ride Sempre? Al pensiero di quest’eventuale collaborazione, i nervi di Aulë sussultarono in segno di protesta.
Tuttavia, prima che Manwë se ne potesse uscire con qualche altra stronzata, il Vala si volse all’opera.

Quelli, per Aulë, sarebbero stati i giorni in cui avrebbe rischiato maggiormente di diventare un serial killer.

‹‹Duemilanovecentonovantanove… duemilanovecentonovantanove e mezzo… tremila! Finito il primo! Tulkas, passami le luci››.
‹‹Ah ah, ah ah ah!››.
‹‹…Tulkas, le lucette, per favore››.
‹‹Ah ah ah ah ah, oddio, ah ah ah!››.
‹‹T-Tulkas…››.
‹‹Mppphh…. Eh eh eh eh!››
‹‹…Tulkas?
♪ ››.
‹‹Mpphh… Sì?››.
‹‹Vaffanculo››.
‹‹…Ahahahah!!!››

‹‹Oooh! Finito? Era ora, finalmente!››.
Manwë e i Valar erano giunti ad osservare l’opera di Aulë completa. Questi aveva la faccia di uno che desidera davvero, davvero morire.
Sì, aveva finito… ma i rimasugli del suo sistema nervoso non ne erano entusiasti.
Non è tanto per il lavoro in sé e per sé, considerò Aulë, è più che altro la frustrazione di avere assecondato i deliri di Manwë. Oddio, anche Tulkas tanto bene non mi ha fatto, lui e la sua perenne risata…
E avrebbe continuato così ancora per molto, diventando sempre più pericolosamente simile a Mandos, se la voce di Manwë non lo avesse riscosso da queste riflessioni.
‹‹…sì, insomma, io dico che si poteva fare di meglio, ma alla fine non è malaccio. Bene, popolo, ora sapete cosa vi dico?››.
I Valar lo guardarono speranzosi; tutti tranne Aulë che tremò, impallidì e cominciò a sudare freddo. No, no, ti prego, sono stanco morto, fa che Manwë non se ne esca con la sua ennesima, interminabile…
‹‹…FESTAZZA!!!››.
‹‹WOOOHOOOO!!!››

***

Così accadde che Manwë diede un festin… ehr, una grande festa sull’isola di Almaren. Tutti i Valar furono entusiasti e si affrettarono ad accorrere con le loro schiere, portando tutto il necessario: cibo, alcolici, erbe, travestiti, luci psichedeliche e, cosa fondamentale, gli ultimi successi dei loro cantanti preferiti, quali Lady Gaga, Britney Spears, Eminem e tutto il panorama musicale dal pop più tristemente commerciale in giù, fino alla musica house.

E la festa cominciò, fra grandi risate e grandi vaccate.

Ad Utumno, però, la pace stava per essere rovinata.
Melkor, fedele alle sue abitudini, stava giustappunto esaminando l’ennesimo delirante schemino di conquista del mondo, quando qualcosa turbò il suo superudito.
‹‹Sauron?›› disse.
‹‹Comandi, patrone…››.
‹‹Sauron, dimmi… non senti anche tu un terribile suono?››.
Il Maia alzò le sopracciglia, si guardò attorno e spalancò i padiglioni auricolari.
‹‹Ebbene?››.
…No, per la verità lui non sentiva proprio niente. Era tuttavia nel suo interesse essere d’accordo col "patrone".
‹‹Certo, patrone, un suono veramente orrib – ››.
‹‹Sauron… questo- questo è l’ultimo cd del Festivalbar!›› sputacchiò Melkor, cominciando ad alterarsi. ‹‹E io non avevo forse dato disposizione che nella mia reggia si ascoltasse solo musica dal rock in su?››.
‹‹Patrone, vero è! Mi pare strano forte. Volete che faccio un giro di ricognizione? Ho il vostro permesso di sistemare personalmente il colpevole?›› rispose Sauron cominciando ad imbracciare la fedele lupara.
‹‹…Sauron?››.
‹‹Patrone?››.
‹‹Quante volte te lo devo ripetere che qua le tue origini mafiose non sono gradite?›› tuonò Melkor alzandosi in piedi e sovrastando Sauron di un paio di metri. ‹‹Fammi la cortesia, sopprimi le radici sicule e togliti questo cappello ridicolo!››.
‹‹La coppola fa molto "signore Oscuro", patrone. E anche i baffetti…›› ribatté Sauron lisciandosi i baffi con aria trasognata.
‹‹Sauron, levati da davanti i miei occhi, và…›› bofonchiò Melkor crollando esausto su una sedia. I muri della sicilianità di Sauron erano difficili da abbattere persino per lui. ‹‹Comunque no, non hai licenza: ci penserò io al colpevole o ai colpevoli. Ora vai››.
‹‹Come comanda vossignoria. Baciamo le mani!››.

Il luogotenente di Melkor si recò sulla torre più alta di Utumno. Scrutò l’orizzonte per un po’… e alla fine pensò che questo al "patrone" non sarebbe piaciuto proprio per niente.

‹‹Allora, Sauron?››.
‹‹Patrone, veramente, ve lo dico da figlio: sedetevi››.
‹‹Sono seduto, Sauron››.
‹‹Allora alzatevi, patrone››.
Melkor fu fortemente tentato di tirare una capata alla parete. Ma qual era, qual era la cattiva azione che aveva fatto per meritarsi il luogotenente mafioso e tardo?
Si fece un veloce esame di coscienza: ok la sua fedina penale non era proprio immacolata, ma essere punito con una piaga come Sauron, francamente, gli sembrava un po’ eccessivo. Gemette e fece segno al sottoposto di proseguire.
‹‹Allora, patrone, io ve lo dico, però ricordatevi che io non c’entro niente, ah››.
‹‹Sì, ma a me sta venendo l’ulcera solo ad ascoltarti, se continui ancora un po’ non avrò nemmeno la forza di incazzarmi, credimi…››.
‹‹Patrone, il terribile suono non viene dalla reggia››.
‹‹E fin qua c’ero arrivato anche io… nessuno ad Utumno è tanto idiota da ascoltare quelle porcherie e sperare di passarla liscia. Da dove viene allora?››.
‹‹Viene precisamente da quel posto in cui ci vive quello che voi non volete che nominiamo, patrone››.
‹‹Chi, Lord Voldemort?›› ironizzò Melkor. ‹‹Sauron, fammi la carità, parla potabile!››.
Sauron mugugnò qualcosa, a disagio.
‹‹Eh?››.
‹‹Ci vivono… quelli come voi che però voi siete meglio assai!››.
‹‹Cosa vai blaterando, Sauron?›› indagò Melkor, troppo esaurito perfino per mettersi a decifrare i deliri del suo sottoposto. Tuttavia il Maia si rifiutò di dire altro, così l’inevitabile risposta prese forma nella mente di Melkor.
Era evidente: Manwë e i Valar si stavano dando alla pazza gioia nel bel mezzo dell’ennesimo festino. In genere Melkor se ne sarebbe fregato alla grande, ma era inaccettabile che quell’orribile musica penetrasse fin dentro le torri di Utumno!
Così Melkor, che in fondo era un animo candido, decise di andare a salvare il mondo da quello scempio. A modo suo…

Manwë era molto soddisfatto: la festa procedeva alla grande!
Si guardò attorno e fece una rapida stima: metà dei partecipanti erano già avvinazzati che era una meraviglia; un po’ tutti erano già alla loro ventesima canna; i travestiti stavano riscuotendo enorme successo… per finire, il tutto era accompagnato dalle soavi note dell’house più scadente in circolazione.
Mentre i Valar davano sfogo al loro entusiasmo nei modi più fantasiosi e disparati, il solo Aulë se ne stava seduto in solitudine, in un luogo relativamente riparato. Era riuscito a strisciare via dai meandri del festino e adesso desiderava solamente un po’ di pace e di silenzio per il bene del suo sistema nervoso sull’orlo della crisi. Stava per l’appunto cercando di isolare la sua mente dagli echi del casino poco distante, quando una nera figura gli passò di fronte.
Il Vala, preoccupato, si fece piccolo piccolo e tentò di non farsi vedere: non si sa mai che Manwë avesse mandato qualcuno a cercarlo!
Tuttavia si stupì quando sentì la nera figura scandire chiaramente: ‹‹Che musica di merda!››.
Il buon Aulë, che in cuor suo era sempre stato d’accordo con quel parere, fu colto da sorpresa. La nera figura ne udì il sussulto e si voltò, rivelando il proprio volto.
‹‹Melkor? Tu qua?›› chiese Aulë, con gli occhi a palla.
‹‹Purtroppo…›› rispose l’altro. ‹‹Ti trovo male, Aulë››. Il Vala chiuse gli occhi e scosse le spalle, come a dire ‹‹Vorrei vedere te…››.
Melkor tornò a puntare lo sguardo verso le luci del festino con aria profondamente disgustata. Il Vala era preda di sentimenti contrastanti: era in presenza di Melkor, il pericolo pubblico numero uno al mondo, nonché suo personale rivale, arcipuffolina! A rigor di logica avrebbe dovuto assalirlo oppure chiamare i soccorsi, o alla peggio scappare. Tuttavia un sentimento di speranza di impossessò di lui.
‹‹Ti prego…›› disse ‹‹…fa’ qualcosa, fermali! Non posso sopportare questa musica ancora a lungo!›› biascicò gettandosi ai piedi di Melkor. Questi lo guardò stupefatto e incredulo: a che cosa porta la disperazione! Si divincolò poco gentilmente dalla presa di Aulë e si diresse con passo minaccioso verso il luogo della festa, deciso più che mai a fermare quello scempio.

Sbarazzatosi in un batter d'occhio del Maia addetto alla musica, Melkor staccò lo stereo. Guardò gli altri per un attimo… e quell’attimo fu sufficiente a scatenare il panico.
Tutti i Maiar scapparono all’istante, gran parte dei Valar, nella confusione, rovesciò tavoli, mobili, cibo e casse; Manwë, improvvisamente conscio del suo ruolo di Re, cercò di mantenere la calma, ma nessuno lo stette a sentire; Nienna piangeva e con lei tutte le Valiër; Tulkas rideva (ma quello sempre), Mandos ne approfittò per tirare fuori la scacciacani e sparare a salve; Yavanna cercava disperatamente di mettere in salvo tutte le piantine che poteva; Oromë non trovò di meglio da fare che suonare il suo corno…
Melkor continuò a guardarli, chiedendosi seriamente se fossero scemi o cosa. Lui non aveva mosso un dito: si era limitato a staccare la musica, in fondo era quella che gli dava fastidio! Scosse le spalle e fece per andarsene, abbastanza schifato, ma la voce di Manwë lo trattenne.
‹‹Beh? Tu spunti qui, fai tutto sto casino e ora pensi di andartene come se nulla fosse? In guardia!››.
Melkor lo guardò, appuntandosi mentalmente di non dubitare mai più della cretinaggine dei Valar.
‹‹A parte il fatto che il casino lo state facendo tutto da soli…›› rispose accennando con la testa ai Valar in preda alla follia ‹‹…comunque sono di fretta. Ho lasciato Utumno in mano a Sauron e non sono tanto tranquillo…››.

Ad Utumno…
‹‹Allora, ripetete con me, d’accordo? Uno, due tre…››.
‹‹…Questa è una proposta che non si può rifiutaaare!››.
Sauron guardò gli Orchetti che stava istruendo, sinceramente commosso. Oh, il "patrone" al ritorno sarebbe stato così contento!

‹‹…Ho una pessima sensazione›› disse fra sé e sé Melkor. ‹‹Me ne vado, alla prossima!››.
‹‹M-ma come?›› chiese Manwë non potendosi capacitare di tanta fortuna. ‹‹Te ne vai così, senza distruggere niente, senza fare del male a nessuno, senza spargimenti di sangue, senza…››.
‹‹Mi sembra che vi facciate già abbastanza male da soli›› obiettò Melkor alzando un sopracciglio. ‹‹In ogni caso, che ti devo dire? Se ci tieni così tanto non ho il cuore di rifiutare…››.
Detto ciò, il Vala oscuro estrasse un mazzo di chiavi e cominciò a graffiare tutti i cd. Il panico dei Valar raddoppiò. A quel punto però Melkor, genio del male, ci prese gusto. Si voltò verso giganteschi i pali luminosi.
‹‹E questi che vaccata sono? Bah, non mi piacciono, troppa luce…›› e con uno schiocco delle dita i pali caddero rovinosamente al suolo. Soddisfatto se ne tornò in Utumno, lasciando grande rovina dietro di sé.

Ebbe così termine la Primavera di Arda. La dimora dei Valar su Almaren venne completamente distrutta ed essi non avevano luogo in cui stare sulla faccia della Terra. Lasciarono quindi la Terra di Mezzo e si recarono nella Terra di Aman, la più occidentale di tutte le regioni ai confini del mondo.

Le leggende e i racconti degli Elfi (di cui io, ribadisco, non mi fido. N.d.A.) narrano che nella terra chiamata Aman i Valar costruirono la propria città, che chiamarono Valinor. Essa, stando alla leggenda, era la più beata e la più splendente fra tutte le città mai costruite in Arda… però, considerato chi ci abitava e chi l’aveva costruita, tutti noi abbiamo il sacrosanto diritto di dubitarne fortemente.

Uno dei più antichi miti trasmessi attraverso i racconti degli Elfi è quello che narra la creazione dei due Alberi Sacri di Valinor.

‹‹Sì,›› raccontavano le mamme ai piccoli elfini prima di metterli a letto ‹‹e allora Yavanna cantò e sul colle Corollairë nacquero due grandi alberi, uno d’oro ed uno d’argento…››.
Tuttavia i piccoli elfini, pignoli, giustamente chiedevano: ‹‹Mamma, come fanno due alberi a nascere da un canto? Non si può! Lo dice pure la filastrocca: per fare l’albero ci vuole il seme, per fare il seme, ci vuole il frutto…››.
‹‹Oh, che strazio: dormi!›› rispondevano le mamme, e così sia gli elfini sia il legittimo dilemma restavano senza risposta.

Ora, è vero che sul colle Corollairë c’erano due alberi d’oro e d’argento, ma la verità sulla loro creazione è ben meno poetica della versione ufficiale. Ve la racconteremo.

Varda Elentári e Yavanna Kementári erano, come sappiamo, grandi amiche e strettissime comari. Avevano una piaga in comune: i loro mariti erano sempre nei sobborghi di Valinor ad ubriacarsi e a scommettere. Così, per ingannare le ore di solitudine, le due Valiër usavano trascorrere molti pomeriggi assieme.
Un dì che Yavanna era andata a far visita a Varda alle sue Aule sul Taniquetil, le due amiche decisero di andare in terrazza.
Erano per l’appunto immerse in uno dei loro discorsi su quanto fossero zotici e villani i rispettivi mariti; su come non ci fossero più le mezze stagioni; su come fosse noiosa la vita a Valinor; sullo smalto che si scheggia e sulle doppie punte che spuntano sempre, quando Yavanna – forse istigata dal marito, forse proprio fine di natura sua – voltò il capo e sputò i semi del frutto che stava mangiando giù dalla terrazza.

Quei semi, pregni del potere di Yavanna, precipitarono intatti lungo tutti i quattromila metri del Taniquetil e andarono a schiantarsi sul colle Corollairë, alzando un gran polverone. Quando la nube si diradò, al suo posto c’erano due alberi meravigliosi.

Uno, maschio (e devo capire da cosa i Valar ne hanno dedotto il sesso. N.d.A.), aveva foglie verde scuro sopra e argento sotto e da ognuno dei suoi innumerevoli fiori cadeva incessantemente una rugiada di luce argentea.
L’altro, femmina (e anche qui, il mistero…
N.d.A.) esibiva foglie di un verde delicato come quello del faggio appena intagliato (eh?); i loro bordi erano di oro luccicante e dai suoi rami dondolavano i fiori in grappoli di fiamma gialla, ognuno a forma di corno scintillante che versava sul terreno una pioggia dorata. Essi vennero chiamati Telperion e Laurelin (in realtà avevano altri cinquemila nomi ciascuno, un po’ come Aragorn, ma noi li chiameremo convenzionalmente così. N.d.A.).

Tutti i Valar furono profondamente affascinati e ammirati da queste meraviglie; Yavanna stessa non poteva capacitarsi di come avesse fatto a creare tanta beltà sputando dei semi. Tuttavia in giro raccontò che gli Alberi erano nati alla melodia del suo magico canto e Varda, la sola a conoscere la verità, custodì gelosamente il segreto, sobillata anche dalla fornitura mensile gratuita di una cassa della magiche piantine di Yavanna.



Note:

Voi non potete capire quanti problemi mi ha dato questo capitolo. Ci ho messo secoli a finirlo e tutt'ora non ne sono molto soddisfatta, ma non sarei davero riuscita a fare di meglio. Passiamo ai credits:
*‹‹Che fa, la finiamo con tutta questa cagnara?›› --> Si ringrazia Attilio La Rosa, il mio professore di matematica, per questa perla di comicità... XD
*‹‹E ora dimmi: mirror, mirror on the wall… true hope lies behind the coast?››--> citazione da "Mirror Mirror" dei Blind Guardian.
*‹‹Dunque… Il pazzo sterminatore fratricida avrà un’infanzia così tragica che pure Remì, Georgie, Lovely Sarah, Candy Candy, Heidi, Harry Potter, la Piccola Fiammiferaia e tutti i personaggi di Dickens lo guardano, scuotono la testa e dicono: "Che ragazzo sfortunato".›› --> questa battuta, che io adoro, viene da http://dialetticamente.splinder.com, ad opera di Dama Gilraen. Mi auguro che non mi si accusi di plagio: non avrei saputo come esprimere meglio l'idea... ;_;
Mi premuro di rendere grazie a Hikari, la mia sorellina/beta-reader personale/Supporto Morale, che si sta sorbendo tutti i miei deliri e le mie paranoie riguardo a questa parodia ^*^.

Una bacione grande a tutti quelli che mi hanno recensito finora ^^

Milako.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Di Aulë e di Yavanna ***


Disclaimer: i personaggi presenti in questa storia appartengono a Tolkien e a chi ne detiene i diritti. Non scrivo a scopro di lucro e nessuna violazione del copyright è intesa. Per citare/riprendere/tradurre questa storia in parte o in toto dovete avere il mio esplicito permesso.

***

Capitolo II

Di Aulë e di Yavanna

ovvero

quando due teste NON sono meglio di una.

Fra le leggi basilari che regolano l’universo, una delle più importanti stabilisce che ogni razza debba avere un nemico naturale, un avversario, una croce da sopportare, una rottura di zebedei a vita, insomma.
Che so?, i topi col gatto, i gatti col cane, la gazzella col leone, l’essere umano con la zanzara e via dicendo.
Tuttavia, per quel che riguarda le razze viventi in Arda, la natura fu molto più bastarda, giacché la loro disgrazia assunse le fattezze degli esseri più brutti, repellenti, immondi e maleodoranti che mano divina abbia mai creato: i Nani.
Esattamente come a riguardo della creazione dei Due Alberi Sacri di Valinor, fra gli Elfi girano strane voci di corridoio a proposito della nascita dei Nani. Nondimeno, riteniamo che adesso i tempi siano maturi per diffondere la verità anche riguardo a questo mistero.
***
Si è già detto, nel Valaquenta, che Aulë era profondamente odiato da tutti i popoli di Arda per aver ficcato il naso negli affari dei Noldor (i quali, se non fossero stati istruiti dal Vala nella lavorazione del metallo, magari sarebbero stati una tranquilla e paciosa fazione di Elfi).
Aulë, nel corso dei millenni, non smise mai di rammaricarsi di quella sua azione; tuttavia per il Vala rammarico ben più grande provenne da un gesto precedente… e molto, molto più infame e scellerato.
La vita a Valinor scorreva come sempre: divina, beata, pacifica e felice. Ovviamente nella particolare concezione che i Valar avevano di "felicità", che non stiamo qua a ribadire.
Accadde così che un dì Aulë cominciò a sentirsi stanco, veramente molto stanco.
Era stanco delle piantagioni illecite di sua moglie, stanco di ascoltare le vaccate di Manwë, stanco di prestare soldi che puntualmente non gli ritornavano, stanco di farsi sfruttare per i lavori di edilizia degli "amici", stanco di offrire sempre da bere a tutti, stanco… insomma, era piuttosto stanco.
Oltretutto si sentiva anche molto solo: Ilúvatar gli aveva dato la disgrazia di possedere un paio di grammi di materia grigia e così tutti i Valar non gli parlavano mai, ritenendolo un intellettuale troppo difficile da capire.

E così i giorni passavano, la vita continuava sempre uguale e Aulë affogava nella sua frustrazione di genio incompreso. Inoltre il suo orgoglio d’artigiano era allegramente finito alle ortiche dopo la costruzione dei Due Pali (e relativo abbattimento, anche se magari quella non era stata una gran disgrazia, a parer suo).
La sua unica speranza giaceva in quella remota profezia in cui Ilúvatar aveva annunciato la venuta degli Elfi: che si sbrigassero ad arrivare, magari avrebbe trovato qualcuno con cui fare conversazione!
…Tuttavia i giorni continuavano a passare, degli Elfi nessuna traccia, e alla fine il povero Aulë si convinse che, sì, di sicuro Ilúvatar doveva odiarlo vivamente e appassionatamente. Non c’era nessun’altra spiegazione possibile…
Fu così che, sopraffatto da un mix di disperazione, noia e follia, Aulë prese una decisione.
Con tutta probabilità, la peggiore decisione della sua esistenza.
Armatosi di creta e argilla (più altri materiali di facile intuizione, che sono stati fondamentali per conferire ai Nani il tipico aspetto che conosciamo oggi), il Vala artigiano si ritirò nelle profondità della Terra di Mezzo e cominciò a dar forma ai Nani (impresa per la quale, non esitiamo a ribadirlo, si meriterà alcuni fra i più coloriti improperi riportati sui dizionari elfici).
Lavorò instancabilmente per giorni e giorni… finché concluse la sua opera.
Prima di fornire una descrizione completa dei Nani - che sicuramente vi renderà tutti felicissimi - è opportuno specificare una cosa: Aulë era un eccellente artigiano, un lavoratore dalle enormi capacità e un abilissimo artefice… ma sicuramente non era un esteta.
I Nani erano BRUTTI. Ma non brutti di quella bruttezza a cui uno potrebbe anche abituarsi, no… facevano veramente schifo. Anche solo vederne uno di sfuggita faceva male agli occhi.
Persino una colonia di scarafaggi, che disgraziatamente al momento della genesi nanesca era presente, fu istantaneamente colta da panico e repulsione e morì sul colpo.
Ma, come si usa dire fra gli Elfi, "ogni Nano è bello a papà suo". Aulë non si curò della colossale bruttezza delle sue creature e anzi, tutto contento e gongolante, si sentì estremamente orgoglioso e pieno di sé, come una bambina circondata da orridi Cicciobello.
Stava giustappunto accingendosi ad insegnare ai pargoli la favella che aveva ideato per loro – comprensiva di rutti, pernacchie, peti e svariate emissioni corporali – quando Ilúvatar parlò.
‹‹Aulë!››.
‹‹Uh… ehr… buondì, padre…››.
‹‹Che cosa stai facendo, Aulë?››.
‹‹Uh… niente…››.
‹‹Tsè… magari fosse niente…›› la voce di Ilúvatar si riempì di nausea mentre il dio dava una veloce (velocissima) occhiata ai Nani. Aulë ne fu addolorato; afferrò un Nano e lo alzò sopra la propria testa, tendendolo verso il luogo dal quale supponeva provenisse la voce di Eru.
‹‹Come? Non li trovi teneri?››.
‹‹Eeek! Levalo! Levalo! Via!››.
Aulë riappoggiò il Nano a terra, trattenendo a fatica le lacrime. Il Nano, dal canto suo, non appena riacquistato il suolo, alzò di nascosto un dito medio contro il suo fattore e rivolse un poderoso rutto al cielo.
‹‹Aulë, ma perché mi fai questo?›› gemette Ilúvatar. ‹‹Insomma, sei l’unico Vala dignitosamente ragionevole, non dico intelligente, non sia mai, ma quantomeno dotato di buon senso… perché mi hai fatto questo? Anzi, perché hai fatto questi?››.
‹‹Padre, nella mia impazienza di vedere destarsi gli Elfi sono caduto preda della follia!››.
‹‹Zitto!››.
‹‹P-perché?››.
‹‹Perché se gli Elfi, qua, arrivano a sentire che hai cercato di rimpiazzarli con quelli, minimo minimo ti cavano gli occhi a morsi››.
‹‹Oh››.
‹‹Hai compiuto un atto scellerato, Aulë››.
‹‹Me ne rendo conto››.
‹‹No, che non te ne rendi conto: visti dall’alto i Nani sono ancora più brutti.››.
A quel punto il senso di colpa prese il sopravvento anche sull’istinto paterno di Aulë, che tentò di rimediare alla malefatta.
‹‹Che cosa farò ora io affinché tu non resti in collera con me per sempre? Come un figlio a suo padre, io ti offro queste cose, l’opera delle mani che tu hai creato››.
‹‹NO!›› urlò Ilúvatar. ‹‹Non me li offrire! Che ti ho mai fatto di male? Ammazzali, piuttosto, che è meglio sotto tanti punti di vista››.

E, obbedendo all’ordine paterno, Aulë sollevò un grande martello onde colpire i Nani; e pianse.


I Nani, che non erano sensibili come lui ma avevano uno spiccato istinto di sopravvivenza, alla vista del martello si fecero un paio di calcoli e cominciarono a protestare in maniere più o meno diplomatiche, non escludendo alcun mezzo di dissuasione (dalle braghe calate a ribellioni sottoforma di rutti).
Incredibile per quanto possa sembrare, la difesa dei Nani sortì il suo effetto: Aulë si intenerì e lasciò cadere il martello, accogliendo le sue creature fra le braccia.
Ilúvatar osservò la scena, chiedendosi se fosse stato meglio fulminare sia il Vala che i Nani o semplicemente ritirarsi dall’incarico e lasciare la gestione dell’Universo ad un partito migliore. Tuttavia la bontà divina prevalse (e per colpa di tutta ‘sta bontà noi ci dobbiamo tenere i Nani. N.d. Popoli di Arda).
‹‹Senti… Aulë… lasciamo perdere, và. Ho capito che è destino che non mi debba mai riuscire una cosa per bene: prima ci si è messo Melkor, ora tu!›› la voce dell’Onnipotente tremò. Si ricompose e riprese. ‹‹Bah, ok, i Nani possono restare. Tanto ormai Arda è in condizioni catastrofiche, peggio di così…››.
‹‹Padre! Grazie!››.
‹‹Pazienta... non ti ho detto la clausola. Gli Elfi, dalla regia, mi dicono che non hanno intenzione di destarsi e trovarsi i Nani davanti. Dicono che  una vita non basterebbe per riprendersi da uno shock simile, e siccome sono immortali, capisci da te che...››.
‹‹E… quindi?››.
‹‹Quindi sei pregato di tenere i Nani segregati sottoterra almeno fino a che gli Elfi non saranno svegli e abbastanza forti da giocare a freccette con natiche nanesche.››.
‹‹Oh›› Aulë ponderò l’offerta. ‹‹D’accordo, va bene››.
‹‹E così sia. Yop!››.

Allora Aulë prese i Padri dei Nani e li pose a giacere in luoghi remotissimi; e fece ritorno a Valinor e attese il passaggio di lunghi anni.


Poiché erano destinati a giungere nei giorni del potere di Melkor, Aulë rese i Nani forti e resistenti. Per questo sono duri come la pietra (e simpatici altrettanto. N.d.A), testardi (un motivo come un altro per odiarli. N.d.A.), rapidi a stringere amicizia (ma con chi? N.d.A.) e a scatenare ostilità (eh beh… Comprensibile. N.d.A.), e sopportano la fatica e la fame e il dolore fisico con più fermezza di ogni altro popolo dotato di parola (se ''parola'', e non ''grugnito'', si può definire il nanico. N.d.A.); e vivono a lungo (ahimè! N.d.A.), ben più degli Uomini (che umiliazione… N.d.A.), eppure non per sempre (ah, ci consoliamo. N.d.A.).

Un tempo, fra gli Elfi della Terra di Mezzo si riteneva che, morendo, i Nani tornassero alla terra e alla pietra di cui erano fatti: successivamente si scoprì che questa leggenda non è del tutto falsa, in quanto i Nani in realtà sono di materiale biodegradabile e utile ai fini della concimazione.
I Nani creati da Aulë furono sette. I loro nomi erano Brontolo, Pisolo, Mammolo, Gongolo, Cucciolo, Eolo e Dotto. In realtà esisteva anche un ottavo Nano, Silviolo, ma questo non viene più annoverato fra i racconti di Arda in quanto scappò segretamente dalle fucine di Aulë e si unì alle forze di Melkor.

Fu così che i Nani attesero dormendo (e russando come rinoceronti con la sinusite) l’avvento degli Elfi su Arda.

***

Ora, impegnato a creare i Nani, Aulë tenne nascosta la propria opera agli altri Valar; non ne fece parola nemmeno con Yavanna, la sua sposa.


Fra moglie e marito non mettere il dito, dicono gli Uomini… tuttavia ai tempi tanta saggezza umana ancora non esisteva; così, ficcanaso del calibro di Varda ponevano regolarmente non solo il dito, ma anche la mano e tutto l'avambraccio negli affari fra moglie e marito.
Accadeva così che Varda, in quanto Regina di Arda, fosse disgraziatamente a conoscenza di tutto ciò che avveniva sul pianeta; e non appena venne a sapere che Aulë si dedicava alla creazione dei Nani corse a riferirlo alla comare Yavanna.
Essa, dal canto suo, impegnata com’era nella cura delle sue amate piantine allucinogene, da tempo dedicava ben poca cura agli affari del marito. In fin dei conti non le importava più di tanto se quel disgraziato dello sposo si era dato alla genesi personale… ma Yavanna era una Valië dal carattere ripiccoso e così, per puro dispetto, ringraziò Varda dell’informazione e corse in fretta e furia a lamentarsi da Manwë.
Quest’ultimo (un po’ come tutti noi lettori del Silmarillion…) non comprese tanto bene i motivi dell’irruzione di Yavanna nella sua reggia, tuttavia la stette ad ascoltare.
‹‹Re di Arda, è vero che Aulë ha creato un popolo tutto suo?››.
Manwë, francamente, non ne aveva idea. Tuttavia non poteva assolutamente fare la figura del disinformato: era il Re! Così scelse un compromesso e annuì con aria grave.
‹‹Ah! Lo sapevate tutti tranne io! Perché devo essere sempre l’ultima a sapere le cose?›› si lagnò Yavanna. Manwë, non sapendo bene cosa replicare, rimase in silenzio, cercando di raccapezzarsi in quella situazione della quale aveva solo un pessimo presentimento. La Valië, incurante, continuò a lamentarsi.
‹‹Ecco! In questo regno tutti fanno quello che vogliono e io non ne so mai niente! Ti pare giusto, Manwë? Come se la mia opinione non contasse nulla!››.
Il Re aveva la tentazione di risponderle "guarda, io sono il Re e la mia opinione non conta nulla lo stesso", ma si trattenne. Tentò invece di aggiustare la cosa.
‹‹Ehr… ma dimmi, Yavanna: io che c’entro?››. Yavanna esitò.
‹‹Boh… veramente non lo so. Ho pensato che venire a lamentarmi da te fosse la cosa migliore da fare, o no?›› chiese innocentemente.
Il Re maledì il momento in cui era salito il trono.
‹‹Ok, ok… ma io che posso fare per risolvere il tuo problema? Che vuoi da me?››.
‹‹Voglio fare gli Ent!››.
‹‹Eh?››.
‹‹Gli Ent… gli alberi con le gambe›› specificò Yavanna. ‹‹L’ho pure chiesto a Ilúvatar, ma Lui non mi ha mai dato ascolto…››.
Ilúvatar, dall’alto dei Cieli, tirò una testata al muro. No, di nuovo con quella storia degli alberi parlanti! Ah, se solo quando Yavanna era piccola non l’avesse lasciata tutte quelle ore davanti all’Albero Azzurro e alla Melevisione…
Manwë, non sapendo bene come comportarsi, si finse interessato.
‹‹E… emh, a cosa servirebbero questi… Ent?›› chiese. ‹‹Sono una nuova specie semovente di cannabis?››.
‹‹No!››.
‹‹Come no?››.
‹‹Che vuoi, non ci ho pensato, quando li ho inventati… ora mi scoccia modificarli››.
‹‹Ma sanno fare qualcosa?››.
‹‹Mah… camminano, parlano…››
‹‹Oh! Parlano, bene!››.
‹‹Sì, ma parlano poco, lentamente, e quando parlano dicono pure stronzate››.
‹‹Ma allora a che servono?››.
‹‹Boh! A niente, credo!›› rispose allegra Yavanna. ‹‹Ma nelle Due Torri servirà pure qualcuno che salvi Merry e Pipino da morte certa, no?››.
‹‹Ah… boh, non lo so, ma per me va bene. Fai come ti pare›› rispose Manwë, soddisfatto di aver adempito così degnamente al suo ruolo di sovrano.

