Ali Scarlatte 2.0

di Mary P_Stark
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** cap.2 ***
Capitolo 3: *** cap. 3 ***
Capitolo 4: *** cap. 4 ***
Capitolo 5: *** cap.5 ***
Capitolo 6: *** cap. 6 ***
Capitolo 7: *** cap. 7 ***
Capitolo 8: *** cap. 8 ***
Capitolo 9: *** cap. 9 ***
Capitolo 10: *** cap. 10 ***
Capitolo 11: *** cap. 11 ***
Capitolo 12: *** cap. 12 ***
Capitolo 13: *** cap. 13 ***
Capitolo 14: *** cap. 14 ***
Capitolo 15: *** cap. 15 ***
Capitolo 16: *** cap. 16 ***
Capitolo 17: *** cap. 17 ***
Capitolo 18: *** cap.18 ***
Capitolo 19: *** cap. 19 ***
Capitolo 20: *** cap.20 ***
Capitolo 21: *** cap. 21 ***
Capitolo 22: *** cap. 22 ***
Capitolo 23: *** cap. 23 ***
Capitolo 24: *** cap. 24 ***
Capitolo 25: *** cap. 25 ***
Capitolo 26: *** cap. 26 ***
Capitolo 27: *** cap. 27 ***
Capitolo 28: *** cap. 28 ***
Capitolo 29: *** cap. 29 ***
Capitolo 30: *** cap. 30 ***
Capitolo 31: *** cap. 31 ***
Capitolo 32: *** cap. 32 ***
Capitolo 33: *** cap. 33 ***
Capitolo 34: *** cap. 34 ***
Capitolo 35: *** cap. 35 ***
Capitolo 36: *** cap. 36 ***
Capitolo 37: *** Epilogo. ***



Capitolo 1
*** Prologo ***



  
 
 

1.

 
 
 
 
 

 

 

“Io sono il Bennu, l’anima di Ra, la guida
degli dèi nel Duat.  Che mi sia concesso
entrare come falco, ch’io possa procedere
 come il Bennu, la Stella del Mattino.”
 

 

 
 
Sentii il peso della morte sulle mie stanche spalle, l’alito freddo del divenire solleticò le mie piume scarlatte. Non v’era più tempo o, almeno per questa vita, non ve n’era più.

Mi mossi a fatica, il sentore della Falce che si muoveva sempre più vicina a me, pronta a colpire ancora una volta.

Con becco e artigli composi il mio catafalco. Mirto, incenso e sandalo, della più fine cannella per il mio ennesimo viaggio, una spruzzata delle spezie a me più care e legno di cedro per la mia dipartita.

Né palma né quercia, per me, in questa vita, ma un giaciglio immerso in verde muschio e profumo di sale.

Secolari abeti e umidore di decomposizione a farmi da compagni in questo mio viaggio verso la fiamma e, come sempre prima di spirare in un oceano di luce, il mio canto a Ra, al Sole che, come sempre, mi porterà alla morte.
 

 


Il vento spirava leggero dall’oceano.

Scivolava tra le case e i palazzi di Lincoln City per poi inerpicarsi fino alle colline oltre la città, dove la foresta rigogliosa e verdeggiante ammantava i dolci declivi dello Stato dell’Oregon.

Come sempre in primavera, Richard Patterson e suo cognato Peter, assieme agli amici William e Craig, si recarono nelle foreste sopra Devils Lake per la prima uscita in campeggio tra gli alti abeti sitka e i larici centenari.

Muschio verde e morbido ricopriva ogni cosa, dal sottobosco profumato a vecchie carcasse di tronchi caduti, fino ad ammantare robusti massi dall’aria secolare, muti testimoni dell’inesorabile passaggio del tempo.

In una piccola radura ovale, illuminati da un raro bargiglio di sole d’aprile, Richard montò la sua tenda prima di comunicare ai suoi compagni di spedizione l’intenzione di avventurarsi nel bosco per una passeggiata.

Senza trovarvi nulla di strano, Peter e gli altri lo lasciarono fare, ben sapendo quanto Richard amasse immergersi nella natura e ascoltare i rumori del bosco in assoluta solitudine.

Il primo giorno di ogni loro uscita, era sempre così. Non faceva specie che, anche quell’anno, Richard compisse quella specie di rito iniziatico.

Camminando lentamente tra felci enormi, rami caduti e piccole pozzanghere ricoperte di aghi di pino, Richard si fermò in corrispondenza di un enorme masso a punta.

Lì, sedutosi per ammirare il bosco da quel punto privilegiato, inspirò profondamente i profumi di quell’angolo di paradiso, riempiendo appieno i polmoni.

Non appena l’ebbe fatto però, notò qualcosa che, assolutamente, non poteva avere nulla a che fare con quelle lande a lui così care.

Aggrottando la fronte, scese in fretta dal masso e, muovendo i piedi tra rocce scivolose e muschio morbido come cuscini di piume.

Procedette a passo affrettato, tenendo la direzione in cui, secondo i suoi calcoli, poteva trovarsi la fonte dello strano odore che aveva avvertito.

Di certo, la cannella non poteva crescere in un bosco dell’Oregon! E, se qualcuno aveva acceso un fuoco nel bosco per bruciarla, doveva essere fermato immediatamente!

Dopo aver oltrepassato un enorme abete abbattuto dal gelo dell’inverno, Richard si fermò di botto non appena i suoi occhi si puntarono su qualcosa che mai, in tutta la sua vita passata nei boschi, gli era capitato di vedere… o trovare.

Accoccolata sopra un letto di rametti, nuda e sporca, una neonata dalla pelle chiara, e una spruzzata di capelli ramati sul capo, se ne stava lì in mezzo al nulla, senza alcun riparo per la sua giovane carne d’infante.

Un bel sorriso, stampato sull’ovale perfetto del viso, le illuminava i tratti come un sole in miniatura.

Richard, senza parole e quasi convinto si trattasse di un’allucinazione, si avvicinò guardingo e si piegò lentamente vicino alla bimba, indeciso sul da farsi.

Quando, però, la fissò negli occhi, ogni cosa si annullò.

Grandi pezzi di smeraldo lo fissarono con intelligenza e una risata gorgogliante lo salutò.

Richard, non potendo fare altro, le sorrise di rimando, domandando a nessuno in particolare: “Cosa ci fa una bella bimba come te in questo posto sperduto? Chi ha potuto abbandonarti a questo modo?”

La bambina allungò le sue mani paffute verso Richard che, senza neppure stare a pensarci, la sollevò tra le braccia.

Portandola via dal suo giaciglio improvvisato, se ne tornò con calma verso il campo base.

“Ora baderò io a te, piccolina… non ti succederà nulla, vedrai” le sussurrò Richard, sorridendole e ricevendo in risposta un sorrisone tutto gengive che lo fece scoppiare a ridere.

Non impiegò molto per tornare dagli amici, conoscendo a menadito quei luoghi visitati per anni fin dalla prima infanzia.

Quando mostrò il risultato del suo vagabondare per i boschi ai suoi compagni, essi mostrarono sorpresa, costernazione e rabbia assieme.

Da bravo uomo di legge quale era, Peter chiese subito dove l’avesse trovata e se, con la bambina, vi fosse stato un messaggio o qualche traccia riconducibile a chi potesse averla lasciata sola nel bosco.

Richard smentì tutto e disse che, stranamente, non v’era nulla vicino alla bimba, né una copertina, né un foglietto in cui si spiegassero le ragioni di quel gesto insensato, né i segni del passaggio di esseri umani.

Un autentico mistero.

William corse subito nella sua tenda per prendere un tetra-pack di latte e, dopo essersi consultato con Peter che, tra loro, era l’unico ad avere figli, si risolsero per darlo alla bimba, sperando non le facesse male.

La bimba dimostrò ampiamente la gioia per quel dono, gorgogliando allegra dopo aver finito in pochi minuti il poco di latte che le diedero.

Richard, ridacchiando nel vederla così allegra, se ne uscì dicendo: “Dite che Mel mi odierà a morte se le dico che voglio tenerla?”

Peter rise con lui e replicò: “Attento che non te la rubi, piuttosto. Prima, però, lo sai che devo informare i servizi sociali per scoprire chi siano i suoi genitori, vero?”

Richard si adombrò in viso, come pure William e Craig, e replicò piccato: “Se l’hanno gettata in un bosco con il chiaro intento di vederla morire, visto come l’hanno lasciata sola alle intemperie, è palese che non la volevano.”

“Già, ma è giusto che paghino per quello che hanno fatto” precisò Peter, calmo. “Stai tranquillo, parlerò io con Debra, quella dei servizi sociali, e vedrai che non ci saranno problemi. Come dici tu, se anche riuscissimo a trovare i suoi genitori, dubito la vorrebbero indietro, quindi non ci saranno problemi per te e Mel. Avete tutte le carte in regola per adottare un bimbo.”

“Sai quanto ci terrebbe” insisté Richard, fissando il cognato con aria speranzosa.

Peter sospirò leggermente, prima di dire spiacente: “Già… sì, lo so. Farò tutto il possibile, Rich, davvero.”

“Grazie, Pete” sorrise Richard, prima di piegare il capo verso la bimba e asserire: “Vedrai che zio Pete sistemerà tutto, piccolina. Avrai una casa bellissima in cui tutti ti vorranno bene.”

William le fece il solletico sotto il mento, facendola ridere, e aggiunse: “E amici grandi e grossi che ti difenderanno dai cattivi.”
 
 



Il profumo che avvertii quando l’uomo si avvicinò a me, mi ispirò subito fiducia.

Odorava di buono. Non sapevo esattamente il perché fossi lì, o più semplicemente, dove fosse il lì in questione, ma percepivo che di quell’uomo dai capelli scuri e la barba appena accennata sulle guance, potevo fidarmi.

Mi sollevò tra le braccia, un bel sorriso stampato in faccia e che raggiungeva anche gli occhi nocciola, e mi coccolò gentilmente portandomi via dal giaciglio di rami in cui mi ero risvegliata.

Altri uomini dall’aria bonaria mi scrutarono con le loro facce curiose e, anche in loro, avvertii lo stesso sentore di buono.

Mi diedero del cibo, di cui io mi sfamai con ingordigia, mentre frammenti di immagini balenavano nella mia mente di neonata.

Barlumi di ricordi, flash improvvisi, lampi di luce. Tutto era confuso ma, al momento, non me ne importava.

Ero con persone buone, e ciò contava più di tutto. Almeno finché non avessi compreso ogni cosa.

Dovevo solo lasciare che il tempo progredisse, che facesse il suo corso come sempre e, come sempre, tutto si sarebbe sistemato nell’enorme scacchiera che era la mia mente, ora completamente priva di pedoni, ma desiderosa di cominciare la partita che sapevo, presto sarebbe iniziata.

********

Fatemi sapere che ne pensate, se valga la pena proseguire... grazie! :)

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Capitolo 2
*** cap.2 ***


2.
 
 
 
 
L’arrivo della bambina in casa Patterson suscitò immediatamente l’interesse di Melinda.

Tra sospiri di sorpresa e larghi sorrisi, prelevò di peso la bimba dalle braccia del marito – che la fissò accigliato – e corse su per le scale borbottando contro i maschi e i loro sistemi antidiluviani.

Peter, con un sogghigno rivolto all’indirizzo del cognato, celiò: “Non mi ero sbagliato, no?”

Con un insulto soffiato tra i denti e una scrutatina al soffitto per l’esasperazione, Richard salì a sua volta le scale, subito seguito da Peter.

Rivoltosi poi alla moglie, esclamò: “Guarda che, fino a prova contraria, la piccola è tutta intera!”

“E ti pare che dovesse essere avvolta in uno dei tuoi giacconi, poverina?” protestò garbatamente Melinda, tutta indaffarata a pulire con acqua tiepida la bimba che, sgambettando felice, la stava scrutando con quei suoi attenti occhi smeraldini.

Peter scoppiò in una grassa risata di fronte all’aria compassata della sorella, e quella infuriata del cognato, che lo fissò malamente mentre infilava le mani in tasca borbottando: “Ma tu guarda…”

Voltandosi a mezzo per scrutare la coppia di uomini, Melinda rincarò la dose, rivolgendosi al fratello e replicando alla sua ilarità.

“Guarda che tu non sei meglio di lui, Pete. Anzi! Tu hai tre figli, e avresti dovuto sapere come trattarla!”

Azzittito dal rimbrotto della sorella, anche Pete mugugnò stentate proteste, del tutto inascoltate da Melinda che, tutta sorrisi per la nuova arrivata, si limitò a trillare: “Non ti preoccupare, piccolina. Penserò io a te.”

“Ehm, Mel…” tentennò Peter, fissando il viso solare e rotondo della sorella con il dubbio ben stampato in faccia. “… lo sai, vero che, prima di tutto, dovremo portarla ai servizi sociali.”

“Non sono idiota, Pete. Lo so benissimo” precisò Mel, gelida. “Ma so anche che sei a conoscenza del fatto che siamo in lista d’attesa per l’adozione di un figlio e che, se lo chiedessimo a Nancy, potrebbe darci in affido temporaneo la piccola, visto che l’abbiamo trovata noi.”

Ripensando alla loro cara amica, che lavorava nell’Ufficio Adozioni di Lincoln City e che, da un paio d’anni, si occupava del caso di sua sorella, Peter annuì un po’ più tranquillo.

“Sì, credo si possa fare. Perciò, pensate di tenerla, se vi daranno l’okay?”

“E’ talmente adorabile che potrei anche non portargliela affatto” ridacchiò Mel, tutta contenta, prima di strizzare l’occhio al fratello, che aveva spalancato le palpebre per la sorpresa e lo sgomento, a quelle parole.

Rich, ridacchiando dell’espressione del cognato, chiosò: “E dire che dovresti conoscerla meglio di me.”

“Spiritoso” sbuffò Peter, rilassandosi gradatamente. “Pensi mi piaccia illudere Mel? Specialmente sapendo quanto desidera un figlio?”

L’ultima gravidanza che Richard e Melinda avevano tentato risaliva a non meno di tre anni prima e, per poco, Pete non aveva perso la sorella.

Complicanze inaspettate l’avevano costretta ad abortire al terzo mese.

Durante il raschiamento, Melinda aveva avuto un crollo di pressione che l’aveva fatta andare in arresto cardiaco per tre lunghissimi, interminabili minuti.

Pete e Richard, presenti entrambi in ospedale, avevano accolto la notizia con il terrore più puro.

Era occorso comunque poco tempo – anche se  a loro era parsa un’eternità – prima che il chirurgo uscisse dalla sala operatoria confermando il buono stato di Melinda.

Questo, però, aveva definitivamente chiuso la partita.

Richard si era strenuamente rifiutato di riprovarci e anche Melinda, alla fine, aveva dovuto accettare la dura realtà.

Dopo tre aborti, non poteva più tentare, o avrebbe davvero rischiato di morire, la volta successiva.

Con quella consapevolezza, i due coniugi si erano perciò rivolti a Nancy, loro vecchia amica di scuola che lavorava presso l’Ufficio Adozioni della contea.

Da quel momento, erano entrati in lista l’attesa per avere un figlio.

Erano passati quasi due anni e, dopo alcuni falsi allarmi e diversi tentativi infruttuosi, ora compariva dal nulla quella bimba stupenda e Pete non voleva che la sorella si affezionasse a lei, con il rischio di vedersela poi portare via.

Ma, in tutta onestà, come si faceva a non rimanerne stregati?

A giudicare dalla sua lunghezza, doveva avere all’incirca sei mesi e, da come aveva buttato giù il latte che le avevano dato, non doveva avere alcun problema di salute.

Dopo quel pasto d’emergenza, aveva dormito a turno tra le braccia di tutti loro prima che, insieme, decidessero di tornare a casa e consegnarla nelle mani di Melinda.

Era un autentico angioletto, con quella spolverata di capelli d’oro ramato in testa e i giocosi occhi di smeraldo, che parevano sondarti l’anima al primo sguardo.

Ovvio che Melinda ne fosse rimasta affascinata immediatamente.

Chi di loro non si era sdilinquito, di fronte ai suoi risolini allegri o alla stretta delle sue dita grassocce?

Avvolta la bimba in un asciugamano vaporoso color lavanda, Melinda si avvicinò al fratello tenendo contro il seno generoso la piccola e, sorridendo benevola a Pete, disse: “So che stai cercando di proteggermi da un altro dolore, fratellone, ma conosco anch’io la legge, e so che non potrò considerare mio questo splendore finché non lo dirà il giudice. Ma questo non mi vieta di essere carina con lei, ti pare?”

“No, certo” annuì più volte Pete, sorridendole.

“Inoltre, visto dove l’hanno lasciata i suoi genitori, penso che un po’ di coccole extra le spettino di diritto” ridacchiò Melinda prima di allungare la bimba a Rich e celiare: “Facciamo a turno?”

“D’accordo” ghignò allegro Richard, prendendo in braccio il frugoletto che, con un risolino acuto, allungò le braccia paffute e infilò le dita nei capelli dell’uomo, tirandoli con forza.

“Le piaci!” rise Melinda, mentre il marito tentava di salvare i propri capelli dagli strattoni della bimba.

Sogghignando, Pete commentò: “Quella sì che è una stretta!”

“Promette bene” annuì Rich, ridacchiando mentre tentava di allentare la morsa delle dita della bambina.

 
***


C’era un profumo dolce, nell’aria, e tanta tenerezza.

Adoravo quell’amore dilagante, la sensazione di essere protetta da quelle forti braccia, come quella di essere cullata contro quel morbido seno, dove sentivo battere un cuore forte e generoso.

Le sue calde e gentili mani mi avevano lavata e cullata con affetto incondizionato e io, osservandola attraverso quei miei nuovi occhi da infante, l’avevo amata al primo sguardo.

Proprio come era successo con l’uomo che mi aveva raccolta nel bosco.

Erano creature così buone e gentili, così pregne di compassione e umana carità!

Nessun luogo al mondo avrebbe potuto essere più bello di quello dove mi trovavo in quel momento, nessun’altra persona in tutto l’Universo avrebbe potuto catturare il mio affetto come loro.

Ne fui felice.

Bargigli di memoria iniziavano a baluginare leggeri nella mia mente infantile.

Ero ancora troppo piccola per poter comprendere tutto ciò che, sapevo, avrei dovuto conoscere di me stessa e di ciò che ero, ma non c’era fretta, non per il momento, almeno.

Ora, volevo solo godermi quel piacevole tepore che sentivo sorgere dal cuore.

Desideravo donare tutto quel calore alle persone che mi circondavano con premurose attenzioni, perché lo meritavano ampiamente.

Non sapevo per certo cosa ci facessi lì, o come l’uomo dagli occhi buoni di nome Richard mi avesse trovata nel bosco, ma di una cosa ero certa.

Avrei amato quelle persone con tutta me stessa, e non avrei mai permesso a nessuno di farli soffrire.

Era un buon proposito, come inizio. Perché ero più che convinta di non trovarmi lì solo per amare loro, anche se mi pareva già un buon motivo.


 
***


Dopo diversi mesi di affido temporaneo, e la relativa richiesta di adozione inoltrata all’ufficio competente, la famiglia Patterson ricevette il benestare del giudice alle porte del Thanksgiving.

Quando la notizia venne annunciata anche a Peter  Barrett e sua moglie, venne deciso di dare una festa in onore della bimba, in concomitanza con quella festività nazionale.

Iscritta all’anagrafe pochi giorni dopo con il nome di Aileen Joy Patterson, la bimba venne ricondotta a casa circondata dall’affetto della sua nuova famiglia.

Passeggiando allegramente lungo la Southwest per raggiungere la nona strada, dove abitavano i Patterson, Richard e Melanie chiacchierarono allegramente con i cognati.

I tre figli dei Barrett, a turno, invece, tentarono con magri risultati di spingere la carrozzina dove Aileen riposava tranquilla e pacifica.

Quando infine raggiunsero l’interno della villetta a un piano dei Patterson, l’entusiasmo era ormai alle stelle.

Circondata da un piccolo giardino, e attorniata da rade boscaglie che li separavano dall’Oceano - distante poche centinaia di metri - si riversarono tutti nell’ampio salone già addobbato per il Thanksgiving.

Lunghi striscioni e palloncini colorati diedero il benvenuto alla piccola nel loro grande clan.

Beth, la moglie di Peter, e Melinda, si occuparono della cucina mentre gli uomini, prima di scendere in cantina, si raccomandarono con i piccoli Barrett di tenere d’occhio Aileen.

Traballante ma coraggiosa sui suoi insicuri piedini, la bimba sgambettava felice da un cugino all’altro, tenuta sott’occhio dal maggiore dei tre, Alexander.

Dall’alto dei suoi cinque anni, ringhiava ordini ai fratellini minori affinché cadere per nessun motivo la cugina.

Stephen, di tre, e Brian, di quattro anni, obbedivano ciecamente al fratello maggiore, consci del fatto che, se solo si fossero azzardati a farla scivolare, se la sarebbero vista davvero brutta.

Da quando Aileen era entrata a far parte della loro famiglia, già ai tempi dell’affido temporaneo, Alexander si era auto proclamato suo paladino personale.

Nonostante fosse ancora troppo piccolo per prendersene cura personalmente, ogni qualvolta ne aveva avuto l’occasione, si era fatto accompagnare a casa degli zii per vedere la cugina.

I fratellini, naturalmente, non avevano perso occasione per prenderlo in giro, ma Alex non aveva fatto loro caso.

Guardare Aileen fare le boccacce nel tentativo di dire la sua prima parolina, era stato divertente.

Ancor di più, quando, a sorpresa, in una bella mattina d’estate, la prima parola espressa dalla bambina era stata ‘palla’.

La causa prima della scelta di quella parola fu attribuita, a detta di Melanie e Richard, ad Alex.

Come un’instancabile radiolina, aveva ripetuto fino allo sfinimento alla bambina cosa fosse l’oggetto rotondo con cui la faceva sempre giocare.

Alla fine, forse per farlo contento, o per azzittirlo, Aileen doveva aver scelto quella come sua prima parola da esternare al mondo.

Da quel momento in poi, Alex si era fatto più che mai determinato, ben deciso a farle imparare un sacco di altre parole.

Melinda, non potendo fare altro che accontentarlo, si era limitata a stare attenta al lessico del bambino, temendo che, anche solo per un errore, Aileen venisse a conoscenza di certe cose fin troppo presto.

Dopo un breve periodo di tempo, però, Melinda si era dovuta ricredere e aveva lasciato che, ad Aileen e il suo nuovo vocabolario di parole, pensasse Alex.

A un anno di età, Aileen era già in grado di dire almeno una ventina di parole anche se, spesso e volentieri, erano dolci storpiature dell’originale.

Ma a nessuno importava molto che riuscisse a dire correttamente ‘piatto’, piuttosto che ‘mela’.

L’unica cosa che contava, per le famiglie Patterson e Barrett, era il suo ineguagliabile sorriso.

Melinda aveva sempre temuto che, a causa dell’orribile esperienza vissuta in così tenera età, la bimba potesse averne sofferto in maniera irreparabile.

Fin da quando Richard l’aveva portata a casa sorridente e allegra, Aileen non aveva invece mai dato adito di aver patito per quel tragico abbandono.

Dei genitori non si era mai saputo niente e, pur controllando anche negli annunci di bambini scomparsi o rapiti da altri Stati, nulla era venuto fuori.

Sembrava semplicemente comparsa dal nulla, ma a Richard e Melinda non importava molto delle sue origini.

Averla lì in casa, a condividere la loro vita, era un dono cui non avrebbero mai chiesto spiegazioni a nessuno. Faceva parte della loro famiglia, e tanto bastava.

 
***


Era curioso avere a che fare con i miei nuovi cugini, specialmente Alexander.

Era protettivo, con me, e i suoi chiari occhi grigi, tanto simili alle piume morbide delle colombe, mi accarezzavano gentilmente ogni qual volta si posavano sul mio viso.

Le sue mani insicure mi avevano condotta a lui più volte, nei miei tremendi tentativi di mettere un piede davanti all’altro, infuriata con me stessa per la lentezza con cui tornavo a imparare a camminare.

Ero desiderosa di bruciare le tappe come mio solito.

Rammentare di essere Fenice, dopo un paio di mesi dal mio primo incontro con Richard e Melinda, non mi aveva aiutato a chetare il mio spirito infuocato – in tutti i sensi.

Stando assieme ad Alex che, invece, era la calma e la pacatezza fatte persona, il mio animo ansioso ed esigente si era però chetato.

Alex possedeva la rara capacità di calmare una Fenice come me, e ciò era di per sé una cosa incredibile.

Ero ancora troppo piccola, però, per fargli comprendere quanto, questo lato del suo carattere, fosse unico e incredibile.

Sapevo di avere un compito da svolgere, non ancora molto chiaro, ma che già mi pungolava a voler ricordare maggiori eventi del mio passato – dei miei vari passati.

Alex, però, mi dava la calma necessaria per aspettare che il tempo facesse il suo corso, e portasse a me ciò di cui io avevo bisogno un po’ alla volta.

Presto o tardi l’avrei ringraziato, per questo, ma ancora non era giunto il tempo.

Prima di tutto, avrei dovuto comprendere con esattezza in che momento storico fossi – non in tutte le epoche, una Fenice poteva assurgere al suo ruolo in presenza degli umani.

Fatto ciò, mi sarei occupata dei miei compiti e della mia famiglia.

Per il momento, però, potevo godermi le attenzioni dei miei cuginetti e della mia nuova famiglia umana.








Note: Per quanto riguarda questa storia, troverete spesso due punti di vista, nel corso della narrazione: quello in terza persona, che narra le vicende nella sua complessità, e quello di Fenice, che verrà sempre esposto in corsivo, così da darvi il maggior numero di nozioni possibili.
Buona lettura!




 

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Capitolo 3
*** cap. 3 ***


 
3.

“Che la fenice more e poi rinasce,
quando al cinquecentesimo appressa
erba né biada in sua vita non pasce,
ma sol d’incenso lacrima e d’amomo,
e nardo e mirra son l’ultime fasce.”
(Dante - Inferno XXIV, 107-111)

            

 
 

 


I primi anni nella famiglia Patterson furono caratterizzati da tante prime volte.

Tra alti e bassi, Melinda e Richard riuscirono a districarsi nel migliore dei modi nonostante, per loro, il mestiere del genitore fosse nuovo quanto, ormai, insperato.

Aileen Joy si dimostrò, fin da subito, una bimba vogliosa di scoprire il mondo che la circondava.

Il più delle volte, incurante dei potenziali pericoli cui andò incontro, e sorda ai richiami accorati di Melinda.

Naturalmente, Alex e i suoi fratelli ne approfittarono per infilarsi dietro la cugina in quelle spericolate avventure in giro per casa.

Ginocchia sbucciate e sonori rimbrotti da parte di zia Melinda, o della loro madre, erano all’ordine del giorno.

Unica sopravvissuta a ogni scorribanda, ovviamente, fu sempre Aileen Joy.

In maniera del tutto inspiegabile, la bambina riuscì ogni volta a evitare di farsi male – causando però non pochi danni durante i suoi pellegrinaggi.

Seppur non comprendendo come vi riuscisse, Melinda non poté che esserne felice.

La sola idea che la sua figlioletta potesse anche solo farsi un graffio era, per la donna, praticamente inconcepibile.

Fu così che, senza mai essersi sbucciata un gomito o rotta un’unghia contro un mobile o un gradino, Aileen Joy si presentò al suo primo giorno di scuola.

Tutta sorridente e per nulla timorosa di affrontare quella che, per tanti anni a venire, sarebbe stata la sua vita da allieva, avanzò senza remore verso quella nuova avventura.

Abbigliata con un soffice abitino fiorato, e armata di cestino per il pranzo e uno zainetto, Aileen Joy percorse da sola i gradini che conducevano alla scuola.

Solo quando si trovò dinanzi all’enorme portone di vetro, si volse per salutare il padre con la mano libera.

Tutto orgoglioso e sorridente, Richard ricambiò il saluto cercando di non scoppiare in lacrime.

Diversi padri, presenti a quello straziante rito di passaggio, non furono altrettanto in gamba.

Dopo averla vista scomparire oltre la porta a vetri, si avviò infine verso l’auto per dirigersi in stazione di polizia.

La certezza che Melinda avrebbe potuto intervenire in qualsiasi momento - lavorava come insegnante nella scuola - non servì a far svanire il groppo in gola, piantato saldamente in fondo alla laringe.

Aileen, nel frattempo, si guardò intorno con espressione eccitata, un bel sorriso stampato sul visino a cuore e incorniciato da bei boccoli color rosso Tiziano.

Si accodò a un gruppo di bambini di diverse etnie, e tutti diretti verso quella che sperava fosse l’aula a lei designata.

Il vociare dei bambini intorno a lei era cacofonico e mescolava ansie e paure, gioia e curiosità, panico e speranza.

Anche dentro di lei galleggiavano tutte quelle sensazioni discordanti, ma sapeva bene come affrontarle, pur non potendone dare esempio per non suscitare scalpore o, peggio, un interesse di cui non voleva essere fatta oggetto.

Aveva scoperto fin troppo presto - grazie ai suoi ricordi - che, in quel secolo, creature come lei non potevano girare alla luce del sole.

Di certo, non come ai tempi in cui Rah governava sul cielo, e lei era la sua più fidata amica e compagna.

Non appena le vecchie reminiscenze erano tornate a vagare nella sua mente di bambina, Aileen aveva compreso il suo ruolo, il suo scopo nella vita e ciò che, per nulla al mondo, non avrebbe mai dovuto fare.

Esporsi in pieno sole sarebbe stato impossibile, anzi, pericolosissimo.

No, l’anonimato sarebbe stato la sua bandiera, il vessillo dietro cui si sarebbe nascosta.

Le spiaceva non essere del tutto onesta con coloro che aveva ben presto imparato ad amare ma, per la sicurezza di tutti, avrebbe dovuto tacere.

D’altra parte, lei non era al mondo per il proprio personale piacere, o per suo diletto, ma per il bene dell’intera umanità.

Non c’era perciò motivo di prendersela se, per l’ennesima volta, non poteva fare come voleva. Dov’era la novità?

 
***


Entrare per la prima volta – letteralmente – in un’aula scolastica così pulita, arieggiata e colorata, fu per me un evento davvero degno di nota.

L’ultima volta che avevo visto con occhi di bambina, e di certo non in prima persona, una scuola, era stato al tempo di Re Enrico VIII d’Inghilterra e, da allora, le cose erano davvero cambiate!

Poter visitare un luogo così denso di colori, di dolci profumi, di oggetti dalle forme armoniose e colmo di bambini dall’aspetto sano e fiorente, fu per me fonte di gioia.

Ero troppo abituata ai cinque secoli in cui avevo vissuto nella mia precedente incarnazione, per non apprezzare ciò che ora potevo ammirare entro quelle quattro mura di vermiglio dipinte.

La morte, che mi aveva raggiunta ormai vecchia e canuta, mi aveva strappata da un ruolo che con tutto il cuore volevo tornare a ricoprire.

Forte della mia nuova gioventù, avrei potuto riprendere da dove avevo dovuto interrompere per dare alle fiamme il mio vecchio corpo di Fenice.

Avevo dedicato anni ai reduci del Vietnam e ai loro malanni fisici e morali.

Per quando fossi stata nuovamente adulta, avrei potuto riprendere da dove la mia mente laboriosa aveva interrotto.

L’uomo non poteva arrestare la sua sete di potere, e le guerre sarebbero state sempre presenti, nonostante tutto, perciò io avrei comunque potuto operare in tal senso.

Ci sarebbero stati altri malati e altre anime da salvare, e io avrei pianto per ognuna di loro, prima di tentare di riportare in esse la pace.

In quel momento, però, dovevo pensare al mio primo giorno di scuola, alle figure da disegnare con i pastelli a cera e alle nuove amicizie che avrei potuto fare.

Perché, checché se ne potesse pensare, una Fenice è per antonomasia sola per tutta la vita, ma può sempre avere degli amici con cui condividere esperienze ed emozioni!

Fu perciò con un grande senso di aspettativa che mi accomodai a un banco e, con un gran sorriso, scrutai il viso della bimba al mio fianco, un po’ pallida per l’ansia, prima di dire: “Ciao, io sono Aileen Joy!”

 
***

 
Allungata una mano in direzione della bimba dai capelli color cannella e la pelle di cioccolato che le sedeva al fianco, Aileen allargò il suo sorriso per apparire il meno terrificante possibile.

Non che pensasse di esserlo, ma era meglio partire col piede giusto.

Con voce limpida come acqua di ruscello, aggiunse: “Tu come ti chiami?”

Timida in maniera adorabile, e con una sfumatura rosata sotto la pelle scura, la bambina allungò la sua mano verso Aileen e, con un risolino, disse: “Anch’io mi chiamo Aileen.”

Sgranando leggermente gli occhi di fronte a quella notizia inaspettata, Aileen Joy allora le chiese: “Non hai un secondo nome?”

“Ce l’ho, ma non lo userei mai!” esalò inorridita Aileen, arrossendo ancora di più.

“E’ così brutto?” domandò confusa Aileen Joy, inclinando il capo di boccoli ramati.

“E’ Bernadette, e non lo sopporto proprio” bofonchiò la bimba, mettendo il broncio.

“Possiamo fare così, allora” propose a quel punto Aileen Joy, volendo sistemare le cose. “Io mi farò chiamare Joy e tu Aileen, così nessuno farà confusione. Ti va?”

“Se sta bene a te, per me è okay” ridacchiò Aileen, ora più tranquilla.

Annuendo con vigore mentre la maestra pregava i bambini ancora in piedi di accomodarsi nei banchi liberi, Joy sollevò la manina bianca dicendo: “Signora maestra?”

Levando il capo di scuri riccioli trattenuti da diverse spille fiorate, la donna sorrise benevola a Joy. “Dimmi, piccola.”

“Visto che io e lei…” asserì la piccola, indicando la vicina di banco. “…ci chiamiamo Aileen, volevo sapere se io potevo usare il mio secondo nome, così non faremo confusione.”

Allargando il proprio sorriso, la donna annuì e replicò gentilmente: “Molto bene, faremo così. E quindi, come dovremmo chiamarti?”

“Joy” disse con decisione.

Dando un buffetto a entrambe le bambine, la maestra asserì: “Tanto piacere di conoscervi, Aileen e Joy. Io sono la signorina Prudence O’Gready.”

In coro, i bimbi esclamarono: “Buongiorno signorina Prudence!”

Da quel momento, Joy rimase il suo unico nome.

Quando, quello stesso pomeriggio, Joy rientrò a casa assieme alla madre, la bambina raccontò di quel particolare anche al padre.

Tra risolini divertiti e grandi cenni di assenso, entrambi i genitori si trovarono d’accordo nel chiamarla, a loro volta, soltanto Joy.

“Dopotutto, tu sei stata una gioia, per noi, fin da quando sei comparsa nella nostra vita, quindi, perché non chiamarti solo così? Mi sembra giusto” annuì al termine della storia Richard, servendo alla figlia un panino con la marmellata, dopo averlo preparato con attenzione.

Dato un bel morso al pane morbido, Joy convenne con lui. “Anfe la fignovina Frudenfe è vaffordo.”

Ridacchiando, Mel consegnò un bicchiere di latte alla figlia, mormorando indulgente: “Prima ingoia e poi parla, o rischi di affogare.”

Mostrando la lingua con fare birichino, Joy ingoiò la merenda e bevve avidamente il latte, prima di sospirare di soddisfazione.

“Dicevo che anche miss Prudence è d’accordo con me e Aileen.”

“E questa Aileen è diventata tua amica?” si informò Melinda.

“Oh, sì! E’ bellissima, dovresti vederla! Ha la pelle color caffelatte e dei bellissimi capelli scuri. La sua mamma le ha fatto tantissime treccine!” esclamò eccitata Joy, muovendo le mani come a formare immaginarie trecce lunghissime.

“Forse la conosco. Come si chiama, di cognome?” si informò Melinda, interessata.

“Mahoney, se non sbaglio” ci pensò su Aileen, arricciando il nasino a punta e costellato di piccole efelidi nocciola.

“Oh, la secondogenita di Sandra e Benjamin. La loro figlia più grande è in classe con me” si illuminò Melinda, comprendendo di chi stesse parlando la bambina. “E’ una ragazzina davvero dotata.”

“Tu li conosci, papà?” chiese allora Joy, scrutando il viso del padre, su cui crescevano, ormai da un anno, dei corti baffi scuri, e che la bimba trovava adorabili.

“Conosco Benjamin” annuì Richard distrattamente, tutto impegnato a spalmarsi un po’ di burro di arachidi su una fetta di pane bianco. “Andiamo spesso a pesca assieme.”

“Posso invitarla qui, qualche volta?”domandò infine Joy, scrutandoli con aria speranzosa.

“Ma certo che puoi farlo” annuì sorridente Melinda.

“Bene” sospirò tutta contenta Joy, prima di sentire il suono del campanello farsi largo nella casa.

Annusando leggermente l’aria senza farsi notare dai due genitori che, curiosi, si erano voltati in direzione dell’entrata, Joy scese con un balzo dallo sgabello della cucina.

Sgambettando felice verso la porta, la aprì con un sorriso estasiato già stampato sul volto ed esclamò: “Ciao, Alex!”

Undicenne allampanato e già alto per la sua età, Alexander Barrett era il genietto di casa e autentico flagello per i fratelli minori.

Sotto le sue ben poco amorevoli cure, erano costretti a studiare fino a tarda sera, pena orribili punizioni – quali pizzicotti e sparizioni di giochi – qualora fossero tornati a casa con dei brutti voti.

La madre, Beth, più che mai divertita da quel suo lato da despota.

Le risparmiava ore di estenuanti urla per rimettere in riga Stephen e Brian che, contrariamente al fratello maggiore, di studiare non ne avevano proprio voglia.

D’accordo anche col padre, lo lasciava fare senza dire nulla, intervenendo solo quando le cose rischiavano di andare a catafascio.

Tossicchiando per darsi un tono di fronte alla cugina, nonostante l’istinto gli dicesse di abbracciarla come aveva sempre fatto, Alex entrò dietro invito di Joy.

