When we stand together

di redbullholic
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2. ***
Capitolo 3: *** 3. ***
Capitolo 4: *** 4. ***
Capitolo 5: *** 5. ***
Capitolo 6: *** 6. ***
Capitolo 7: *** 7. ***
Capitolo 8: *** 8. ***
Capitolo 9: *** 9. ***
Capitolo 10: *** 10. ***
Capitolo 11: *** 11. ***
Capitolo 12: *** 12. ***
Capitolo 13: *** 13. ***
Capitolo 14: *** 14. ***
Capitolo 15: *** 15. ***
Capitolo 16: *** 16. ***
Capitolo 17: *** 17. ***
Capitolo 18: *** 18. ***



Capitolo 1
*** 1. ***


When we stand together

Uno sparo. Il parabrezza si tinge di rosso, mentre l’uomo alla guida si accascia in avanti, sul volante. Sua madre le grida qualcosa, ma lei non riesce a capire. Allora si tuffa sopra di lei, avvolgendola in un abbraccio. L’ultimo. La macchina sbanda un paio di volte, sbatte e si schianta. Poi il nulla.
 
Kelly si svegliò di soprassalto, madida di sudore. Era la terza volta in una settimana che sognava l’incidente in cui aveva perso la vita sua madre. Quell’incubo la tormentava; era insopportabile rivivere quel giorno, il giorno in cui la sua vita e la sua famiglia venivano distrutte per sempre.
Decisa a non perdersi ancora una volta in quei ricordi troppo dolorosi, si alzò e si fece una doccia. Quando uscì lanciò un’occhiata alla sveglia sul comodino: erano le cinque e mezza del mattino. Si vestì per andare in ufficio; avrebbe sbrigato un po’ di lavoro di scrivania che tendeva sempre a mettere da parte. Era una cosa che odiava fare, ma almeno l’avrebbe distratta da quell’incubo che spesso tornava a bruciare quando meno se lo aspettava.
L’ufficio era deserto. Tanto meglio, si disse la ragazza. Prese posto alla sua scrivania con un bicchiere di caffè fumante in mano e cominciò a sfogliare alcuni fascicoli ammucchiati da settimane sul tavolino alle sue spalle.
Poco dopo fece il suo ingresso un suo collega. La guardò con gli occhi fuori dalle orbite e quasi si strozzò con la ciambella che stava masticando.
-Cavolo Gibbs, non sei mai stata così mattiniera!- esclamò, una volta ingoiato il boccone.
-Insonnia- mentì Kelly facendo spallucce.
-Prova a diminuire la caffeina- ribatté lui. Kelly fece finta di non averlo sentito e tornò a immergersi nella lettura di un vecchio rapporto.
Piano piano arrivarono tutti gli altri agenti. Nessuno mancò di lanciarle occhiatine curiose e di fare commenti sottovoce, domandandosi come mai la più giovane di loro, ritardataria patologica e iperattiva, fosse già lì a quell’ora, per di più sommersa da vecchi fascicoli.
-Cadavere a Central Park- tuonò il capo, facendo sobbalzare tutti -Muoviamoci-.
 
Il cadavere si trovava proprio nel cuore dell’immenso parco. Gli agenti dovettero camminare molto, affondando nella neve fresca, prima di raggiungere la scena del crimine. Kelly, tanto per cambiare, stringeva tra le mani un altro bicchiere ricolmo di caffè bollente.
-Sai, dicevo sul serio prima- il collega che era arrivato in ufficio dopo di lei, Michael, apparve al suo fianco -Dovresti almeno ridurre la dose di caffeina che ingerisci ogni giorno. Anche perché a fine giornata diventi intrattabile- rise.
-Mi aiuta- rispose Kelly, bevendo un sorso. -E poi, con questo freddo è l’ideale-.
Una volta arrivati nel punto dove era stata segnalata la presenza del cadavere trovarono il medico legale, impaziente di iniziare il suo lavoro, che si dondolava da un piede all’altro nel tentativo di combattere il freddo.
-Ce ne avete messo di tempo!- si lamentò. Gli agenti lo ignorarono e si misero al lavoro.
-Gibbs, vedi se aveva documenti addosso. Beck, foto della scena del crimine- ordinò il capo.
Kelly passò la macchina fotografica che aveva al collo a Michael e si inginocchiò accanto al corpo, riverso sulla neve. Iniziò a frugargli nelle tasche dei pantaloni, ma non trovò niente. Con l’aiuto del medico mise il cadavere in posizione supina, e passò alle tasche della giacca. Stava quasi per arrendersi quando trovò quello che stava cercando: un documento. Lo aprì, e quello che vide la lasciò senza fiato. Ebbe un capogiro che le fece perdere l’equilibrio, e si ritrovò seduta sulla neve. Tutti si voltarono verso di lei.
-Kelly, tutto bene?- Michael la fissava con aria preoccupata.
Lei annuì, poi si alzò e ripulì i jeans dalla neve -Capo- chiamò, avvicinandosi al suo superiore con la mano in cui teneva il documento che aveva iniziato a tremare, e non per il freddo -Era un agente...- sentì la sua voce incrinarsi leggermente -Un agente dell’NCIS di Washington-.



- Note
Ma ciao! Erano secoli che non scrivevo di NCIS, così ho deciso di riprovare :D
In questa storia (che spero sia la prima di una serie) Kelly è sopravvissuta all'incidente in cui ha perso la vita Shannon, e incotra suo padre dopo ben 13 anni :o
Non preoccupatevi per il morto, non è una faccia nota ;) il suo ruolo lo capirete più avanti!

Spero che la storia vi piaccia :3
;Red

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Capitolo 2
*** 2. ***


NCIS. Kelly non riusciva a pensare a qualcosa che non fossero quelle quattro lettere. Le aveva sentite per la prima volta quando aveva nove anni, in ospedale, dopo l’incidente che le aveva portato via sua madre. Da quel giorno aveva incolpato quelle quattro lettere di averle portato via suo padre. Aveva scelto loro piuttosto che lei, sua figlia. O meglio, così le avevano detto i suoi nonni materni, coloro che si erano presi cura di lei dopo che sua madre era morta e suo padre se n’era andato. Non voleva crederci, eppure i suoi nonni avevano insistito che era così, e le avevano detto che sarebbe stato meglio se avesse dimenticato quell’uomo. Ma lei non l’aveva fatto. Non c’era giorno in cui non pensava a lui. Dopotutto, per nove anni era stato il suo eroe, il suo idolo. E prima di andarsene le aveva lasciato le sue piastrine da Marine. I suoi nonni fortunatamente non se n’erano accorti. Così, dal momento in cui se l’era trovate al collo, in ospedale, non le toglieva mai.
Da quando aveva letto ‘NCIS’ sul tesserino che il cadavere aveva addosso, quelle piastrine sembravano bruciarle sulla pelle. Tirò dolcemente la catenina e le fece uscire da sotto la felpa. Le rigirò un po’ tra le mani, prima di far passere un dito sul nome inciso: Leroy Jethro Gibbs.
-Ho parlato con il direttore dell’NCIS- la voce del suo capo la riportò alla realtà -Possiamo condurre noi le indagini sull’omicidio, a patto che li teniamo aggiornati su tutto e che gli rimandiamo il cadavere subito dopo aver fatto l’autopsia- a quelle parole Kelly si raddrizzò sulla sedia. Una strana idea stava prendendo vita nella sua testa -Ora, mettetevi al lavoro!-.
Kelly non perse un altro minuto. Balzò in piedi e si diresse verso l’ufficio del capo. Sentiva sulla schiena le occhiate indagatrici dei suoi colleghi, ma le ignorò. Aprì la porta ed entrò senza neanche bussare.
-Gibbs, non le hanno insegnato che si bussa prima di entrare?- la rimproverò il suo superiore.
-Mi scusi, capo- Kelly abbassò lo sguardo e chiuse la porta alle sue spalle -Volevo solamente chiederle una cosa- si avvicinò alla scrivania, titubante.
-Del tipo?-.
-Volevo chiederle se... se potevo accompagnare io la salma dell’agente dell’NCIS a Washington- disse, tutto d’un fiato.
L’uomo di fronte a lei la guardò, interdetto -E quale sarebbe il motivo di tale richiesta?-.
Solo in quel momento Kelly si rese conto di essere stata troppo precipitosa e di non aver accampato una scusa credibile a quella domanda, che sicuramente il capo le avrebbe rivolto. A quel punto non le restava altra soluzione che dire la verità.
-Mio padre è Leroy Jetrho Gibbs- esordì -Agente NCIS-.
Il capo mutò espressione -Gibbs, se deve essere una riunione di famiglia puoi sempre prenderti qualche giorno di ferie... da quando lavori qui non ne hai mai preso neanche uno-.
-Non è quello- Kelly si lasciò cadere su una delle sedie di fronte alla scrivania -E’ che non lo vedo da tredici anni, non l’ho più sentito da...- si fermò. Non voleva raccontargli dell’incidente, di sua madre e di tutto quello che era successo dopo, o sarebbe scoppiata in lacrime ed era l’ultima cosa che voleva -E’ complicato- si limitò a dire, sospirando -La prego, mi lasci andare-.
Anche il capo sospirò, e chiuse gli occhi per un momento -Dirò al medico di eseguire l’autopsia entro oggi. Domani mattina sarai sul primo volo per Washington-.
Kelly non credeva alle sue orecchie. Sul suo volto si aprì un enorme sorriso che andava da un orecchio all’altro. Avrbebbe voluto alzarsi e abbracciarlo -Grazie- si limitò a dire, sollevata, prima di uscire dall’ufficio.
 
Quella sera, Kelly fu l’ultima a lasciare l’ufficio. Sistemò la scrivania e raccolse le sue cose, come se non dovesse più tornare da Washington. In effetti, la sensazione che le attanagliava lo stomaco da quando aveva ottenuto il permesso di andare era quella.
-Si può sapere che ti prende?- la voce di Michael alle sue spalle la fece trasalire. Istintivamente portò la mano alla fondina dove teneva la pistola.
-Mi hai fatto prendere un colpo- sbottò lei, lasciando la fondina e tornando al suo lavoro.
-Arrivi prima di tutti e te ne vai per ultima- Michael la ignorò -Sgusci nell’ufficio del capo e ne esci sorridendo... Che ti sta succedendo? Insomma, sei sempre stata strana, ma ultimamente stai peggiorando!-.
-Non mi sta succedendo assolutamente niente- rispose Kelly, calma.
-Allora perché stai mettendo a posto?- sottolinò le ultime parole per farle capire quanto fosse inusuale per lei.
-Sto solo prendendo le mie cose, dato che domani non sarò qui...-.
-Gibbs, ora mi stai spaventando- Michael si piazzò di fronte a lei -In che senso non sarai qui?-.
Kelly sbuffò -Tranquillo, non ho intenzione di suicidarmi! Accompagno la salma a Washington, tutto qui- non era sicura che fosse ‘tutto lì’, ma non poteva spiegarlo a Michael.
-E perché proprio tu?-.
-Quante domande!- sbottò -Chi mandare ad accompagnare un morto se non l’agente più giovane e meno esperto?-.
-Non dire sciocchezze, sarai anche la più giovane ma sei più brava di tutti noi messi insieme. Sei nata con questo lavoro nel sangue-.
-Le sciocchezze le stai dicendo tu adesso- Kelly raccolse il suo zaino e scansò il collega -Ora scusami, ma ho bisogno di riposare-.



- Note
Ecco qua il secondo capitolo :)
Spero vi piaccia!

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Capitolo 3
*** 3. ***


Dormire. Era più facile a dirsi che a farsi. Kelly passò quella notte a girarsi e rigirarsi a letto, senza riuscire a prendere sonno. Il che da un lato era un bene, pensò, almeno gli incubi l’avrebbero lasciata in pace.
Erano ormai le cinque quando decisedi alzarsi. Si vestì in fretta, poi andò in cucina e si preparò un caffè. Lo versò in una tazza e si appoggiò al bancone, bevendolo a piccoli sorsi. Si ritrovò ad osservare tutti gli angoli del suo appartamento, come se avesse voluto imprimere ogni dettaglio nella sua memoria. Di nuovo l’attanagliò la sensazione della sera prima, quella che le diceva che non avrebbe rivisto mai più quel posto. Si chiese cosa la portasse a pensare una cosa simile. Se era davvero come le avevano detto per anni i suoi nonni, per quale motivo sarebbe dovuta restare a Washington?
Finì il caffè e guardò l’orologio: mancava poco alla partenza. Raccolse le ultime cose che le sarebbero servite e le mise nella valigia, decisamente troppo grande per un viaggio di un paio di giorni al massimo. Era ormai sul pianerottolo, quando qualcosa la spinse a tornare dentro. Quasi senza accorgersene andò in camera da letto e aprì la cassaforte. Prese la sua pistola e il suo coltello e li infilò nello zaino. Dopodiché chiuse il suo appartamento con un paio di giri di chiave e chiamò un taxi per l’aeroporto.
 
Il volo non fu lunghissimo. O almeno, così parve a Kelly, dato che la maggior parte del tempo la passò dormendo. La stanchezza della notte insonne aveva preso il sopravvento e lei era crollata.
L’aereo era atterrato ormai da qualche minuto, e il momento di scendere era sempre più vicino. Kelly si alzò dal sedile nel quale era sprofondata, e si accorse che le gambe le tremavano come due gelatine. Si sforzò di calmarsi, e seguì i due uomini con la salma all’esterno.
Una volta fuori, fu costretta a coprirsi gli occhi con le mani a causa del sole che le ferì gli occhi, non abituati a tutta quella luce. Cercò nello zaino gli occhiali da sole e li inforcò, giusto in tempo per inquadrare le due figure che si muovevano nella sua direzione. Mise a fuoco un uomo e una donna, vestiti con la divisa dell’NCIS. Con un misto di delusione e sollievo, realizzò che l’uomo non era suo padre.
-Buongiorno- le disse lui -Siamo gli agenti DiNozzo e David, NCIS. Lei è l’agente della Omicidi di New York?-.
-Sì, sono io- sentì di nuovo le gambe tremare. Fece un respiro profondo, poi tese la mano ai due -Kelly Gibbs, molto piacere-.
Come aveva previsto, gli agenti la guardarono stralunati -...come prego?- le chiese la donna.
-Gibbs?!- le fece eco l’uomo.
-Sì, Gibbs- Kelly si sforzò di trattenere una risata.
-E’... è per caso parente di...- balbettò DiNozzo.
-Leroy Jethro Gibbs?- era veramente sul punto di scoppiare a ridere, forse per liberarsi della tensione che l’assillava dal giorno prima -Sì, è mio padre-.
-Suo...?- si lasciò sfuggire la David.
-Venga con noi- DiNozzo sembrò riprendersi dallo ‘shock’ per primo, e fece cenno a Kelly di seguirli al furgone dove gli altri due avevano caricato la salma. Kelly si sedette tra i due agenti. Mentre si allacciava la cintura di sicurezza gli occhiali da sole le scivolarono sul sedile accanto al suo, dove stava salendo DiNozzo. L’agente la guardò negli occhi e di nuovo la fissò con l’espressione stralunata di quando si era presentata.
-Che c’è?- chiese Kelly, inarcando un sopracciglio.
-Niente, niente- si affrettò a rispondere lui -Questi sono suoi- le passò gli occhiali e si sistemò al suo posto.
-Grazie- se li rimise -Possiamo darci del tu? Chiamatemi Kelly- sorrise.
-Tony- fece DiNozzo.
-Ziva- la donna ricambiò il sorriso.
-Kelly, soffri il mal d’auto?- le chiese Tony poco prima che Ziva, alla guida, partisse.
-No, perché?- Kelly lo guardò con aria interrogativa, poi spostò lo sguardo sulla donna alla sua sinistra. Ziva fece spallucce.
-Lo vedrai- Tony non fece in tempo a terminare la frase che Ziva partì con una sgommata, incollando gli altri due al sedile.
 