Allora Yavanna fu lieta e si levò alzando le braccia ai cieli, e disse: ‹‹Alti cresceranno gli alberi di Kementári, così che le Aquile del Re vi possano abitare!››.


Dopodichè si gettò a terra in ginocchio e cominciò a ridere in maniera isterica, mentre la sua tonalità di pelle passava dal verde pistacchio, al viola acceso, al giallo pallido. Fu quando cominciò a sproloquiare in dialetti scandinavi che Manwë si sentì davvero morire.
‹‹Oh, porco Melkor!›› imprecò Varda che passava di là per caso. ‹‹Ancora gli effetti delle piantine! Yavanna, lo so che ormai hai gli anticorpi pure contro l’uranio, ma dovresti andarci più piano ogni tanto, accidenti!››. Sbuffando, Varda raccattò la comare e la trascinò per un braccio fino a casa, dove trovò Aulë intento a modellare nanetti di gesso. Il Vala si voltò e osservò la sposa per circa due secondi, dopo sospirò, si grattò un orecchio e tornò ai suoi lavori.
‹‹Aulë, Aulë…›› delirò Yavanna mentre Varda la metteva a dormire ‹‹…Eru è generoso! Che i tuoi figli ora vigilino! Nelle foreste, infatti, camminerà una potenza di cui provocheranno la collera a loro rischio!››.
‹‹Sì, sì…›› rispose il marito, di spalle. Quindi, con una precisione straordinaria (acquisita dopo tanti anni di delirante matrimonio) lanciò alle proprie spalle una pesante tenaglia di bronzo. L’oggetto colpì Yavanna in mezzo alle tempie, mettendola finalmente a tacere e consentendo alla storia del mondo di proseguire in (relativa) santa pace.

***

Note:

Ciao, ragazzi!
Dopo quasi un mese di pausa, pubblico finalmente il quarto capitolo.
Sì, lo so che è molto breve e che probabilmente vi aspettavate qualcosina di più, però capitemi: sono in pieno 4° liceo, ho due debiti formativi da saldare e oltre a questo mia sorella monopolizza il pc, quindi ho davvero poco tempo per scrivere.
Però prometto che il quinto capitolo arriverà in tempi ragionevoli! ^^
Ah... spero che non ci siano fan incalliti dei Nani fra di voi: in questo capitolo non fanno decisamente una bella figura... XD. Fra l'altro non mi stanno nemmeno poi così antipatici, ma questa è una parodia, e nelle parodie i difetti vanno amplificati ^^".

E ora Passiamo ai ringraziamenti!
Innanzitutto... 13 recensioni per tre capitoli! *__* Vi giuro che nemmeno nelle mie più rosee previsioni aspiravo a tanto!
Sono contentissima che vi divertiate a leggere la mia fanfic quanto io mi diverto a scriverla! ^*^
Noto che soprattutto Melkor sta spopolando fra i fan... XD Beh, in questa parodia piace molto anche a me, del resto!
In particolare, fra i miei recensori vorrei ringraziare lemonade (e il suo fratellino... mi dispiace che in questo capitolo non ci sia il vostro beneamato Signore Oscuro!); Cil; jesus_of_suburbia (mi fa piacere che ti piaccia questa fic, però i complimenti mi vanno rivolti al femminile... sono una ragazza ;D) e Pussy (la tua recensione mi ha davvero dato la carica! ^^).
Inutile dirvi che sono commossa, vero?

Un bacione a tutti, a presto (spero!)

Milako

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Della Venuta degli Elfi e della Cattività di Melkor ***


a

Disclaimer: i personaggi presenti in questa storia appartengono a Tolkien e a chi ne detiene i diritti. Non scrivo a scopro di lucro e nessuna violazione del copyright è intesa. Per citare/riprendere/tradurre questa storia in parte o in toto dovete avere il mio esplicito permesso.


Capitolo III

Della venuta degli Elfi
e della cattività di Melkor,
ovvero: si stava meglio quando si stava peggio
e Melkor è molto Cattivo.

Per lunghe ere i Valar dimorarono della beatitudine alla luce degli Alberi al di là delle Montagne di Aman, ma tutta la Terra di Mezzo giaceva nel crepuscolo sotto le stelle.

Questo, ovviamente, è un modo particolarmente poetico per ribadire un concetto già abbastanza chiaro un po’ a tutti: l’incapacità dei Valar.

E’ vero: millenni prima il buon Ilúvatar aveva peccato d’ottimismo nel momento in cui aveva lasciato Arda alle cure dei suoi pargoli. I pargoli, tuttavia, non sembravano avere la benché minima intenzione di riparare alla loro millenaria condotta di gnorri.

D’altro canto, è bene ribadire che il Re era Manwë, e con Manwë al comando non è che uno si potesse aspettare poi granchè…

Così accadeva che, mentre ad Aman si mangiava, si beveva e si truffava e ad Utumno Melkor perfezionava i suoi block-notes di conquista del mondo; nella Terra di Mezzo sconsolate palle di fieno rotolavano su parecchi strati di polvere, con i corvi in sottofondo (i corvi, si sa, accorrono quando c’è bisogno di far scena).

I Valar, fedeli alla loro condotta, se ne sbattevano. Gli unici che si dolevano di questa situazione erano Yavanna ed Oromë.

Non per nobiltà d’animo, sia ben chiaro! Yavanna aveva guardato con occhio bramoso ai grandi campi potenzialmente coltivabili della Terra di Mezzo, con scopi più che intuibili; l’idea di tanto spazio vuoto sfagiolava anche Oromë, che ad Aman cominciava a sentirsi stretto per via di alcune voci di corridoio sui suoi… uh, passatempi col cavallo Nahar.

Di rado i Valar si recavano in quelle terre e in quelle foreste, salvo dunque i soli Yavanna ed Oromë; e lì Yavanna camminava tra le ombre (occhio alle ombre, Yavanna! Se nitriscono, scappa! N.d.A.), dolendosi perché la crescita delle sue nuove piantine andava a rilento.

Da un po’ di tempo aveva cominciato a fare esperimenti d’innesti fra le sue piantine nei campi della Terra di Mezzo, ma (vuoi perché la temperatura non collaborava, vuoi anche perché gli esperimenti di Yavanna non è che fossero proprio normali…) finora non era riuscita a ottenere nemmeno un raccolto. In attesa di tempi migliori, ella pose allora il sonno su molte cose che erano sorte durante la Primavera, in modo che esse non invecchiassero, ma che attendessero un tempo del risveglio che ancora sarebbe venuto.

Sì, in parole povere Yavanna aveva appena inventato i surgelati.

***

Nel nord, però, Melkor costituì la propria forza, o almeno di questo era convinto.

Perché c’è da dire che negli ultimi tempi anche Melkor cominciava a subire qualche acciacco.

Innanzitutto, i suoi deliranti schemi di conquista del mondo cominciavano a diventare preoccupanti. Melkor ne disegnava ovunque; su quaderni, libri, post-it, block-notes, lavagnette magnetiche, sulle mura, sul frigorifero, sulle mani, sulle magliette e dovunque gli riuscisse di imbrattare. Ne era ossessionato, non dormiva quasi più, e quando accadeva lo si sentiva urlare «POTERE!» nel sonno; di mattina, la prima cosa che faceva era controllare che i foglietti sulle pareti fossero ancora tutti al loro posto e che nessuno glieli avesse scombinati o sbirciati.

«Padrone, Voi vi dovete rasserenare, state tranquillo…» gli dicevano i suoi sottoposti.

«NO! Come posso stare tranquillo? Eh? Oh, non ci riuscirò mai, non ci riuscirò mai, mi ritiro!» urlava lui, agitando la testa sopra pile di appiccicose tazze di caffè.

Cioè, cose che nemmeno mia sorella agli esami di maturità… Ma passiamo oltre.

Quando Melkor non ne poteva più, quando i nervi gli crollavano, quando si sentiva morire, quando finiva con lo strappare gli schemini a cui lavorava da settimane - ben conscio che il giorno dopo li riavrebbe rassegnatamente incollati ad uno ad uno con la colla vinilica - quando gli accadeva questo, Melkor si gettava esausto su una poltrona, con gli occhi a palla e i capelli quasi vivi, lasciando friggere in libertà la stanchissima materia grigia.

Momenti del genere erano sempre più frequenti, e ogni volta che Melkor crollava in questo stato l’intera Utumno si rigirava nell’indecisione e nell’imbarazzo. Sì, perché l’immediato sottoposto dell’Oscuro Signore era ancora il sicilianissimo, imprevedibile Sauron.

Egli non era migliorato nel tempo. Girava ancora con la fedele lupara sotto l’ascella, teneva la sua collezione di coppole con una cura religiosa e sottolineava la mole dei suoi baffetti con sempre maggiore orgoglio. Continuava a rivolgersi a Melkor con sparate del tipo «Patrone, come comanda Vossignoria», rischiando la vita ogni volta che lo faceva, certo, ma senza che un brivido facesse tentennare la sua identità mafiosa.

Semmai era peggiorato, dato che col tempo era anche venuto fuori che Sauron aveva anche dei gusti discutibili in fatto di strumenti di tortura…

In quel tempo Melkor stava radunando attorno a sé i propri demoni, quegli spiriti che per primi gli si erano uniti nei giorni del suo splendore e che gli erano divenuti massimamente simili nella sua corruzione: i Balrog.

Ora, sapete tutti come sono fatti i Balrog, no? Corna, fruste di fiamme e tutto il resto.

Melkor, fiero di avere degli alleati tanto spaventosi, li condusse ad Utumno.

Sauron, però, come vide le fruste dei Balrog, venne colto da uno di quei colpi di genio che tanto spesso gli fecero rischiare la carriera. Approfittò di uno dei momenti di stanchezza del suo «patrone» e impose ai Balrog fruste di pelo rosa, corredandoli anche di manette con i glitter e perizoma leopardati, per fare più fashion.

I sottoposti di Melkor erano annichiliti, tanto più dal fatto che i Balrog parevano apprezzare la trovata. Sauron, mafioso dalla lacrima facile, stava giustappunto iniziando a commuoversi, sennonché il sesto senso di Melkor, fiutando la catastrofe, fece scattare il campanello d’allarme nella mente di questi.

E lì vi furono urla, fulmini e saette, preghiere accorate in siciliano e minacce di mutilazioni varie e ripetute fino a che Melkor, anche per salvaguardare quel poco di sanità mentale che gli era rimasta, decise di inviare il luogotenente… diremmo oggi «a dirigere il traffico».

Sauron fu infatti delegato alla gestione di Angband, arroccatissimo, sperduto, inutile e solitario arsenale di Utumno. Felicissimo e onorato per motivi noti unicamente a lui, Sauron accettò l’incarico con gioia, cominciando fin da subito a rinominare Angband « ‘u Cciarduni».*

***

Ignari (o forse no? Tanto la differenza non si nota…) di questi avvenimenti, i Valar se ne stavano tranquilli nel loro Reame Beato.

Certe volte, ma solo raramente, si ricordavano di cosa li aveva portati su Arda, riflettevano sulla loro colpa verso Ilúvatar e si dicevano che, beh, sì, il Padreterno li aveva mandati sulla terra come castigo, ma alla luce dei fatti la loro esistenza in Aman non si poteva definire un castigo, anzi, era tutto il contrario!

…Essi, poveri stolti, avevano dimenticato la seconda parte del castigo d’Ilúvatar.

Ilúvatar, però, non aveva dimenticato. Egli aveva osservato col cannocchiale le faccende dei suoi pargoli, aveva visto i loro vizi, la loro immoralità, aveva visto il malgoverno di Manwë e i traffici di Yavanna, soprattutto aveva ascoltato – con l’aggeggino della Amplifon, perché gli anni passano per tutti – tutte le idiozie che ogni giorno volavano libere in zona Valar. E tutto questo non faceva che rafforzare sempre di più in Eru la convinzione dell’impellente necessità di trovare ai Valar qualcosa da fare… qualcosa di impegnativo e snervante da fare.

Un bel dì, Yavanna si svegliò con un improvviso scrupolo di coscienza. Si alzò e, dimentica perfino di dare l’acqua alla piantina che teneva sul comodino, si diresse verso la porta senza una parola.

Ad Aulë, marito rassegnato ma attento, non sfuggì quest’anomalia. «Dove vai?», le chiese.

«Dal Re… vieni?» cantilenò lei.

«Eh? L’ultima volta che sei stata da Manwë dopo ti sei messa a blaterare di alberi parlanti e io e Varda ti abbiamo dovuta stordire, ricordi?» le fece notare pazientemente il marito.

«Uhu…» accennò Yavanna con sguardo vacuo, dando l’impressione di essere posseduta. Ed in effetti era proprio così: Ilúvatar la stava manovrando.

Aulë, non poco preoccupato, si grattò l’orecchio in un gesto a lui solito e s’incamminò dietro la sposa.

Giunti che furono alla corte di Manwë, essi trovarono il Re impegnato in una mano di scopone scientifico particolarmente difficile, assieme ad una buona metà dei Valar e a un certo numero di Maiar.

«Buondì, Yavanna…» cominciò cautamente il Re, memore dell’ultima visita. «Qual buon vento ti mena?», e a questo punto tutti i presenti, nascosti dietro le carte, cominciarono a scambiarsi battutine sul vento e a ridacchiare. Manwë s’incupì e Aulë sospirò, ma Yavanna non batté ciglio e disse tutto d’un fiato, come se l’avesse imparato a memoria: «Potenti di Arda, la Visione d’Ilúvatar fu breve e presto rimossa, così che forse noi non siamo in grado di indovinare con sufficiente esattezza l’ora stabilita. Ma di questo state certi: l’ora si avvicina ed entro quest’era la nostra speranza verrà rivelata, e i Figli si desteranno. Lasceremo dunque desolate e in preda al male le terre dove dimoreranno? Dovranno essi camminare nell’oscurità mentre noi abbiamo luce? Dovranno essi chiamare Melkor signore mentre Manwë siede sul Taniquetil?».

Si fece silenzio e tutti guardarono Manwë, che per la precisione in quel momento più che sedere sul Taniquetil sedeva su una poltrona girevole, roteando su se stesso con aria beata e del tutto indifferente alla questione.

Allora tutti si voltarono di nuovo verso Yavanna, come se attendessero da lei delucidazioni, ma la Valië emise un suono strozzato, sbatté gli occhi, si guardò attorno stralunata e assunse di botto il colorito violaceo tipico di quando andava in overdose. La situazione tornò alla normalità non appena Aulë, avvezzo a questi momenti, ebbe rabbonito la consorte con un colpo di tagliacarte sulle gengive; i Valar poterono quindi scambiarsi le loro opinioni.

Tulkas gridò: «Sì… Le parole di Yavanna sono veritiere! Dobbiamo entrare subito in guerra contro Melkor, l’avvento dei Figli d’Ilúvatar s’avvicina!». Subito dopo, nel silenzio generale, aggiunse: «Mpphhffff… Ah ah ah ah, ah ah ah ah!».

Manwë, improvvisamente interessato, smise di roteare sulla sedia girevole e esclamò: «Sì, è giusto che ci opponiamo a Melkor, non ci siamo forse ripresi dalle nostre fatiche?».

Tutti annuirono, poco convinti; in realtà si chiedevano: «quali fatiche?», e soprattutto sospettavano di quest’improvvisa buona volontà di Manwë – che in realtà, nel profondo del suo cuore aspirava solo a menare Melkor, sogno sadico a cui non aveva mai rinunciato.

La decisione era incerta: a pochi Valar andava seriamente di alzarsi e andare incontro a morte sicura.

Manwë, sbuffando dell’indecisione dei suoi amici e cercando l’appoggio di qualcuno che alla parola «morte» avrebbe fatto le capriole di gioia, si rivolse alla sua destra.

«Mandos?» disse, «tu cosa ne pensi?».

Per sfortuna di Manwë e fortuna di tutti gli altri, Mandos quel giorno era di cattivo umore. Aveva mal di denti, gli si era rotto lo stereo e continuava a perdere a scopone scientifico, cose che basterebbero per rendere di cattivo umore anche una persona dall’indole più solare di Mandos. Egli si limitò a incrociare le braccia al petto e a guardare male il Re, senza proferire verbo.

I Valar, che da lui si erano aspettati le solite allegre manifestazioni di tendenza al suicidio, sbatterono gli occhi, sbigottiti. Manwë divenne corrucciato, ma lo chiamò di nuovo: «Mandos? Ho bisogno del tuo parere, sei il Giudice di Arda…».

Al che Mandos, che le aveva già particolarmente girate, si girò di scatto, ringhiò, abbaiò, morse un dito a Manwë e, incupito, disse: «Sì, che palle, in questa era arriveranno davvero i Figli d’Ilúvatar, d’accordo? Ma non è ancora il momento! Inoltre è destino che i Primogeniti giungano nella tenebra…»

«Che culo…» commentarono gli altri.

«…e che per prima cosa guardino le stelle».

«Poveracci…» mormorò Manwë, che odiava le stelle per questione di principio.

«Grande luce ci sarà per il loro declino!» annunciò Mandos, e già la profezia di un grande e rovinoso declino lo rallegrò un po’. «E sempre invocheranno Varda nel momento del bisogno» concluse. Varda era in brodo di giuggiole.

«Sentito? Gli Elfi invocheranno il mio nome nel momento del bisogno!» cinguettò la Regina delle Stelle battendosi le mani.

«Umph, dipende da cosa intende con ‘momento del bisogno’…» bofonchiò acido fra sé e sé Manwë, che in realtà c’era rimasto un po’ male ed era invidioso.

Allora Varda si allontanò dal consiglio, e guardò giù dalla cima del Taniquetil e vide la tenebra della Terra di Mezzo sotto le stelle innumerevoli, fioche e lontane.

E siccome Varda, pur essendo immensamente stupida, era una Valië per bene, pensò di fare un’opera buona, e creò nuove e più lucenti stelle per la venuta degli Elfi; così che ella, il cui nome fin dalle profondità del tempo e delle doglie di Eä fu Tintallë, Colei che Accende, venne in seguito chiamata dagli Elfi Elentári, Regina delle Stelle… anche se gli Elfi non la pensavano proprio così, in realtà.

Così Varda fece nuove stelle. All’inizio si mise d’impegno e fece le cose per bene, e creò Alcarinquë, Elemmírë, Wilwarin, Telumendil, Soronúmë, Anarríma e Menelcamar e tutte quelle costellazioni dai nomi impossibili che tanto avrebbero fatto felici i giovani Elfi studenti di geografia astronomica.

Poi però ci prese gusto, impazzì e creò in cielo la Stella Cometa, la Stella di Davide, le cinquantadue Stelle della bandiera americana, il cacciavite a Stella, i Pan di Stelle, Un Due Tre Stella, il Mercante di Stelle, Guerre Stellari, Van Gogh e la Notte Stellata, Ballando con le Stelle e le Stelle di Natale.

E infine alta nel Nord, come una sfida a Melkor, ella sospese la corona di sette possenti stelle, la Valacirca, la Falce dei Valar: in realtà questa altro non era che una falce e martello, ma effettivamente Melkor avrebbe potuto prenderla piuttosto male…

***

Si racconta che, proprio mentre Varda terminava le proprie fatiche, in quell’ora si destarono i Figli della Terra, i Primogeniti d’Ilúvatar.

Gli Elfi dormivano placidamente presso un lago chiamato Cuiviénen, quando le stelle di Varda splendettero luminose nel cielo.

Un Elfo che dormiva della grossa disteso all’ombra degli alberi, scattò a sedere di botto con il cuore in gola. Spinto da una conoscenza ancestrale, cominciò a cercare a tentoni accanto a sé la corda di una serranda, ma non la poté trovare. Egli si chiamava Imin.

«Ma…» bofonchiò, «…ah, porca Elbereth!».

Fu così che gli Elfi si destarono incazzati come bisce alla luce delle stelle, e come prima cosa maledirono il nome di Varda.

Vicino ad Imin dormivano altri due Elfi che, imbestialiti quanto lui, stavano imprecando contro tutti gli appellativi di Varda.

«Ah, Elbereth Giltoníel! Ti cadano gli occhi! Ah, Varda Elentári! Possa tuo marito riempirti di corna! Ah, Tintallë…» stava sibilando inviperito uno dei due Elfi, e avrebbe continuato ancora per molto tempo se Imin non l’avesse interrotto.

«Io sono Imin, tu come ti chiami?».

«Tata» rispose l’altro, e visto che sembrava già abbastanza preso male di suo, Imin evitò di ridere.

«E quello come si chiama?» chiese, indicando l’altro Elfo che se ne stava tutto corrucciato a sbadigliare e stropicciarsi gli occhi.

«Si chiama Enel», rispose Tata.

«Enel?» chiesero gli altri cinquecento Elfi, che nel frattempo si erano avvicinati. «Enel, hai detto? Allora è colpa sua!», esclamarono in coro.

Il povero Enel, che non capiva il nesso fra il suo nome e tutta quell’indesiderata luce, venne pesantemente preso a randellate dai primi Elfi che, ricordiamolo, erano un popolo gentile e aristocratico.

A lungo i Primogeniti dimorarono nella loro prima casa accanto all’acqua sotto le stelle; e incominciarono a creare una lingua e a dare nome a tutte le cose di cui si rendevano conto.

Chiamarono se stessi Quendi, che recenti studi hanno tradotto con «coloro che volevano solo dormire e non ci pensavano proprio a tutte quelle guerre»; e passavano il loro tempo cantando, chiacchierando (sì, prima erano dei gran chiacchieroni, è dopo che sono peggiorati…) e cercando di recuperare il sonno perduto.

E una volta capitò che Oromë cavalcasse verso oriente andando, disse lui, «a caccia», e che passasse sotto le ombre degli Orocarni, le Montagne dell’Est.

Poi, all’improvviso, Nahar emise un forte nitrito e restò immobile. Oromë sbuffò.

«No, Nahar, stupido cavallo, non qui…» disse, credendo che l’equino fosse impaziente di appagare gli istinti del padrone. «Cavallo goloso…» aggiunse poi con un sorriso malizioso, accarezzando il collo del destriero.

Nahar, che se avesse potuto parlare gliene avrebbe dette in tutte le lingue, restò zitto e muto. Quando però Oromë cominciò a sussurrargli nell’orecchio frasi oscene, il cavallo ebbe una crisi di nervi, disarcionò il suo cavaliere e scappò lontano verso la libertà.

Oromë ci restò malissimo. Rimase a lungo in silenzio ad osservare il suo ‘amato’ cavallo che si allontanava ad una velocità impressionante e gli parve, nel silenzio, di udire da lontano molte dolci voci che cantavano.

Fu così che finalmente i Valar trovarono, come per caso, coloro che avevano tanto a lungo atteso (mah, a me sembra che se ne siano fregati fino ad ora. N.d.A. ) e, guardando gli Elfi, Oromë fu colto da meraviglia.

Tuttavia l’istinto dello scassapalle che c’era in lui ebbe il sopravvento sulla meraviglia. Il Vala si slacciò dal collo Valaróma, il suo grande corno da caccia bianco e argentato; in verità egli non l’aveva mai usato per cacciare (la caccia era tutta una messinscena per coprire le sue vere attività), ma in quel momento esso gli parve una bellissima cosa.

Oromë guardò gli Elfi. Alcuni se ne stavano sulle rive del lago a guardare il riflesso delle stelle sull’acqua, ma la maggior parte sembrava felicemente assopita.

Il Vala si portò il corno alle labbra e soffiò.

«EEEEEK!!!».

«Di nuovo?».

«Ma basta!».

«Avanti, chi è l’imbecille che s’è permesso…».

«Ah, Elbereth Giltoníel!» imprecò qualcuno. Varda questa volta non c’entrava niente, ma ormai l’abitudine di maledirla era entrata nel folklore elfico.

Oromë rideva divertito nascosto dietro un cespuglio: lo scherzo gli era riuscito!

Accarezzando il corno, decise di comportarsi da persona seria e ancora con un mezzo ghigno si diresse sulle sponde di Cuiviénen, dove mille incazzosissimi Elfi stavano cercando il colpevole di quel gran casino.

«Buondì» disse Oromë agitando la manina. Gli Elfi smisero subito di azzuffarsi e si voltarono verso il Vala. Un Elfo, Finwë, che era di mente acuta, scorse il corno d’argento d’Oromë e capì tutto.

«Crepa» borbottò a mò di saluto.

«Come?» chiese Oromë, che era duro d’orecchie.

« ‘Crepa’… in Alto Elfico significa ‘Ave a te, Grande Signore delle Praterie’ » buttò lì Finwë con la nonchalance di un professionista.

«Ah!» manco a dirlo, il Vala se la bevve facile facile. Poi si soffermò un poco a guardare da vicino gli Elfi.

Al principio, essi erano più forti e più grandi di quanto non siano divenuti in seguito e, a dispetto di quanto riferiscono le leggende, sì, erano indubbiamente anche molto più belli.

Gli Elfi del Signore degli Anelli fanno tutti schifo, avanti… avete presente Celeborn? Ed Elrond? E dei poveri Elrohir ed Elladan che mi dite? Si salva solo Legolas.

Non c’è dubbio che in principio gli Elfi dovessero essere molto più belli di questi, ma poi la natura s’è confusa e Peter Jackson ha dovuto adeguarsi. Beh, ma non divaghiamo.

Dunque, c’era Oromë che, disarcionato e abbandonato, si trovava di fronte questo gran numero di belle creature attraenti, che ora lo guardavano, alcuni interessati, altri, come Finwë, con un cipiglio decisamente torvo. Però erano belli. Molto belli. Così, finì che il Vala fu colto dal desiderio di… uh, condurre con sé gli Elfi a Valinor.

«Perché non venite a Valinor con me? Sapete, c’è l’aria buona, gli alberi luminosi e tutto il resto…» disse, con un sorriso che gli andava da un orecchio all’altro e che trasudava lussuria.

Gli Elfi, nessuno escluso, aggrottarono le sopracciglia e fecero un passo indietro. Ci fo un «no, grazie» corale.

«Perché no?» chiese Oromë, sempre sorridendo e annuendo con decisione.

Un Elfo chiamato Ingwë fece un passo avanti: «La mamma non vuole che andiamo con gli sconosciuti», disse con aria impassibile. Alcuni ridacchiarono.

A questo punto Oromë cominciò a sentirsi preso per i fondelli e il suo sorriso si fece più stretto.

«Ma… sarebbe folle da parte vostra rifiutare l’invito dei Valar! Dai, che avete da perdere?».

«La faccia… e speriamo nient’altro» borbottò qualcuno allontanandosi discretamente da Oromë, facendo bene attenzione a non dargli le spalle.

Vedendo che la situazione volgeva a suo sfavore, il Vala decise di tentare tutte le sue carte.

«Ma a Valinor non si muore mai!» esclamò.

«Ma tanto noi siamo immortali» notarono gli Elfi.

«A Valinor c’è tanta luce!».

«Per carità, abbiamo avuto una brutta esperienza con la luce…».

«Ma, umh, a Valinor sarete al sicuro dalle insidie di Melkor…» sbuffò Oromë, che non sapeva più cosa tentare.

«E chi è Melkor?» risposero gli Elfi con una tranquillità disarmante.

«Ah… insomma, a Valinor… si vende erba!».

Silenzio.

Finwë si fece avanti: «Beh, potremmo farci un pensierino…».

Oromë esultò fra sé e sé: carne fresca per tutti!

Alla fine quasi tutti gli Elfi si convinsero a fare marcia verso Valinor, ma alcuni sospettavano ancora di Oromë. Diffidavano infatti dagli sconosciuti da quando alcuni Elfi erano stati irretiti dalle spie di Melkor e non erano più tornati.

Infatti un terrore sconosciuto si aggirava fra le pianure della Terra di Mezzo; ed esso altri non era che Silviolo, il Nano malefico fuggito dalle fucine di Aulë e passato al lato oscuro. Costui era la spia preferita di Melkor, che lo sguinzagliava per le lande desolate della Terra di Mezzo in cerca di vittime e di alleati.

Tutti gli Elfi che, ahimè, si erano imbattuti in Silviolo e nel suo lifting avevano finito con l’impazzire, esasperati da continui discorsi efficacissimi sull’importanza di essere di Forza Italia, e alla fine le sue vittime subivano anche un processo d’involuzione indotta, facendosi più brutti e più scemi. Fu semplicemente così che Melkor riuscì a generare l’immonda razza degli Orchi.

Alcuni Elfi, dunque, memori degl’inganni di Silviolo (e anche sospettosi delle intenzioni del nuovo arrivato, per la verità) erano piuttosto restii ad accettare l’invito.

Colsero dunque due piccioni con una fava e dissero ad Oromë che l’avrebbero seguito solo se i Valar avessero fatto qualcosa per sgominare il terrore scatenato dal Nano malvagio.

Oromë non chiedeva di meglio.

Il Vala si soffermò alquanto fra gli Elfi, poi tornò rapidamente (per quel che glielo consentivano le sue gambe prive di cavalcatura) verso Valinor attraverso terre e mari onde recare ai Valar la notizia.

«Manwë! Manwë!» urlava Oromë lungo le vie della città. «Ho grandi novità!».

Manwë, che in quel momento stava facendo una gara di sudoku contro Aulë – e perdeva decisamente – fu ben lieto di avere un pretesto per svignarsela.

«Dimmi, Oromë. Che cos’hai visto? Cosa ti rende tanto inquieto? E… Oromë, ma dov’è il tuo cavallo?» chiese allora, notando l’assenza del millenario compagno del Vala.

«Nahar… non ne voglio parlare!» rispose Oromë con un tono di voce più alto del dovuto. «Manwë… Ho visto gli Elfi!» esclamò sorridendo.

«Sì… e mia moglie ha visto gli asini volanti, ma quello è normale…» bofonchiò Aulë stiracchiandosi.

«No, è vero!» s’impose Oromë, deluso. «Manwë, ero… uh, a caccia, a Cuiviénen, ed è pieno di Elfi!» dichiarò con l’aria di uno che ha trovato il paese dei balocchi.

«Ah… sul serio? Sì, in effetti stamattina Mandos mi aveva accennato qualcosa del genere, era tutto contento perché dice che ha sognato sangue… comunque…» rispose pensieroso il Re, «E tu cosa hai fatto, Oromë?».

Il Vala aprì la bocca per raccontare lo scherzo del corno, ma poi ebbe il buon senso di ripensarci. «Io… li ho invitati a venire a Valinor!».