Cercando di apparire serio, le chiese: “Allora, com’è andato il primo giorno di scuola?”

Ridacchiando dell’espressione a compassata del cugino, Joy lo condusse in cucina, dove si trovavano ancora i suoi genitori, e ciangottò: “Sembri imbalsamato, sai?”

Accigliandosi leggermente, Alex arrossì suo malgrado e replicò piccato: “E’ il modo di parlare?”

“Oh, non fare il rompiscatole” brontolò lei, tirandolo a forza verso uno degli sgabelli mentre Melinda, nascondendo un risolino dietro un colpo di tosse, afferrava il sacchetto del pane per fare un panino al burro di arachidi per il nuovo venuto.

“Tutto bene, a scuola, ragazzo?” chiese Richard, alzandosi dal suo scranno per dirigersi in salotto.     

Presto sarebbero cominciate le partite di basket, e lui non voleva perdersele.

“Bene, zio. Grazie” disse compito Alex, prima di tornare a fissare la cugina, che lo stava scrutando divertita da dietro le ciglia lunghe e bionde. “Non mi dici nulla del tuo primo giorno di scuola?”

Con esagerata esasperazione, Joy esalò: “E’ andato tutto bene, ho conosciuto tanti bambini e c’è una mia compagna di classe che si chiama Aileen come me.”

“Davvero?” chiese incuriosito Alex, sorridendole.

“Sì, così abbiamo deciso che io sarò Joy e lei Aileen, così non faremo casino” gli spiegò Joy.

“Confusione” la corresse distrattamente Alex, ricevendo per diretta conseguenza una linguaccia dalla cugina.

Posando un piatto con il panino al burro d’arachidi di fronte al nipote, Melinda sorrise benevola ad Alex. “Se avete bisogno di qualcosa, sono di sopra a stirare, oppure chiamate Rich, va bene?”

“Grazie, zia. Faremo così” promise Alex, prima di guardarla uscire dalla cucina, come in precedenza aveva fatto Richard.

Rimasti soli, Alex tornò a voltarsi verso Joy e disse: “Comunque, per me tu sarai sempre Leen.”

“Come vuoi. Tanto, non sei in classe con me” motteggiò Joy, vedendolo accigliarsi subito dopo.

“Ti chiamerei così anche se fossi in classe con te, scema” bofonchiò Alex, prima di tapparsi la bocca e aggiungere: “L’ultima parola, dimenticala.”

Fissandolo con aperto scetticismo, Joy celiò: “Pensi che non l’abbia mai sentita? Ho sei anni, non due, e le orecchie funzionano benissimo.”

Più di quanto tu pensi, aggiunse poi tra sé Joy.

“Beh, non dovevo dirla di fronte a te, quindi fammi il piacere di scordartela” brontolò Alex, prima di farsi serio e aggiungere: “Me lo dirai, vero, se qualche bambino ti tratterà male?”

Perdendo tutta la voglia di scherzare, Joy disse con altrettanta serietà: “Sei il mio migliore amico, Alex. Ti dirò sempre tutto.”

Quello che potrò, per lo meno, chiarì poi in silenzio con se stessa, come per volersi scusare almeno mentalmente con lui per i segreti che già gli stava nascondendo.

“Bene” annuì fiero Alex prima di strizzarle l’occhio. “Partitina a Monopoli?”

“Okay” accettò ben volentieri Joy, smontando con un balzo dallo sgabello per seguire il cugino in salotto, dove tenevano tutte le scatole dei giochi.

Richard sorrise distrattamente loro nel vederli passare quasi di corsa.

Mentre Alex sistemava il cartone ripiegato sul tavolo di legno del salone, Joy gli sorrise benevola e preoccupata al tempo stesso.

Come avrebbe potuto essere imparziale, con loro, una volta divenuta grande, se già li amava tutti così tanto?

 
***


Una Fenice non vive per se stessa, ma per gli altri e, fin qui, mi poteva anche stare bene.

Ma come potevo non essere tentata di fare qualche differenza, amando già così tanto la mia famiglia?

Era difficile ricordare a me stessa che non potevo sfruttare i miei poteri per rendere migliore solo la loro vita, dimenticandomi di quella degli altri.

Non mi era mai capitato di avere così tanti problemi a distaccarmi da coloro che mi vivevano attorno, per portare avanti il mio personale compito.

Forse, però, la spiegazione stava tutta nel secolo in cui ero rinata.

Nelle mie precedenti incarnazioni, il mondo aveva avuto dei ritmi diversi e, per i bambini, la cosa aveva assunto i contorni di un’autentica battaglia per la vita.

Da orfana quale ero sempre stata fin dalla mia prima nascita, su un’isola del Pacifico, l’esistenza era sempre stata difficoltosa.

Gli orfani venivano sempre lasciati ai margini della società, mal accuditi o, a volte, persino esposti per essere messi a morte, ritenuti a torto un peso e di nessuna utilità.

In quel mondo moderno, pur se con tragiche eccezioni, i bambini soli non erano più abbandonati a loro stessi.

Ritrovarmi in una famiglia che, non solo non mi aveva presa con sé come sguattera, ma mi amava più di quanto avrei mai immaginato, era un bel cambiamento.

Forse, dopotutto, era questo a disorientarmi un poco.

Da adulta, non avevo mai avuto problemi a vivere isolata dagli altri, impegnata solo a portare avanti i miei vari progetti per aiutare il prossimo.

Come bambina, era la prima volta che assaporavo il vero amore, l’affetto puro e semplice, senza dover affrontare alcuna privazione o la mera solitudine.

Sì, doveva essere senz’altro quello.

Altrimenti, non avrei saputo in che altro modo spiegare perché il mio cuore, dopo tante vite, batteva a un ritmo diverso, infondendomi un calore diverso nell’animo.

Un calore più… inebriante.

 

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Capitolo 4
*** cap. 4 ***


 
4.


 
 
Come capire fino a che punto spingere il mio affetto?

Fin dove condurlo per mano, prima di lasciarlo andare?

Sembrava che, in questa mia nuova incarnazione, questo processo – nei secoli addietro ben più che collaudato – mi stesse dando qualche problemino.

Crescere, e vivere, a così stretto contatto con così tanti umani, era piacevole come poche altre cose io avessi provato nelle mie svariate vite.

Sapevo bene, però, che affezionarmi a loro, per poi vederli sfiorire e morire, mi avrebbe provocato dolore indicibile e infinito sconforto.

Non era sempre così?

D’altronde, era anche per questo che non stringevo mai rapporti troppo intimi con nessuno.

Non solo perché
non potevo, ma perché sarebbe stato comunque atroce veder scomparire, le une dopo le altre, tutte le persone amate mentre io invecchiavo lentamente, molto più lentamente, lasciandomeli tutti alle spalle.

Eppure, in quel periodo, sembrava che nulla di quanto già sperimentato, mi fosse d’aiuto.

Che stessi perdendo smalto?

La cosa era di per sé assurda da pensare – una Fenice è sempre uguale, non cambia mai, rinascita dopo rinascita – ma il dubbio rimaneva.

Mentre me ne stavo lì seduta sul ciglio della mia casa sull’albero, in attesa che Aileen, Margot e Kelly mi raggiungessero per giocare con me, guardavo il cielo e interrogavo il sole con le mie domande.

Mi chiesi se Rah potesse ancora sentirmi, o se il suo spirito fosse ormai troppo lontano dal mondo terreno per udire i miei pensieri.

 
***

 
Aprendosi in un sorriso non appena l’auto dei Mahoney si fermò di fronte alla staccionata dei Patterson, Joy sollevò una mano per salutare Aileen e le sue amiche.

Scesa in fretta la scala di legno che, dalla robusta casetta di legno costruita da Richard meno di un anno prima, conduceva fino al prato di trifogli, Joy corse incontro alle sue amiche.

Salutò con un gran sorriso e un ‘buongiorno’ Sandra, la mamma di Aileen che, a sua volta, rispose al saluto prima di chiederle: “Tua madre è in casa? Mi piacerebbe scambiare due chiacchiere con lei.”

“Sì, penso stia facendo il polpettone per stasera” annuì Joy mentre prendeva sottobraccio Aileen. “Vada pure, sono sicura che le farà piacere vederla.”

“A dopo, ragazze, allora” chiosò Sandra, avviandosi lungo il vialetto di ghiaia bianca mentre le bambine, ridacchianti, raggiungevano la scaletta per salire nel loro nascondiglio.

Una dopo l’altra, stando ben attente a non rovinare le punte delle scarpette di cera che indossavano tutte come un marchio di fabbrica, le scalmanate novenni si accomodarono sul pavimento della casetta.

Con occhio indagatore, osservarono il suo nuovo servizio da tè e Joy, fiera di fronte alle loro espressioni ammirate, disse pomposamente: “Gli zii me l’hanno portato da New York.”

“E’ davvero bellissimo” esalò Margot, prendendo in mano una delle tazzine a misura di bambino per osservarne le belle decorazioni fiorate. “Ma è vera porcellana!”

“Oh, sì” gongolò Joy, iniziando a servire loro del tè al mandarino.

Le bimbe sorseggiarono la loro bevanda come vere damine di corte.

Joy tentò di non sghignazzare al pensiero dei ricordi che, una tale rievocazione, affioravano nella sua mente.

Le sue amiche, nel frattempo, si godettero quei momenti di raffinatezza, tentando di imitare i personaggi dei loro cartoni animati preferiti.

Un’altra grande scoperta, per Joy, erano stati per l’appunto i cartoni animati.

Certo, poco prima di morire, nei suoi ultimi anni di vita, aveva conosciuto le opere di Walt Disney.

Era stata però troppo anziana per provarne piacere, mentre la bambina quale era in quel momento, poteva godere appieno della strana magia che, una semplice pellicola, riusciva a creare nella sua mente.

La Sirenetta l’aveva particolarmente colpita, e non vedeva l’ora di poter ammirare al cinema il nuovo capolavoro della Disney.

In quello, non era mai cambiata. Sebbene avesse, in pratica, tutto il tempo del mondo, aveva sempre fretta, era sempre agitata, non si dava mai pace.

A scuola, la signorina Prudence la chiamava sempre, e con tono divertito, Miss Flash perché, se si doveva correre, lei era la prima a offrirsi volontaria.

Perché, in fondo in fondo, sentiva la mancanza di potersi muovere come lei sapeva fare.

Non potersi librare nel cielo nella sua forma animale come, invece, era stata abituata a fare per secoli, le mancava.

Nel tempo in cui i Faraoni erano al potere e lei era idolatrata come una dea, pur non essendola, lei aveva volato di palazzo in palazzo, libera e leggera come l’aria.

Rammentava fin troppo spesso i bei tempi passati sull’obelisco di Eliopolis, in contemplazione della città ai suoi piedi.

O altre volte ancora, sulla terrazza del palazzo del Faraone, al cospetto dello stesso dio Rah che, tra libagioni e musiche, restava in sua compagnia per ore a parlare o, più semplicemente, a godere della reciproca presenza.

Ma quelli erano altri tempi e altri luoghi, ove lei aveva potuto essere ciò che era senza impedimento alcuno.

Come era stata Feng, nella lontana Cina, amata e adorata per i ricchi doni che portava alle genti e per la prosperità che dava alle terre.

Molti nomi aveva avuto; Garuda per gli Indù, Karura per il popolo nipponico, Wakonda per il popolo dei Dakota, ma nessuno l’aveva conosciuta mai realmente.

Nessuno l’aveva toccata veramente.

Solo Rah era riuscito in questo compito arduo, e ne sentiva tremendamente l’assenza.

Lasciarsi baciare dal sole, che la cercava con la stessa assiduità con cui lo cercava lei, non le bastava, perché non era la stessa cosa che farsi baciare da lui.

Ma sapeva anche che, una simile pretesa, era di per sé assurda.

Rah aveva avuto questo unico privilegio poiché divinità, ma non avrebbe mai potuto ripetersi, e Joy lo sapeva fin troppo bene.

Non era sulla Terra per dividere il suo amore con una persona sola, ma con l’intera umanità.

Era il suo voto.

Era la sua missione.

Era il suo più grande cruccio.

 
***

 
Era bello giocare con le mie amiche, non potevo trovare nulla da ridire in tutto ciò che facevamo assieme.

A volte, però, pensavo a quanto fosse tutto tremendamente assurdo e sciocco.

Ciò che loro si divertivano a imitare, io lo avevo vissuto.

Quando Luigi XVI ancora aveva la testa sulle spalle e la Regina Maria Antonietta flirtava con il pericolo e con lord Fersen.

Quando le più fidate amiche di Sua Maestà l’avevano pregata di desistere da simili sollazzi e poi, nel momento ultimo della Rivoluzione Francese, l’avevano abbandonata.

Io avevo vissuto tra merletti e guardinfanti, prima di abbandonare tutto e unirmi alla Rivoluzione.

L’avevo sentita sentita sulla pelle, crescere sempre più, e più vicina ai miei ideali che a quelli di Necker, che aveva solo tentato di salvare il salvabile.

Mai, però, avrei immaginato che un movimento giusto e nato nella giustizia, potesse mutare in terrore puro e violento.

D’altra parte, la mente umana era tanto luminosa quanto oscura.

Sconsolata per ciò che avevo visto avvenire in Francia, e desiderosa di rendermi utile altrove, mi ero imbarcata per le Americhe.

Lì, un nuovo Stato aveva preso corpo e si era battuto per la libertà degli oppressi.

Avevo seguito con occhi pieni di speranza la crescita del movimento delle Pantere Nere.

Mi ero unita ai cortei di Martin Luther King, avevo pianto per non essere stata capace di salvarlo.

Ormai anziana, avevo iniziato a prendermi cura dei militari di ritorno dal Vietnam, mia ultima battaglia in quel mondo, per quell’incarnazione.

Stanca e prossima alla fine, mi ero rifugiata nei boschi dell’Oregon, che più volte avevo voluto visitare ma che, per i troppi impegni, non avevo potuto vedere e, nel mio giaciglio, ero arsa per poi rinascere.

E ora giocavo con le bambole e bevevo tè da perfette porcellane riprodotte al solo uso delle bambine, mentre nella mia testa scorrevano come in un film le mille e più vite che avevo interpretato nel corso dei secoli.

Mi sentivo stupida e inutile, ma non potevo fare a meno di essere felice, in quei momenti passati con le mie amiche.

Insomma, ero un po’ combattuta con me stessa.

A ogni modo, a nove anni, che altro avrei mai potuto fare, se non giocare come una qualsiasi bambina di quell’età?

Non potevo iniziare a mettere mano al futuro delle genti, o avrei attirato troppa attenzione su di me, cosa che non volevo affatto.

Già la mia storia di trovatella nel bosco, era rimbalzata tra le pareti della scuola come una pallina del flipper.

Se poi avessi cominciato a comportarmi da bambina prodigio, o qualcosa di simile, sarebbe stato peggio ancora.

No, dovevo aspettare e darmi una calmata.

Come se fosse semplice, con un carattere come il mio!

 
***
 
La sera volgeva all’orizzonte, dipingendo il cielo sgombro di nubi di bei colori caldi, che tanto somigliavano ai capelli di Joy, o al suo muticolore piumaggio di Fenice.

Aileen e le altre erano andate a casa da almeno mezz’ora.

Mentre Joy sistemava tutte le sue cose all’interno della casetta sull’albero, la voce stentorea e da giovanotto di Alex si fece largo fino a raggiungerla.

Pochi istanti più tardi, il suo profumo di sandalo le giunse alle nari, pur se il cugino si trovava ancora accanto al cancello.

Joy, affacciandosi tutta allegra alla finestrella della casupola, lo osservò correrle incontro, tutto gambe e braccia e capelli.

In barba agli ammonimenti del padre che, da bravo poliziotto, li portava corti e ben tenuti, Alexander li aveva fatti crescere e ora li teneva legati in una coda.

Erano lunghi poco oltre le spalle, e scintillanti come rame brunito sotto la luce morente del sole.

“Ehi, principessa, ciao!” esclamò Alex, salutandola con un cenno della mano prima afferrare la scala e salire i gradini  a due a due.

Scostandosi per guardarlo entrare, Joy si appoggiò a una delle pareti di legno, dicendo: “Ti inzuccherai da qualche parte, alto come sei.”

Ridacchiando nell’inerpicarsi all’interno della casetta nonostante, il suo metro e settanta di quattordicenne, Alex riuscì in qualche modo a sedersi sul pavimento intrecciando le lunghe gambe.

Scuotendo il capo esasperata, lei esalò: “Che vuoi? Si può sapere?”

“Come sei scorbutica! Non mi sembra di averti disturbato durante il vostro tè, no?” sogghignò il ragazzo, strizzandole l’occhio prima di infilare una mano nella tasca dei jeans schiariti. “Indovina un po’ cos’è questo?”

Storcendo il naso con fare inquisitorio, Joy si avvicinò e allungò una mano in direzione di Alex che però, scostandosi in fretta, nicchiò e disse per contro: “Ah, no! Cosa si dice?”

“Se non so cos’è, non dico nulla” precisò la cugina, intrecciando le braccia al petto.

“Indovina” le propose lui, sgranando un sorrisone beffardo.

Accigliandosi, Joy aggrottò la fronte e fissò dalle due esili fessure che erano divenute i suoi occhi il viso ghignante del cugino, chiedendosi come potesse indovinare una cosa di cui non sapeva nulla.

Lo detestava amorevolmente, quando faceva così.

“Dai, dimmelo. O almeno, dammi un aiutino!” protestò dopo pochi secondi, sbattendo nervosamente le braccia contro i fianchi.

“Come ti scaldi subito! Vai a fuoco come uno stoppino!” ridacchiò Alex, allungandole il biglietto per non offenderla ulteriormente.

Non immagini neppure quanto, pensò tra sé Joy, prima di afferrare il biglietto e ammirarlo affascinata.

Si trattava di un biglietto per una rappresentazione teatrale di Biancaneve e i Sette Nani, che si sarebbe tenuta da lì a un mese a Portland.

Sgranando gli occhi per la sorpresa – Alex sapeva bene quanto le piacessero quegli spettacoli – Joy fissò per alcuni storditi momenti quell’imprevisto regalo.

Con le lacrime che minacciavano di debordare, buttò le braccia al collo del cugino, mandandolo lungo riverso sul pavimento prima di strillare: “Oh, grazie, grazie, grazie!”

Scoppiando a ridere e tentando di rimettersi diritto assieme alla cugina, Alex le diede un buffetto sulla guancia prima di replicare: “Beh, se avessi saputo che ti avrebbe fatto così piacere, avrei detto a mamma di prendere anche i biglietti per la Sirenetta. Ma quelli li fanno un po’ lontano… ci sarebbe da scendere fino a Sacramento.”

“No, no, va benissimo così” sussurrò Joy, continuando a osservare il biglietto come se fosse il bene più importante del mondo.

Aveva sempre amato il teatro e le rappresentazioni, in tutte le sue vite e, anche se si trattava di una semplice favola, a lei piaceva ugualmente.

Tornando serio, Alex le sollevò il visino con un dito e domandò interessato: “Perché ho sempre l’impressione che tu sia più grande della tua età? Me lo dirai, prima o poi?”

“Anche tu sembri più grande della tua età” precisò Joy, sorridendogli benevola.

“Per l’altezza, d’accordo…” sbuffò Alex, scrollando una mano noncurante. “… ma tu sei tappa, quindi non è per quello.”

“Ehi!” sbottò la cugina, accigliandosi immediatamente.

“Ecco, ora non sembri molto adulta, ma spesse volte, invece, quando pensi che nessuno ti guardi, cambi sguardo, come prima, quando osservavi il biglietto” le spiegò Alex, sistemandole distrattamente un ricciolo ramato dietro un orecchio.

Alex era sempre stato intuitivo, fin quasi a rasentare il divinatorio.

Eppure, Joy non credeva che, in lui, risiedesse lo spirito di un Oracolo.

Era comunque troppo giovane per poterne essere certa e, se si fosse trattato di un Oracolo legato a Fenice, paradossalmente, non avrebbe potuto riconoscerlo.

Misteri del Duat.

Ripensando alle parole del cugino, comunque, non poté dagli torto.

Era difficile comportarsi sempre da bambina, quando si avevano pensieri da adulta con molte esperienze alle spalle.

Lui doveva aver notato questi suoi cambiamenti repentini.

“Senti, facciamo così” propose a quel punto Alex, sicuramente notando il suo disagio. “Me lo dirai quando vorrai e se vorrai, va bene?”

“Sicuro che la cosa non ti scocci?” brontolò Joy, non sapendo davvero cosa dire.

“Sei mia cugina, non potresti mai scocciarmi. A meno che tu non venga a disturbarmi mentre sono con Sally, è ovvio” celiò Alex, ammiccandole complice.

Ridacchiando, Joy pensò alla ragazzina con cui Alex si vedeva da un paio di mesi e, scuotendo il capo, replicò: “Non ci penso neanche! Mi fate schifo, quando vi sbaciucchiate!”

“Aspetta di essere più grande, prima di denigrare queste cose” la rimbrottò bonariamente lui, con fare saccente.

“Ha parlato Mister Casanova” scimmiottò il suo tono Joy, tutta ridacchiante.

“Neanche sai chi era, Casanova!” la prese in giro Alex.

Come no!, pensò tra sé Joy, prima di dire ad alta voce: “Di certo, non sei bello come lo era lui!”

“Ma sentitela, Miss Riccioli d’Oro!” rise più forte Alex, prima di tirarle un boccolo per scherzo.

“Ahia!” brontolò Joy, prima di dargli uno spintone per allontanarlo dai suoi capelli.

La spinta andò un po’ troppo a segno perché Alex, sbilanciatosi all’indietro, rischiò di finire nel pertugio che conduceva alle scale.

Solo l’intervento tempestivo di Joy, impedì il peggio.

Afferrando in fretta la maglietta del cugino, lo strattonò con forza mentre il suo cuore pompava a mille per la paura e l’ansia di trarlo in salvo.

Solo quando sentì il suo peso su di lei, sdraiata a terra con il fiatone, riuscì a non morire di spavento.

“Scusa, scusa, scusa” biascicò poi tra le lacrime, stringendolo con forza mentre Alex tentava di scostarsi da Joy per non schiacciarla.

“Piccola, sto bene, mollami… ti sto spappolando” le sussurrò, girandosi di schiena per non premere più su di lei.

Ora semi sdraiata sul suo petto, i lacrimoni che le scivolavano sulle guance come perle scintillanti, Joy lo tastò più e più volte sul viso con dita tremanti per essere sicura che fosse lì.

Nel frattempo, ansò spiacente: “Non volevo farlo, perdonami. Dovevo stare più…”

Azzittendola con un dito premuto sulle labbra a cuore della cugina, Alex si mise a sedere, costringendo Joy a fare lo stesso.

Asciugandole le lacrime con il pollice, le sorrise, replicando: “Non è successo nulla, e sono stato io lo stupido a istigarti. Perciò, smettila di piangere e finiamola qui.”

Lei annuì lentamente, tirando su con il naso e Alex, con un risolino, la attrasse in un abbraccio, esclamando: “Dovrei saperlo che mia cugina è Maciste!”

“E smettila!” bofonchiò Joy, premuta contro il suo petto.

In tanti anni, quel profumo di sandalo non era mai cambiato, e lei lo adorava.

“Toh, e questa cos’è?” disse a un certo punto Alex, scostandosi da lei per allungare un braccio.

Sciogliendosi dal suo abbraccio, Joy si volse a mezzo per comprendere cosa avesse visto il cugino di tanto strano da attirare la sua curiosità.

Con il gelo nel cuore, osservò sgomenta la penna rosa confetto che Alex teneva tra le dita... e che non avrebbe mai dovuto trovarsi lì.

Rigirandosela davanti al naso con espressione meditabonda, il ragazzo borbottò: “Beh, che mi venga un colpo. E da quando in qua esistono penne rosa?”

“Non… non so” riuscì a bofonchiare Joy, maledicendosi tra sé a spron battuto.

“Beh, visto che neppure Miss Sapientino sa cos’è, finirà dritta dritta nella mia collezione di stranezze” ridacchiò Alex, infilandosela in tasca.

“Non la puoi lasciare a me?” gli chiese lei, speranzosa.

Scuotendo il capo, Alex replicò conciso: “Tu non collezioni cose strane, io sì.”

 
***

 
Ora, vi starete chiedendo che importanza potesse avere quella penna.

Bene, era mia.

Quando perdo le staffe, o mi ammanto di paura, rischio di mutare in Fenice, e la penna non era altro che  la riprova ultima di quanto fossi stata in ansia per Alex.

E se, il bel mondo così tecnologico in cui vivevamo, avesse messo le sue maledette zampacce sulla mia penna, si sarebbe reso conto immediatamente dell’anomalia genetica che la caratterizzava.

Non esisteva nessun volatile al mondo con la mia impronta genetica e, se una cosa simile fosse venuta a galla, io non sarei più stata al sicuro.

Avrei attirato l’attenzione di persone che, per nessun motivo al mondo, volevo attrarre.

Perché è impensabile credere che una creatura come me non abbia neppure un nemico.

E se lo credevate, sono pronta a smentirvi.

 

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Capitolo 5
*** cap.5 ***


5.
 
 


Dire che tentai, nel corso degli anni, di farmi ridare da Alex la mia penna rosa, sarebbe un eufemismo.

La teneva come una preziosa reliquia dentro una scatola di legno di sambuco, neanche stesse difendendo i gioielli della Corona Brittanica.

Per anni, mi domandai cosa ci trovasse di così interessante a tenersi una penna della mia coda.

Ovvio, lui non sapeva che era mia, pensava fosse di qualche uccello che noi non conoscevamo, ma la faccenda rimaneva: che gusto ci trovava?


Ogni qualvolta visitai la sua camera, in quegli anni di crescita e scoperta, la mia mente favoleggiò nel tentativo di comprendere cosa spingesse Alex a raccogliere tutto ciò che colpiva la sua attenzione.

Zia Beth, letteralmente, ne era ossessionata, e non perché toccasse a lei ripulire tutta quella stramba collezione.

Come me, non ne comprese mai il senso, e le uniche risposte laconiche di Alex furono sempre “mi piacciono” o “non sono affari vostri”.

Certo, meglio lì nella sua scatoletta lignea che sotto le lenti di un microscopio.

La cosa, però, mi urtò sempre, soprattutto perché niente di ciò che mi apparteneva era mai abbastanza al sicuro, visti i tempi in cui vivevo.

Non solo la mia storia era stata talmente tanto favoleggiata che ora, tutti i ragazzi della scuola media, mi chiamavano ‘la ragazza delle fate’.

Il mio aspetto non aiutava a cancellare quello stupido nomignolo, purtroppo.

A quattordici anni, ero piccola di statura e, di sicuro, non sarei mai diventata alta, questo lo sapevo.

Quando ero nata la prima volta, la mia altezza era stata ritenuta esemplare, per una donna.

Negli anni novanta, essere alte un metro e sessanta circa non corrispondeva, esattamente, a un’altezza eccezionale, e io sapevo già che, più di quella metratura, non sarei andata.

Ma non era la mia bassa statura a incuriosire.

Erano piuttosto il mio viso cesellato, la pelle eburnea, i capelli mossi e rosso Tiziano, gli occhi simili a quelli di un gatto, dal taglio leggermente felino.

Ero bella ma, più di tutto, ero perfetta.

Anche troppo, e non lo dico per vanteria, ma perché è un dato di fatto.

La Fenice è davvero perfetta.

Non ha difetti fisici di alcun genere e perciò, agli occhi di un qualsiasi essere umano, la perfezione metrica del mio volto colpisce anche senza volere.

A tutto questo, poi, si aggiunse anche un particolare più spiacevole e, a conti fatti, il più pericoloso tra tutti.

Non appena lasciai le scuole elementari per passare al livello superiore, mi  ritrovai a fare i conti con il Professor Oliver Thomson.

Mio insegnante di storia, rimase affascinato in maniera quasi maniacale dalla mia, di storia.

Mi crivellò di domande più o meno dirette finché, esasperata, non lo pregai di smettere.

Si scusò, ovviamente, educato e professionale come qualsiasi docente avrebbe potuto esserlo, ma la cosa non mi tranquillizzò per nulla.

Dopo averne parlato con Stephen e Brian – Alex era al college, perciò non poteva aiutarmi – mi sentii come una cavia di laboratorio.

Fui perennemente seguita a vista da uno dei due, se non da entrambi i cugini.

Ne apprezzai comunque la presenza più o meno a distanza perché, per la prima volta in vita mia, mi sentii in pericolo.

Non potei procurar danno al professore, e neppure usare i miei poteri su di lui, perché di certo il controllo mentale non rientrava tra le mie doti.

Sono una creatura di fuoco, ed Egli è mio amico e compagno.

 Da esso traggo forza e potere, ma non posso usarlo per bruciare il cervello della gente!

In buona sostanza, passai diversi anni con il costante assillo del Professor Thomson e delle sue domande – che smisero di essere rivolte direttamente a me, ma di certo non ad altri.

Non pensai mai, però, che si sarebbe spinto oltre. A volte, sono davvero tonta.

 
***
 
Leggere al parco le era sempre piaciuto.

Con il profumo del mare a farle compagnia, assieme al cinguettio degli uccelli e al fruscio delle foglie mosse dal vento, Joy non poté che dirsi a suo agio, su quella panchina di pietra.

L’ombra di un faggio secolare le dava refrigerio dalla calura della giornata, e ad allietarla pensava uno dei suoi libri preferiti.

Jane Eyre era affascinante.

Lo aveva letto per la prima volta alla sua prima uscita letteraria.

Anche se, con il passare dei decenni, le battute di Edward Rochester le sembravano ora un po’ troppo affettate e, a tratti, strane e confusionarie, la storia non aveva perso smalto ai suoi occhi.

Certo, nel ventesimo secolo, nessuno si sarebbe mai sognato di parlare a quel modo.

C’era comunque un che di magico, nel poter tornare a immergersi nelle atmosfere fumose di quei luoghi, lontani nel tempo, che lei aveva vissuto in prima persona.

Joy inspirò il profumo di quei luoghi, ascoltando i suoni della città e il vociare sommesso della gente.

Si irrigidì però immediatamente, non appena al suo naso sensibilissimo giunse il profumo ricercato e leggermente speziato del Professor Thomson.

Dal fondo del vialetto del parco, stava venendo nella sua direzione con passo tranquillo ed espressione serena.

Scappare dalla panchina sarebbe stato assurdo; se ne sarebbe accorto, e questo non avrebbe che rinfocolato la sua curiosità.

Fingere di non vederlo sarebbe stato impossibile; lui certamente l’aveva vista, e si sarebbe fermato di sua spontanea volontà a parlare con lei.

Ucciderlo sarebbe stato impensabile; la forza e il potere non le mancavano per farlo, ma quando mai lei aveva torto un capello a qualcuno?!

Capelli no di certo, per lo meno.

C’era una sola eccezione alla sua regola ferrea, e questa eccezione non comprendeva capelli. Né esseri umani ficcanaso.

Facendo buon viso a cattivo gioco, Joy cercò di rilassare sia i tratti del viso che i propri nervi.

Se si fosse innervosita, avrebbe rischiato di smascherarsi con le proprie mani, e questo non poteva permetterselo.

Fingendo perciò sorpresa, e simulando un sobbalzo leggero, Joy si aprì in un sorriso di circostanza chiudendo il libro sulle sue ginocchia.

“Professore, buongiorno.”

“Ah, miss Patterson. Buongiorno  a te” esclamò con un sorrisino l’uomo alto e dinoccolato, scuro di capelli quanto chiaro di pelle.

I suoi occhi, di un nero pece profondo come un pozzo senza fondo, si posarono curiosi sul suo viso, prima di scostarsi con educazione e puntarsi poco oltre.

“Posso sedermi un po’ con te?” le chiese a quel punto, riempiendo il silenzio imbarazzato caduto tra loro.

Scostandosi un po’, Joy indicò la panchina con un gesto elegante della mano e disse: “Prego, sedetevi.”

Senza lasciarselo ripetere, Oliver si accomodò e, lanciato uno sguardo curioso in direzione del libro, sorrise sorpreso prima di dirle: “Lettura impegnativa, per una ragazzina di soli quattordici anni. Non ti sembra che Jane Eyre sia complesso da comprendere, alla tua età?”

“Tutt’altro. La letteratura inglese mi piace” replicò cauta Joy, coprendo istintivamente con una mano la copertina in cartone morbido del libro.

“Lo lessi anch’io, tanti anni fa, e lo trovai davvero assurdo. Rochester e tutti i suoi segreti! Avrebbe potuto benissimo divorziare dalla moglie pazza, dopotutto, invece di crearsi così tanti problemi!” commentò divertito Oliver, sorridendole bonario.

Scettica, Joy replicò: “Se fosse stato tutto così semplice, la storia non sarebbe stata altrettanto bella.”

“Quindi, ti piacciono i suoi segreti? Ti piace come mente a Jane?” chiese a quel punto Oliver, realmente interessato.

Stando ben attenta a come rispondere senza rinfocolare il suo già elevatissimo interesse, Joy mormorò: “Non ho detto che mi piacciono, ma li comprendo. Dopotutto, Edward ha un cuore, e non è un mostro.”

“Tu credi?” ritorse Oliver, accigliandosi leggermente.

“Ne sono convinta” annuì Joy, prima di levare lo sguardo verso il professore. “Perché vi interessa tanto sapere da dove vengo?”

Apparentemente sorpreso da quella domanda a bruciapelo, Oliver finse di non aver capito ma Joy, ben decisa a chiarire la faccenda con lui, aggiunse: “Se ai miei genitori sto bene come sono, perché non deve stare bene a voi?”

“Sono un uomo di scienza, mia cara Joy, e le storie come le tue mi hanno sempre affascinato” ammise sinceramente Oliver, stupendola un poco. “Non vorresti tu stessa scoprire le tue origini? Sapere chi, ma soprattutto perché, fosti abbandonata nel mezzo della foresta?”

“No” dichiarò lapidaria, lo sguardo di smeraldo duro come il granito.

“Strano, vista la tua mente insolitamente brillante, per una ragazzina della tua età” ci scherzò sopra Oliver. “Perché quella faccia sorpresa? Conosco i tuoi voti come quelli di tutti i miei allievi, e so che sei portata sia per le scienze che per le materie umanistiche.”

“Glielo ripeto; perché è così interessato a me?” tornò a domandare Joy, ora con tono più duro.

“I misteri mi affascinano da sempre, ma credimi, non voglio farti alcun male” tenne a precisare Oliver, serio in viso non meno di lei.

Me l’immagino, almeno finché non scoprirai cosa sono!, pensò tra sé Joy, rammentando fin troppo bene cosa fosse successo, a suo tempo, durante l’Inquisizione.

Anche all’epoca, giravano commenti simili, e a un sacco di donne erano costate torture immani e morti atroci.

Lei stessa si era dovuta nascondere come un’appestata, ricercata dai preti inquisitori perché dedita, a loro dire, al culto di Satana.

Occuparsi di curare malati e bisognosi grazie al suo sapere di piante ed erbe medicamentose, era stato considerato eretico.

Demoniaco.

In Oliver, vedeva lo stesso fervore pacato e silente che aveva scorto in quei preti dediti a una rilettura cieca e sciocca del loro credo.

Non poteva fidarsi delle sue parole apparentemente così docili.

Levandosi in piedi con lentezza misurata e un certo aplomb, Joy si strinse al petto il libro e, il più cordialmente possibile, asserì: “Se non potete farne a meno, fate pure, ma non permettetevi mai più di chiedermi nulla, oppure chiederò a mio padre e mio zio di fermarvi con i mezzi che la legge mette a disposizione.”

“E’ una minaccia?” chiese Oliver, assottigliando le iridi di pece per un istante.

“Non minaccio mai. Prometto” replicò pacata Joy, prima di salutarlo compitamente e allontanarsi con passo tranquillo, seguendo il sentiero lastricato del parco.

Sentì i suoi occhi puntati addosso finché non oltrepassò il cancello di ferro del parco e, quando finalmente si ritrovò in strada, poté nuovamente respirare con regolarità.

Le mani le prudevano e tremavano come fuscelli scossi da impetuoso vento, segno che la visitina a sorpresa del professore l’aveva scombussolata più di quanto avesse ritenuto possibile.

Nell’incamminarsi impaurita verso casa, si chiese se l’uomo l’avrebbe finalmente lasciata in pace o se, invece, la sua fervente attività investigativa sarebbe proseguita.

Una volta giunta a casa, si avviò subito in camera sua per riporre il libro sulla scrivania.

Dopo essersi cambiata d’abito e aver indossato maglietta e jeans, andò sul retro della villetta per dare una mano alla madre che, in quel momento, era impegnata a tagliare dei ciuffi di insalata dall’orto.

Melinda era sempre stata buona e gentile con lei, materna e amichevole al punto giusto, senza mai essere stucchevole o esageratamente opprimente.

Sapere dei suoi tentativi di avere un figlio le aveva spezzato il cuore e, se possibile, l’aveva amata ancora di più.

Teneva molto a lei e, sebbene sapesse di venire meno a una regola basilare per una Fenice, si era sentita in dovere di tornare ad affezionarsi a qualcuno.

Dopotutto, le uniche cose che potevano metterli in pericolo erano ben lontane da lì.

Avvicinandosi alla madre, le sorrise salutandola e, afferrato il cesto che teneva accanto ai piedi, le domandò: “Ti aiuto con queste, va bene?”

“D’accordo, piccola mia” annuì Mel, prima di guardarla in viso, aggrottare la fronte e infilare decisa il coltello nella tasca anteriore del grembiule che indossava.

Melinda poteva anche apparire una donna semplice, ma non lo era. Affatto.

Aveva un intuito sottile, e scovava sempre delle pecche nelle barriere di Joy.

Quella volta non andò diversamente dalle altre.

Le poggiò una mano sulla spalla e, comprensiva, le chiese: “E’ successo qualcosa al parco, eh?”

Sbuffando, Joy si piegò per riprendere il lavoro della madre e borbottò: “Hai un radar incorporato, mamma?”