-Non è stato così terribile- commentò Kelly una volta arrivati a destinazione -Anzi, forse io guido peggio-.
-Come tuo padre, dopotutto- commentò Tony a mezzabocca.
-Cosa?-.
-Niente, non preoccuparti- rispose, pregando che la ragazza non avesse anche lo stesso udito del padre.
Kelly seguì i due agenti nell’ascensore. Poco dopo le porte si aprirono su un’ufficio grande e molto trafficato. Le pareti erano arancioni, così come i divisori che dividevano le varie scrivanie. Solo la moquette era di un color grigio scuro, tendente al nero. In fondo una grande scala portava al piano superiore.
Tony si avvicinò alla scrivania dove stava lavorando al computer un altro agente, più giovane di lui -Pivello, dov’è il capo?- domandò.
-Dal direttore Shepard- rispose l’altro, sollevando appena lo sguardo dal monitor. Quel tanto che bastava per adocchiare Kelly, rimasta in disparte con Ziva.
-Tony, lei è quella di New York?- chiese, alzandosi e andando verso di lei.
DiNozzo si limitò ad annuire. Lo seguì e si piazzò alle spalle di Kelly. Non voleva perdersi per niente al mondo la faccia che il collega avrebbe fatto una volta sentito il cognome della ragazza.
-Piacere, mi chiamo Timothy McGee- le porse la mano e le sorrise.
Kelly ricambiò -Kelly Gibbs, piacere mio-.
McGee sussultò e spalancò la bocca, suscitando le risatine degli altri due colleghi. Fece per dire qualcosa, ma Kelly lo anticipò.
-Sì, Gibbs. Come Jethro Gibbs, che lavora qui- sfoderò un sorrisetto innocente.
McGee sembrava aver perso la parola, così Tony prese in mano la situazione -Pivello, di a Ducky che la salma è giù nel furgone. Kelly, se vuoi seguirmi…-.
Kelly lo seguì senza obbiettare su per la scalinata, fino alla sala riunioni. Aprì la porta e la fece accomodare su una delle poltroncine -Aspetta qui, vado a chiamare tuo padre. C’è niente che ti serve?-.
-In realtà sì- Kelly si abbandonò sullo schienale -Potrei avere un caffè?-.
-Fammi indovinare. Un bel caffè amaro, niente latte né zucchero- l’anticipò l’agente.
-Come fai a…?- domandò lei, incuriosita.
-Sono pieno di sorprese- rispose lui, facendole l’occhiolino prima di chiudere la porta.


- Note 
Eccomi con un altro capitolo! Volevo aspettare un po' a postarlo ma oggi faccio 3 anni qui su EFP, così per festeggiare... :D Sto andando così velcoe a postare perché li ho già pronti fino al 5 e perché ultimamente ho dei ritagli di tempo per andare avanti :3
Cooomunque, finalmente Kelly è arrivata a Washington! Adesso l'aspetta l'incontro con Gibbs...

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Capitolo 4
*** 4. ***


-Quindi è la figlia di Gibbs?- ripeté McGee, incredulo.
-Non l’hai vista in faccia? Gli occhi sono i suoi, non c’è dubbio!- esclamò Ziva.
-Sì, è impressionante. Quello che non capisco è perché non ne ha mai parlato-.
-Avrà avuto le sue buone ragioni. Conosci Gibbs-.
-Le sue buone ragioni per fare cosa?- intervenne una voce alle loro spalle. Si voltarono, colti di sorpresa, e si trovarono faccia a faccia con Abby Sciuto, l’esperta forense.
-Oh Abby, non sai la novità…- McGee le posò le mani sulle spalle, impaziente di rivelarle dell’esistenza di Kelly.
-Gibbs ha una figlia?!- un’altra voce intervenne dietro di loro. Il medico legale, il dottor Mallard, soprannominato ‘Ducky’ dai colleghi, si unì al gruppetto.
-Cosa?!- esclamò Abby -E’ qui? Dov’è? Come si chiama? Siamo sicuri che sia sua figlia?- era fuori di se, quasi non riusciva a stare ferma.
-Ragazzi, calmatevi!- tuonò Ziva, mettendo a tacere tutti -Sì, Gibbs ha una figlia. Si chiama Kelly. Avrà poco più di vent’anni, capelli biondi e occhi azzurri, identici a quelli di Gibbs-.
-Incredibile- commentò Ducky.
-E ora dov’è? Devo conoscerla!- Abby scalpitava.
-E’ in sala riunioni, con Tony credo. Sta aspettando suo padre-.
 
-Agente DiNozzo, non può entrare…!- gridò la giovane segretaria, rincorrendo Tony fino alla porta dell’ufficio del direttore. DiNozzo la ignorò e spalancò la porta. Gibbs e il direttore Jenny Shepard gli lanciarono un’occhiataccia, probabilmente desiderando di poterlo incenerire all’istante con lo sguardo.
-Mi scusi, direttore- la segretaria fissò il pavimento -Ho provato a fermarlo-.
-Fa niente, Cyntia- la congedò il direttore -DiNozzo, si può sapere che c’è di così importante da piombare qui dentro senza nemmeno avere la cortesia di bussare?- proseguì poi rivolta all’agente, con un tono decisamente più tagliente.
-Scusi, direttore. Ma ho bisogno di parlare con Gibbs-.
-Qualsiasi cosa tu debba dirmi la puoi benissimo dire qui- gli rispose Gibbs.
-Il nome Kelly ti dice niente?- Tony ridusse gli occhi a due fessure. Ma non si sarebbe mai aspettato una reazione del genere da parte del suo capo. Gibbs sembrò sbiancare, e per un attimo quella sicurezza, quell’austerità che faceva sì che tutti lì dentro lo rispettassero e un po’ lo temessero sembrò vacillare, quasi sul punto di crollare.
-Scusa, Jen. È piuttosto importante- disse, congedandosi dal direttore e seguendo DiNozzo fuori dall’ufficio.
-Come sai di mia figlia?- chiese poi al suo agente anziano, forse un po’ troppo duramente. Temeva che le fosse successo qualcosa. Una bruttissima sensazione gli attanagliava lo stomaco.
-E’ qui, capo- rispose Tony. Di nuovo vide il suo capo sul punto di perdere il controllo delle proprie emozioni. Non lo aveva mai visto così, e la cosa lo spaventò.
-Come mai è qui?- la voce di Gibbs era quasi un sussurro.
-Per l’agente NCIS che hanno trovato morto a New York. Ha accompagnato qui la salma-.
Gibbs annuì, si passò una mano sul volto e si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo -Dov’è adesso?-.
-Sala riunioni. Ti sta aspettando-.
 
Una volta che l’agente DiNozzo l’ebbe lasciata sola, Kelly sentì di nuovo che l’emozione e l’agitazione prendevano il sopravvento. Stava per incontrare suo padre, dopo tredici anni. Avrebbe voluto chiedergli tante cose e parlare con lui per ore. Erano così tante le cose che voleva sapere… su di lui, su di lei e su sua madre.
Si alzò e iniziò a camminare su e giù per la stanza, nel tentativo di calmarsi.
“Dove diavolo è il mio caffè?” pensò. Ne aveva bisogno, anche se era consapevole che la caffeina non avrebbe fatto altro che aumentare l’agitazione. Si avvicinò alla finestra e guardò fuori. Il cielo, fino a poco prima quasi sereno, era scuro e minacciava pioggia, se non addirittura neve. Appoggiò la fronte al vetro freddo e finse interesse per il via vai di macchine nel parcheggio dell’agenzia. Aveva bisogno di distrarsi finché non tornava DiNozzo con suo padre. Pensò di chiamare Michael per chiedere aggiornamenti sul caso. Stava per tornare alla poltroncina dove aveva lasciato la giacca quando sentì la porta alle sue spalle che si schiudeva lentamente.


- Note
è cortissimo, lo so :/
A parte questo, sto esaurendo i capitoli finiti e il tempo per scrivere, quindi da adesso in poi dovrete aspettare un po' più del solito!

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Capitolo 5
*** 5. ***


Gibbs si fermò davanti alla porta della sala riunioni con il cuore in gola. Dietro quella porta c’era sua figlia. L’ultima volta che l’aveva vista aveva appena nove anni ed era distesa in un lettino d’ospedale. Ora di anni ne aveva quasi ventidue, e faceva l’agente di polizia a New York. Chissà perché, ma già quando era piccola avrebbe scommesso che sarebbe entrata in polizia. Ce l’aveva nel sangue.
Stringendo i due bicchieri di caffè fino quasi a romperli, aprì piano la porta e la vide. Davanti a lui c’era una ragazza dai lunghi capelli biondi, intenta a trafficare con il cellulare. Quando sentì la porta aprirsi alzò lo sguardo verso di lui, e Gibbs riconobbe immediatamente quella bambina di tanti anni prima.
 
Kelly si voltò di scatto verso la porta. Si aspettava di vedere DiNozzo che finalmente tornava con il suo caffè, invece no. Nella stanzetta entrò lui, suo padre. Non appena lo vide una serie interminabile di flashback la bombardarono. Scene di quando era piccola, di quando sua madre era viva, di quando ancora erano una famiglia.
Suo padre mosse qualche passo all’interno della stanza e si chiuse la porta alle spalle. Posò sul tavolo i due bicchieri di caffè che teneva in mano e le rivolse un sorriso -Ciao, Kelly-.
-Ciao- Kelly ricambiò il sorriso. Non sapeva cosa pensare. Dentro di lei ribollivano un’infinità di sensazioni. Era felicissima di trovarsi finalmente faccia a faccia con lui, ma al tempo stesso furiosa perché per tanti anni si era sentita abbandonata da lui.
Gibbs sembrò accorgersi del suo conflitto interiore. Senza dire niente le si avvicinò e la strinse delicatamente in un abbraccio, come se avesse paura di farle male se avesse stretto troppo -Mi sei mancata- mormorò, posando le labbra sui suoi capelli.
Kelly rimase spiazzata da quel gesto. Si strinse a suo padre e affondò il volto nel suo petto, inspirando il suo profumo -Anche tu- rispose con un filo di voce. Sperò che non si notasse che era sul punto di scoppiare a piangere.
Furono interrotti dal cellulare di Kelly che squillava. Gibbs sciolse l’abbraccio -Forse è meglio se rispondi-.
Kelly annuì e recuperò il cellulare. Prima di rispondere si affrettò a fermare con la manouna lacrima sfuggita al suo controllo -Gibbs-.
-Ehi, già senti la mia mancanza? Ho visto la tua chiamata- le rispose la voce di Michael dall’altra parte.
-Volevo solo sapere se c’erano novità sul caso-.
-La scientifica ha trovato l’arma con cui è stato ucciso l’agente. È un coltello, simile a quello dei militari. Stanno controllando se ci sono impronte. Appena abbiamo qualcosa lo comunichiamo al direttore- la informò il collega.
-Ottimo-.
-Allora ti faccio sapere… quando torni?-.
-Ecco, a questo proposito...- Kelly si mordicchiò il labbro inferiore, nervosa. Sapeva che la richiesta che stava per fare avrebbe mandato il suo capo su tutte le furie, non era neanche sicura che fosse una cosa fattibile. Ma doveva provarci. Aveva bisogno di un po’ di tempo da passare con suo padre, e un’occasione come quella non le sarebbe mai più capitata. -Vorrei che informassi il capo che ho intenzione di rimare qui fino alla fine delle indagini, in qualità di… agente di collegamento - disse, poi istintivamente chiuse gli occhi, come se Michael fosse stato davanti a lei e temesse la sua reazione.
-Ma sei matta?!- il suo collega quasi gridava -Non te lo lascerà mai fare! Insomma, dovevi solamente accompagnare là la salma…-.
-Dì che venga qui a prendermi di persona. Io non mi muovo finché il caso non è chiuso- ribatté Kelly, forse con un tono un po’ troppo tagliente.
-Riferirò- sbuffò Michael -Se sopravvivo ti dico com’è andata- e riattaccò.
Anche Kelly chiuse la telefonata. Si accorse che Gibbs la stava fissando con un sorrisetto divertito.
-Il suo caffè, agente di collegamento- le allungò uno dei due bicchieri.
Kelly lo prese in mano e bevve un sorso -So che il lavoro chiama, ma… devo parlarti- abbassò lo sguardo.
-Non qui- le rispose suo padre, accompagnandola alla porta -Stasera, a casa-.


- Note
Ecco il tanto atteso incontro! Anche se devo ammettere che potevo scriverlo meglio :/
Ora dovrete pazientare un po' di più, il capitolo 6 ancora non è pronto!

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Capitolo 6
*** 6. ***


-Dio, più li guardo più mi fanno impressione- commentò McGee sottovoce, alludendo a padre e figlia che scendevano le scale.
-Bevono anche la stessa schifezza- gli fece eco Tony, proprio mentre i due facevano il loro ingresso in ufficio.
-Che diavolo fate tutti lì impalati?- sbottò Gibbs, come se la presenza della figlia della quale aveva nascosto l’esistanza per anni fosse la cosa più normale del mondo. Abby lo ignorò e quasi saltellò fino a portarsi faccia a faccia con Kelly.
-Sono Abby, Abby Sciuto. Non sai quanto sono felice di conoscerti!- le strinse forte la mano e lottò con tutte le sue forze contro l’impulso di abbracciarla.
-Kelly, piacere mio- Kelly ricambiò la stretta e le rivolse un sorriso. Le piaceva quella ragazza. E poi, sembrava l’unica lì dentro a non ‘temere’ suo padre.
Anche Ducky si fece avanti -Dottor Donald Mallard. Ma puoi chiamarmi Ducky. Lieto di conoscerti, mia cara-.
-Molto piacere, Ducky- Kelly strinse la mano anche al medico.
-Ducky, di sotto c’è un cadavere che ti aspetta- lo richiamò Gibbs.
-Certo, Jethro… mi serviva solamente il referto dell’autopsia del patologo di New York…-.
-Oh, quasi dimenticavo- Kelly recuperò il suo zaino e ne tirò fuori il fascicolo -Eccolo- lo porse a Ducky, che la salutò con un cenno del capo e lasciò l’ufficio.
Gibbs si rivolse a sua figlia -Agente di collegamento… il caso, prego-  indicò lo schermo alle sue spalle, sul quale erano comparse tutte le informazioni relative all’omicidio di New York.
Kelly tracannò il poco caffè che rimaneva nel suo bicchiere prima di cominciare -Agente speciale Thomas Keller. Lavorava all’NCIS da poco meno di cinque ann ed era sposato da tre. Sua moglie vive qui a Washington- esordì -E, stando a quello che mi hanno riferito i colleghi da New York, è stato ucciso con un coltello che hanno trovato poco lontano dal punto in cui è stato rinvenuto il corpo. Lo stanno esaminando in cerca di impronte-.
Suo padre le fece un cenno di assenso -Tony e Ziva, voglio sapere tutto su Keller. In particolare cosa ci faceva a New York- ordinò ai due agenti, che si misero immediatamente al lavoro -McGee, dalla vedova. Kelly, va con lui-.
Kelly guardò suo padre con gli occhi fuori dalle orbite -Io?- domandò, incredula.
-Vuoi collaborare o no?-.
La ragazza non se lo fece ripetere due volte e si affrettò a raggiungere McGee in ascensore.
 