«Bravo!» sentenziò Manwë soddisfatto. Nuovi cittadini, nuove tasse! «E loro?».

«Emh… non penso che si siano fidati tanto…» rispose il Vala in imbarazzo.

«Perché?».

«Li avrai mica guardati con quella tua faccia che ti fa sembrare un ubriacone davanti ad una damigiana di vino, eh Oromë?» chiese preoccupato Aulë.

«No! Io, no, mai!» rispose l’altro con una fretta quanto mai eloquente. «No, giuro… è che hanno paura di Melkor. Dicono che non si fidano degli sconosciuti».

Manwë sbuffò e alzò le braccia al cielo: «Ah, Melkor, Melkor, ma che palle, sempre lui è! Che ha fatto stavolta?».

«Manda gli emissari, pare voglia convincere gli Elfi a passare a Forza Italia…».

Il Re andò alla finestra e rimase in silenzio. Poi si volse verso Aulë: «Chiama Mandos, chiedigli se secondo lui stavolta è il caso di entrare in guerra e… no, Aulë, non fare quella faccia!... e fammi arrivare la risposta. Vai.».

Aulë, che era un pacifico Vala tutto casa e officina, si allontanò quasi piangendo, mentre Oromë andava a cercarsi una nuova cavalcatura.

Dopo che Aulë gli ebbe riferito il ‘sì’ entusiasta di Mandos, Manwë sedette a lungo pensieroso sul water… sul Taniquetil, e cercò il consiglio d’Ilúvatar, che però in quel momento teneva la segreteria telefonica. Allora Manwë ridiscese a Valinor (dal water! E ci mise cinque giorni. I water a Valinor sono molto alti… N.d.A.) e convocò i Valar all’Anello del Destino.

«Ma poi perché proprio ‘Anello del Destino’, è un nome di merda e porta sfiga…» si lamentava a bassa voce Manwë, che aveva un cattivo presentimento.

«Toh, c’è pure il panzone…» Ulmo era giunto dal Mare Esterno con tutte le sue carriole di lardo. Quando prese posto, gli si fece il vuoto attorno. Ci furono delle basse risate. Qualcuno si soffiò il naso. Oromë sbuffò in modo molto equino.

Allora Manwë prese la parola e disse ai Valar: «Questo è il consiglio che Ilúvatar ha posto nel mio cuore: che noi si riprenda il dominio di Arda, a qualsiasi prezzo, e che si liberino gli Elfi dall’ombra di Melkor».

Tutti i presenti ammutolirono, non tanto per la profondità di quanto detto, ma soprattutto perché era raro che Manwë usasse nei suoi discorsi qualcosa che andava oltre il soggetto, il verbo e il complemento.

Per quanto riguarda Manwë, egli si preparava quel discorso da secoli, e metà l’aveva copiata dai fumetti. Inoltre era una cazzata il riferimento a Ilúvatar, ma sapeva che avrebbe fatto scena.

Ad ogni modo Tulkas fu lieto di tale decisione - essendo un povero scemo buono solo a dare legnate - , ma Aulë se ne rattristò, prevedendo le ferite che sarebbero derivate al mondo (anche se lui si preoccupava più della sua artrite) da quello scontro. Mandos, poi, stava praticamente ballando di gioia.

Fu così che i Valar si mossero per andare in guerra. Gente che cantava, gente che rideva, gente che ogni due passi scuoteva le spalle e sospirava, gente che malediva Manwë…

Beh, insomma, in questo clima di leggerezza generale i Valar andarono ad assalire e distruggere le roccaforti del nemico.

Mai Melkor dimenticò che questa guerra venne scatenata per amore degli Elfi e che furono essi la causa della sua caduta. Eppure gli Elfi - poveri ‘nnuccenti - non ebbero alcuna parte in quei fatti e poco sanno della cavalcata della potenza dell’Occidente contro il Nord al principio dei loro giorni.

Poi i Valar passarono oltre la Terra di Mezzo e posero la guardia su Cuiviénen; e dunque i Quendi non seppero mai nulla dalla grande Battaglia delle Potenze, salvo che la Terra tremò e gemette sotto di loro, e che le acque si agitarono, e che nel nord si accesero bagliori come di fuochi immani.

A questo punto viene da chiedersi: ma che schifo di guardia fecero i Valar a Cuivienén?! Si sentiva tutto!

Boh.

***

Ad Utumno, Melkor era nel suo lettino che mandava giù lentamente un Triaminic. Appoggiò la testa al cuscino e cercò di dormire, ma lo sguardo gli cadde su un foglietto pieno di schemi che penzolava moscio dalla parete. Gemette e si coprì il volto con il piumone, torcendosi nel letto.

Con un gesto secco si scosse le coperte di dosso e si mise a sedere prendendosi la testa fra le mani. Era in queste condizioni dall’ultima crisi di nervi e ancora non accennava a migliorare!

Proprio ora che i Valar s’erano decisi a dargli del filo da torcere… dopo millenni di nullafacenza, poi!

Melkor scosse il capo, scese dal letto, infilò le sue ciabattine scozzesi a prese a girare nervosamente su e giù per camera sua.

Questa situazione non gli piaceva. Da quando il sistema nervoso l’aveva abbandonato per lidi migliori, l’Oscuro Signore si era trovato costretto a lasciare il comando di tutto a Sauron… e in mano sua stava degenerando tutto velocissimamente.

Avrebbe preferito di gran lunga affidare la gestione dei suoi affari al fedele Silviolo, ma qualcuno gliel’aveva fatto trovare appeso a testa in giù da una grondaia. Era un’offesa intollerabile, e il Nano, indignato, s’era rifiutato di collaborare, ritirandosi nelle sue stanze con un aspro «mi consenta!».

Come se non bastasse, Melkor non riusciva più ad elaborare nessuno dei suoi subdoli e contorti piani di conquista del mondo che tanto lo avevano infervorato in passato. Il medico che, povero audace, gli aveva consigliato una cura a base di vitamine, una vacanza e una terapia psichiatrica, era morto ammazzato.

«Tutto questo… mi esaspera!» stridette il Vala Oscuro, fermandosi al centro della stanza e tirandosi quei quattro capelli che gli rimanevano. Era lì che rifletteva sulla miseria della sua condizione, quando dei violenti colpi si abbatterono sulla sua porta.

«Patrone! Aprite! Patrone!».

Gli occhi di Melkor si iniettarono di sangue.

«Sauron… è aperto, Sauron… E’… aperto…» sputacchiò il Vala.

«Oh» bofonchiò Sauron, dopodichè entro, si sistemò la coppola, diede un paio di colpetti al panciotto, si mise sull’attenti e declamò: «Patrone, abbiamo un problema, abbiamo».

Melkor, mani ai capelli, occhi grondanti sangue, ghigno isterico, pigiama e ciabatte scozzesi, si voltò appena verso il luogotenente. Il suo collo emise un ‘griiin’ molto udibile.

«Sì, Sauron… lo so che hai un problema, ma fosse solo uno…» rispose, sfogando il suo isterismo sul sottoposto, che parve non capire.

«No, no, Patrone, dissi che ‘abbiamo’ un problema; è una cosa collettiva, Patrone, di tutti, una cosa grave, sissì, grave assai» enunciò Sauron serissimo.

Lo sguardo pazzo del Vala - che aveva l’obiettivo di fare tacere Sauron, possibilmente per sempre - parve invece indurre il luogotenente a proseguire sullo stesso tono.

«Questa ingiuria è, Patrone mio, ingiuria gravissima! Ci stanno entrando dentro casa, quei fetenti; ma io dico d’ammazzarli tutti, che noi non baciamo le mani a nessuno…».

A quel punto Melkor si morse le labbra, serrò i pugni, i capelli gli divennero dritti e fumanti sulla testa, gli occhi gli fuoriuscirono di sei centimetri e mezzo dal cranio e le ciabattine scozzesi gli presero fuoco. Sauron scappò e lasciò il suo patrone in preda ad una crisi isterico-epilettica, che rideva, piangeva, faceva i versi degli animali e cantava Tiziano Ferro alternativamente.

Fu in questo stato che mezz’ora dopo i Valar lo ritrovarono. Tulkas, che era già fornito di cintura da wrestling ci rimase male quando gli fu detto che non era necessario picchiare il nemico, e Manwë, piuttosto che soddisfazione, provò quasi pena. Aulë, che fino a quel momento aveva già recitato dodici rosari – ignorando, fra l’altro, cosa fosse di preciso un rosario - tirò un sospiro di sollievo e si asciugò la fronte con un fazzoletto; Mandos invece se ne stava un po’ indietro tutto contento a contare i cadaveri dei nemici.

Così, terminata la Battaglia, i Valar legarono Melkor con una camicia di forza chiamata Angainor, cucita da Aulë – che nel tempo libero si dilettava di cucito, sì - , lo fecero prigioniero e lo condussero a Valinor. Fu una camminata lunga e penosa, perché tutti erano stanchi e perché nessuno riuscì in nessuno modo a fare smettere Melkor di cantare a squarciagola Tiziano Ferro.

Arrivati a Valinor, Manwë insistette per portare subito Melkor all’Anello del Destino.

«Ma… neanche il tempo di un pediluvio?» gemette Aulë.

«Ma io ho lasciato la lavatrice in moto…».

«Ma io devo dar da mangiare al cavallo…».

«No!» ribattè il Re. «Anello del Destino ho detto e Anello del Destino sarà».

Tutti obbedirono molto di malavoglia, anche perché Melkor alla parola ‘anello’ diede di matto e solo la potentissima camicia di forza impedì che mordesse gli sventurati che lo trascinavano.

Una volta che fu condotto a destinazione, venne bendato e legato mani e piedi – qualcuno per sicurezza gli mise anche una mela cotogna in bocca; Manwë gli si mise davanti e cominciò a leggere una lunghissima pergamena.

«Dunque, dunque… che cos’abbiamo qui? Truffa, frode, furto, assassinio, oltraggio a pubblico ufficiale, corruzione, rapina a mano armata, stupro, violenza sugli anziani, scasso di automobile, falsificazione, taccheggio, colesterolo alto, un tre in latino del dodici ottobre, le scarpe slacciate, la forfora, hai rubato le caramelle ai bambini…» elencò il Re mentre il ghigno sulla sua faccia si allargava sempre di più.

Melkor, in un momento di lucidità, si rese conto che le cose si stavano mettendo piuttosto male. Fece appello alle sue ultime forze, sputò la mela cotogna e si gettò ai piedi di Manwë invocando pietà, e facendo nel frattempo bene attenzione a pestargli i numerosi calli.

«Dai… non ti fa pena? Poverino…» intervenne Varda, Valië dal cuore d’oro e dal cervello di sughero.

«No, certe volte mi fai più pena tu, guarda…» rispose acidamente Manwë tentando di scrollarsi il nemico di dosso, che nel frattempo era caduto di nuovo preda dello stordimento – a causa forse anche del mortale odore dei piedi del Re.

Nel frattempo Aulë seguiva con lo sguardo una mosca che gli svolazzava attorno alla testa e gran parte dei Valar sbadigliava vistosamente.

«E avanti, e su, e basta…».

«Eh, l’abbiamo capito, sbattilo in galera e non se ne parli più…».

«Bah, quanto ci sta marciando…».

«Dai che abbiamo sonno…».

Manwë, irritato per l’interruzione, riavvolse la pergamena – che era bianca, s’era inventato tutto lui al momento, tanto non lo ascoltava nessuno – e si rivolse al nemico.

«E sia. In prigione a Mandos per tre ere, poi vediamo se ti mandano in cassazione» decretò.

«A Mandos?» saltò su Melkor, terrorizzato. «Mi vuoi mandare nelle Aule di Mandos? Ma Mandos è pazzo!» urlò, «E se mi fa del male?».

«Perché, ha l’aria di qualcuno che fa del male alla gente?» chiese Manwë con un’innocenza ben poco credibile. Mandos, alle sue spalle, saltellava da un piede all’altro brandendo una grande falce insanguinata.

«Su… dai… pòrtatelo…» ordinò il Re. Mandos, tutto contento, afferrò un lembo della camicia di forza di Melkor e se lo trascinò canticchiando fino alle sue prigioni mentre il prigioniero, ormai psichicamente e moralmente distrutto, si lasciava trainare con un sorriso assente cantando con un filo di voce ‘London bridge is falling down’.

Dopo che ebbero sconfitto ed imprigionato Melkor, dunque, i Valar convocarono gli Elfi a Valinor affinché vi si radunassero ai piedi delle Potenze nella luce sempiterna degli Alberi; e Mandos ruppe il proprio silenzio e disse: «Così è destino che sia».

Da questa convocazione derivarono però molte delle sciagure che si verificarono in seguito – ed era proprio questo a rendere Mandos così allegro.

Quando si trattò di scegliere un volontario per guidare agli Elfi lungo il viaggio per Valinor, Oromë non se lo fece ripetere due volte e già in sella al cavallo partì a rotta di collo per Cuiviénen. Guardandolo allontanarsi, i Valar non ebbero più dubbi sulle reali intenzioni di Oromë nei confronti degli Elfi…

«Poveri ‘nnuccenti…» commentò tristemente Lórien, che spesso si era dovuto prendere cura di Nahar quando Oromë ci andava giù troppo pesante. «Vado a preparare nuovi posti letto nei Giardini, temo che serviranno…», e si allontanò.

Alcuni Elfi sulle rive di Cuiviénen, si stavano girando i pollici, dicendosi cose tristi e malinconiche.

«Com’è breve la bellezza…».

«Eh, sì…».

«Quant’è triste essere immortali…».

«Eh, già…».

«Quant’è lunga e vuota quest’esistenza…».

«Uhu, proprio vero…».

«No, ma che palle!» sbottò all’improvviso Finwë, che passava di là per caso. «Questa vita è uno strazio. Le stelle e il lago; il lago e le stelle; le stelle, il lago e il prato… ma basta, no?» sbuffò buttandosi a sedere.

«Sì, era quello che stavamo dicendo anche noi in termini più romantici, Finwë», commentò un Elfo. Gli altri annuirono.

«Perché non ci troviamo qualcosa da fare?» propose un Elfo chiamato Olwë.

«Ma dove te lo devi trovare qualcosa da fare, che qua hanno tutti la vitalità di un pensionato, gioia mia?» abbaiò Finwë che, come sappiamo, in futuro avrebbe trasmesso questo carattere di merda a tutta la sua discendenza.

«Era solo una proposta» bofonchiò l’altro.

Passarono alcuni istanti di silenzio, durante i quali si udiva solo lo stormir delle fronde e il gorgogliare dell’acqua sulle pietre, suoni di cui gli Elfi ne avevano già fin sopra la punta delle orecchie – e le orecchie degli Elfi sono anche lunghe!

«Ma alla fine se n’è saputo più niente di quello che ci doveva portare nella Terra Promessa, là?» chiese qualcuno in tono ironico.

«Amico mio, mettiti pure il cuore in pace, che quello ci ha bidonati» decretò Finwë facendo ‘ciao ciao’ all’orizzonte con la manina, pratico come sempre.

«In effetti non mi è mai piaciuto» disse Ingwë in tono grave. «Dico, avete visto con che faccia ci guardava? Non vorrei essere malpensante, ma sembrava proprio che…».

Proprio mentre stava finendo la frase, un fragoroso scalpicciar di zoccoli si intromise prepotentemente nella sequenza ‘strormir di fronde-gorgoliare d’acqua’.

«Ma che casino che fa, è uno solo e sembra la Cavalleria Rusticana…» disse secco Finwë mentre il gruppetto di Elfi si alzava dalle rive del lago.

Poco dopo Oromë giunse davanti agli Elfi, con una faccia stravolta che forse i più ottimisti avrebbero attribuito alla lunga cavalcata, ma che assunse ben altro significato agli occhi dei Quendi.

Oromë li guardò ad uno ad uno stralunato e col fiatone, poi parlò.

«Allora, cominciamo ad andare? Avete già avvertito le vostre stirpi? Più siamo meglio è!».

«Al mio ‘tre’ scappiamo» sussurrò a denti stretti Ingwë dando di gomito a Finwë.

«No, lui corre più veloce…» gli rispose sibilando l’altro, che continuava a tenere d’occhio Oromë con un sorriso a trentadue denti assolutamente poco credibile.

Olwë parlò sforzandosi di mantenere un’aria tranquilla, ma il modo in cui si torceva le mani lo tradiva: «Uh, emh, sì, hai ragione. Dobbiamo andare ad avvisare gli altri che sei arrivato e che dobbiamo prepararci alla partenza. Andiamo… andiamo!» disse sorridendo e spingendo davanti a sé gli altri, che annuivano con gravità.

«Tornate presto!» li salutò il Vala, che aveva quasi una paresi facciale e continuava a sorridere in una maniera che definire «terrificante» è poco.

«Contaci!» risposero gli Elfi, falsi come una carta da sei euro. Quindi cercarono di allontanarsi, ma sfortunatamente altri Elfi, incuriositi dal rumore, si erano già radunati lì attorno.

«Oh! E’ tornato un Signore dell’Occidente!» disse uno dei Vanyar, che era la stirpe d’Ingwë.

«Egli è uno di coloro che ci hanno liberato dal terrore di Silviolo! Onoriamolo!» esclamarono altri.

«Egli è giunto per portarci con sé al di là del Grande Mare!» urlarono eccitati molti Elfi Teleri, la stirpe di Olwë e di suo fratello Elwë.

«Egli è giunto per condurci nelle Terre Beate!» fu l’acclamazione generale. «Seguiamolo!».

Gran parte degli Elfi dunque, poveri cuori innocenti, era ben contenta di seguire Oromë in Occidente. Ma c’era una fazione di Elfi che se ne stava dietro a guardare la scena con occhio critico, scuotendo la testa. Essi erano i Noldor, la stirpe di Finwë; la razza di Elfi più acida, malfidente, asociale e pericolosa di tutti i tempi.

Oromë ebbe il suo bel daffare a convincere i Noldor dell’onestà delle proprie intenzioni.

«Ma perché, do l’impressione di essere un Vala inaffidabile, scusatemi?».

«Bah guarda, non lo so, ma io non ti seguo finché non fai sparire quel corno, che non si sa mai…» sentenziò Finwë. I Noldor annuirono.

«Tutto qua? E che ci voleva, ecco, ora possiamo andare…».

«No, non ti seccare ma io e la mia schiera preferiamo tenerci un po’ dietro, sai, ci dà fastidio il rumore…».

«E va bene, ma ogni tanto dovrò pure avvicinarmi per sapere se va tutto bene…».

«Oh, sono sicuro che tra la schiera d’Ingwë ci sarà qualche ambasciatore di buona volontà che lo farà al tuo posto…».

«Oh… ah, basta, porco Melkor; andiamo!».

Fu così che gli Elfi intrapresero dunque una grande marcia dalle loro prime dimore in oriente; molti tuttavia rifiutarono l’invito, preferendo la luce delle stelle e i vasti spazi della Terra di Mezzo alle luci degli Alberi; e costoro sono gli Avari, detti anche ‘gli Spilorci’, che come dimostra il loro nome, si rifiutarono di muoversi giacché spaventati dalle spese di viaggio. Rimasero dunque lungo le rive di Cuiviénen per millenni, e in questo modo si risparmiarono tanti e tali casini che talvolta agli Elfi che seguirono Oromë viene ancora da chiedersi: «Ma chi ce l’ha fatto fare?».

Lunga e lenta fu la marcia degli Eldar nell’ovest, giacchè la Terra di Mezzo si estendeva per leghe innumerevoli, e aspre e non battute. Né gli Eldar volevano affrettarsi perché colmi di meraviglia per tutto quanto vedevano, e soprattutto anche perché molti cominciavano a pentirsene e a provare invidia per gli Spilorci, che da lontano li salutavano facendo ‘ciao ciao’ col fazzolettino; e benché tutti volessero migrare, molti temevano, più di quanto non avessero sperato, la fine del viaggio (grazie, i Noldor avevano sparso la voce che Oromë è un pazzo violentatore. N.d.A.).

Così, ogniqualvolta Oromë si allontanava, di tanto in tanto richiamato da altre incombenze (doveva fare la pipì. N.d.A.), gli Elfi sostavano senza più procedere – avevano paura di muoversi perché temevano che il Vala facesse le imboscate - fino a che egli non ritornava a guidarli.

E accadde, dopo molti anni di siffatto viaggio, che gli Eldar entrassero in una foresta e giungessero a un grande fiume, più ampio di quanti mai ne avessero visti.

«Oooooh…» dissero i Teleri, che come vedevano l’acqua diventavano cretini.

«Questo» esclamò allora Oromë, felice di poter fare bella figura, «è il grande fiume Anduin!».

Mentre gli Elfi e il Vala stavano osservando lo scorrere del fiume, davanti a loro, su una piccola imbarcazione, passò il corpo di un soldato con un corno bianco spezzato in due sul petto.

«OOOOH!» esclamarono a questo punto tutti gli Elfi, che non avevano mai visto un Uomo, e soprattutto non avevano mai visto un morto.

«Ma…» bofonchiò Oromë cercando di raccapezzarsi. «Ma… che cosa…?».

In quel momento, su una seconda imbarcazione, un uomo corpulento con un cappello da baseball, una camicia a quadri, occhiali da vista e megafono passò rapidamente davanti a loro, remando affannosamente.

«Torna qui, Sean, torna qui, stupido ragazzo!... Scusate, ragazzi, mentre giravamo l’ultima scena della Compagnia dell’Anello la barchetta funebre di Boromir c’è scappata di mano e… ah, le rapide! PRENDETELO!».

Una terza imbarcazione con sopra un Uomo molto trascurato con i capelli lunghi, un Nano con la barba rossa e un Elfo dalle lunghe chiome bionde passò sfrecciando accanto a quella dell’uomo corpulento.

«Scusate… scusate ancora… ce ne andiamo subito!» disse l’uomo con un sorriso affabile.

«N-no… nessun problema, si figuri…» rispose Oromë, che a questo punto avrebbe avuto qualcosa da raccontare di ritorno a Valinor.

Allora si levò uno dalla schiera di Olwë, Lenwë era il suo nome. Egli prese la parola e disse: «E dopo questa, signori miei, io me ne vado. Mi do all’eremitaggio. Qualcuno mi vuole seguire?».

Milleottocento Elfi alzarono la mano e seguirono Lenwë lungo il sud del grande fiume, e la loro gente non ne ebbe più notizia per molti e molti anni. Costoro erano i Nandor e divennero un popolo a sé; e la conoscenza che essi avevano delle cose viventi, alberi ed erbe, uccelli e animali terrestri, era maggiore di quella posseduta da tutti gli altri Elfi.

In anni successivi, Denethor, figlio di Lenwë, alla fine riprese il cammino verso ovest e…

«…Denethor?» esclamò a questo punto il professor Tolkien, alzando lo sguardo da ciò che stava scrivendo.

«Denethor figlio di Lenwë?! Ma che c’entra?» si disse, mordicchiando la matita.

«Ma poi ‘Denethor’ non l’avevo già messo da qualche altra parte?» borbottò il professore cominciando a sfogliare i suoi appunti. Qualcuno gli bussò sulla spalla.

«Sì, cosa…? Oh…» il professore ammutolì. Davanti a lui un anziano signore con lunghi capelli grigi e l’Albero di Gondor ricamato sulla veste lo guardava male, cercando di applicarsi due orecchie a punta di plastica sulle vere orecchie.

«Allora, come vado come Elfo?» sbottò.

«Oh.. emh, perdonami! E’ che, insomma, ho scritto più di diecimila pagine in tutto, non è che mi posso ricordare tutti i nomi!» concluse, e accigliato riprese a scrivere.

…Alla lunga, i Vanyar e i Noldor giunsero al di là degli Ered Luin, i Monti Azzurri; e le primissime compagnie superarono la Valle del Sirion e discesero alle rive del Grande Mare tra Drengist e la Baia di Balar.

Solo che alcuni Elfi Ilúvatar li aveva fatti male e gli erano venuti idrofobi, per cui questi alla vista del Grande Mare si fecero un calcolo e ci ripensarono in extremis.

Poi Oromë, per motivi noti solo al professor Tolkien, se ne andò per tornare a Valinor a cercare il consiglio di Manwë, e li lasciò.

Ma fu un bene, perché in questo modo gli Elfi poterono cessare di preoccuparsi per la propria incolumità e, tranquillizzati, fecero un sacco di strada con un peso di meno nel cuore.

Nel prossimo capitolo parleremo di come uno di loro, tale Elwë Singollo, fece un favore a tutti e soprattutto a Finwë sparendo dalla circolazione per l’eternità.

Ma per ora ci possiamo fermare, che dodici pagine sono tante e io devo andare in camera mia a chiedere perdono al Maestro per quest’affronto che gli sto facendo.


***

Note:

Ehr… Buon Anno a tutti! ^__^

Sì, ok, lo so. Alla fine dello scorso capitolo avevo promesso che avrei aggiornato in tempi dignitosi, e giuro (giurin giuretto) che ci ho provato!

Ma che vi posso dire? Evidentemente gli dèi non vogliono che io aggiorni, e me lo impediscono in così tanti modi che starne a parlare qui stonerebbe col tono comico del De Ignoto Silmarillion.

Ad ogni modo, miei cari: piaciuto il capitolo? A me piace parecchio, anche se in certi punti mi sono messa a delirare (l’apparizione di Peter Jackson mi lascia ancora parecchio dubbiosa, ma beh…).

Vi lascio ringraziandovi per tutte le bellissime recensioni che mi lasciate (le leggo un sacco di volte al giorno, mi rendono così felice!), e vi auguro un bel 2007.

Per quel che riguarda la fic… abbiate fiducia, Milako non si arrende mai e a poco a poco la finirà! :D

Baci, ragazzi. A presto!

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Di Thingol e di Melian ***


Disclaimer: i personaggi presenti in questa storia appartengono a Tolkien e a chi ne detiene i diritti. Non scrivo a scopro di lucro e nessuna violazione del copyright è intesa.
Per citare/riprendere/tradurre questa storia in parte o in toto dovete avere il mio esplicito permesso.

Capitolo IV
Di Thingol e di Melian,
ovvero:
Cappuccetto Grigio e i suoi problemi.

Melian.

C'era una volta Melian, una Maia della stirpe dei Valar. Dimorava nei giardini di Lórien e tra tutta la sua gente nessuno, o ben pochi, erano più fastidiosi di Melian, nè più infidi, nè meno abili con i canti ammalianti. Si narra che i Valar abbandonassero le proprie opere e si rifugiassero nei bunker, che gli uccelli di Valinor lasciassero i loro giochi ed emigrassero verso Sud, che le campane di Valmar si tappassero le orecchie e che le acque delle fonti imputridissero quando, al mescolarsi delle luci, Melian cantava a Lórien.
Era sempre accompagnata da corvi, barbagianni e civette e ad essi insegnò a cantare
(e questo spiega perchè corvi, barbagianni e civette cantino da schifo); e amava le ombre profonde dei grandi alberi (le ombre profonde, però, non ricambiavano).
Prima che il mondo fosse creato, Melian era imparentata con Yavanna stessa (
ah, ecco perchè tanta simpatia... è genetica!); e al tempo in cui i Quendi si destarono nei pressi delle acque di Cuiviénen, Melian se ne andò da Valinor (e fu festa grande per tutti i timpani di Valinor) per recarsi nelle Terre Citeriori, e lì riempì il silenzio della Terra di Mezzo con la sua voce e con le voci dei suoi uccellacci (con grande disappunto del silenzio della Terra di Mezzo, che avrebbe preferito non essere riempito).

Come se questo non bastasse, Melian era anche una talpa professionista: come abbiamo già accennato nel Valaquenta, infatti, essa era al servizio di Estë, sposa di Lórien e quindi deprimente quanto lui; tuttavia non aveva avuto remore nell'accettare di servire anche Vána la Sempregiovane, la sciagurata moglie di Oromë.

Ora, i giorni scorrevano lieti e sereni a Valinor.
(...Per inciso, avete già imparato a riconoscere questa frase come presagio di sventura? Bravi).
Le candide coste di Valinor erano battute dal Mare Esterno, le vette del Taniquetil sovrastavano l'Occidente, il popolo degli Elfi stava -più o meno allegramente- marciando verso le Terre Immortali e i Valar, con i Maiar, proseguivano la loro immortale esistenza di beato cazzegg... vivere.
Questo è ciò che ci riportano le fonti, però converrete con me sul fatto che così sarebbe noioso, non ci sarebbe storia e poi noi ormai ci siamo abituati all'idea che i Valar siano incapaci di stare fermi cinque minuti senza fare danno.
Convenite con me? Sì?
Allora passiamo a puntare il nostro attento sguardo sulle piccole controversie quotidiane in zona Valar.

Accadeva in quei giorni che le due Valier più snobbate della nostra storia si stessero dando da fare per guadagnarsi il loro quarto d'ora di celebrità.
Mi sto riferendo a Vána e ad Estë, che finora abbiamo nominato solo due volte cadauna. Abbiate la bontà di comprendere che perfino Nienna è stata citata più volte di loro, e che essere surclassate anche da una manfrina ambulante come Nienna non dev'essere proprio gratificante.

Tutte le unioni, in Aman, erano state frutto della terribile Congiura Matrimoniale di Varda; abbiamo già detto infatti che era stata l’impicciona moglie di Manwë ad ordire una per una le nozze degli immortali.
Certo, tutti i risultati erano stati disastrosi, ma questo era dipeso dal fatto che Varda formava le coppie per mezzo dell’antico, ma mai dimenticato, metodo della lotteria: i bigliettini con i nomi dei Valar da una parte, quelli con i nomi delle Valier dall’altra, un paio di giri di manovella e toh, ecco che saltavano fuori infelici connubi come Yavanna e Aulë, Nessa e Tulkas, o Nienna e… no, beh, Nienna era stata esclusa dal sorteggio in fretta e furia.
Quando però i bigliettini cominciarono a scarseggiare e si avvicinava il momento di accasare anche elementi come Oromë, Varda fece appello a tutta la sua coscienza e, messo da parte il sorteggio, fece sì che i Valar più «difficili» andassero a finire a compagne buone, pazienti, care e remissive.
Accadeva così che ad Oromë veniva data in moglie Vána la Sempregiovane.

Vána era una Valië veramente molto molto molto sfortunata.
Non solo aveva un nome che era tutto un programma, non solo aveva avuto la sciagura di finire in sposa a Oromë, ma era anche ignorata e schifata da tutta la popolazione di Valinor.
(Intendiamoci, eh: non che avere comari del calibro di Varda e di Yavanna fosse proprio la più grande aspirazione di Vána, ma quando uno è immortale perfino la compagnia dell'allucinata moglie di Aulë appare più benevola della noia eterna…).
Il motivo dell'isolamento di Vána era, in fin dei conti, uno solo: il diffuso parere che bisognava essere veramente masochisti, disperati, ottusi e fessi per ritrovarsi Oromë come sposo e non chiedere il divorzio due giorni dopo!