“Hai le guance rosse e gli occhi lucidi e, anche se non hai pianto, si vede che sei turbata” precisò Mel, tirandole simpaticamente un boccolo ramato.

“Ho parlato con il Professor Thomson, e l’ho pregato di piantarla di darmi fastidio. Lui mi ha detto che non vuole farmi del male, che desidera solo scoprire la verità su di me, per capire perché mi abbandonarono” brontolò Joy, recidendo il ciuffo di insalata con più veemenza del necessario.

Aggrottando la fronte, Mel sussurrò: “Che uomo testardo!”

“Eccome!” annuì con foga Joy. “Mamma, ma tu hai idea del perché si sia fissato così tanto con me?”

Tamburellando un dito sul suo mento paffuto, Mel attese un attimo, prima di parlare.

“Vedi tesoro, può essere per via di ciò che gli successe anni fa.”

“In che senso?” volle sapere lei, sinceramente curiosa.

Scrollando le spalle, Mel disse: “Quando ci dicesti la prima volta del suo interesse per te, papà si informò su di lui, per scoprire se fosse un tipo affidabile o meno.”

“Ebbene?”

“Venne a sapere che, durante il suo dottorato, andò in India per studiare le popolazioni locali e le loro leggende – sai, è laureato in Antropologia Sociale e Culturale – ma, durante la sua permanenza in quella terra, venne screditato aspramente da alcuni colleghi per le sue ricerche troppo alternative, se così le vogliamo chiamare” le spiegò succintamente Mel, muovendo delicatamente le mani per dare enfasi al suo dire.

“E per cosa lo denigrarono?” chiese turbata Joy, sentendo un brivido venefico risalirle la schiena.

“Il nome giusto non lo ricordo, ma mi pare si trattasse di qualche mito locale legato ai serpenti. Disse di avere trovato le prove concrete della veridicità dei racconti su alcune bestie mitologiche ma, nell’ambiente accademico, venne subito aspramente criticato.”

Il brivido si fece ghiaccio sulla sua pelle, e Joy impallidì leggermente.

“In pratica, gli rovinarono la carriera. Da quel che sappiamo, lasciò l’Inghilterra, dove aveva studiato, e si trasferì in America con la moglie, dove iniziò a fare l’insegnante nelle scuole medie inferiori e superiori, abbandonando completamente gli studi sull’Antropologia” terminò di dire Mel, prima di notare il pallore spettrale sceso sul volto della figlia. “Tesoro, non ti senti bene?”

“S-sì, mamma, sì” riuscì a dire lei, prima di chiedere in fretta: “Si trattava dei Naga?”

“Esatto, tesoro. Proprio quelli” sorrise Mel, prima di darle un buffetto sulla guancia e dire: “Sei proprio un genietto come Alex, eh?”

Joy riuscì in qualche modo a ridere di quel commento, mentre la sua mente galoppava a spron battuto alla ricerca di un qualche modo per non esplodere di rabbia.

“Può darsi che, dopo essere stato screditato come ricercatore, ora veda come un’ossessione tutto ciò che non comprende, e la tua storia è effettivamente curiosa, no? Papà ha preferito non sporgere denuncia solo per quello, perché in parte lo comprende. Gli hanno rovinato la vita, con quelle accuse, e lui non vuole ulteriormente calcare la mano ma, se dovesse darti ancora fastidio, non esiteremo a farlo, d’accordo?”

“Va bene. Neppure io voglio causare dolore alla sua famiglia, sempre che si tenga a distanza” bofonchiò Joy, la mente già da un’altra parte.

Ovvio, che il Professor Thomson si fosse interessato a lei, viste le storie che circolavano sul suo conto!

La bimba misteriosa trovata nel bosco, avvolta da una culla fatta di rami di mirto!

Seguire le tracce era il suo mestiere, e lei era la sua preda designata.

Non faticava a credere che, un ritrovamento così singolare e unico, avesse riacceso in lui la scintilla della ricerca.

Anche solo per provare a se stesso di essere in grado di non aver perso il tocco, avrebbe continuato e continuato, senza mai fermarsi.

E, se era riuscito a scovare un Naga, cosa peraltro molto complessa, per non dire impossibile, cos’altro era in grado di fare?

 
***

 
Per chi si stesse ponendo delle domande, sono pronta a rispondere.

Quando parlo di eccezioni alla regola senza capelli, come di umani ficcanaso, intendo i cari, simpatici amici striscianti noti con il nome di serpenti.

Ora, ho sempre sostenuto che una Fenice non odia nessuno, ha a cuore il benessere di tutti, eccetera eccetera.

Ma, essendo fatta io stessa di carne e sangue – e fuoco – ho anch’io le mie debolezze, e i serpenti sono la mia nemesi.

La loro semplice presenza mi irrita, il loro odore freddo e denso mi nausea.

Non è un caso se la mia lotta con i loro rappresentati divini, i Naga per l’appunto, sia addirittura divenuta mito.

Conosciuta all’epoca come Garuda, ero nemica mortale dei Naga e ne uccidevo a frotte, forte del mio odio per loro, e loro per me.

Ho parlato di odio, sì.

E’ la famosa eccezione che conferma la regola.

Perché nulla può essere perfettamente limpido, neppure la luce può.

In ogni cosa deve sempre esserci almeno un elemento di tenebra, perché l’equilibrio dell’universo si erga stabile.

La mia tenebra sono i Naga.

Di comune accordo, e grazie ai buoni uffici di un gentile principe indiano che, in seguito, la gente avrebbe chiamato Buddha, decidemmo infine di dividere le nostre strade.

Per il bene di tutta la popolazione strisciante che, per ovvie ragioni, io non potevo sterminare nonostante volessi con gran cuore, desistetti dalla mia opera di sterminio.

Non che non avessi motivo per odiarli, visto che la loro Regina aveva barbaramente ucciso e divorato la mia madre umana.

Siddartha, però, riuscì a convincermi che, per l’equilibrio delle cose, anche loro avevano diritto di vivere.

Accecata dall’odio e dal desiderio di vendetta, me ne ero quasi dimenticata.

Capii che la regola del non affezionarsi a nessuno aveva un ottimo motivo per esistere, e decisi di applicarla con fervore quasi religioso.

Almeno, finché non incontrai Mel, Rich e la sua famiglia.

Spiegai così le mie ali in direzione della Cina e, venerata e onorata con il nome di Feng, mi stabilii alla corte dell’Imperatore.

A tutt’oggi, nonostante siano passati anni, secoli da quell’evento, non riesco a sopportare la vista di un serpente.

Certo, non ne ho più ucciso uno da quando feci quella promessa a Siddartha, ma lo ammetto, è stato difficile.

Sentire poi parlare di loro dalla bocca di Melinda, mi fece non solo rabbrividire, ma anche infuriare a morte.

I Naga si erano sempre tenuti nell’ombra, ben decisi a non mostrarsi in piena vista per non attirare la mia attenzione: occhio non vede, cuore non duole.

Le Regine che, negli anni, si erano susseguite, avevano sempre seguito questa implicita regola.

Non essendo più stata punzecchiata da nessuno di loro, mi ero tenuta ben lontana dall’India per non infrangere il patto.

Ma ora scoprivo che un umano era riuscito non solo a vedere un Naga, ma anche a raccogliere prove che ne confutassero l’esistenza!

Che stava succedendo, in quelle terre?

L’attuale Regina era morta, lasciando sguarnito il trono?O volevano farsi una pubblicità fuori luogo, nei tempi moderni?

Non volevo essere costretta a interessarmi nuovamente a loro ma, se qualcuno stava cercando di portare allo scoperto verità che sarebbe stato meglio tenere segrete per sempre, prima o poi avrei dovuto intervenire.

A ogni buon conto, non avrei potuto farlo tanto presto.

A quattordici anni, non puoi scappare di casa senza lasciare che mezzo mondo ficchi il naso.

Per quanto io voli veloce, non potrei mai  raggiungere l’India in breve tempo.

Di sicuro, non in tempo utile perché nessuno si accorga della mia assenza.

No, dovevo aspettare e sperare che né i Naga, né il Professor Thomson, combinassero guai nel frattempo.



 

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Capitolo 6
*** cap. 6 ***


Breve parentesi sugli altri personaggi della storia, così da rendere più chiari i comportamenti di alcuni di loro in relazione a Joy. Spero possa esservi d’aiuto. Buona lettura a tutti! :)

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6.
 
 



Sopportare lo scherno generale, per Oliver Thomson, non era mai stato semplice.

Abbandonare l’Inghilterra per tornare in America era stata, in definitiva, la scelta migliore per lui e per la sua famiglia.

Ricominciare tutto da capo, col pesante fardello della derisione e della sconfitta, gli aveva creato non pochi problemi.

Certo, il riflesso di ciò che era successo in India, aveva avuto meno risonanza nella terra dei cowboy e dei grattacieli sterminati.

I suoi colleghi accademici, però, ne erano stati messi al corrente con la stessa velocità con cui l’elettricità attraversa i cavi di rame.

Chiusi nel cassetto della scrivania del suo ufficio, tutti i documenti inerenti le sue ricerche sui Naga attendevano pazienti che qualche editore volesse pubblicarli.

Il dottor Chandra aveva fatto davvero un ottimo lavoro, ai tempi di Nuova Delhi, nello smontare, punto dopo punto, tutti i suoi studi.

Tutte le prove che aveva raccolto nella foresta, così come le fotografie, erano state misteriosamente scomparse.

Anche se non ne aveva mai avuto la prova, sapeva che dietro il furto di quegli importanti reperti c’era stato lui, e solo lui.

Ovviamente, come giovane ricercatore alle prime armi, Oliver non aveva impiegato molto a essere bersagliato da critiche più o meno velate.

La fama di Bharat Chandra, esimio professore emerito di Calcutta, aveva contribuito a farlo sembrare ancor di più un pazzo e un vanesio, agli occhi dei collegi.

Se n’era tornato a Londra con lo zaino pieno dei pochi documenti che, il ladro, non aveva trovato nel suo frettoloso raid all’interno della sua stanza d’albergo.

Dopo aver riabbracciato sua moglie, avevano fatto armi e bagagli ed erano tornati a casa, a Phoenix.

Lì, erano rimasti il tempo necessario per permettere a Consuelo di dare alla luce il loro primogenito e svezzarlo.

Accettata una cattedra a Lincoln City, avevano salutato i genitori di Oliver e si erano trasferiti in Oregon quando il piccolo Morgan aveva compiuto due anni.

Fresco di quella bruciante sconfitta, Oliver aveva accolto quasi come una catarsi mistica le voci che circolavano in quella nuova città.

Una bambina trovata nel bel mezzo di un bosco, racchiusa da un nido di rami mirabilmente intrecciati.

Nessuna notizia era mai pervenuta, circa l’identità dei suoi veri genitori, né erano mai state trovate tracce nel bosco che riconducessero a qualcosa su cui indagare.

Se ne avevano parlato per lungo tempo, nella città, vista la famiglia che aveva adottato la bimba.

Come collega della madre adottiva della bambina, aveva saputo in prima persona di quel magnifico quanto casuale salvataggio nella foresta.

Incuriosito da quella strana storia e affascinato dai particolari che, man mano, erano giunti al suo orecchio, Oliver si era buttato a capofitto in quel nuovo progetto.

Il fuoco della ricerca si era ridestato in lui, rendendolo bramoso di una rivincita sul piano umano e lavorativo.

Se avesse scoperto qualcosa di più, su quella graziosa fanciulla, il suo nome sarebbe stato riabilitato.

Gli era sembrato strano, per non dire assurdo, che nessuno si fosse accorto della sua unicità, dell’energia che sembrava vibrare attorno a lei.

Certo, le sue erano solo sensazioni, non certo spiegabili con fatti concreti ma, ogni qualvolta si era trovato nelle vicinanze di Joy Patterson, il suo corpo aveva vibrato in risposta.

Come il suono di una campana in lontananza, o il richiamo di un animale nel bosco, che volesse metterlo in allarme, in allerta.

Ma, se anche non vi fossero state quelle sensazioni così dirompenti, era rimasto insoluto il mistero del suo ritrovamento.

Una culla lignea, creata con rami di mirto e profumata di cannella, non aveva ragione di trovarsi in una foresta di abeti sitka e pini centenari.

Certo, come indizio era debole, e la bambina si era ben guardata dal mettersi in mostra, a parte ciò che lui aveva notato e che le altre persone sembravano non aver compreso.

Oliver si era convinto che vi fosse ben altro, dietro quei profondi occhi verdi carichi di un’intelligenza antica e quasi sovrumana.

In un modo o nell’altro, l’avrebbe scoperto.

Il fatto che, nella sua famiglia, vi fossero ben due poliziotti, non gli aveva certo facilitato la vita.

La stessa Joy non avrebbe esitato a far emettere un ordine restrittivo nei suoi confronti, se il suo interesse per lei le avesse procurato ulteriori fastidi.

Questo l’aveva costretto a essere molto più discreto di quanto non fosse stato nel suo primo periodo di ricerche.

Una volta trovato il giaciglio in cui la bambina era stata trovata, però, tutto sarebbe stato più semplice.

Il clima di quei luoghi non gli aveva facilitato il compito perché, muschio e umidità,avevano contribuito a modellare enormemente il bosco, in quegli anni.

Inoltre, Consuelo aveva dichiarato fin da subito il suo scetticismo nei confronti della sua nuova ricerca.

Questa sua ossessione lo aveva tenuto lontano dal figlio che, nel corso degli anni, si era sempre più chiuso nel suo mondo, fatto di dinosauri e libri illustrati.

Conoscendo i motivi che lo avevano spinto a intraprendere quell’impresa quasi assurda, la moglie lo aveva lasciato fare, pur raccomandandosi di non esagerare.

L’aveva, però, pregato di dividere almeno un po’ del suo tempo con Morgan.

Lui l’aveva accontentata, consapevole di quanto la moglie avesse ragione riguardo al figlio.

Aveva effettivamente passato molto, troppo tempo nello studio, o in giro per Lincoln City, in cerca di notizie sulla piccola bambina misteriosa.

Questo aveva finito con il mettere in secondo piano suo figlio che, ormai di rado, parlava con lui.

Così, prima di partire per i boschi per la sua ennesima ricerca sul campo, aveva proposto a Morgan di seguirlo, il quale aveva mugugnato sentite proteste.

Solo dopo diversi mesi di gite infruttuose e musi lunghi, il piccolo Morgan si era finalmente liberato dall’astio accumulato negli anni nei confronti del padre.

Pian piano, anno dopo anno, quelle loro gite per le abetaie di Lincoln City erano divenute più un passatempo che una ricerca di indizi.

Anche se segretamente Oliver era dispiaciuto di non aver ancora trovato nulla, era felice che Morgan si fosse riavvicinato a lui.

Non era ancora riuscito a trovare nulla, ma il suo fiuto lo aveva aiutato una volta e, ben presto, lo avrebbe aiutato di nuovo.

Minacce o meno, insuccessi o meno, lui l’avrebbe avuta vinta, quella volta.

 
***

 
Chiudendosi la porta alle spalle nel rientrare dalla sua passeggiata infruttuosa nel parco cittadino, dove aveva incontrato Aileen Joy, Oliver salutò con un sorriso la moglie.

“Come mai quella faccia stanca? Camminato troppo? Hai solo quarantasei anni, mio caro, ma sembri averne ottanta!” esclamò la donna, sorridendogli da dietro il tavolo della cucina.

“Che carina, che sei” sogghignò per un momento lui, appendendo la leggera giacca di cotone scuro all’appendiabiti prima di infilarsi in cucina per ammirare la moglie.

Sua coetanea, e vecchia compagna di università ai tempi della Cambridge University of England, Consuelo aveva mantenuto negli anni il suo aspetto fresco e giovanile.

Le sue meravigliose forme sinuose, su un corpo piccolo e tonico, e le lunghe ciocche di capelli ondulati, la rendevano ai suoi occhi ancora la donna più bella del mondo.

Di origine ispanica, Consuelo aveva la pelle ambrata e profondi occhi neri, contornati da lunghe ciglia scure che, in quel momento, sbatterono maliziose.

La sua suadente voce mormorò: “Quando mi guardi così, sento di avere vent’anni, sai?”

Ridacchiando – lei era sempre riuscita a strappargli un sorriso, anche nei momenti peggiori – Oliver le carezzò la lunga chioma scura dai riflessi amaranto e replicò: “Sei tu che sei sempre bellissima. Come si fa a non guardarti a questo modo?”

“Grazie” cinguettò lei, prima di tornare seria, dargli un colpetto al petto con il mestolo pulito e aggiungere: “Problemi?”

“Niente che non possa risolvere” brontolò Oliver, allontanandosi da lei per raggiungere il frigorifero, da cui estrasse una bottiglietta di Budwaiser.

Sollevando un nero sopracciglio con aria vagamente contrariata, Consuelo mormorò sommessamente: “Perché non rinunci e ti lasci tutto alle spalle? Quel che pensa la gente è davvero così importante?”

“Per me, sì” sussurrò Oliver, sorseggiando la buona birra fresca.

Un attimo dopo, sobbalzò.

Dal reparto notte della loro villetta in Northeast 14th Street, giunse un boato fatto di piatti, batteria e chitarre elettriche a tutto volume.

Con un sorriso comprensivo, Consuelo scrollò le spalle limitandosi a dire: “Metallica.”

“Ho notato” sbatté le palpebre Oliver, leggermente sgomento.

Di sicuro, lui prediligeva Bach e Beethoven.

Sollevandosi dallo sgabello su cui si era accomodato per bersi una birra, l’uomo si avviò in direzione del corridoio che conduceva alle camere.

Senza degnare neppure di uno sguardo le lauree sue e di Consuelo appese ai muri, incorniciate a dovere perché risaltassero sulla parete di legno, bussò un paio di volte alla porta del figlio.

“Morgan, posso entrare?!”

“Sì!” esclamò il giovane con la sua voce profonda.

Non appena Oliver aprì la porta, le onde sonore provenienti dallo stereo gli piombarono addosso come una carica di cavalleria, malmenandogli lo sterno e le orecchie.

In tutta fretta, l’uomo cercò la manopola del volume per riportare a più miti consigli quella specie di esplosione atomica sotto forma di musica.

Quando il volume fu a un livello più congeniale, Oliver si volse per osservare la figura del figlio.

Chino sul suo cavalletto e intento a dipingere una scena silvestre, Morgan si volse a mezzo per sogghignare al suo indirizzo e, pennello in bocca, celiò: “Froppo alfa?”

“Un po’...” ammise Oliver, avvicinandosi a lui per osservarne l’opera.

Da ormai un paio d’anni, Morgan si era messo a dipingere tutto ciò che gli appagava l’occhio.

Con sommo stupore sia suo che di Consuelo, si era dimostrato davvero un talento inaspettato.

Simile in tutto allo zio materno, Eduardo, Morgan era già più alto del padre e conservava tutte le caratteristiche somatiche della famiglia di sua moglie.

Scuro di capelli e con occhi intensi e neri come ali di corvo, aveva la pelle di un bell’ambra brunito e labbra carnose e dall’aria perennemente ribelle.

Esse rispecchiavano più di ogni altra cosa il suo carattere scapestrato, e spesso in netto contrasto con quello del padre.

Al pari di Eduardo, anche Morgan aveva il pallino per gli sport e, a sedici anni, il ragazzo era già un asso nella sua squadra di football e un eccellente nuotatore.

Questo gli aveva conferito un fisico slanciato e muscoloso che, con pacato divertimento dei genitori, aveva già causato parecchi cuori infranti, di cui peraltro Morgan non sembrava per nulla dispiaciuto.

Sapeva di piacere per il suo fascino latino, mescolato a una garbata intelligenza e al tocco bohemièn provocato dalla sua passione per la pittura.

E, di certo, non si faceva scrupoli a usarlo.

Consuelo era già giunta alla decisione che, se avesse continuato a comportarsi in maniera così disinvolta con il pubblico femminile, lo avrebbe imbottito di bromuro.

Oliver, tra una risatina e una spallucciata, le aveva replicato che, a sedici anni, era abbastanza normale comportarsi così.

Al suo sguardo accigliato, però, le aveva promesso che se, per i suoi vent’anni, non avesse messo la testa a posto, l’avrebbe mandato all’accademia militare per fargli mettere la testa a posto.

Vederlo così impegnato nel tracciare le linee guida di un tronco d’albero, lo sguardo serio e leggermente accigliato, mentre il pennello dalla punta tonda scivolava sulla tela di cotone, portò Oliver a dire: “Perché non sei così anche con le ragazze?”

Ridacchiando, Morgan si raddrizzò e infilò il pennello nel bicchiere pieno di trementina, prima di fissare ironico il padre.

“Cos’ho combinato, stavolta? Non ho mollato nessuna, ultimamente.”

Mentre le canzoni dei Metallica si susseguivano in sottofondo, passando di volta in volta da brani frenetici ad altri più melodici, Oliver scosse il capo divertito.

“No, infatti. Ma mi chiedevo il perché di una mutazione simile.”

Indicando il quadro incompleto con aria a metà tra il serio e il divertito, Morgan chiosò: “L’arte è una donna con cui non si può fare gli sciocchi.”

Ghignando, Oliver replicò: “Quindi, pensi che con tua madre ci si possa comportare con superficialità?”

Sgranando gli occhi con espressione inorridita, Morgan scosse con veemenza il capo ed esclamò: “Le mamme sono esenti! Totalmente!”

Scoppiando a ridere, Oliver gli diede una pacca sulla spalla, davvero divertito dalla logica contorta del figlio, prima di chiedergli: “Domenica prossima vado in giro per boschi. Vuoi venire? Puoi anche tirarti dietro la roba per la pittura.”

“Ancora alla ricerca del tuo Santo Graal, papà?” commentò scettico Morgan, tornando a mettersi al lavoro. “Ma non sei stanco?”

“Quando sei convinto di essere nel giusto, non ci si stanca mai” sentenziò Oliver, con una spallucciata.

“Non mi sembra che la ragazzina in questione sia diventata un mostro con le corna e la coda, o robe simili” precisò Morgan, dando un colpo di pennello con abile maestria.

“Non ti sei mai neanche degnato di guardarla una sola volta, figliolo, quindi come puoi dire come sia o come non sia?” ribatté sagace Oliver, abbozzando un mezzo sorriso.

Sollevando un sopracciglio con aria maliziosa, Morgan lo fissò di straforo, celiando provocante: “Vuoi che la affascini al punto tale che mi racconti tutto di sé?”

Cercando di non ridere per mantenere un certo contegno di fronte al figlio, nonostante la sua proposta lo divertisse parecchio, Oliver si limitò a dire: “No, non ti permetterei mai di rischiare.”

“In che senso? Cosa pensi che sia, scusa?” chiese a quel punto Morgan, perdendo del tutto la voglia di scherzare per fissare con estrema curiosità il padre.

Notando quanto il figlio fosse sinceramente interessato a saperlo, Oliver intrecciò le braccia sul petto e asserì: “C’è una sola creatura, nella mitologia classica, che si costruisce un nido con rami di mirto. Ora, non avendo sotto mano il fantomatico nido, e non potendone controllare la struttura, posso solo fare delle ipotesi ma, con quest’unico elemento a mia disposizione, posso solo immaginare che si tratti di una Fenice. Inoltre, la ragazza ha dei tratti somatici troppo perfetti perché sia del tutto umana, e un’intelligenza così raffinata che ha poco a che vedere con una giovane di soli quattordici anni. Oh, certo, lei la tiene bene a freno, ma nei suoi occhi la si legge a chiare lettere.”

Sbattendo freneticamente le palpebre di fronte alle parole del padre, Morgan lo fissò scettico, replicando: “E tu basi tutte le tue ricerche su delle prove così misere? Non può semplicemente essere un genio come Einstein o Newton? O una bellezza divina come Cindy Crawford o Linda Evangelista?”

“Te l’ho detto, se la incontrassi, sono sicuro che ti renderesti conto anche tu che in lei c’è qualcosa che esula da questo mondo” insistette Oliver, accalorandosi.

“Non sono una parabola satellitare, papà,… non capto segnali dallo spazio” precisò ironicamente Morgan, sorridendogli impertinente.

Sbuffando esasperato, Oliver scrollò una mano come per lasciar perdere e borbottò: “Che te ne parlo a fare?”

“Perché te l’ho chiesto?” buttò lì, Morgan, dandogli una pacca sulla spalla. “Se proprio ci tieni a perdere il tuo tempo fai pure, papà, ma dai retta alla mamma e non esagerare, perché le tue attenzioni nei confronti della ragazzina potrebbero essere scambiate per qualcosa di molto meno nobile di una ricerca scientifica.”

“Non mi caccerò nei guai, promesso” annuì Oliver, prima di sentire il campanello di casa e chiedere: “Devi uscire?”

“No. Deve essere Missy  Perkins. Doveva venire a vedere i miei quadri” gli spiegò Morgan, sorridendo soddisfatto.

“I tuoi quadri…” commentò scettico il padre.

“E’ la presidentessa del Club di Pittura della scuola, papà. Non è tra le mie prede, credimi, ma è brava e volevo che desse un’occhiata ai miei lavori” spiegò con tono pacato Morgan, insensibile alle occhiate divertite del padre.

Un attimo dopo, infatti, la madre disse a mezza voce: “Morgan, è per te. Una signorina di nome Missy ti cerca.”

“Ciao” disse sbrigativo Morgan, trotterellando fuori dalla stanca e fischiettando allegro.

Oliver ne uscì a sua volta, diretto verso il suo studio e, chiusosi all’interno, andò ad accomodarsi sulla sua poltrona di pelle prima di accendere il computer.

Quando il programma si fu avviato, diede un’occhiata alla carta topografica della zona circostante Lincoln City.

Oliver la aggiornò con la zona che avrebbe coperto di lì a qualche giorno.

Fatto ciò, aprì il file riguardante la sua ricerca su Aileen Joy e, con occhio attento, scrutò le centinaia di fotografie che la riguardavano.

Per l’ennesima volta, si chiese come la gente non riuscisse a scorgere, in lei, ciò che per lui era così lampante.

Sì, agli occhi di tutti poteva apparire come una candida creatura, ma lui non riusciva a fidarsi di quegli occhi dalla sapienza millenaria, che scrutavano le persone come se potesse leggervi dentro senza alcun problema.

E quell’ombra dietro di lei. Possibile che nessuno la vedesse?




 
*************************

In questo capitolo ho voluto prendermi cura di Oliver, perché fosse ben chiaro che persona è. Non è malvagio in senso stretto, è solo ossessionato dal mistero che circonda Joy e, più avanti, scopriremo perché lui riesce a scorgere altro, in lei, mentre agli altri è negato.
Nel prossimo capitolo, comunque, torneranno Joy e Alex, non temete.
Un'ultima precisazione: Morgan parla di Cindy Crawford e Linda Evangelista perché la storia si sviluppa negli anni 90.

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Capitolo 7
*** cap. 7 ***


7.
 
 

 

Il Ballo di Fine Anno. La consegna dei diplomi. L’inizio di un nuovo corso, di una nuova vita.

Beh, anche questa era un’esperienza nuova.


Come quella di imparare l’arte sopraffina della truffa.

Nella mia precedente vita, grazie a professionisti compiacenti, avevo contraffatto centinaia di documenti, diplomi, benemerenze e tutto ciò che avrebbe potuto servirmi per portare avanti i miei scopi.

Certo, mi ero sentita una ladra, a dover usufruire di simili stratagemmi per poter interagire con il mondo che mi circondava.

Purtroppo, da quando erano stati inventati i documenti di identità, era divenuto difficile, per me, muovermi come avevo fatto in precedenza, nel corso dei millenni.

Usare un nome, piuttosto che un altro, non mi era più stato possibile come in passato.

Gioco forza, mi ero alleata a personaggi davvero poco raccomandabili ma che, alla fine, nel loro modo contorto e al di fuori della legge, mi avevano aiutata a portare del bene nel mondo.

Come una Fenice deve sempre fare.

Alla fine di giugno, con gli esami finali ormai terminati e la cerimonia di consegna dei diplomi, si sarebbe inserito anche questo fantomatico ballo studentesco.

Mi ero sempre rifiutata di andare a quelli che, negli anni precedenti, avevano organizzato, di volta in volta, in un albergo diverso di Lincoln City.

Quest’ultimo, però, preparato in pompa magna nella palestra della scuola - l’anno precedente, due ragazzi avevano demolito la hall dell’albergo - non me lo sarei perso.

Il motivo, unico e importantissimo, era la presenza di Alex.

Si era offerto di accompagnarmi lui stesso alla festa, restio a permettermi di accettare un qualsiasi invito, come alla sottoscritta di proporne.

Sapevo senza ombra di dubbio che la sua gelosia nei miei confronti, cresciuta nel corso degli anni come la nostra età, era puramente fraterna.

Non rischiavo perciò nulla, ad accettare le sue attenzioni.

Ero stata molto attenta, durante la mia maturazione e mutazione da ragazzina in donna, a non causare alcun tipo di danno emotivo in nessuno dei miei cugini.

Tutto avrei sopportato, ma non l’idea di fare loro del male.

Se anche uno solo di loro si fosse innamorato di me, avrei dovuto fuggire via per impedire loro di soffrire, poiché non mi era concesso di amare una sola persona.

Certo, volevo un mondo di bene alla mia famiglia, ma non era quel tipo di amore, da cui dovevo fuggire.

Mio malgrado, avevo imparato a mie spese come gestire quel tipo di sentimento.

Dovevo prestare attenzione a essere sempre vigile, in modo tale che il mio affetto per loro non mi rendesse cieca al mondo, ma sapevo di esserne in grado.

L’amore con la A maiuscola, quello che avevo provato a suo tempo per Rah, quello dovevo evitarlo come la peste bubbonica.

Perché era vietato, era una cosa che non potevo neanche pensare di avere.

Rah si era salvato – esattamente come me – perché dio, ma un umano… no, non volevo neanche prendere in considerazione un simile pensiero.

Nel mio DNA scorreva questo mantra imperituro, e non potevo certo metterlo a tacere.

Non si poteva; punto.

 
***

 
Scorrendo una mano sulla sericea superficie dorata dell’abito che avrebbe indossato quella sera, Joy sorrise, ripensando a un altro momento, a un altro luogo, a un altro tempo.

Le placide acque del Nilo scorrevano lente, mentre piccole barche da pesca si intervallavano a più imponenti chiatte che trasportavano le merci tra il Basso e l’Alto Egitto.

Il sole morente, a ovest, illuminava la sabbia all’orizzonte, tingendola d’oro.

Nel palazzo reale di Eliopolis, sdraiata su un basso divanetto in contemplazione di un balletto, Fenice sorseggiava del buon vino rosso in compagnia di Rah.

Lui, accomodato sul pavimento e con la testa ripiegata all’indietro, lasciava che lei lo imboccasse con piccoli acini d’uva.

Si sorridevano felici, scambiandosi coccole e dolci parole, mentre l’astro della sera e della mattina reclinava debolmente fino a scomparire dietro le dune arrotondate.

Chiudendo gli occhi all’ultimo bargiglio di sole sulla linea dell’orizzonte, Rah si levava da terra, la baciava con candore sulla fronte e svaniva.

Come ogni notte, la lasciava con un bacio e un sussurro sulle labbra: “Non mi dimenticare, in nessun momento.”

E lei non l’aveva mai dimenticato, anche se gli umani lo avevano fatto, costringendolo così a perdere la sua essenza fisica e rifugiarsi lontano, nel mondo degli spiriti.

In quella immensa distesa di Nulla, ove il suo corpo non aveva sostanza e il suo animo poteva vivere per sempre, egli era impossibilitato a toccarla.

Come lei, lui.

Era stata l’unica creatura con cui si fosse arrischiata ad aprire il suo cuore, poiché abbastanza potente da reggere il suo potere sconfinato.

Anche lui, però, era ormai lontano, perduto per l’eternità.

Non aveva più udito la sua voce, forse perché a sua volta non lo aveva mai cercato, troppo affranta all’idea di non poterlo più abbracciare e stringere a sé.

“Joy, tutto bene?” chiese all’improvviso Mel, appoggiata alla porta aperta della sua stanza.

Sobbalzando sul letto, e ritirando la mano dal prezioso tessuto di raso con cui era stato creato quell’abito, Joy si impose di sorridere.

“Sto benissimo, stato solo perdendomi in mille pensieri.”

“Lo fai, a volte” sorrise a sua volta la madre, entrando e consegnandole una scatoletta di velluto nero, che Joy fissò confusa per alcuni secondi prima di aprirla.

Al suo interno, immerso in bianco raso iridescente, si trovava un bellissimo collier in filigrana dorata da cui pendeva, solitaria, una singola perla nera.

Accanto a esso, due piccoli pendenti richiamavo il disegno del girocollo, a cui erano state incastonati altre due piccole perline color fumo.

Sfiorando il tutto con gli occhi, prima di avvicinare con reverenziale timore un dito dall’unghia laccata di nero, Joy esalò sorpresa: “Ma… è il regalo che ti fece papà un paio di anni fa.”

“Vorrei li indossassi stasera. Starà benissimo, con quell’abito” le spiegò Mel, orgogliosa.

Sgranando gli occhi, Joy esclamò: “Ma no! E’ troppo! Non potrei mai!”

Scuotendo il capo, Melinda replicò bonariamente: “Sono più che sicura che non lo perderai. Fammi contenta, tesoro.”

“Sei tu a rendere felice me, mamma” sorrise Joy, levandosi dal letto per abbracciarla con calore. “Grazie, lo porterò con orgoglio.”

Carezzandole la folta e lunga chioma ramata, che ormai le scendeva fino alla vita, Mel le sussurrò: “Sei stata una benedizione, per tutti noi. Ci hai resi così felici che, niente di ciò che potremo mai darti, sarà abbastanza.”

“Mi avete già dato troppo. Sono io che ho avuto più di quanto meritassi” precisò Joy, prima di venire scostata con una certa veemenza dalla madre.

Fissandola con fiero cipiglio, Mel ribatté con un tono secco: “Non pensarlo mai. Mai!”

Se solo sapessi!, pensò tra sé Joy, prima di annuire alla donna.

Calmandosi immediatamente, Melinda lanciò uno sguardo all’abito steso sul letto e, strofinandosi le mani, ridacchiò e disse: “Bene, mettiamoci al lavoro. Quando tuo cugino arriverà qui, neppure ti riconoscerà.”

Ridendo dell’euforia della madre, Joy iniziò a togliersi la tuta che indossava e Mel, fissandole la vita sottile, le sfiorò un neo in corrispondenza del fianco.

Con un mezzo sorriso, chiosò: “E’ davvero una voglia singolare, la tua. Un cerchio dentro a un altro.”

Sfiorandola con un dito, Joy sorrise e disse sommessamente: “E’ il mio marchio di fabbrica.”

“Di sicuro, non ce l’hanno in molti” convenne Mel, appendendo la gruccia dell’abito al mobile dei vestiti.

“Nessuno” sussurrò tra sé Joy, ripensando al momento in cui Rah aveva posto le sue labbra in quel punto per marchiarla, il giorno in cui ella dovette andarsene per morire.

“Così sarò sempre con te, in ogni tua incarnazione.”

Così le aveva detto, e così era stato.

Il Disco Solare l’aveva seguita in tutte le sue vite, e così avrebbe fatto fino alla fine dei tempi, unico simbolo rimastole dell’amore che avevano condiviso.

Infilato il completo di intimo, mentre la madre provvedeva a estrarre dalla scatola un paio di Manolo Blahnick dal tacco vertiginoso, Joy sorrise nel vederle e disse: “Le adoro.”

“Dovrai fare equilibrismo, con queste” ridacchiò la madre, consegnandogliele dopo aver passato un dito sul lungo stiletto delle scarpe.

“Valgono un po’ di rischio” si sentì in dovere di dire Joy, ammirandole affascinata prima di guardare l’abito e chiedere: “Prima, trucco e parrucco, o abito?”

“Trucco e parrucco” sentenziò Mel, prendendo la piastra per arricciarle i capelli.

In men che non si dica, sulla scrivania di Joy comparve tutto l’armamentario di un salone di bellezza.

Con la madre le arricciava le ciocche formando bei boccoli spumeggianti, lei pensò a sistemare ombretto e rossetto, di un bel color rosa corallo.

Dopo essersi passata matita scura e rimmel, controllò l’effetto d’insieme allo specchio, annuendo di fronte al risultato ottenuto.

Quando anche la madre ebbe terminato di arricciare i capelli, e appuntarne diverse ciocche sulla nuca, Joy poté dirsi pienamente soddisfatta.

L’incarnato risplendeva sotto la luce dei neon della stanza e i suoi occhi smeraldini, messi in evidenza dal trucco, facevano da contraltare alle labbra, rosse e maliziose.

Alcune ciocche di capelli ramati, lasciate volutamente libere, le ricadevano lungo il viso, poggiandosi leggere sulle spalle nude.

Il resto dei boccoli, invece, scivolava come una nuvola di fuoco sul collo e la schiena.

Levatasi in piedi in un fruscio di raso dorato, Joy si ammirò nell’alto specchio a muro, sorridendo nell’ammirare le linee perfette del tubino lungo fino ai piedi.

Mel, affiancandola allo specchio, sospirò e disse: “Non ci somigliamo affatto, ora come ora.”

Sorridendo benevola alla madre, che non era mai stata magra ma che, ai suoi occhi, era la donna più bella del mondo, Joy replicò: “Siamo di costituzioni diverse, tutto qui.”

“Mangi come un uccellino, mentre io no” precisò la madre, prima di ridere assieme alla figlia.

Avvolgendole la vita con un esile braccio, e da cui pendevano una decina di sottili braccialetti in oro, la ragazza sussurrò: “Non ti cambierei con nessuna mamma, di questo o di un altro pianeta.”

“E’ reciproco” replicò sommessamente Mel, prima di sobbalzare al pari della figlia quando udirono suonare il campanello.

Guardando un momento fuori dalla finestra, dove il cielo era ormai color Blu di Prussia, Joy disse sorpresa: “Non mi ero accorta che fosse passato così tanto tempo!”