Il resto della giornata sembrò volare. Kelly era stata con McGee dalla moglie di Keller, che abitava poco fuori Washington, e durante il tragitto aveva avuto modo di conoscere meglio il giovane agente e di ‘estorcergli’ alcune informazioni sui colleghi dell’NCIS. Tim le aveva parlato di Tony, l’agente più anziano del gruppo, e di Ziva, l’agente del Mossad che era con loro da poco. Le rivelò che la donna aveva preso il posto di Kate Todd, una loro collega che aveva perso la vita sul campo mentre stava proteggendo proprio suo padre. Kelly rimase colpita dalla sua storia, tanto che si ritrovò a pensare a lei quella sera, pur non sapendo che faccia avesse, mentre se ne stava seduta alla scrivania di suo padre. Kate aveva praticamente dato la vita per lui; avrebbe voluto conoscerla.
-Scusa, il direttore aveva bisogno di me- Gibbs comparve di fronte a lei -Andiamo?- le disse, spegnendo la luce da tavolo e lasciando l’ufficio al buio.
Kelly annuì. Recuperò le sue cose e lo seguì in macchina. Strada facendo si fermarono a comprare due pizze, dato che Gibbs non aveva molto cibo in casa.
-Se avessi saputo che venivi avrei preparato qualcosa- si giustificò.
Gibbs imboccò una strada che Kelly riconobbe immediatamente. Lei su quei marciapiediera cresciuta. Aveva giocato sul vialetto della casa davanti alla quale suo padre fermò la macchina. Di nuovo fu travolta da un’ondata di ricordi, sia belli che brutti.
-Vivi ancora qui?- chiese, sorpresa. Avrebbe scommesso che, dopo la tragedia, suo padre avesse venduto quella casa senza la minima esitazione. Invece, una volta varcata la soglia, si ritrovò tra le pareti della casa in cui era nata e cresciuta. Tutto era come lo ricordava, tranne una cosa: le foto. Quando era piccola le pareti erano piene di foto di loro tre insieme; ora ce n’era soltanto una, appoggiata sopra il camino.
Gibbs non rispose e si sedette sul divano con la sua pizza sulle ginocchia. Kelly si accomodò accanto a lui. Mangiarono in silenzio, finché la ragazza non si decise a prendere il toro per le corna.
-Perché mi hai abbandonata?- andò dritta al punto.
Dalla reazione di Gibbs, dedusse che doveva aspettarsi una domanda del genere -Non era mia intenzione. Ma Joanne e Mac*… erano convinti che avessi provocato io la morte di tua madre, e ce l’avevano con me per quando vi avevo ‘portate via’ da New York per il mio lavoro… così hanno convinto anche me, e mi hanno consigliato di starti alla larga, per il tuo bene-.
Kelly rischiò di strozzarsi con la fetta di pizza che stava mangiando -Ma è assurdo!-.
-Non volevo perdere anche te-.
-Non capisco. Come avresti potuto provocare la morte di mamma?- Kelly era sempre più confusa, e consapevole che quel racconto avrebbe riaperto vecchie ferite sia in lei che in suo padre, ma voleva vederci chiaro una volta per tutte. Per troppi anni era stata tenuta all’oscuro di tutto.
-Quello in cui è morta tua madre non è stato un incidente. Non siete finite in mezzo ad un regolamento di conti, o qualsiasi cosa ti abbiano detto- esordì Gibbs con un sospiro -Chi ha sparato all’agente che guidava la macchina voleva che… che Shannon morisse-.
Kelly sentì le lacrime pungerle gli occhi. Chi mai avrebbe potuto volere la morte di sua madre?
-Pochi giorni prima, era stata testimone di un’omicidio. Aveva visto in faccia il killer, ed era pronta a testimoniare. Era una donna forte, non aveva paura di niente-.
Le lacrime ormai correvano veloci lungo le guance della ragazza. Era vero, sua madre era forte. E quel giorno l’aveva protetta.
Gibbs si avvicinò a lei e la strinse forte a se, nel tentativo di calmare i singhiozzi che le squassavano il petto -Colui che la voleva morta si chiamava Pedro Hernandez- le sussurrò all’orecchio -L’ho inseguito fino in Messico. E gli ho sparato in mezzo agli occhi-.
 
Kelly non si rese conto per quanto tempo rimase lì, tra le braccia di suo padre, a piangere. Pianse tutte le lacrime che aveva. Le lacrime dei tredici anni in cui le era stata nascosta la verità.
Quando sentì di essersi calmata provò a districarsi dall’abbraccio, ma Gibbs non allentò la stretta.
-Sto bene- disse, con la voce roca -Sul serio-.
-Sicura?-.
-Sì. Ho solo bisogno di riposare-.
A quel punto Gibbs la lasciò andare -Beh, sai dov’è camera tua- sfoderò un sorrisetto a mezzabocca.
Kelly sorrise e quasi corse su per le scale, diretta verso l’ultima porta in fondo al corridoio. L’aprì e rivide la sua stanza, esattamente come l’aveva lasciata. Entrò e si sedette sul letto, abbandonandosi ai piacevoli ricordi che quella cameretta sembrava aver conservato apposta per lei. Avrebbe dormito lì quella notte, e loro le avrebbero tenuto compagnia.
Scese di nuovo in soggiorno per recuperare la sua roba; mentre tornava in camera sua passò davanti ad un’altra porta chiusa, che doveva contenere altrettanti ricordi. La schiuse e sbirciò dentro. Quella era la camera dei suoi genitori. Anche quella sembrava uguale all’ultima volta che l’aveva vista, tranne che per un piccolo ma significante dettaglio: il letto era disfatto. C’era solamente il materasso nudo. Ciò doveva significare che suo padre non dormiva lì. Perplessa, abbandonò le sue cose in mezzo al corridoio e tornò al piano di sotto. Gibbs non c’era, ma Kelly sapeva dove trovarlo. Scese le scale che portavano al seminterrato e lo trovò lì, intento a lavorare a quella che sembrava una barca.
-Wow!- esclamò -Vedo che sei passato a cose più grandi!- aggiunse, riferendosi al fatto che quando era piccola lo aveva visto principalmente intagliare piccole tavole di legno -Solo una cosa: come farai poi a farla uscire di qui?-.
Gibbs rise -Me lo chiedono tutti-.
-E tu cosa rispondi?-.
-Che non lo so-.
Anche Kelly si lasciò sfuggire una risatina -Beh, volevo solo dirti buonanotte…- esitò -Ma tu… dove dormi?-.
-Qui- rispose Gibbs, come se dormire in cantina fosse naturale come dormire in camera da letto -Oppure sul divano. O nella stanza degli ospiti-.
-Oh…-.
-Non dormo in camera… mia- anticipò la domanda della figlia -Non ci riesco-.
Kelly si avvicinò con fare comprensivo. Gli cinse le spalle con un braccio -Buonanotte- disse, e gli schioccò un bacio sulla guancia.

*i nonni di Kelly, genitori di Shannon.

- Note
Eccolo qua :)
A differenza del 5, mi piace com'è venuto, e poi è taaaaanto tenero :3
A voi i commenti, e un grazie speciale va a zavarix che sta recensendo tutti i capitoli **

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Capitolo 7
*** 7. ***


I giorni seguenti se ne andarono alla velocità della luce. Il caso proseguiva a gonfie vele: a New York avevano trovato delle impronte sull’arma del delitto, e presto avrebbero saputo a chi appartenevano. Kelly non era molto contenta che i suoi colleghi stessero risolvendo il caso così in fretta. Chiurderlo significava tornare a New York, e lei non voleva. Stava bene lì, in quell’ufficio. Ma soprattutto, stava bene con suo padre. L’aveva appena ritrovato, non poteva lasciarlo di nuovo. Fu proprio perché non voleva separarsi da suo padre che una mattina, mentre sedeva accanto a lui in macchina, iniziò a prendere in considerazione l’idea di farsi trasferire all’NCIS. In fin dei conti, non aveva molti legami a New York. Solo i suoi nonni, che non vedeva da anni, e Michael, l’unica persona con cui riusciva ad andare d’accordo tra tutti i colleghi.
Una volta arrivati all’NCIS, Kelly decise che ne avrebbe parlato con il direttore, prima ancora che con il suo capo. Doveva solo trovare un modo per sgusciare nel suo ufficio senza essere notata…
I suoi piani vennero infranti dal cellulare che squillava, attirando l’attenzione di mezzo ufficio.
-Gibbs- rispose, cercando di non lasciar trapelare la frustrazione.
-Ho un nome- sentenziò la voce di Michael dall’altra parte, stranamente fredda -Anzi, due-.
-Cioè? Due assassini?-.
-No. Uno riguarda te-.
-Me?!- Kelly trasalì.
-Leroy Jethro Gibbs- sibilò Michael -Ti dice niente?-.
Kelly non rispose. Si limitò a sospirare.
-Sapevo che c’era qualcosa sotto. Chi te lo faceva fare di accompagnare un morto a Washington, e di restare là fino alla chiusura del caso? Chi, se non tuo padre?-.
-E’ complicato…- provò a giustificarsi.
-Perché non me lo hai detto? Perché ti ostini a non parlare mai con nessuno?- il suo collega era sul punto di gridare -Ti avrei coperto le spalle con il capo se lo avessi saputo. Ora sei in un bel casino-.
-Il capo è l’ultimo dei miei problemi. Non sono neanche sicura di tornarci, là- si pentì immediatamente di aver pronunciato quelle parole. Sapeva di aver ferito il collega, che probabilmente era anche il suo unico amico.
-Non avevi detto di avere un altro nome?- chiese poi, sentendo che lui non rispondeva.
-Chiedi a McGee. Ho mandato tutto al suo indirizzo- con queste parole Michael chiuse la telefonata.
Kelly fece un respiro profondo per tentare di calmarsi, prima do tornare dagli altri.
-McGee- chiamò, avvicinandosi alla sua scrivania -Il mio collega dovrebbe averti mandato…-.
-Tutti i risultati delle indagini- terminò McGee -Ho tutto qui. Compreso il nome del nostro sospettato, Jason Corby-.
Nel sentire quel nome Gibbs sussultò. Gli ricordava qualcosa, anzi, qualcuno.
-McGee, la foto- disse, indicando il maxischermo di fronte a lui.
L’agente obbedì, e in pochi secondi la foto e tutti i dati del sospettato comparvero sullo schermo.
-Ha una fedina penale lunga quanto un’autostrada!- commentò DiNozzo.
Gli altri lo ignorarono. In particolare Kelly, che fissava il volto del padre con fare preoccupato.
-Lo conosci?- domandò.
-Sì- Gibbs annuì -McGee, l’indirizzo-.
McGee si affrettò a scarabocchiare un indirizzo su un post-it e lo passò a Gibbs.
-Venite con me- ordinò il capo -Anche tu- aggiunse, quando vide che Kelly esitava -E prendi questa- aprì il cassetto e le passò una pistola. Kelly la prese, mentre le mani quasi le tremavano. La assicurò alla cintura e seguì suo padre.
 
Nonostante la casa di Corby non fosse vicinissima, gli agenti furono lì in pochissimo tempo. Non c’era da stupirsi, visto che al volante c’era Gibbs. DiNozzo si passò una mano sul volto  una volta sceso, mentre McGee sembrava sul punto di vomitare. Ziva e Kelly non fecero una piega. Entrambe erano capaci di fare molto, molto peggio quando avevano un volante tra le mani.
Gli agenti circondarono la casa, con le armi strette in mano. Gibbs sfondò la porta principale, seguito da Kelly e McGee, mentre Tony e Ziva entrarono dal retro.
-NCIS!- gridarono all’unisono, prima di perlustrare ognuno una stanza.
-Libero!- urlò la voce di Gibbs dalla cucina. Subito dopo gli fecero eco quelle di Tony, Ziva e McGee.
Kelly entrò in quello che sembrava uno studio. Era una stanza piccola, arredata solo con una scrivania, una sedia e un computer. Ciò che la sconvolse a tal punto da non riuscire neanche a parlare fu quello che vide sulle pareti e sul pavimento.
-Papà!- chiamò, con la voce roca -Papà, vieni qui!-.
Gibbs la raggiunse. Anche lui rimase senza fiato. Le pareti della stanzetta erano tappezzate di foto sue e di Kelly. Chissà da quanto tempo si spostava da Washington a New York per seguire ogni loro movimento. Sparse sul pavimento, anche sotto ai loro piedi, ce n’erano altrettante. Gli scatti li raffiguravano al lavoro, davanti casa, mentre facevano colazione… Ce n’erano migliaia.
Kelly si sentì mancare -Lui… lui vuole noi-.



- Note
Scusateeeeeeee l'immenso ritardo! Solo ora sono riuscita a finire questo capitolo, grazie alla neve che ha fatto chiudere le scuole lasciandomi un po' di tregua dallo studio :)
Spero vi piaccia :3

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Capitolo 8
*** 8. ***


Lo so, sono vergognosa e imperdonabile.
Sono due anni, DUE ANNI esatti che non metto mano a questa storia e ora ripiombo qui dal nulla... Beh, a mia difesa dico che ho ricevuto molti incoraggiamenti anche abbastanza recenti a continuare, e poi l'idea di abbandonare questa storia non mi piaceva per niente, nonostante la mancanza di stimoli, quindi ho tentato di superare il blocco e rieccomi qua! Vorrei sottolineare che per sbloccarmi è stato fondamentale rileggere le recensioni che avete lasciato ai vari capitoli :)
Detto questo, spero che i seguaci di questa storia ci siano ancora tutti e che mi perdoniate per questo mega ritardo ^^
L'ispirazione per questa storia è tornata, quindi l'unica cosa che mi potrà rallentare negli aggiornamenti è la mancanza di tempo per scrivere... Cercherò comunque di impegnarmi per farmi perdonare :3
Buona lettura!





-McGee, Ziva, voglio sapere tutto su Jason Corby. Tutto, anche quante volte va in bagno- tuonò Gibbs, una volta rientrati in ufficio -DiNozzo, stai con lei- indicò Kelly -E non lasciarla sola per nessun motivo-.
-Sì, capo- risposero i tre in coro.
-E tu- intervenne in quel momento Kelly, che non aveva più aperto bocca da quando avevano lasciato la casa del sospettato, rivolgendosi al padre -Tu ora ci dici tutto quello che sai su Corby. Hai detto di conoscerlo, no?-.
Gli altri agenti rimasero impietriti. Mai nessuno in quell’ufficio aveva osato parlare in quel modo a Gibbs. Forse nemmeno il direttore.
Gibbs sospirò e si sedette alla sua scrivania -Anni fa sparai a suo figlio durante una sparatoria- esordì -Lo uccisi. Prima che uccidesse la donna che teneva in ostaggio. Era incinta-.
-E ora vuole vendetta- concluse DiNozzo.
-Sì ma… perché adesso? Insomma, il capo ha detto che successe anni fa…-  chiese McGee.
-Perché ha scoperto che ho una figlia- Gibbs posò istintivamente lo sguardo su Kelly, che rabbrividì.
-Quindi… sono io quella che vuole- mormorò lei.
-E’ probabile che prenda di mira te per colpire me- affermò suo padre -Ora al lavoro, forza-.
 