E qui qualcuno potrebbe obiettare: «Vabbè, ma se si amavano…».
No.
Affatto.
Vána e Oromë non si amavano minimamente.
Anzi… Vána odiava Oromë dal profondo dell’animo.
In verità non c’era una sola persona a Valinor che non odiasse Oromë: tutti ce l’avevano con lui perché borbottava in continuazione, non gli si poteva dire niente e la sua faccia corrucciata ispirava la gente a gettarsi dal Taniquetil.
Oromë non tollerava l’idea di perdere nemmeno una partita a carte, così, per esempio, quando era il giorno della partitina settimanale a scopone scientifico, tutti pregavano che Oromë avesse qualche impegno e non si presentasse, altrimenti sarebbero stati costretti a farlo vincere: c’era il rischio che la sua faccia si corrucciasse ancora di più, cancellando la proverbiale allegria e serenità dall’intero territorio di Aman.
Fra parentesi… tanto per farsi maledire ancora di più, Oromë alle partite a carte ci andava sempre.
Già sarebbe bastato questo, ad Oromë, per stare antipatico a tutti i suoi conoscenti; ben presto, però, l’antipatia sfociò in odio.
Si dà il caso, infatti, che oltre ad un carattere da bastonate, Oromë possedesse anche l’indole dello scassapalle. Ai tempi Ilúvatar aveva molto subdolamente deciso che lui dovesse essere il Vala maestro dell’arte della caccia, così gli aveva fatto dono del famoso Valároma, il grande corno da caccia bianco ed argentato.
E Oromë, da bravo scassapalle, ne fece buon uso: non erano passate nemmeno due notti di permanenza in Arda che, soffiando nel corno come neanche Orlando a Roncisvalle, Oromë risvegliò tutti i suoi compagni che stavano placidamente dormendo, costringendo ciascuno di essi al primo di una lunga serie di pacemaker.
Incapace di resistere, fece uno scherzo simile anche agli Elfi di Cuiviénen, che da allora non hanno mai smesso di tramandare di padre in figlio l’odio per l’insopportabile Vala.
Ancora oggi Oromë si diverte così, gioisce sgattaiolando nelle ombre di Valinor e si spolmona quando meno la gente se lo aspetta. In realtà la gente se lo aspetta perfettamente, ormai, e dorme munita di tappi di cera nelle orecchie e cartoni di uova fra le pareti di casa.

L’odio seguiva i passi di Oromë, fedele come nemmeno il fastidiosissimo Pikachu alle vostre spalle in Pokémon Giallo.

E qui arriviamo alla buona Vána. Essa era una Valië dal carattere dolce, silenzioso, paziente e accondiscendente, il contrappeso ideale ad un fardello come Oromë.
Tutti i Valar, all’inizio, avevano covato segretamente un po’ di speranza verso Vána: pregavano (ma non ci credevano neanche troppo) che la brava consorte migliorasse almeno un po’ l’indole del marito.
Ben presto fu tragicamente chiara a tutti l’impossibilità della cosa.

«Sono a casa» annunciava brontolando Oromë, di ritorno all’ovile dopo un lungo giorno di «lavoro».
«Bentornato, amore. Com’è andata la giornata?» rispondeva dolcemente Vána dalla cucina.
«Malissimo. Ma speravo peggio …».
«Oh. Povero caro. Dai, non ci pensare più: ti ho fatto lo spezzatino con le patate che ti piace tanto!».
«…BENTORNATO, EH?! BENTORNATO!!! MA BENTORNATO COSA?!» strepitava allora il marito, gettato il corno da caccia contro la collezione di tazzine da thè di Vána, che lo guardava con i grandi occhioni azzurri colmi di terrore. «DONNA! COME SE NON SAPESSI CHE ODIO LE PATATE!».
«P-però fino all’altroieri ti piacevano… non me l’avevi detto…».
«Parassita! Inutile femmina! Ti prenda il Diavolo! Me ne vado a cacciare, che almeno il cavallo mi capisce più di te!» sbraitava il lunaticissimo Oromë, e sbattendo la porta di casa se ne andava via con Nahar, lasciando la moglie più turbata che mortificata.

Ah, già. Nahar.
Non erano passati neanche tre mesi dal matrimonio, che già tutta la popolazione di Valinor aveva cominciato a ridacchiare sotto i baffi al passare di Vána. La Valië non capiva: ridevano delle disgrazie altrui? In genere si limitava a scuotere le spalle e continuare a farsi i fatti suoi.
Quando però alle risatine cominciarono ad accompagnarsi sghignazzamenti, indici puntati, lacrime agli occhi, sguardi di profonda compassione, pacche sulle spalle, bizzarre imitazioni di atteggiamenti equini e ritrovamenti, nella cassetta delle lettere, di biglietti da visita di consulenti matrimoniali per casi disperati, la buona e mansueta ma sospettosa Vána cominciò giustamente a sentire puzza di bruciato… nonché di cavallo.

Questa non è una fanfiction seria, per cui ci risparmieremo di raccontarvi minuziosamente gli stati d’animo della povera Vána. Ci limiteremo a dirvi che non fu bello, per lei, tornare a casa una sera e scorgere nel giardino sul retro il cavallo da caccia di Oromë legato zampe e collo al suolo, che nitriva in tono di supplica, e il marito che, con una faccia stravolta, armeggiava freneticamente con qualcosa che assomigliava in modo terribile ad un barattolo di vaselina.
Vána si dimostrò ancora una volta in tutto e per tutto fedele al suo nome; e siccome questa non è nemmeno una fanfiction NC17 la chiudiamo qui e lasciamo i particolari al vostro piccante intuito.

Il punto è che fu proprio quell’avvenimento a risvegliare il lato malvagio di Vána, da troppo tempo latente. Aveva già cominciato da molto ad odiare in silenzio il marito, e dentro di sé sperava segretamente che questi crepasse al più presto. Ma fu solo dopo la shockante rivelazione del legame torbido fra Oromë e il cavallo Nahar che la Valië cominciò a meditare seriamente vendetta.
Non tanto per gelosia, perché non è che gliene fregasse poi molto del suo matrimonio, ma più che altro per orgoglio di donna offesa: era forse così vacca da essere cornificata perfino con un cavallo, e scusate il doppio gioco di parole?
No, sicuramente non lo era, né tantomeno un uomo insopportabile come Oromë poteva muoverle un affronto simile. Vendetta doveva essere e vendetta sarebbe stata.

Ma come avrebbe fatto? Era sempre stata una Valië molto ingenua e ben poco abile nei piani malefici. Le serviva aiuto.

L’aiuto, in quel frangente, assunse appunto le sembianze di Melian
(sì, lo so che sarebbe lei la protagonista di questo capitolo… ma divagare mi riesce tanto bene, perché smettere? E poi così la prossima volta imparate a lamentarvi che sono pigra: ora vi beccate un capitolo di dodici pagine, e non voglio sentire lamentele! N.d.A.).

Vána, da un po’, aveva preso l’abitudine di recarsi ai Giardini di Lórien.
Sapeva che si trattava di un circolo ricreativo per tossicomani, sì… ma intanto era l’unico posto in cui poteva rigenerare un po’ il suo sistema nervoso.
E poi tanto ormai la reputazione se l’era giocata, che aveva da perdere?

Era seduta su un ceppo d’albero isolato (non le andava di incontrare tossicodipendenti a zonzo) a meditare sulla miseria della propria situazione quando un tacco a spillo, con relativa proprietaria, si abbatté sulla sua nuca. Vána urlò, sorpresa, e stramazzò per terra come un tappetino da bagno.

«Ahi!» gemette.
«Chiedo scusa, sono mortificata… tutto ok?» si affrettò a chiedere una voce di donna. Vána si sentì tirare su per una mano; smise di massaggiarsi la nuca e aprì un occhio, dolorante.
Si trovò davanti un elemento quantomeno… insolito, nel panorama di Aman. Davanti a lei c’era una donna dai lunghi capelli neri; aveva delle foglie d’albero in testa e alcuni graffi sul viso, indossava una tuta scura e i tacchi a spillo di cui sopra. Al collo portava un binocolo e stava masticando quella che era indubbiamente una Big Babol.
Vána la guardò per circa due secondi, ma si disse immediatamente che l’aria satura di allucinogeni dei Giardini di Lórien doveva averle tirato brutti scherzi.
Scosse le spalle e non si prese nemmeno la briga di rispondere alla strana donna. Si sedette nuovamente sul ceppo d’albero, tornando a meditare sui suoi problemi.
Sfortunatamente per lei, l’allucinazione parve irritarsi e le disse in tono spicciolo: «Ok, d’accordo, io non sono stata proprio il massimo della finezza a piombarti addosso da sopra quell’albero… ma rispondere, almeno?».
Vána sospirò, pensò che in fondo non c’era poi nulla di male a parlare con un’allucinazione vestita in tuta nera e chiese: «Ma no? E cosa ci facevi sull’albero?».
L’altra donna indicò il binocolo al proprio collo e rispose: «Giro di ronda. Mi chiamo Melian, sono una Maia tuttofare: spio, semino zizzania, infastidisco la gente; esperta in travestimenti e camuffamento di voce. Anche sicario, su richiesta. Piacere!» disse con un sorrisone -sempre continuando a masticare la Big Babol- e porse nuovamente la mano a Vána.
Quest’ultima aveva proprio la faccia di una che ha appena visto Manwë e Melkor ballare la tarantella a braccetto. Tuttavia strinse la mano all’altra e rispose: «Aemh… piacere mio. Il mio nome è Vána».
Il sorriso di Melian, se possibile, si estese ancora di più, rivelando due adorabili fossette: «Ah! Vána, quella del cavallo…».
«E per favore!» gemette allora la Valië, esasperata. «Sì, ‘quella del cavallo’! Ce l’ho un nome, eh! Un nome di merda, per carità, ma pur sempre un nome…».
Melian non parve minimamente in colpa. Sbatté gli occhi, fece un pallone con la Big Babol e si gettò a sedere accanto alla Valië, che ormai cominciava ad incuriosirsi.
«Hai detto che eri in giro di ronda? Ma chi stavi spiando?», chiese. Dovette aspettare che Melian finisse di gonfiare il palloncino di chewing-gum e riprendesse a masticare.
«Uuh… nie’, spiavo, qua… il padrone di casa».
«Lórien?».
«Già già. Al momento sono al servizio di Estë, sai, la moglie, e siccome quella è paranoica e vede corna dappertutto…».
«Ma no! E Lórien le mette davvero le corna?» chiese allora Vána, che aveva un po’ il morbo del gossip.
«Macchè, sta sempre in giro a far vomitare i pazienti. E dovresti vedere come sembra soddisfatto! Secondo me è una crocerossina fallita. E’ proprio un pezzo di pane, ma figurati se lo vado a dire ad Estë…».
«Perché no, scusa? Almeno starebbe più tranquilla…».
«Oh, Vána, sveglia! Se le dico che suo marito non le metterebbe le corna nemmeno se lo pagassero, Estë non avrebbe più bisogno di me, mi licenzierebbe e io come me lo pagherei il mutuo per la Lamborghini?» sbottò allora Melian, battendo le mani davanti agli occhi di Vána. Poi, sembrando annoiata, accavallò le gambe e prese a fissarsi la punta delle scarpe, facendo un nuovo pallone di chewing-gum.
Vána era assorta. Non aveva mai incontrato nessuno come quella Melian. Il suo ragionamento era una carognata assurda… eppure non faceva una grinza, bisognava ammetterlo!
Il proprio animo fondamentalmente candido le diceva che quelli erano atteggiamenti sbagliati, che non si inganna la gente, che è da vigliacchi agire alle spalle, che il cane fa «bau», la mucca fa «mu» e il merlo non fa «me»… però, però, in fondo un pochettino la ammirava, questa Maia così spigliata e a, quanto pareva, priva di scrupoli!
In fin dei conti anche lei avrebbe voluto essere un po’ così… le sarebbe venuto molto più semplice vendicarsi dell’onta inflittale da Oromë… magari, magari… avrebbe potuto dare una spintarella al destino… umh, fra le altre cose Melian non aveva detto di essere anche ‘sicario su richiesta’?
Un inedito ghigno si formò sul volto di Vána.
«Melian?», chiese. «Ci tieni davvero a quella Lamborghini?».

Fu così che Melian la Maia cominciò la sua carriera di doppiogiochista, lavorando per Vána alle spalle della paranoica –ed ignara- Estë.
Il suo lavoro per Vána consisteva in genere nel disseminare quanti più pericoli mortali lungo la strada di Oromë, facendo di tutto affinché questi si facesse del male… tanto male, e possibilmente senza rimedio.
Melian non chiedeva di meglio: la sua indole bastarda la rendeva più che felice di escogitare sempre nuovi incidenti ai danni di Oromë e del suo equino amante. Inoltre Vána le stava anche piuttosto simpatica, e soprattutto la pagava benissimo: dunque perché lavorare per una sola Valië con problemi di coppia, quando ce n’è un’altra pronta a pagarti anche di più?
La risposta a tale quesito giaceva in un luogo chiamato «decenza», che Melian teneva in scarsissima considerazione.

Così, inizialmente, la Maia si ritrovò a dividere le sue giornate fra l’inutile spionaggio al povero, assolutamente fedele Lórien, e il suo studio privato, in cui escogitava nuovi modi di attentare alla vita di Oromë, talvolta assistita dalla stessa Vána.
Ben presto Melian non solo ebbe finito di pagare il mutuo per la Lamborghini, ma ne aprì anche un altro per la TV nuova, l’iPod da 60 gigabytes, tre abiti da sera di alta moda, i lavori di ristrutturazione per la villetta a mare...

Intanto però sia i piani di Vána sia quelli di Estë procedevano bene: Melian faceva credere alla custode dei Giardini che le mancasse pochissimo per smascherare la tresca del di lei marito con un’avvenente infermiera (cosa del tutto inventata), mentre l’umore e la salute di Oromë andavano progressivamente peggiorando.

«Oh Oromë, buondì! Che ti accade? Ti trovo di malumore… più di malumore del solito, intendo…» disse Manwë durante uno dei pomeriggi dedicati allo scopone scientifico. Subito una lieve risata si diffuse fra la combriccola dei Valar: ciascuno sapeva che a Manwë non fregava niente dei guai di Oromë, semplicemente ci godeva a vederlo infelice. Inoltre tutti si erano accorti da un po’ di tempo che al Vala cacciatore ne capitavano di tutti i colori, e conoscere i dettagli di questi incidenti era balsamo per la loro sadica (ma assolutamente giustificata) curiosità.
Oromë alzò un sopracciglio e guardò male il Re, che lo fissava con una falsissima aria di consolazione.
Sbuffò e rispose: «Qualche genio del male mi ha riempito il corno di formiche!».
Ci fu un tentativo generale di non ridere in faccia ad Oromë; ci riuscirono più o meno tutti ed Aulë, che era quello che si controllava meglio, disse: «Ma no? Brutta, brutta cosa… non capisco proprio chi possa avercela con te!».
Parecchie mani si alzarono velocemente, abbastanza in fretta da non essere viste; il resto dei presenti scuoteva la testa come a dire «Boh, guarda, sicuramente io no».
«Ma non è tutto!» sbottò Oromë, andandosi a sedere e mescolando pensosamente il mazzo di carte. «Quando ho cercato di ripulire il corno dalle formiche, quegli insetti, manco fossero stati addestrati, se ne sono andati tutti a morsicare Nahar!».
«Che, gli dà fastidio che qualcuno morsichi il cavallo a parte lui?» insinuò Yavanna all’orecchio di Varda. Parecchi lì attorno dovettero scivolare sotto il tavolo per ridere in santa pace.
«Ah, ti siamo tutti vicini in questo momento di particolare sfortuna, Oromë. Se non ti conoscessi, oserei dire che ti sei fatto qualche nemico, mh?» disse bonariamente Manwë, mentre tutti quanti annuivano gravemente, riconoscendosi nel profondo grandi nemici di Oromë. Chi più chi meno, erano tutti grati a questo misterioso genio del male che come un angelo vendicatore era giunto a rovinare la vita a quella piaga.
«Mah, ma fosse solo questo…» proseguì abbacchiato Oromë mentre dava le carte. «Dopo che le formiche l’hanno morso, il povero Nahar si è imbizzarrito e mi ha disarcionato; ho cercato di trattenerlo per le redini ma mi è finita una gamba in una tagliola che, giuro!, sembrava messa lì apposta; il cavallo mi ha trascinato per qualche metro, poi mi ha dato un colpo di zoccoli in faccia e sono rotolato giù per un dirupo di un colle pieno di scorie radioattive; mi sono aggrappato ad un ramoscello ma un’aquila reale mi ha morso una mano e sono caduto di nuovo; certo, il fiume sotto di me un po’ mi ha salvato, ma a parte il fatto che c’erano i liquami tossici, poi ho dovuto pure schivare l’alligatore che è uscito dalle sabbie mobili mentre tentavo di levarmi di dosso il boa constrictor armato di ascia avvelenata…».
Oromë raccontando scuoteva la testa: quello che diceva sembrava tanto un delirio, invece era solo il fedele resoconto di tutte le trappole che la bravissima Melian gli aveva diligentemente disposto attorno.
L’obiettivo era raggiunto: il porco zoofilo stava subendo la giusta vendetta, l’orgoglio di Vána cantava vittoria e gli zeri del conto in banca di Melian aumentavano in fretta.

Ma Melian era uno spirito libero (un modo bello per dire che era un’opportunista. N.d.A.), ed una volta che ritenne di avere assolto i suoi doveri e messo da parte abbastanza denaro, sparì dalla circolazione senza avvertire né Vána né Estë.
Era quello il tempo in cui gli Elfi si stavano risvegliando a Cuiviénen, e fu allora che Melian lasciò Aman per dirigersi verso le Terre Citeriori.
Con grande disappunto, come abbiamo già detto, delle fino ad allora silenziose Terre Citeriori.

***

Thingol

C’era una volta un grande territorio nel Beleriand Occidentale, oltre il fiume Gelion; e lì, quando il loro viaggio era prossimo alla fine, molti degli Elfi Teleri si soffermarono a lungo.
I Teleri, poiché erano un grande popolo, avevano due sovrani: Olwë ed Elwë (che detto così fa un po’ Stanlio e Onlio, ma non infieriamo…).
Olwë era un bravo sovrano: era di carattere pacato e disponibile, se ne stava tutto il giorno in giro per il regno ad ascoltare le necessità del suo popolo, si preoccupava di garantire la sicurezza e il benessere, risolveva le controversie, badava ai fornelli, sturava i lavandini e faceva i compiti di matematica ai piccoli. Il regno dei Teleri cresceva sereno e fiorente sotto il dominio di Olwë. Egli era un buon re e tutti lo amavano.

…Immagino avrete già capito che non si poteva dire lo stesso di Elwë.

Olwë ed Elwë erano fratelli, ma quanto il primo era bravo, tanto il secondo era inutile.
Tutti i cromosomi buoni dei loro genitori erano evidentemente finiti ad Olwë, altrimenti non ci si spiega perché il fratello fosse un sì connubio ambulante di disgrazie.

Tanto per cominciare, Elwë trascorse a Cuiviénen un’infanzia davvero difficile: su mille Elfi allora esistenti, lui fu l’UNICO a nascere con i capelli grigi.
Mentono le testimonianze che ce lo descrivono adornato di una lucente chioma argentea: i capelli di Elwë erano grigi, e nemmeno di un grigio particolare, che so io: grigio tempesta, grigio marmo, grigio cielo, grigio occhi di Draco Malfoy… No, Elwë nacque e morì con dei banalissimi capelli in tinta grigio topo.
Quando la levatrice le porse il pargolo, la madre, povera donna, invocò la Rupe Tarpea e si rifiutò di riconoscerlo. Suo padre lo accolse in casa praticamente per pena, pur schifandolo profondamente: solo suo fratello Olwë, cuore tenero, evitò di maltrattare troppo Elwë, se non altro per compassione – Olwë tremava al pensiero che quell’insana combinazione di cromosomi avrebbe potuto colpire anche le SUE chiome!

Elwë era sempre molto triste perché nessun bambino voleva giocare con lui.
Dovete sapere che la prima cosa che un Elfo insegna ai propri figli è la stronzaggine: se puoi snobbare qualcuno, snobbalo!
Ovviamente i maestri in questo campo furono i Noldor, ma anche i Teleri, se solo si impegnavano un po’, riuscivano ad essere abbastanza stronzi.
Generazioni di acidità tramandata di padre in figlio si abbatterono quindi sul piccolo Elwë, che per i suoi crini grigio topo veniva regolarmente sfottuto ed emarginato da tutti gli altri elfetti. Questi, non appena lo vedevano avvicinarsi tutto speranzoso, lasciavano i loro giochi e lo guardavano con aria di disgusto; il peggio per Elwë arrivava però quando i cugini Noldor portavano i loro bimbi a giocare… e i bimbi dei Noldor sono bastardi almeno quanto gli adulti.
Lo sfottevano ferocemente, lo tenevano fermo e gli sventolavano i loro lucenti capelli neri davanti al naso, gli lanciavano il ketchup in testa oppure, quando proprio erano cattivi, lo inseguivano per boschi e per valli armati di forbici da giardiniere. Con tutto che Elwë era un principe…

Il piccolo Elwë se ne stava quasi sempre chiuso in casa e odiava profondamente i pranzi domenicali in famiglia, visto che ogni santa domenica che Ilúvatar schiantava su Arda, i cugini Noldor non mancavano MAI di portare i bambini (i Noldor sono terribili. Li amo. N.d.A).
Con profonda e intima soddisfazione della madre e del padre di Elwë, che negli anni non avevano mai smesso di schifarlo: affidarlo agli amorevoli giochi dei Noldor era una gioia anche maggiore del maltrattarlo di persona!

Fra la nuova generazione dei Noldor, all’epoca, cresceva il piccolo Finwë: l’Elfo più detestato nell’antichità e per tutti i tempi a venire, superato, forse, soltanto dal suo figliol «prodigo» (Fëanor, ovviamente. Non faccio menzione degli altri due perché li odio. N.d.A.).
Il piccolo Finwë era dolce come un limone verde, disponibile come un muro, buono come succo d’ortica e innocuo come una boccetta piena di germi dell’aviaria.
Oltre a questo, Ilúvatar gli aveva fatto dono di una sfrenata e sottile creatività in fatto di onomastica: dote che in mano a qualcun altro sarebbe stata pregevole, ma che Finwë utilizzava nei modi più conformi alla sua amabile natura…

«Ti chiami Elwë?», chiese educatamente Finwë, che era educato con la gente più o meno per i primi cinque secondi di conoscenza.
«Sì!», rispose l’altro, felice di incontrare un’anima pia che non lo maltrattasse.
«Ti chiami Elwë… e hai i capelli grigi», ribatté il Noldo.
«Sì…», fu la conferma, già meno entusiasta.
«Allora ho deciso. Ti chiamerai Elwë Thingol, che significa "Cappuccetto Grigio"!», concluse Finwë, estremamente soddisfatto di sé.

Da quel dì, e per tutti i giorni della sua vita, Elwë fu noto fra la sua gente e nel mondo come Cappuccetto Grigio.
Mentono ancora, quelle fonti che hanno tentato una coraggiosa traduzione di "Thingol" come "Mantogrigio": Elwë infatti tentò di manomettere personalmente tutte le testimonianze scritte relative al suo infame soprannome, ma noi ne sappiamo una più del diavolo e ancora una volta divulghiamo una verità altrimenti inimmaginabile.

Quel fatale incontro con Finwë, dunque, compromise definitivamente l’autostima di Elwë, già latitante di suo.

Passarono gli anni.

Gli Elfi Teleri soggiornavano già da qualche secolo lungo le rive del Gelion (che bello essere immortali… secoli e secoli a girarsi i pollici… N.d.A.), in attesa che piombasse giù dal cielo la voglia di rimettersi in marcia verso le Terre Beate di Aman, dove Oromë e compagnia bella (ma soprattutto Oromë…) attendevano con ansia e trepidazione l’arrivo della razza Elfica, nulla sapendo del fatto che gli Elfi, oltre che stronzi, sono anche bidonari.

Gli anni erano passati, dunque, e i piccoli Elfi erano cresciuti.
I sovrani dei Teleri, ovvero la madre e il padre di Olwë ed Elwë, si erano ritirati in buon ordine e avevano lasciato il regno nelle mani dei figli (più del primogenito che altro).
Elwë, se possibile, con gli anni era solo peggiorato. Si era più o meno fatto una ragione del colore dei suoi capelli, non tentava più di affogarsi nell’ammoniaca, si era abituato a rispondere all’appellativo di «Cappuccetto Grigio» (se qualcuno, sporadicamente, lo chiamava «Elwë», lui quasi quasi non si girava) e aveva imparato a defilarsi durante le gioiose domeniche in famiglia.
Ciò nonostante, tutta quella tristezza accumulata durante l’infanzia aveva finito col sortire qualche effetto a lungo termine. Elwë era cresciuto solo, sfiduciato, abbattuto, rassegnato, asociale, piagnucoloso e privo di qualsiasi voglia di lavorare: praticamente da prendere, impacchettare e mandare al centro di riciclaggio più vicino (
mi è uscito il personaggio angst… che bello! N.d.A
.).
Olwë, buono fino al midollo, non aveva mai avuto il cuore di prendere a calci il fratello e levarselo di torno. Ne tollerava la malinconia, la svogliatezza, la presenza tediante e uggiosa; ne tollerava l’essere una totale palla al piede e ne tollerava perfino i capelli grigi: in fondo era pur sempre suo fratello, ed Olwë non aveva mai smesso di ringraziare Ilúvatar per aver appioppato quel terribile colore di capelli ad Elwë anziché a lui. Perciò, sebbene Cappuccetto Grigio fosse l’Elfo più deprimente di Arda, se non altro suo fratello si curava di lui e gli dava a parlare qualche volta (poverino, sta cominciando a farmi pena. E’ TROPPO angst! N.d.A.
).

Un bel giorno, Olwë chiamò Cappuccetto Grigio e gli disse:

«Cappuccetto Grigio, hai visto che bel sole?».
Cappuccetto Grigio, che stava componendo una triste canzone in Elfico, si voltò verso la finestra. Subito iniziò a diluviare.
«Già…» sospirò.
«Beh, lascia perdere, non ha importanza…» buttò lì il fratello. «Dimmi, mi faresti una cortesia?».
«Certo, Olwë, dimmi pure», rispose Cappuccetto.
«Dovresti prendere questo cestino, attraversare il bosco e portarlo al cugino Finwë», disse Olwë. A queste parole, fuori dalla finestra cominciò a piovere con ancora più furia. Cappuccetto Grigio, nel sentire il nome di colui che gli aveva ulteriormente rovinato l’infanzia e la vita, divenne cianotico. Disse:
«E perché dovrei fare tutta questa fatica per portare questo cestino a Finwë? Come se non sapessi che non lo posso vedere!».
«Cappucetto, fai il bravo! Ci andrei io, ma sono impegnatissimo qui… visto che tu non muovi mai un dito per aiutarmi e mangi a scrocco, fra l’altro», sbottò Olwë, che per quanto buono potesse essere, un po’ di fastidio per il fratello lo provava.
«Ok, non c’è bisogno di tirare in ballo questa faccenda» mugolò allora Cappuccetto, che diventava triste quando qualcuno gli rinfacciava la sua esistenza da parassita. Tuttavia, siccome non gli andava proprio farsi tutta quella strada, cercò di deviare il discorso. «Ma che c’è nel cestino?».
«Cinquanta lembas ripieni fatti dalla zia e una bottiglia di idromele, annata 423», rispose Olwë sorridendo.
«Addirittura? Ma perché, che hanno i Noldor da festeggiare?», chiese sorpreso Cappuccetto Grigio.
«Come! Non lo sai?», rispose Olwë.
«Olwë, lo sai che non so mai niente, sto sempre chiuso in casa che manco uno hobbit…» gemette depresso Capuccetto Grigio. Olwë decise di non commentare e si limitò a rispondere alla domanda.
«I Noldor festeggiano le nozze del loro Re…».
A Cappuccetto Grigio si fermò il cuore in petto.
«Che… che hai detto?», rantolò.
«Finwë si sposa» precisò Olwë, abbastanza sorpreso. «Ma perché, che problema hai?».
Cappuccetto non rispose e fissò il vuoto per qualche secondo. Non riusciva a capacitarsi di come potesse esistere al mondo una donna tanto disperata da sposare Finwë, quello psicotico. Certo era che se esisteva una donna simile, sicuramente doveva essere messa ancora peggio di lui!, considerò Cappuccetto Grigio. C’è sempre chi sta peggio di noi, allora…
«E chi è la… umh, fortunata?» chiese infine.
«Ti ricordi di Míriel?» rispose Olwë. «Lei e Finwë sono venuti qui assieme durante la Fiera della Trota d'Acqua Dolce di qualche anno fa…».
«Di quanti anni fa?»
«Mah… due, trecento anni…» borbottò Olwë.
«Ah beh… come no, ce l’ho davanti agli occhi come fosse ieri, guarda…» rispose Cappuccetto, che con tutto che era un Elfo non si riusciva a regolare tanto bene con il loro senso del tempo (
è un idiota completo. N.d.A.
). Olwë insistette.
«Dai, che ti ricordi... Míriel! Quella carina, bassetta… capelli argentati…».
«Come i miei?», chiese Cappuccetto Grigio.
«Elwë... per cortesia, i tuoi capelli sono grigi» specificò esasperato Olwë. «Fattene una ragione e basta, quante volte te lo devo dire?».
«Mmmh… scusami» mugolò mortificato Cappuccetto Grigio. Contemporaneamente, un atroce ragionamento stava prendendo forma nella sua mente.
«Olwë, quindi fammi capire... Finwë si sposa...».
«Sì... oh, ma sei tardo forte, eh?» commentò il fratello, ma Cappuccetto lo ignorò (abitudine. N.d.A
.).
«Finwë si sposa con Míriel...».
«E fin qua...».
«E quindi prima o poi avranno dei figli?».
«Sì, direi di sì...».
«No, non posso permetterlo», mormorò Cappuccetto Grigio. Sul suo volto si era dipinta l'espressione sconvolta e terrificata tipica di Elijah Wood, ma nel suo animo non si era mai agitata tanta decisione. Doveva impedire ad ogni costo che quel genio del male, quel mostro, quella piaga elfica di nome Finwë mettesse al mondo un suo simile. Cappuccetto aveva già sofferto abbastanza a causa di quell'infame Noldo: adesso era suo dovere evitare la moltiplicazione di una simile razza di pazzi criminali.
Olwë osservava piuttosto preoccupato il lume di follia accesosi d'improvviso nello sguardo del fratello: in genere il suo sguardo era triste, depresso o lacrimoso, ma così non l'aveva mai visto...
«Cappuccetto Grigio, tutto ok?» chiese con cautela. Cappuccetto si riscosse dai suoi sogni vendicativi e tornò in sé.
«Certo, certo...» rispose sorridendo placidamente. Questo terrorizzò Olwë: suo fratello non sorrideva MAI!
«Allora, mi dai questo cestino, Olwë?», chiese Cappuccetto.
«Beh, ma... ora che me lo fai notare, diluvia...» azzardò l'altro, che era preoccupato non della pioggia ma dello stato mentale del fratello.
«Fa niente, figurati... su, dammi il cestino...».
«Ma se esci rischi di ammalarti...».
«Stà tranquillo... dammi il cestino...».
«Pensandoci, Finwë non si offenderà se...».
«DAMMI QUEL CESTINO!» urlò Cappuccetto. Olwë si spaventò tantissimo, ma pensò che fosse meglio non discutere. Consegnò il cesto di lembas a Cappuccetto e gli disse:
«Va bene, allora dovrai attraversare il bosco di Nan Elmoth. Mi raccomando, non ti fermare lungo la strada a meditare su cose tristi, non raccogliere fiori che con la tua fortuna beccheresti tutti quelli velenosi, non parlare con gli animali che sennò muoiono e stà alla larga dalle spie di Melkor, che poverine non ti hanno fatto niente. Arriva da Finwë, consegnagli il cesto e NON gli fare le felicitazioni, mi raccomando, che portano male. Torna in fretta; siamo intesi, Cappuccetto?».
Cappuccetto annuì e non rispose: era troppo impegnato a gongolare guardando con occhi folli il cestino di lembas.