Dei passi frettolosi raggiunsero l’entrata e, un attimo dopo, la voce di Richard si unì a quella di Alex mentre Joy, sorridendo furba, sussurrò complice alla madre: “Che dici? Mi rispedirà in camera a cambiarmi?”

“Potrebbe farlo” convenne Mel, prima di drappeggiarle sulle spalle un impalpabile stola di chiffon di seta dorata.

Dal corridoio giunse la voce del padre che, allegramente, esclamò: “Ehi, tesoro, il tuo cavaliere è arrivato!”

Richard si era dichiarato particolarmente lieto del fatto che Alex avesse deciso di accompagnare la figlia al ballo.

Primo, perché non avrebbe sopportato che Joy non festeggiasse quell’evento.

Secondo, perché non si sarebbe fidato di nessun altro maschio, a parte i suoi nipoti e, visto che Brian e Stephen erano impegnati al college…

“Arrivo” replicò Joy, cercando di non ridere.

Mettendosi di proposito dietro la madre, iniziò a percorrere il corridoio stando in perfetto equilibrio sui tacchi da dieci centimetri che portava ai piedi.

Quando finalmente giunse in prossimità dell’entrata della casa, dove la stavano aspettando il padre e il cugino, si scostò per ammirarli e farsi ammirare.

Sorrise spontaneamente, quando vide Alex in un perfetto gessato grigio ghiaccio e camicia di raso nera e traslucida.

Nel rendersi conto degli sguardi sconvolti dei due uomini di fronte a sé, faticò però non poco a non ridere loro in faccia.

Di certo, Alex tutto si sarebbe aspettato tranne quella dea in carne e ossa che, in un fruscio di raso, era sbucata da dietro le spalle della zia.

Aveva sempre saputo quanto fosse bella la cugina.

Quella sera, avvolta da quell’impalpabile nuvola di raso dorato, quella consapevolezza gli cadde addosso con la stessa leggerezza di un Boeing 747 in fase di atterraggio.

Ammirarla in tutto il suo splendore etereo e fatato gli fece quasi male agli occhi e, deglutendo a fatica per trovare la forza di aprire bocca, riuscì a stento a dire: “Sei… bellissima.”

Richard che, come il nipote, non era riuscito a staccare gli occhi dalla figlia fino a quel momento, si scosse il tempo necessario per fissare accigliato la moglie e brontolare: “Ma non è troppo?”

“Oh, per l’amor del cielo!” sbottò Mel, sulla difensiva. “E’ il suo ultimo ballo di fine anno! Non vorrai mandarcela con un sacco di juta in testa?!”

“No, ma… qualcosa di meno appariscente?” tentennò Richard, passando con lo sguardo dalla figlia alla moglie con aria supplichevole.

“Niente da fare” scosse il capo Joy, avvicinandosi ad Alex con un sorriso stampato sul volto. “Ho deciso questo, e questo sarà.”

“Dovrò ammazzare metà dei ragazzi presenti” bofonchiò Alex, prima di sorriderle gentilmente e sollevarle il braccio libero dai braccialetti per metterle l’orchidea al polso. “Non è bella neppure la metà di te. Stona.”

Sfiorandola delicatamente con un dito, Joy scosse il capo e replicò: “Non è vero, è bellissima. Grazie, Alex.”

“Per te, questo e altro” ammiccò lui, prendendola sottobraccio prima di guardare lo zio, ancora accigliato, e chiosare: “Una foto?”

“Subito!” esclamò Mel, afferrando da un comò la macchina fotografica.

Intrecciando le braccia contrariato mentre la moglie, del tutto indifferente al suo cipiglio, scattava foto alla bella coppia in posa, Richard bofonchiò infastidito: “Se non me la riporti a casa tutta intera, ti spenno vivo, Alex.”

Ridacchiando del suo fiero cipiglio, Alex avvolse protettivo le spalle della cugina e dichiarò: “Non preoccuparti, zio. Le starò incollato come le mosche al miele.”

“Beh, non così incollato, spero!” sbottò Richard, facendo ridere i due giovani e la moglie.

Sciogliendosi dall’abbraccio di Alex, Joy lo prese per mano e celiò: “Coraggio, andiamo, prima che mio padre decida di rinchiudermi in camera.”

“Sarà meglio” annuì Alex, aprendo la porta d’entrata per farla uscire. “A domani!”

“A stanotte!” precisò Richard, subito azzittito dalla mano della moglie premuta sulla bocca.

Stava ancora ridacchiando quando, di colpo, il silenzio della via venne spezzato dal suono di alcune sirene dei pompieri.

Bloccandosi a metà di un passo, Joy fissò preoccupata la jeep dei vigili del fuoco passare a tutta velocità, i lampeggianti rossi che lanciavano sinistre gocce di luce rosso sangue tutt’attorno.

Gli occhi incatenati al conducente dell’automezzo, Joy incrociò per un istante profonde iridi di pece prima di veder scivolare via nella notte la jeep.

A lei, seguirono subito una autopompa spinta alla più alta velocità possibile, e un autocarro carico di pompieri.

“Deve essere successo qualcosa di grosso. Filavano come schegge” commentò Alex, affiancandola per aprire la portiera della sua Mustang convertibile rosso fiammante del ’95.

Riscuotendosi dal lieve torpore in cui era caduta nel veder scorrere davanti a lei i vigili del fuoco, Joy annuì e disse: “Già… erano davvero di fretta.”

“Tutto bene? Mi sembri un po’ scossa” le chiese Alex, protettivo.

“Sì, tutto okay” cercò di sorridere lei, pur riuscendovi davvero male.

Sfiorandole delicatamente una guancia con il dorso della mano, Alex le sorrise comprensivo, mormorando sommessamente: “Non devi preoccuparti. Sono degli assi, nel loro lavoro, e sono sicuro che salveranno chi stanno andando ad aiutare.”

Aprendosi in un sorriso divertito, Joy salì in auto dopo un attimo e gli chiese: “Come sapevi che ero in ansia per loro?”

“Perché sei sempre stata così, Leen” dichiarò il cugino, mettendosi al posto di guida. “Hai sempre voluto salvare uccellini e animaletti di bosco, e piangevi disperata tutte le volte che succedeva qualcosa di brutto, anche se non c’entrava niente con te.”

Sorridendo generosamente al cugino, Joy asserì: “Pensi sia sciocco?”

Il rombo dell’auto fece vibrare il veicolo e, dentro di sé, Joy fremette. Amava la velocità e la potenza, e quell’auto era splendida.

“No, affatto. Mi piace l’idea di te che salvi il mondo” ammiccò lui, avviandosi lungo la via con il motore al minimo. “Ti ci vedo, sai?”

Ridacchiando, Joy gli batté una mano con fare divertito e celiò: “Del tipo, con una spada in mano in stile Giovanna d’Arco?”

Tornando serio, Alex svoltò in direzione della Oregon Coast Highway e sussurrò: “Per nulla. Non ti vedo affatto armata. Non potresti torcere un capello a nessuno, tu. Piuttosto, le tue armi sarebbero la parola e l’amore.”

Sgranando leggermente gli occhi, Joy si ritrovò a desiderare ardentemente di poter dire tutto ad Alex, di aprire il suo cuore a quel giovane così sensibile e che tanto l’aveva a cuore.

Solo lui si era dimostrato capace di leggerla come un libro aperto, e Joy soffriva ogni giorno ripensando a tutte le menzogne che, nel corso degli anni, si erano accumulate tra loro.

Voleva essere onesta almeno con lui, perché ne era degno, meritava solo onestà, da parte sua.

Ma non aveva il coraggio di farlo, le sembrava troppo rischioso. Per entrambi.

Mantenere un segreto come il suo, non era cosa da poco.

Inoltre, non era del tutto certa che Alex, nonostante l’affetto che provava per lei, sarebbe stato disposto ad accettare quella parte del suo essere Joy.

Mordendosi un labbro per il nervosismo, le mani che stringevano convulsamente lo chiffon di seta che le scivolava dalle spalle, la ragazza si chiese che fare.

Soprattutto, si domandò se dovesse compiere quel passo che, per tanto tempo, non aveva più compiuto con nessuno.

Quando infine raggiunsero la palestra della scuola, dove luci multicolori erano state affisse sul prato antistante, Joy lasciò che Alex le aprisse la portiera e le offrisse il braccio.

Sentori di musica e risate si allargavano nell’aere tiepido, fino a sfiorare il parcheggio dove si trovavano in quel momento.

Sorridendo eccitata ad Alex, esalò: “Aiutami a non svenire.”

Ridacchiando, Alex si incamminò verso i larghi portoni della palestra lasciati aperti per facilitare l’entrata degli ospiti e, con un gran sorriso, chiosò: “Ti sei divertita troppo poco, in questi anni, e questo è il risultato. Non sai come si fa.”

“Forse” ammise lei, prima di lanciare uno strillo eccitato quando vide le sue migliori amiche giungere con un’enorme limo nera come la notte.

Fermatasi per aspettarle, mentre Alex sospirava scocciato, Joy le salutò con delicati gesti di una mano.

Aileen, la prima a raggiungerla nel vialetto d’ingresso, la guardò estasiata prima di esclamare: “Oddio, non oso nemmeno abbracciarti per paura di sgualcirti. Sei splendida, tesoro!”

Poco dietro di lei, assieme ai tre cavalieri che, per quella sera, le avrebbero accompagnate, giunsero anche Kelly e Margot, tutte eccitate e ridacchianti nei loro abiti di seta scura.

“Vogliamo entrare, signore?” disse a quel punto Alex, riportando all’ordine il chiacchiericcio delle ragazze.

Sogghignando, Joy annuì e riafferrò il suo braccio prima di dire: “Sì, andiamo. Non vedo l’ora di ballare con te.”

“Dovrò spianare i mitra, prima” precisò Alex, fulminando con lo sguardo i ragazzi che, alla spicciolata, stavano entrando nella palestra e che, con occhi sgranati, stavano osservando Joy.

 
***

 
Ho sempre trovato la gelosia di Alex molto divertente e, con lui, ci siamo fatti tante grasse risate, nel corso degli anni, in merito a questa sua ossessione.

Quella sera, non sembrava essere diversa dalle altre e, in fondo, lo capivo, visto come mi stavo comportando.

La modalità ‘ragazzina in fibrillazione’ lo metteva sempre in ansia.

Purtroppo, a causa degli ormoni in subbuglio tipici dell’età adolescenziale, anche per una creatura dotata di immani poteri come me, è difficile controllarsi.

Il risultato eranourletti di cui avrei fatto volentieri a meno, risatine sciocche e rossori inutili rivolti a persone ancor più inutili.

Ebbene sì, non ero riuscita a restare del tutto indifferente all’altrui sesso – come capitava sempre, durante ogni mio periodo adolescenziale.

Il mio primo pianto, per una cotta non corrisposta, lo avevo fatto pure io.

Se non altro, era durata poco.

Sembra assurdo, ma contro gli ormoni ho poche difese, in questo mio periodo di crescita.

Infatti, ogni volta, spero sempre di passare indenne questo periodo, perché preferisco assai di più la maturità.

Il pieno controllo dei miei sentimenti e del mio cervello è preferibile, rispetto a questo dove le emozioni sono più forti e dirompenti. E incontrollate.

Facendomi perciò forza, e sperando di non imbarazzare Alex – o me stessa –, entrai infine all’interno della palestra.

Con il gelo nel cuore, però, fissai i miei occhi su un volto che, almeno per quella sera, non avrei voluto scorgere ma che, come un incubo a occhi aperti, mi inseguiva senza sosta.


 

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Capitolo 8
*** cap. 8 ***


 
8.
 
 


Sapevo che non mi avrebbe lasciato in pace neppure in quella serata così speciale, sapevo che l’avrei avuto alle calcagna anche quella volta.

Perché, dunque, stupirsene?

Perché impallidire come un cencio e spaventare Alex?

Perché ero ancora un’adolescente dai nervi a fior di pelle, con gli ormoni sbilanciati e lo stesso autocontrollo di un bambino di sei mesi!

Dèi, quanto avrei pagato per saltare a piè pari quel periodo!

Ma visto che non potevo…


 
                                                                                                                                                                      ***


Facendo buon viso a cattivo gioco,  Joy  sospirò impercettibilmente per riprendere una parvenza di calma.

Stretto il braccio attorno a quello  di  Alex,  che la sorreggeva  protettivo,  sorrise  al  cugino dicendo: “Tutto a posto, Alex, entriamo pure.”

Sollevando scettico un sopracciglio, Alex la accompagnò all’interno della palestra.

Le porte erano state spalancate, così da permettere un più agevole passaggio degli invitati al party.

Non appena oltrepassò il primo cordone di sicurezza grazie ai loro biglietti prepagati, Alex però comprese al volo cosa avesse tanto turbato la cugina.

Sulla porta d’entrata, ritto come un fuso ed elegantemente vestito con uno smoking, il professor Thomson controllava uno a uno tutti i gli studenti entranti.

Quando scorse Joy, sorrise spontaneamente prima di tornare completamente serio e obliterare i loro due biglietti d’ingresso.

Dopo un brevissimo ‘buona serata’ sussurrato a mezza bocca, Thomson li lasciò passare.

Alex, chinandosi immediatamente verso Joy, le sussurrò all’orecchio: “Ti ha dato ancora fastidio?”

Joy si limitò a scuotere il capo, ma Alex non si lasciò convincere da quel diniego stentato.

Negli anni passati al college, aveva quasi fracassato le orecchie dei fratelli tramite telefono, raccomandandosi con loro perché tenessero d’occhio Joy.

I lunghissimi periodi in cui lui, suo malgrado, era stato costretto a rimanere a Yale per studiare, gli avevano impedito di prendersi cura personalmente della cugina.

Non aveva mai compreso, non completamente, almeno, la strana ossessione del professor Thomson nei confronti di Joy.

Certo, i genitori gli avevano accennato ai suoi trascorsi universitari, ma questo non bastava a giusticare il suo comportamento ossessivo.

Sapeva che sia suo padre che suo zio avevano parlato a quattr’occhi al professore e, da quel poco che aveva scoperto, Thomson si era tenuto ben a distanza da Joy.

Ma questo non significava che la cugina si sentisse a suo agio, in sua presenza.

Vedeva bene quanto, questo morboso interesse nei confronti delle radici sconosciute della cugina, mettesse in imbarazzo Joy.

La cosa bastava e avanzava, quindi, per renderlo furioso come una nidiata di vespe assassine.

Se Joy non voleva conoscere nulla del suo passato, chi era quel professore per interferire con i suoi desideri?

No, non avrebbe mai permesso che la vita della cugina fosse ulteriormente messa sotto i riflettori.

I primi anni di scuola erano stati forieri di mille e più domande, e non solo da parte degli ingenui compagni di classe.

Anche i loro genitori si erano spinti a curiosare fin troppo.

Solo il cordone di protezione offerto dalle sue amiche più care, le aveva permesso di sopravvivere a quel fuoco incrociato.

Per quanto premurosi, lui o i suoi fratelli non avevano potuto esserle sempre accanto come Margot, Kelly e Aileen e, di questo, Alex gliene sarebbe sempre stato grato.

Ora, le cose andavano un po’ meglio perché, maturando, i suoi compagni di corso avevano imparato a lasciarla stare.

Il professor Thomson, però, aveva continuato a insistere, finendo addirittura col chiedere informazioni di Joy ai migliori amici dei suoi genitori, e di quelli della cugina.

Davvero troppo, per i suoi gusti!

Certo, erano anni che non succedeva più, però…

Raggiunto che ebbero il sontuoso tavolo dei rinfreschi, Alex si affrettò a offrire un bicchiere d’acqua alla cugina che, accettatolo con un sorriso tremulo, disse: “Dovrei essere abituata a vederlo in giro, eppure…”

“Sei certa che non ti abbia più dato fastidio? Brian e Steve non mi hanno detto niente ma, se scopro che non ti hanno tenuta d’occhio come dovevano…” sbuffò Alex, accigliandosi immediatamente.

Ridacchiando del suo tono di voce così ombroso e minaccioso, Joy recuperò alla svelta il buon umore.

Battendogli una mano sul braccio tonico, dichiarò: “I tuoi fratelli sono stati anche troppo solleciti, mentre tu non c’eri e, ora che sono partiti anche loro, a tenermi d’occhio ci hanno pensato le ragazze. Davvero, sto bene. E’ stato solo un momento di cedimento, dovuto sicuramente al fatto che sono agitata per la festa.”

Lasciandosi il tempo di dare un’occhiata in giro, Alex si tranquillizzò parzialmente, asserendo: “Sembra che abbiano fatto un
bel lavoro e, per il momento, la musica è carina.”

I fari stroboscopici, i colori iridescenti di tendoni e strass, le decorazioni sparse ovunque, camuffavano ad arte l’aspetto originariamente spartano della palestra.

La musica a tutto volume, poi, sapientemente orchestrata dal miglior Dj della zona, rendeva completo l’effetto piacevole d’insieme.

Ascoltando per un istante un brano dei Queen, che aleggiava tra le pareti rimbalzando contro ogni corpo caldo della sala, Joy annuì e sorrise al cugino.

Radio Ga Ga è carina. Però, sarebbe più carina se tu mi invitassi a ballare.”

Abbozzando un sorrisino, Alex le offrì la mano, replicando: “Non volevo fare il prevaricatore.”

“Pensi davvero che avrei ballato con qualcun altro che non fossi tu?” ironizzò lei, lasciandosi accompagnare nel centro della palestra.

Assieme a loro, una trentina di altre coppie stavano già danzando, tra cui Margot e Kelly con i loro rispettivi accompagnatori.

Cercando per un momento Aileen con lo sguardo, la vide seduta a un tavolo, impegnata in una fitta quanto apparentemente divertente discussione con il suo cavaliere.

Sorridendo lieta nel vederle così allegre, Joy si mise dinanzi ad Alex per ballare.

Proprio in quel momento, le luci calarono, la musica mutò e le prime note di Everything I do di Brian Adam si estesero per tutta la palestra.

I cuori di molti accelerarono, il calore aumentò e, tutt’attorno, l’atmosfera si fece intensa, sensuale.

Grazie ai suoi sensi sviluppati, Joy ne era più che consapevole, come era consapevole del fatto che Alex, invece, non era minimamente coinvolto dal pathos del momento.

Con un mezzo sorriso, poggiò una mano sulla spalla robusta del cugino, mentre l’altra le veniva sollevata con grazia e, socchiudendo gli occhi, sussurrò: “Mi hanno risparmiato una figura pessima. Fino ai lenti ci arrivo. Oltre… non prometto nulla.”

Ridacchiando, Alex le poggiò una mano sul fianco e la attirò un po’ più vicino a sé.

“Non sei imbranata come vorresti farmi credere. Ti ho vista ballare, un pomeriggio, nel giardino, ed eri bravissima.”

“Curiosone” lo accusò bonariamente lei, mentre i loro due corpi avvinti danzavano a tempo con la musica, accanto alle altre coppie presenti in pista assieme a loro.

Scrollando le spalle senza apparire minimamente dispiaciuto, Alex le sorrise bonario.

“Solo perché ho decantato la tua bravura, non te la devi prendere. Se ti avessi detto che sei tappa, allora sì che te la saresti potuta prendere.”

Sgranando leggermente gli occhi, Joy esalò: “Oh, … ma tu guarda!”

Alex si limitò a ridacchiare, dandole un gentile pizzicotto al fianco, prima di aggiungere: “E dai! Ormai dovresti saperlo che ti voglio bene anche se sei nanerottola.”

Assottigliando le iridi smeraldine, Joy sentenziò: “Alexander Jason Barrett, stai bene attento a quel che dici, o potresti pentirtene amaramente.”

Fingendosi spaventato, Alex esalò: “Oddio, hai usato il mio nome completo. Ora devo preoccuparmi!”

Scoppiando a ridere, e poggiando il capo di riccioli ramati contro il suo torace, Joy confessò: “Oh, Alex, ti adoro, lo sai? Tu sì che sai tirarmi su di morale in ogni momento.”

“Sempre disponibile per farti sorridere” ammiccò lui, facendole fare una piroetta prima di tornare a danzare a ritmo con la musica.

Sorridendo, Joy inclinò il capo a guardarlo negli occhi grigio perla e gli domandò: “Il tuo lavoro a Salem, come procede? Ti piace lavorare in quello studio come apprendista?”

“Che vuoi mai! Uno vale l’altro, per fare gavetta. Quando potrò aprire il mio studio legale, allora, sarà un’altra faccenda” fece spalle Alex, sorridendole generosamente. “Però, è sconvolgente vedere come certa gente riesca a ficcarsi nei guai con le proprie mani, e come io posso aiutarli a venirne fuori.”

“Fai sempre del bene, o aiuti anche dei criminali?” chiese Joy, seriamente.

Rispondendo con altrettanta serietà, Alex scosse il capo e dichiarò: “Non è un caso, se ci ho messo tanto per trovare un ufficio in cui fare gavetta. Ho scelto solo un titolare che non fosse un venduto. E’ vero, lo studio dove lavoro è piccolo, ma almeno le cause che prendiamo in mano sono di gente onesta che ha solo avuto dei problemi.”

“Ne sono contenta” assentì Joy, con un gran sorriso.

“So che tieni molto a queste cose e credimi, io sono come te. E poi, con due tutori della legge come padri, cosa avremmo mai potuto fare?” ridacchiò Alex, scostandosi un poco da lei quando la musica terminò.

Avvolgendo la vita del cugino mentre si dirigevano al tavolo di Aileen, al pari di Margot e Kelly, Joy sorrise alle amiche e disse: “Beh, direi che la festa sta procedendo bene.”

Annuendo, Patrick – il cavaliere di Aileen – sorseggiò un po’ di succo di frutta prima di dichiarare divertito: “Sempre che non becchino i ragazzi che stanno girando per la sala offrendo dei goccetti di vodka. Sono passati di qui pochi secondi fa, ma noi li abbiamo rispediti al mittente.”

Sogghignando, Aileen commentò: “Quasi quasi, gli faccio la spia io!”

Tutti risero del suo fare da cospiratore mentre Patrick, dandole un buffetto sulla guancia, replicava ammiccante: “La solita attaccabrighe.”

“Niente di strano, per me” sentenziò la ragazza, prima di ammirare Joy e Alex assieme. “Non fosse che siete cugini, vi vedrei benissimo insieme, voi due.”

Alex e Joy si guardarono per alcuni secondi senza sapere bene cosa dire.

Un attimo dopo, scoppiarono in un’allegra risata, per poi dire quasi contemporaneamente: “Per l’amor di Dio, no!”

Margot, dando di gomito all’amica, replicò: “Rispondete pure alla stessa maniera… e poi, dopotutto, non siete veri…”

Fattosi subito serio, Alex incenerì con lo sguardo Margot e dichiarò glaciale: “Io e Joy siamo cugini. Punto.”

“Okay, capitano della squadra di tennis di Yale, chiedo umile perdono!” esalò Margot, sgranando gli occhi e prostrandosi dinanzi ad Alex, mentre tutti ridacchiavano del suo comportamento da pagliaccio.

Alex sbuffò e Joy, sorridendo all’amica, replicò bonaria: “E dire che dovresti sapere che caratteraccio ha, no?”

“Ho la memoria come un groviera” precisò Margot, facendo la lingua.

“Avrai anche un formaggio al posto del cervello, ma sei una favola lo stesso” sottolineò Andrew, il suo accompagnatore, prendendole una mano prima di aggiungere. “Un altro giro di ballo?”

“Eccome, bello mio!” esclamò lei, allontanandosi dal gruppo tutta contenta.

Sollevando con ironia un sopracciglio, Joy fissò le sue amiche e chiese: “Ma… stanno assieme o cosa?”

“Margot che sta assieme a un ragazzo? Naah. Neanche in un milione di anni!” esclamò Kelly, scuotendo il capo. “Quella è libera come l’aria, e Andy è uguale. Si sono trovati, tutto qui.”

“Come ci siamo trovati io e te?” ridacchiò Malcom, avvolgendo la vita della ragazza.

“Può darsi” sussurrò Kelly. “Okay, sarà meglio che andiamo a ballare, altrimenti potremmo imbarazzare i nostri amici.”

“Andiamo pure” annuì Malcom, scortandola in pista.

“E tu non balli, Aileen?” chiese a quel punto Joy, guardando l’amica ancora accomodata al tavolo.

“E spiaccicare i piedi di Patrick? No, ci tengo troppo a lui per farmi odiare” ridacchiò Aileen, strizzando l’occhio all’amico. “E poi, neanche lui è un Fred Astaire.”

Ascoltando le note di Goodnight Moon di Shivaree, Joy afferrò la mano di Alex e disse: “Beh, io ho voglia di ballare un altro po’. Vi spiace se…”

Scrollando una mano color caffelatte, Aileen disse sorniona: “Lasciaci soli, bellezza, che io e il mio cavaliere stiamo decidendo che fare del resto della nottata.”

“Oh, allora me la squaglio” esalò Joy, sorridendo divertita nel tornare in pista col cugino.

Alex, divertito dall’intraprendenza delle amiche della cugina, le chiese: “Come fai a stare in un gruppo così?”

“Sono quella che non beve mai e riaccompagna tutte a casa, per intenderci. E poi, mi piace come vivono la vita” scrollò le spalle Joy, poggiando le mani sulle spalle di Alex prima di lasciarsi dondolare al ritmo della musica in sottofondo.

“E tu, non vuoi viverla una vita tutta tua?” le chiese Alex, serio in volto come poche altre volte era stato.

Non la stava solo punzecchiando, voleva saperlo davvero.

Mordendosi il labbro inferiore, Joy reclinò il capo e sussurrò: “Non posso proprio.”

Un dito le risollevò il viso e gli occhi di colomba di Alex si puntarono nei suoi, tornando a chiedere: “Perché non vivere una vita tutta tua? Cosa ti frena?”

Cercando di fare dell’ironia, Joy replicò: “Perché tu uccideresti tutti i ragazzi che potrei scegliere?”

Guardandosi intorno con espressione attenta, Alex individuò un angolo buio nella sala.

Senza dare a Joy alcuna spiegazione, la prese per mano e abbandonò la pista.

In tutta fretta, la condusse in quella direzione a passo sostenuto, dimenticandosi a piè pari dei tacchi della cugina.

Quando finalmente si fermarono, le luci ben distanti da loro e il rumore della musica attutito dai tendaggi pesanti, Alex si volse a fissarla e, per poco, non indietreggiò per lo spavento.

Joy era a dir poco furiosa e, con le braccia ora conserte sotto il seno, lo fissava con un diavolo per capello.

“Che cavolo ti è saltato in mente di portarmi via dalla pista come un cavernicolo? Non ti ricordavi che avevo dieci centimetri di tacco sotto i piedi?!” sbottò lei, incenerendolo con lo sguardo.

Sollevando lesto le mani per chiedere perdono, Alex mormorò contrito: “Perdonami, davvero, ma avevo un bisogno immediato di parlarti lontano dal baccano della pista.”

“E perché, di grazia?” sospirò lei, esasperata.

Presala per le spalle, Alex la fissò intensamente negli occhi e le disse perentorio: “Spiegami che intendevi dire, prima. Perché non dovresti vivere una vita ricca di gioia anche tu, come fanno le tue amiche.”

Cercando di divincolarsi, Joy cercò di sdrammatizzare quel suo momentaneo cedimento.

“Ma dai, Alex, è solo che sono più timida di loro, tutto qui.”

“I tuoi occhi non mi dicevano questo, prima” precisò lui, assottigliando le iridi di perla per fissarle sul suo viso ora impallidito.

“Alex, ti prego…” sussurrò Joy, sentendo le dita del cugino affondare nella sua carne morbida.

“Voglio sapere cosa ti turba tanto da farti pensare che non potrai mai vivere una vita piena come quella delle tue amiche” continuò a dire Alex, scrollandola gentilmente. “Io sono qui per te, per aiutarti. Perché non vuoi che lo faccia?”

“Ma perché non puoi!” sbottò Joy, scostandosi seccamente da lui prima di fissarlo in malo modo.

Basito di fronte al suo cipiglio, Alex fece per parlare quando Joy, volgendosi di scatto verso i tendaggi, sussurrò ansiosa: “Si sta avvicinando!”

“Chi?” esalò Alex, prima di sentirsi afferrare alla mano e trascinare verso le porte antipanico della palestra.

In fretta e senza dirgli nulla, Joy lo trascinò fuori nella frescura della notte mentre la porta si richiudeva alle loro spalle.

Non contenta, cercò in fretta un nascondiglio per entrambi prima di dire: “Laggiù, dietro quei cespugli!”

“Leen, che ti prende?!” esclamò Alex, seguendola senza protestare.

“Dopo!” sussurrò lei, scavalcando agilmente una siepe nonostante i tacchi e l’abito lungo.

Veloce, Joy si acquattò prima di tirare accanto a sé Alex che, guardandola curiosamente mentre gli occhi si abituavano all’oscurità che li circondava, le chiese: “Allora?”

“Aspetta un momento” alitò lei, scrutando ansiosa la porta antipanico della palestra.

Un attimo dopo, fece capolino il volto del professor Thomson.

L’uomo si guardò intorno con espressione guardinga e, dopo alcuni attimi, rientrò con aria accigliata quanto confusa, lasciandoli soli.

Aggrottando la fronte, Alex la fissò curioso e chiese: “Come sapevi che ci stava cercando?”

Joy sospirò, il cuore in tumulto e la paura dipinta a chiare lettere sul viso pallido.

Non sapeva che fare, ma ormai non ce la faceva più a mentirgli a quel modo.

“Portami al lago, per favore. In un luogo appartato” gli chiese debolmente,  fissandolo con espressione implorante.

Aggrottando la fronte, Alex si levò in piedi offrendole una mano prima di chiederle: “Non hai in mente di fare cose… beh, non propriamente …insomma, lo sai che ti voglio bene e tutto il resto, ma non voglio sentirmi dire da te che…”

Poggiata una mano sulla bocca tremante di Alex, Joy si limitò a dire: “Non voglio farti nulla, Alex, né saltarti addosso. Ti amo come un fratello, ma la cosa finisce lì, okay?”

Sospirando di sollievo, Alex annuì e, circondandole le spalle con un braccio, la riaccompagnò al parcheggio.

“Mi stavi terrorizzando, sai? Ma perché vuoi proprio andare al lago? Lo sai che ci vanno le coppiette, vero?”

“E’ isolato, ed è esattamente ciò che voglio in questo momento” precisò lei, attendendo con impazienza che lui aprisse la portiera dell’auto.

Storcendo la bella bocca, Alex salì in macchina e avviò il motore mentre Joy sistemava l’abito attorno alle sue gambe sottili.

Cavernoso, lui borbottò: “Sei misteriosa, stasera. Più delle altre volte.”

“Scusa, ma non posso parlare qui” si limitò a dire lei, prima di sentire il motore aumentare i giri e l’auto indietreggiare verso il viale.

Senza più dire nulla, Alex si diresse verso Devil’s Lake, oltrepassando il Samaritan Hospital e dirigendosi verso la parte più settentrionale del lago.

Lì, si trovavano un paio di cale raggiungibili anche in auto.

Non aveva idea di cosa volesse fare Joy, ma gli sembrava giusto accontentarla, visto quanta ansia sembrava essersi accumulata in lei nel giro di pochi minuti.

Continuava a rigirarsi le mani e mordere le unghie a momenti alterni, ed era una cosa che non le aveva mai visto fare.

Meglio assecondarla, e sperare che non volesse commettere qualche pazzia.

A quel punto, l’avrebbe fermata a ogni costo.

Non appena raggiunsero una strada stretta e circondata da fitto fogliame, Alex vi si infilò con l’auto, stando ben attento a non graffiare la preziosa carrozzeria.

Joy, osservando pensierosa il boschetto immerso nell’oscurità che li stava inghiottendo metro dopo metro, sussurrò: “E’ perfetto, qui.”

Alex allora spense il motore dell’auto che, con un lieve tremolio, si ammutolì, lasciandoli soli assieme ai soffusi rumori della notte.

Aperto lo sportello, Joy uscì e inspirò l’aria greve di profumi, che sapeva di mare di umido e di terra.

Ascoltò assorta il gracidio delle rane che si confondeva con quello delle auto, in lontananza, che sfrecciavano lungo le vie di Lincoln City.

Alla fine, volgendo lo sguardo verso Alex, che se ne stava appoggiato contro la portiera dell’auto, sorrise e disse: “Non voglio più mentire, con te.”

Un po’ sorpreso, la vide oltrepassare lo sbarramento naturale creato dal cofano dell’auto per poi raggiungerlo.

Postasi di  fronte a lui, sollevò una mano straordinariamente calda per posarla sul suo viso.

“Leen, ma cosa… hai la febbre?” le chiese premuroso.

Scuotendo il capo, lei si limitò a mormorare: “Nessuna febbre, Alex. Ti mostro chi sono. Cosa sono.

“Che intendi dire?” esalò lui, cominciando a preoccuparsi.

“Sono stanca di dirti bugie, e credo tu sia abbastanza coraggioso e forte per sopportare il peso del mio nome” sussurrò la ragazza, continuando ad accarezzargli la guancia.

Con un dito, sfiorò le labbra dischiuse del giovane e gli domandò: “Che profumo senti?”

Alex sbatté le palpebre, confuso e sorpreso dal dolce sentore di incenso che gli invase le nari e, con un ansito strozzato, esalò: “Incenso.”

Lei annuì e, continuando ad accarezzarlo, chiese ancora: “E ora, Alex? Cosa senti?”

Rabbrividendo leggermente, lui esalò: “Cannella! Leen, ma che succede?”

Abbracciatolo, Joy disse sommessamente al cugino: “Non temere, non posso farti alcun male, non è nella mia natura. Da me non dovrai mai temere nulla, Alex.”

“Leen, ti prego, spiegami” ansò il cugino, prima di esalare sconcertato: “Leen, perché stai diventando sempre più calda? Che ti prende?!”

Scostandosi un poco per sorridergli comprensiva, Joy asserì con voce tenue: “Io sono colei che risorge dalle proprie ceneri. Io sono colei che volteggiava sull’obelisco di Heliopolis, al tempo in cui i faraoni dominavano sul mediterraneo. Io sono colei che ritorna ogni cinquecento anni, dopo essere divorata dal suo stesso fuoco. Io sono la Fenice Araba.”

“Ma che diavolo…?!” esclamò Alex prima di sgranare gli occhi non appena il corpo di Joy venne ammantato di luce dorata.

I capelli, gli occhi, il viso, tutto il suo corpo emanò una calda luce simile a quella del sole al mattino.

Alex, incredulo e affascinato al tempo stesso, crollò in ginocchio dinanzi a lei, tendendo le mani nella sua direzione, come a volersi accertare che Joy fosse veramente lì.

Quasi volesse accertarsi che, tutto quello che i suoi occhi stavano vedendo, non fosse solo frutto della sua fantasia.

Quando le sue dita sfiorarono il vestito di Joy, Alex avvertì un calore dilagante, quasi insopportabile.

In quel mentre, la mano della ragazza lo sfiorò in viso e, subitaneo, Alex avvertì la carezza di mille piume profumate.

“E’… è tutto vero? Non sto impazzendo?” riuscì a dire lui.

La figura di Joy si confuse, dinanzi ai suoi occhi increduli, con quella di uno splendido uccello dalle ali scarlatte.

Il suo becco era dorato e dotato di rostri sui fianchi, e buffe piume azzurre e rosa pendevano da una lunga coda variopinta e lunghissima.

Inginocchiatasi a sua volta, Joy lo strinse in un abbraccio lieve come piume e, contro il suo torace scosso dai fremiti del suo cuore, sussurrò: “Sono reale, Alex, come te. Puoi accettarmi, nonostante tutto?”

Lentamente, le braccia di Alex la strinsero con fare possessivo e, poggiata la guancia sui morbidi riccioli ramati di Joy, profumati di cannella e incenso, il giovane esalò: “Sei Leen. Non mi occorre sapere altro.”

A quel punto, Joy scoppiò in lacrime.

Affondò il viso nella camicia di raso di Alex e pianse fino a sfinirsi.

Per tutto il tempo, fu cullata teneramente dalle braccia del cugino che, sussurrandole parole di comprensione e affetto, non la lasciò neppure per un attimo.

Attese con pazienza che la crisi passasse, e scivolasse via assieme al pianto.

Dopo un tempo indefinito, che a Joy parve eterno, si scostò quel poco dal torace di Alex per guardarlo in viso, il labbro inferiore lievemente piegato all’ingiù in un broncio adorabile.

Il giovane, ridacchiando, le asciugò le lacrime sul viso con il tocco gentile di un pollice, sussurrando: “C’era proprio bisogno di piangere fino a sfinirsi?”

“Mi hai resa felice” sorrise a quel punto lei, stringendolo con forza.

“Ehi, ehi, piano!” ridacchiò Alex, percependo distintamente la potenza di quelle esili braccia, strette attorno a lui.

Con un risolino imbarazzato, Joy allentò la presa e levò il capo a fissarlo dubbiosa, asserendo concretamente: “Lo sai, vero, che non potrai dirlo a nessuno?”

Alex si limitò a darle un bacio sulla fronte, dicendo per contro: “Se ti ricordi, ti promisi che ti avrei ascoltata e capita, quando e se avessi voluto parlare con me dei problemi che ti arrovellavano. Certo, non immaginavo di che portata biblica fossero, ma nel pacchetto era compresa anche l’offerta ‘bocca chiusa’, quindi non temere.”

Lasciandosi sfuggire una risatina, Joy annuì.

“Ho pensato che avessi abbastanza forza e coraggio per sopportare una verità del genere, per quanto assurda essa potesse apparirti.”

Messosi a sedere, e poggiata la schiena contro la portiera dell’auto, Alex poggiò gli avambracci sulle ginocchia sollevate.

Scrutandola meditabondo, mentre lei lo imitava accomodandosi sull’erba fresca e umida, le chiese: “Perché hai scelto noi?”

“Non vi ho scelti” replicò con un sorriso cordiale. “Papà mi ha trovata, tutto qui.”

“Quindi… bruci realmente come dice il mito, e poi rinasci?” le domandò Alex con aria vagamente stranita.