Kelly se ne stava seduta su una sedia girevole accanto alla scrivania di DiNozzo, intento a lavorare al computer. Si dondolava avanti e indietro, fissando l’ampio lucernario sopra di loro. Da quando avevano scoperto chi c’era dietro all’omicidio e quali erano le sue intenzioni, una brutta sensazione si era impadronita di lei. Sapeva che suo padre era in pericolo, forse più di lei, e non avrebbe voluto perderlo di vista un secondo.  In quel momento era dentro l’edificio, al laboratorio di Abby al piano di sotto, eppure non riusciva a stare tranquilla. Avrebbe preferito che ci fosse un agente di scorta anche per lui.
Desiderosa di sfogarsi con qualcuno, scrisse un messaggio a Michael.
-Fidanzato?- la voce di Tony la fece sussultare.
-Collega- Kelly fece spallucce e ripose il cellulare, infastidita dal fatto che DiNozzo avesse sbirciato.
-McGee ha già provveduto a informarli sugli sviluppi del caso e sul fatto che rimarrai qui sotto la nostra protezione finché il caso non sarà risolto- la informò l’agente -E comunque, qui da noi avresti infranto la regola numero 12-.
-Cosa?- domandò Kelly, perplessa.
-Mai uscire con i colleghi-.
Kelly si raddrizzò sulla sedia, irritata -Primo, non ci sono mai uscita. Secondo, se anche fosse non sarebbero affari tuoi. Terzo, chi è che stabilisce queste ‘regole’?-.
Tony sfoderò un sorriso sornione -Tuo padre-.
-Davvero?- la ragazza lo guardò sospettosa, incerta se credergli o meno.
-Oh sì. Ne ha tantissime, per ogni occasione. Ad esempio, c’è la regola numero 6: mai chiedere scusa. O la numero 9: non andare da nessuna parte senza un coltello, ancora…-.
I due furono interrotti dall’arrivo di Gibbs seguito da Abby, che sfoderò un gigantesco sorriso alla vista di Kelly.
-Corby ha un complice- affermò il capo, per poi lasciare la scena ad Abby. La ragazza prese in mano il telecomando dello schermo centrale e si schiarì la voce.
-Sul computer del nostro sospettato ho trovato altre foto, tantissime- esordì -Essendo state scattate da una comunissima fotocamera digitale, sono riuscita a determinare data e ora di quando ciascuna foto è stata scattata- fece una pausa, perché in quel momento l’ascensore si aprì lasciando entrare McGee e Ziva, che presero posto silenziosamente alle loro scrivanie -Molte foto sono state scattate lo stesso giorno allo stesso momento, o comunque a distanza di pochi minuti o poche ore l’una dall’altra- continuò Abby -Quindi, a meno che Corby non avesse il dono del teletrasporto per spostarsi in pochi secondi da qui a New York, c’era un’altra persona che spiava Kelly. E ho anche trovato un indirizzo e-mail criptato dal quale Corby riceveva le foto di Kelly, indirizzo che ora McGee mi aiuterà a identificare- concluse, rivolgendo un altro sorriso dei suoi a McGee.
Gibbs annuì -Bel lavoro, Abby- disse, facendo spuntare sul volto dlella ragazza un’espressione soddisfatta -DiNozzo, scoperto qualcosa?-.
-Sto controllando i suoi movimenti bancari, capo- rispose Tony -Ma non ho trovato ancora niente di sospetto-.
Gibbs si rivolse ai due agenti appena rientrati -Ziva? McGee?-.
-Abbiamo parlato con i vicini- esordì Ziva -Lo descrivono come una persona molto schiva e riservata, dopo la morte del figlio-.
-E non lo vedono da un paio di giorni- aggiunse McGee.
Subito dopo nell’ufficio calò il silenzio. Tutti gli agenti, compresa Kelly, fissavano Gibbs in attesa di istruzioni. L’espressione del loro capo era imperscrutabile, impossibile capire cosa stesse pensando. Impossibile per tutti tranne che per Kelly, che riusciva a intravedere un velo di preoccupazione nei suoi occhi. La stessa preoccupazione che aveva lei per lui.
-McGee e Abby, trovate quell’indirizzo- fece Gibbs dopo un po’ -Ziva, ricostruisci la sua vita dalla morte del figlio ad oggi. DiNozzo, continua con quello che stavi facendo. E fatti aiutare da Kelly- così dicendo si avviò verso la saletta per la pausa. Kelly si alzò e lo seguì, subito imitata da DiNozzo, ma la ragazza lo fermò.
-Vado solo a prendere un caffè, rimango dentro l’edificio, e c’è mio padre. Non ho bisogno della scorta- gli disse -Torno subito- aggiunse poi, prima di raggiungere suo padre nella saletta.
Decisamente contrariato, Tony tornò a sedersi e a lavorare.

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Capitolo 9
*** 9. ***


Due capitoli nuovi in meno di 24 ore... sì sono sempre io, quella che ha abbandonato la fic per *ehm ehm* due anni xD
Finché ho tempo e ispirazione scrivo come un treno, quindi ecco un altro capitolo :3 è cortino, lo so, ma non sono mai stata brava a regolarmi con la lunghezza dei capitoli, divido in base agli eventi xD





Kelly trovò suo padre accanto alla finestra, lo sguardo perso nel vuoto, intento a sorseggiare un bicchiere di caffè. Ne prese uno anche lei e gli si avvicinò. Per un po’ rimase anche lei a fissare il paesaggio fuori; da quando era arrivata neanche un raggio di sole era riuscito a bucare la spessa coltre di nuvole.
-Sai, stavo pensando di farmi trasferire qui- Kelly fu la prima a rompere il silenzio.
Gibbs finalmente distolse lo sguardo dal cielo plumbeo -E’ una decisione importante. Sicura di averci pensato bene?- si sforzò di mantenere un tono neutro ma era evidente che il non dover rivedere la figlia partire per New York lo avrebbe reso la persona più felice del mondo.
Kelly annuì -Non lascerei nulla di importante. Anche prima che mi si presentasse l’occasione di venire qui avevo pensato di andarmene, più di una volta… New York non mi piace-.
-Joanne e Mac?- chiese Gibbs.
-Un po’ mi mancherebbero, sì… ma basterebbe qualche telefonata, conta che pur abitando nella stessa città non li vedo da quando sono entrata in accademia-.
-Fammi indovinare: non hanno gradito la tua decisione di entrare in polizia?- l’uomo si lasciò sfuggire un sorrisetto.
Anche Kelly sorrise -A nonna è quasi venuto un infarto quando lo ha saputo-.
Parlare dei suoi nonni fece tornare in mente a Kelly un’altra cosa, che però aveva paura di chiedere. Ma la curiosità era troppa e dopo aver buttato giù velocemente gli ultimi sorsi di caffè si decise.
-E nonno Jackson come sta?- chiese con un filo di voce.
-E’ sempre il solito- rispose Gibbs.
-Ha ancora quel negozietto a Stillwater?-.
-Sì, ormai ci dorme pure, là dentro-.
Kelly si rilassò e lasciò andare un sospiro di sollievo -Mi piacerebbe tornarci, una volta-.
Gibbs le cinse le spalle con un braccio -Sbattuto quel bastardo in galera ti ci porto, promesso-.
Rimasero così per un po’, mentre dal cielo iniziavano a scendere lentamente piccoli fiocchi di neve. Poco dopo anche Gibbs finì il caffè e sciolse a malincuore l’abbraccio.
-Inoltrerò la tua richiesta al direttore- disse.
-Grazie- la ragazza sorrise e lo seguì fuori dalla saletta.
 
Una volta arrivati all’open space furono quasi travolti da Tony.
-Oh capo, proprio te cercavo!- esclamò, trafelato.
-Che c’è, DiNozzo? Trovato qualcosa?- domandò Gibbs, appoggiandosi alla sua scrivania. Kelly tornò a sedersi accanto a quella di Tony.
-Eccome! Reggetevi forte- Tony si portò al centro dell’ufficio e richiamò l’attenzione di tutti i colleghi -Secondo i movimenti bancari di Corby, non risulta l’acquisto di nessun biglietto aereo quindi o a New York ci è andato in macchina, cosa altamente improbabile, o come ha detto Abby ci si è teletrasportato. Ho trovato anche alcune ricevute di ristoranti che provano che all’ora dell’omicidio era qui a Washington a riempirsi lo stomaco. Quindi o davvero questo tizio può smaterializzarsi come Harry Potter, o…- lasciò in sospeso la frase.
-Non ha ucciso lui l’agente Keller- terminò Gibbs con un sospiro -Dev’essere stato il suo complice-.
-Ma come mai sul coltello c’erano le sue impronte?- chiese Ziva.
-O lo vogliono incastrare o…- iniziò Tony, ma fu subito interrotto da Kelly.
-O voleva che si sapesse che era stato lui- sentenziò la ragazza, fissando il pavimento.
-Sta giocando con noi. Vuole farci sapere che è stato lui ma che non possiamo prenderlo- disse Gibbs.
-Ma che lui può prendere noi- Kelly finalmente alzò gli occhi e incontrò quelli di suo padre, carichi di apprensione -Aveva pianificato tutto: uccidere un agente NCIS a New York, per attirarmi qui e…-.
-Un momento- questa volta fu Ziva ad interrompere Kelly -In qualche modo dovrà aver attirato Keller là… sicuramente attraverso il suo complice-.
-Controllate tabultati telefonici, email, tutto ciò con cui Keller poteva comunicare. In qualche modo dovrà averlo rintracciato… - ordinò Gibbs, ma non poté fare a meno di notare la stanchezza sui volti dei suoi colleghi. Era stata una giornata lunghissima, fuori ormai era scesa la sera e aveva iniziato a nevicare -Domani- aggiunse -Tutto questo domani. Ora andate a casa, ve lo siete meritato-.
-Ma capo…- tentò Ziva, ma Gibbs fu irremovibile.
-Siete stanchi. Andate a riposarvi e domattina riprendiamo da qui- sentenziò -Va ad avvertire anche McGee e Abby, di sotto-.
Ziva annuì e sparì dietro le porte dell’ascensore. DiNozzo, che all’ordine di andare a casa aveva iniziato immediatamente a raccogliere le sue cose senza protestare, si ricordò del suo compito di proteggere Kelly solo quando il suo capo gli fu davanti.
-Porta Kelly con te- gli disse -E fa che non le accada niente-.
-Ehi, non credo proprio- fece la voce di Kelly alle sue spalle. La ragazza fissava i due uomini con gli occhi ridotti a due fessure e a braccia conserte. Tony rabbrividì nel notare la somiglianza con il padre.
-Corby conosce te, e vuole entrambi, non solo me- Kelly puntò un indice sul petto di Gibbs -Non ho intenzione di lasciarti a casa da solo-.
Gibbs sospirò. Alla fine, per quanto si fidasse di DiNozzo e della sua capacità di proteggere Kelly, neanche a lui piaceva l’idea di passare la notte senza avere la certezza ce sua figlia stesse bene -Testarda come tua madre- disse, scuotendo il capo.
-Quindi posso andare a casa?- chiese speranzoso Tony, interrompendo la discussione dei due e pregustando già la visione di un buon film sul divano di casa sua, senza la responsabilità della figlia del suo capo da proteggere.
Gibbs gli rivolse un sorriso a mezzabocca che non significava nulla di buono -Sì, DiNozzo. A casa mia-.

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Capitolo 10
*** 10. ***


-Possibile che questo pezzo di antiquariato riceva un solo canale?!- sbottò Tony, trattenendosi dal tirare un calcio al vecchio televisore di casa Gibbs.
-Possibile- Kelly fece spallucce e si sedette accanto a lui sul divano, con una tazza di caffè fumante tra le mani.
L’agente la guardò disgustato -Come fai a berne così tanto e a tutte le ore del giorno?- chiese, poi sembrò pensarci un attimo -Lascia perdere, a volte dimentico di chi sei figlia-.
Kelly si lasciò sfuggire un sorriso, prima di prendere dal tavolino il fascicolo del caso a cui stavano lavorando e immergersi nella lettura, sorseggiando ogni tanto il caffè bollente.
-Posso?- la interruppe dopo un po’ la voce di Tony, che con un gesto del capo alludeva al suo portatile, abbandonato sul tappeto ai piedi del divano.
Kelly annuì -Fa pure- rispose, e tornò a concentrarsi sul caso.
Era convinta che mancasse qualcosa, qualcosa di fondamentale importanza che sfuggiva a tutti loro, persino ai colleghi di New York. Prese a fissare la foto del cadavere riverso nella neve poi quella del coltello, così tanto che quando distolse per un attimo lo sguardo ancora ne vedeva i dettagli. Tornò alle foto del cadavere che aveva scattato Michael.
Michael. Tirò fuori dalla tasca il cellulare ma non trovò nessun messaggio. Strano, pensò, considerando che il collega praticamente viveva con il cellulare in mano. L’unica spiegazione che le venne in mente fu quella che i suoi colleghi fossero presi dal caso tanto quanto lo erano loro all’NCIS. Ripose il cellulare e riprese le foto. Si soffermò su quella delle mani dell’agente morto. Si spostò in modo da avere più luce dalla lampada lì accanto e notò che il cadavere sembrava avere qualcosa sotto le unghie. Cercò il referto dell’autopsia del medico legale della Omicidi ma non trovò nulla in proposito. Sempre più perplessa richiuse il fascicolo. L’indomani l’NCIS avrebbe dovuto riconsegnare il corpo alla famiglia, ma forse c’era un po’ di tempo per ricontrollare quel dettaglio che sembrava essere inspiegabilmente sfuggito al patologo di New York.
Si raddrizzò sul divano con l’intento di chiedere a Tony il cellulare del loro medico legale quando si accorse dell’espressione estremamente compiaciuta con la quale fissava lo schermo del computer.
-Che stai facendo?- chiese, curiosa, avvicinandosi a lui.
-Oh, niente di che. Ho solo agganciato McGee in un gioco di ruolo- rispose Tony, spostandosi leggermente per impedirle di sbirciare.
-Gioco di ruolo? Non mi avevi detto che il mio computer ti serviva per questo- Kelly incrociò le braccia al petto, seccata.
-E dai, mi sto solo divertendo un po’! Gli sto facendo credere di giocare con una bella ragazza…- ridacchiò lui.
La ragazza roteò gli occhi. Stava per lasciarlo perdere e scendere nel seminterrato a parlare dei suoi dubbi con Gibbs, quando si accorse che a giudicare dall’espressione di Tony, non stava semplicemente prendendo in giro il collega.
-Aspetta un attimo…- con uno scatto repentino gli fu letteralmente addosso, strappandogli il portatile dalle mani e lasciandolo interdetto per quel gesto inaspettato -Lo sapevo!- sbottò Kelly, trafiggendolo con lo sguardo -Hai dato il mio nome al tuo avatar?!-.
Tony avvampò e prese a torcersi le mani -Non mi venivano in mente altri nomi femminili… Ziva era troppo poco comune, mi avrebbe scoperto subito!- si giustificò.
-E poi guarda, non mi somiglia per niente!- indicò la figura sul monitor, decisamente più formosa e meno vestita di lei -Sei un’idiota, DiNozzo- sospirò e lo colpì alla base della testa con la mano.
Tony portò immediatamente la mano nel punto dov’era stato colpito e sgranò gli occhi allibito, dimenticando per un momento la storia del gioco di ruolo -Cosa… cosa hai fatto?!-.
Kelly lo guardò senza capire -Così- allungò la mano per colpirlo di nuovo ma Tony la fermò.
-No, ho capito… è solo che… no, non importa-  scosse il capo -Posso riaverlo?- indicò il portatile.
Kelly ci pensò un attimo poi glielo porse -Solo se lasci stare McGee e i giochi di ruolo-.
-Parola di scout!- esclamò Tony, prendendo il pc con l’espressione di un bambino a cui viene restituito il suo giocattolo preferito dopo una punizione.
-Non mi fiderei se fossi in te- la voce di Gibbs li fece sussultare entrambi. Era appena riemerso dallo scantinato, coperto di segatura dalla testa ai piedi come ogni sera -DiNozzo, la stanza degli ospiti è al piano di sopra. in fondo al corridioio a destra-.
Tony annuì e raccolse la sua roba. Con il portatile di Kelly sottobraccio, si avviò su per le scale.
Gibbs si scrollò la segatura dai capelli e dai vestiti e si preparò a passare la notte sul divano, ma Kelly non accennava a muoversi dalla sua posizione, e lo fissava con la stessa espressione contrariata di qualche ora prima in ufficio, le braccia di nuovo incrociate sul petto.
-E ora che c'è?- sospirò Gibbs.
-Inutile che fingi di non aver bisogno di niente e di nessuno, sei in pericolo esattamente quanto me- sentenziò Kelly.
-Ne sono consapevole-.
-E hai appena mandato la nostra scorta al piano di sopra, mentre tu dormi sul divano, qua sotto-.
-Kelly...- iniziò a dire suo padre, ma Kelly si alzò di scatto e lo interruppe, prendendogli una mano e incamminandosi verso le scale. Gli bastò guardarla negli occhi per capire le sue intenzioni. Nonostante ogni cellula del suo corpo urlasse di rimanere lì dov'era, si trovò a seguirla quasi involontariamente al piano di sopra, fino a quella che era stata la stanza sua e di Shannon.
Kelly lo costrinse ad entrare e si chiuse la porta alle spalle. Lasciò la mano di suo padre, che sembrava paralizzato, e aprì il grande armadio che occupava quasi una parete intera. Prese una coperta e un paio di cuscini e dopo averli sistemati sul materasso nudo si distese, assicurandosi di avere la pistola a portata di mano. Osservò Gibbs avvicinarsi con gesti lenti e meccanici e sedersi dall'altro lato del letto con un sospiro. Dopo un tempo che le parve infinito, lo sentì finalmente stendersi accanto a lei.
-Buonanotte- mormorò, prima che la stanchezza la trascinasse nel sonno.
 