Così Cappuccetto Grigio si chiuse a quattordici mandate in camera sua, aprì il cestino e posò i lembas e la bottiglia d'idromele sul tavolo; rovistò nell'armadietto e tirò fuori alcune boccette. Con lo sguardo febbricitante dalla vendetta, versò nell'idromele una sostanza inventata da lui, composta da arsenico, benzene, acido solforico, germi del tetano, maionese scaduta e pezzetti di hamburger di McDonald's. Non era certo che del semplice veleno sarebbe riuscito ad uccidere Finwë, così aveva dovuto utilizzare qualcosa di veramente letale (gli hamburger di McDonald's causano morte istantanea).
Inoltre aggiunse all'impasto dei lembas una certa quantità di uranio arricchito: tanto per essere tranquilli.
Riconfezionò il tutto con la precisione di un professionista, si mise il cestino al braccio e si avviò, salutando Olwë fra saltelli e fischiettii.

Cappuccetto Grigio marciava tutto allegro attraverso il bosco, ripensando soddisfatto al suo piano. Era geniale: non appena ingollato un sorso del micidiale idromele modificato, Finwë sarebbe di sicuro stramazzato per terra morto. Questo pensiero lo faceva andare in brodo di giuggiole: era da tutta la vita che stava nell'ombra patendo umiliazioni, ed era tutta colpa di Finwë (no, Elwë, veramente è colpa tua che hai i capelli grigi. N.d.A); ma finalmente ora Cappuccetto avrebbe avuto la sua legittima vendetta.
Sarebbe diventato un eroe: metà della gente che conosceva odiava Finwë! Avrebbe liberato il Beleriand dall'Elfo più stronzo mai visto; sarebbe stato il salvatore del regno, delle Terre Citeriori, di Arda, dell'Universo intero! Il popolo lo avrebbe portato in trionfo e a lui non sarebbe più importato nulla di avere quegli orrendi capelli.
Certo... un po' gli dispiaceva che dovesse andarci di mezzo anche quella povera ragazza di Míriel. Lei non gli aveva fatto niente, non l'aveva neanche sfottuto troppo per le sue chiome, anzi, Capuccetto pensava che in fondo i suoi capelli e quelli di Míriel non fossero poi così diversi. Però era anche un po' colpa sua: se lei non avesse sposato Finwë, non ci sarebbe stato bisogno di scongiurare il pericolo della sua discendenza! Quindi Cappuccetto si disse che era giusto che anche Míriel pagasse, e più allegro di prima continuò a zompettare attraverso il bosco (scusatemi, ma sento il bisogno di sottolineare quanto Elwë sia inutile, visto che meraviglioso figliol prodigo metteranno al mondo Finwë e Míriel. N.d.A
.).

Cammin cammina, Cappuccetto Grigio incontrò un piccolo scoiattolo.
«Ciao, piccolino!» gli disse, inginocchiandosi di fronte all'animaletto.
«Ciao», rispose lo scoiattolo. «Sai? Hai i capelli grigi».
Cappuccetto non fece una piega e disse con voce stucchevole: «Scoiattolino, non hai mica fame?».
«Oh, sì!», rispose il roditore. Cappuccetto gli porse un pezzetto di lembas condito all'uranio arricchito, e lo scoiattolo non fece manco in tempo a chiedere perdono dei suoi peccati, che prontamente esplose.
L'autostima di Cappuccetto Grigio salì di parecchie tacche: il potere era nelle sue mani!

Cammin cammina, Cappuccetto cominciò a sentire un insistente gracchiar di corvi in sottofondo. Non che fosse insolito: i corvi lo seguivano come un'ombra.
Cappuccetto si era domandato più volte se questa strana predilezione dei corvi per lui avesse avuto a che fare con la sua proverbiale allegria. Gli piaceva credere di no, ma negli anni, ad ogni modo, si era abituato alla compagnia di questi animali, gli unici che non toccassero ferro quando lo vedevano (perfino i gatti neri si grattavano quando passava Elwë).
A conti fatti, poteva dire che i corvi fossero i suoi unici amici (
ma quant'è squallido? Sta rattristando perfino me, mi ricorda un po' Mariottide... N.d.A.)
Udendo dunque il gracchiare dei neri volatili provenire da ovest, Cappuccetto, desideroso di farsi una chiacchierata e di rivelare a qualcuno il suo piano di liberazione del mondo da Finwë (era sicuro che i corvi l'avrebbero approvato con entusiasmo), deviò il suo tragitto e si mise sulle tracce degli uccelli.

Cappuccetto camminò e camminò, ma non riusciva mai a trovare la fonte del gracchiare. Aveva perso il senso del tempo, quante ore erano passate?
L'Elfo si guardò attorno e si accorse di non riconoscere il luogo (impedito, vive là da cinquecento anni e ancora non si orienta!); alzò lo sguardo verso il cielo, cercando di orientarsi con le stelle: tutti gli Elfi erano buoni osservatori del cielo e conoscevano la mappa stellare come le loro tasche.
Tutti tranne Cappuccetto Grigio, per l'appunto, che si ritrovò a fissare la volta celeste con la faccia di Aragorn davanti ad acqua e sapone: totalmente smarrito.
Inoltre le stelle del cielo, non appena Cappuccetto alzò lo sguardo su di esse, presero vita e cominciarono a spostarsi in modo sconclusionato, giusto per farlo confondere ancora di più. Alla fine gli astri si fermarono, formando la scritta: SECONDA STELLA A DESTRA. Evidentemente le stelle non avevano preso dalla loro creatrice, Varda, perchè avevano un senso dello humour assolutamente meraviglioso.
Dopo che anche le stelle, alleate di ogni Elfo, ebbero voltato le spalle a Cappuccetto Grigio, questi gemette e non trovò di meglio da fare che sedersi su un pietrone là vicino.
Cappuccetto era disperato: era solo, si era perso, non era nemmeno riuscito a trovare i corvi che lo potessero aiutare, e non aveva con sè del cibo, fatta eccezione di quello avvelenato per Finwë e Míriel. Si coprì il volto con le mani: dunque il suo piano era destinato a finire in miseria? Non avrebbe mai liberato il mondo dalla presenza di Finwë? Non si sarebbe mai vendicato di tutti gli oltraggi subiti da bambino?
L'unica cosa che poteva fare era restare seduto su quel masso: forse prima o poi qualcuno l'avrebbe trovato anche se, consapevole della propria fortuna, ne dubitava molto.
Allora pensò che non aveva altra scelta che restare lì e aspettare che la morte lo cogliesse. Poi però si ricordò che era un Elfo, e che quindi sarebbe stata una luuunga attesa...
Lì per lì ci rimase male, ma trovò subito una soluzione: si chinò, estrasse l'idromele dal cestino e tolse il tappo. Subito dalla bottiglia emerse un effluvio malsano che fece appassire all'istante tutta la vegetazione lì attorno, alberi secolari compresi. Un paio di Ent che erano di là per caso e si stavano godendo le sofferenze di Cappuccetto Grigio, intuendo l'andazzo della situazione, si fecero due calcoli e scapparono velocissimi (gli Ent sanno essere velocissimi quando sentono puzza di sfiga).
Cappuccetto Grigio rimase fermo la bottiglia dell'idromele in mano, fissando gli alberi parlanti darsi alla fuga. Non aveva nemmeno più la forza di lamentarsi... alzò la bottiglia, si fece un veloce esame di coscienza e stava giusto per bere e liberarci tutti quanti dalla sua disutile presenza, quando...

«Oh! Buon viandante, hai forse dell'acqua con te?».
Cappuccetto Grigio sobbalzò: non era solo! Si guardò intorno alla ricerca del proprietario della voce. Anzi, gli sembrava che fosse stata una dolce voce di donna a parlargli: cosa doppiamente impossibile, visto che nessuno gli aveva mai parlato in modo dolce e che le donne gli rivolgevano la parola solo per chiedergli di allontanarsi...
Ma ciò che vide lo lasciò senza fiato: al suo fianco c'era una fanciulla bellissima, vestita di uno splendente abito bianco; la sua pelle era lucente, i suoi capelli neri e lunghissimi. Sorrideva in un modo dolcissimo e tutto attorno a lei molti usignoli cantavano in volo.

A quella vista, Cappuccetto Grigio immediatamente fu colpito da un sortilegio, così che essi rimasero immobili mentre le stelle che roteavano sopra di loro contavano lunghi anni, e gli alberi di Nan Elmoth crebbero alti e scuri prima che essi pronunciassero una sola parola.

...
Non per interrompere la magia del momento, ma ci pare giusto dire che tutto ciò che Cappuccetto Grigio vide quella notte, in realtà fu soprattutto un'allucinazione provocata dalla fame e dallo sfinimento.
Vero è che una donna gli aveva rivolto la parola e gli aveva chiesto da bere, ma costei era semplicemente Melian, in condizioni ben meno angeliche.
Aveva lasciato Aman anni e anni prima, e durante il suo viaggio lungo le Terre Citeriori aveva vissuto più che altro di stenti. Si era cibata principalmente di radici e topi, aveva dormito sugli alberi e la sua sola compagnia erano stati gli stormi di corvi e di barbagianni suoi amici. Ogni tanto, quando la fame diventava feroce, Melian acchiappava un corvo o un barbagianni qualunque e se lo mangiava senza farsi troppi scrupoli: i ristoranti cinesi potevano e lei no?
La sera in cui incontrò Cappuccetto Grigio, dunque, Melian appariva in questo modo: i suoi vestiti (una tuta mimetica di seconda mano) erano più strappati che interi; i suoi capelli irsuti e pieni di rametti e di foglie (uno dei suoi barbagianni ci aveva anche costruito il nido la primavera prima), il suo viso era coperto di polvere, fango e graffi, era scalza (ma sembra una profuga!) e un corposo nugolo di corvi (e non di usignoli) le svolazzava attorno.

…Ma torniamo al punto di vista di Cappuccetto Grigio.

Egli vide Melian, e i suoi occhi s'accesero di subitaneo amore. Melian, notando l'espressione da pazzo allupato che era apparsa sul volto dell'altro, si intimorì e fece alcuni cauti passi indietro, indecisa sul da farsi. Le stelline negli occhi di Cappuccetto, nel frattempo, avevano raggiunto le dimensioni di Giove e dalle orecchie appuntite dell'Elfo uscivano fiotti di nuvole rosa e cuoricini pulsanti. Rimase a fissarla così mentre le stelle che roteavano su di loro contavano lunghi anni eccetera eccetera (
mi congratulo con il Professore per il lirismo di questa scena, ma durante tutte 'ste ere geologiche a fissarsi negli occhi, 'sti due non si saranno stancati? N.d.A
.).
A questo punto ogni donna sana di mente avrebbe sentito puzza d'allupato e si sarebbe defilata, ma Melian, Maia temeraria e soprattutto morta di sete, prese un bel respiro profondo e ruppe il silenzio.

«Emh... buon viandante, non era mia intenzione infastidirti. Cercavo solo un sorso d’acqua, ho molta sete e sono stanca, ma se non puoi, non fa niente…», disse con estrema cautela. Dopodichè, tanto per rompere l’imbarazzo, Melian estrasse da una tasca una delle sue immancabili Big Babol e cominciò a masticarla vigorosamente, fissando l’Elfo perplessa.

Cappuccetto Grigio, che ormai era completamente partito per il Nirvana, di tutto il discorso di Melian capì solo «buon viandante» e «sete». Intuì vagamente il senso della richiesta della Maia e, con un’invidiabile espressione da paramecio stupido, consegnò alla fanciulla l’intera bottiglia di idromele.

A quel punto, una vocina dentro il cranio di Cappuccetto Grigio gli ricordò blandamente che l’idromele in questione era in realtà una specie di distillato della morte istantanea, e inoltre gli fece notare che offrire del veleno ad una donzella non era una buona cosa né per dissetarla né per conquistarla.
Ma Cappuccetto Grigio, che in tutta la sua esistenza non aveva mai dato ascolto alla vocina del cranio, riuscì solo a sorridere come l’idiota che era mentre osservava Melian sputare con estrema finezza la chewing-gum, mettersela in tasca, strizzargli l’occhio, accostare la bottiglia di idromele alle labbra e mandare giù un sorso di proporzioni colossali che manco Homer Simpson con la Duff.

Fu un momento di enorme tensione drammatica. Man mano che Cappuccetto Grigio osservava il livello dell’idromele nella bottiglia inabissarsi verso l’assetato gargarozzo di Melian, il suo cervello si snebbiava gradualmente.
Gli occhi di Cappuccetto si sgranarono sempre di più e i criceti nella sua scatola cranica corsero a velocità folle sulla ruota, fino a che, quando anche l’ultima goccia della bevanda fu scomparsa dalla bottiglia, Melian si asciugò le labbra col dorso della mano sinistra e si esibì in un «aahhh» appagato, che sentirono anche ad Aman con le finestre chiuse.
Fu solo allora che la parola "VELENO" ricomparve trionfalmente fra le cervella ottenebrate di Cappuccetto Grigio.

«NO!», gridò angosciato l’Elfo, ma fu tardi.

Melian guardò lui, poi guardò la bottiglia vuota, poi di nuovo lui.
All’improvviso sgranò gli occhi e inghiottì di colpo, dopodichè, senza nessun preavviso, lanciò in aria la bottiglia e si gettò al collo di Cappuccetto Grigio, che cadde a terra travolto dall’impeto di passione della Maia.

L’Elfo aveva una faccia stravolta: nel giro di tre secondi si chiese come fosse possibile tutto ciò, come mai nessuno dei veleni avesse avuto effetto, come mai nessun apprezzamento sui suoi capelli, come mai così tanta fortuna tutta a lui, come mai…

Tuttavia, quando Melian gli infilò tre metri di lingua in bocca, Cappuccetto Grigio smise di farsi domande oziose e fuori luogo e il suo cervello chiuse i battenti per il resto della nottata, registrando un ultimo pensiero:
«Vuoi vedere che ho beccato l’unica donna a cui l’arsenico e il tetano non fanno un effetto letale, ma… afrodisiaco?».


Questo, come anche tutte le domande che Cappuccetto Grigio si era posto in vita sua, fu un quesito inutile ed irrisolto.
Tuttavia noi supponiamo che sia andata proprio così: per quale motivo, altrimenti, una donna qualunque avrebbe mai dimostrato cotanto slancio verso un Elfo deprimente a tal punto (e
anche brutto e fastidioso, aggiungerei io. N.d.A.
)?

Non preoccupiamoci di trovare una risposta, suvvia, e limitiamoci a dire che da quel giorno in avanti, Elwë Thingol fu finalmente felice.

La sua gente che lo cercò non lo trovò mai e così Olwë assunse la signoria dei Teleri (ma ce l’aveva già… e comunque secondo me sperava di sbarazzarsi di Elwë. N.d.A.), e partì, come verrà detto in seguito.

Finchè visse, Elwë mai più andò al di là del mare a Valinor, né Melian vi rimise più piede finchè durò la loro potestà congiunta (si vergognava a farsi vedere in giro? La capisco. N.d.A.); e proprio per far durare a lungo questa potestà congiunta, Elwë continuò per innumerevoli millenni a fabbricare in segreto quel mix mortale che tanto attizzava la sua Melian.

In tempi successivi, Elwë Thingol divenne un re famoso e il suo popolo fu l’insieme di tutti gli Eldar del Beleriand, Sindar erano detti, gli Elfi Grigi o Elfi del Crepuscolo, ed egli fu Re Cappuccetto Grigio (in pratica girava per le strade raccattando gli sbandati, avanzi degli altri regni, e se li portava a casa. Che tenero… N.d.A.).

E Melian fu la sua Regina, più sapiente di tutti i Figli della Terra di Mezzo (il che non dovette essere stato un gran complimento per tutti i Figli della Terra di Mezzo); e le loro aule nascoste si aprivano in Menegroth, le Mille Caverne, nel Doriath (ah, tipo barboni?).

E dall’amore di Thingol e Melian (ma più che altro dai miracoli dell’idromele corretto…) venne al mondo il più idiota di tutti i Figli d’Ilúvatar che mai vi sia stato o che vi sarà.

__________

Note: vergognandomi come un cane, vi rimando qui: http://deignotosilmarillion.splinder.com.
Non serve per lasciare recensioni, bensì per avere miei segni di vita durante i miei lunghissimi silenzi ai quali siete già abituati...
In questa sede però ci tengo a salutare la cara Melian per le due bellissime recensioni che mi ha lasciato negli scorsi capitoli: spero che questo, dedicato alla tua omonima, sia di tuo gusto (:
Saluto caramente anche voi tutti che, nonostante la mia vergognosa lentezza, continuate a seguirmi e a commentarmi: vi invito a prendermi a parolacce (sul blog (: ) se non aggiorno per troppo tempo.

Un bacio a tutti i lettori e due a chi mi recensirà,

Milako.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Di Eldamar (e dei Principi degli Eldalië) ***


Disclaimer: i personaggi presenti in questa storia appartengono a Tolkien e a chi ne detiene i diritti. Non scrivo a scopro di lucro e nessuna violazione del copyright è intesa.
Per citare/riprendere/tradurre questa storia in parte o in toto dovete avere il mio esplicito permesso.

 

Capitolo V

Di Eldamar e dei Principi degli Eldalië

ovvero:

la forza della tecnologia applicata ad un gruppo di inetti.

 

 

Trascorsero lunghi anni.

E no, non mi sto riferendo al tempo che ci ho messo per aggiornare, razza di maligni.

Da ere innumerevoli le schiere di Olwë, Ingwë e Finwë avevano fatto la mai troppo rinnegata scelta di seguire Oromë verso Occidente, e giorno dopo giorno scoprivano motivi sempre nuovi per pentirsene. Ma andiamo con ordine.

Sulle vaste lande della Terra di Mezzo si andava spandendo la calda luce del tramonto.. o la fredda luce dell'alba, a vostro piacimento: tanto sono entrambe balle spaziali dato che nessuno aveva ancora creato il Sole.

Da quando Melkor era stato catturato a costo di enormi sacrifici (no, in effetti si è costituito... N.d.A.) dai Signori dell'Occidente, le Terre Citeriori riposavano nella pace e nel silenzio. Silenzio che era turbato unicamente dal frinire delle cicale, dai canti degli usignoli -ed eventualmente dei corvazzi di Melian - dallo scrosciare discreto delle acque sui sassi, e dai colossali smadonnamenti che da una decina di giorni si levavano lievi dalle frasche frondose del Beleriand.

«Ah, Varda Elentári! Ti venga la forfora alle ascelle!» fu l'imprecazione (del tutto gratuita, data l'estraneità di Varda ai fatti) con cui Finwë, Re Supremo dei Noldor, decise quel dì di entrare in scena.

Una lunga, lunga, lunga schiera di Elfi (che sono furbissimi e marciano in fila per uno anche se sono in trenta milioni, eguagliando così la lunghezza del Rio delle Amazzoni. N.d.A.) si stava facendo largo a fatica attraverso la boscaglia. Avevano da poco superato una vasta palude, impresa ostacolata dai numerosissimi carri su cui gli Elfi avevano caricato il necessario per il secolare viaggio che li attendeva. Trasportarli attraverso la palude era stata un'impresa sfiancante perfino per loro, ma erano comunque riusciti a mettere in salvo le pesantissime casse di abiti e viveri. Stanchi, coperti di fango ed appesantiti dal carico, gli Elfi avanzavano a fatica ma tenaci attraverso il bosco insidioso.

Finwë, che avrebbe tratto godimento anche lamentandosi di faccende molto meno gravi, non poté resistere alla tentazione di prendersela con Oromë.

«Oromë, oh! Se il viaggio per le Terre Beate comincia così...» insinuò.

Oromë, la loro guida turistica ufficiale verso le Terre Beate, ignorò la frecciata e proseguì, scostando con la spada i rami e le liane che ostacolavano il passaggio attraverso il bosco. Aveva preso sul serio l'incarico: dopotutto era un Vala di grande dignità. Aveva smesso di cazzeggiare e di fare gli scherzi e gli agguati agli Elfi (che comunque non si fidavano affatto) e li stava conducendo con grande determinazione verso i porti di Helcraxë, da cui poi si sarebbero imbarcati tutti quanti per Aman.

Finwë non gradì di essere ignorato con tanta ostentazione, e con ogni probabilità stava elaborando una battutaccia abbastanza acida da infastidire Oromë, quando fortunatamente fu interrotto dal più mite Ingwë.

«Grande Oromë» esordì l'Elfo biondo «lieto fu il giorno in cui decidemmo di incamminarci con te». Solenni sbuffi e fischi si alzarono dal settore dei Noldor. «Tuttavia... i nostri popoli sono forti, ma provati. Il viaggio che dovremo compiere è lungo ed estenuante, ed anche se disponiamo di viveri e beni, la volontà del nostro cuore potrebbe indebolirsi col passare degli anni e delle stagioni».

Finwë borbottò qualcosa di molto volgare nei confronti delle alate parole di Ingwë, ma fu ancora una volta ignorato (Finwë, non stai facendo una bella figura in questo capitolo. Rimedierò, fidati. N.d.A.).

«Perciò ti prego di dirmi, grande signore dell'Occidente» concluse Ingwë, «quante innumerevoli miglia ci separano dai porti di Helcraxë?».

«Mah... Guarda...» valutò Oromë, riponendo la spada e passandosi una mano meditativa sul mento, «diciamo pure che... siamo arrivati».

Il silenzio che seguì quell'affermazione avrebbe dovuto mettere in guardia l'ingenuo Oromë. Ingwë sbiancò. La follia si accese negli occhi di Finwë (cosa che comunque capitava almeno trenta volte al giorno). Tutti gli Elfi lì presenti (anche quelli in fondo alla fila, quindi a quarantacinque miglia di distanza) si voltarono a fissare il volto di Oromë.

«Ripeti un po'...» balbettò Ingwë, abbandonando il tono ossequioso di prima.

Oromë, che non parve ancora comprendere l'entità della sua affermazione, guardò con aria stupita e stupida la schiera elfica, compreso Finwë che aveva la schiuma alla bocca e gli occhi rosso sangue, poi scostò un ciuffo di rami che ostacolava la visuale comune.

«Ecco Helcraxë, lo stretto che separa la Terra di Mezzo da Aman» annunciò.

«Oromë, perdonami, io non capisco.» biascicò Ingwë, che aveva assunto un colorino verde fava ma che cercava ancora di darsi un contegno. «Siamo partiti dieci giorni fa... e siamo già arrivati. Ma allora perché..» la sua voce si incrinò, e la frase fu disgraziatamente conclusa da Finwë, che aveva raggiunto lo stadio terminale di isteria: «...PERCHÈ - TU - ci hai fatto preparare e trasportare così tanta roba che manco avessimo dovuto attraversare il Mar Rosso, le Ande e la Salerno-Reggio Calabria il sedici di agosto?!».

Sebbene concordi, tutti guardavano con un filo di apprensione Finwë, che chiaramente straparlava e faceva nomi mai uditi prima, mentre la tiroide gli pulsava frenetica come un secondo cuore (poesia e medicina... Esploro territori sconosciuti! N.d.A).

Oromë sbatté le palpebre, scosse le spalle, poi disse: «E che devo dirvi... A me piace viaggiare con calma! Non è che se ti dico ''arrivo fra un'ora'' ci metto per forza un'ora, no? Magari ci metto quaranta minuti, magari un'ora e mezza... Ho abbondato un po', e che sarà mai!».

Gli Elfi si guardarono in silenzio, indecisi sul da farsi: stare a sentire Oromë oppure saltargli alla gola? I Noldor, sempre dolcissimi e comprensivi, stavano già affilando le spade - e anche le unghie e i denti - , ma l'agguato fallì: memore dei tempi non troppo lontani in cui fuggire era l'unico modo per salvarsi la pelle in seguito a qualche scherzo non gradito, Oromë in due salti si era portato a distanza di sicurezza dai Noldor inferociti, giusto ad un passo dalla riva del mare (hanno le gambe lunghe i Valar... Grandi saltatori, come i canguri. N.d.A.).

Ignorando le urla e le imprecazioni irriferibili che sentiva provenire dalla boscaglia alle sue spalle, Oromë si voltò a contemplare lo stretto di Helcraxë, il braccio di mare che li separava da Aman... e vide qualcosa che lo lasciò profondamente perplesso.

«Ecco» mormorò con un brivido «questo ai Noldor non piacerà». Voltò le spalle al mare e indossò un sorriso da gnorri.

Qualche minuto dopo la schiera degli Elfi - che non erano buoni saltatori come Oromë, ma che come corridori incazzati non temevano rivali - aveva raggiunto la spiaggia. La visione del sorrisone innocente di Oromë, anziché rassicurarli, aggiunse ansia alla loro furia.

«E 'sto sorriso da Grinch, adesso?» sbraitò Finwë, che continuando a citare personaggi sconosciuti accresceva parecchio la preoccupazione del suo popolo. Oromë non batté ciglio, sforzandosi di convincersi che semplicemente sorridendo come un babbeo avrebbe evitato la catastrofe. Le sue valutazioni erano ovviamente errate.

«Oh, beh» bofonchiò Ingwë, che era un ottimista e cercava sempre il lato positivo in tutto, «ci abbiamo rimesso fatica e provviste, ma almeno siamo arrivati. Ecco il mare! L'Occidente è assai vicino!».

In qualche modo la gioia di quell'avvistamento stemperò gli animi di tutti, Noldor compresi.

«Guardate!» esclamò eccitato un Elfo, indicando l'orizzonte. «Si vede Aman!».

In effetti aguzzando la vista si potevano scorgere le torri di Valmar, compresa Yavanna che in quel momento stava stendendo i panni, ignara e beata, con un gran casco di bigodini in testa.

Ingwë era entusiasta, perfino Finwë si concesse un sorriso Di Olwë ed Elwë per il momento non faccio parola perché perfino il Professore li ha snobbati per quasi tutto il capitolo (e poi lo sapete quanto odio Elwë). Migliaia di Elfi si accalcarono quindi in fretta lungo la riva del mare, vociando, impazienti di intraprendere la traversata.

Le loro voci festose si mutarono immediatamente in urla scandalizzate.

«Oromë!» strillò Finwë, vittima di un nuovo principio di infarto. Oromë deglutì e si voltò piano verso il Noldo, con l'aria più mortificata che riuscì ad assumere (Oromë, sei ridicolo. Sei un Vala, potresti annientarlo se volessi. N.d.A. - Ma non lo fa. È un perdente. N.d.Finwë – È un vigliacco. Un Vile-Vala. N.d.A.).

Gli Elfi erano semplicemente furiosi: la distesa di mare che avrebbero dovuto attraversare gioiosamente ed in un batter d'occhio era completamente piena, totalmente disseminata di enormi, pericolosissime scaglie di ghiaccio grosse quanto...

«Ma... Ma sono grosse quanto i monoliti di Stonehenge!» urlò Finwë, ed ancora una volta nessuno capì di cosa stesse parlando. Míriel, sua moglie, che fino a quel momento era stata silenziosa e tutto sommato tranquilla, gli mise una mano sulla fronte con aria afflitta.

«Eppure non ha la febbre...» mormorò fra sé e sé.

Oromë approfittò del momentaneo sbigottimento elfico per tentare una debole apologia: «Ragazzi... vi posso garantire che io questa volta non c'entro proprio niente...» disse con un filo di voce.

Naturalmente le sue parole sortirono l'effetto contrario, rinnovando la collera degli Elfi. Nessuno di loro sapeva veramente in quale modo Oromë fosse responsabile di quella assurda glaciazione localizzata, ma ciascuno di loro sapeva che la colpa era sua (molto corretti gli Elfi. Accusano senza prove. N.d.A.).

Mentre stuoli di gente elfica erano impegnati a covare pensieri d'odio all'indirizzo del Vala cacciatore, nuovi problemi sopraggiungevano. Un Noldo dal naso fino all'improvviso disse: «Ma... Non sentite anche voi questa puzza?».

Immediatamente migliaia di nasi elfici (e quindi molto aristocratici e all'insù) cominciarono a fiutare l'aria, esibendosi in vistosi conati di disgusto subito dopo. L'orrendo fetore sembrava provenire proprio dal mare ghiacciato.

«Guardate!» esclamò all'improvviso uno dei Vanyar, indicando delle masse pallide fra i flutti.

«Cosa sono? Finwë!» strillò Míriel, spaventatissima. Finwë, per tranquillizzare sua moglie ma soprattutto perché era il Re dei Noldor e non poteva certo fare la figura del pavido, si fece forza ed avanzò verso le onde scure.

«Niente... è solo ghiaccio!» affermò.

«No, no... ho visto qualcos'altro, guarda meglio! E poi, questa puzza...» gemette Míriel.

Finwë scrutò a lungo fra le onde, curvandosi fin quasi a toccare la superficie del mare. Improvvisamente il muso di un grosso merluzzo congelato emerse dai flutti proprio di fronte al Noldo.

«Eqquestocosacazz...?!» imprecò Finwë, facendo un violento balzo all'indietro, disgustatissimo e sconvolto.

Tutti rimasero immobili a guardare il merluzzo ghiacciato galleggiare pigro fra le onde, presto seguito anche da un salmone, una dozzina di totani, un paio di seppie ed un gruppetto di sardine.

Nessuno sembrava avere qualcosa di sensato da dire. Oromë ruppe il silenzio.

«Questi poveri pesci... L'acqua dev'essere così fredda che li ha congelati» disse in tono grave. Gli Elfi mormoravano fra di loro. Nel frattempo al piccolo banco di pesci si era aggiunta anche una famiglia di pescispada, congelata in un unico blocco di ghiaccio.

«Non sono sicuro di essere d'accordo con la tua teoria, Oromë» lo contraddisse un Elfo dall'occhio fino (qua tutti gli Elfi hanno un superpotere. La supervista, il superolfatto... N.d.A.).

«Che intendi?» chiese il Vala.

«Guarda... su quel pescespada c'è scritto OROGEL!».

Era vero: non solo il pescespada, ma tutti i pesci recavano il marchio della famosa ditta di surgelati.

A quel punto e dato lo stato delle cose, nessuno si sentiva più obbligato a fare commenti. Nel giro di venti minuti si erano susseguite così tante assurdità che perfino la vista di un canale marino invaso dal mercato ittico surgelato sembrava una circostanza in fondo accettabile.

Oromë si limitò a fissare il blocco di ghiaccio delle sardine che ondeggiava tranquillo, gli Elfi sembravano troppo stanchi della loro triste vita per avere voglia di fare qualunque cosa. Si resero conto di essere totalmente impotenti di fronte al destino (ragazzi, riprendetevi... Non è mica il destino, sono io che non resisto alla tentazione di farvi rincoglionire! N.d.A).

Si sedettero tutti fiacchi e demoralizzati sulla sponda del mare, osservati di rimando dagli occhi vuoti delle seppie e del merluzzo; e quando un insistente e ripetuto rumore di tonfi sull'acqua risuonò alla loro destra, trovarono a malapena la forza di voltarsi.

C'era qualcuno lungo la riva, qualcuno che estraeva pesci congelati da un sacco di tela e li gettava in mare, canticchiando canzoni dal suono nostalgico.

«Vitti 'na crozza supra nu cannuni, e cu sta crozza mi misi a parra-aari...»*.

«Sauron?» esalò Oromë, non potendo credere ai suoi occhi.

Gli Elfi, che non avevano mai avuto il piacere e l'onore (soprattutto l'onore. Io uomo d'onore sugnu! N.d.Sauron) di conoscere il folkloristico luogotenente di Melkor, si guardarono l'un l'altro senza capire.

«Ma chi è?» chiese un Noldo.

«Non lo so, ma non capisco in quale lingua sta parlando e la cosa mi infastidisce» rispose stizzito Finwë, che era un fine linguista e non sopportava di non comprendere gli idiomi altrui.

«Oromë, chi...?» cominciò Ingwë, ma a quel punto l'acuto orecchio di Sauron, captate le voci, lo avvertì della presenza degli Elfi.