Annuendo, lei prese un piccolo ramoscello secco in mano e, dopo averlo annodato più e più volte fino a farlo sembrare una minuscola culla, lo mostrò a uno strabiliato Alex.

“Mi costruisco un nido in cui morire, e poi… ardo.”

Nel dirlo, la piccola cesta di legno della grandezza di un ditale prese fuoco, facendo sobbalzare all’indietro il giovane che, con un mezzo sorriso, esclamò: “Per la miseria!”

Scrollata la mano per far sparire fiamma e ceneri, Joy scrollò il capo e terminò di dire: “Naturalmente, quando costruisco quella reale, essa non prende fuoco, perché deve contenere il mio corpo di neonata per proteggerlo dalle intemperie, nell’attesa che qualcuno mi trovi e si prenda cura di me.”

Vagamente sconvolto da quella notizia, Alex esalò: “E se nessuno ti trova? Insomma, zio Rich ti ha trovata che avrai avuto sì e no sei mesi, quindi…”

Inclinando il capo a sorridergli benevola, lei si limitò a dire: “Gli animali si prendono cura di me. E’ già capitato che nessun essere umano mi abbia trovato per anni e, nel frattempo, gli uccelli e altri animali si occupavano del mio sostentamento.”

“Oh, ecco perché…” annuì Alex, rammentando le volte in cui, nella clinica del loro comune amico Craig, gli uccelli erano sempre stati così lieti nel vedere Joy. “…ti adorano perché sei simile a loro?”

“Sono la loro quintessenza, quindi vengo adorata da ogni uccello del pianeta, ma non ho amore solo per loro, ma per ogni creatura presente al mondo” gli spiegò succintamente lei.

“E l’immagine che ho visto sovrapporsi alla tua, allora …” cominciò col dire Alex, prima di notare la sorpresa sul volto della cugina.

“Mi hai vista?” esalò Joy, sbattendo freneticamente le palpebre.

Alex annuì e Joy, afferratagli una mano, se la portò al volto per strofinarla contro la guancia con affetto.

“Oh, caro! E’ una cosa rarissima che un umano possa vedermi in entrambe le mie manifestazioni, e senza che io sia mutata in Fenice! Questo può voler dire una cosa sola.”

“E cioè?” si incuriosì Alex, ammiccando.

“Sei il mio Oracolo. Solo, non avrei potuto riconoscerti, a meno che tu non ti fossi mostrato veramente a me. Dicendomi che riesci a vedermi, mi hai confermato la tua identità” gli spiegò lei, continuando a sorridere gaia.

Alex, suo malgrado, arrossì e, allargandosi il colletto della camicia – fattosi improvvisamente stretto – gracchiò: “In che senso, scusa, sono… un Oracolo?”

Joy rise e, con dovizia di particolari, gli spiegò cosa fossero gli Oracoli, e perché proprio quelli di Fenice rimanessero oscurati alla sua vista.

Alla fine della spiegazioni, ringalluzzito all’idea di essere così legato alla cugina – e alla figura di Fenice – le domandò: “Puoi davvero diventare l’uccello che ho visto?” “Sì, ma non credo sia il caso di mostrarti la mia seconda forma proprio stasera. E’ già sufficiente quello che hai saputo” ridacchiò lei, baciandogli il dorso della mano con estrema deferenza prima di lasciarlo andare.

“Perché l’hai fatto?” le chiese, alzandosi da terra e aiutandola a fare altrettanto.

“Era il mio modo di ringraziarti per ciò che mi hai dato stasera; comprensione, amore e protezione. Non sono cose da poco, per una Fenice” scrollò le spalle Joy.

“Parli sempre al singolare. Vuol dire che ci sei solo tu?” chiese a quel punto Alex, aggrottando leggermente la fronte.

Joy si limitò ad annuire e Alex, avvolgendole un braccio attorno alle spalle, le domandò: “Per questo dici di non poter vivere la vita come le tue amiche?”

“Non posso. Io non sono qui per gioire delle bellezze del mondo ma per portare gioia agli altri, bene agli altri. Non posso fare nulla per me stessa, meno che meno amare in modo esclusivo” spiegò lei, con un sottofondo amaro nella voce.

Stringendo impercettibilmente la presa, Alex ringhiò frustrato: “Come, non puoi?! Ma è ingiusto!”

“L’unica volta che ho amato qualcuno, Alex, si è trattato di un dio, capisci?” esalò Joy, con occhi al limite del pianto.

Scuotendo il capo, confuso e restio a crederle, Alex si limitò a dire: “Non lo trovo giusto, Leen. Scusami se questo non posso accettarlo.”

Cercando di trovare un sorriso da offrirgli, Joy gli batté una mano sul torace un paio di volte e dichiarò: “Per stasera, basta confessioni. Vedo che ormai la tua capacità di accettazione è al limite. Parleremo ancora, se vorrai, ma non ora.”

“Desidero sapere tutto di te, questo è ovvio” ammise Alex, sfiorandole il viso con lo sguardo, e la guancia con il dorso della mano libera. “Per esempio, perché mi sembra di sfiorare delle piume, quando ti tocco?”

“Perché ora sai chi sono. E già che siamo in argomento, puoi finalmente ridarmi la piuma rosa che continui a tenere come una reliquia in casa tua?” chiese a quel punto lei, abbozzando un sorrisino.

“Era tua?” esclamò lui, strabiliato.

“Se mi arrabbio o mi spavento, è facile che perda qualche piuma, perché rischio di mutare in Fenice” gli spiegò, facendo spallucce.

“Ora capisco perché ne eri ossessionata! Non c’è problema, te la ridarò. Tanto, ora, ho con me l’originale” ridacchiò lui, prima di abbracciarla strettamente e sussurrarle tra i capelli: “Ah, Leen! E io che temevo chissà che cosa!”

“Non ti basta, questo, come segreto?” esalò la ragazza, accettando di buon grado l’abbraccio.

Sghignazzando, Alex la lasciò andare per risalire in auto e, non appena Joy lo ebbe imitato, disse con aria maliziosa: “Credevo dovessi confessarmi il tuo amore imperituro e incondizionato, e io non sapevo come dirti che non potevo ricambiarti, perché sono innamorato di un’altra donna.”

“Ma… che razza di idiota!” esclamò la cugina, scoppiando a ridere di fronte al suo modo leggero di affrontare quella situazione davvero bizzarra. “Aspetta un po’… di che donna parli? Non so nulla! Dimmelo!”

“Eh, no! Stasera hai parlato tu, e hai detto cose che necessitano di almeno una notte di sonno, per essere digerite. Ti parlerò di lei domani, non prima” sogghignò lui, prima di allungarsi verso la ragazza, darle un buffetto sul naso e aggiungere: “Visto che vivi così a lungo, puoi aspettare qualche ora, vero?”

Mettendo il broncio, Joy replicò: “Mai detto di essere un tipo paziente, però!”

Alex si limitò a ridere e, ingranata la retromarcia, riportò l’auto sulla strada per ricondurre a casa la cugina.


                                                                                                 ***

Dire che la reazione di Alex mi rese felice, è riduttivo.

Non mi ero aspettata tanta comprensione.

Certo, l’avevo sperata, ma ero anche pronta a un sordo rifiuto

Vedere nei suoi occhi la totale accettazione, e il suo affetto immutato, mi fece quasi scoppiare il cuore di gioia.

Condividevo finalmente il mio segreto con qualcuno, e quel qualcuno non ne era spaventato, o non voleva usarlo per i suoi scopi personali.

Per Alex, ero ancora la sua Leen, la cuginetta da accudire e proteggere.

Che cosa potevo volere di più?

Certo, l’idea che io non potessi godermi la vita come gli altri non gli era garbata per nulla.

Avrei comunque avuto tutto il tempo per fargli digerire anche quel particolare. Ora che sapeva, ero più tranquilla. Almeno a lui, non dovevo più mentire.

Saperlo il mio Oracolo, poi, era davvero la cigliegina sulla torta. Non avrebbe potuto essere una festa di fine anno scolastico migliore di così.

 

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Capitolo 9
*** cap. 9 ***


9.
 
 
 

La penna rosa che, per tanti anni, era stata custodita con cura da Alex, era infine tornata a me.

Sotto lo sguardo sorpreso e ammirato del mio straordinario cugino, l’avevo tenuta amorevolmente sul palmo steso della mano.

E lei, leggera e flessibile, era stata completamente assorbita dalla mia pelle rovente.

Alex aveva ridacchiato, forse indeciso se svenire o dare di matto ma, alla fine, aveva sospirato e si era detto lieto di aver saputo la verità.

Per quanto bizzarra e davvero inaspettata essa fosse.

Di fronte alla porta di casa mia, con le stelle alte in cielo, mi aveva abbracciata strettamente ringraziandomi per la fiducia che gli avevo accordato.

Con la promessa che mi avrebbe presto parlato della misteriosa donna di cui era innamorato, era tornato alla sua auto per poi sparire nella notte.

Io l’avevo osservato fino non riuscire più a distinguere il rumore della sua Mustang da quello delle altre auto in circolazione per Lincoln City e, alla fine, ero rientrata in casa.

In silenzio, ero sgattaiolata in camera mia prima di spogliarmi sommariamente e infilarmi sotto le coperte con un sorriso stampato in viso.

La mattina seguente, mio padre mi aveva subissato di domande.

Mia madre, per contro, ci aveva osservati con calma compostezza, sorridendo del cipiglio del marito e della mia stoica
accettazione di quel terzo grado in piena regola.


Alla fine, forse soddisfatto delle mie risposte, mi aveva lasciato in pace, promettendomi che quel pomeriggio saremmo andati al mare per passare la giornata assieme.

Era ancora turbato all’idea che, quell’autunno, mi sarei trasferita dall’altra parte degli Stati Uniti per andare a studiare a Harvard.

Ormai, però, la decisione era stata presa, e non mi sarei tirata indietro per nulla al mondo.
 
***
                    
Il sole scaldava la sabbia fresca sotto i piedi di Joy mentre sistemava, assieme a suo padre e sua madre, dei teli per distendersi sulla spiaggia.

Quella giornata, straordinariamente calda quanto insolita, era priva di nubi a macchiare il cielo terso e limpido.

L’oceano, con le sue placide onde e il lento sciabordare sulla banchina, invogliava come non mai a una nuotata.

Joy, ammiccando al padre che, dopo essersi tolto pantaloncini e camicia, stava aiutando Mel a sistemare un ombrellone accanto al cesto dei panini, domandò allegra: “La facciamo una nuotata fino allo scoglio?”

Ghignando all’indirizzo della figlia, in bikini rosso fuoco e con i capelli stretti in una treccia ben ordinata, Richard annuì e replicò: “A chi arriva prima?”

“Andata” annuì la figlia, guardando poi la madre per chiedere: “Ti unisci a noi?”

“E vedervi sfrecciare come missili, mentre io arranco come una balena spiaggiata? No, grazie” ridacchiò Melinda, scuotendo una mano con divertimento. “Andate pure. Io vi guarderò da qui.”

Sedutasi poi a terra, si sistemò il pareo che le circondava i fianchi tondi e, dopo essersi messa un cappello di paglia chiara a tesa larga, sorrise ai due e aggiunse: “Coraggio, andate. Voglio vedere chi vince.”

Joy annuì e corse verso la riva mentre Rich, piegandosi verso la moglie, la baciò su una guancia, sussurrandole all’orecchio: “Non sembrerai mai una balena spiaggiata, amore.”

“Facevo per dire, anche se un po’ in carne come le balene la sono” ridacchiò lei, scrutando curiosa la figlia, che stava saggiando con la punta di un piede l’acqua dell’oceano.

“Non è affatto vero” protestò amabilmente Rich, replicando: “Sei come la Venere del Botticelli.”

Che era in carne” precisò Mel, ammiccando comicamente. “Dai, raggiungi nostra figlia prima che si senta sola.”

Rialzatosi, Richard la fissò intensamente per alcuni attimi prima di accigliarsi e borbottare: “Non mi fido molto all’idea di saperla all’altro capo degli States, senza alcuna protezione.”

“E’ più forte di quanto tu non credi” sottolineò saggiamente la moglie. “E poi, Joy ha sempre chiesto aiuto, quando lo ha ritenuto necessario.”

“Già, ma guarda là!” esclamò per contro il marito, indicando la figlia con espressione accigliata. “Maledizione, gli occhi mi funzionano bene, tesoro, e quel che vedo è uno scricciolo di ragazza che un uomo potrebbe trovare molto più che interessante.”

“Come se non lo sapessi! Ma non puoi certo impedirle di seguire i suoi desideri solo perché è bella” protestò Mel, adombrandosi leggermente.

“No, ma ho tutto il diritto di stare in ansia, checché ne pensiate voi due” brontolò lui, raggiungendo la figlia sulla battigia.

Melanie si limitò a sorridere comprensiva, comprendendo appieno i sentimenti del marito, e condividendoli appieno.

Aveva notato con sempre maggiore preoccupazione l’accrescersi della bellezza ultraterrena della figlia.

Pur essendo orgogliosa di lei, e segretamente divertita dalla gelosia delle altre mamme, aveva compreso quanto quel dono così speciale avrebbe potuto diventare anche un ostacolo, per lei.

Certo, lì a Lincoln City, nessuno si sarebbe mai sognato di torcerle un capello o darle fastidio, perché tutti i suoi coetanei sapevano che era la figlia di un poliziotto.

Inoltre, Joy non usciva mai da sola ed era sempre in compagnia delle sue amiche, o dei suoi cugini più che premurosi.

A Harvard, tutta questa protezione non vi sarebbe più stata.

Si sarebbe trovata in balia di un mondo che ancora non conosceva appieno e che, di sicuro, avrebbe tentato di approfittarsi di una giovane donna bella come lei.

Sperava solo che la sua estrema intelligenza e assennatezza, che da sempre aveva scorto negli occhi della figlia, potesse tenerla lontano dai guai.

Era più che certa che non avrebbe retto, se qualcuno le avesse fatto del male e, per Richard, forse sarebbe stato ancora peggio.

Riprendendosi da quei lugubri pensieri, salutò Joy, pronta a dare battaglia al padre e, con più forza di quanta non si sentisse dentro, esclamò: “Fatti valere, figliola!”

“Te lo prometto!” rispose a gran voce lei, prima di mettersi in posizione per la gara.

Non visti e poco distanti dalla famiglia Patterson, Consuelo Thomson si sdraiò sul suo asciugamano per prendere un po’ di sole.

Il marito, per contro, era completamente assorbito dalla lettura di una carta topografica.

Stava badando ben poco a quello che lo circondava e, soprattutto, era più che deciso a non parlare minimamente al figlio.

Seduto accanto alla madre e intento a spalarle la crema solare sulla schiena, Morgan ghignò all’indirizzo del padre e disse:
“Dovresti prendere un po’ di sole anche tu, papà. Sembri un vampiro, pallido come sei.”

Oliver si limitò a brontolare tra i denti mentre Consuelo, volgendo a mezzo la testa per guardarlo spiacente, esalava: “Dimmi che non continuerai a leggere quella benedetta carta per tutto il giorno, caro!”

“Smetterò appena avrò finito di segnare i punti da controllare la prossima domenica” replicò a denti stretti Oliver, senza neppure guardarla.

“Fai come vuoi, caro, ma temo tu stia perdendoti l’occasione di passare una bella giornata fuori dal tuo ufficio” sospirò Consuelo, tornando a volgere lo sguardo verso il mare.

Sorridendo nel vedere Richard Patterson e la figlia impegnati in una gara di nuoto, chiosò: “Beh, di sicuro non è una sirena, visto che le manca la coda, però nuota davvero veloce.”

“Come?” mormorò distrattamente Oliver, prima di levare lo sguardo dalla sua mappa.

Sgranando leggermente gli occhi nel vedere Joy riemergere dalle acque, Oliver ne seguì i movimenti fluenti mentre, con un risolino vittorioso, abbracciava il padre.

L’uomo le diede un bacio amorevole sulla guancia, si complimentò con lei per la bella gara e infine batté una mano su un vicino scoglio.

Senza riuscire ad aprire bocca, la tenne sott’occhio mentre usciva dall’oceano per arrampicarsi sullo scoglio che aveva raggiunto per prima.

Già sul punto di commentare quell’insperata fortuna, sentì il figlio esalare: “E quella sarebbe la tua fantomatica ricerca?
Papà, avresti dovuto dirmelo che era una tale bellezza! Ti avrei aiutato più che volentieri a tenerla d’occhio!”

Oliver lo fissò caustico mentre Consuelo, dando un piccolo schiaffetto a una mano del figlio, replicava con un risolino: “Tesoro, smettila di parlare a questo modo! E non guardarla con quello sguardo da bue.”

“Scusa, mamma, ma ammettilo, è una ragazza davvero affascinante. E che fisico, poi!” ridacchiò per contro Morgan, elevandosi in tutta la sua eccezionale altezza.

Passandosi una mano tra i folti e lunghi riccioli neri, che gli sfioravano le spalle ampie e scolpite, asserì: “Penso che andrò a fare una nuotata anch’io.”

“Non pensare di avvicinarla! Potresti rovinare tutto!” sbottò subito Oliver, chiudendo con uno scatto il suo libro di mappe della zona.

Fissandolo senza più alcun sorriso a rischiarare il giovane e attraente volto sbarbato di fresco, Morgan sentenziò: “Mi sbaglierò, ma non hai più alcun diritto di dirmi cosa devo, o non devo fare. Sono qui perché me l’ha chiesto mamma, ma
posso sempre decidere di prendere le mie cose e andarmene.”

“Come hai fatto con la casa?” brontolò il padre, accigliandosi.

Facendo spallucce, Morgan replicò sprezzante: “Zio Eduardo ha capito le mie esigenze, quindi non prendertela con lui se mi ha anticipato i soldi per la casa. Quanto prima capirai le mie scelte, tanto prima torneremo ad avere un rapporto civile. E ora, vado a rilassarmi un po’ in acqua.”

Detto ciò, Morgan si allontanò dalla famiglia con passo fiero e spalle diritte mentre la madre, con un sospiro esacerbato, commentava: “Bel modo di passare la giornata, complimenti.”

Oliver preferì non commentare, limitandosi a tornare con lo sguardo in direzione della famiglia Patterson.

Joy, in piedi sullo scoglio, si stava sbracciando per farsi vedere dalla madre, seduta sulla battigia assieme al marito che, nel frattempo, era riemerso dalla nuotata.

Il  movimento sinuoso delle sue braccia, il viso gettato verso l’alto a ricevere in pieno il bacio del sole, portarono Oliver a trattenere il fiato.

Dinanzi a lui, con una chiarezza così vivida da essere sconcertante, apparve la visione di un enorme falco dalle ali scarlatte, sovrapposto con disarmante precisione al corpo della giovane.

Quando riabbassò le braccia per sedersi, l’immagine di quello splendido e folgorante animale scomparve e gli occhi di Joy si puntarono severi su di lui.

Un gelo improvviso parve avvolgerlo, nonostante la giornata insolitamente calda.

Pur essendo distanti quasi mezzo miglio, Oliver percepì distintamente il suo disappunto e la sua rabbia.

Affrettandosi ad abbassare lo sguardo per non spingerla a far intervenire suo padre, tornò a dedicarsi alle sue mappe topografiche.

Il desiderio di urlare per la gioia, però, lo martellò frenetico, desideroso di scalfire la sua aura di apparente compostezza.

Quella visione non poteva essere stata un caso; non un evento così forte e vivido nella sua mente!
 
 ***

Sbuffando contrariata per quell’invasione dei suoi spazi, Joy smise di fissare aspramente il professor Thomson non appena lui abbassò contrito lo sguardo.

Più che mai irritata da quello scherzo del destino davvero indesiderato, lanciò uno sguardo verso l’oceano e lasciò che la brezza le calmasse i nervi.

Davvero non si era aspettata di trovarlo anche lì, e proprio in un giorno in cui avrebbe solo voluto divertirsi con i suoi cari.

Qualcuno, lassù, doveva proprio volerle male! Sembrava un’autentica congiura!

Dio, sarebbe stata felicissima di partire al più presto per Harvard anche solo per toglierselo di torno per qualche tempo.

Con lui, era davvero difficile mantenere la calma, anche se in parte lo comprendeva.

Sapeva dei suoi trascorsi, e del perché del suo accanimento nei suoi confronti, ma non poteva permettergli in alcun modo di scoprire il suo segreto.

Diversamente, sarebbe stata braccata come un fenomeno da baraccone, impossibilitata a compiere il suo dovere e per sempre vista come un mostro.

Per quanto potesse apprezzare la sua abnegazione o comprenderne i motivi, non voleva assolutamente che lui riuscisse nella sua ricerca.

Ne andava della sua sicurezza, e di quella della sua famiglia.

Con un ultimo sbuffo contrariato, lasciò che lo sguardo cercasse nel cielo i gabbiani e, collegandosi a loro, si librò nell’aere tiepido grazie alla loro vista.

Non fu come planare sulle calde pianure di Giza e Alessandria, ma le bastò per chetare definitivamente la mente e il corpo.

“Sembri la Sirenetta di Andersen, lo sai?” esordì una voce alle sue spalle, sorprendendola.

Sobbalzando leggermente, Joy si volse a mezzo per scoprire chi fosse riuscito a coglierla di sorpresa  in maniera così eclatante.

A sorpresa, si ritrovò a fissare due iridi scure come la notte, incastonate in un viso abbronzato e circondato da riccioli scuri.

Tenendosi a galla con lievi movimenti di gambe e braccia, apparentemente del tutto a suo agio nell’acqua, il giovane proseguì, dicendo con un mezzo sorriso: “Ti spiace se salgo anch’io?”

Per la prima volta in vita sua, Joy non seppe che dire, né come dirlo.

Si sentì sciocca, le guance le avvamparono – e non per il calore del sole – e il cuore cominciò a batterle freneticamente nel
petto.

Uno strano languore le percorse le membra, irrigidite da una tensione mai provata.

Mordendosi un labbro per tentare di scrollarsi di dosso quella strana sensazione di intorpidimento, Joy annuì, facendogli spazio  sul piccolo scoglio.

Il giovane, afferrate saldamente le rocce attorno a lui, si issò con un fluido movimento, mettendo in mostra un fisico scultoreo e dannatamente imponente.

Sentendosi maledettamente piccola in confronto a lui, Joy si rattrappì su se stessa, stringendosi le ginocchia al petto.

Il ragazzo, notando quel suo inconscio quanto istintivo ritrarsi da lui, le sorrise cordialmente quanto maliziosamente, mormorando: “Non intendo farti alcun male, bella sirena. Non preoccuparti.”

“Sicuro?” riuscì a dire lei, pur non essendo ancora del tutto sicura di poter aggiungere altro senza tremare.

Ma che le prendeva?!

“Parola di scout” assentì lui, sollevando solennemente tre dita.

Dandosi della sciocca per la centesima volta in pochi secondi – di che aveva paura, lei che governava il fuoco?! -  Joy prese un gran respiro a pieni polmoni, prima di parlare.

“Perché mi hai chiamata sirena? Non penso di somigliare molto a quell’essere mitologico.”

“Ti ho vista nuotare, prima, ed eri davvero eccezionale. Fai gare a scuola, per caso?” si informò gentilmente lui,
giocherellando con una conchiglia che aveva staccato dallo scoglio.

“No. Troppo impegnata a studiare. Ma mi piace nuotare” gli spiegò sommariamente, cercando di dare un contegno al proprio respiro.

“Un vero peccato. Avresti potuto vincere i campionati studenteschi senza problemi” replicò lui con ammirazione, allungando poi una mano verso di lei.

Subito, Joy tornò a irrigidirsi e, come in precedenza, il corpo le andò letteralmente a fuoco.

Immagini di lei e Rah le balenarono nella mente, non richieste e non desiderate.

Sapeva perfettamente che, nel corpo di quel mortale dall’aspetto magnifico, non si celava l’anima del suo vecchio amico e amante.

Perciò, perché doveva tornarle alla mente ciò che avevano condiviso all’ombra delle piramidi?!

Sfiorandole un orecchio per scostarle una ciocca di capelli, il giovane ritirò la mano con un sorriso ammaliante dipinto sul volto abbronzato.

Muovendo sinuoso le dita di fronte a lei, sussurrò: “Avevi un pezzetto d’alga nei capelli.”

“Oh” esalò lei, avendo immaginato chissà quale approccio.

Ridacchiando, gliela sfilò dalle dita e, sorridendo timidamente, disse: “Grazie.”

“Figurati” scrollò le spalle lui, prima di chiederle: “Posso sapere il tuo nome, bella sirena?”

“Te lo dirò se la smetterai di chiamarmi così” gli propose per contro, riuscendo a stento a non scoppiare a ridere di fronte alle sue fesserie maliziose.

Da quando in qua si scioglieva a quel modo, per le battute di un ragazzo?

Stava regredendo di nuovo ai suoi disastrosi sedici anni, per caso?

Non stava uscendo dall’adolescenza come aveva sperato e bramato da tempo?

Poggiandosi una mano dalle dita lunghe ed eleganti sul torace muscoloso, e ricoperto da lievissima peluria scura, il giovane ammiccò in maniera piratesca.

“Te lo giuro su quanto ho di più caro.”

“Non è necessario” precisò lei, pur trovando il suo atteggiamento davvero simpatico. “Mi chiamo Joy Patterson.”

Allungando la mano verso di lei, il giovane disse per contro: “Morgan Thomson, tanto piacere.”

In un attimo, il sorriso di Joy mutò in una smorfia di rabbia e, senza osare toccare la mano protesa del giovane, sibilò irritata: “Che c’è? Tuo padre non ha di meglio da fare, che sguinzagliare il suo bel figliolo per rompermi le scatole?!”

“Eh?” esalò Morgan, prima di fissarla a occhi sgranati mentre, con un movimento fulmineo, si gettava in acqua per tornare a riva. “Aspetta!”

“Non ci penso nemmeno!” ruggì Joy, nuotando a grandi bracciate verso la battigia, il cuore ora colmo di un sentimento che avrebbe voluto non provare più; il furore cieco.

Affrettandosi a seguirla, Morgan si buttò a sua volta in acqua.

Forte della sua maggiore potenza strutturale, la raggiunse fino a superarla e piazzarlesi innanzi prima che toccasse terra.

Ansimando per la reazione nervosa e per lo sforzo di aver nuotato alla massima velocità possibile, Morgan riuscì a stento a dire: “Che c’entra… mio padre… con me?”

“E me lo chiedi pure?!” ringhiò lei, dandogli un calcio nella coscia prima di rimettersi a nuotare.

“Ahia!” esclamò Morgan, completamente frastornato e sorpreso da quella reazione violenta.

Furente come poche volte era stata, e completamente fuori controllo, Joy continuò a nuotare finché le fu possibile.

Quando finalmente riuscì a mettere i piedi sulla sabbia del fondale, cominciò a farsi largo nell’acqua, mentre i suoi nervi
cercavano di recuperare un minimo di calma.

Com’era possibile che un semplice umano potesse mandarla in confusione a quella maniera?!

“Aspetta, ti prego!”

Sentì la voce di Morgan alle sue spalle, mentre lo sciacquio furioso dell’acqua le disse che stava uscendo a sua volta
dall’oceano.

Senza voltarsi indietro, Joy cominciò a camminare a grandi passi sulla battigia, con tutta l’intenzione di mettere quanto più spazio possibile tra sé e il giovane.

Morgan, di tutt’altro avviso, la raggiunse in poche, rapide falcate e, afferratala a un polso, la fece volgere a forza verso di lui, esalando: “Insomma, vuoi aspettare un dannato momento?!”

Infuriata, lei si liberò dalla sua stretta e, fulminandolo con lo sguardo mentre il respiro tornava a farsi rapido come il battito del suo cuore impazzito, sibilò tra i denti: “Cosa vuoi dirmi che già tuo padre non mi abbia detto?!”

“La pianti di parlare di mio padre?!” ringhiò a quel punto lui, fissandola con un astio quasi palpabile.

Azzittendosi immediatamente, Joy rilasciò lentamente le braccia lungo i fianchi sottili.

Notando quel momentaneo cedimento, il ragazzo prese un gran respiro e gracchiò: “Accidenti, ragazza, sei davvero un osso duro!”

“Che vuoi?” brontolò a quel punto lei, mantenendo un tono di voce il più pacato possibile.

“Volevo solo conoscerti, tutto qui” le spiegò con disarmante semplicità Morgan, levando le mani in alto con fare molto sottomesso.

Ammiccò speranzoso, prima di aggiungere: “Non me ne frega assolutamente niente di quel che fa mio padre e, se proprio lo vuoi sapere, trovo assurdo che ti rompa le scatole ma, visto che non posso ammazzarlo per la sua stupidità…”

Senza riuscire a frenarlo, un mezzo sorriso comparve sul viso di Joy e Morgan, ringalluzzito da quel risultato, proseguì più seriamente, dicendo: “Giuro, è la prima volta che ti vedo e, di certo, non mi è venuto in mente di venirti a cercare perché me
l’ha chiesto mio padre. Ci ho pure litigato, con lui, a causa tua.”

“Ah, sì?” esalò lei, vagamente sorpresa.

Sapeva perfettamente che non gli stava raccontando una menzogna; poteva sentirlo dal battito regolare del suo cuore, così
come dalle reazioni della sua pupilla.

Non c’era falsità, nel suo dire, e la cosa la lasciò interdetta.

“Mi hai incuriosito, e così ho pensato di venire a conoscerti” le buttò lì Morgan, facendo spallucce.

Sollevando un sopracciglio con ironia, Joy piegò il capo a guardarsi prima di risollevare lo sguardo e commentare serafica: “Incuriosito. Si dice così, adesso?”

Ridacchiando, Morgan socchiuse maliziosamente le palpebre, sussurrando con la sua voce roca e profonda: “Credo tu sappia da sola che sei una bella ragazza, senza che te lo venga a dire un perfetto sconosciuto.”

“Trovi che io sia bella?” gli chiese allora lei, spinta da un desiderio sconosciuto a cui non sapeva dare un nome.

Vagamente sorpreso, Morgan la fissò negli occhi smeraldini per alcuni secondi, forse per sincerarsi che la sua non fosse una domanda a trabocchetto.

Quando solo sincerità nelle sue verdeggianti profondità, si limitò a sorridere e disse sommessamente: “Più che bella. Ti trovo perfetta. Un po’ piccola, ma simmetricamente perfetta.”

Vagamente sorpresa da quel ‘simmetricamente’, che di certo non si era aspettata – e che le sembrò un complimento ben strano –  Joy arcuò un sopracciglio con una muta domanda nello sguardo.

Morgan, ridendo sommessamente, poggiò una mano sul fianco, replicando a mo’ di spiegazione: “Dipingo per diletto e per lavoro, perciò ho istintivamente uno sguardo piuttosto clinico, quando guardo un soggetto che mi piacerebbe ritrarre.”

Un lento rossore le imporporò le gote e, reclinando appena il capo, Joy esalò: “Vorresti… farmi il ritratto?”

Avvicinandosi di un passo a lei, sovrastandola completamente e gettando la propria ombra sul suo giovane corpo, Morgan le sfiorò il mento con il pollice.

L’indice, nel frattempo, le disegnò lentamente il contorno della mandibola e, con voce appena sussurrata, asserì: “Saresti perfetta, per un ritratto. Per molti, a dir la verità.”

Incapace di muoversi, del tutto preda del suo sguardo magnetico, così come del tocco lievissimo delle sue dita, Joy socchiuse leggermente le labbra morbide mentre il suo respiro sfiorava il torace di Morgan.

Annullando di fatto la distanza che li separava, Morgan si chinò un poco verso di lei, alitandole sulla bocca color corallo: “Lascia che io ti ritragga…”

“Leen!”

Quell’urlo, improvviso quanto irritato, riscosse appena in tempo Joy che, sobbalzando di sorpresa e di immenso imbarazzo, si scostò in fretta da Morgan.

Il giovane, lasciandole andare il mento, scrutò con espressione accigliata colui che li aveva interrotti sul più bello.

Rossa in faccia e con il cuore in tumulto, Joy si volse per osservare il cugino che, a grandi passi e con l’aria di chi ha bisogno di un sacco di spiegazioni, li raggiunse sulla spiaggia.

Fermo a un passo dalla cugina, Alex le domandò tesissimo: “Tutto bene?”

“Tutto a posto” annuì Joy, lasciandosi drappeggiare le spalle dal braccio di Alex.

Per niente, direi, visto che ci hai interrotti” precisò Morgan, accigliandosi sotto lo sguardo ombroso dell’avversario.

“Conosci questo tizio, Leen?” chiese allora Alex, fissando la cugina con espressione dubbiosa.

Annuendo lievemente, Joy allungò una mano in direzione di Morgan, mormorando con voce lievemente tremante: “Si chiama Morgan Thomson.”

Aggrottando pericolosamente la fronte nell’udire quel nome, Alex accentuò la stretta sulle spalle della cugina e commentò aspramente: “Te la fai con il nemico, Leen?”

“Ehi, dico!” sbottò Morgan. “E poi, perché diavolo continui a chiamarla Leen, se si chiama Joy? Inoltre, chi saresti tu, per stringertela addosso a quel modo?”

Levando una mano per bloccare l’avanzata di Morgan, già pronto a dar battaglia, Joy sfiorò il suo torace muscoloso per chetarlo e disse: “E’ mio cugino Alex, e voleva solo proteggermi. E mi chiama Leen perché il mio nome completo è Aileen
Joy, tutto qui. E’ un diminutivo che usa fin da quando eravamo bambini.”

“Non merita neppure mezza spiegazione, Leen” precisò Alex, ringhiando.

Morgan, al tempo stesso, chiosò: “Tuo cugino? E allora che diavolo vuole da noi due?”

Al ‘noi due’, Alex scattò come una molla, liberando Joy dalla sua stretta per avventarsi su Morgan.

Agendo d’istinto, l’altro si scostò in fretta per evitare il suo pugno già levato a raggiungere la sua faccia.

Joy, sconvolta da quel rapido precipitare degli eventi, fu lesta a mettersi tra i due prima che finissero veramente alle mani.

Spingendo con forza le mani contro i loro toraci, sibilò: “Ora basta!”

Bloccandosi nel ritrovare l’oggetto della loro contesa a breve distanza dai loro pugni levati, i due giovani si allontanarono immediatamente, pur guardandosi in cagnesco.

Joy, passando lo sguardo dall’uno all’altro con aria accigliata, grugnì indispettita: “Nessuno vi ha chiesto di fare a botte per me, è chiaro?”

“Leen…” esalò Alex, calando i pugni e fissandola spiacente.

“L’aria si è fatta troppo pesante, per i miei gusti, qui” commentò aspro Morgan, passandosi una mano sul torace. “E di certo non voglio mettermi in mezzo a un litigio familiare.”

Joy, però, non lo stava ascoltando.

Il suo sguardo e i suoi sensi erano concentrati sul singolo segno rosso che percorreva il torace di Morgan e che, per lei, significava solo una cosa.

Con un singhiozzo strozzato, si portò le mani alla bocca per soffocare un grido.

Alex, vedendola impallidire e tremare come una foglia, mentre Morgan la fissava con aperta sorpresa e confusione assieme, la strinse dolcemente a sé, mormorando: “Tesoro, che succede?”

Joy scosse il capo, ai limiti del pianto e, fissando sconvolta Morgan, esalò: “Scusami… scusami.”

Seguendo il suo sguardo, Morgan si passò un dito sul segno rossastro che aveva sulla pelle abbronzata e, noncurante, disse: “E’ il segno di un’unghia, piccola, niente di che. Non devi scusarti, davvero.”

 Joy, però, continuò a scuotere il capo, sempre più agitata e Alex, non potendo fare altro per lei, la abbracciò strettamente prima di guardare Morgan.

Sinceramente preoccupato per Joy, e senza più alcuna animosità nella voce, Alex mormorò: “E’ sconvolta, in questo momento. Puoi lasciarci soli, per favore? Credo che la nostra piccola discussione l’abbia innervosita parecchio. Scusa.”

Annuendo, Morgan scrollò le spalle e disse quietamente: “Nessun problema.”

Poi, con una lieve carezza al capo bagnato di Joy, aggiunse: “Stai tranquilla, davvero. Non mi hai fatto male.”

Joy, per diretta conseguenza, scoppiò in lacrime e Morgan, non sapendo davvero che altro fare, se ne andò dopo averle lanciato un’ultima,  spiacente occhiata.

Alex, non sapendo che altro fare, scivolò a terra con la cugina e continuò a tenerla stretta a sé, dicendole dolcemente: “Tesoro, calmati, non è successo nulla.”

“L’ho ferito, Alex, l’ho ferito…” sussurrò lei, stringendo i pugni contro il suo torace nudo, mentre le lacrime continuavano a scendere. “…io non posso!”

“Era solo un graffio, come ha detto Morgan. Non gli hai fatto nulla, davvero” precisò Alex, massaggiandole la schiena con lenti massaggi circolari.

Scostandosi da lui con rabbia mista a terrore, Joy esclamò: “Un graffio è già troppo! Senza contare che, prima ancora, gli ho dato un calcio! Non è da me!”

Afferrandola al viso con le mani, Alex la tenne ferma dinanzi a sé, gli occhi percorsi dal dubbio e, con tono cauto, le domandò: “Leen… che stavi combinando, prima che io arrivassi?”

“Non lo so” ansò lei, calmandosi gradatamente tra le sue braccia. “Il mio cervello è andato completamente in tilt.”

“In tilt?” ripeté Alex, facendola sedere accanto a lui sulla sabbia non appena si rese conto che il suo respiro si era fatto più calmo.

Annuendo, Joy si coprì il viso con le mani prima di dire: “Non ho capito più niente.”

Non sapendo se mettersi a ridere o preoccuparsi, Alex le chiese con cautela: “Vuoi dire che… sentivi il cuore a mille e la bocca asciutta?”

Joy annuì una sola volta e Alex, avvolgendole teneramente le spalle con un braccio, proseguì nel suo interrogatorio, domandandole: “Volevi… che ti baciasse, prima?”