Erano da poco passate le cinque del mattino quando Gibbs si svegliò dal suo solito sonno agitato. Accanto a lui Kelly dormiva, rannicchiata su se stessa come quando era piccola. Quell'immagine rievocò in lui un'ondata di ricordi, e fu costretto ad alzarsi prima di venirne travolto. Assicurò la fondina con la pistola ai pantaloni e scese al piano di sotto. Fuori era ancora buio e la strada era ormai coperta da una soffice coltre bianca.
Andò in cucina e si preparò il caffè. Si stava riempiendo la tazza quando sentì un rumore provenire dal soggiorno. Un brivido gli serpeggiò lungo la schiena, mentre portava la mano alla fondina e estraeva la pistola. Tolse la sicura e, tenendo l'arma ben salda davanti a se, si sporse verso il soggiorno. A prima vista non vide nulla, ma una terribile sensazione gli diceva che c'era qualcuno in casa sua.
Allungò una mano sulla parete alla ricerca dell'interruttore della luce. Proprio mentre lo faceva scattare, illuminando il soggiorno, udì un rumore di vetri infranti alle sue spalle. Si voltò di scatto, trovandosi di fronte una figura completamente vestita di nero, con il volto coperto da un passamontagna e una pistola in mano.
-Getta quell'arma!- ringhiò -Gettala o sparo!-.
L'uomo di fronte a lui non si mosse. Il dito di Gibbs esitò un momento sul grilletto, e sparò proprio nel momento in cui un colpo alla nuca lo faceva piombare nell'oscurità.

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Capitolo 11
*** 11. ***


Uno sparo. Kelly non l’aveva sognato, quello che l’aveva fatta scattare a sedere sul letto era proprio uno sparo, e veniva dal piano di sotto. Un attimo dopo era in corridoio, la pistola carica stretta in mano. Il trovarsi faccia a faccia con Tony, anche lui armato e con ogni singolo muscolo del corpo teso, fu un’ulteriore conferma che purtroppo non stava sognando.
I due agenti percorsero velocemente il corridoio e scesero circospetti le scale. In quel momento uno stridio di gomme li fece sobbalzare entrambi. Tony corse verso la finestra, giusto in tempo per distinguere la sagoma di un furgone allontanarsi a tutta velocità.
A quel punto entrambi erano sicuri che non ci fosse più nessuno in casa all’infuori di loro due, ma Tony diede comunque un’occhiata in giro.
-Non c’è più nessuno- confermò, raggiungendo Kelly in cucina. La ragazza era appoggiata al bancone, e teneva lo sguardo fisso su alcune macchioline rosse sul pavimento poco lontano da una pistola abbandonata a terra, in netto contrasto con le piastrelle bianche.
-Credi che sia il suo?- gli chiese con un filo di voce.
-Non lo so- sospirò Tony, posandole una mano sulla spalla -Chiamo gli altri-.
Circa venti minuti dopo arrivarono Ziva e McGee, seguiti da Ducky. I due agenti, dopo essere stati informati da Tony sull’accaduto, iniziarono a scattare foto e a cercare possibili prove oltre al sangue sul pavimento. Ducky invece raggiunse Kelly sul divano, dove Tony l’aveva costretta a sedersi prima dell’arrivo dei colleghi.
-Se la caverà, vedrai- le disse, mentre le cingeva le spalle con un braccio.
Kelly non rispose, si limitò ad asciugarsi il più velocemente possibile una lacrima sfuggita al suo controllo. Lo sguardo le cadde sul fascicolo sul tavolino, dove l’aveva lasciato la sera prima,e le tornò in mente ciò che aveva intenzione di chiedere a Ducky. Se la sua intuizione era giusta forse avrebbero individuato il nome del complice di Corby e sarebbero potuti arrivare a lui e di conseguenza a suo padre. Anche se Kelly era convinta che ora che aveva Gibbs, Corby stesse puntando a lei. Dopotutto aveva fatto tanto per attirarla lì…
-Ducky, potresti fare una cosa per me?- chiese dopo un po’.
Ducky, quasi sorpreso dal sentire la sua voce, le sorrise -Tutto quello che vuoi, mia cara-.
Kelly gli passò il fascicolo -Dovresti controllare il cadavere dell’agente Keller… Se ha qualcosa sotto le unghie. I colleghi di New York sembrano essersi dimenticati questo ‘piccolo’ particolare-.
-Oh… beh, in teoria oggi dovrei riconsegnare la salma alla famiglia…- tentenò il patologo.
-Per favore, potremmo scoprire il complice di quel bastardo che ha preso mio padre…- Kelly quasi lo supplicò, e Ducky cedette.
-D’accordo, vado subito- disse. Dopo averla salutata con una leggera pacca sulla spalla, uscì da casa Gibbs.
 
-Il proiettile è partito dalla pistola di Gibbs- disse Ziva ai colleghi riuniti con lei intorno al grande schermo al centro dell’open space -Probabilmente ha colpito uno dei due aggressori di striscio, prima di conficcarsi nel mobile della cucina. Il sangue sul pavimento quindi non dovrebbe essere di Gibbs, ma ce lo confermerà Abby-.
-Scommetto che è di Corby, quel sangue- fece Tony.
-O del suo complice- ipotizzò McGee -Sembra ormai ovvio che è inutile cercarlo ancora a New York, l’ha raggiunto qui per rapire Gibbs-.
-McGee, hai provato a rintracciare il cellulare di Corby?- domandò Kelly, fino a quel momento rimasta in silenzio.
-E’ da ieri che ci provo ma niente, deve avergli rimosso la batteria- rispose l’agente più giovane.
-E quell’indirizzo email? Novità?-.
McGee scosse il capo -Ci vorranno giorni per scoprire il mittente, chiunque sia stato ha fatto proprio un bel lavoro…-.
Kelly sospirò. Avevano solo quel campione di sangue in mano, e anche fosse stato di Corby o del suo complice non li avrebbe aiutati a trovare dove si nascondevano o dove avevano portato Gibbs.
-Vado giù da Abby- disse laconica, avviandosi verso l’ascensore.
Era la prima volta che scendeva nel laboratorio di Abby, eppure la prima cosa che notò una volta uscita dall’ascensore fu l’assenza della musica assordante della quale le aveva parlato McGee il giorno in cui si erano conosciuti. Le aveva detto che all’inizio avrebbe fatto fatica persino a parlare, ma che col tempo le sue orecchie si sarebbero abituate fino a considerare quel frastuono quasi normale. Quel giorno ancora non aveva esternato il desiderio di farsi trasferire lì, eppure tutti l’avevano trattata come se già sapevano che sarebbe rimasta.
-Abby?- chiamò incerta, sporgendosi appena dentro il laboratorio.
La ragazza le dava le spalle, e fissava distrattamente il monitor del computer di fronte a lei. Non appena sentì la sua voce si voltò e vedendola si sforzò di fare un sorriso.
-Oh… Kelly- sussurrò, correndole incontro e stringendola in un abbraccio.
Kelly rimase per un secondo interdetta da quel gesto, ma le venne assolutamente naturale ricambiare la stretta. Quando Abby sciolse l’abbraccio, Kelly notò qualche residuo di trucco nero sulle sue guance e si rese conto che aveva ancora gli occhi lucidi.
-Stavo per venire su da voi- Abby si ricompose, tornando al computer -Aspettavo solo i risultati di un campione che mi ha dato Ducky, mi ha detto che lo avevi chiesto tu-.
Kelly annuì -Del sangue che mi dici?-.
-E’ di Corby- Abby premette qualche tasto sulla tastiera e il risultato delle analisi comparve sullo schermo più grande appeso alla parete.
Kelly si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo -Quel campione che ti ha dato Ducky, che cos’era di preciso?- chiese poi.
-Pelle- rispose prontamente Abby -L’agente Keller deve essersi difeso-.
In quel momento un sonoro bip proveniente dal computer attirò l’attenzione di entrambe.
-Ho un riscontro- disse Abby -Oh… Ma è un agente della Omicidi!- esclamò, perplessa.
Kelly ebbe la sensazione che il pavimento si fosse aperto sotto i suoi piedi e l’avesse inghiottita. Istintivamente tirò fuori il cellulare dalla tasca, rilesse l’ultimo messaggio inviato e dovette controllarsi per non scagliarlo contro il muro. Si voltò lentamente verso lo schermo per trovarvi la conferma dei suoi pensieri.
-Agente Michael Beck- lesse Abby -Lo conosci?- disse poi, notando l’espressione sconvolta di Kelly.
-Purtroppo sì- rispose l’agente con un filo di voce. Abby le stampò i risultati delle analisi e glieli porse.
-Grazie Abby- Kelly si sforzò di sorridere e lasciò il laboratorio, sotto lo sguardo preoccupato di Abby.

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Capitolo 12
*** 12. ***


Non appena le porte dell’ascensore si chiusero dietro di lei, Kelly individuò il pulsante per le emergenze e lo premette, bloccando l’ascensore. Non sapeva che quello era uno degli luoghi preferiti di suo padre. Aveva semplicemente bisogno di restare da sola per un po’ per riordinare le idee e quello era il primo posto che le era venuto in mente. Si appoggiò alla parete e si lasciò scivolare sul pavimento. Teneva ancora in mano i risultati delle analisi di Abby e non riusciva a staccare gli occhi dal nome del suo collega.
In un certo senso avrebbe dovuto aspettarselo; era l’unico che a New York poteva essere tanto vicino a lei da spiarne ogni movimento. Lei così chiusa in se stessa, che non lasciava che le si avvicinasse nessuno. Lei che si era fidata di lui. Si prese il volto tra le mani. Come aveva potuto essere così stupida e non accorgersi di essere spiata?
Quando sentì il cellulare vibrarle in tasca si riscosse. In brivido freddo le sepreggiò lungo la schiena, immaginando fosse Michael. Quando lo prese in mano, con un misto di delusione e sollievo lesse il nome di McGee sul display.
Si alzò e si ricompose, sforzandosi di assumere un’espressione neutra, e fece ripartire l’ascensore. Quando le porte si aprirono sull’open space, quasi travolse proprio McGee, che se la stava prendendo con il pulsante per chiamare l’ascensore.
-Oh… stavo venendo giù da Abby a cercarti- le disse, leggermente imbarazzato. La sua espressione mutò di colpo quando collegò la sua presenza con il pulsante che sembrava non funzionare -Un momento… hai bloccato tu l’ascensore?- chiese, anche se conosceva già la risposta. Era sorprendente quanto quella ragazza fosse così simile al padre, nonostante fosse cresciuta lontano da lui.
Kelly ignorò la domanda -Che hai scoperto?- chiese a sua volta, rendendosi conto troppo tardi di aver usato un tono forse troppo brusco.
-Quell’indirizzo email… lo so, ti avevo detto che ci sarebbero voluti giorni, ma il direttore mi ha dato l’autorizzazione per utilizzare un metodo non proprio legale…- iniziò McGee, che ormai aveva raggiunto la sua scrivania.
-E…?- lo esortò Kelly.
-Ho scoperto chi mandava le tue foto a Corby- riprese il giovane agente. Kelly notò che evitava di icnrociare il suo sguardo e che si torceva nervosamente le mani -Beh, ecco… si tratta di…-.
-Michael Beck della Omicidi, il mio collega della Omicidi- concluse la ragazza, guadagnando occhiate sbalordite da parte di tutti -Lo so-.
-Ma come hai…?- domandò Tony.
-Ducky ha trovato dei frammenti di pelle sotto le unghie di Keller. Abby li ha analizzati. Sono di Michael- spiegò Kelly.
-Telefono subito a New York- disse Ziva, già con la cornetta del telefono in mano.
-Tony, i suoi tabulati telefonici- ordinò Kelly -Questo è il suo numero… McGee, vedi se riesci a rintracciarlo-.
Prima di mettersi al lavoro, Tony lanciò un’occhiata a McGee. Nello sguardo del collega trovò conferma dei suoi pensieri. Entrambi avevano riconosciuto il timbro del loro capo nella voce della ragazza.
-Beck non è in servizio, ha chiesto qualche giorno di permesso- annunciò Ziva, una volta chiusa la telefonata -Ha detto di avere problemi familiari. Nessuno lo vede né lo sente da due giorni-.
Kelly diede voce ai pensieri di tutti -E’ qui- sibilò.
-Ho trovato il segnale!- esclamò McGee. Non appena si rese conto da dove provenisse il segnale sbiancò in volto -E’… davanti ai cancelli dell’NCIS- disse con un filo di voce.
McGee non aveva ancora finito di parlare che Kelly era già per le scale, scendendo gli scalini a due a due, con una mano sulla fondina, pronta a scattare. I tre colleghi la seguirono, attraversarono il parcheggio di corsa fino al cancello principale. Kelly vi si aggrappò con un balzo, nonostante le proteste della guardia, e lo scavalcò agilmente. Non appena atterrò dall’altra parte tirò fuori la pistola, giusto in tempo per vedere un furgone nero svoltare l’angolo della strada a tutta velocità.
 
-Quando ho agganciato il segnale stava telefonando- disse McGee, una volta tornati in ufficio -Chiamava un cellulare usa e getta. Sono riuscito a recuperare il numero, ma non a rintracciarlo-.
-Beh, fallo- ringhiò Kelly, facendolo sussultare.
-Ora non è attivo… devo aspettare che faccia una chiamata o…- balbettò McGee, ma non terminò la frase quando incrociò lo sguardo infuocato di Kelly.
-Non mi interessa, trovalo e basta!- gridò lei, sbattendo il pugno sulla scrivania di Gibbs. McGee avvampò e tornò a fissare il computer e a battere le dita sulla tastiera, sperando che il monitor lo nascondesse.
Kelly sbuffò e si diresse a grandi passi verso la saletta per la pausa. Prese un caffè e si sedette al tavolino più vicino alla finestra, massaggiandosi le tempie. Aveva trattato male McGee senza motivo e si sentiva in colpa. Voleva ritrovare suo padre ad ogni costo, e sentiva di avere tutta la responsabilità del caso sulle sue spalle. Era consapevole che, in mancanza di Gibbs, la gestione del caso sarebbe passata in mano a Tony, visto il suo grado e visto che Kelly non faceva nemmeno parte dell’NCIS. Ma nonostante sentisse di potersi fidare di Tony, voleva assolutamente essere lei a capo delle indagini. Eppure, in quel momento sentiva di non esserne più in grado. Le sembrava che tutto le stesse sfuggendo di mano, che stesse andando tutto a rotoli. Sapeva che era il momento di chiedere aiuto, ma il suo orgoglio glielo impediva. Aveva paura di mostrarsi debole, di farsi vedere per quello che in quel momento si sentiva di essere: non un’agente della Omicidi, o dell’NCIS, ma una ragazzina terrorizzata dall’idea di non rivedere più suo padre.
Ricacciò indietro le lacrime che avevano iniziato a pungerle gli occhi quando vide Tony venire verso di lei. Prese un sorso di caffè e si sforzò di ignorarlo mentre le si sedeva accanto.
-Ho fatto qualche ricerca- esordì Tony, aprendo il fascicolo che teneva in mano -Michael è nipote di Corby. Quello che Gibbs ha… ucciso, era suo cugino. Erano molto legati, essendo entrambi figli unici erano un po’ come fratelli-.
Kelly annuì, continuando a guardare fuori dalla finestra e a bere caffè.
-Michael e Keller hanno avuto contatti qualche settimana prima dell’omicidio. McGee sta controllando se si sono scritti anche qualche email- continuò l’agente, ma non ottenne risposta -Tutti noi vogliamo riportare qui Gibbs sano e salvo- disse poi Tony, voltandosi verso di lei -Nessuno ti obbliga ad affrontare tutto questo da sola- le posò una mano sulla spalla, prima di andarsene.