Si interruppe nell'atto di estrarre un calamaro gigante dalla sacca, si sistemò la coppola ed osservò la spiaggia affollata.

«Ah, voi siete, dotto'! Buonasera!» disse tutto ossequioso all'indirizzo di Oromë.

«Dotto' ?» ripeté questi, indignato. «Sauron, siamo nemici giurati da sempre, non capisco tutte queste cerimonie...».

«Eeeeh, ma vui siti cristianu ranni, io sugnu carusu e va'a purtari rispettu!»**.

Dato che nessuno aveva l'aria di aver capito una singola parola, specialmente la parte relativa a «cristianu ranni» si decise comunemente di fare finta di nulla e di passare oltre.

Finwë, sempre più scandalizzato dal vernacolare di Sauron, guardò con aria di sdegno la sacca di tela, da cui il Maia oscuro aveva ripreso ad estrarre il calamaro gigante. Quando lo ebbe estratto completamente, lo sollevò e lo gettò nel mare ghiacciato con un sonoro grugnito di fatica. Il calamaro andò a galleggiare fra i ghiacci insieme ai suoi compagni di sventura.

«Posso chiederti cosa stai facendo, Sauron?» chiese Oromë, assai perplesso.

«Eh, vedete dotto' » ed indicò le lastre di ghiaccio «qua prima c'era lu mare ed ora c'è lu ghiaccio. Allora io, che sono scaltro, dissi: ''Sauron bello, ma perché non usi tutto 'sto ghiaccio per conservare il pesce del Patrone?'', ed eccomi qua, conservo il pesce del Patrone» spiegò Sauron, e gli si illuminarono gli occhi entrambe le volte che pronunciò la parola «patrone».

Gli Elfi rinunciarono a capire, Oromë invece volle indagare.

«Cioè stai usando lo stretto di Helcraxë come una ghiacciaia gigante per conservare il contenuto del freezer di Melkor...?».

Non poté concludere la frase, perché un rumoroso groppo salì alla gola di Sauron, che si voltò di scatto con gli occhi umidi e lo sguardo colmo di rancore: «Dotto'! Io vi porto rispetto ma voi non lo dovete nominare il Patrone! Che l'avete imprigionato voi, e l'avete portato via da Utumno voi... Ed io, fedele, buono, aspetto che torna, bado alla casa e alla dispensa, agli Orchetti... e sistemo il pesce del Patrone! Che al patrone ci piaceva tanto, il pesce!».

Sauron aveva il fiatone e le lacrime agli occhi. Oromë si sentì quasi in colpa per avere ferito i sentimenti del luogotenente di Melkor, ma non poté fare altro che tacere mentre Sauron si asciugava gli occhi con la coppola e riprendeva zelante a gettare pesci in mare, inginocchiato e singhiozzante.

Elfi e Vala si lasciarono alle spalle tutta la drammaticità di questa scena e si incamminarono rassegnati, intraprendendo un lungo, lungo, lunghissimo cammino alternativo per le Terre Beate.

Se non altro tutte quelle provviste sarebbero tornate utili...

 

All'alba del ventordicimilaffocentotrigesimo giorno di viaggio, l'ormai familiare schiera di trenta milioni di Elfi emerse dalla boscaglia (c'è sempre una «boscaglia» generica da cui i personaggi emergono coperti di foglie e terriccio. Mi serve per dare l'idea che alla fine del viaggio gli Elfi abbiano lo stesso aspetto di Aragorn di ritorno dai monti: orrido. N.d.A.).

«Porca Elbereth!» urlò Finwë, per mantenersi fedele alle tradizioni.

«Io non mi ricordo più nemmeno perché siamo partiti...» sussurrò Míriel, al suo fianco.

«Io non mi ricordo più nemmeno come mi chiamo...» bofonchiò Ingwë.

«Oh, suvvia, quanto siete lagnosi!» esclamò Oromë in tono gioviale. «Stavolta siamo davvero arrivati, non vedete?» ed indicò con la mano aperta il panorama di fronte a loro.

Davanti al popolo elfico si stendeva un vasto specchio di acque scintillanti, placide e luminose. Stormi di gabbiani volavano in circolo sulla superficie dell'oceano, emettendo le loro grida acute, ed in fondo, all'orizzonte, le Terre Beate di Aman li attendevano gloriose ed eterne.

L'aria salmastra investì gli Elfi, ritemprandoli dopo innumerevoli anni di marcia. Oromë li guardò e sorrise raggiante. Tutto andava bene.

Pochi istanti dopo le acque cominciarono a ribollire, il terreno tremò, i gabbiani fuggirono in volo ed Ulmo, il Signore degli Oceani, emerse dal mare, seguito immediatamente dalla sua schiera di imponenti rotoli di lardo.

«Beh, buongiorno a tutti voi» bofonchiò compiaciuto, passandosi un baffone fra le dita. La sua ombra si stagliò sugli Elfi esterrefatti.

Provato dalla vivificante esperienza di una marcia infinita, disseminata di disastri sempre peggiori, l'equilibrio mentale degli Elfi era sul punto di crollare per sempre. Finwë, che all'equilibrio mentale aveva detto addio molto tempo prima, alla sconcertante vista di Ulmo ricadde immediatamente nel delirio.

«Pare Tritone prima della liposuzione» affermò in tono convinto, ed ancora una volta i Noldor non compresero le parole del loro sire.

Ulmo lo udì e si voltò irato verso di lui, imprimendo una colossale panciata all'acqua. Quattro elefanti marini e un capodoglio furono scagliati con violenza fuori dalle onde ed annasparono terrorizzati il più lontano possibile.

«Non è bello fare battute sulle persone robuste» borbottò Ulmo, la cui ira non durava a lungo. Gli Elfi guardarono fisso a terra in un gesto che Ulmo interpretò come rammarico, ma che era in realtà repulsione mista ad ilarità soffocata.

«Non fare caso a Finwë, Ulmo» disse Oromë. «È stato un viaggio stressante e siamo tutti un po' nervosi...».

«Quella deviazione da Helcraxë è stata una disgrazia. Abbiamo allungato di centinaia di miglia» sospirò Ingwë con aria abbattuta.

In quel momento Oromë si batté una mano sulla fronte e disse: «Ah! A proposito Ulmo, credo che tu sia il Vala giusto a cui chiederlo, dato che di mare ne sai sicuramente più di me... Da quando lo stretto di Helcraxë è pieno di ghiaccio?».

Ulmo parve sorpreso ed vagamente a disagio. «Oh, beh, se ti ricordi durante l'ultimo combattimento contro Melkor c'è stata un po' di agitazione, eh... Del resto quando bisticciamo noi dèi è così, no? Terremoti, eruzioni vulcaniche, piogge di meteore, mutamenti climatici... Ad Helcraxë Manwë si è lasciato prendere un po' la mano, è venuta giù la bora e lo stretto è diventato tutto un lago di ghiaccio, come... come una pista da pattinaggio, ecco» spiegò.

«Un lago di ghiaccio? Quando l'abbiamo visto noi il ghiaccio era in scaglie» obiettò Oromë, alzando un sopracciglio.

«Ah... boh, allora non so proprio spiegartelo, non ne ho idea» borbottò Ulmo, facendo spallucce e torcendosi le dita dei piedi. Il suo pensiero si perse in un imbarazzante flashback di se stesso, insaccato in una tutina stile Scissor Sisters, intento a praticare soave pattinaggio acrobatico sul lago di Helcraxë. C'era rimasto malissimo quando il ghiaccio aveva ceduto sotto il suo peso, spaccandosi in migliaia di pezzi... Sperò che nessuna creatura vivente su Arda venisse mai conoscenza della verità.

Fu graziato da questa sorte: se Finwë fosse stato al pieno delle sue spiccate capacità intuitive lo avrebbe smascherato in un istante, ma fortunatamente il Re Supremo dei Noldor se ne stava seduto a gambe incrociate per terra, bofonchiando «lastre di ghiaccio» e «monoliti di Stonehenge» sotto lo sguardo ansioso di Míriel.

«In ogni caso... ho un problema» sussurrò Oromë all'orecchio pingue di Ulmo. «Come li porto dall'altra parte?» chiese, indicando col pollice la vallata invasa da Elfi trepidanti alla sue spalle.

Gli occhietti blu di Ulmo si illuminarono e i rotoli sul suo addome ballonzolarono allegri. «Oh-oh! Non c'è problema, non c'è problema!» esclamò con lo stesso tono garrulo di Babbo Natale. Si voltò, provocando la formazione immediata di uno tsunami di apprezzabili dimensioni, e si immerse nell'oceano.

Oromë e gli Elfi fissarono corrucciati la superficie vuota del mare, fiutando una fregatura imminente. Qualche minuto dopo Ulmo ricomparve all'orizzonte, sorridendo: era accompagnato da altre due figure, e tutti insieme trainavano un'isola.

 

Questa affermazione potrebbe ovviamente scatenare cori di indignazione presso i lettori: che razza di miserevole escamotage è, scardinare un'isola dal fondo del mare per traghettare gli Elfi fino a Valinor? Sono d'accordo con tutti voi, ma l'accusa non mi tocca: la paternità di questa trovata brillante spetta al Professore, ed io la accolgo volentieri. Un'isola mobile, magari marchiata MSC Crociere... scherziamo? Non troverei un'idea più balzana nemmeno sforzandomi! Grazie Professore per avermi facilitato il lavoro con questa sparata... Siamo fra amici, può dirci la verità: quanta erbapipa ha consumato durante la stesura del capitolo? Su, su... Non faccia il timido...

 

...Gli Elfi, che tutto si sarebbero aspettati tranne questo, rimasero ad occhi spalancati a fissare l'isola avvicinarsi alla spiaggia. Nel giro di qualche minuto si trovarono di fronte un Ulmo soddisfattissimo, chiaramente in attesa di complimenti, ed altri due individui dalla folta barba, difficilmente distinguibili fra di loro.

«Forte, eh?» esclamò Ulmo, indicando l'isola che galleggiava davanti agli esterrefatti spettatori, Oromë compreso: lui stesso ne aveva viste e fatte di stronzate in vita sua, eppure questa le superava tutte. I due identici tizi barbuti al suo fianco, probabilmente i suoi Maiar domestici, annuirono compiaciuti.

«Oh, sì» borbottò Ulmo «loro sono Ossë» -ed indicò il Maia alla sua sinistra- «ed Uinen». Ossë ed Uinen fecero un identico sorriso villoso e si inchinarono leggermente agli Elfi ed ad Oromë.

«Sono i tuoi Maiar?» chiese Oromë, curioso. «Forti! Sono gemelli!»

«Beh, in effetti sì, sono gemelli...» spiegò Ulmo, visibilmente in imbarazzo, mentre gli occhi di Uinen si colmavano di tristezza. «Uinen però è la gemella. È una ragazza, vedete...».

Ci fu un silenzio tesissimo. Tutti cercavano di sbirciare la folta barba di Uinen senza sembrare indiscreti, ma lei se ne accorse e tirò su col naso, molto avvilita.

«Non è mai stato chiaro» sospirò Ossë, battendo delle pacche gentili sulle spalle della sorella, «sospettiamo che troppa salsedine... forse... una colonia di alghe... o batteri... ma non siamo sicuri...».

Il tentativo di trovare una motivazione scientifica al manto barbuto di sua sorella fallì miseramente, ed Ossë tacque, compassionevole. Per cambiare discorso Oromë indicò l'isola-traghetto e chiese: «Così... ci sposteremo su quella?».

Ulmo annuì sempre più compiaciuto. In quel momento Finwë, che si era ripreso un attimo e si stava tirando in piedi, sostenuto da due del suo popolo, gettò uno sguardo penetrante all'isola e disse, acido: «Ecco, ci mancava solo l'Isola di Lost! Dov'è il relitto dell'Oceanic 815, avanti?».

I due Noldor che lo sostenevano si guardarono con la coda dell'occhio e non dissero nulla, Ulmo non comprese la domanda ed Oromë, sempre più intenzionato a salvare la situazione (e a tornare a Valinor il prima possibile, dato che non ne poteva più di quel continuo delirio), chiese: «Ma... sarà affidabile?».

«Affidabilissima!» rispose Ulmo, piccato. «Non è una normale isola, bensì un prodotto tecnologico di ultima generazione, realizzato dalle nostre menti più brillanti!».

Alla definizione «le nostri menti più brillanti» gli sguardi degli Elfi schizzarono nervosamente dal bonario Ulmo, all'anonimo Ossë, alla villosa Uinen. Il sopracciglio di Oromë si innalzò ancora, sospettoso.

«Voglio presentarvi l'ingegnere che si è occupato della realizzazione di questa meraviglia della tecnologia» annunciò Ulmo. Nessuno rimase colpito da quella presentazione: al massimo sarebbe emerso dai flutti un altro Maia barbuto ed insipido.

Il tempo parve fermarsi quando dai flutti increspati emerse una fanciulla dalla bellezza folgorante: candida come la neve, dai capelli setosi e biondi, le labbra rosa ed un sorriso incantevole, guardò gli Elfi con splendenti occhi azzurri.

«Påverkar» disse.

«Lei è IKEA... Si pronuncia tutto maiuscolo. E parla solo svedese, non so se vi capirete...» spiegò Ulmo, godendosi l'effetto della nuova arrivata sugli Elfi (buontempone, Ulmo... Mi ricorda Silente ma non capisco perché. Scusa Albus, si scherza... N.d.A.).

Lo shock fu profondo. La mascella di Oromë si sganciò e penzolò penosamente fino al suolo, mentre l'intera popolazione maschile dei Vanyar era direttamente partita per la tangente, essendo i Vanyar del tutto incapaci di resistere al fascino delle bionde (sono biondi, amano le bionde. Quanto sono banali... N.d.A.). Il povero Ossë cercò di contenere l'emozione, soprattutto per non ferire i sentimenti dell'irsuta e poco avvenente sorella Uinen, ma con scarsi risultati.

I soli Noldor, seppur ammirati alla vista di cotanta beltà, non smarrirono il lume della ragione e nemmeno lo spirito critico (capite perché i Noldor sono i miei pupilli? Puoi dire ad un Noldo «Ehi, hai appena ereditato una montagna d'oro!» e lui ti chiederà subito «In lingotti o in monete? A quanti carati? E qual è la quotazione attuale dell'oro in Borsa?». Fantastici... N.d.A.).

«IKEA è un ingegnere qualificatissimo, ce la invidiano tutti» disse Ulmo, colmo di orgoglio. La Maia sorrise dolcemente e arrossì un poco, trasformando i Vanyar in un branco di adolescenti con le allucinazioni. «Inoltre se la cava bene anche come architetto d'interni, ha un successo strepitoso! Vedeste come ha arredato le stanze a Valinor... Qualità al miglior prezzo!» gongolò.

Ci fu un momento di silenzio, interrotto solo dagli «ooooh...» sognanti dei Vanyar. Per quanto demenziale potesse sembrare la prospettiva di attraversare l'oceano a bordo di un'isola low-cost progettata ed assemblata da una bionda, tutti dovettero convenire sul fatto che si trattava dell'unica soluzione possibile.

«Emh... allora, ci imbarchiamo?» esclamò Oromë, che stava faticosamente tornando in sé. Naturalmente la sua era una domanda retorica: discutere con i Vanyar sarebbe stato come sfondare una porta aperta. Erano rimasti incantati da IKEA come i ratti dal pifferaio di Hamelin -e questo la diceva lunga sul loro spessore psicologico. I Noldor li guardavano accalcarsi per arrampicarsi sull'isola con enorme disprezzo. Dalle loro file si udivano animate lamentele: «Ma che idea è? Io dico... L'isola! Ma un gommone no?!» brontolò qualcuno. Alla fine dovettero rassegnarsi ed alquanto sospettosi misero piede sul traghetto improvvisato, che scricchiolò lugubre e beccheggiò vistosamente.

«Io me la faccio a nuoto» latrò subito Finwë, che aveva problemi di mal di mare. Per la prima volta dall'inizio di questo capitolo molti furono d'accordo con il Re dei Noldor, ma nessuno ebbe il tempo di voltare gli elfici tacchi e fuggire: Ossë ed Uinen avevano levato le ancore e l'isola stava prendendo definitivamente il largo. Ci fu una toccata di ferro generale, e così la traversata ebbe inizio.

 

Ulmo, impegnato al timone (sì, c'è un timone. Ma allora ha ragione Finwë ed è veramente l'Isola di Lost? N.d.A.) supervisionava la navigazione. Improvvisamente si fece serio.

«IKEA, ascolta... Io ho fatto lo splendido davanti agli Elfi, ma in effetti quest'isola È sicura? Me lo garantisci?» domandò sottovoce alla bionda.

«Ja, ja» rispose lei, raggiante. Ulmo non parve affatto rassicurato.

«Te lo chiedo perché sai bene come va a finire con i tuoi pezzi d'arredamento... C'è sempre la classica vite che avanza, e non si può mai prevedere cosa -».

«Oh, e questa?» domandò un Noldo, tenendo in mano una grossa vite d'acciaio e scrutandola torvo. «L'ho trovata qui per terra...». Presto gli si radunò attorno un capannello di Elfi. Ulmo guardò fisso la vite, sbiancò, aprì la bocca per dire qualcosa e subito la richiuse, mentre IKEA sparì dalla circolazione con invidiabile nonchalanches: era troppo abituata a rifilare prodotti male assemblati per non sapere come comportarsi in casi del genere.

«Dov'è finita quella bionda rifilapatacche?!» chiese irato Oromë, ma era troppo tardi. La Maia svedese aveva con tutta probabilità già preso il volo per un paradiso fiscale; Ulmo, approfittando dei suoi poteri, si era provvidenzialmente dissolto in acqua – peraltro con grande fatica, data la difficile solubilità dei lipidi; stesso discorso per Ossë ed Uinen che, non avendo l'agilità di IKEA né i poteri elementali di Ulmo, si erano semplicemente nascosti in due cespugli. Nonostante gli sforzi, entrambe le barbe rimasero tuttavia visibili.

La sparizione congiunta del Vala e dei suoi tre Maiar gettò gli Elfi nel panico: i Vanyar, pavidi com'erano, non volevano affrontare la navigazione da soli; i Noldor invece non riuscivano a sopportare l'idea di non avere nessuno con cui prendersela. Oromë, dal canto suo, non sapeva a che santo votarsi, avendo un'idea non troppo chiara del concetto di «votarsi ad un santo».

Fu fra l'isteria collettiva che la già citata vite mancante scatenò le sue disastrose conseguenze. Si udì come uno strappo nell'aria, violento come un terremoto, assordante come una tempesta: la punta orientale dell'isola si era spezzata ed era rimasta indietro; e codesta, così si narra, fu l'Isola di Balar; alla quale in seguito Ossë si recò spesso.

«Ma... perché? Che me ne frega?» chiese discreto Ossë, ma il Professore lo ignorò e così faccio anche io.

La sfilata dei volti degli Elfi di fronte a quest'ultimo prodigio era davvero una vista demoralizzante. L'isola, perduto un quarto della sua superficie, aveva preso a beccheggiare con maggiore insistenza, sbattendo sulla superficie dell'oceano ed innalzando nell'aria onde e spruzzi altissimi. Disgraziatamente per l'udito fino degli Elfi, al di sotto del suolo era perfettamente udibile il cigolio nevrotico di centinaia di bulloni sganciati.

«Voglio morire... Voglio morire!» strillò Ingwë, con le lacrime agli occhi.

«Non parlare così, mi ricordi Elwë Cappuccetto Grigio!» gli rispose aspro Finwë.

Ingwë incassò l'insulto, senza che il pensiero della misteriosa assenza di Elwë, di Olwë e dell'intero popolo dei Teleri gli sfiorasse il cervello. In quel momento avevano tutti cose molto più importanti a cui pensare (non li preoccupa il fatto che sono spariti cinquecentomila Teleri dopo lo scorso capitolo... Mi pare giusto. N.d.A.).

Oromë, abbandonato il vano tentativo di votarsi ad un santo, tentò di riprendere in mano la situazione. C'era immediato bisogno di qualcuno che governasse l'isola verso Valinor. Ulmo s'era dato alla macchia, su IKEA non c'era comunque da fare affidamento, ma in qualche modo aveva la sensazione che Ossë ed Uinen fossero ancora sull'isola, nascosti. Gli venne subito in mente un'idea per stanarli.

Sganciò dalla cintura Valaróma, il suo corno da caccia, fedele compagno di tanti scherzi di infima categoria, ed intimò agli Elfi: «Tappatevi le orecchie, tutti quanti!».

Quelli obbedirono con tutto il cuore, non desiderando un bis di ultrasuoni. Il cuore di Oromë danzava: finalmente poteva rompere i coglioni a qualcuno, non lo faceva da tanto! Prese un profondo respiro, verosimilmente prosciugando mezza atmosfera ed aprendo dodici buchi nell'ozono, data l'ampiezza dei polmoni dei Valar. Si concentrò e soffiò con vigore dentro il corno argentato.

Un boato tuonò su tutto l'oceano; e fece immediatamente saltare Ossë ed Uinen fuori dai loro nascondigli erbosi, con gli occhi sgranati ed ogni singolo pelo della barba teso come un filo di ferro.

«Vergogna! Nascondersi così nel momento del bisogno!» li richiamò Oromë, improvvisamente autoritario. «Cercate di rendervi utili, Maiar dei mari! Tu, Ossë, vai al timone, e tu, Uinen, controlla la rotta!» disse distribuendo ordini ai due servitori di Ulmo. Quelli, mortificati, corsero ad obbedire.

«Comunque Ossë è lui...» piagnucolò Uinen dirigendosi mesta a prua. Oromë finse di non sentirla e si voltò dall'altra parte, riponendo Valaróma nel fodero.

 

In breve, grazie alle mani esperte dei due Maiar gemelli, l'isola aveva riguadagnato stabilità e stava filando senza nuovi problemi verso Occidente, e alla fine giunse alle lunghe spiagge ai piedi delle Montagne di Aman.

«Ecco, Noldor e Vanyar» annunciò solenne Oromë, felice di essere tornato a casa. «Ecco davanti a voi i piedi delle Montagne di Aman!».

I Vanyar e i Noldor si chiesero perché Oromë non dicesse semplicemente «Montagne di Aman» piuttosto che «i piedi delle Montagne di Aman». Guardarono di fronte a sé e, con grande sorpresa, avvistarono una lunga serie di piedi giganti alla base delle montagne, sulla spiaggia. Gli Elfi guardarono Oromë in cerca di spiegazioni.

«È il nostro orgoglio... Il Festival dei Piedi» spiegò Oromë, parlando con tono nostalgico. «Ogni anno ognuno di noi Valar fa una scultura in pietra dei propri piedi e la espone qua sulla spiaggia. I piedi più belli vincono, è un grande onore, sapete... Tre anni fa ho vinto io, avevo scolpito anche gli zoccoli di Nahar».

Sospirò, e nuovi angosciosi dubbi germogliarono nelle menti degli Elfi, ancora beatamente ignari delle numerose assurdità di casa Valar. Prima che potessero replicare l'isola attraccò, proprio di fronte agli enormi piedi inanellati di Manwë.

...Così essi entrarono a Valinor e furono accolti nella sua beatitudine.

 

***

Nello stesso momento, nel Beleriand Orientale...

 

Olwë, Re Supremo dei Teleri, si accasciò stremato sulla riva di uno dei mille affluenti del fiume Sirion.

«Non ce la faccio più» annunciò prendendosi la testa fra le mani. Rimase così, sconsolato ed immobile, mentre il suo popolo gli si radunava attorno amareggiato.

Era raro vedere Olwë in stato di prostrazione. Il loro Re era sempre stato un Elfo deciso, pratico e coraggioso, ma in quel momento sembrava preda della più buia disperazione.

«Da quando Elwë è sparito non è più stato lo stesso...» mormorò un Teler scuotendo le spalle («Teler» come singolare di «Teleri» però è bruttissimo, Professore. Posso usare «Telerio»? N.d.A. - Faccia pure, signorina, tanto oramai... N.d.MaestroTolkien).

Era la verità: secoli prima Elwë Cappuccetto Grigio, l'unico Elfo dai capelli color topo e fratello di Olwë, era partito per i boschi e non era mai più ritornato. Sebbene Olwë lo avesse sempre considerato una fastidiosissima palla al piede, non riusciva a scrollarsi di dosso il senso di colpa per avere spedito quel babbeo privo di senso dell'orientamento a spasso per Nan Elmoth. Era tutta colpa sua se suo fratello non aveva più fatto ritorno, e sapeva che non avrebbe avuto pace finché non lo avesse ritrovato.

Un Telerio si avvicinò piano ad Olwë e gli posò una mano sulla spalla, comprensivo.

«Non è colpa tua, Sire» gli disse. «Il principe Elwë...».

«Non me lo perdonerò mai» lo interruppe Olwë, con la voce spezzata. «Mai...».

Nel vedere il loro amato Re così rabbuiato, i Teleri si intristirono a loro volta. Nella mestizia generale, nessuno si accorse di un rapido movimento al di là della boscaglia (ecco che ritorna «la boscaglia»! Fra poco chiederà lo status di personaggio indipendente! N.d.A.).

Elwë era lì, nascosto, con il cuore in gola e il volto in fiamme. Grosse, lucide lacrime stavano per cadere dai suoi occhi. Non riusciva a crederci!

Da quando aveva lasciato il suo popolo per intraprendere un rischioso viaggio solitario fra i boschi del Beleriand (Elwë, ti vorrei ricordare che dovevi solo consegnare un cestino e che non ci sei riuscito... N.d.A.) ed aveva incontrato la sua amatissima Melian, non aveva più rivisto né suo fratello né altri dei Teleri.

Aveva vissuto con Melian nella gioia e nell'armonia, lontano da tutto, e non aveva mai avuto intenzione di fare ritorno a casa. Del resto tutta la sua gente si era sempre comportata molto male con lui: fin da bambino lo avevano maltrattato e ridicolizzato, e tutto per via del colore dei suoi capelli... (I capelli non c'entrano, sei tu che sei una piattola. Te l'ho già spiegato diverse volte e non vorrei ripetermi ancora. N.d.A.) E neanche il fatto che fosse il loro principe aveva impedito ai Teleri di prendersi gioco di Elwë.

Tuttavia ultimamente una grande nostalgia l'aveva colto, e aveva deciso di seguire gli spostamenti di Olwë e del suo popolo attraverso il Beleriand Orientale. Non era nemmeno sicuro di cosa desiderasse davvero: riunirsi alla sua gente e rischiare di essere nuovamente umiliato a vita, oppure vivere felice, ma esule, con la bellissima Melian - l'unica creatura vivente in Arda che apprezzava la sua compagnia? Questo dilemma lo tormentava mentre osservava da lontano l'accampamento dei Teleri presso le rive del Sirion.

Immaginate dunque la gioia incontrollata che invase il cuore di Elwë Cappuccetto Grigio quando, avvicinatosi abbastanza da potere udire i loro discorsi, sentì i Teleri rammaricarsi della sua assenza! Persino Olwë, il suo amato fratello Olwë, che non gli aveva mai dimostrato più affetto di quanto se ne dimostrerebbe ad un cocker, era davvero distrutto dal dolore! Che meravigliosa felicità! (Elwë, sappi che mi fai schifo: gioisci del dolore altrui. Sei una persona miserevole, te lo devo dire. N.d.A.) (Sono lieto di apprendere che i MIEI personaggi le si prestino magnificamente come valvole di sfogo, signorina. N.d.MaestroTolkien).

Sì, sì... era deciso! Avrebbe sepolto gli antichi rancori, avrebbe dimenticato tutti i maltrattamenti e le sofferenze... Sarebbe comparso fra gli alberi, sorridente, e tutti i Teleri avrebbero pianto di felicità nel vederlo, ed Olwë l'avrebbe abbracciato, e...

«Sire, Sire!» gridò un Telerio, correndo più veloce che poteva verso Olwë. Questi, sopprimendo la sofferenza, si riscosse dal suo abbattimento e tirandosi in piedi chiese con voce ferma: «Cosa c'è? Porti notizie di mio fratello?».

«No, Sire, notizie da Ulmo!» disse l'Elfo, e scatenò un mormorio nervoso. «Sembra che Ingwë e Finwë si siano già imbarcati per le Terre Beate di Aman con le loro genti!».

«CHE COSA?!» tuonò Olwë. Senza aspettare una risposta saltò in groppa al suo destriero e disse: «Muoviamoci! Se partiamo adesso forse riusciamo a raggiungerli! Dobbiamo convincere Ulmo ad aspettarci!».

Ed in men che non si dica sparì dalla vista, presto seguito da tutti i Teleri. L'accampamento rimase vuoto e desolato.

Elwë non avrebbe potuto ricevere una delusione più cocente. Si erano già dimenticati di lui?

Sentì il dolore invadergli il petto ed il dispiacere montargli in gola. Melian, la splendida ma spregiudicata sposa di Elwë, comparve in quel momento fra gli alberi.

«Cosa ti succede, mio amore?» gli chiese con tono afflitto. Purtroppo la sua manifestazione di intensa solidarietà fu in qualche modo rovinata dal sonoro ruminare di chewing-gum che ne aveva sempre annunciato l'arrivo.

Elwë si voltò verso di lei, tristissimo: «Mio fratello e la mia gente hanno smesso di cercarmi. Hanno preferito le Terre Beate a me!» disse in tono acuto, sottolineando così tutta la becera meschinità (secondo lui) della scelta di Olwë.

«Eh! Mica sono cretini...» rispose subito Melian, incapace di trattenersi.

Elwë parve offesissimo: «Adesso nemmeno tu stai dalla mia parte?!».

«Ma certo che sì, cucciolotto» lo rassicurò la Maia, abbracciandolo. Anche senza tacchi lo sovrastava di una sessantina buona di centimetri. «Però tu devi anche sforzarti di capire che se io dovessi scegliere fra le Terre Beate e mio fratello scemo un attimo di dubbio ce l'avrei...».

«Ma tu hai lasciato le Terre Beate e hai scelto me, Melian...» mormorò Elwë, ormai prossimo al pianto.

I suoi continui corsivi autoreferenziali cominciavano ad infastidire Melian, che infatti rispose tagliente: «Ok, ma io non faccio testo perché si sa che ho sempre avuto cattivo gusto. Se ci hai fatto caso mi nutro di corvi vivi e dormo nel fango, per cui il fatto che tu sia mio marito è perfettamente coerente, Elwë!». Elwë dovette riconoscere che i corsivi di Melian erano decisamente più incisivi dei suoi.

Tacque e tirò su col naso. Aveva come la sensazione che la sua vita stesse bruscamente virando verso la totale catastrofe, come ai bei vecchi tempi di Cappuccetto Grigio...

 

...Così i Teleri si accalcarono sulle rive del Beleriand e da lì in avanti dimorarono presso le Bocche del Sirion (vi informo che per un attimo avevo letto «le Bocche di Sauron» e volevo condividere con voi quest'immagine dei Teleri che dimorano presso la Bocca di Sauron, che fa schifissimo. N.d.A.) , struggendosi per i propri amici che erano partiti (vedi se gliene frega ancora qualcosa di Elwë! N.d.A.). A lungo rimasero presso le coste del mare occidentale, ed Ossë ed Uinen vennero a loro e divennero loro amici; e Ossë l'istruì, seduto su una roccia vicino al limite della terra, e da lui essi appresero ogni tipo di sapere e di musica riguardanti il mare...

 

...«Oh, beh, non esattamente» brontolò Olwë, intromettendosi nella narrazione. «Ossë è un musicista poco più che mediocre. Non va oltre l'antologia del flauto delle scuole medie...».

«C'è bisogno di essere così sgarbati?» ribatté il Maia.