“E che ne so!” sbottò Joy, tornando a fissarlo con astio, un profuso rossore sulle gote prima pallide. “So solo che, in quel
momento, non facevo che pensare a Rah, e di certo non quando cenavamo assieme!”

Alex la fissò con occhi leggermente sgranati, mentre un lieve pallore sostituiva la sua abbronzatura.

Joy, tappandosi la bocca per lo sgomento, esalò: “Oh, scusa. Immagino che questo non avrei dovuto dirtelo.”

Tossicchiando imbarazzato, Alex fissò un momento il sole alto in cielo prima di fissarsi sulla strana voglia che Joy aveva sempre avuto sul fianco.

Indicandola, mormorò roco: “Quel Rah? Quello egizio?”

“Già” annuì lei, sospirando. “E’ stato il mio unico amante, nel vero senso della parola.”

“Ma se hai detto che…” tentennò Alex, non sapendo se dare di matto o meno.

“E’ un dio, Alex” precisò lei, sfiorandosi il fianco in prossimità del disco solare, per poi aggiungere: “Questa voglia me l’ha fatta lui con un suo bacio, perché io lo ricordassi per sempre. E solo un dio può fare una cosa simile, ti pare?”

Non avendo nulla da dire in merito, Alex si limitò ad annuire e Joy, spiacente, sussurrò: “Scusa. Ti scarico addosso delle rivelazioni davvero degne di nota, e senza neppure avvisarti prima.”

“Ho accettato che sei Fenice, mi posso pure sorbire il fatto che … beh, che Rah sia esistito davvero, e che tu e lui…” cominciò col dire Alex prima di arrossire copiosamente e ridacchiare. “Cioè, sì, lo avevi accennato, la notte in cui mi raccontasti tutto, però… ecco…”

Accennando un sorriso nel togliersi gli ultimi residui di lacrime dal viso, Joy gli spiegò meglio l’arcano.

“Essendo un dio, era l’unico a potermi avvicinare senza che il mio veto venisse infranto. Inoltre, i nostri poteri erano affini, ed era facile comprendersi. E’ stato il mio più grande amico.”

“Ti manca, vero?” le chiese a quel punto Alex, un poco più tranquillo.

“Sempre, ogni giorno di tutte le mie esistenze passate senza di lui. Da millenni non ha più un corpo fisico con cui avvicinarmi, e io ero troppo angosciata all’idea di non rivederlo più fisicamente, per parlargli, così è davvero molto tempo
che non ho contatti con lui” sussurrò Joy, stringendosi le ginocchia al petto per poggiarvi sopra il mento.

“Perché non possiede più un corpo fisico?” chiese a quel punto Alex, lo stupore soppiantato dalla curiosità.

“Perché, quando un dio perde i suoi seguaci, non può più camminare sulla Terra. E il culto di Rah si è perso da millenni nell’oblio. Perdura solo il suo spirito, che può giungere a me sottoforma di pensieri o di una voce ultraterrena, ma non ho mai
osato contattarlo a quel modo, per paura di soffrire troppo” gli confessò Joy, fissandolo tristemente.

“Ma… e tu, allora?”

“Io non sono una dea. Sono Fenice. E’ un’altra cosa” gli sorrise appena, prima di risollevare il viso e dire: “Se provassi a contattarlo, tu rimarresti con me per darmi coraggio?”

“Sarò al tuo fianco, quando vorrai provarci” le promise Alex.

Alzandosi con un movimento aggraziato, Joy lo ringraziò con un abbraccio e sussurrò: “Grazie, Alex. Di tutto.”

“Anche di averti guastato il tète-à-tète con il figlio del nemico?” ridacchiò Alex, dandole un buffetto sulla guancia.

Con una risatina tremula, lei annuì. “E’ stato meglio così. Non so davvero cosa avrebbe potuto succedere, se l’avessi baciato, agitata com’ero.”

Guardandosi intorno, Alex dichiarò: “Beh, però non mi sembra tu abbia perso piume, stavolta.”

“Non pensarlo nemmeno. La sola idea mi terrorizza” esalò lei, impallidendo leggermente.

“Andiamo, conquistatrice di bell’imbusti. Sarà meglio se andiamo dai tuoi genitori, prima che ti diano per dispersa”
ridacchiò a quel punto Alex, dandole di gomito.

Arrossendo copiosamente, Joy esclamò: “Non è vero! Non ho conquistato nessuno!”

“Da come ti ha guardata mentre andava via, direi il contrario” sogghignò Alex, ammiccando.

“Beh, dovrà farsela passare alla svelta, visto che non mi posso permettere nessuna storia d’amore con nessun mortale” precisò lei, sbuffando.

“Non mi sembravi di quell’avviso, quando vi ho interrotti” precisò il cugino, strizzandole l’occhio.

“Alex, posso sempre pestarti un piede per diletto, sai? E non mi sentirò minimamente in colpa” brontolò Joy, vedendolo scoppiare a ridere di gusto. “Antipatico” aggiunse poi lei, facendo la lingua.

***

“Maledetto vento! Detesto la sabbia negli occhi” si lamentò Consuelo, chiudendo ermeticamente le palpebre mentre Oliver le copriva il viso con le sue mani.

“Così va meglio?” le chiese lui, con un mezzo sorriso sulle labbra.

“Sì, grazie” sussurrò la moglie, prima di ridacchiare e dire: “Cos’ho contro il fianco che mi fa il solletico?”

Sporgendosi oltre la figura sinuosa della moglie, Oliver sgranò gli occhi nel vedere una penna remigante rossa come il fuoco.

Raccoltala immediatamente da terra, se la rigirò tra le mani prima di veder comparire il figlio con il capo chino e le mani poggiate rigidamente sui fianchi.

Nascondendo subito il prezioso reperto tra le falde del suo libro di mappe topografiche, Oliver gli chiese: “Che è successo, Morgan? Ti sei fatto male?”

“No, papà. E poi, se mi facessi male in acqua, sarei un pompiere davvero imbranato. Con tutti gli addestramenti che ho fatto, potrei fare le olimpiadi...” brontolò Morgan, lasciandosi cadere a terra sopra un asciugamano.

Consuelo si limitò a dargli uno schiaffetto su una gamba, facendolo sorridere e, più gentilmente, aggiunse: “Ho solo avuto un piccolo scambio di opinioni con il cugino di Joy Patterson, tutto qui.”

“Come?” esalò Oliver, lanciando uno sguardo in direzione della famiglia Patterson, dove Joy e Alexander erano appena giunti.

Scrollando le spalle, Morgan si spiegò meglio.

“Stavamo parlando amabilmente, quando è arrivato lui, tutto inferocito, e così abbiamo discusso un po’. Ma, a quanto pare, la ragazza è così attaccata al cugino, o troppo sensibile, chissà, che si è messa a piangere, e così sono venuto via.”

“E così, eri con lei, eh?” commentò Oliver, aggrottando leggermente la fronte.

“Sì, papà e, oltre a essere uno schianto di ragazza, non ci ho visto niente di soprannaturale, in lei” borbottò Morgan, aggiungendo poi divertito: “A meno che tu non pensi che il suo curioso neo possa avere qualcosa di paranormale.”

“Che intendi dire?” gli chiese Oliver, sinceramente stupito.

Dipingendo con le dita un disco solare sulla sabbia, Morgan disse: “Ha una voglia su un fianco fatta a questo modo. Curiosa, eh?”

“Molto” annuì Oliver, con un sorriso interessato.

“Devi averla guardata bene, tesoro, per averle visto una voglia sul fianco” commentò Consuelo, guardandolo con un sorriso. “Le hai almeno parlato un po’, prima di farle la radiografia?”

Ridacchiando, Morgan annuì, replicando: “Ehi, mamma, andiamo! Non sono un troglodita!”

“Quando si tratta di femmine, comincio a pensare che tu lo sia, invece” sospirò afflitta Consuelo.

Piegandosi a darle un bacio sulla fronte, Morgan mormorò gentilmente: “Le ho parlato, e mi è sembrata simpatica. Ti va bene, così?”

“Meglio” annuì Consuelo, prima di sollevarsi su un gomito per scrutare il disegno circolare fatto dal figlio sulla sabbia. “Ha davvero una voglia a forma di Disco Solare?”

“Eh? E che diavolo sarebbe?” esalò Morgan, sorpreso.

Dandogli una pacca sul braccio con fare falsamente disgustato, Consuelo ridacchiò. “Non ti ho insegnato niente?”

Mentre madre e figlio ridacchiavano tra loro, Oliver continuò a fissare pensieroso quel disegno sommario mentre un’immagine sempre più vivida si formava nella sua mente.

Forse, venire sulla spiaggia, non era stata un’inutile perdita di tempo.




 

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Capitolo 10
*** cap. 10 ***


10.
 
 “Come l’Araba Fenice, che vi sia ciascun
 lo dice, dove sia nessun lo sa.”
Metastasio (“Demetrio”, atto II, scena III)
 
 
 
 
 
L’incontro con Morgan aveva risvegliato in me pulsioni mai  provate per alcuno, neppure per Rah, che tanto avevo amato.

Il fatto non indifferente che fossi scoppiata in lacrime come una bambina, peggiorava – e di molto – le cose.

Non un dio, né un Oracolo, si nascondevano nel corpo di quel mortale che tanto aveva saputo sconvolgermi, ma era parso di origine divina il potere che aveva proiettato su di me.

Era difficile spiegare, o capire, i perché di quella strana giornata passata sulla spiaggia assieme alla mia famiglia.

Venire a scoprire che Alex era venuto solo per dirmi arrivederci, pronto a ripartire per Salem per riprendere il suo lavoro allo Studio, non mi aveva certo aiutata.

Stephen e Brian erano a casa per le vacanze estive ma, con loro, non avevo mai avuto la stessa confidenza che avevo sviluppato con Alex.

Il mio istinto mi portò, quindi, a confidare le mie paure e i miei dubbi alle mie fidate amiche che, in quanto a uomini, ne sapevano davvero più di me.

E io che pensavo che non mi sarei mai cacciata in un guaio simile.

Cos’era mai capitato?

 
***
 
Erano tutte sedute attorno a un piccolo tavolo di legno satinato di Starbucks, dove lei e le sue amiche del cuore si trovavano sovente per chiacchierare.

In quell’assolato pomeriggio di luglio, Joy afferrò il suo bicchiere di Coca-Cola per ingollarne una generosa sorsata dopodiché, preso il coraggio a due mani, disse d’un fiato: “Ho incontrato un ragazzo.”

Kelly la fissò subito a occhi sgranati, mentre Margot e Aileen la squadrarono attentamente, per capire se avessero compreso bene le sue parole.

Lei si limitò a fissarle turbata, prima di aggiungere: “Diciamo pure che ho anche fatto la figura dell’idiota.”

“Allora, doveva essere un mostro di bellezza” esalò Kelly, ridacchiando. “Dalla tua cotta infantile - quanto breve - per Dean Sommers, non ti ho più sentito fare apprezzamenti degni di nota sul genere maschile. Cominciavo a pensare che non ti piacessero!”

Storcendo la bella bocca, Joy replicò: “Se intendi sapere se sono omosessuale, posso dirti di no. Ammiro il genere maschile, anche se non ai tuoi livelli.”

“Nessuno può battere i suoi livelli” ridacchiò Margot, dando di gomito all’amica.

Kelly fece spallucce, fregandosene altamente dei loro commenti, e chiosò: “Mi limito ad apprezzare le bellezze del Creato. Dovreste farlo anche voi.”

“Lo fai ampiamente per tutte noi messe assieme” sentenziò sicura Joy, sorridendole affettuosamente.

Kelly poteva anche essere una mangia-uomini, nonostante avesse solo diciotto anni, ma aveva un cuore d’oro e l’animo di una combattente.

Se si aveva bisogno di aiuto, lei ci sarebbe sempre stata.

E al diavolo, se gli altri pensavano che fosse solo una ragazza leggera; Joy conosceva la verità, e tanto le bastava.

Tornando seria, Kelly intrecciò le mani sotto il mento e, fissando attentamente l’amica, dichiarò: “Il tipo ti ha sconvolta davvero. Hai gli occhi lucidi al solo parlare di lui. Come si chiama?”

Con un sospiro, Joy lasciò scivolare fuori dalla  bocca il suo nome, pur sapendo quanto potere avesse su di lei.

“Morgan Thomson.”

Le tre ragazze sobbalzarono sulle sedie, mentre i loro volti si scurivano e Aileen sbottava dicendo: “E’ il figlio del professore?!”

“Ma che ti è saltato in mente?!” brontolò allo stesso tempo Margot, scuotendo il capo.

“Complimenti, tesoro. Direttamente nella tana del lupo” esalò Kelly, sinceramente stupita quanto vagamente irritata.

“Non ci posso fare niente” precisò Joy, facendo spallucce con aria esasperata. “E poi, non ho nessuna intenzione di dare vita a nulla, con lui. Però, volevo lo sapeste almeno voi… oltre ad Alex.”

“Lo hai detto ad Alex?” chiese curiosa Kelly.

“Era presente quando, per poco, non ci siamo baciati” esalò Joy, reclinando il capo e coprendosi il viso per la gran vergogna.

Lei, Fenice, un essere mitologico dotato di immensi poteri, si era lasciata incastrare da due begli occhi e un fisico statuario. Era davvero il colmo!

Le sue amiche ridacchiarono, di fronte alla sua stentata confessione  e Margot, ghignante, domandò: “E non lo ha ammazzato?”

“Per la verità, ci ha provato, ma io ero così sconvolta per quello che era quasi successo, che sono scoppiata a piangere come una lattante. Dio, che figura!” sbuffò Joy, guadagnandosi le occhiate ironiche delle sue amiche.

“Tesoruccio, ma perché diavolo ti sei messa a piangere?” le chiese gentilmente Kelly. “Mica era la fine del mondo, se ti facevi dare un bacio. Sarebbe stata una novità, se non altro.”

“Nervi, credo. Avevo il cervello in tilt” ammise sconfitta Joy, mettendo il broncio.

“Voglio conoscerlo” decretò allora Kelly, con un gran sorriso stampato sul viso solare.

“E perché?” esclamò Joy, sgranando gli occhi per la sorpresa.

Ridacchiando, Aileen fissò ammiccante Kelly e asserì: “Scommetti che vuole scoprire che faccia ha l’uomo che è riuscito a friggerti il cervello?”

“Tu sì che mi conosci, cara” annuì saputa Kelly, prima di guardare oltre le spalle di Joy, fissare la porta d’entrata e dichiarare: “Uhm, branco di femmine in calore a ore dodici… e con maschio di gran classe nel mezzo.”

Kelly aveva un modo tutto suo di parlare, ma Joy lo trovava divertente.

Quando, però, si volse per controllare cosa realmente intendesse dire, sentì il cuore farle un balzo nel petto quando scoprì chi era il ‘maschio di gran classe’ in questione.

Senza riuscire a chiudere la bocca, Joy fissò Morgan mentre, apparentemente infastidito, raggiungeva un gruppetto di amici al bancone del bar.

Lì, si sedette senza degnare di uno sguardo le procaci femmine al suo seguito che, senza alcun ritegno tentavano di attirare la sua attenzione.

Kelly, notando l’espressione basita di Joy, esalò: “E’ lui?!”

“Già” sussurrò Joy, tornando a nascondere il viso con le mani perché Morgan non la vedesse.

“Tesoro, complimenti! E’ un autentico schianto. Capisco perché sei sbarellata, davanti a lui” commentò Kelly, sorridendole orgogliosa.

“Beh, è un esemplare eccezionale di uomo, non c’è che dire, anche se è figlio di quel Thomson” assentì Margot, compiaciuta.

“Di sicuro, uno così farebbe girare la testa a molte… e infatti, guarda che sciame di farfalle ha attorno” ridacchiò Aileen, fissando disgustata gli esemplari femminili che stavano sciamando attorno a Morgan.

“Vedo” sbuffò Joy, colta da un’assurda quanto inopportuna gelosia.

Era evidente quanto a lui poco interessassero, era evidente quanto quelle ragazze gli dessero fastidio, era evidente quanto i suoi sguardi non le sfiorassero mai…

E allora, perché aveva voglia di azzannarle al collo? Che le succedeva?

“Dio, devo uscire di qui al più presto” sussurrò Joy, stringendo frenetica tra le mani le chiavi della sua Chevrolet Camaro del ’98.

“Cosa c’è, Joy? Non ti senti bene?” le chiese premurosamente Kelly, perdendo di colpo ogni desiderio di fare dell’ironia.

Annuendo senza riuscire a parlare, i sensi sovra sviluppati fin troppo consapevoli del profumo, del respiro e del battito cardiaco di Morgan, Joy si levò dal tavolo riuscendo a malapena a sussurrare: “Ho bisogno d’aria.”

Margot si affrettò a prendere lo scontrino per andare alla cassa a pagare mentre Aileen, oltrepassando il tavolino, le avvolgeva un braccio per sorreggerla.

Kelly, invece, cercò con lo sguardo un passaggio tra i tavoli che potesse eludere il bancone del bar, così da evitare incontri spiacevoli tra le parti in causa.

In breve, furono pronte per uscire ma, quando presero la via della porta, una bellezza bruna, alta e sottile come un fuso, entrò come una voluttuosa emanazione di sensualità.

Con andatura flessuola ed elegante, si diresse al banco sotto i loro occhi ipnotizzati, proprio mentre Morgan si voltava per accoglierla.

Un sorriso spontaneo gli sorse sul viso mentre la ragazza, con le braccia segnate da piccoli tatuaggi a forma di falco e rose rosse, lo avvolgeva per stampargli un bacio leggero sulle labbra.

Hola, Morgan” sussurrò sensuale la bruna.

Per Joy fu troppo.

Si divincolò dalla stretta di Aileen, sgusciando via con facilità e, a grandi passi, di diresse verso Morgan.

Furente, si piantò dinanzi a lui, lo fissò con astio e, scimmiottando il tono della bruna, disse: “Hola, Morgan.

Scostando la bruna da sé con fulminea velocità, Morgan la fissò per un attimo con aperta sorpresa prima di scendere dallo sgabello su cui si trovava e dirle: “Ehi, ciao. Che bello rivederti! Stai…”

Morgan non fece in tempo a terminare la frase che Joy, sotto gli occhi sgomenti di tutti, scaricò in faccia al ragazzo uno schiaffo davvero degno di nota.

La sua mano, per quanto piccola e sottile, lasciò chiari segni rossastri sulla guancia abbronzata.

Non contenta, lo guardò con occhi ai limiti del pianto prima di sibilare: “Sei davvero un idiota.”

Detto ciò, se ne andò ritta e fiera, mentre uno scroscio di risate si elevava attorno a Morgan, e il gruppo di Joy usciva compatto come uno squadrone da combattimento.

Passandosi una mano sulla guancia rovente per lo schiaffo appena ricevuto, Morgan fissò spiacente la ragazza allontanarsi lungo il parcheggio con un diavolo per capello.

La fissò mentre saliva su una Camaro, nera come la notte, assieme all’amica afroamericana.

Un attimo dopo, l’auto uscì a tutta velocità, seguita da una Ford Focus berlina grigio perla, dove si trovavano le sue altre due amiche.

“Ho combinato un guaio?” esalò una voce femminile alle spalle di Morgan.

Il giovane si volse a mezzo, sospirando sconsolato, prima di sorridere mesto alla cugina e dichiarare: “Mi sa che non ha badato molto al fatto che siamo due gocce d’acqua, tesoro.”

Carezzando spiacente la guancia del cugino, dove era evidente il segno lasciato dalla mano di Joy, Serena sussurrò: “Sono stata una sciocca a salutarti così. Dovrei piantarla di giocare a questo modo come quando eravamo bambini.”

“Non potevi saperlo” precisò Morgan, lanciando poi un’occhiata venefica agli amici, ancora ridenti. “Dovete ridacchiare ancora per molto?”

“Beh, non capita tutti i giorni che una femmina ti spari una cinquina in faccia a quel modo” commentò il suo amico Ray, dandogli di gomito.

“Cavoli!” sbottò Morgan, passandosi una mano tra i folti riccioli scuri.

Tutto si sarebbe aspettato, tranne un incontro simile!

Possibile che, con quella ragazza, dovessero sempre e solo succedere dei disastri?

Prima il cugino di lei, e ora sua cugina!

Avrebbero dovuto bandire la classe dei cugini dalla faccia della terra, con tutti i guai che sapevano creare!
 
***

Dopo aver portato l’auto dal suo amico William, e aver preso accordi per tornare a riprenderla il giorno seguente, Joy si fece accompagnare a casa da Kelly.

Non appena si ritrovò in camera sua, tutta sola – i genitori erano usciti per una gita in barca – si concesse finalmente il lusso di piangere.

L’aveva rifatto. Aveva perso il controllo e gli aveva dato uno schiaffo.

Dio, uno schiaffo!

Perché aveva reagito a quel modo, con lui?

Non le era mai capitato di provare una tale, e così disturbante, gelosia. Né aveva mai sentito il bisogno di marcare il proprio territorio.

Cosa le aveva fatto, Morgan? Che potere aveva su di lei?

Spogliatasi, sentendosi bruciare fin nelle viscere, Joy corse sotto la doccia per tentare di calmare i nervi a fior di pelle, che sentiva pronti a sfilacciarsi da un momento all’altro.

Sotto lo scroscio tiepido dell’acqua, chiuse gli occhi e tentò di riordinare i pensieri su ciò che era appena successo.

Il suo profumo muschiato, il calore del suo corpo, il fascino del suo sguardo.

Tutti questi particolari le erano entrati dentro come un virus, e sembrava impossibile debellarlo, nonostante tutti i suoi poteri e i suoi millenni di esperienza.

Non si era mai lasciata andare a sentimenti simili con nessun umano e, persino con Rah, sebbene lo avesse amato di amore sincero, non si era mai spinta a desiderarlo con tanta ferocia.

Agognava a rivedere Morgan con la stessa forza con cui voleva tenerlo lontano da sé, e questi sentimenti contrastanti la stavano spezzando in due.

Una tempesta, scagliata contro la chiglia di una nave col chiaro intento di farla affondare, avrebbe fatto meno danni.

Il solo fatto di desiderare qualcosa era di per sé un abominio, ma volerlo con così tanto ardore, era ancora peggio.

Stringendo le mani ad artiglio, mentre le unghie le si allungavano pericolosamente, sintomo primo di una sua imminente trasformazione, fissò disperata le piastrelle scure e lucide della doccia.

“Rah, ti prego, aiutami…”

Lentamente, come sopraffatta da un peso troppo grande da portare con le sue sole forze, Joy scivolò fino a inginocchiarsi sul piatto della doccia di cercamica bianca.

Dinanzi a sé, sul pallido mantello d’acqua che galleggiava sulle piastrelle blu notte del muro, un viso a lei familiare e tanto amato comparve consolatorio.

Una voce, lontana e vicina al tempo stesso, le sussurrò all’orecchio: “Mia dolce Fenice… il tuo cuore piange… perché?”

Le lacrime tornarono ad affacciarsi, ma stavolta per la gioia provata nell’udire quell’antico timbro vocale.

Con un sorriso che sapeva di riconoscenza e di affetto, sfiorò le piastrelle bagnate con una mano ed esalò: “Rah… oh, dèi… Rah…”

“I millenni passano, e tu rimani sempre uguale…” asserì Rah, con un tono vagamente ironico. “… mentre io vago come un ricordo dimenticato, senza più alcuno che mi cerchi.”

“Perdonami se ho tardato tanto, ma soffrivo troppo all’idea di non poterti stringere a me” sussurrò lei, reclinando spiacente il capo.

“Quel che conta è che tu mi abbia voluto ancora al tuo fianco, Fenice. Anche se avrei preferito vederti allegra e in compagnia del tuo cugino Alexander, piuttosto che piangente e disperata” replicò bonariamente Rah.

“Mi hai osservata?” chiese la ragazza, sorridendo leggermente mentre si tergeva le lacrime dal viso.

Il sifone della doccia continuava a scrosciare acqua sulla parete, ove il viso di Rah era comparso come un fantasma dall’oltretomba.

“Ogni istante di ogni tua incarnazione… e ho pregato che tu implorassi la mia presenza, perché vederti così sola e così angosciata mi stava uccidendo” le spiegò, ora serio e sconsolato. “Sono lieto tu mi abbia cercato.”

“Cosa mi succede? Perché sto reagendo a questo modo?” chiese a quel punto Joy, stringendo le braccia attorno al suo corpo tremante.

“Non posso vedere a fondo nel tuo cuore, bambina, ma posso dirti che significato hanno le tue reazioni” mormorò Rah, gentilmente.

“Temo di saperlo, ma è assurdo. E’ impossibile” scosse il capo Joy, rabbiosa.

“Tu sei la riprova che nulla è impossibile, e dovresti saperlo” precisò Rah. “Potrai tentare di combatterlo, se così credi, ma non potrai eliminarlo dal tuo animo.”

Devo combatterlo. Tu sai benissimo che non posso amare in modo esclusivo. Il mio compito non è desiderare il bene per me stessa, ma per l’intera umanità!” esalò Joy, con voce tremante.

“Se sei certa di questo, io sarò al tuo fianco per sostenerti in ogni tua scelta, in qualsiasi momento tu mi vorrai accanto a te, ma vorrei che tu pensassi bene a quello che stai rifiutando” la pregò con una certa enfasi.

“Io sono Fenice. Non c’è felicità personale, per me” sospirò Joy, scuotendo debolmente il capo. “Posso essere nei cuori di tutti, ma non di uno in particolare. Mai uno solo. O tutto, o niente.”

“Non è giusto” si limitò a dire Rah.

“Parli come Alex” ridacchiò tristemente Joy, tornando a fissare lo sguardo sull’evanescente figura dinanzi a lei.

Quegli occhi chiari, limpidi come il cielo, incastonati in un volto abbronzato e circondato da lisci capelli corvini, erano ben fissati nei suoi ricordi più belli.

Mai come in quel momento, avrebbe voluto ricoprirli di carezze e baci.

La bocca carnosa di Rah si piegò in un sorriso liquido, nel sussurrarle: “Sei sempre bellissima, mia cara, e mi spiace immensamente non poter essere lì con te. Saprei ben io come rilassare i tuoi nervi.”

A quel punto, Joy scoppiò a ridere e, lasciandosi andare a un gesto assurdo quanto inutile, si allungò per baciare quelle labbra d’acqua, prima di dire: “Ricordo bene quanto eri bravo.”

Con una risatina sempre più lontana, Rah le disse: “Tornerò a ogni tua chiamata. Ricordalo.”

“Lo ricorderò” annuì lei, tornando a essere sola, nuda e fradicia nel bel mezzo della doccia.

Scrutando verso l’alto, in direzione del sifone, Joy si risollevò in piedi, chiuse il getto dell’acqua e uscì, avvolgendosi in un pesante asciugamano.

Dopo essersi asciugata per bene, e aver sistemato i capelli in una treccia, si sedette sul pavimento di parquet della sua stanza e, preso un bel respiro, mutò in Fenice.

Gli arti mutarono con un lieve scricchiolio, mentre un folto piumaggio scarlatto prese il posto della morbida pelle di pesca.

Lunghe e possenti ali si sostituirono alle esili braccia, e artigli ricurvi si poggiarono con delicatezza sul piano ligneo.

Una lunga coda, dalle sinuose piume azzurre e rosa, si distese dietro di lei fino a sfiorare il bordo del letto.

Muovendo il becco dorato per saggiarne la consistenza, dopo diciotto anni dalla sua ultima mutazione, Fenice si accoccolò a terra e infilò il musetto tra il morbido piumaggio di fiamma.

Chiusi gli occhi di smeraldo, si assopì, sperando che sotto forma di volatile potesse trovare più pace di quanta, da umana, avrebbe mai trovato.

 
***

 
Tornare Fenice dopo così tanti anni fu quasi un sollievo, per me.

Era piacevole prendere la mia forma animale anche perché, le sensazioni che percepivo, erano molto differenti, come i pensieri più semplici.

Certo, Morgan non era dimenticato né bandito dalla mia mente, resisteva come una ferita aperta e bruciante, ma era meno doloroso vederlo con gli occhi di Fenice.

Tutto era più attutito e, per qualche ora, avrei potuto riposare tranquilla senza dovermi sentire un mostro per averlo colpito.

Mai come in quel momento, mi odiai.

Odiai tutto, di me, dal mio nome alla mia discendenza, oltre al mio ruolo nel mondo.

Quando mi resi conto di odiarmi, capii a cosa poteva portare un sentimento così forte e dirompente come la brama, il desiderio ossessivo.

Portava al nulla assoluto, e io avrei dovuto evitarlo con tutta me stessa.

Andare a Harvard non avrebbe voluto solo dire creare il mio nuovo futuro, ma anche fuggire dal nulla che mi aspettava tra le braccia di Morgan.

Pur se felice di aver nuovamente sentito la voce di Rah, dopo millenni di paure e silenzi, sapevo perfettamente che il suo aiuto avrebbe potuto essere minimo.

Dovevo farcela da sola ma, stavolta, non ero sicura che, di fronte a un problema simile, sarei uscita vittoriosa.

Era la prima volta in assoluto che mi capitava e, per una cosa del genere, non esistevano scuole in cui imparare.


 

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Capitolo 11
*** cap. 11 ***


11.





La partenza per Harvard si stava avvicinando a grandi passi, così come l’arrivo dell’autunno e dei rossi e dei bruni nelle foreste. 

L’aria si era fatta più fresca, le temperature erano calate, lasciando che settembre desse il cambio all’assolato agosto.

Con l’arrivo delle piogge insistenti e del mare grosso, io avevo sorriso perché il tempo era infine giunto.

Presto vi sarebbe stata la festa sulla spiaggia che, ogni anno, la comunità organizzava per salutare l’estate e dare il benvenuto alle stagioni fredde.

Come sempre, io sarei andata a vedere i fuochi d’artificio assieme alla mia famiglia e alle mie amiche.

Nei giorni che erano seguiti allo schiaffo che avevo propinato a Morgan, ero riuscita in qualche modo a riprendere il controllo su me stessa.

Più attenta che, avevo sfruttato al massimo i miei sensi per tenermi alla larga da tutti i luoghi in cui il suo profumo era anche solo vagamente presente.

Avevo irritato a morte le mie amiche ma, alla fine, avevano compreso il mio modo di fare evasivo, e non avevano detto nulla. 

Prima o poi, avrei dovuto ripagarle in qualche maniera, visto quanto tenevano a me.

Sapevo di dover resistere ancora per poco.

I miei pensieri erano tutti concentrati su quell’unica missione: stare alla larga da Morgan Thomson.



 
***


Passeggiando tranquilla per la Oregon Coast Highway, Joy sorrise spontaneamente non appena raggiunse il negozio-clinica per animali del loro vecchio amico di famiglia.

Il dottor Craig Meson, veterinario provetto e grande appassionato di bird watching, era stato tra coloro che l’avevano condotta alla civiltà, diciotto anni prima.

Ricordava ancora il suo profumo e la sua risata imbarazzata, se ci pensava bene.

Con un allegro saluto e un cenno della mano, Joy entrò nel negozio a grandi passi e Sabine, la commessa, sorrise spontaneamente ed esclamò: “Ehi, Joy! Che bello rivederti! Ormai sei in partenza, eh?”

“Sì, manca poco” ammiccò la ragazza, dando un’occhiata veloce alle gabbie degli uccellini prima di chiedere: “Craig è impegnato?”

“E’ di là che si sta prendendo cura di un falco pellegrino. La forestale lo ha trovato con un’ala spezzata nel bel mezzo di una rete da bracconiere, e così lo ha portato qui” le spiegò Sabine, scuotendo accigliata il capo.

Adombrandosi immediatamente, Joy oltrepassò il bancone in direzione della porta scorrevole che conduceva alla clinica e, a mezza voce, disse: “Vado a vedere se posso essergli d’aiuto.”

Annuendo, Sabine celiò: “Hai un tocco magico, con gli animali. Sono sicura che si sentirà più tranquillo, se starai di là con lui.”

Joy si limitò a sorriderle, mentre spingeva di lato la porta a vetri fumé ed entrava nella clinica di Craig. 

L’interno era pulito e ben illuminato e, al solito, Joy infilò ai piedi dei copriscarpe di plastica per non portare all’interno del locale i batteri provenienti dall’esterno.

In fondo alla lunga stanza, ricolma di piani da lavoro, attrezzi operatori, vasche e gabbiette vuote, Joy intravide la sagoma ripiegata dell’amico.

Con un mezzo sorriso, si avvicinò e disse: “Ehi, Craig, ciao. Posso dare una mano?”

Sollevando il capo di corti capelli ricci color sale e pepe, Craig la salutò con un sorrisone dai denti bianchissimi.

“Ehi, bellissima! Ciao! Ho proprio bisogno del mio San Francesco personale. Vieni, dai.”

Joy ridacchiò per quel commento – Craig l’aveva sempre chiamata così, fin da quando l’avevano condotta nel negozio per la prima volta.

Avvicinatasi al tavolo operatorio in acciaio lucido, fissò spiacente il falco pellegrino stordito dall’anestesia, afferrò in fretta un paio di guanti sterili e chiese: “Riuscirai a sistemare la sua ala?”

“Fortunatamente, le remiganti non si sono rotte, e le ossa non hanno subito danni. Si trattava solo di una slogatura” le spiegò succintamente Craig, applicando una fasciatura attorno all’arto contuso. “Però, vorrei tagliare la gola a chi ha messo quelle maledette reti da uccellagione.”

Sfiorando il petto morbido del falco con un dito, Joy annuì debolmente, sussurrando: “Povero falchetto. Hai davvero rischiato grosso.”

Accennando un sorriso, Craig le domandò sornione: “Sempre sicura di voler dedicarti alla medicina? Non vuoi fare la veterinaria? Sei bravissima, con gli animali, e lo sai.”

“Preferisco dedicarmi alle persone, per stavolta, ma nessuno mi vieta di prendere una seconda laurea” ammiccò Joy, prima di vedere il capo del falco muoversi leggermente. “Si sta svegliando.”

“Tienilo calmo mentre io finisco la fasciatura” la pregò Craig, concentrato sulla benda che stava avvolgendo attorno all’ala  con mani abili.

Muovendo debolmente le labbra, Joy lasciò defluire dolci suoni ancestrali dalla bocca piegata in un sorriso.

Il falco, immobilizzandosi subito dopo aver sentito le prime note di quella musica senza tempo, restò tranquillo durante tutta la durata della medicazione. 

Craig, nel frattempo, ascoltò distrattamente il canto della ragazza prima di fissare il bendaggio e, soddisfatto, disse a Joy: “Ancora un po’, e finivo imbambolato come il falchetto. Quel tuo canto è davvero ipnotizzante. Mai pensato di fare la cantante?”

Scoppiando a ridere, Joy scosse il capo e, raccolto gentilmente il falco tra le braccia, lo condusse in una delle gabbie più grosse perché riprendesse le forze.

Sorridendo poi all’amico, che stava sistemando i bendaggi rimasti, celiò: “Uhm, quindi, dovrei essere un medico, un veterinario e una cantante?”

“Sì, sarebbe una carriera molto complessa, in effetti” sentenziò Craig con un risolino, chiudendo lo stipetto dei medicinali.

“Decisamente” esalò lei, avviandosi verso il negozio assieme a lui.

Fermatisi sul predello metallico che precedeva la porta a vetri, Craig si tolse i copriscarpe per gettarli nel cestino dei rifiuti, dopodiché aiutò Joy a fare lo stesso.

Insieme, poi, tornarono nel negozio sotto gli occhi curiosi di Sabine che, sorridendo a entrambi quando li vide ricomparire dalla clinica, domandò speranzosa: “Allora, tutto bene?”

“Lavoro perfetto” annuì Craig, indirazzando Joy verso un gruppo di gabbiette. “Guarda, questi parrocchetti sono arrivati giusto ieri. Non trovi che siano splendidi?”

Avvicinatasi con sguardo ammirato alla gabbia, Joy allungò un dito in direzione dei volatili che, come impazziti, cominciarono a cantare sonoramente.

Speranzosi, sollevarono i piccoli becchi verso l’alto, come per spingere più lontano i loro stridii gioiosi e convincerla così ad avvicinarsi ulteriormente. 

Le alette colorate si mossero come in una danza in sincrono mentre Joy, scrutandoli deliziata con le iridi smeraldine scintillanti di gioia, mormorava: “Sono davvero degli esemplari magnifici.”

Ridendo di fronte a quello spettacolo davvero più unico che raro, Craig esalò: “Sempre la stessa cosa. Ti adorano, ragazza.”

“E io adoro loro” replicò lei, cominciando a passeggiare tra le gabbie con aria trasognata, le dita che sfioravano delicate le gabbie metalliche.

Amava alla follia quel posto e, anche se non apprezzava appieno l’idea che suoi simili fossero rinchiusi nelle gabbie, sapeva che Craig si prendeva ottima cura di loro.

L’amico si era posto il sacro impegno di vendere i suoi animali solo a persone che ne fossero veramente degne. 

In questo, Craig era un vero indovino. Non aveva mai sbagliato un cliente, dacché lo conosceva.

Quel luogo profumava di pulito e di animali ben curati e tenuti e, anche se Craig non poteva saperlo, di amore. 

Gli animali erano chiaramente affezionati a lui, testimonianza prima di quanto li  accudisse correttamente e con generosità.

Era semplice farsi amare da loro, ma questo era difficile da far comprendere a molti esseri umani. 

Joy avrebbe tanto voluto che una cosa così semplice fosse universalmente conosciuta e riconosciuta, ma sapeva di stare pensando l’inimmaginabile. 

La mente dell’uomo sembrava non comprendere le cose più facili, e questo era sempre stato un mistero, per lei.

Proseguì lenta nella sua passeggiata tra gli scaffali ricolmi di gabbiette, dove piccoli uccellini multicolori si confondevano con cuccioli di cane dall’aria innocua quanto giocosa.

Incuriosita, si fermò per osservare affascinata un parrocchetto dal collare che, con gesti meticolosi, si stava pulendo il piumaggio verdeggiante. 

Tutta presa dai suoi movimenti precisi ed eleganti, la ragazza non badò allo scampanellio della porta d’ingresso né, tanto meno, ai passi ovattati che giunsero alle sue spalle.