Capitolo cortino... ma non disperate, il prossimo arriverà presto e le cose inizieranno a movimentarsi un po' :P

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Capitolo 13
*** 13. ***


Kelly trascorse il resto della giornata tra la saletta per la pausa e la scrivania di suo padre, irrequieta. Aveva perso il conto dei caffè che aveva bevuto e che avevano contribuito ad agitarla. Dopo la scenata con McGee nessuno dei tre colleghi, a parte Tony, le aveva più parlato, se non per aggiornarla su quello che stavano facendo.
Era ormai scesa la sera quando Tony a malincuore decretò che per il momento non c’era più niente da fare e comunicò a Ziva e McGee di andare a casa. Una volta che i due colleghi furono usciti si avvicinò a Kelly, che non aveva accennato a muoversi dalla scrivania di Gibbs.
-Tu vieni a casa con me- sentenziò.
-Grazie Tony, ma preferisco tornare a casa… mia- rispose bruscamente lei.
-Tu là non ci torni finché questa storia non sarà finita, e comunque non da sola. Gibbs mi ha ordinato di proteggerti ed è quello che intendo fare, anche se lui non è qui-.
Alla fine Kelly fu costretta ad accettare, un po’ perché la stanchezza le aveva tolto la voglia di discutere e un po’ perché lei stessa non si sentiva sicura a passare la notte da sola nella casa in cui avevano rapito suo padre.
L’appartamento di Tony non era molto lontano dalla sede dell’NCIS. Era grande e luminoso e estremamente ordinato. Kelly se lo era immaginato completamente diverso, considerando che Tony viveva solo e che il suo lavoro spesso gli consentiva di tornare a casa praticamente solo per dormire.
Tony le mostrò la stanza degli ospiti, mentre le annunciava che avrebbe preparato la cena.
-Wow, sai anche cucinare?- chiese Kelly, stupita.
-Te l’ho detto, sono pieno di sorprese- sorrise Tony, sparendo dietro la porta della cucina.
Mentre aspettava, Kelly si avvicinò a una delle grandi finestre del soggiorno, appoggiò le mani sul davanzale e la fronte contro il vetro freddo. Il suo sguardo si perse in mezzo ai fiocchi di neve che continuavano a cadere incessantemente dal giorno prima. Pensò a suo padre, a dove lo tenessero, se stesse bene… E a Michael, che per anni l’aveva ingannata, per poi attirarla in quella trappola. Al solo pensiero del suo ormai ex collega sentì la rabbia ribollirle dentro e strinse il davanzale con tanta forza che le nocche le divennero bianche.
Da uno spiraglio della porta della cucina, Tony la osservava silenzioso. Poteva quasi percepire le sue emozioni, la rabbia per una persona che considerava amica e il dolore per Gibbs. In fondo, anche lui considerava Gibbs un po’ come un padre…
In quel momento l’acqua che aveva messo a bollire per la pasta tracimò, strappandolo bruscamente ai suoi pensieri. Istintivamente afferrò uno dei due manici della pentola per spostarla, ma non appena il palmo della sua mano entrò in contatto con il manico bollente non poté fare a meno di gridare dal dolore.
Kelly si precipitò in cucina, allarmata -Non avevi detto di saper cucinare?- lo punzecchiò, spegnendo la fiamma sotto la pentola.
-Mi sono… distratto- sbuffò Tony, esaminando la mano bruciata con un’espressione dolorante.
La ragazza scosse il capo -Dammi qua- prese la mano di Tony, il cui volto si contorse in una smorfia di dolore, aprì l’acqua fredda e la fece scorrere sulla bruciatura.
Mentre Kelly si occupava della sua scottatura, Tony non poté fare a meno di osservarla. Era la prima volta da quando era arrivata all’NCIS ce era così vicina a lui, e quella vicinanza gli provocava una piacevole sensazione di calore in tutto il corpo, tanto piacevole da sovrastare il dolore alla mano.
-Ecco fatto- disse Kelly, una volta finito di medicargli la bruciatura -Tranquillo, non perderai la mano né morirai. Comunque, è meglio che per stasera pensi io alla cena- un lieve accenno di un sorriso comparve sul suo volto, per la prima volta da quando Gibbs era stato rapito.
Tony non protestò e rimase seduto al tavolo della cucina mentre Kelly armeggiava ai fornelli. Di nuovo si ritrovò a fissarla, ma questa volta si riscosse immediatamente, tirandosi uno scappellotto mentale mentre gli sembrava di sentire la voce di Gibbs sibilargli all’orecchio “Non pensarci nemmeno, DiNozzo. È mia figlia”.
 
Gibbs si risvegliò dal sonno agitato in cui era piombato per l’ennesima volta da quando lo avevano legato e rinchiuso lì. Non aveva idea di dove fosse, né di quanto tempo fosse passato da quando lo avevano sequestrato. Poche ore? Un giorno? Gli sembrava di stare lentamente perdendo il contatto con la realtà, e si sforzava di rimanere lucido il più possibile.
Vestito solo di una vecchia felpa dell’NIS e dei vecchi jeans sdruciti che usava per lavorare nel seminterrato, era continuamente scosso da brividi di freddo. Quel posto, senza finestre, doveva essere una specie di cantina. Aveva una tempia che pulsava a causa di un colpo ricevuto da Corby con il calcio della pistola.
Non faceva altro che pensare a Kelly. Era sicuro che i suoi colleghi avrebbero fatto di tutto per proteggerla, ma anche che Corby e il suo complice avrebbero trovato un modo per attirarla lì. E ucciderla, davanti ai suoi occhi. Il solo pensiero gli fece accapponare la pelle. Non avrebbe sopportato anche la sua perdita, dopo Shannon, ancora una volta per colpa sua. L’aveva appena ritrovata e tutto ciò che voleva era passare il resto della vita con lei accanto, come una famiglia. Come prima che Shannon morisse.
La porta di fronte a lui, unico modo per entrare e uscire da quella specie di bunker, si aprì di scatto lasciando entrare Corby con un sorrisetto soddisfatto dipinto in volto. Sorrisetto che Gibbs desiderava ardentemente distruggere con un pugno ben assestato.
-Buonasera agente Gibbs, dormito bene?- ghignò.
Gibbs non rispose; si limitò fissarlo con occhi furenti.
-Non si preoccupi, tra poco potrà rivedere sua figlia- fece Corby, portandosi alle sue spalle.
-Sei un illuso se credi che verrà- rispose Gibbs, che solo a sentir parlare di sua figlia da quell’essere sentiva la sua già scarsa pazienza venir meno -Non è stupida-.
-Oh, so bene che non è un’incosciente- continuò Corby, mentre da dietro la schiena tirava fuori una siringa piena di un liquido biancastro -Ma sono anche certo che verrà a farle visita-.
Gibbs non ebbe tempo di replicare. Si rese conto troppo tardi dell’ago piantato nel suo braccio, e della risata malefica dell’uomo alle sue spalle. Provò con tutte le sue forze a divincolarsi, ma le corde con cui era legato gli impedivano qualsiasi movimento.
-Sei un maledetto…- iniziò a dire, ma non riuscì a terminare la frase. Si sentiva sempre più debole, incapace persino di articolare le parole e aveva la vista annebbiata.
La voce di Corby gli giunse distorta e lontanissima -Ci vediamo più tardi, agente Gibbs-.





Si ok, forse è più corto dell'altro ^^" Ma almeno è ricomparso Gibbs!

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Capitolo 14
*** 14. ***


Dopo cena Tony propose di vedere un film, e Kelly accettò di buon grado, nonostante non fosse dell’umore giusto per fare niente in quel momento.
Mentre Tony sceglieva accuratamente il film da uno scaffale strapieno di DVD, Kelly si chiuse in bagno con l’intento di cambiarsi e mettersi qualcosa di più comodo. Si legò i capelli e si sferzò il viso con l’acqua fredda, sperando che l’aiutasse a ragionare un po’ più lucidamente. Mentre si tamponava con l’asciugamano si guardò allo specchio e quasi non si riconobbe. Quella giornata l’aveva stremata, aveva bisogno di riposo, ma sapeva già che con quei pensieri che la tormentavano non avrebbe chiuso occhio.
In quel momento il cellulare prese a vibrare nella tasca dei suoi pantaloni. Quando lesse il nome sul display si sentì mancare e dovette aggrapparsi al lavandino per evitare di cadere. Fece un respiro profondo e rispose.
-Michael- sibilò velenosa.
-Gibbs, che piacere risentirti- rispose l'uomo dall'altra parte. Kelly stentò a riconoscere la voce di quello che era stato il suo collega e amico. Era carica di odio e rabbia, gli stessi sentimenti che provava lei in quel momento.
-Se hai fatto del male a mio padre giuro che ti uccido con le mie stesse mani...- ringhiò, con le mani che le tremavano.
-Con calma Gibbs, tuo padre sta bene, e se fai esattamente come ti dico lo rivedrai tra poco- sogghignò Michael.
Kelly deglutì rumorosamente. Sapeva che dargli retta era l'ultima cosa da fare, ma l'istinto in quel momento le gridava di correre a cercare Gibbs. E lei era sempre stata terribilmente istintiva.
-Che devo fare?- sospirò.
-Bene, vedo che capisci. Per prima cosa, devi uscire da quella casa senza farti seguire e procurarti un mezzo di trasporto, poi aspettare ulteriori indicazioni- disse Michael -Ah, ti avverto che sono in zona, quindi se ti vedo uscire con qualcuno le conseguenze non piaceranno né a te né all'agente speciale Gibbs...- così dicendo riattaccò senza dare a Kelly il tempo di replicare.
Kelly si rimise il telefono in tasca e si sforzò di pensare lucidamente. Doveva uscire da lì, senza farsi notare da Tony. Era chiaro che non poteva farlo dalla porta. Si affacciò alla finestra del bagno e notò che le scale antincendio del condominio passavano proprio lì accanto.
L'aria fuori era gelida, ma non poteva pensare di andare in soggiorno a recuperare il giaccone e poi tornare in bagno. Stava per scavalcare il davanzale quando le venne in mente che in qualche modo doveva avvertire almeno Tony. Non poteva dirglielo in quel momento o non l'avrebbe mai lasciata andare, o avrebbe insistito per seguirla, mettendo in pericolo sia loro che Gibbs.
Il suo sguardo cadde quasi per caso sul tubetto del dentifricio sul lavandino. Lo prese e se ne mise un po' sull'indice destro, che poi usò per scrivere un messaggio sullo specchio. Dopodiché spalancò la finestra, scavalcò il davanzale e si aggrappò al corrimano della scala antincendio. Tremando di freddo scese fino all'ultimo piano e fece il giro del condominio fino al parcehggio. Pregando che Tony non si affacciasse alla finestra, raggiunse la sua auto. Non aveva le chiavi ma sapeva bene come scassinare la serratura. Una volta dentro armeggiò qualche minuto con i cavi sotto al cruscotto, finché non sentì il motore avviarsi. Accese il riscaldamento al massimo e si allontanò velocemente da quel parcheggio. Arrivata alla fine della strada accostò, aspettando altre indicazioni. Non passò molto infatti che il suo cellulare tornò a vibrare.
 
-Aha!- esclamò Tony trionfante, brandendo il DVD del suo film di spionaggio preferito. Stava per inserirlo nel lettore quando si accorse che era passato un bel po' di tempo da quando Kelly era entrata in bagno.
Posò il DVD e si avvicinò alla porta del bagno. Bussò un paio di volte, ma non ottenne risposta.
-Kelly? Tutto bene?- domandò, mentre una bruttissima sensazione iniziava a farsi strada dentro di lui. Ancora nessuna risposta.
Sforzandosi di non farsi prendere dal panico, mise una mano tremante sulla maniglia. Contò fino a tre poi spalancò la porta. Fu subito travolto da una ventata d'aria gelida, proveniente dalla finestra aperta. Di Kelly neanche l'ombra. Imprecò, sbattendo sul bordo del lavello la mano ferita, che riprese a pulsare dolorosamente. Era già con il telefono in mano pronto a chiamare gli altri quando alzò gli occhi sullo specchio.
Insieme al suo riflesso vide alcune parole scritte probabilmente con il suo dentifricio. Un messaggio.
'Rintraccia il mio cellulare'.
Senza perdere altro tempo compose il numero di McGee mentre recuperava pistola e giacca e si fiondava fuori di casa.
 
Michael non le diede neanche il tempo di rispondere e iniziò a descriverle la strada da prendere. La guidò attraverso la città, poi sulla superstrada; infine, le fece imboccare una stradina secondaria sterrata. Non appena si fu lasciata alle spalle il caos della città, individuò il furgone nero che aveva visto quella mattina allontanarsi a tutta velocità dalla sede dell'NCIS che la seguiva a pochi metri di distanza.
Dopo aver guidato per quasi tre quarti d'ora, Michael le disse di accostare. Si trovavano ancora sulla stradina sterrata che le aveva fatto imboccare per allontanarsi il più possibile dal centro abitato. Il furgone si fermò dietro di lei. Dallo specchietto retrovisore, Kelly vide una figura scendere dal mezzo e avvicinarsi alla sua auto.
Istintivamente aprì il vano portaoggetti sul cruscotto e fortunatamente trovò quello che cercava: una pistola e un coltello, probabilmente le armi di riserva di Tony. Il più velocemente possibile si assicurò il coltello alla caviglia destra e la pistola alla cintura, pur consapevole che le sarebbe stata tolta subito.
Fece appena in tempo a nascondere il coltello con i pantaloni che lo sportello si aprì e una mano le afferrò saldamente il braccio, costringendola a uscire dall'auto. La ragazza si trovò faccia a faccia con Michael, e dovette lottare contro la voglia di prendere la pistola e sparargli in fronte. La sua prontezza di riflessi non avrebbe lasciato scampo all'ex collega, ma se lo avesse ucciso avrebbe perso la sua unica possibilità di ritrovare suo padre.
-Buonasera, Gibbs- ghignò l'uomo, avvicinando il suo volto a quello di Kelly, che per tutta risposta gli sputò in faccia.
-Sei un maledetto...- fece Kelly, ma ricevette un ceffone in pieno viso che le impedì di terminare la frase.
-E tu un'ingrata, ti sto accompagnando da papà- disse Michael, senza togliersi l'odioso ghigno dal volto.
-Sarà meglio per te che non gli sia capitato niente...-.
Michael scoppiò a ridere -Non sei esattamente nella posizione di minacciare. Sei sola, perché se hai provato a chiamare qualcuno tu e tuo padre farete una brutta fine... Sei disarmata...- così dicendo, come prevedibile, le sfilò la pistola, lanciandola nel buio, in mezzo alla neve -Non puoi in alcun modo chiamare aiuto...- le prese anche il cellulare, lo fece cadere a terra e lo pestò, distruggendolo -E adesso vieni con me- la trascinò fino al furgone e aprì il portellone posteriore. Prese una fascetta di plastica e le legò i polsi tanto stretti da farle male, prima di costringerla a entrare.
-Non fare quella faccia- la canzonò -Stai per riabbracciare tuo padre!- esclamò poi, prima di chiudere il portellone, lasciandola nell'oscurità più totale.
Kelly strisciò fino a una delle pareti del mezzo e vi si appoggiò, tremando di freddo e un po' anche di paura. Le parole di Michael l'avevano terrorizzata ancora di più; sicuramente era vero che di lì a poco avrebbe rivisto suo padre, era certa che la stessero portando nello stesso luogo dove tenevano prigioniero lui. Ma era altrettanto certa che ciò che sarebbe accaduto dopo non sarebbe stato per niente piacevole.