«Però devo riconoscere che è un buon pescatore, ci facciamo delle grigliate di calamari che sono la fine del mondo!» concesse allegramente il Re dei Teleri.

 

...E così avvenne che da quel momento i Teleri, che da principio erano stati amanti dell'acqua (siete idrofili, come l'ovatta. N.d.A.) e i migliori cantori di tutti gli Elfi (Ehi! N.d.Maglor) si innamorassero dei mari, e che i loro canti fossero colmi del suono delle onde che si infrangono sulle rive.

 

***

«Aaaaah, Varda Elentá - ».

«Finwë, ti prego – per favore!».

Míriel, in uno slancio di esasperazione, era riuscita a zittire suo marito prima che questi potesse esibirsi in uno dei suoi usuali smadonnamenti.

«D'accordo, tesoro mio, ma qui cola tutto!» sbraitò il Re dei Noldor.

Erano passati alcuni anni dall'arrivo degli Eldar ad Aman. Le genti di Finwë e di Ingwë si erano stabilite a Valinor, e la quotidianità assieme ai Valar, trascorso un certo periodo di adattamento reciproco, procedeva sufficientemente tranquilla... Ma della convivenza fra gli Elfi e i Signori dell'Occidente parleremo fra non molto. Ora è bene concentrarsi sulla perdita d'acqua che in quei giorni minacciava di disastrare la sontuosa abitazione regale di Finwë e Míriel.

«Io non capisco proprio...» brontolò corrucciato il Noldo, guardandosi attorno come se cercasse un colpevole a cui tirare il collo. Parecchi centimetri d'acqua ricoprivano il pavimento, un gocciolio irritante echeggiava nelle stanze.

«Eppure non c'erano mai stati problemi...».

«Ora come ora mi sembra inutile restare qua a lamentarci... e a bestemmiare» sospirò Míriel lanciando un'occhiataccia al coniuge. Erano passati decenni dal loro matrimonio, eppure la religiosissima Míriel ancora si chiedeva come avesse mai fatto ad innamorarsi di quello smadonnatore incallito di Finwë

«Finwë, devi andare subito dal Re, penso che possa darci una mano!».

«Ma sono io il Re» replicò Finwë, vagamente offeso.

«Intendevo Manwë, e lo sai...» spiegò lei paziente.

Finwë, che comprensibilmente non aveva associato il concetto di «Re» a quello di «Manwë» scoppiò a ridere di gusto.

«Quello là? Luce dei miei occhi, ma sei seria? Lo sai benissimo che le uniche due attività di Manwë sono giocare a briscola e grattarsi le pa...».

«FINWË!».

«...d'accordo, d'accordo» sbottò il Noldo spazientito. Il gocciolio alle sue spalle riportò la sua attenzione sul problema.

«Ma sul serio, passerotto... (Finwë, ti interrompo per dirti che l'immagine di te che dici «passevotto» come Giannini in «Non è mai troppo tardi» mi fa ridere tantissimo. N.d.A) …non crederai davvero che Manwë ci possa risolvere l'allagamento? Non ha mai risolto un problema in vita sua, praticamente è come subire un'alluvione ed illudersi che la Protezione Civi - ».

«Finwë, per carità, la smetti di fare citazioni incomprensibili e vai da Manwë?» lo interruppe Míriel, stizzita.

«Ma perché mi devi fare arrivare in cima al Taniquetil per niente?! Se hai così tanta fiducia in quel satrapo, vai tu!» ribatté Finwë, molto cavallerescamente.

«Non se ne parla» rispose lei buttandosi su una sedia. «Io non mi muovo da qua... Sono incinta!».

La notizia di una imminente figliolanza - gettata lì con la delicatezza di un asteroide - se non produsse la tenera commozione forse auspicata da Míriel, riuscì almeno a convincere Finwë ad essere più collaborativo.

«Ohibò... Un figlio?» chiese, incuriosito. (Che c'è, la novità ti sfagiola? N.d.A.)

«Esatto» disse Míriel. Si era improvvisamente addolcita. (Míriel doveva essere proprio una persona dolcissima per commuoversi all'idea di mettere al mondo un mini Finwë. Infatti le è venuto un figlio con un carattere di merda... N.d.A.) (Donna, sarei molto compiaciuto se tu la smettessi di fare conversazione con i miei genitori ogni due righe, peraltro offendendomi. N.d.Fëanor) (Oh! Fëa! Che bello vederti qui, accomodati! Però in silenzio, ché dobbiamo andare avanti con la narrazione. N.d.A.).

«Allora vado subito! Non sia mai che mio figlio debba crescere nell'umidità!» annunciò Finwë, tutto entusiasta. Avanzò sul pavimento acquitrinoso ed uscì di casa, deciso a fare valere le proprie ragioni sull'indolenza di Manwë.

Per raggiungere il Taniquetil bisognava attraversare Tirion e Valmar. Lungo la strada, il Re dei Noldor si accorse con rabbia e sorpresa che il suo popolo e anche la gente di Ingwë stava avendo parecchi problemi con le case allagate: molti Elfi erano impegnati a gettare grandi secchiate d'acqua fuori dalle finestre, sospirando rassegnati. Lo stesso espediente sarebbe stato in epoche successive riciclato dagli abitanti di Gondor per lavare Aragorn contro la sua volontà.

«Cose da pazzi!» sbottò Finwë fra sé. Siamo nel Paese Beato e mi sento a Messina! Ah, ma quelli mi sentiranno..., pensò, ed accelerò il passo. Sentiva l'elfica incazzatura aumentargli di metro in metro.

 

«BUONGIORNO!» fu l'urlo che fece trasalire tutti i Valar e i Maiar presenti alla corte di Manwë, subito seguito dal fracasso di un portone sbattuto. Finwë avanzò risoluto e furioso dritto verso il trono del Re di Arda (sostituito da tempo da una più comoda e gradita poltrona girevole), intenzionatissimo a scatenare quanto più casino possibile (non ci vuole niente, basta che urli «Guardia di Finanza!». N.d.A.).

I Valar trattenevano il respiro, pallidissimi. Erano radunati attorno alla poltrona di Manwë, rannicchiati in circolo, e furono sorpresi nell'atto di dedicarsi al gioco della bottiglia.

Finwë li guardò e sentì la furia salirgli alle orecchie (Finwë non ha mai visto un governo di fancazzisti e si indigna. Idealista... N.d.A.).

Oromë, che era lì presente ed aveva già avuto molte volte il piacere di assistere alle sfuriate del Noldo, si affrettò a nascondere la bottiglia con cui si stavano dilettando: in fondo fu anche abbastanza grato a Finwë per quell'intrusione, dato che l'aveva appena salvato dalla penitenza di baciare Tulkas.

«Vengo a nome di tutte le genti elfiche per conferire con l'individuo risibile che siede su quella parodia di un trono, e che senza meriti si arroga il titolo di Re di Arda!».

Yavanna, che non sopportava i modi bruschi di Finwë, sbuffò; mentre Varda, sebbene non fosse riuscita a seguire la raffinata sintassi dell'Elfo, lo guardò torva e si strinse a Manwë, conscia del fatto che nelle parole di Finwë non c'erano certo complimenti per il suo sposo.

Manwë, già abbastanza irritato dall'apparizione di quel tizio pedante e logorroico, la scostò via in malo modo.

«Parla, Noldo, dato che ti sei preso il disturbo di salire fino a qua per interrompere la nostra consulta» disse freddamente.

«Sì, la consulta dei miei cogl...-» cominciò Finwë, ma l'eco del rimprovero di Míriel gli risuonò prontamente nella testa. Gli balenò in mente anche l'immagine del suo futuro figlioletto costretto a vivere in mezzo a pozzanghere e muffe, e l'ira si rinnovò nel suo cuore: doveva assolutamente risolvere la questione allagamenti (e per fortuna che la sta risolvendo lui, perché Fëanor sarebbe stato capace di dare fuoco alla città per molto meno, e il Silmarillion si sarebbe concluso con un gran falò isterico a pagina 84. N.d.A.) (Confermo. N.d.Fëanor) (Comunque il falò isterico l'hai poi fatto ugualmente a Losgar a pagina 121, Fëanáro. Si vede che era un tuo sogno da sempre. N.d.MaestroTolkien).

Il Noldo prese un respiro profondo, guardò Manwë dritto negli occhi, e Manwë quasi morì, dato che lo sguardo irato di Finwë ha gli stessi effetti di quello del Basilisco.

«Voi Valar avete convinto gli Eldar a trasferirsi in Occidente, abbagliandoci con promesse di gloria e pace. Ora, a parte la gloria che non mi sembra di aver conseguito, e la pace della Terra di Mezzo che rimpiango tuttora, qualcuno sarebbe tanto cortese da spiegarmi perché ci dobbiamo pure sorbire le perdite d'acqua?! Non c'è una casa a Tirion che non sia allagata! Rispondetemi, Sovrani di Aman!».

I Valar tacquero, non sapendo cosa dire.

Varda guardò Manwë, certa che il suo splendido marito avesse una risposta adeguatissima e tagliente da rifilare a quello sporco cosacco di un Noldo.

Manwë rimase in silenzio un momento, poi disse: «La tua accusa non mi tocca, Noldo. Ti lamenti dell'acqua che invade le vostre case a Tirion, ma sappi che anche le Potenze che dimorano sulla cima del Taniquetil marciano indossando stivali di gomma e mantelli impermeabili. Abbiamo l'acqua in casa pure noi, insomma...».

La riposta sembrò spiazzare Finwë, che sospettoso si guardò intorno. Si avvide solo in quel momento che tutti i Maiar presenti in sala si stavano affaccendando con secchi e spugne per tamponare le perdite d'acqua e garantire una parvenza di normalità alla corte. La vista di questa miseria comune blandì l'ira di Finwë, ma non lo fermò.

«Ebbene, vedo che anche i più potenti in Arda abitano fra le infiltrazioni! E volete farmi credere che nessuno si è posto il problema di ricercarne il motivo?».

«Il motivo di cosa?» domandò una voce gioviale che Finwë riconobbe all'istante. Ulmo aveva appena fatto il suo ingresso a corte, più sferico che mai.

«Sono in ritardo per il torneo di burraco?» chiese.

Ci fu un momento di silenzio, poi Manwë parve illuminarsi: gli era appena venuta un'idea brillante per tirarsi fuori da quella questione spinosa. Era nota la sua capacità di diventare improvvisamente un genio quando si trattava di scaricare le responsabilità.

«Oh, carissimo, vieni, vieni, siediti!» disse affabilmente, e fece cenno a Yavanna, Varda, Oromë, Tulkas ed Aulë di spostarsi per fare sedere il Signore degli Oceani (ci voglio cinque posti liberi per fare sedere Ulmo. N.d.A.).

«Stavamo giusto discutendo con l'amico Finwë...» disse Manwë, e Finwë lo guardò con odio, «...hai notato che da un po' Valinor fa acqua da tutte le parti?».

«Da sempre, Manwë, ma io che c'entro se il tuo governo va a rotoli?» chiese innocentemente Ulmo.

Accortosi della gaffe, Manwë riformulò: «Intendevo acqua-acqua, H2O, questa insomma» e sollevò un piede, mettendo così in mostra un lucido stivale di gomma gialla che gocciolava copiosamente. «Vedi come siamo ridotti?».

Ulmo fissò lo stivale e diede uno sguardo sommario alla sala, poi sbottò: «Vedo, ma la mia domanda non cambia: io che c'entro?».

Varda, che odiava Ulmo da sempre, si irritò di fronte a tanto menefreghismo ed incrociò le braccia; Manwë invece fu convenientemente paziente: «No, siccome se c'è qualcuno che se ne intende di acqua quello sei tu, mi chiedevo se potessi fare qualcosa per rimettere a posto la situazione, dato che noi non ci capiamo niente...».

Il Re dei Valar dovette interrompersi perché Ulmo si era fatto pallidissimo.

«Che ti prende?».

«Ho paura di sapere quale sia l'origine di questi allagamenti, Manwë, e se è come temo io non posso farci proprio niente...».

«Spiega» si intromise Finwë, tagliente.

Ulmo deglutì e si rivolse di nuovo a Manwë: «Dimmi... Ti ricordi chi si è occupato degli impianti idraulici qui ad Aman?».

Cadde l'ennesimo momento di silenzio. Manwë si concentrò a fondo, quasi svenendo per la fatica impiegata, e alla fine disse: «Beh... È stato millenni fa... Ma se ne deve essere occupato Aulë, come sempre» rispose.

Valar, Maiar ed Elfo si voltarono lentamente, molto lentamente, verso Aulë. Il buon Vala artigiano aveva appena avvertito il peso enorme della responsabilità di quel disastro sulle sue spalle, e stava sudando sudori ghiacciati.

«È così, Aulë?» chiese serissimo Mandos, che fino a quel momento era stato zitto. Carezzò distrattamente con l'indice la falce che portava sempre con sé.

Aulë parlò con un filo di voce: «Sì... Sì, certo, gli impianti idraulici li ho costruiti io, ed anche le tubature nelle case, e l'acquedotto... Tutta opera mia... Ma era un ottimo lavoro, come sempre...» pigolò.

In effetti quella circostanza suonava strana perfino alle orecchie degli accusatori: se c'era un Vala affidabile su Arda quello era Aulë. Non ne aveva mai sbagliato una, tutte le sue costruzioni e le sue invenzioni erano sempre state perfette... Nani a parte, ma questo i Valar non lo sapevano mica.. Possibile che avesse combinato un tale disastro?

Ulmo scosse la testa e fissò il pavimento. Il suo timore stava per rivelarsi fondato: «E, Aulë, dimmi... Il materiale per le tubature dove te lo sei procurato?».

«Ma nella sua fucina, no?» si intromise Yavanna, offesa. «Aulë ha sempre fabbricato da solo tutte le sue attrezzature!».

«In effetti... In effetti...» mormorò il Vala artigiano, con la morte nel cuore. Yavanna lo fulminò con lo sguardo. «...In effetti... Quella volta ho accettato l'offerta di un fornitore... straniero...».

«...Chi?» chiese Ulmo con la voce che gli tremolava.

«Una biondina... Giovane... Ma sembrava molto professionale... IKEA, credo che si chiamasse...».

Ulmo fece un sospiro angosciato e si coprì il volto con le mani. Manwë sgranò gli occhi, strinse i pugni e tuonò: «IKEA?! La stessa che ha rifilato a Varda un armadio otto stagioni che si è autodistrutto dopo i primi due giorni? Aulë! Stai scherzando, voglio sperare!».

Gli altri Valar erano altrettanto scandalizzati: IKEA aveva concluso con ciascuno di loro ottimi affari, vantaggiosi solo per lei, e si era poi volatilizzata nel nulla ad ogni reclamo. Non potevano credere che l'impeccabile Aulë avesse accettato di comprare delle tubature da una tale rifilatrice di patacche! Era già tanto se avevano resistito per qualche millennio senza fare i tarli.

Mentre i commenti indignati dei Valar si sprecavano, la mente di Finwë ragionava veloce.

«Aulë!» disse ad alta voce. Il povero artigiano si voltò, mortificatissimo. «Dunque la situazione è questa: hai acquistato le nostre tubature da una spacciatrice di rottami, della quale io non comprerei nemmeno una scatola di Lego per mio figlio...».

«Hai un figlio?» chiese Varda, pettegola come sempre.

«Non ancora, ma è già incazzato a morte con tutti voi, ve l'assicuro» rispose il Re dei Noldor. «In ogni caso, vorrei che vi metteste d'accordo fra di voi, perché non mi è chiaro su chi devo addossare la mia collera».

Il suo sguardo passò da Aulë, l'ingenuo truffato; ad Ulmo, il padrino intellettuale della seminatrice di cianfrusaglie; a Manwë, il supervisore meno visore di tutti i tempi.

I tre Valar si guardarono fra di loro e per un attimo furono tentati di accusarsi a vicenda, come i bambini quando rompono i vasi Ming. Tuttavia compresero in tempo che questo avrebbero solo fatto inviperire ancora di più il già inviperitissimo Finwë.

«Manwë, tu non potresti....?» propose Aulë, sempre più intimidito.

«No, io... Lo sai che domino i venti e non ho potere su nient'altro... Ma tu che sei un artigiano così abile, potresti...?».

«No, io... Me la cavo a costruire, non a riparare... I tubi sono marci... e c'è troppa acqua... Ulmo, credo che tu...?».

«No, io... L'acqua la so maneggiare ma in questo caso non posso risolvere... non sono specializzato... Ci vorrebbero degli artigiani svelti di mano, esperti di idraulica, pazienti...».

«...i Teleri» mormorò Finwë.

Come aveva fatto a non pensarci prima? Come aveva potuto dimenticare i felici pomeriggi d'infanzia trascorsi a sfottere Olwë che giocava al piccolo idraulico con le fontanelle di casa? Come non gli era venuta subito in mente quella combriccola di esaltati che gioivano al minimo spruzzo d'acqua?

«Ma certo... I Teleri sono la soluzione!» esclamò raggiante.

«Chi?» domandò Manwë, del tutto ignaro dell'esistenza di una terza fazione di Elfi.

«Mi sa che sono quelli che abbiamo lasciato a terra... L'avevo detto che mi sembravano poco svegli» considerò Ulmo, pensieroso.

«Proprio loro! Andateli a prendere, vi garantisco che li farete felicissimi!».

«Non vedo perché qualcuno dovrebbe essere felice di riparare tubature gocciolanti per l'eternità» brontolò Manwë, poco convinto.

«Fidati, li ho visti con i miei occhi: per loro ricevere una fucilata di SuperLiquidator in un occhio equivale ad un gesto di amore eterno...».

«Oh beh, quand'è così...» bofonchiò Ulmo. «Mi dirigo subito verso la Terra di Mezzo e recupero 'sti disperati! Torno in un baleno!». Detto ciò si incamminò verso l'uscio e sparì barcollando.

«Bene, vado anche io: ho delle questioni serie a cui badare» disse Finwë, lanciando un'eloquente occhiata di sdegno alla bottiglia che Oromë nascondeva ancora dietro la schiena. Si voltò e lasciò la sala.

Non appena furono soli, i Valar si sfregarono le mani compiaciuti e cominciarono a preparare i tavolini per il torneo di burraco. Manwë si lasciò scappare un gran sospiro di sollievo mentre Aulë crollava letteralmente su una sedia, tremando. Tutte quelle emozioni non facevano per lui!

 

Così Ulmo si recò presso le bocche del Sirion, e da lontano vide che i Teleri erano tristi e sconsolati. Per quanto si fossero affrettati a raggiungere la costa, abbandonando anche la ricerca di Elwë, non erano riusciti ad imbarcarsi in tempo sull'isola-traghetto. La loro mestizia era immensa: trascorrevano le giornate fissando l'orizzonte e cantando canzoni malinconiche (quello che facevate a Cuiviénen insomma. Gran bel salto di qualità, bravi... N.d.A.).

Per consolarsi avevano cominciato a costruire un monumentale mulino ad acqua (del tutto inutile) e un complesso sistema di irrigazione per i campi nel Beleriand, ma nemmeno queste esaltanti attività ludico-idrauliche erano riuscite a risollevare l'umore degli affranti, dimenticati Teleri.

Olwë, poi, era diventato intrattabile: fra la sparizione di suo fratello e il destino di eterni imbecilli abbandonati sulla banchina con la valigia in mano, non sapeva cosa fosse peggio (io un'idea ce l'avrei, e sicuramente non è l'assenza di Elwë. N.d.A.).

La loro unica compagnia in quelle lande deserte era costituita da Ossë. Il Maia aveva cominciato a provare affetto per quei tristi Elfi che abitavano lungo le sponde a lui affidate, e spesso trascorreva il suo tempo con loro. Inoltre, con la scusa di andare a controllare come stavano i Teleri, riusciva anche a fuggire da quella lagna di sua sorella Uinen, che ultimamente stava diventando persino più piagnucolosa e complessata di prima.

Il cuore di Ossë piangeva alla vista dei Teleri così abbattuti, e per provare ad alleviare la loro sofferenza aveva cercato di distrarli: all'inizio tentò di rallegrarli con la musica, ma essendo un pessimo flautista era solo riuscito ad angosciarli di più. Allora decise di insegnare ai Teleri i segreti della pesca sportiva, e questo espediente parve funzionare meglio: se non altro le grigliate di pesce costituivano un momentaneo diletto.

Ma sempre la tristezza e l'abbandono albergavano nei cuori dei Teleri. Così, quando videro Ulmo comparire all'orizzonte trainando l'isola-traghetto, non credettero ai loro occhi ed esultarono grandemente.

«Ulmo! ULMO! È tornato Ulmo!» gridavano.

«È troppo bello per essere vero, non posso crederci!».

«Sono così felice! Ho aspettato per secoli questo giorno!».

Ulmo, che era abituato a sentirsi accogliere da esclamazioni tipo ''oh, è arrivato il panzone'', rimase perplesso e lusingato.

«Eddai, lèvati, panzone! Facci salire!» esclamò Olwë, gettando all'aria la canna da pesca e il cestino delle esche.

Ulmo, ferito nell'orgoglio, lo guardò freddamente e si rivolse agli Elfi in tono glaciale.

«Voi Teleri avete perduto la prima occasione per raggiungere Aman. Tuttavia, la generosità dei Signori dell'Occidente è grande, e vi viene offerta una seconda possibilità. Volete dunque imbarcarvi?».

«E che chiedi a fare?» rispose felicissimo un Telerio.

«Certo che sì!».

«Finalmente!».

«Non vedevo l'ora!».

«E allora poche chiacchiere e partiamo, avanti!» li esortò Olwë, che aveva già in spalla lo zainetto da campeggista.

«Ma... Sire...» si intromise timidamente un Telerio «...e il principe Elwë?». Olwë lo guardò con disprezzo.

«Ti faccio notare che è precisamente per colpa di quella piaga di Elwë che siamo rimasti qui come turisti in ciabatte per secoli!».

«Mio Sire, temo che tu non abbia compreso la mia obiezione» ribatté con calma il Telerio. «Intendi dunque partire senza aver ritrovato Elwë, e senza avergli dato tante di quelle giuste legnate da farlo pentire per sempre di essere venuto al mondo?».

La giustezza di questa osservazione ammutolì Olwë, che rimase pensieroso. In effetti l'idea che Elwë restasse impunito dopo tutte le iatture che si erano susseguite a causa sua non lo lasciava soddisfatto. Tuttavia, la prospettiva di rimanere ancora nella Terra di Mezzo sulle tracce di un abietto individuo dai capelli grigio-topo era molto più demoralizzante... Olwë si morse un labbro, indeciso.

«Sto ancora aspettando una risposta, Elfi» bofonchiò Ulmo, giusto per semplificare le cose ed allentare la tensione.

In quel momento un piccolo gruppo di Teleri si fece avanti, con un'espressione determinata. Uno di essi si rivolse ad Olwë: «Sire, abbiamo compreso il dubbio che lacera il tuo cuore. La nostra gente deve partire per l'Occidente, e non può farlo senza la guida di Olwë, il più amato e il più nobile Re dei Teleri».

Olwë li fissò in silenzio, cominciando a capire.

«Eppure i Teleri hanno un altro Sire, un Telerio infimo e odiato da tutti, la cui esistenza ha offeso l'occhio stesso di Eru. Noi resteremo qui, e lo cercheremo, e lo troveremo, e ti giuro solennemente che le nostre mani lo percuoteranno fino a che il nostro capriccio ci sosterrà».

Questo discorso fu accolto da un applauso commosso da tutti i Teleri. Olwë, molto emozionato, si rivolse all'Elfo che aveva così degnamente parlato: «Dunque voi rinunciate all'Occidente, vi sacrificate per seguire una più nobile causa. Olwë non dimenticherà quanto state facendo per lui e per il suo popolo», e gli strinse solennemente la mano.

Ulmo rimase un po' in disparte, ad osservare confuso quello strano giuramento. Infine si schiarì la voce ed intervenne: «Voi sarete da ora chiamati Eglath, che vuol dire ''Il Popolo Abbandonato Nonché Molto Impaziente di Menar Le Mani'', e non vedrete mai la Luce degli Alberi di Aman. Ma ora è tempo che si parta, Elfi. Imbarcatevi sull'isola!».

Udito ciò, i Teleri trotterellarono allegri verso la gigantesca imbarcazione. Ma Ossë li guardava, e piangeva dentro di sé. La sua espressione addolorata colpì Olwë, che facendo sfoggio di grande pazienza indugiò ancora una volta e lo interrogò: «Che ti prende, Ossë, perché stai per piangere?».

Il Maia si sforzò di trattenere le lacrime, mentre Olwë gli faceva gentilmente ''pat-pat'' sulle spalle, buttando gli occhi al cielo, impaziente.

Infine rispose: «È che mi mancherete! Era bello stare con voi Teleri, tutti in compagnia... Il barbeque sulla spiaggia... Le gare di pesca alla triglia con te, Olwë... E adesso questo posto sarà di nuovo vuoto, e queste sponde di nuovo silenziose... e io di nuovo solo... Non avevo mai avuto degli amici!».

Olwë rimase un attimo imbarazzato, non sapendo cosa rispondere. In fondo era vero: il Maia era stato un buon amico per loro durante tutti quei secoli di solitudine. Non se la sentiva di rispondergli ''va' al diavolo e lasciaci partire'', gli sembrava in qualche modo indelicato.

Un secondo gruppetto di Teleri si scambiò delle occhiate colme di comprensione (''occhiate colme di comprensione'' significa che si guardano con aria compassionevole, non che si stanno lanciando l'un l'altro dei pesci altruisti. Bisogna sempre specificare, quando si tratta dei Teleri. N.d.A). Gli Elfi si annuirono a vicenda, poi cercarono con lo sguardo l'approvazione di Olwë, che alzò le spalle come a dire ''prego, tanto oramai...''.

«Ossë, non piangere, dài... Restiamo noi con te!».

Ossë, che si era seduto su un sasso nascondendo la testa fra le mani, sollevò il volto con un sorriso raggiante.

«Davvero? Restate?».

«Sì... Tu sei nostro amico! E poi in fondo che ci sarà mai di così bello a Valinor? La Luce, la beatitudine, la pace, vabbè... Ma no, noi preferiamo bivaccare in eterno su una spiaggia gelida, senza un riparo, cibandoci solo di pesce, da soli in tutto il continente... ah!, e al buio, dato che abbiamo solo 'ste quattro stelle a farci luce!» rispose allegro un Telerio.

«E va bene...» disse Ulmo, sempre più perplesso. «Allora voi da oggi vi chiamerete Falathrim, che significa ''Elfi delle Falas e Contenti Voi Contenti Tutti''. Adesso possiamo per favore partire? A Valinor vi aspettano, e dubito che siano disposti a pazientare ancora per molto...».

Olwë sospirò e diede un'occhiata al suo popolo. Fra Eglath e Falathrim ne aveva perso un bel pezzo, ma in quel momento non se ne preoccupava molto. Voleva solo partire, non gli importava di quanta gente che avrebbe lasciato nel Beleriand (Olwë, stai diventando egoista ed odioso come tuo fratello, stai attento e sappi che ci metto cinque minuti a rovinarti il personaggio per sempre. N.d.A) (Ma è colpa di Elwë se sto peggiorando così, mi ha rovinato la vita e il carattere e tu lo sai. N.d.Olwë) (Vedi? Già cominci ad addossare le colpe agli altri... Andiamo male, malissimo! N.d.A.).

 

Accadde così che i Teleri cominciassero finalmente, in ritardo di millantamila anni, la traversata verso Occidente. La giornata era serena e l'umore generale era disteso, ed Olwë si stava finalmente godendo un momento di relax, pregustando la pace delle Terre Beate (povero illuso. N.d.A). I Teleri erano felicissimi: avevano raggiunto la Baia di Eldamar ed erano già in vista delle Montagne di Aman - stavolta prive di sculture di piedi – , quando una voce risuonò alle loro spalle.

«Amici! Amici, fermatevi!» gridò Olwë, nuotando a tutta velocità dietro di loro.

Nello scorgere la famigliare faccia barbuta emergere dal mare, i Teleri furono invasi da preoccupazione.

«Oddio, e questo che vuole ora?».

«Non lo so, ma ha detto ''fermatevi'' ed io non voglio fermarmi!» strillò Olwë, improvvisamente isterico. «Ulmo, per carità, accelera!».

Ulmo ci pensò un attimo: era meglio realizzare il desiderio del fedele Ossë e fermarsi, oppure dare retta al consiglio urlato di Olwë ed accelerare?

«Amici Teleri, per favore, fermi! Voglio solo fare una foto d'addio...!» piagnucolò il Maia.

«Ti prego, ti prego, accelera o non ce lo togliamo più di torno!» ululò Olwë.

Ulmo decise di assecondare l'Elfo e tirò in avanti la leva che regolava l'accelerazione dell'isola-traghetto. Quest'ultima ebbe un sussulto, emise un rumore di ferraglie stridenti e si arrestò di colpo. Ulmo rimase con la leva in mano, pietrificato. Sarebbe bastata una sola parola, «IKEA» per spiegare la situazione, ma nessuno la pronunciò.

«Sapevo che vi sareste fermati» esclamò radioso Ossë, raggiungendoli. «Adesso potrò venire a trovarvi su quest'isola ogni volta che vorrò!» gongolò.

Ulmo non ebbe il coraggio di contraddirlo. I Teleri avevano l'aria disperata di chi avrebbe accettato anche l'apocalisse immediata senza la minima obiezione. Olwë se ne stava in piedi, rigido come un nano da giardino, e guardava le ormai vicinissime terre di Aman con il cuore a pezzi. Solo il suo alto lignaggio gli impedì di piangere di fronte a tutti... Sentiva comunque che da quel giorno avrebbe odiato Ossë e il suo affetto fuori luogo. .

 

L'isola non fu mai più rimossa e rimase là, sola, nella Baia di Eldamar; e fu chiamata Tol Eressëa, l'Isola Solitaria (tutte le cose che riguardano i Teleri hanno nomi allegrissimi: il popolo abbandonato, l'isola solitaria... N.d.A.). Lì i Teleri dimorarono come desideravano sotto le stelle del cielo, e tuttavia in vista di Aman e della riva immortale; e questo lungo soggiornare appartati nell'Isola Solitaria causò la separazione della loro lingua da quella che parlano i Vanyar e i Noldor (tanto per cominciare i Noldor parlano in Noldorin e i Vanyar in Vanyarin... E poi me lo voglio proprio godere questo primo incontro fra gli Elfi di Aman ed i Teleri analfabeti e balbettanti! N.d.A.).

 

Nello stesso momento, nel Beleriand, alte voci risuonavano fra gli alberi.

«Elwëëëë! Elwë!».

«Dove sei, Elwë? Rispondi!».

«Elwë Thingol, Cappuccetto Grigio, esci fuori! Elwë».

Fedeli al loro giuramento, gli Eglath si erano messi sulle tracce dell'odioso fratello di Olwë. Nonostante il mistero che aveva circondato la sua sparizione, una cosa era certa: quel citrullo era troppo pigro e troppo sprovvisto di orientamento per essersi allontanato oltre il bosco di Nan Elmoth. Fu dunque lì che i suoi inseguitori concentrarono le ricerche.

Prevedibilmente, Elwë si trovava proprio in mezzo al bosco, intento a rubare le ghiande dalla dispensa invernale di uno scoiattolino: ce l'aveva con gli scoiattoli da quando uno di loro aveva osato deridere i suoi capelli.

«Tesoro, credo che qualcuno ti stia chiamando» disse Melian, che era invece impegnata a masticare chewing-gum e a limarsi le unghia - e quindi non era affatto impegnata.

Elwë drizzò le orecchie, sorpreso ed incredulo.

«Elwë, per favore, rispondi!» sentì gridare. Il cuore gli balzò in gola.

Allora non l'avevano abbandonato... Allora era importante per il suo popolo, erano rimasti a cercarlo!