Quando, però, un profumo a lei famigliare le giunse alle nari, Joy levò il capo di scatto e si volse a mezzo, ritrovandosi a fissare due iridi scure e un mezzo sorriso che ben conosceva.

Mordendosi un labbro per l’ansia – non poteva scappare da nessuna parte, lì dove si trovava – Joy deglutì a fatica e cercò di contenere la paura crescente.

A stento, riuscì a chiedere: “Morgan… che ci fai qui?”

Lui non le rispose, limitandosi a guardarla per un attimo prima di sorridere al parrocchetto verde e dire sommessamente: “Ti sta cercando. Hai distolto lo sguardo, e ora è geloso di me perché non lo consideri più.”

“Come?” esalò la ragazza, tornando a voltarsi verso l’uccellino che, ora lieto per aver riavuto la sua attenzione, cantò felice, sbattendo le ali pulite e perfettamente in ordine.

“Non ti sei accorta che ero in negozio, quando sei sbucata dalla clinica con il dottor Meson, così ti ho guardata in silenzio mentre giocavi con gli uccellini” le spiegò lui, usando sempre un tono di voce sommesso, come se non volesse spaventare gli animali presenti nelle gabbie… o lei. 

Lanciò un’altra occhiata all’impegnatissimo parrocchetto, prima di proseguire nel suo dire.

“Eri bellissima. Avevi uno sguardo così sereno, e gli uccellini semplicemente erano in tua adorazione. Hai un rapporto splendido, con loro.”

“Perché sei qui?” riuscì a chiedergli, nonostante fosse rimasta praticamente ipnotizzata dal suo tono di voce basso e roco.

“Ho portato il mio cacatua a fare un controllo” le spiegò con semplicità, avvicinando un dito al parrocchetto dal collare.

Subito, l’uccellino lo pizzicò debolmente e Morgan, aprendosi in un sorriso estasiato, sussurrò: “Sì, mi piaci anche tu, sai?”

Sempre più sorpresa da quel lato tenero e gentile di Morgan, che mai si sarebbe aspettata in un giovane grande e grosso come lui, Joy gli domandò con voce appena sussurrata: “Sei da solo?”

Con la fronte leggermente aggrottata, lui scosse il capo e mormorò a bassa voce: “Mio padre è fuori che mi aspetta in macchina. La mia è dal meccanico, e così sono dovuto ricorrere al gesto estremo di chiedere uno strappo fino in clinica.”

“Sicuro che sia fuori?” chiese per contro Joy, annusando attentamente l’aria senza farsi notare da Morgan. 

Appunto, come aveva sospettato. Il professore era in negozio.

Vagamente sorpreso dalla sua domanda, Morgan levò il capo dalla gabbietta e si mise in punta di piedi per oltrepassare con la testa lo sbarramento naturale opposto dagli scaffali.

Un attimo dopo, si abbassò in tutta fretta e disse in un sussurro: “Merda! E’ entrato a vedere che combinavo. Sicuro come l’oro. Non sopporta quando mi perdo in gloria come sto facendo ora.”

“Perché ti stai nascondendo?” gli domandò vagamente divertita, vedendolo tutto piegato e in cerca di un riparo ove infilarsi.

“Abbiamo litigato, prima di venire qui…” le spiegò succintamente, ghignando non appena vide un pertugio da cui defilare. “… e così non vorrei scatenare ire ulteriori perché sto parlando con te. Non voglio che mamma ci rimanga male, vedendoci arrivare a casa con un diavolo per capello.”

Piegatosi poi su un ginocchio, spostò un poco una gabbietta e, strizzandole l’occhio, sussurrò: “Non dire niente al dottore.”

Con un risolino, lei annuì e si accucciò a sua volta per seguirlo nel reparto accanto, che aveva uno sbocco in direzione dell’uscita del negozio. 

Sapeva di stare correndo un rischio, ma l’istinto le diceva di seguirlo e, nonostante il primo momento di ansia, ora si sentiva più tranquilla.

Anche se le spiaceva ammetterlo, era lieta di averlo incontrato. 

C’era qualcosa di stranamente giusto nel fatto di stare lì assieme a lui, accucciati a terra nel tentativo di non farsi vedere, complici nella fuga e in sintonia come due amici di vecchia data.

Era totalmente assurdo, ma si sentiva così, e la cosa le piaceva.

Muovendosi più agevolmente di Morgan, Joy sbucò dall’altra parte solo per ritrovarsi, suo malgrado, di fronte al rettilario, contenente un piccolo pitone albino.

Sapeva che quel serpente era in negozio – ne aveva sentito l’odore alla sua entrata – ma, presa com’era dalla presenza di Morgan, non si era resa conto di trovarsi a così breve distanza da lui.

Mostrando immediatamente i denti, non appena si ritrovò a fissare le sue iridi scure e lucide, Joy indietreggiò di un passo, andando a sbattere contro il torace di Morgan.

Vagamente sorpreso dalla reazione della ragazza, il giovane la avvolse protettivo con un braccio, circondandole la vita sottile e, gentilmente, le chiese: “Paura dei serpenti?”

Il pitone, dopo averla notata, levò fiero il capo e le mostrò la lingua biforcuta, spalancando poi la bocca pet mettere i mostra le sottili file di denti che in essa erano contenuti.

“Per la miseria!” esalò Morgan, fissando a momenti alterni lo scambio di sguardi tra la ragazza e il serpente. “Proprio non vi piacete, eh?”

“No” sibilò Joy, poggiando una mano sul braccio di Morgan che la stava proteggendo, o meglio, che le dava la forza per non scagliarsi contro il rettilario e uccidere il pitone.

Dio! Se l’avesse fatto, la signora Spencer – padrona del pitone – ne sarebbe stata mortalmente ferita, ma lei si sarebbe tolta una soddisfazione!

Era un fortuna davvero incredibile che Morgan fosse lì a distrarla! Assurdo da dire, ma era così.

“Grazie” disse a un certo punto Joy, tornando a respirare con più calma.

Il rettile, per diretta conseguenza, reclinò la testa prima di accoccolarsi tra le sue spire, gli occhi sempre puntati su di lei, ma non più in assetto da battaglia.

“Sempre pronto a difenderti” le disse sornione, male interpretando il suo ringraziamento.

Lei si limitò a sorridergli prima di scostarsi da lui e dirigersi verso l’uscita del negozio, tallonata dappresso da Morgan.

Senza averla mai lasciata andare, le stava ancora tenendo una mano con tocco lieve, e Joy non ebbe nulla da ridire in merito a quella piccola concessione.

Quando infine raggiunsero l’ultimo scaffale, che li divideva dalla porta d’entrata, Morgan la fece fermare e, portandosi dinanzi a lei, la guardò spiacente e disse: “Volevo spiegarti di quel giorno, allo Starbucks.”

Il ricordo le tornò infuocato alla mente, facendola trasalire.

In un flashback al rallentatore, rivide se stessa nell’atto di schiaffeggiarlo, mentre la bile le invadeva la bocca e i suoi occhi sprizzavano scintille di rabbia che non avrebbe dovuto provare. 

Sentendosi davvero una sciocca, reclinò il capo e sussurrò demoralizzata: “Non avrei dovuto darti uno schiaffo. Scusami.”

“No, non volevo che ti scusassi!” precisò lui, mordendosi nervosamente un labbro e passandosi una mano tra i riccioli corvini con fare ansioso.

Notando i movimenti frenetici dei suoi piedi, Joy rialzò lo sguardo per fissarlo vagamente confusa, chiedendosi il perché di tanta ansia.

Fu a quel punto che lui tornò a incrociare il suo sguardo, asserendo: “Senti, la ragazza che mi ha baciato, era mia cugina. Le piace scherzare e così, quando ci incontriamo, mi da sempre un bacetto. Niente di che, un’idiozia che ci tiriamo dietro da quando siamo bambini. Tutto qui. Non sto con lei, va bene?”

“Non sono affari miei, dopotutto” precisò Joy, pur sentendosi stranamente lieta della notizia e, soprattutto, del fatto che lui avesse voluto chiarirsi con lei.

“Cavoli, dopo che ho tentato di baciarti sulla spiaggia, ovvio che tu ti sia infuriata e ferita, quando un’altra donna otteneva quello che non hai avuto tu” celiò con un risolino Morgan. “Volevo solo che lo sapessi.”

“E perché?” chiese a quel punto Joy, suo malgrado intrigata da quella strana discussione.

“Perché non voglio che tu pensi che io sia uno scapestrato, sempre pronto a buttarmi tra le braccia della prima donna che incontro” le spiegò onestamente, tornando serio in viso.

“Torno a ripetertelo; non sono affari miei” sussurrò lei, pur sorridendogli.

Morgan parve non ascoltarla, perché sollevò una mano per carezzarle la guancia rosea e, con voce resa ancor più roca dal desiderio che sentiva prepotente dentro di sé, mormorò: “Non so cosa mi spinga verso di te ma, da quando ho incrociato il tuo sguardo, non faccio che pensarti. Non so nulla di te, o quasi…”

Al suo sguardo interrogativo, Morgan lanciò un’occhiata agli uccellini, e lei sorrise divertita.

Proseguendo dopo essersi schiarito la voce, lui aggiunse: “So così poco di te eppure, quel che so, mi piace. E capisco che anche tu non mi sei indifferente ma che, per qualche motivo, mi vuoi tenere lontano da te.”

“Senti, Morgan…” tentennò Joy, sentendosi prossima a un ennesimo cedimento. 

Il tocco leggerissimo della sua mano avrebbe potuto diventare ben presto simile alla dipendenza da una droga, per lei, se non avesse smesso alla svelta.

“Dimmi solo che non mi tieni a distanza per colpa di mio padre” volle sapere lui, afferrandole la nuca e affondando la mano nei suoi folti capelli ramati.

“No” si limitò a dire lei, imprigionata nelle sue iridi scure e tanto simili a ossidiane levigate.

Il sorriso che sorse sul viso di Morgan avrebbe potuto illuminare il cielo, tanto era brillante.

Con un movimento improvviso quanto inaspettato, calò sulla sua bocca per strapparle un bacio bruciante quanto breve.

Un attimo dopo, fu sostituito da un sussurro a fior di labbra, altrettanto rovente e altrettanto desiderabile.

“Grazie” le sussurrò, scostandosi per ammirarla in tutto il suo splendore.

Joy sapeva bene cosa, gli occhi di Morgan, stavano vedendo; il viso di una donna appagata, arrossato dalla passione appena risvegliata e desideroso di altro nutrimento.

In quel momento, avrebbe voluto ammazzarlo e farlo suo allo stesso tempo, ma non avrebbe ottenuto appagamento per nessuno dei suoi due desideri.

Il primo andava escluso a priori, così come il secondo, perché lei non poteva permettersi di pensarla a quel modo.

Abbozzando un sorrisino soddisfatto, Morgan dichiarò: “Lascerò a te la scelta, sempre, ma ti farò una corte così spietata che, alla fine, dovrai cedere.”

“Sto per andarmene. Vado a Harvard” ci tenne a precisare lei, pur trovando la sua insistenza molto piacevole.

“Oh, la fai difficile, allora” ridacchiò Morgan, sfiorandole il labbro inferiore con il pollice in una lenta, sensuale carezza.

Joy si sentì tremare tutta, a quel semplice tocco e il giovane, rendendosene conto, accentuò il suo sorriso e chiosò: “Non ti obbligherò a cedere al tuo stesso desiderio, e non mi importa se starai via degli anni. Io sarò qui, al tuo ritorno, e non avrò cambiato idea.”

“Non potremo mai stare insieme, Morgan” sospirò lei, scostando la sua mano dal volto, ma tenendola stretta tra le sue. “Non mi chiedere perché, ma è così. E’ impossibile.”

“Nulla è impossibile” replicò lui, ammiccando sicuro di sé.

Anche Rah lo ha detto, pensò tra sé Joy, sgranando leggermente gli occhi a quelle parole.

“Morgan, dove ti sei nascosto? Monet è a posto.” 

La voce di Oliver Thomson li raggelò entrambi, diffondendosi nel negozio come un monito di sventura, riportando entrambi i giovani nel mondo reale.

“Monet?” esalò Joy, sobbalzando quando udì la voce del professore.

“Te l’ho detto che dipingo” sogghignò lui, prima di sollevarle le mani, baciarne i dorsi setosi e aggiungere: “Ora ti lascio libera, ma la promessa rimane. Sarai mia, prima o poi.”

“Illuso” celiò la ragazza, sorridendogli nel nascondersi perché Oliver non la vedesse.

Morgan le strizzò l’occhio, più che mai convinto di uscirne vittorioso.

Un attimo dopo, sbucò dal corridoio dietro gli scaffali e disse: “Papà, sono qui. Stavo guardando un po’ di uccellini.”

Afferrando la gabbia che conteneva il cacatua bianco latte del figlio, Oliver si diresse verso di lui con aria accigliata, borbottando: “Non avrai intenzione di prenderne un altro, spero? Già non sei quasi mai a casa per prenderti cura di questo, figurarsi se…”

Bloccandolo sul nascere, Morgan dichiarò rabbioso: “Pensavo di regalare una coppia di cocorite alla mamma per il suo compleanno, tutto qui. Ora dammi pure Monet; tu lo spaventi, con il tuo tono troppo autoritario.”

Scettico, Oliver gli lasciò la gabbia e Morgan, dopo aver lanciato  un ultimo sguardo in direzione del corridoio dove sapeva trovarsi Joy, disse a mezza voce: “Io e Monet andiamo d’accordissimo, e non è vero che manco sempre da casa.”

“Sei un pompiere, Morgan e, notoriamente, i pompieri sono sempre in giro” brontolò Oliver nell’aprire la porta per uscire dal negozio.

“Lo dici come se andassi per le strade a cercare puttane da portarmi a letto” dichiarò schifato Morgan, chiudendosi alle spalle la porta del negozio, facendo così tintinnare rabbiosamente la campanellina sopra lo stipite.

Nuovamente al sicuro, Joy uscì dal suo nascondiglio e li osservò turbata mentre si allontanavano sul marciapiede, discutendo animatamente.

Sabine, dal bancone, chiosò divertita: “A me piacerebbe essere al posto di quel pappagallo, onestamente parlando.”

Volgendosi e fissandola con aperta sorpresa per alcuni momenti, Joy scoppiò a ridere di gusto ed esalò: “Ma… Sabine! E’ molto più giovane di te!”

“E chi se ne frega! Ma l’hai guardato?” ridacchiò Sabine, mentre Craig scuoteva il capo con aria falsamente esasperata. “E poi, quando è arrivato qui, era tutto preoccupato per il suo Monet, perché si era infilato una spina nella zampetta. Farsi curare da un uomo del genere, sarebbe un sogno.”

“Dio, Sabine!” esclamò Craig, scoppiando a ridere. “Se ti sentisse il tuo fidanzato, che direbbe?”

“Nulla. Dovrebbe solo tacere e mettersi a fare la stessa cosa che ha fatto Mister Perfezione” brontolò Sabine, facendo l’occhiolino a Joy, che ridacchiò di quella gag tra datore di lavoro e commessa.

“Ma sentitela, questa. D’accordo che Morgan Thomson tiene al suo uccello, ma addirittura chiamarlo Mister Perfezione!?” brontolò Craig prima di notare le risatine soffocate delle due donne, oltre ai loro volti paonazzi. “Beh, che ho detto?”

“Nulla, capo, nulla” sghignazzò ancor più forte Sabine, esplodendo in una fragorosa risata un attimo dopo.

Joy la seguì a ruota e, raggiunto che ebbe Craig, lo abbracciò strettamente e disse: “Non farci caso, Craig. Siamo due depravate alle prese con gli ormoni.”

Con uno sbuffo, Craig le carezzò il capo di capelli ramati, sogghignando per diretta conseguenza. 

“Mi domando cosa farà mia figlia, quando avrà la tua età.”

“BeeBee è dolcissima, e sarà una donna splendida” dichiarò Joy, prima di aggiungere: “Basta che tu non la stressi con le lezioni di danza.”

“Io non la stresso!” precisò piccato Craig. “O sì?”

Lei e Sabine esplosero in una nuova risata e Joy, tornando ad abbracciarlo, sussurrò: “Ti voglio tanto bene, Craig!”

“Meglio, perché te ne voglio anch’io, tesorino” ridacchiò l’uomo, prima di chiederle: “Sbaglio, o tu e il giovane fusto vi conoscete?”

“Ehm… già” ammise dopo un momento Joy, fissandolo con il dubbio e la paura negli occhi.

“E tuo padre lo sa?” ammiccò Craig, facendosi malizioso.

“Non è come pensi, ci tengo a dirlo!” si affrettò a negare Joy, scuotendo con foga le mani dinanzi al viso.

Craig e Sabine la fissarono scettici e la giovane, sconsolata, reclinò il capo e mormorò sconfitta: “Vi prego, non mettetegli in testa che un ragazzo mi viene dietro, altrimenti impazzirà del tutto. Già è in ansia per Harvard.”

“Pover’uomo, ha tutta la mia comprensione” ridacchiò Craig, dandole una pacca sulla spalla.

“E comprensione per me non ce l’ha nessuno?” esalò Joy, guardandoli con occhi supplichevoli.

“Tutta quella che vuoi, bambina” disse con un sogghigno Craig, aggiungendo un attimo dopo: “Ma, prima, devo mostrarmi solidale con tuo padre.”

“Ecco, lo sapevo” brontolò Joy.


 
***


Non sono mai riuscita a spiegarmi le reazioni di quel giorno, al negozio di Craig e, soprattutto, non ho mai compreso perché io mi sia lasciata baciare da Morgan.

Forse, perché era riuscito a tranquillizzarmi un poco, forse perché ero completamente frastornata dalla sua presenza da non riuscire neppure a ribellarmi al suo tocco.

Fatto sta che quel bacio era arrivato, lasciando dietro di sé strascichi a lungo, lunghissimo termine.

La sera della festa sulla spiaggia, bardati come pinguini per il gran freddo, mi ero guardata intorno per tutto il tempo, chiedendomi se l’avrei rivisto.

Al tempo stesso, però, mi ero chiesta come fare per evitarlo.

Impegnata in quel caos di rifiuto e desiderio, che frullava nella mia testa iperattiva, lui era comparso in divisa da lavoro. 

Con il suo giubbotto scuro a righe fosforescenti, i pantaloni ignifughi e gli stivaloni di cuoio, tutto preso dalla visione dei fuochi d’artificio, mi era parso una creatura perfetta.

Affiancato da un uomo dai capelli brizzolati, alto e magro, tutta fibra e forza di volontà, Morgan non aveva perso di vista neppure per un momento lo svolgersi delle operazioni.

A momenti alterni, aveva scambiato qualche parola con il suo capo, il capo illuminato dai colori fluorescenti dei fuochi d’artificio.

Io li avevo fissati per tutto il tempo, ipnotizzata più dalla sua presenza, che dallo spettacolo pirotecnico che andava via via sviluppandosi sopra la mia testa.

Era stato a quel punto che una sconcertante consapevolezza mi aveva colpito.

Quegli occhi scuri, immersi nella notte stellata, quando la camionetta dei pompieri era sfilata davanti a me e Alex prima della festa da ballo, non erano altro che quelli di Morgan.

Io avevo visto lui. Lui aveva visto me.

E tutto si era sviluppato da quel semplice sguardo nella notte.

 

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Capitolo 12
*** cap. 12 ***


12.
 
 
 
 
Avevo sempre saputo che Brian era il più scapestrato e frenetico dei miei tre cugini.

Che decidesse, però, di entrare nell’FBI alla fine dell’università, quello non me lo sarei mai e poi mai aspettata.

Tutti noi avevamo pensato che si sarebbe arruolato in qualche corpo militare.

Era sempre stato attratto dalla vita che conduceva il padre del suo migliore amico Roy, che era un colonnello dei Marine degli Stati Uniti d’America.

Invece, alla fine di settembre, poco prima di rientrare all’università di Berkeley, ci lanciò quella bomba, a sorpresa, senza che noi fossimo minimamente preparati.

Non che vi fosse nulla di male nell’entrare all’FBI – era al servizio della patria, come aveva sempre desiderato fare – ma la cosa mi fece venire la tremarella, e per più di un motivo.

Di certo, non mi aspettavo di veder comparire Mulder e Scully* davanti alla mia porta di casa, ma saperlo invischiato in quell’universo pieno di segreti, mi fece sentire a disagio.

Facendo buon viso a cattivo gioco, mi congratulai con lui per la scelta fatta e gli augurai ogni bene, mentre il resto della famiglia faceva lo stesso.

Alex, messo al corrente tramite telefono – era impegnato in una causa piuttosto importante – chiese al fratello se, per caso, fosse diventato matto.

Ridendo di gusto di fronte alla furia di Brian, gli fece a sua volta i suoi migliori auguri, dichiarandosi curioso di vederlo in giacca e cravatta scuri.

Brian nicchiò di fronte alle sue battutine di spirito, dicendosi più che convinto della sua scelta.

Ci disse di aver già preso contatti per partecipare ai corsi di formazione a Quantico, in Virginia, prolungando così – e di molto – la sua permanenza fuori casa.

Sperai soltanto che lo mandassero nel più vicino ufficio disponibile, anche soltanto a distribuire scartoffie.

L’idea di saperlo in giro per gli Stati Uniti, lontano da tutti noi, mi rattristò.

A ogni buon conto, non stava partendo per la legione straniera, né stava entrando in una setta religiosa, perciò in qualche modo avremmo continuato a vederci.

Sperai ardentemente non su fronti opposti.


 
***

 
Le valigie erano ormai pronte, il cappotto color cammello ben disteso sul letto, le scarpette da ginnastica ai piedi, il maglione d’angora sulle spalle e i jeans neri già indossati da un po’.

Non le mancava nulla, forse solo un po’ di coraggio per affrontare le facce sconsolate di suo padre e di suo zio.

Erano in salotto da un po’, e attendevano falsamente tranquilli di poterla accompagnare all’aeroporto per partire alla volta di Cambridge, nei pressi di Boston.

Là, Joy avrebbe conosciuto la sua futura compagna di stanza al dormitorio. Non sapeva nulla, di lei, e l’idea di conoscere una persona nuova, era per lei fonte di aspettativa.

A Harvard, avrebbe iniziato il suo percorso formativo verso la sua prima missione in quella sua nuova incarnazione.

Sentiva pressante il bisogno di una nuova istruzione, di conoscere nuovi sistemi per guidare verso la luce le anime corrotte dal male e dall’orrore che voleva salvare.

L’aria era ormai satura di odio già da tempo, lo sentiva sulla pelle come un pizzicore fastidioso, ma non riusciva a comprendere da dove provenisse con esattezza.

Era come se la circondasse, come se non avesse un luogo preciso d’origine, e la cosa le era parsa strana fin da quando aveva avvertito quel pericolo dentro di sé.

Nel bene e nel male, aveva sempre potuto captare la parte oscura dell’uomo quando essa diveniva così imponente e malvagia da essere raccolta dai suoi sensi all’erta.

Come ogni volta, aveva cercato di supplire al dolore con il suo intervento.

Non poteva mutare il corso degli eventi, non era in suo potere.

Poteva, però, portare serenità e gioia a quante più persone possibili dopo un tragico evento o un’atroce fatalità.

Sentiva senza tema di sbagliare che, intorno a sé, i semi del male erano pronti a dare frutto.

Se solo avesse capito dove! Le era così difficile comprendere la natura di quella nuova oscurità!

“Joy, sei pronta?” intervenne la voce pacata della madre a riscuoterla da quei foschi pensieri.

Raddrizzata la schiena e afferrato il manico del suo trolley nero, Joy si drappeggiò sul braccio libero il cappotto pesante e raggiunse la madre in corridoio.

La donna, sorridendole benevola, le carezzò una guancia dicendole: “Preparati per i piagnistei, tesoro.”

“Sono pronta” sogghignò Joy, avanzando insieme a Mel, che le circondava le spalle con un braccio.

Non appena ebbero raggiunto il salotto, dove zio Peter e zia Beth erano seduti sul comodo divano a tre posti in alcantara marrone chiaro, Joy li salutò con un sorrisone allegro.

Suo padre, sospirando, borbottò contrariato: “Come fai a sorridere così?”

“Semplice, papà. Non sto andando a rinchiudermi in una grotta per non uscirne mai più. Sto andando all’università, come quasi tutti i giovani d’America” replicò bonaria Joy, dandogli di gomito. “Stephen e già partito?”

“Ci aspetta fuori, in macchina. Aveva talmente sonno, che si è sdraiato sul sedile posteriore per schiacciare un pisolino” ridacchiò zia Beth, sollevandosi in piedi per andare ad abbracciarla.

Poggiato il viso sul suo morbido seno, Joy abbracciò la zia con calore, sussurrandole: “Mi mancherai, zia Beth.”

“E tu mancherai a noi, cara” replicò la donna, mentre il marito fissava la nipote con occhi liquidi.

“Avete del cemento al posto del cuore” brontolò Peter, guardando Beth e Mel senza riuscire a comprenderne i sorrisi soddisfatti e orgogliosi.

“Abbiamo sposato delle virago” si unì al coro Richard, intrecciando le braccia sul torace con espressione accigliata.

“Esagerati!” mormorò Mel, ridacchiando.

Joy fissò il padre e lo zio, chiosando allegramente: “E’ che sono una donna, e voi pensate di dovere continuare a difendermi in eterno. Ma io so il fatto mio, e nessuno mi metterà i piedi in testa.”

“E se dovessero farlo, ci penseremo noi a far cambiare idea a chi oserà tanto” sentenziò lapidario suo padre, abbracciandola strettamente. “Stai attenta, al campus, e non girare mai da sola, specialmente di notte.”

“Ho lo spray al peperoncino nella valigia” le ricordò Joy con un sorrisino. E un arsenale da battaglia degno dell’esercito degli Stati Uniti, aggiunse poi tra sé, pensando ai suoi poteri di Fenice.

“Sarà bene che lo porti sempre con te” si raccomandò Richard,  prima di lasciare che anche il cognato potesse abbracciare la nipote.

Quando finalmente lo scambio di saluti si esaurì, Joy si diresse verso la porta, subito seguita dalla sua famiglia e dagli zii.

La Volvo Station Wagon grigia dello zio era parcheggiata a poca distanza dal cancello d’ingresso e dentro l’auto, semi sdraiato sui sedili posteriori, dormicchiava tranquillo e pacifico Stephen.

I lunghi capelli castano chiari erano sparpagliati sul suo viso, conferendogli un’aria docile e gentile. Quasi infantile.

Con un sorriso spontaneo, Joy si diresse verso l’auto mentre Beth e Mel si fermavano sulla soglia di casa per osservarli.

Dopo aver sistemato il trolley nel baule dell’auto, aprì la portiera e tirò un po’ i pantaloni di Stephen per svegliarlo, dicendo sommessamente: “Ehi, Steve! Sveglia.”

Scrollandosi come un grosso orso buono – Stephen aveva fatto per anni lotta libera, a scuola, confezionando un fisico di tutto rispetto – il cugino le sorrise non appena la inquadrò nel suo spettro visivo.

Fissandola con i suoi limpidi occhi azzurro cielo, si scostò per lasciarla salire ed esclamò: “Ehi, cuginetta. Ciao! Pronta per la nuova avventura?”

“Prontissima” annuì lei, sedendosi accanto a lui mentre zio Peter si metteva alla guida e Richard saliva sul sedile del passeggero, al suo fianco.

Salutate mamma e zia con un cenno della mano, mentre la Volvo V70 si avviava lungo la via, Joy tornò a fissare il cugino e chiese: “Lily è ancora nei tuoi stessi corsi, quest’anno?”

“Direi di sì. E potrei anche pagare il rettore per averla con me, se così non fosse” ridacchiò Stephen, pensando all’amica-fidanzata-non-fidanzata.

Vista la sua proverbiale timidezza, era parso a tutti loro quasi sconcertante che Stephen fosse riuscito a trovare una ragazza – che, tra le altre cose, lui si ostinava a non voler chiamare così.

La corsa era parsa addirittura assurda, quando il giovane aveva descritto loro come fosse Lily.

Se Stephen era serio, pacato e controllato – e, in questo, la lotta lo aveva aiutato molto – Lily era agitata, goliardica e chiacchierona.

Joy aveva avuto il piacere di conoscerla l’estate precedente quando, durante le vacanze estive, la ragazza si era presentata a Lincoln City a sorpresa.

Aveva sostenuto con garbata testardaggine che, diversamente, Stephen non avrebbe mai avuto il coraggio di presentarla alla sua famiglia.

Joy era rimasta non solo piacevolmente sorpresa di conoscere una ragazza così spigliata e simpatica, ma anche estasiata di fronte a un’autentica conoscitrice dell’Egitto quale sembrava essere la giovane.

Durante un divertentissimo pigiama party, che Joy aveva voluto organizzare assieme alle sue amiche per darle il benvenuto, Lily aveva visto i suoi schizzi sulle piramidi di Giza, ammirandoli estasiata.

E lanciandosi, un attimo dopo, in una disquisizione sull’Egitto degna soltanto di Zahi Hawass**.

Naturalmente, Margot, Kelly e Aileen ne erano rimaste a dir poco scioccate, ma Joy si era rallegrata nel sentir parlare di un argomento, e di un mondo, a lei così caro.

Lily si era sperticata in lodi su quell’universo fantastico e ricco di magia finché, con una risata, si era scusata con loro per quella lezione da accademia di belle arti.

Joy l’aveva adorata fin dal primo momento e, a giudicare da come Stephen sorrideva al solo parlarne, era più che evidente che nulla avrebbe potuto separarli.

Con un gran sorrisone, Joy appoggiò il capo contro la spalla di Steve che, avvoltole le spalle con un braccio, le promise: “Te la saluterò, va bene?”

“Graaazie!” esclamò Joy, tutta contenta.

Adorava sempre di più quella ragazza, e non vedeva l’ora di rivederla.

“Perché non la inviti da noi per le vacanze di Natale?”

Un bel color vermiglio si dipinse sul volto affascinante di Stephen che, passandosi una mano tra i chiari capelli con fare nervoso, sbuffò: “Non siamo ancora partiti, e già pensi a Natale?”

“Sarebbe carino” intervenne suo padre Peter, infilandosi sulla Oregon Coast Highway in direzione del Siletz Bay State Airport, a sud di Lincoln City.

Lì, avrebbero preso un piccolo volo locale per raggiungere il più importante aeroporto di Seattle.

Una volta raggiunta la capitale dello Stato di Washington, si sarebbero imbarcati sui rispettivi voli per raggiungere l’UCLA – dove studiava Steve – e Boston.

Uno sbuffo infastidito e un rossore ancora più acceso seguirono le parole di Peter e Joy, dando una stretta affettuosa a una mano del cugino, sussurrò: “Ti lascerò in pace, tranquillo.”

“Non è per quello, è che…” tentennò lui, non sapendo bene cosa aggiungere, ma sembrando davvero desideroso di aprirsi in qualche modo con lei.

Sollevatasi dall’appoggio caloroso offerto dalla spalla di Steve, Joy gli diede un bacio sulla guancia, mormorando: “Ci sarò sempre per te, Steve, lo sai questo, vero?”

Un sorrisetto e un cenno d’assenso.

“So che tu e Alex avete un rapporto speciale, ma non ci hai mai fatto mancare il tuo affetto” le disse sinceramente, e con un sorriso carico di amore fraterno. “Quando me la sentirò, sarai la prima con cui parlerò.”

“Grazie della fiducia.”

“Mai parlare con il proprio padre, eh?” commentò ironico Peter, mentre Richard sghignazzava divertito.

“Non ci penso nemmeno, papà. Tu non sapresti mantenere un segreto neppure se ti sigillassero la bocca con il mastice” sentenziò ironico Steve, dando di gomito alla cugina.

Joy, a quel punto, si esibì in un sorriso angelico a tutto beneficio di Peter, che li stava guardando di traverso dallo specchietto retrovisivo centrale dell’auto.

“Mooolto, davvero molto spiritoso, ragazzo. Niente da dire.”

Cambiò alla svelta marcia non appena si ritrovò di fronte al semaforo giallo e, mentre quello rosso compariva a sostituirlo, si udirono in lontananza le sirene dei pompieri.

Subito, Joy rizzò le orecchie e si rattrappì contro Steve, nascondendo il viso contro il suo braccio.

A tutta velocità, e incurante del semaforo rosso, una camionetta color rubino attraversò l’incrocio, mentre le auto si fermavano per dare loro la precedenza.

Con un fischio fastidioso, subito sostituito da una lunga scia di suoni più attenuati, il mezzo li superò, facendo ondeggiare leggermente l’auto.

Mezzo miglio dopo, si piegò in una curva quasi impossibile, per poi scomparire alla loro vista come se non fosse mai esistita.

A pochi secondi di distanza, ben più lenta ma altrettanto rumorosa, la sirena dell’autopompa si fece sentire in tutta la sua stentorea presenza.

Come in precedenza, tutte le auto rimasero ferme per lasciar passare i vigili del fuoco che, a un primo sguardo, parvero davvero di fretta.

“Se quelli della Rescue Co. arrivano interi, sarà già un successo” commentò Richard, distrattamente. “Quell’autista ha fatto una curva ai limiti delle leggi della fisica, con quel Rover.”

Joy, che non aveva detto una sola parola da quando aveva udito le sirene stridere tutt’intorno a loro, divenne un tantino pallida alle parole del padre.

Steve, rafforzando la stretta sulle sue spalle, si piegò sul suo orecchio per sussurrarle: “Ehi! Tutto bene?”

Lei riuscì in qualche modo ad annuire, terrorizzata all’idea che, su quella camionetta, vi fosse Morgan.

Il pensiero che stesse andando incontro al pericolo, era troppo, perché riuscisse anche solo a spiccicare parola.

Gli occhi chiari di Steve la sondarono come a voler sapere altro ma, quando Joy sollevò i propri per incontrare quelli del cugino, ogni parvenza di curiosità scomparve da quelle iridi color cielo.

Un leggero sorriso suggellò il silenzioso segreto che intercorse tra loro e, senza chiedere altro, Steve la scrollò leggermente per darle forza e sostegno.

Joy non poté che ringraziarlo con lo sguardo.

Sapeva che era curioso di sapere i perché della sua paura, ma era stato così garbato da non chiederle nulla, rispettando i suoi silenzi.

Venne il verde e l’auto tornò a muoversi, mentre gli ultimi residui delle sirene si udivano sempre più distanti, in direzione dell’ hinterland di Lincoln City.

Il traffico di autovetture tornò normale, come se nulla fosse accaduto.

Joy sperò soltanto che non accadesse nulla di male a Morgan e a tutti i suoi compagni.

Mentre gli edifici diventavano solo macchie indistinte ai suoi occhi, la ragazza seppe con certezza che, abbandonando Lincoln City, non stava abbandonando i suoi sentimenti per Morgan.

Ogni qualvolta avesse sentito la sirena dei pompieri – che, tra l’altro, avevano una caserma proprio nei pressi dello studentato di Harvard – le sarebbero tornati in mente gli scuri occhi del giovane e il suo bacio divorante.

Qualsiasi cosa lei avesse tentato di fare per impedirselo, sarebbe stato vano. Già lo sapeva.

Senza neppure vederlo, era quasi svenuta dal panico. Questo non deponeva certo a suo favore.

Vedere il cartello di Lincoln City che augurava loro ‘Arrivederci’ non contribuì di certo a darle una mano.

Dopo averlo seguito con gli occhi fin quasi a torcere il collo nel tentativo di vederlo fino all’ultimo, sospirò e tornò ad appoggiarsi alla spalla di Steve.

Silenzioso al pari suo, il cugino la tenne stretta fino a quando raggiunsero l’aeroporto di Siletz Bay.

Lì, parcheggiato che ebbero l’auto, scaricarono i trolley dal bagagliaio e si diressero verso uno dei bassi caseggiati dove si potevano ritirare i biglietti.

Poche altre persone erano presenti quella mattina, in quel piccolo aeroporto di provincia circondato da fitta boscaglia.

Quasi in trance, Joy seguì la sua famiglia ed eseguì meccanicamente quel che doveva fare, senza prestare la minima attenzione ciò che la circondava.

La sua testa era da tutt’altra parte, ancorata all’immagine di quella camionetta come un koala alla propria mamma.

Sperava, desiderava che lassù non vi fosse Morgan e, al tempo stesso, si dava della sciocca per quell’assurdo pensiero.

Se il giovane aveva deciso di fare quel mestiere, nonostante avesse poco più che vent’anni, doveva aver avuto le sue buone ragioni.

Di sicuro, non avrebbe corso rischi inutili.

Inoltre, non poteva sperare che lui non facesse il suo mestiere, e solo perché lei era terrorizzata a morte per la sua incolumità.

Doveva togliersi dalla mente alla svelta quel pensiero e, soprattutto, non doveva più pensare a lui o, quanto meno, doveva darsi una limitata.

Era imperativo, per lei, rimanere concentrata sul suo dovere, non crogiolarsi per ore, pensanso al suo bel viso, o la sua voce roca o…

“Maledizione!” ringhiò a bassa voce mentre si dirigeva verso la pista assieme a Steve.

Ci era ricascata.

Nel tentativo di non pensare a lui, era invece finita invischiata nella marea di immagini che il suo cervello, fin troppo attento, aveva registrato con meticolosità quasi maniacale.

Stephen si volse a mezzo per guardarla, sinceramente stupito nel sentirla imprecare e, a mezza voce, le chiese: “Credo che tuo padre ci sia rimasto male, quando l’hai salutato, poco fa. Dove avevi la testa?”

Sgranando gli occhi, Joy esalò un singulto disperato e si bloccò a metà di un passo per guardarsi indietro, l’espressione sconvolta e sensi di colpa grandi come il Texas.

Lontano, al confine della pista e vicino ai caseggiati da cui erano usciti senza che lei neppure se ne fosse resa conto, le figure indistinte di Richard e Peter li osservavano da lontano.