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Capitolo 15
*** 15. ***


-Sono un idiota- sbuffò Tony, massaggiandosi le tempie -Un perfetto idiota-.
Ziva si avvicinò alla sua scrivania e gli posò una mano sulla spalla con fare comprensivo -Non è stata colpa tua…- provò a consolarlo, pur sapendo che non sarebbe servito a niente.
-Dovevo immaginarlo- Tony la ignorò -Dovevo immaginare che quel bastardo l’avrebbe contattata, e che lei avrebbe fatto di testa sua, in perfetto stile Gibbs-.
-E che potevi fare, seguirla in bagno?- ritentò Ziva.
L’agente anziano di nuovo parve non sentirla e continuò il suo monologo -Gibbs mi ha ordinato di proteggerla, e io ho fallito! Anzi, ho fallito due volte se contiamo che non ho fatto nulla neanche quando hanno rapito Gibbs!-.
Ziva stava per tornare alla carica quando un’imprecazione di McGee e il suo pugno che sbatteva contro la scrivania attirarono l’attenzione di entrambi.
-Ho perso il segnale- sbottò l’agente più giovane -Deve averle tolto il cellulare…-.
-Fantastico!- fece Tony, sarcastico -Quindi ora non abbiamo niente?-.
McGee chiuse gli occhi e si appoggiò allo schienale della sedia, sospirando. Kelly era stata incosciente, ma non era di certo sprovveduta. E se somigliava così tanto al padre doveva pur aver lasciato una traccia, qualcosa che le permettesse di essere trovata…
In quel momento gli venne un’idea. Era solo un’ipotesi, ma poteva funzionare. Kelly aveva sicuramente avuto la freddezza di pensarci…
-Tony- lo chiamò McGee, improvvisamente serio -Hai detto che è scappata con la tua auto, no?-.
-Altrimenti perché ti avrei chiesto di venirmi a prendere, Pivello?- rispose Tony, acido.
-La tua auto ha il GPS…-.
Sia Tony che Ziva si illuminarono -Puoi rintracciarla tramite quello?- chiese la donna.
-Se l’ha acceso, sì- confermò McGee, mettendosi subito a battere sulla tastiera del computer.
I due colleghi si sistemarono dietro di lui, ansiosi. Quella era la loro ultima speranza.
Non passò molto prima che un bip proveniente dal computer di McGee segnalasse la posizione dell’auto di Tony sulla cartina della città.
-Ho le coordinate!- esclamò McGee trionfante. Stampò il foglio con le coordinate del luogo esatto, recuperò la pistola e raggiunse Tony e Ziva in ascensore.
 
Dopo dieci minuti che a Kelly parvero un’eternità, il furgone nel quale era rinchiusa finalmente si fermò. A giudicare dagli sballottamenti ricevuti dovevano aver proseguito lungo quella stradina sterrata all’inizio della quale avevano lasciato l’auto di Tony. Meglio così, pensò Kelly, così sarebbe stato più facile trovarla per i suoi colleghi. Sempre che avessero fatto in tempo a rintracciare il suo cellulare prima che Michael lo distruggesse, o che McGee avesse pensato al  GPS della macchina…
Il portellone posteriore si aprì e il fascio di luce di una torcia le ferì gli occhi, ormai abituati all’oscurità. Michael l’afferrò di nuovo per un braccio e la costrinse a scendere nella neve fresca, facendola tremare di freddo.
Si trovavano di fronte a una vecchia villa fuori città, probabilmente abbandonata da anni. Michael la trascinò sul retro della casa, fino a una porta che doveva condurre nel seminterrato. La aprì e la spinse bruscamente dentro, facendola quasi cadere sugli scalini.
Il seminterrato era minuscolo, illuminato solo da una lampadina che pendeva sopra le loro teste, ed era quasi più freddo lì dentro che fuori. In fondo alla piccola stanza c’era un’altra porta.
Michael lasciò la torcia e Kelly sentì chiaramente il rumore di una pistola alla quale veniva tolta la sicura. Un attimo dopo sentì il freddo della canna puntata sul suo collo.
-Ti conviene non fare scherzi se vuoi rivedere tuo padre- le sibilò all’orecchio, mentre con la mano libera tagliava la fascetta di plastica che le legava i polsi.
Una volta libera, Kelly se li massaggiò immediatamente. La fascetta aveva lasciato un evidente segno rosso su entrambi i polsi. Subito pensò di colpire Michael cogliendolo di sorpresa, tentare di disarmarlo e cercare suo padre, ma la pressione della pistola sul collo le fece cambiare idea. Michael la conosceva bene, erano stati colleghi per anni, probabilmente si aspettava una mossa del genere e non avrebbe esitato a spararle in testa. E anche fosse riuscita a togliergli l’arma, Corby era sicuramente nei paraggi e avrebbe pensato lui a spararle.
Michael premette di più l’arma contro la sua pelle -Cammina- le ordinò.
Kelly arrivò fino alla porta dall’altro capo della stanza con il cuore in gola. Sapeva già cosa, o meglio chi, avrebbe trovato dall’altra parte.
-Apri- le intimò Michael.
La mano di Kelly esitò sulla maniglia. Fece un respiro profondo e deglutì un paio di volte, nel vano tentativo di scioglere il nodo che le serrava la gola.
-Apri!- gridò Michael alle sue spalle, impaziente. Fece ancora più pressione sull’arma -Apri o sparo!-.
 
Gibbs non capiva più niente. Aveva la vista annebbiata, e quelle quattro pareti tutte uguali non la smettevano di girare. In più, la sua testa sembrava sul punto di spaccarsi in due. E sentiva sempre quella voce, la voce del suo carceriere. Non riusciva a distinguere le parole, ma quella voce e quella risata le avrebbe riconosciute ovunque.
Non c’erano più le corde che lo assicuravano alla sedia. Era libero, ma chiuso in quella prigione senza finestre.
Provò ad alzarsi e muovere qualche passo verso la porta, ma più si avvicinava più la sua meta sembrava allontanarsi e le sue gambe lo reggevano sempre più a fatica. Tornò a cercare l’appoggio della sedia, ma il suo piede destro urtò qualcosa. Abbassò lo sguardo e credette di vedere una pistola, abbandonata lì sul pavimento. Si chinò lentamente e la raccolse. Se la rigirò un paio di volte tra le mani: era proprio una pistola.
Non gli venne in mente di chiedersi cosa ci facesse lì o che fosse piuttosto strano che l’avessero dimenticata. Volevano forse che si uccidesse? Che si sparasse un colpo per placare quel fastidioso mal di testa che gli impediva di ragionare lucidamente?
Qualunque fosse la ragione, si sforzò di lottare contro qualunque cosa gli avessero iniettato in corpo e di trovare un po’ di lucidità. Si sedette di nuovo, l’arma in grembo. Prima o poi il suo carceriere sarebbe tornato a tormentarlo, tornava sempre. Con quella voce talmente odiosa da lacerargli i timpani. Ma sarebbe tornato per l’ultima volta, perché lui gli avrebbe sparato.







No, vi giuro che non faccio apposta ad accorciare sempre di più i capitoli D:
Non linciatemi ma vi lascerò sulle spine per un po', tra studio e lavoro il tempo per scrivere è diminuito molto :(

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Capitolo 16
*** 16. ***


Kelly si concesse ancora un secondo di esitazione. Prese un respiro profondo e spinse la porta, schiudendola. Michael alle sue spalle la spinse all’interno di una stanza addirittura più piccola dell’altra. Anche lì l’unca fonte di luce era una lampadina penzolante dal soffitto. La stanza era completamente spoglia, se non per una sedia rovesciata sul pavimento. E poco più in là c’era suo padre.
Kelly ebbe un tuffo al cuore quando lo vide. Era pallido e tremava visibilmente, probabilmente per il freddo, e a parte un taglietto sulla fronte non sembrava ferito. La cosa che più la inquietò era che nella mano destra stringeva convulsamente una pistola. Non si soffermò sul perché gliel’avessero lasciata, o su come se la fosse procurata. Voleva solo andare da lui e assicurarsi che stesse bene, poi avrebbe trovato il modo di uscire da lì.
Incurante della pistola ancora puntata dietro la nuca, mosse un passo verso Gibbs. Aveva già schiuso le labbra per parlargli, ma le parole gli morirono in gola quando lo vide alzare il braccio e puntare l’arma di fronte a se. Contro di lei.
No, pensò, forse mirava a Michael, dietro di lei… aggrappandosi con tutta se stessa a quel pensiero, si avvicinò ancora di qualche centimetro. Ma negli occhi di suo padre lesse qualcosa di sconosciuto. Sembrava quasi non riconoscerla.
-Papà…- mormorò, mentre il rumore di uno sparo terribilmente vicino riempiva l’aria.
 
Gibbs stava impazzendo. Stava seriamente prendendo in considerazione l’idea di spararsi. Ma no, non voleva dare la soddisfazione all’uomo che lo aveva rinchiuso lì dentro. Avrebbe lottato contro la fame, la sete, il freddo e quella sostanza che lo stava lentamente annientando da dentro, ma non gli avrebbe dato la soddisfazione di vederlo crollare.
Improvvisamente sentì un grido dall’altra parte della porta. Scattò in piedi, rovesciando la sedia, con l’arma ben salda in pugno. Qualcuno stava per entrare. Era la sua occasione.
La porta si spalancò di colpo e distinse due sagome che entravano. Ma non riconobbe i volti. Vedeva tutto estremamente confuso, sembrava girare tutto in quella stanza. Gli unici volti che vedeva erano quelli dei due che lo avevano rapito e rinchiuso lì dentro. Volti che si sovrapponevano in continuazione davanti ai suoi occhi, cercando una qualche corrispondenza in quelle sagome confuse che erano appena entrate.
Uno era rimasto immobile sulla porta, l’altro avanzava verso di lui. Sicuramente erano lì per ucciderlo. Strizzò gli occhi un paio di volte, nel vano tentativo di inquadrare la figura che si stava avvicinando.
Non lo avrebbero avuto senza combattere, non si sarebbe arreso. Forte di quel pensiero, trovò la forza di sollevare il braccio destro e puntare l’arma di fronte a se. Tutto il suo corpo era scosso da tremiti incontrollabili, ma non avrebbe fallito.
Solo dopo che ebbe premuto il grilletto un grido orribilmente familiare e doloroso aprì uno squarcio di lucidità in quel caos che era la sua testa, che gli permise di riconoscere la figura che si avvicinava a lui. Era sua figlia Kelly, inginocchiata a terra a poca distanza da lui, che si premeva la mano destra sul braccio sinistro, sporco di sangue.
La pistola scivolò via dalle sue dita tremanti e cadde a terra con un rumore sordo, mentre una nebbia molto più fitta e densa di prima lo risucchiava di nuovo lontano dalla realtà.
 
Kelly non aveva potuto fare a meno di gridare quando il proiettile le aveva sfregiato il braccio. Anche se era solo un colpo di striscio, le bruciava e perdeva sangue. Non riusciva ad alzare lo sguardo su suo padre. Sapeva che gli avevano fatto qualcosa, che non le aveva sparato intenzionalmente. Ma ciò non bastò ad arrestare le lacrime, che scivolarono giù dalle sue guance impietose e silenziose.
Solo quando Gibbs crollò a terra privo di sensi Kelly trovò la forza di riscuotersi. Lentamente strisciò fino al corpo di suo padre e constatò che il battito era sempre più debole. Qualunque cosa gli avessero dato lo stava uccidendo.
-Maledetti…- sibilò tra i denti.
Dietro di lei Corby e Michael ridevano. Avevano avuto la loro vendetta.
-Dammi qua- Corby prese la pistola dalle mani del complice -Ci penso io-.
Kelly sentì l’arma che veniva caricata, e i passi dell’uomo che veniva verso di loro. Istintivamente portò le gambe vicino al corpo e si rannicchiò contro il petto di suo padre. Con una smorfia di dolore fece scivolare la mano sinistra fino alla caviglia, sotto i pantaloni. Chiuse le dita attorno all’impugnatura del coltello di Tony. Era pur sempre una Gibbs oltre che un’agente, non si sarebbe arresa tanto facilmente.
-Beh, è il momento degli addii…- ghignò Corby, sovrastando entrambi. Puntò la pistola in mezzo agli occhi di Kelly, che gli lanciò uno sguardo fiammeggiante. Con un gestro repentino sfilò il coltello dal fodero assicurato alla sua caviglia e lo conficcò nella gamba dell’uomo, che ululò dal dolore e perse la presa sull’arma.
Nel frattempo Michael aveva recuperato un’altra pistola. Ma non fece in tempo a sparare nemmeno un colpo che Kelly gli scaricò il caricatore della pistola di Corby nel petto.
In quel momento la porta principale del seminterrato venne sfondata -NCIS!- gridò la voce di Tony.
-Chiamate un’ambulanza!- esclamò non appena Tony, Ziva e McGee l’ebbero raggiunta -L’hanno drogato o qualcosa del genere, se non ci sbrighiamo morirà!- singhiozzò, inginocchiandosi accanto al corpo di Gibbs.
-Calmati, ci sta pensando McGee- Tony le cinse le spalle con un braccio -Anche tu hai bisogno di un dottore…- aggiunse, indicando il braccio ferito.
Kelly si divincolò -Io sto bene, è solo un graffio- scrollò le spalle,  gesto che fu amplificato da un brivido di freddo che la scosse da capo a piedi.
Tony si tolse la giacca e gliela mise sulle spalle, ma lei non sembrò neanche accorgersene. Stringeva una mano di Gibbs e teneva lo sguardo fisso sul suo petto, monitorando il respiro sempre più debole.
Nonostante odiasse le sirene delle ambulanze perché riportavano a galla brutti ricordi, non fu mai così felice di sentirle come in quel momento.