«Melian! Hai sentito? I miei compagni Teleri sono tornati a cercami!» esclamò, la voce colma di emozione.

«Vuoi andare da loro?» gli chiese la Maia.

Elwë aprì la bocca per risponderle, ma non disse nulla. La tentazione di riabbracciare i suoi amici era forte, soprattutto ora che si stavano dimostrando così affezionati... Ma se fosse uscito da quel bosco, Melian...

«Se vuoi riunirti al tuo popolo, io verrò con te, Elwë» disse Melian. L'Elfo le rivolse uno sguardo carico d'amore e di gratitudine ('sti due si amano davvero... Non li capisco. Non capisco Melian, più che altro... N.d.A).

Felice di aver salvato capra e cavoli, Elwë fece per uscire dalla radura, camminando a grandi passi impazienti, ma proprio in quel momento il gruppetto degli Eglath emerse dagli alberi. Si accorsero subito di Elwë e Melian e li guardarono in silenzio, indecisi sul da farsi.

«S... salve!» disse infine Elwë, con un gran sorriso.

«Salve a te, straniero» rispose cortese uno degli Eglath. «Ma questo chi è? Credevo che fossimo gli ultimi Elfi rimasti sulla Terra di Mezzo...» chiese sottovoce ad un compagno, che scosse le spalle perplesso. Elwë sgranò gli occhi.

«Straniero?» ripeté, deluso. «Ma... Teleri, non mi riconoscete? Sono io, Elwë Thingol, il vostro principe!» esclamò, tornando a sorridere. Forse il tempo aveva indebolito i ricordi della sua gente, e forse era per questo che non l'avevano riconosciuto subito... Di certo ora gli sarebbero corsi incontro gioiosi e commossi di averlo finalmente ritrovato...

Gli Eglath scoppiarono a ridere sguaiatamente in coro. Melian guardò Elwë, che la guardò di rimando, senza capire. Alla fine uno degli Elfi, trattenendo a malapena le risate, disse: «Non essere ridicolo, fratello! Ci ricordiamo benissimo della faccia da schiaffi di Elwë, non gli assomigli affatto! Non hai neanche i capelli color topo come lui, era l'unico ad averli così!» e alla menzione della capigliatura di Elwë gli Eglath scoppiarono a ridere nuovamente, piegandosi in due.

«Ma... Ma...» balbettò Elwë, basito.

Due domande gli affollavano la testa, e stavano larghissime data la vacuità della testa di Elwë: uno; perché quegli Elfi parlavano di lui in toni tanto offensivi? E due... com'era mai possibile che non assomigliasse a se stesso?

Entrambe le domande sarebbero sicuramente rimaste senza risposta se Melian non fosse accorsa in aiuto dell'ottuso marito: «Tesoro, ti ho mai parlato della Proprietà Intransitiva della Beata Strafigaggine?» chiese.

Elwë, ancora assorto, si voltò verso di lei con aria smarrita.

«No, mai» rispose.

«Beh, la Proprietà Intransitiva della Beata Strafigaggine è un potere magico dei Maiar» spiegò lei. «Consiste nel fatto che se un Maia trascorre molto tempo con una creatura di rango inferiore come un Elfo (Melian, non è che tutti gli Elfi siano inferiori come tuo marito, eh. N.d.A) gli trasmette un po' della sua figaggine leggendaria. Nel tuo caso... Beh, sei meno brutto, e più alto».

Elwë, allibito da quella rivelazione, si affrettò a controllare la propria altezza: in tutti quei secoli di convivenza con Melian non ci aveva mai fatto caso.

«Ma... e quindi anche....?».

«Sì, anche i capelli. Ti sono diventati argentati!» concluse Melian, chiaramente soddisfatta degli effetti della Proprietà Intransitiva della Beata Strafigaggine su quello sgorbio di suo marito. Essere una Maia dava tante soddisfazioni, dopotutto.

Elwë non riusciva a parlare. Il sogno di una vita intera... Sbarazzarsi dei suoi capelli color topo... Incredulo, si prese una ciocca fra le dita e la osservò: erano argentati! Nessuna traccia di grigiume!

Quella vista gli fece mancare il fiato e quasi gli fermò il cuore. Si voltò verso Melian, ed ancora una volta la guardò con una gratitudine al di là di ogni parola (ok, io tralascio il fatto che Elwë non si accorge neanche dei capelli che gli cambiano colore... Però ho un dubbio: questa influenza benefica dei Maiar sugli Elfi funziona un po' come i morsi dei vampirla in Twilight? Se un vampirla ti morde diventi un pezzo di figo stratosferico anche se prima eri una cozza indicibile... È la stessa dinamica, no? Professore! N.d.A.) (Signorina, la mia coscienza è pulita: il fenomeno da lei descritto è una sua personale invenzione, nella quale io non ho alcuna responsabilità. N.d.MaestroTolkien) (No Professore, mi duole contraddirla ma 'sta cazzata l'ha proprio partorita lei. Pagina 85: ''...i capelli grigi come l'argento, e di statura superiore a quella di tutti i Figli d'Iluvátar...''. N.d.A) (… .N.d.MaestroTolkien).

Gli Eglath, ancora scossi dalle risate, non si erano accorti di questa conversazione. Quando si furono riscossi dalla loro ilarità, Elwë si rivolse loro: «Ditemi, perché state cercando il principe minore dei Teleri?».

Essi gli risposero: «Perché abbiamo prestato giuramento presso il Re Olwë, e non conosceremo pace fino a che non avremo ritrovato suo fratello».

Il petto di Elwë si gonfiò di felicità.

«E quando lo avremo trovato gli infliggeremo tante legnate quante se ne è meritato con la sua stolta esistenza» conclusero gli Eglath. La solennità con cui parlavano lasciava intendere che avevano preso molto sul serio la loro missione.

Elwë credeva che la terra si stesse sbriciolando sotto i suoi piedi, ma forse era semplicemente il suo cuore a sbriciolarsi (precisiamo che queste sono frasi di Elwë e che io non sono responsabile per le vaccate che dice o che pensa. N.d.A). Stava per abbandonarsi ad uno sfogo disperato, urlando tutta la sua rabbia e la sua delusione agli Elfi, ma Melian lo fermò in tempo.

«E voi e il vostro Re avete ragione a desiderare la persecuzione di Elwë Thingol, essendo egli un Elfo sciocco e davvero miserevole» disse in tono fermo, sotto lo sguardo scandalizzato di Elwë. «L'Elfo che mi sta a fianco e che è il mio sposo si chiama infatti Welwë Mantogrigio: grande è il suo valore, e mai vorrebbe che lo si confondesse con l'ignobile fratello di Olwë, che da sempre è conosciuto come Cappuccetto Grigio».

Gli Eglath rimasero molto colpiti dal discorso di Melian - ma soprattutto rimasero colpiti da Melian, la cui divina bellezza di Maia li incantò: ella pareva infatti Monica Bellucci, sebbene più giovane e più abile nella recitazione.

«E dunque se tu lo permetterai resteremo con te e con il nobile Welwë in questi boschi, giacché non desideriamo abitare da soli nella vasta Terra di Mezzo» disse in tono ossequioso uno degli Eglath. Gli altri annuirono e si inchinarono con riverenza.

Melian, soddisfattissima di aver rigirato la frittata così magistralmente, si voltò non vista verso Elwë e gli strizzò l'occhio, facendo per battergli il cinque. Elwë parve offeso, ma un istante dopo scrollò le spalle e batté il cinque alla sua sposa: meglio la farsa di Welwë Mantogrigio che le legnate interminabili che altrimenti l'avrebbero aspettato...

 

Welwë Mantogrigio divenne un re famoso e il suo popolo fu l'insieme di tutti gli Eldar del Beleriand; Sindar erano detti, gli Elfi Grigi Ma Non Troppo, gli Elfi del Crepuscolo (e di nuovo con i nomi allegri... Che poi ''crepuscolo'' = ''twilight''! Professore, vede che le mie supposizioni di poco fa erano corrette? N.d.A.) (In tutta onestà non saprei cosa dirle... Però se non altro i miei personaggi hanno il buongusto di non luccicare al sole. N.d.MaestroTolkien) (Non è vero, Galadriel lo fa. E anche Lúthien, credo... N.d.A.).

 

Così accadeva che Elwë rimanesse a vivere nella Terra di Mezzo, e che Olwë con i Teleri restasse suo malgrado sull'isola di Tol Eressëa, con la non richiesta compagnia fissa di Ossë. Ulmo aveva infatti ancorato l'isola al fondo del mare (o meglio, non c'era più stato modo di farla ripartire) e se ne era lavato le mani, salutando i Teleri e scomparendo nell'Oceano.

 

I Valar furono ben poco soddisfatti di apprendere ciò che aveva fatto, e Finwë si addolorò quando i Teleri non giunsero, e ancora più quando capì che avrebbe dovuto trovare un altro modo per risolvere quello strazio delle tubature che perdevano. Il più addolorato di tutti fu tuttavia Aulë, che fu costretto dal governo e dal popolo congiunti a riparare casa per casa tutti gli impianti idraulici, pena la lapidazione. Aulë, per altro, soffriva da sempre di reumatismi cronici ed il lungo lavoro fra tubi e idranti ne compromise per sempre la salute.

 

Ai Vanyar e ai Noldor i Valar avevano dato una terra ed una dimora. Ma persino tra i fiori radiosi dei giardini di Valinor illuminati dagli Alberi essi talvolta desideravano vedere ancora le stelle (piccoli bastardi incontentabili. N.d.Manwë) (Più che altro apprezzo l'acume di Varda, che ha sospeso le stelle solamente sopra la Terra di Mezzo e non sopra Valinor, costringendo me e il Professore a contorti artifizi narrativi pur di fare rivedere le stelle agli Elfi. N.d.A) (Smentisco: io me ne sono uscito semplicemente con «fu aperta una breccia nelle grandi muraglie dei Pelóri» e tanti saluti. N.d.MaestroTolkien).

Un dì alcuni Noldor particolarmente versati per le arti pirotecniche (i talenti dei Noldor: le esplosioni, l'industria bellica, i gioielli maledetti... N.d.A.) si stavano esercitando su una collina. In loro compagnia c'era anche un gioviale vecchietto dalle origini non troppo chiare chiamato Olórin, ma che da tutti era conosciuto come Gandalf.

«Allora ragazzi» disse l'anziano signore, dando una grande boccata alla sua pipa «al mio tre sparate, d'accordo?».

«Gandalf, sei sicuro che questo sia proprio il posto giusto per provare i tuoi nuovi fuochi d'artificio a forma di drago?» domandò un Noldo, non molto convinto.

«Sciocco di un Tuc!» sbraitò Gandalf irato, ma nessuno dei Noldor capì con chi ce l'avesse - e non si posero nemmeno il problema, abituati com'erano alle affermazioni incomprensibili di Re Finwë. Il vecchietto afferrò una miccia collegata ad un colossale razzo e le diede fuoco.

Un gigantesco drago di folgore esplose sulla collina e si lanciò diritto verso la montagna davanti a lui. Ci fu un boato terrificante e quando i Noldor riaprirono gli occhi e si stapparono le orecchie videro un'enorme breccia nel fianco della sacra Montagna di Aman.

«Cazzo, i Pelóri no... Quelli ci tengono un sacco!» esclamò preoccupatissimo un Noldo. L'attaccamento dei Valar alla loro catena montuosa personale era famosissimo presso tutti gli abitanti di Aman.

«Gandalf! È stata una tua idea!» disse infuriato un altro Noldo. Il vecchio dinamitardo era tuttavia occupato a riporre il proprio sacchetto di erba-pipa al sicuro: nel suo caso il sacchetto era stato sostituito da un più capiente borsone. Canticchiava canzoni in lingue ignote e faceva anelli di fumo a forma di dodecagono (mi rendo conto che l'espressione ''anello a forma di dodecagono'' non abbia alcun senso, ma neanche Gandalf ne ha molto. N.d.A).

I Noldor si stavano consultando sul disastro ambientale appena provocato, quando udirono un sibilo nell'aria. Il fischio si fece sempre più intenso, e all'improvviso qualcosa attraversò sfrecciando la breccia nei Pelóri.

«Via, via, via!» urlò un Noldo. Fecero appena in tempo a disperdersi quando un enorme tonno atterrò con uno schianto al centro della radura.

«Credo che i Teleri non abbiano gradito il drago... e nemmeno l'esplosione e la frana» considerò un Noldo, benché perplesso. In effetti Tol Eressëa si trovava proprio al di là della catena montuosa, per cui era probabile che i giochi pirotecnici di Gandalf, oltre ad aprire un cratere nella montagna, avessero anche fatto precipitare tonnellate di roccia addosso agli abitanti dell'Isola Solitaria.

Un po' meno comprensibile era che questi ultimi avessero manifestato la loro collera catapultando tonni su Valinor, ma tutto sommato era una rappresaglia adeguata allo stile dei Teleri.

 

...Così fu aperta una breccia nelle grandi muraglie dei Pelóri, e là, nella profonda vallata che scendeva verso il mare, gli Eldar innalzarono un alto colle verde: Túna, lo chiamarono, in onore del tonno che vi era precipitato (''tuna'' significa ''tonno'' in inglese e l'immagine degli Elfi che abitano sulla schiena di un tonno mi ha sempre fatto ridere moltissimo. N.d.A.). Da ovest la luce degli Alberi cadeva su di essa e la sua ombra si proiettava sempre verso est; e a est dava sulla Baia della Casa degli Elfi, sull'Isola Solitaria e sui Mari Ombrosi (panorami felicissimi. Era quasi meglio se dava direttamente sul Monte Fato. N.d.A). Poi, attraverso il Calacirya, il Passo di Luce, si riversava lo splendore del Paese Beato accendendo d'oro e d'argento le onde scure, lambendo l'Isola Solitaria la cui riva occidentale diveniva verde e chiara, con grande gioia dei Teleri della zona orientale che avrebbero gradito almeno un po' di luce e invece si sono beccati l'ombra e il freddo... e pure Ossë.

Sulla cresta del TúnaTonno venne costruita la città degli Elfi, le mura e i contrafforti bianchi di Tirion: ovviamente fece tutto Aulë come al solito, dato che quei radical chic degli Elfi non mossero un dito. La la più alta delle sue torri era la Torre di Ingwë, Mindon Eldaliéva, anche se questo fu sempre un mistero per tutti, data l'inutilità sociale di Ingwë. Egli, pur non avendo alcuna rilevanza ai fini della storia, fu proclamato Re Supremo degli Eldar.

«È un mistero anche per me, non ve lo nascondo», sospirò Ingwë.

A Tirion sopra il Tonno i Vanyar e i Noldor vissero a lungo insieme, e di tutte le cose di Valinor essi amavano sopratutto l'Albero Bianco...

«Vi piace? Ve ne faccio un altro uguale!» esclamò un giorno Yavanna, felice di potersi rendere utile. Le sue buone intenzioni vennero però guastate dalla sua grande incapacità: creò sì una copia di Telperion, ma fu veramente una pessima copia. Non emetteva luce, perdeva pezzi e puzzava anche un po' di colla.

I Vanyar e i Noldor finsero tuttavia di apprezzare il dono, anche se i Noldor fallirono miseramente nel tentativo di dissimulare il disgusto. Chiamarono quel brutto albero Galathilion, che in Quenya significa ''Ora ci tocca tenerci 'sto aborto per sempre o Yavanna si offende a morte''. Galathilion venne piantato nelle corti sottostanti la Mindon e il lavoro fu affidato ai Noldor, con la speranza che essi lo piantassero così sgarbatamente da renderlo incapace di riprodursi. Disgraziatamente invece l'albero fiorì, con grande disappunto di tutti, e ad Eldamar i suoi polloni furono numerosi.

Per Natale i Noldor regalarono un germoglio di Galathilion anche ai Teleri, che accettarono quel dono con riluttanza e non riuscirono mai a rigirarlo ai parenti. Fu piantato su Tol Eressëa, dove prosperò e venne chiamato Celeborn...

«La sua fantasia in fatto di onomastica mi sgomenta, Professore» disse acido Celeborn, quello di Lothlórien. Il fatto di essere stato chiamato come l'orrido albero dei Teleri non lo rendeva affatto felice.

«Quante storie... È un nome nobile ed antico, dovresti apprezzare» ribatté imbronciato il professor Tolkien.

«Apprezzare? Come no! Lei, Professore, si ricorda che si è preso la briga di inventare una dozzina di dialetti elfici, vero? Quenya, Noldorin, Vanyarin, Telerin, Sindarin...».

«Sì... Piccoli divertimenti perversi da filologi, lo ammetto. Ma che c'entra?».

«C'entra, perché in Sindarin ''Celeborn'' si dice ''TELEPORNO''! Le sembro un canale a luci rosse, Tolkien?!» urlò furioso Celeborn.

Il Professore arrossì fino alle orecchie e si affrettò ad allontanarsi, borbottando qualcosa sulle rotazioni consonantiche e sulle isoglosse del Sindarin (qua mi sono concessa un paio di chicche che solo i linguisti e i filologi fra i lettori potranno apprezzare appieno. Gli altri si ritengano fortunati in quanto scampati ad un destino atroce... N.d.A).

Altri semi dell'Albero Bianco vennero piantati in giro per il mondo. Ciò che né Yavanna né gli Elfi né nessun altro ad Aman poteva sapere era che Galathilion ed i suoi germogli, oltre ad essere bruttissimi ed inutili, portavano con sé una maledizione spaventosa: spandevano infatti tutt'intorno una tale sfiga da condurre alla rovina sicura gli sfortunati proprietari.

Si vedano, al riguardo, i catastrofici destini di Aman (devastata da Melkor di lì a breve, Alberi compresi); dei Teleri (Fëanor che arriva e taglia la testa a tutti ad Alqualondë); di Númenor (disintegrata da un'Alabarda Spaziale di Iluvátar e sprofondata nell'oceano) e soprattutto di Gondor (Aragorn... e ho detto tutto). In seguito a queste vicende, oggi gli Elfi e gli Uomini sono molto timorosi del potere funesto dell'Albero Bianco, e rabbrividiscono ogniqualvolta scorgono qualcosa che gli assomigli, anche un innocente giglio.

 

Manwë e Varda prediligevano i Vanyar, gli Elfi Chiari, ed odiavano i Noldor che erano troppo al di sopra delle loro capacità intellettive; i Noldor però erano cari ad Aulë, ed egli e il suo popolo si recavano spesso tra loro.

«Ignoro quale sia il popolo di Aulë qui citato, spero solo non si tratti dei Nani...», disse il Professore.

Grande divenne la sapienza e l'abilità dei Noldor; ma ancora maggiore fu la loro sete di conoscenze nuove ed in molte cose superarono ben presto i propri maestri. Operavano mutamenti linguistici giacché per le parole nutrivano una vera passione (oh... mi sento molto Noldo! N.d.A.), ed erano sempre alla ricerca dei nomi più adatti per tutte le cose che conoscevano o che immaginavano.

«Ehi, Ingwë! Qu'est-ce qu'it is what sinä sie gehen chomh tapaidh?».

«EH?».

«Ciupa!».

«Ehi, Yavanna! Cofomefe lafa vafa ofoggifi?».

«Ehi, Manwë! Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, trentatrè trentini entrarono a Trento tutti e trentatrè trotterellando, al pozzo dei pazzi una pazza lavava le pezze, andò un pazzo e buttò la pazza con tutte le pezze nel pozzo dei pazzi... li vuoi quei kiwi? Filastrocca sciogligrovigli con la lingua ti ci impigli ma poi te la sgrovigli basta che non te la pigli».

Scambi di battute come questi, che spesso costarono quasi l'esilio a Finwë ed alla sua razza di linguisti mentalmente deviati, erano fra i passatempi più amati dai Noldor.

 

E accadde che i muratori della casa di Finwë, cavando pietre tra le colline (poichè essi si dilettavano a costruire alte torri), scoprissero per primi le gemme della terra e le estraessero in quantità innumerevoli.

«Sire, sire! Guarda cosa abbiamo trovato!» gridò un giorno un Noldo operaio (ah, siete organizzati come le api? Noldo operaio, Noldo soldato, Noldo regina... Dormite anche nelle cellette? N.d.A.) correndo verso Finwë. Quest'ultimo stava supervisionando la costruzione di una torre in compagnia di Míriel, sempre più in dolce attesa. Si voltò verso l'operaio e rimase abbagliato dalle gemme splendenti, magnificamente colorate, che quest'ultimo portava in mano.

«Poffarbacco» disse Finwë, affascinato.

«Ahi!» gridò Míriel.

«Che succede?»

«Il bambino... Mi ha tirato un calcio!».

«Al principino piacciono le gemme, Signora?» chiese cortese l'operaio.

Míriel si incupì senza sapere ancora perchè...

 

Va qui narrato di come i Teleri giunsero alla fine nella terra di Aman.

«Buongiorno, amici! Magnifica giornata, vero?» esclamò un giorno Ossë sorgendo dall'acqua davanti a Tol Eressëa.

«Cia' »bofonchiò abbattuto Olwë. Lui ed i Teleri se ne stavano sulla spiaggia, mogi mogi e con un broncio che arrivava al terreno.

Maia di grande acume, Ossë domandò: «Che vi prende?».

«Ossë, per carità, risparmiaci almeno il teatrino... È da secoli che ce ne stiamo su quest'isola a girarci i pollici. Non desideriamo altro che andare ad Aman, ma ormai... Dovremmo rassegnarci e basta». Olwë era davvero tristissimo. Ragionando a lungo sulla sua esistenza, si rese conto che tre quarti del suo tempo li aveva trascorsi ad aspettare, e che lui e il suo popolo erano gli unici Elfi a non avere ancora messo piede sulle Terre Beate. Eppure erano così vicini!

L'isolamento era già abbastanza deprimente, ma a peggiorare le situazione erano intervenuti come al solito i Noldor: essi si dilettavano infatti ad inviare messaggi di luce tramite il faro di Tirion. Il messaggio più recente che i Teleri avevano ricevuto da Aman diceva: «Ciao, mattacchioni! Abbiamo inventato uno nuovo nome per il vostro popolo: ''CheBarbaCheNoia!''. Baci da Tirion».

La vita si stava rivelando davvero un fardello pesante per Olwë e la sua gente. Da quando erano stati costretti ad abitare su Tol Eressëa Ossë era diventato ancora più morboso: li andava a trovare cinque volte al giorno e li stordiva di chiacchere fastidiose ed assolutamente non richieste.

Molte volte i Teleri avevano tentato di costruire delle zattere per attraversare il breve braccio di mare che li separava da Aman, ma erano pessimi artigiani e le loro imbarcazioni si rompevano sempre e colavano a picco. Come se non bastasse, ogni volta che Ossë sospettava che gli Elfi stessero per lasciare l'Isola, abusava dei suoi poteri di vassallo del mare e scatenava violente tempeste, costringendoli a restare.

Vivere era ormai un incubo ad occhi aperti per i Teleri (poveri, in fondo provo solidarietà per loro. Anche io sono relegata su un'isola che odio con tutto il cuore... N.d.A). La speranza li aveva abbandonati da tempo, così quasi non credettero alle parole di Ossë quando egli parlò loro.

«Beh... Dovreste rallegrarvi, allora. Ho qui un documento ufficiale da Manwë, dice che vi devo portare subito a Valinor».

«Risparmiaci almeno gli scherzi se ci vuoi un po' di bene, Ossë...».

«Vi garantisco che non sto scherzando!» ribattè il Maia. Era diviso fra sentimenti contrastanti: questa volta avrebbe dovuto salutare i Teleri per sempre, e la cosa lo addolorava moltissimo. Tuttavia non si sarebbe mai sognato di disobbedire ad un ordine di Manwë: era pur sempre un Maia, e la cieca obbedienza al potere faceva parte della sua stessa natura.

Così, sebbene increduli e scoraggiatissimi, i Teleri diedero fede alle parole di Ossë.

«D'accordo, ti credo, ma come pensi che potremo raggiungere Valinor?» domandò Olwë. «Quest'isola da due soldi non si muove più, e noi non siamo capisci di costruire qualcosa che non vada a fondo dopo trenta secondi...».

«Ho pensato anche a questo» rispose il Maia. Sollevò il braccio sopra il mare e subito apparvero moltissimi grandi volatili bianchi.

«Quack!» dissero.

«Papere?» chiese Olwë, sgomento.

«Sono cigni! Non si vede?».

«Onestamente no... A me sembrano proprio papere».

«Ah, diamine, nessuno vi leggeva le favole da piccoli? Diventeranno dei cigni stupendi!» sbottò il Maia, ferito nell'orgoglio. Detto ciò balzò in groppa ad una papera, che protestò irritata, e le si aggrappò saldamente.

«Fate come me!» esclamò. I Teleri, la cui volontà era ormai ridotta ad una tabula rasa, scrollarono le spalle e fecero come Ossë diceva loro.

 

E i cigni trassero i Teleri sul mare senza vento; e così in ultimo e da ultimi (eh vabbè, ma che bisogno c'è di infierire? N.d.I Teleri) essi giunsero ad Aman e alle sponde di Eldamar.

«Ehilà, mattacchioni! Ce l'avete fatta!» dissero i Noldor vedendo giungere Olwë e la sua gente dal mare.

«Però... Sapevo che avevate una perversione per l'acqua, ma addirittura arrivare a dorso di papera...» ghignò un Noldo.

«Sono... cigni» disse altezzosamente Olwë, ignorando la frecciata.

Lì ad Aman essi dimorarono, e se lo desideravano potevano vedere la luce degli Alberi, calpestare le strade dorate di Valmar e calcare le scalee di Tirion sul Túna, il verde colle del tonno; ma soprattutto essi solcavano, con le loro navi veloci (quali navi, visto che non siete capaci di tirare su nemmeno un castello di sabbia? N.d.A.) le acque della Baia della Casa degli Elfi; oppure camminavano nelle onde sulla battigia, con i capelli scintillanti alla luce che promanava da oltre il colle.

Molti gioielli diedero loro i Noldor, opali, diamanti e cristalli pallidi...

«Ho una bruttissima sensazione. Me ne pentirò subito, lo so, lo sento, lo avverto...» disse Finwë fra sè e sè guardando Olwë che si allontanava con un gran cesto di gemme fra le braccia, tutto sorridente.

...ed essi li spasero sulle rive e li disseminarono negli specchi d'acqua.

«L'avevo detto! Che, non l'avevo detto?! Lo sapevo! Me lo sentivo, proprio! Sono deficienti, io lo dico da sempre che i Teleri sono tutti degli IRRIMEDIABILI DEFICIENTI, porco Melkor, porco Manwë, ah Varda Elentári, io gli do le gemme e quelli le buttano in acqu - UN ICTUS! Sarò il primo Elfo a crepare di ictus...!».

E molte perle essi strapparono al mare, e le loro aule erano di perla, e non poteva essere altrimenti: essi sapevano che se si fossero presentati ancora a Finwë richiedendo altri gioielli sarebbero andati incontro a morte sicura; e di perla le dimore di Olwë ad Alqualondë, il Porto dei Cigni (delle Papere. N.d.A.), illuminato da molte lampade.

Quella infatti era la loro città (bella città... è tutta di perla? Se arriva uno con una boccetta di aceto vi si squaglia tutto in dieci minuti, ne siete consapevoli? N.d.A.) e la darsena delle loro navi, le quali erano fatte a guisa di cigni (...dovreste farvene una ragione ed accettarci per ciò che siamo, sarebbe molto maturo da parte vostra. N.d.Papere), con becchi d'oro ed occhi di ambra nera.

«Non so dove questi stolti si siano procurati l'oro e l'ambra, io di sicuro non glieli ho dati», precisò Finwë.

 

Con il trascorrere delle ere, i Vanyar giunsero ad amare la terra dei Valar e la luce piena degli Alberi, e abbandonarono la città di Tirion sul Tonno per abitare di in poi sulla montagna di Manwë, e così si separarono dai Noldor, che non soffrirono affatto della separazione, anzi. Finwë regnava a Tirion e Olwë ad Alqualondë, ma Ingwë era sempre considerato il Re Supremo di tutti gli Elfi, per motivi ignoti a chiunque, Professore compreso. Ed egli abitava quindi ai piedi di Manwë sul Taniquetil, ed il suo popolo dovette sopportare grandi fetori, dato che i piedi di Manwë non erano proprio un bel posto presso cui abitare.

 

Il capitolo si conclude qui: so di aver elegantemente glissato sulle stirpi dei Noldor, ma l'ho fatto solo perchè intendo dedicare loro una gustosa appendice (no, che schifo... L'appendice di chi? N.d.Noldor) quanto prima.

 

***

Note:

 

(*) «Vitti 'na crozza supra nu cannuni, e cu sta crozza mi misi a parra-aari...» = Canzone tipica siciliana, intitolata “Vitti 'na crozza”, “Ho visto un teschio”. Parla di un tizio che fa amabile conversazione con un teschio poggiato su un cannone, non fatemi domande sulla logica di tutto ciò perché non saprei cosa rispondervi.

(**) «Eeeeh, ma vui siti cristianu ranni, io sugnu carusu e va'a purtari rispettu!»= affermazione plausibilmente utilizzabile anche in contesti reali. Chi parla pone in risalto la propria condizione gerarchicamente subordinata («sugno carusu», «sono solo un ragazzino») e di contro sottolinea l'importanza dell'interlocutore («vui siti cristianu ranni», «lei è una persona di una certa età»).

 

Post Scriptum:

 

Buongiorno a tutti voi, lettori e lettrici!

Mi metto nei vostri panni: l'arrivo di questo capitolo deve avervi sorpreso come lo sbarco degli alieni sul terrazzo di casa.

Credetemi, io sono molto più sorpresa di voi. In questi tre anni ed otto mesi ho ricevuto tanti solleciti a continuare la parodia. Ora posso dire che se non l'ho continuata per tutto questo tempo non è stato né per mancanza di tempo né per pigrizia. La motivazione è molto più semplice, anche se meno credibile: non riuscivo a tirare fuori una singola, buona idea. Qua sotto vi allego le foto di tutte le pagine che ho scritto e cancellato in questi anni nel tentativo di scrivere un capitolo che sembrava non dover mai uscire dalla mia penna.

Le ventiquattro pagine che avete appena letto sono il frutto di... una decina di giorni di lavoro. Un paio di settimane fa me ne sono andata con la mia copia del Silmarillion e il bloc-notes nel(l'unico) parco della mia non troppo amata città e nel giro di due ore lo schema del capitolo era bello che finito. Mi è sembrato un miracolo.

Non so perché non sono riuscita a scrivere un accidenti dal 2007 ad ora. Se però adesso sono uscita dal tunnel del nulla letterario, ne sono felice. Questo per me è un periodo molto, molto creativo e mi sono resa conto che non c'è nulla che mi faccia sentire bene come creare. Sarà che la mia vita si è improvvisamente svuotata di tutto, e che nel vuoto totale ho ritrovato me stessa, i miei talenti, la mia fantasia. Sono sicura che non mi capiterà più di non scrivere per quasi quattro anni.

Non so quando leggerai questo capitolo: spero non ti sia passata del tutto la voglia di controllare i miei aggiornamenti di tanto in tanto. Mi auguro che lo leggerai presto e che ti faccia divertire almeno come ha fatto divertire me!

 

Alla prossima,

Mary

 

http://img199.imageshack.us/img199/1857/dis3k.jpg

http://img844.imageshack.us/img844/7501/dis2c.jpg

http://img526.imageshack.us/img526/2264/dis1r.jpg

 

Vi rimando anche al blog, così chiacchieriamo: http://deignotosilmarillion.splinder.com/

Edit: ho tolto un po' di N.d.A e parentesi varie, dato che infastidivano la vostra lettura e in verità anche la mia...

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=91790