Anche se è uno dei capitoli 'clou' della storia non mi convince più di tanto :/

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Capitolo 17
*** 17. ***


Una volta arrivati in ospedale Gibbs fu subito portato in rianimazione, mentre un medico del pronto soccorso si occupò di medicare il braccio di Kelly. I paramedici dell'ambulanza non le avevano nascosto che le condizioni di suo padre erano piuttosto gravi, e dal momento in cui aveva messo piede in ospedale lei era diventata apatica: aveva lo sguardo perennemente perso nel vuoto e rispondeva a monosillabi alle domande che le venivano poste.
-La ferita al braccio non era grave- spiegò il medico a Tony, che era rimasto al pronto soccorso con Kelly -Ma sembra in grave stato di shock… ho già disposto che venga ricoverata per qualche giorno- aggiunse.
A quelle parole Kelly parve riscuotersi appena. Stava per replicare, appoggiata da Tony, quando una voce alle loro spalle li interruppe.
-Personalmente, non lo ritengo necessario- intervenne Ducky, appena arrivato dalla sede dell’NCIS -La signorina qui non è affatto in stato di shock-.
-E lei sarebbe…?- domandò il medico, guardando l’uomo più anziano di sottecchi.
-Dottor Donald Mallard, sono il medico dell’agente speciale Kelly Gibbs- Ducky gli tese la mano.
Kelly lo guardò stupita. Non sapeva se sorprendersi di più per il fatto che Ducky si fosse appena spacciato come suo medico o perché si era riferito a lei chiamandola agente speciale.
-Vede, ritengo che il comportamento dell’agente Gibbs sia una sorta di meccanismo di difesa… Diciamo che i suoi ultimi ricordi legati agli ospedali non sono esattamente piacevoli- continuò Ducky.
Kelly era sempre più sorpresa. Come faceva a conoscere certe cose? Aveva tirato ad indovinare o sapeva veramente dell’incidente di sua madre?
-Ora, se non le dispiace, vorrei sincerarmi delle condizioni anche dell’altro agente Gibbs- Ducky rivolse un sorrisetto al medico e si allontanò senza dargli la possibilità di ribattere, facendo cenno a Kelly e Tony di seguirlo.
I tre si avviarono verso il reparto di rianimazione. Davanti alle pesanti porte che lo delimitavano trovarono Ziva, McGee e Abby, rannicchiata su una sedia accanto all’agente più giovane, gli occhi rossi e le guance rigate di trucco nero. Non appena vide Kelly il suo volto parve illuminarsi un po’, e non riuscì a trattenersi dal correrle incontro e abbracciarla. Allentò immediatamente la stretta quando si accorse dell’espressione dolorante di Kelly, dovuta alla ferita al braccio.
-E’ stato lui…?- domandò titubante la ragazza con un filo di voce, indicando la fasciatura.
Kelly deglutì un paio di volte prima di rispondere, svicolando il più possibile la domanda -E’ solo un graffietto, un colpo di striscio-.
Abby capì al volo e l’abbracciò di nuovo, stavolta molto più delicatamente. Kelly ricambiò insicura la stretta. Era la prima volta che una ragazza si comportava così con lei. Da amica. Per lei che non aveva mai avuto amici neanche da bambina era una sensazione del tutto nuova e piacevole. Era sicura che, se le cose fossero tornate a posto e lei fosse riuscita a rimanere a Washington, tra lei e Abby ci sarebbe stato un rapporto speciale, come tra sorelle.
-Come sta Jethro?- chiese Ducky a Ziva e McGee, mentre Tony si lasciava cadere su una delle poltroncine di plastica, stremato.
-Non sappiamo ancora niente- rispose Ziva.
Ducky sospirò e si sedette, un po’ indisparte rispetto agli altri. Kelly prese posto accanto a lui.
-Come sapevi che detesto gli ospedali?- gli domandò con un sussurro appena udibile.
Sul volto del patologo comparve l’accenno di un sorriso -Devo ammettere che appena ho saputo della tua esistenza non ho resistito a… curiosare un po’-.
Anche Kelly si lasciò sfuggire un sorriso, e sembrò rilassarsi leggermente. Non si sentiva per niente offesa dal fatto che Ducky avesse indagato su di lei. Quell’uomo le ispirava simpatia, e sapeva che non lo aveva fatto con cattive intenzioni.
-Doveva essere una cosa davvero importante se Jethro non lo aveva detto neanche a me, che lo conosco da molti anni ormai…- proseguì Ducky -E lo era. Comprendo benissimo la scelta di Jethro di non confidarsi nemmeno con il sottoscritto, non è una cosa facile da superare e spesso parlarne può riaprire vecchie ferite molto dolorose…- sospirò, e posò una mano sul ginocchio di Kelly -Mi dispiace davvero tanto per tua madre, mia cara-.
Kelly annuì con fare comprensivo e lo ringraziò silenziosamente con uno sguardo.
In quel momento le porte del reparto rianimazione si aprirono e uscì un medico, che fu immediatamente accerchiato dai tre agenti più Kelly, Abby e Ducky.
-Siete i parenti dell’agente Gibbs?- domandò il medico.
-Sì- si affrettò a rispondere Kelly, a nome di tutti. In fondo, quella era diventata la famiglia di Gibbs dopo la morte di sua madre -Come sta?-.
-L’agente speciale Gibbs è stato drogato, o forse è più corretto dire avvelenato. Non sappiamo di che sostanza si tratti, l’abbiamo mandata in laboratorio ad analizzare. Comunque siamo riusciti a disintossicarlo in tempo- fece una pausa e si aggiustò gli occhiali sul naso. Il gruppetto intorno a lui lo guardava, impaziente. Era evidente che c’era dell’altro.
Tony diede voce ai pensieri di tutti -Ma c’è un però, giusto dottore?-.
Il medico sospirò -Purtroppo, forse a causa di un trauma o di un forte shock, l’agente Gibbs è entrato in coma, un coma spontaneo, quindi il risveglio non dipende da noi…-.
Kelly sentì che le gambe minacciavano di cederle da un momento all’altro e le girava la testa. Lottò contro la nausea e i capogiri aggrappandosi al braccio di Tony. Se fosse svenuta in quel momento di sicuro anche Ducky avrebbe ripreso in considerazione l’ipotesi di un ricovero.
Fu Ziva a porre la fatidica domanda, che si poteva leggere chiaramente sul volto di tutti i presenti -Si sveglierà?-.
-Dipende solo da lui- rispose laconico il medico.
-Possiamo vederlo?- chiese Kelly.
-Veramente… l’orario visite è finito da un pezzo e dobbiamo trasferirlo, non si potrebbe entrare qui…- balbettò l’uomo.
-E’ sua figlia- gli fece notare Ziva, fulminandolo con lo sguardo.
Al dottore bastò quell’occhiataccia per capire che in un modo o nell’altro sarebbero riusciti ad entrare; senza aggiungere altro si spostò, permettendo a Kelly di fiondarsi nel reparto alle sue spalle, seguita a poca distanza da Tony.
Kelly non ci mise molto a trovare la stanza di suo padre. Non appena entrò rimase senza fiato, e sentì immediatamente le lacrime premere per uscire. Gibbs era steso su un lettino al centro dell’enorme stanza bianca, circondato da macchinari di ogni genere collegati al suo corpo tramite una miriade di fili e tubicini.
Fu uno shock vederlo così. L’idea che potesse ferirsi, farsi male o finire in quello stato era sempre stata inconcepibile per lei, che lo aveva da sempre considerato il suo mito, il suo supereroe che un giorno sarebbe tornato a prenderla, nonostante i suoi nonni continuassero a ripeterle che solo un vigliacco poteva abbandonare in quel modo la figlia dopo la morte della madre, per dedicarsi interamente al suo ‘stupido’ lavoro.
Immobile su quel lettino sembrava così fragile, così umano.
Kelly si chiese se sarebbe mai tornato ad essere il suo supereroe, ora che finalmente si erano ritrovati e potevano recuperare i tredici anni trascorsi lontani l’uno dall’altra, e una nuova ondata di nausea accompagnata dai capogiri la travolse, tanto che dovette aggrapparsi al bordo del lettino per non cadere. Sussultò quando sentì una leggera pressione sulla spalla. Si voltò e i suoi occhi lucidi incrociarono quelli caldi e accoglienti di Tony.
-Si sveglierà- affermò l’agente anziano, spostando per un momento lo sguardo su Gibbs.
-Come fai a esserne così sicuro?- fece Kelly, la voce tremante di chi è sul punto di scoppiare a piangere. Per quanto Tony cercasse di capire il motivo per cui quella frase gli fosse uscita tanto spontanea, non riusciva a darsi una spiegazione -Perché lui è Gibbs- rispose, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.







Credevate fossi sparita di nuovo eh? :P
Il tempo per scrivere scarseggia sempre di più, per questo aggiorno con meno regolarità di prima... ma non abbandono più la storia, promesso!
Anche perché siamo ormai agli sgoccioli...

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Capitolo 18
*** 18. ***


Kelly trascorse i giorni seguenti a casa di Tony, con l'ordine di riposare da parte di Ducky. Le era concesso trasgredire solo per andare a trovare suo padre, cosa che faceva regolarmente tutti i giorni.
Si sedeva accanto al suo letto e parlava. I medici erano convinti che sentire voci conosciute lo avrebbe aiutato, e in ogni caso lei lo avrebbe fatto lo stesso. Le piaceva, ed era fermamente convinta che lui potesse sentirla. Parlava del più e del meno, soprattutto di quanto si annoiasse a casa da sola tutto il giorno e di quanto le mancasse il suo lavoro, il suo lavoro all'NCIS, non a New York.
Una sera, di ritorno dalla visita in ospedale, Tony tirò fuori una busta sigillata dal cruscotto dell'auto e la porse a
Kelly.
-Che cos'è?- chiese la ragazza, incuriosita.
-Da parte del direttore- rispose Tony evasivo, ma non riuscì a trattenere un sorrisetto che a Kelly non sfuggì.
Con le mani tremanti aprì la busta. Immaginava già cosa contenesse, ma l'emozione era comunque incontenibile. Ne rovesciò il contenuto sulle ginocchia e ne uscirono due fogli e un distintivo; il primo foglio era il congedo firmato dal capo della Omicidi di New York, l'altro un modulo compilato dal direttore Shepard che attestava che era ufficialmente un'agente speciale della squadra di Gibbs.
Leggendo il nome di suo padre le si strinse leggermente il petto; si chiese se quella fosse rimasta la squadra di Gibbs, o se in un futuro non molto lontano sarebbe diventata la squadra di DiNozzo. Si chiese anche se suo padre l'avrebbe mai vista all'opera come un vero agente speciale, e se avrebbero mai avuto l'occasione di partecipare fianco a fianco ad un'indagine. Scosse il capo per scacciare quei pensieri e si sforzò di pensare a ciò che le aveva detto Tony appena una settimana prima: "Si sveglierà, lui è Gibbs".
-Il più contento del tuo arrivo è McGee- disse Tony, riportandola alla realtà.
Kelly lo guardò con aria interrogativa.
-Ora non è più il pivello della squadra, e penserà sicuramente che lo lascerò in pace, concentrandomi solo su di te... povero illuso!- ridacchiò l'agente anziano.
-Se pensi di fare a me quello che fai o hai fatto a lui, non avrai vita facile- fece di rimando Kelly.
-Concedimi almeno di chiamarti 'pivella'!- esclamò Tony, fingendosi offeso.
-Neanche morta- rise la ragazza, che sembrava aver perso la capacità anche solo di sorridere dal giorno del rapimento di suo padre.
 
Altre due settimane se ne andarono veloci. Dopo un controllo veloce di Ducky, a Kelly era stato concesso di tornare, o meglio di cominciare, a lavorare. In assenza di Gibbs il comando era passato a DiNozzo, che però si azzuffava  spesso con la nuova arrivata quando si trattava di dare ordini e prendere decisioni importanti. Tony tendeva a sottovalutare troppo la sua somiglianza con il padre, e di conseguenza anche la sua innata attitudine al comando e la sua poca voglia di eseguire ordini che riteneva inutili alla risoluzione del caso.
Nonostante quel lavoro le portasse via praticamente tutta la giornata, Kelly continuava a trascorrere almeno un'ora in ospedale con suo padre, raccontandogli le sue giornate, i battibecchi con Tony, le intuizioni geniali di McGee e il rapporto di amicizia che stava sviluppando con Ziva e Abby.
Stava per iniziare la quarta settimana di coma per Gibbs la sera in cui a Kelly fu concesso di rimanere oltre l'orario visite perché era arrivata più tardi del solito.
-Scusa per il ritardo, ma abbiamo avuto un caso complicatissimo- disse, entrando nella stanza di suo padre e sedendosi al suo solito posto, ovvero la poltroncina morbida accanto al letto. Le veniva estremamente naturalre salutarlo in quel modo quando entrava, come se fossero a casa, come se potesse risponderle.
Iniziò a raccontargli di come Abby -che non mancava mai di raccomandarsi di salutarle Gibbs ogni volta- aveva trovato in pochi minuti la prova decisiva per individuare il colpevole di un omicidio, e di quanto avessero dovuto correre per inseguirlo ed arrestarlo.
Ben presto la stanchezza per la lunga giornata iniziò a farsi sentire; le parole del racconto di Kelly divennero sempre più vaghe, confuse e senza senso, mentre la sua testa ricadeva sullo schienale della poltroncina e le sue palpebre si facevano sempre più pesanti. Nel giro di cinque minuti era crollata, esausta.
 
Gibbs non riusciva a capire dove si trovasse. Tutto intorno a lui era completamente bianco, e la luce era tanto forte da fargli male agli occhi. Mosse qualche passo incerto, ma lo scenario non cambiava. Non vedeva assolutamente nulla, solo un'infinita distesa bianca. Continuò a camminare, deciso a trovare una porta, una via d'uscita, qualsiasi cosa che lo aiutasse a capire che razza di posto era quello.
Non passò molto che davanti a lui distinse una sagoma umana controluce. Si trattava di una donna, ma non riusciva a vederla in volto.
-Ehm... scusa- si avvicinò, tentando di attirare la sua attenzione -Sai dirmi dove ci troviamo?-.
La donna si voltò e iniziò a camminare verso di lui. Aveva un bel viso, contornato da lunghi capelli rossi che le ricadevano morbidi e lisci sulle spalle. Un leggero sorriso contribuiva  renderla ancora più bella. Quando Gibbs fu abbastanza vicino da riconoscerla rimase impietrito e si fermò di colpo.
-Shannon...- mormorò, il cuore stretto in una morsa.
-Ciao, Jethro- il sorriso di Shannon si allargò.
Con gesti lenti e meccanici Gibbs si portò a pochi centimetri da lei. Allargò le braccia per poi stringerle intorno al corpo della donna che non aveva mai smesso di amare. La strinse forte a se, sperando che in quel modo non se ne potesse più andare, e inspirò il suo profumo, quel profumo che tanto gli mancava.
-Dove siamo? Sono morto?- chiese, quando riuscì a sciogliere almeno in parte il nodo che gli stringeva la gola, senza sciogliere l'abbraccio.
-No, non sei morto- rispose Shannon -Ma non puoi stare qui-.
Gibbs si staccò appena da lei, senza lasciarla -Che significa? Io voglio stare qui con te... Ora che ti ho ritrovata...-.
La donna gli posò una mano sulla guancia con fare comprensivo -Purtroppo non è possibile, Jethro- disse, accarezzandolo dolcemente -Devi tornare-.
-Ma come... Ora siamo qui, insieme, e io non mi muovo! E poi tornare dove?- Gibbs stava iniziando ad agitarsi. Non aveva idea di che posto fosse quello, ma era disposto a passarci il resto dei suoi giorni se ciò significava riavere la sua Shannon.
-Devi tornare a casa. Kelly ha bisogno di te- questa volta fu lei ad abbracciarlo.
Kelly... era vero, aveva bisogno di lui e non poteva abbandonarla, dovunque si trovasse. Ma non voleva perdere Shannon, non un'altra volta. Magari esisteva un modo per restare lì, tutti e tre... Non fece in tempo ad aprire bocca però, che Shannon sciolse l'abbraccio e iniziò ad indietreggiare piano.
-Aspetta...- Gibbs allungò una mano verso di lei, ma non riuscì a toccarla. Lei continuava ad allontanarsi e lui sembrava bloccato, non riusciva a muoversi, a inseguirla.
-Abbi cura di te, Jethro... e pensa a Kelly- la voce di sua moglie gli giunse ovattata  e lontana. Ormai non riusciva più a vederla.
-Shannon...- sussurrò, mentre le lacrime scesero a rigargli le guance.

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