Un lento quanto inarrestabile tremolio le riverberò nel corpo e Steve, dandole una pacca sulla spalla, le sussurrò: “Qualunque cosa ti abbia turbata, loro non c’entrano nulla. Vai a salutarli. Tanto, alla partenza manca ancora un po’.”

Senza dire nulla, Joy annuì e cominciò a correre loro incontro, mentre Richard estraeva le mani dalle tasche e si piegava lievemente nella sua direzione.

Mentre la distanza che li separava si faceva sempre più ristretta, i suoi occhi si inumidirono a tal punto da non renderle quasi possibile vedere il volto del padre.

Quando ne percepì il calore e l’affetto, però, non si curò di vederlo, le bastò allungare le braccia e lasciare che lui la accogliesse accanto a sé.

In un attimo, il suo cuore le rimbalzò contro il petto allo stesso ritmo di quello del padre e, in un singulto strozzato, esalò: “Papà… scusa!”

Le sue braccia la avvolsero come un bozzolo protettivo mentre la sua voce, resa roca dall’emozione a stento trattenuta, la accarezzò teneramente, dicendo: “Non mi devi nessuna scusa, tesoro. Sei un po’ agitata, tutto qui.”

Ero da tutt’altra parte, molto peggio, pensò tra sé Joy, mentre si lasciava cullare dalle braccia forti del padre.

Peter le carezzò gentilmente i capelli, soggiungendo: “Possiamo capirti, piccola, non preoccuparti.”

Sempre stretta al padre, Joy volse il capo per fissare lacrimevole il viso dello zio e, scuotendo debolmente il capo, replicò: “Non dovevo farlo, punto e basta.”

I due uomini si limitarono a ridacchiare e Joy, felice di vederli nuovamente sereni, si scostò appena per dire loro: “Mi mancherete tantissimo. Appena arriverò in dormitorio, vi chiamerò. A qualsiasi ora io arrivi.”

“E tu ci troverai svegli, promesso” dissero quasi in coro i due uomini.

“Siete il papà e lo zio migliori del mondo” ridacchiò Joy, riuscendo finalmente a scostarsi dalle braccia del padre, portando con sé parte del suo piacevole tepore.

Peter e Richard risero tra l’imbarazzato e l’orgoglioso e Joy, dato loro un bacio ciascuno, sorrise nuovamente tranquilla e tornò sui suoi passi dopo un breve saluto con la mano.

Non appena raggiunse il cugino, gli prese la mano e insieme a lui si avviò verso la scaletta dell’aereo.

Stephen, trovandola più serena, le chiese: “Va meglio, ora?”

“Decisamente sì.”

Sollevò il viso a sorridergli, mentre il sole si liberava di alcune nubi dispettose per illuminarli pienamente.

“Non ti avevo mai vista perdere la bussola a quel modo. Sicura di essere pronta per la partenza?” le domandò a quel punto Stephen, premuroso.

Volesse il cielo che il problema si limitasse a semplice tremarella pre-università!, pensò Joy, sospirando mentalmente.

“Sto benissimo, tranquillo. Solo un momentaneo cedimento. Dopotutto, non sono di marmo” sogghignò Joy, dandogli di gomito.

“No di certo” assentì lui, afferrando per primo il corrimano per salire le scalette.

Una lieve brezza si levò da ovest, portando loro il profumo del mare poco distante.

Tornando per l’ultima volta a scrutare le piccole figure in lontananza di Peter e Richard,  Joy sperò con tutta se stessa di non crollare una seconda volta come era successo quel giorno.

 
***

 
Non mi ero neppure resa conto di ciò che avevo fatto. O non fatto, per la precisione.

L’appunto di Stephen mi aveva scioccato al punto tale da chiedermi se, il mio cervello, non fosse diventato una specie di molliccia e inutile presenza all’interno della mia scatola cranica.

Forse, non era più in grado di rendersi utile a qualcosa, se non per commettere sciocchi errori e ancor più sciocche gaffe.

E tutto perché avevo visto una pattuglia di vigili del fuoco, tra cui non ero neppure sicura vi fosse stato Morgan.

Dire che ero preoccupata per le mie reazioni, era un eufemismo.

Credere di stare per impazzire, era una cosa molto reale.

Sperare di non dare di matto, cominciava a sembrarmi un’impresa davvero ardua.

Volere smettere di comportarmi così, era un imperativo.

E pareva che nessuna delle cose sopra elencate fosse di facile soluzione o, almeno, qualcosa di risolvibile a breve termine.

Ero spiazzata, del tutto impreparata a un simile sconvolgimento emotivo.

Sentire quelle sirene aveva avuto lo stesso effetto di un dito pigiato sul pulsante off che, evidentemente, avevo nel mio cervello.

Mi ero spenta. Ero diventata né più né meno che un automa.

Respiravo, sbattevo le ciglia, camminavo. Tutto qui.

Un po’ poco davvero, per una Fenice.

E tutto per colpa di quel… oooh, non avevo neppure il coraggio di dirlo.

Beh, di quell’umano dallo sguardo capace di trafiggerti l’animo, e il sorriso in grado di sciogliere un ghiacciaio dell’Everest.

Ecco, l’avevo ammesso.

Non che fosse quel gran risultato, a conti fatti, ma almeno potevo imprecare tra me e me, di fronte alla mia totale idiozia.

Messa al tappeto da un comune essere umano, che aveva doti divine nel sangue come io avevo capelli neri in testa.

Ero avvilita, infuriata, frustrata.

In parole povere, mi stavo comportando come un’umana al 100%, e per la prima volta in tutte le mie tante incarnazioni.


 



§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§

 

* Mulder e Scully sono due personaggi inventati della serie X-Files, e sono, per l’appunto, due agenti segreti dell’FBI.

** Zahi Hawass è un egittologo di fama mondiale.

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Capitolo 13
*** cap. 13 ***


13.
 
 
() accompagnata da un volo di tortore,
 giunge dall'Arabia in occasione della morte
 del suo genitore, portando con sé i resti del
 corpo del padre imbalsamati in un uovo di mirra,
 per depositarlo sull'altare del dio del Sole e bruciarli.
 Parte del suo piumaggio è color oro brillante, e parte
 rosso-regale. E per forma e dimensioni assomiglia
 più o meno ad un'aquila.()              
  -Erodoto-
 
 

Gli alti colonnati bianchi della biblioteca di Harvard si stagliavano dinanzi a me, imponenti e pieni di forza.

Sorreggevano l’intera struttura, proteggendo le miriadi di librerie che, infinite, si estendevano le une dopo le altre, contenendo il sapere del mondo.

Vi erano così tanti testi, e in così tante lingue che forse, neppure io che tante vite avevo vissuto, avevo mai avuto accesso a una così variegata conoscienza.

Il brusio che si udiva era così tenue che solo le mie orecchie potevano coglierlo.

Quelle voci parlavano di libri trattati con cortesia, sfogliati senza fretta, esaminati con cura e destreggiati con abilità da chi, per anni, se ne era preso cura.

Il profumo dei fogli antichi e delle copertine di cuoio ormai consunte, si confondeva con quello degli studenti, delle loro gomme da masticare e delle loro acque di colonia.

E in tutto quel marasma di forme, colori e storia centenaria, mi ritrovavo io.

Harvard.

Pur avendone studiato meticolosamente la piantina, mi ero sorpresa nel ritrovarmi in quella che, a tutti gli effetti, poteva apparire una piccola città.

Le passeggiate tra i parchi perfettamente tenuti collegavano le varie strutture e, immersa in quella pace d’altri tempi, era stato per me  un piacere quasi insperato iniziare i miei studi.

Prendere confidenza con la moderna medicina e la traumatologia d’urgenza, mi aveva infuso nuovo desiderio di conoscenza.

Quando avevo espresso il mio desiderio di intraprendere quel genere di studi, la mia professoressa di medicina interna mi era parsa sorpresa.

Forse, la mia decisione l’aveva spaesata ma, con il passare dei mesi, si era convinta delle mie intenzioni e aveva perorato la mia causa con gli altri docenti.

Naturalmente, i voti erano stati alti fin dall’inizio – studiare non era mai stato un problema, per me.

Il mio cervello poteva immagazzinare qualsiasi cosa io gli proponessi, perciò avrei potuto laurearmi anche in due anni, se lo avessi desiderato.

E, se lo avessi fatto davvero, avrei battuto il record di Alex, che aveva completato gli studi in tre anni.

Stupido, come pensiero, ma mi era balenato nella mente più di una volta.

Alla fine, Alex mi aveva parlato della donna che tanto gli faceva battere il cuore.

Con mia grande sorpresa, avevo scoperto trattarsi di una sua collega di lavoro e che, cosa abbastanza curiosa, litigava puntualmente con lei su ogni cosa.

Persino sul gusto delle ciambelle da portare al mattino, in ufficio.

Figlia di Harvard come sognavo di diventare io, Susan Sheridan – questo era il suo nome – non faceva che dibattere con Alex su quel tasto in particolare.

Mio cugino, infatti, si era laureato a Yale.

Susan aveva portato la rivalità tra quelle due scuole a livelli tali che Alex non si sarebbe mai potuto immaginare.

Nonostante quelle punzecchiature continue, lui non poteva che trovarla affascinante.

Gli avevo chiesto di mandarmi una foto via e-mail, e così avevo scoperto che Susan era una stupenda ragazza dai corti capelli biondi tagliati alla paggetto.

I profondi occhi grigio ghiaccio, apparentemente freddi, erano dotati di una luce così sfolgorante da poter essere notata persino da una semplice immagine al computer.

Mi ero congratulata con Alex, ma solo per sentirlo ridere e dirmi che, con lei, lui non avrebbe mai avuto alcuna speranza.

La ragazza in questione, infatti, sembrava non degnarlo di uno sguardo se non per punzecchiarlo, o per mandarlo a sbrigare
commissioni di cui non voleva neppure sentir parlare.


Dopo quasi un anno passato all’università senza mai poterci vedere, avrei finalmente rivisto la mia famiglia e Alex,

Una volta che fossimo stati sotto lo stesso tetto, gli avrei ricordato alcune questioni basilari sull’essere ‘femmina’.

Perché quel comportamento tutto mi sembrava, tranne quello di una persona non interessata.

 
***

 
Sdraiate sulla sabbia della spiaggia che avevano raggiunto percorrendo la Southwest Anchor Avenue, Joy e le sue amiche si stavano godendo gli ultimi scampoli di estate.

Dopo aver passato un paio di settimane in giro per Seattle e dintorni, in compagnia di alcune ragazze conosciute all’università, erano infine tornate a Lincoln City.

Alex, Stephen e Wayne, un loro amico, sedevano a poca distanza da loro, impegnati a rinchiudere quel che rimaneva del loro pic-nic all’interno delle sacche frigo.

I ‘fidanzati inseparabili’ delle amiche di Joy si erano dileguati dopo l’iscrizione al college, ma nessuna di loro sembrava particolarmente sconvolta da quella mancanza.

Prese com’erano dal sondare i nuovi territori che si erano aperti dinanzi a loro, con il cambiamento di scuola, la mancanza di un uomo era proprio l’ultimo dei loro pensieri.

Joy le ascoltava divertita, ridendo delle loro avventure e sapendo bene quanto, invece, le sue amiche non dovessero affrontare quell’argomento in particolare con lei.

Non che la ragazza avesse vietato espressamente loro di parlare di maschi con lei, ma parevano aver capito che, quella cosa in particolare, la metteva a disagio.

Forse non sospettavano che il problema iniziasse e finisse con Morgan, ma avevano compreso che quella faccenda sarebbe rimasta tabù fino a che lei non avesse deciso per il contrario.

Sapeva, per bocca di Craig, che il ragazzo era passato un paio di volte dal negozio per prendere del becchime per Monet.

In quelle occasioni,  e con giri di parole infiniti, aveva posto alcune domande a Sabine per sapere se l’avessero vista e se sapessero come lei stesse.

Naturalmente, lei era stata ben attenta a evitarlo durante tutte le vacanze estive.

Anche se si era gustata la sua visione durante la consueta festa di fine estate, non aveva tentato minimamente di approcciarlo.

Alex lo aveva trovato sciocco – anche lui, come Rah e Morgan – , pensava che quella sua ritrosia fosse assurda, ma nessuno di loro aveva mai dovuto vivere come una Fenice.

Non potevano sapere quali restrizioni esistessero dentro il sangue che le scorreva nelle vene.

A ogni buon conto, non aveva detto null’altro in merito, e il cugino l’aveva lasciata fare come meglio credesse.

“Qui abbiamo sistemato” esordì Alex, piegandosi sulla cugina e facendole ombra con il proprio corpo. “Vogliamo andare? Tra un po’ calerà la sera e comincerà a fare decisamente fresco, da queste parti.”

Stiracchiandosi le braccia mentre le sue amiche facevano lo stesso, Joy si mise a sedere e cominciò a infilarsi calzettoni e scarpe.

I ragazzi, con una camminata pacifica, iniziarono a raggiungere le auto per caricarle di borse e sacche.

“Ormai non riscalda più… né mi abbronza più come a luglio” brontolò Margot, guardandosi le braccia con aria tragicomica.

“Non ho di questi problemi” ridacchiò Aileen, strizzando l’occhio a Joy, che rise complice.

“Ah-ah. Ma come siamo divertenti, tesoro.”

Con una scrollatina di spalle, Margot passò accanto ad Aileen dandole uno schiaffetto sonoro sul sedere, prima di ghignare divertita.

“Sei solo gelosa” sentenziò bonariamente Kelly, levandosi da terra per ultima.

Preferendo non aizzare Margot, Joy si limitò a ripiegare il proprio salviettone e, dopo averlo riposto nella sporta di paglia, si avviò all’auto assieme a loro.

Raggiunta l’auto di Alex, lanciò uno sguardo verso il sole morente, sapendo bene chi avrebbe risposto al suo saluto silenzioso.

“Anche domani sarà una bella giornata… potremo rivederci, mia Fenice” disse la voce di Rah nella sua mente.

“Sarà sempre un piacere, Rah” sussurrò di rimando lei, sorridendo all’astro che reclinava a ovest, affondando nelle acque dell’oceano.

Salita che fu sulla Mustang, salutò le sue amiche – in auto con Wayne – e si lasciò cullare dal ruggito del sei cilindri dell’auto che, rombando, li ricondusse verso casa.

“Se penso che tra poco dovrò rientrare in ufficio, mi viene male” sospirò Alex,  svoltando sulla Oregon Coast Highway.

“Non vedi l’ora di rivedere Susan, non raccontare storie” replicò con un sorrisino Joy, gli occhi chiusi e il capo poggiato contro il sedile, rilassata come poche altre volte era stata in vita sua.

“Non nominare la virago invano, ragazza, o il suo spirito inquieto potrebbe sbucare da sotto i tappetini dell’auto” sghignazzò Alex, accelerando non appena vide la strada sgombra di auto.

Stephen, sistemato comodamente sul sedile posteriore, le possenti braccia allargate sullo schienale, ridacchiò e ammiccò al fratello attraverso lo specchietto retrovisivo.

“Meno male che la tua misteriosa donna ha eclissato l’interesse morboso di mamma e papà per Lily. Almeno, adesso non mi chiedono di lei ogni santo giorno, ma ogni due, tre giorni e basta.”

Il trio di giovani rise spensierato, godendosi il crepuscolo e l’arrivo della notte limpida e chiara, con la sua luna pallida alta in cielo e il venticello portato dall’oceano.

Di certo, poter parlare di ben due ragazze all’interno di casa Barrett, era una novità, cui però sembrava non volersi unire Brian.

Il ragazzo era solo impegnato a portare a termine il suo corso a Quantico, perciò ben poco disposto a lasciarsi trascinare in una relazione con una donna.

 
***

Cenato che ebbero a base di pesce a casa dei Barrett, Joy tornò a casa accompagnata da Alex che, lasciatala all’imbocco del vialetto, le disse: “Pensavo che domattina potremmo andare a fare un giretto in barca. Mercoledì dovrò rientrare in ufficio, ma domani lo possiamo passare insieme, io e te.”

“Volentieri. Vieni a fare colazione qui?” gli propose Joy, facendo spallucce.

“Andata. Sarò qui alle otto e mezza circa, va bene?”

“A domani, allora” gli sorrise Joy, andandosene verso casa dopo avergli lanciato un bacio con lo schiocco.

“A domani, cuginetta” sussurrò lui, riavviando il motore per tornare indietro.

Sarebbe stata una giornata perfetta.

 
***

Risvegliatasi con un grido, la pelle ricoperta di sudore e il viso teso allo spasimo, Joy si sfiorò il corpo in più punti come a cercare ferite d’arma da fuoco o abrasioni.

Nulla trovando, chiuse le mani ad artiglio ed esalò: “Ma cosa diavolo…”

Dalla porta della camera, Richard la stava fissando preoccupato, i capelli in disordine e la maglietta sdrucita.

Avvicinandosi a lei che, ancora, non aveva recuperato pienamente il controllo, l’uomo le chiese: “Tesoro, tutto bene?”

“Ehm… credo di sì, papà. Forse ho fatto un brutto sogno, tutto qui” riuscì a dire Joy con voce gracchiante.

Lo sguardo le cadde sulla sveglia.

Le otto e quattordici minuti.

Aveva dormito davvero molto, quella mattina e, entro breve, Alex sarebbe arrivato per fare colazione con loro.

Doveva alzarsi.

Lasciate scivolare le gambe fuori dalle lenzuola, infilò i piedi nelle pantofole prima di sorridere al padre, che ancora la stava fissando turbato, e dire: “Dai, sarà capitato anche a te di avere incubi, no?”

“Hai strillato come se ti stessero sgozzando, tesoro. Mi hai terrorizzato” ci tenne a precisare Richard, avvolgendole le spalle con un braccio per poi accompagnarla fuori dalla stanza. “Niente più film dell’orrore, la sera, va bene?”

“Okay” promise Joy, prima di afferrare la pagina del suo calendario giornaliero e strappare quella del giorno precedente.

Con un risolino, Richard la accompagnò fino al bagno, asserendo: “Dovrò ricordarmi di farlo io, quando tu sarai tornata a Boston. Ma non potevi avere un calendario mensile come tutti?”

“Mi piacciono quelli giornalieri” fece spallucce lei, entrando in bagno e chiudendovisi dentro.

Quel sogno – di cui non ricordava nulla – l’aveva lasciata stordita al punto tale che, per poco, non fece cadere il dentifricio assieme allo spazzolino.

Doveva sciacquarsi il viso e riprendersi, se non voleva fare un disastro, buttando magari in terra qualche vaso, o rompendosi la testa contro il vetro della doccia.

Aperto il getto dell’acqua del rubinetto, la lasciò scorrere un po’ perché diventasse freddissima, dopodiché vi affondò le mani e ne raccolse un po’ tra le mani chiuse a coppa.

Rabbrividì subito, ma non per il freddo.

Allontanando le mani dal viso, trattenne a stento un grido di terrore, non appena scorse del sangue scarlatto tra le dita tremanti.

Pur sapendo di non avere alcuna ferita visibile – lo specchio glielo poteva confermare pienamente – si chiese il perché di quella visione così terrificante.

Ovviamente, nulla trovò sulle mani perfettamente lisce e integre, così come sulle pareti bianche e linde del lavandino di porcellana.

Niente sangue, niente di niente.

“Cosa mi sta succedendo?” borbottò tra sé Joy prima di mordersi il labbro inferiore, colpita da una fitta improvvisa di dolore.

Sempre più preoccupata, si lavò in fretta i denti per uscire dal bagno e, dopo essersi infilata pantaloncini e camicetta, si diresse a grandi passi verso la cucina.

Lì, accese in fretta il televisore, connettendosi alla CNN.

Non sapeva esattamente perché, ma sentiva di doverlo fare.

“La nostra Joy… sempre interessata a ciò che avviene nel mondo” ridacchiò Mel, mettendo in padella dei pancake per scaldarli.

Joy si limitò a sorriderle, il corpo sempre più teso e le mani così inferme che, per sollevare la tazza del latte, dovette usarle entrambe, e senza grossi risultati.

C’era qualcosa che non andava, per niente.

Preciso come  un orologio svizzero, Alex si presentò di fronte a casa loro alle otto e trentadue minuti, scanditi perfettamente dall’orologio a cucù che si trovava nel salotto.

Joy lo salutò con un bacio sulla guancia, gli offrì pancake e succo di more, oltre a latte e caffè e tornò a fissare lo sguardo sulla CNN.

Tutto contento, Alex non si fece pregare ma, non appena inquadrò bene il viso della cugina, tutta la voglia di mangiare gli scemò di colpo.

Poggiando lentamente il pancake sul piatto color vinaccia, le chiese: “Leen, che succede?”

“Non lo so. Davvero” scosse il capo lei, infilandosi in bocca  un pezzo di pancake, inondato di sciroppo d’acero.

Addentando il proprio mentre Richard salutava entrambi per dirigersi al lavoro, Alex scrutò distrattamente la zia, diretta verso il retro della casa.

Rimasti finalmente soli, poté chiedere a Joy: “Avanti, a me puoi dirlo.”

“Davvero, Alex, non so cosa…” cominciò col dire Joy, prima di avvertire una fitta tremenda al petto, in corrispondenza del cuore.

Impallidendo di colpo, la ragazza mollò tutto ciò che aveva in mano per portarsi le dita artigliate al petto.

Alex, preoccupato a morte dal suo pallore, la afferrò per le spalle, chiedendole cosa le stesse succedendo.

Il dolore andò via via aumentando d’intensità, divenendo così forte, così divorante che le parve che tutte le ossa, gli organi interni, stessero esplodendo tutti insieme.

Contemporaneamente.

Disperdendosi in milioni di piccoli frammenti.

“Leen! Dimmi che devo fare!?” ansò Alex, continuando a scuoterla mentre lei dondolava avanti e indietro come la pendola dell’orologio a cucù del salone.

Aprì la bocca per urlare, ma non vi riuscì.

Non aveva più fiato.

Ardeva.

Stava bruciando pur non potendo.

Stava morendo lentamente, in un’agonia sempre crescente, che sembrava non avere mai fine.

Sollevata di peso dallo sgabello dove si trovava, Alex la depose con gentilezza sul divano del salotto, prima di sentirla sussurrare senza forze: “Portami… via…”

Con un cenno di assenso, Alex non si lasciò prendere dal panico ed esclamò a gran voce: “Zia, noi andiamo, va bene?”

“D’accordo, ragazzi!” rispose la donna dalla lontana lavanderia.

Senza attendere altro tempo, Alex afferrò lo zainetto della ragazza – appoggiato ai piedi del tavolo in cucina – giusto per non destare sospetti.

Drappeggiatolo su una spalla, si piegò per prendere in braccio Joy e, con passo lesto, si diresse verso la porta per condurla all’esterno nel più breve tempo possibile.

Il sole brillava diafano, nascosto dietro sottili nubi bianche e lattiginose, ma ad Alex poco  importò in quel momento.

Doveva solo pensare a portare il più lontano possibile Joy che, in quel momento, sembrava essere preda di un bruttissimo attacco convulsivo.

Non riuscendo a controllare in alcun modo il proprio corpo, Joy riuscì a malapena a comprendere cosa Alex stesse facendo.

Si limitò a tenere serrata la bocca il più possibile, perché le urla che tanto avrebbe voluto lanciare non uscissero dalle sue labbra, mettendo così in agitazione la madre.

Infilata la chiave nel quadro, Alex diede gas e si diresse in tutta fretta verso la Oregon Coast Highway e, da lì, verso l’uscita della città.

Doveva assolutamente trovare un luogo appartato dove Joy avrebbe potuto fare quel che a casa, da quel poco che aveva compreso, non avrebbe potuto.

Cercò di tenersi sotto il limite di velocità per non attirare l’attenzione, pur volendo pigiare l’acceleratore al massimo per spingere la sua Mustang al massimo.

Continuando a guardarsi intorno alla ricerca di un posto adatto allo scopo, Alex lancià a momenti alterni frenetici sguardi alla cugina, ancora preda di spasmi incontrollati.

Proseguirono per miglia e miglia, mentre il corpo di Joy continuava a venire squassato da tremiti sempre più violenti.

Alla fine, Alex riuscì a trovare una mulattiera sterrata in cui infilarsi e, dopo aver sterzato in tutta fretta in quell’angusta via che dirigeva verso i boschi, sussurrò ansioso: “Ci siamo quasi, Leen, resisti.”

Non appena sentì quelle parole, Joy aprì la bocca per urlare e, dalle sue labbra, scaturì un suono che nulla aveva di umano, o di anche lontanamente simile.

Ciò che quasi perforò i timpani di Alex, fu il grido di un falco.

Continuò così per un minuto intero, prima che le convulsioni scemassero, e il viso pallido della ragazza recuperasse in parte colore.

Il viso, coperto di sudore traslucido, dichiarava apertamente quanto ancora la situazione fosse critica, e ben lungi dall’essere risolta.

Accostata l’auto e spento il motore, Alex si volse verso di lei, gli occhi sgranati per la paura e, sfiorandole il viso con il dorso della mano, sussurrò: “Dio, Leen, vuoi dirmi che ti prende?”

“Radio” ansò Joy, indicando con dita tremanti il cruscotto dell’auto.

“Ma che c’entra?” protestò lui, pur accontentandola.

Erano le nove del mattino.

Non appena Alex raggiunse il primo notiziario utile, comprese.

Martedì 11 settembre 2001, alle ore otto e quarantasei minuti, ora di New York, il volo American Airlines 11 si era schiantato contro la Torre Nord del World Trade Center.

Pur cambiando stazione, il messaggio che rimbalzava nell’etere era sempre lo stesso.

A giudicare dalle condizioni di salute di Joy, tutto quel dolore e quella distruzione stavano riverberando nel corpo della ragazza come all’interno di una cassa armonica.

“Non… ancora… finito…” ansò lei, stringendo gli occhi per il dolore, le lacrime che scendevano sul suo viso nuovamente pallido e tirato.

“Cosa posso fare, Leen? Dimmelo” sibilò Alex, sentendosi inutile.

Era del tutto privo di qualsiasi dote che potesse alleviare, anche solo in parte, il dolore che le scorgeva in viso.

“Abbracciami” sussurrò lei, prima di lanciare un altro urlo inumano.

Alex la strinse più forte che poté mentre, dalla radio, notizie sempre più sconnesse e tragiche si intervallavano ai primi commenti ipotesi.

La notizia di un quarto aereo, schiantatosi in Pennsylvania grazie al coraggio dei suoi passeggeri, non aiutò di certo Joy.

Ormai allo stremo, non aveva quasi più neppure la forza di respirare.

Tutt’intorno a loro, appollaiati sulle piante limitrofe o sugli specchietti dell’auto, uccelli di ogni genere e forma li fissavano trepidanti, muti di fronte al dolore della loro matriarca.

Per tutto il tempo, Alex non fece che cullarla, parlarle all’orecchio, confortarla, piangendo con lei per quelle morti assurde e inutili.

Imprecò contro il destino, che l’aveva reso unico depositario del suo segreto e persona indegna per aiutarla e proteggerla.

“Non è tuo compito proteggerla” disse all’improvviso una voce tutt’attorno a lui, sorprendendolo al punto tale da farlo sobbalzare.

Guardandosi intorno spaventato, Alex notò solo come tutti gli uccelli presenti attorno a loro avessero voltato il capo verso il cielo, in direzione del sole.

Colto da un dubbio, esalò: “Sei chi penso io?”

“Chi dovrei essere, mortale?” lo irrise bonariamente la voce, prima di sussurrare dolcemente: “Permettimi di darti una mano, mia Fenice…”

“R-Rah…” riuscì a dire a fatica Joy, ansando senza forze. “N-non p-puoi…”

“Perché sta male? Che le succede?” intervenne Alex, passando una mano sulla fronte madida di sudore di Joy, tergerndola delicatamente.

“Troppe morti contemporaneamente, giovane mortale. La sua giovane età le impedisce di essere pienamente consapevole dei suoi poteri. Inoltre, le morti improvvise e violente al World Trade Center, al Pentagono e sul volo che si è schiantato nei pressi di Shankville, l’hanno sconvolta più di quanto potesse sopportare. Le mancano le barriere.”

“Un momento, ma… e… e le altre guerre? Leen ha vissuto durante un sacco di altre guerre!” esclamò Alex, scuotendo il capo senza capire pienamente le parole di Rah.

“Era adulta e pienamente consapevole del suo potere, e niente è mai stato come ciò che è successo oggi. O quasi…”

“Intendi le bombe su Hiroshima e Nagasaki?” comprese immediatamente Alex, facendo un collegamento diretto con gli unici eventi catastrofici e improvvisi che lui potesse affiancare a ciò che stava succedendo negli Stati dell’Est.

“Esatto, mortale. Una guerra viene sempre preceduta da venti forieri di tempesta, e Fenice era sempre più che preparata, quando essa giungeva per devastare e distruggere. Ma quelle maledette esalazioni di fuoco diabolico la portarono quasi alla distruzione, e questo nuovo scempio di vite umane non le sta dando certo una mano.”

“Che intendi con… ‘quasi alla distruzione’?” volle sapere Alex, preoccupato.

“Fenice non giunse ai suoi cinquecento anni di vita, come suo solito. Morì e rinacque cinquant’anni prima. La seconda guerra mondiale, e tutto ciò che ne seguì, minarono la sua fibra più di quanto essa poté sopportare. Ora, senza neppure le sue difese al massimo fulgore, rischia di subire danni indicibili.”

“Non… dire… c-così…” sussurrò Joy, agitandosi debolmente tra le braccia di Alex, che la trattenne perché non si facesse male inavvertitamente.

“Cosa posso fare per aiutarla?” chiese lesto Alex, non sapendo esattamente dove guardare, o a chi rivolgersi.

“NO!” gracchiò Joy, sgranando gli occhi. “Alex… no…”

Ignorandola completamente, Alex tornò a ripetere la sua domanda e Rah, dopo più di un minuto di assoluto silenzio, dichiarò: “Sei certo di volerlo fare, mortale? Non è semplice, né senza danno.”

“Non me ne  importa un accidente. Dimmi. Cosa. Devo. Fare” sentenziò Alex, con voce metallica.

“Poggia la mano sul disco solare che Fenice ha sul fianco e, dopo aver fatto questo, mettiti qualcosa tra i denti… non è affatto piacevole, quel che sto per farti.”

Annuendo una sola volta, Alex si guardò febbrilmente intorno alla ricerca di qualcosa che potesse essere adatto allo scopo.

Joy tentò inutilmente di fargli cambiare idea, sussurrando dei ‘no’ a ciclo continuo,  continuamente ignorata.

Il cugino afferrò il suo cellulare e, dopo averne recuperato la custodia di pelle, lo riappoggiò sul cruscotto, infilandosi il pellame tra i denti.

Un attimo dopo, mormorò: “Scusa, Leen.”

Infilata la mano sinistra sotto l’orlo dei pantaloni della cugina, sfiorò la strana voglia di forma circolare che sapeva trovarsi sul suo fianco e lì attese.

Quando fu pronto, soffiò tra i denti: “Fai ciò che devi.”

Neanche un istante dopo aver proferito quelle semplici parole, il suo corpo parve andare letteralmente in fiamme.

Pur non volendo, Alex si rattrappì contro la cugina iniziando a urlare a denti stretti, mentre il calore si faceva via via più divorante.

Joy gridò con lui, emettendo ancora una volta uno stridore d’aquila prima di portarsi le mani al cuore e urlare: “Rah, no, ti prego! Così lo ucciderai!”

“Non ucciderò lui, come non permetterò a te di morire!”

Calde lacrime scivolarono sul viso terreo di Joy, mentre il corpo tremante di Alex la tratteneva ancora tra le braccia, veicolando verso di lei i poteri di Rah.

Quell’energia devastante, l’avrebbe aiutata a creare una barriera psichica tale da permetterle di reggere il dolore provato da migliaia di persone contemporaneamente. Lentamente, per un tempo che a Joy parve infinito, l’aura di Rah, attraverso il corpo mortale di Alex, l’avvolse.

Questo le permise di compiere ciò che lei, in quel momento, non era ancora in grado di fare.

Quando il sole iniziò il suo lento declino verso ovest, verso il suo riposo notturno, l’energia andò poco alla volta scemando fino a scomparire.

Il tremore del cugino andò scomparendo, di pari passo con la luce del sole e, quando Joy si volse per scrutare il viso di Alex, non si stupì di trovarlo svenuto – ma vivo – contro il sedile di pelle dell’auto.

Ora completamente rigenerata, ma con il cuore infranto per ciò che Alex aveva dovuto sopportare per lei, Joy scese lentamente dall’auto per portarsi dal suo lato.

Dopo averlo fatto sdraiare a terra, sull’erba fresca, cominciò ad accarezzargli il viso con lenti movimenti della mano.

“Starà bene… ha un cuore forte e ti vuole molto bene. Inoltre, essendo il tuo Oracolo, è stato più facile, per lui, sopportare la mia energia. Sei stata fortunata ad avere incontrato un simile umano, lungo la via.”

“Non avrei potuto sperare in un amico migliore” annuì Joy, piangendo silenziosamente mentre il lento, quanto inesorabile, calar del sole rendeva la presenza di Rah più flebile attorno a lei.

“Starai bene anche tu, mia Fenice. Ora potrai affrontare ciò che seguirà… anche se il tuo cuore, sicuramente, piangerà lacrime amare.”

“Grazie, amico mio. Per tutto.”

L’ultimo goccia sanguigna di sole scomparve all’orizzonte, e Joy percepì con un brivido lungo la spina dorsale la scomparsa improvvisa di Rah, ora invisibile nella sua mente.

“Mi spiace così tanto” sussurrò Joy, piegandosi verso Alex per baciarlo delicatamente sulla fronte.

“Non… dovresti…” riuscì a sussurrare lui, facendola sobbalzare di sorpresa.

“Alex!”esclamò Joy, chinandosi per avvolgerlo tra le braccia e attirarlo con forza contro di sé.

Con una risatina flebile, Alex si lasciò cullare dalla cugina per alcuni attimi, prima di esalare: “Ehi, vacci piano, piccola, o rischi di tritarmi le ossa.”

Allentando la presa, Joy rise tra le lacrime e mormorò singhiozzando: “Sei stato… un pazzo. Ma grazie.”

“Non c’era altro modo, no? E io ho giurato di proteggerti fin dal primo giorno in cui ti ho vista. Non mi sarei mai tirato indietro per… ahi!”

Con un’esclamazione di sorpresa, Alex sollevò la mano sinistra e, fissando costernato il segno rosso fuoco che capeggiava sul suo palmo, esalò: “E questo?”

Scostatasi da lui per meglio osservare la sua mano, Joy sospirò dispiaciuta.

“Il marchio di Rah. E’ stato causato dall’energia che defluiva da te, attraverso quel punto in particolare. Ti fa molto male?”

“Bene, no, ma è sopportabile” fece spallucce lui, sorridendole. “Non guardarmi come se mi fossi gettato dalle scogliere, e di testa! Andava fatto. Punto.”

“Già, e ora rimarrai marchiato a vita” brontolò Joy, estraendo un fazzoletto di cotone bianco dalla tasca dei pantaloni.

Poggiatolo sulla mano sinistra di Alex, che strinse i denti quando il tessuto entrò in contatto con la piaga, Joy sussurrò: “Tu hai salvato Fenice, Alexander e, per questo, lei sarà sempre in debito con te. Ella sarà sempre presente, per te, e per te farà ciò che vorrai, se un giorno desidererai qualcosa.”

“Perché parli così?” le chiese, notando come avesse usato la terza persona, come se non stesse parlando di sé stessa, ma di un’altra entità.

Sollevati gli occhi smeraldini a fissarlo con estrema serietà, Joy disse: “Non è Joy Patterson a prendere questo impegno, ma Fenice. E’ ben diverso.”

“Fenice o Leen, non desidero nulla di quanto già non abbia” sentenziò lui senza remora alcuna.

Detto ciò, cercò di sollevarsi in piedi, subito aiutato da Joy che, senza alcuno sforzo, lo alzò da terra quasi elevandolo di peso.

Strettasi a lui subito dopo, sussurrò contro il suo torace: “Accetta il dono di Fenice, te ne prego.”

“Voglio un gelato, allora” ridacchiò Alex, riuscendo nell’intento di sconvolgerla.

A occhi sgranati, Joy fissò il cugino senza sapere bene cosa dire mentre, tra le sue mani protese, prendeva forma una coppa di gelato alla vaniglia e cioccolato, i gusti preferiti di Alex.

“Cazzo! Ma cosa…?” esclamò Alex, scostandosi da lei con un sobbalzo prima di scoppiare a ridere di gusto.

Lei, per contro, lo fissò arcigna.

“Come sprecare un desiderio” brontolò la cugina, allungandogli la coppa di gelato prima di sibilare stizzita: “Goditelo, idiota. Ma si può desiderare una cosa del genere, con tutto quello che avrei potuto fare per te?!”

Abbozzando una risatina, Alex cominciò a mangiare il miglior gelato da lui assaggiato fino a quel momento, celiando: “Non potevi darmi la pace nel mondo, no? Quindi, il gelato va benissimo.”

Scuotendo il capo, a metà tra l’esasperazione e l’orgoglio, Joy intrecciò le braccia sotto i seni ed esalò: “Sei davvero una persona rara, Alexander Barrett.”

“Come mia cugina” replicò lui, sagace. “Ah. Squisito!”

 

 
***
 

Spiegare il perché della bruciatura di Alex non fu difficile; c’erano tanti oggetti metallici, su una barca, su cui poteva essersi ustionato a quel modo.

Inoltre, visto ciò che era successo a New York e Washington, la mano di Alex non fu certo l’argomento principale della serata.

Ognuno di noi aveva i propri motivi per piangere per ciò che era successo in quelle città dell’Est, simboli primi del potere economico e politico degli Stati Uniti d’America.

Si parlava già di guerra, e io stessa ne avevo sentito le avvisaglie, pur non avendole riconosciute per tempo.

Non un esercito, si era lanciato contro il potere consumistico dell’America, ma un nuovo potere, più difficile da individuare e, perciò, subdolamente nascosto nell’ombra.

Ormai al sicuro da tutto ciò che sarebbe seguito dopo quel tragico evento, non temevo più di cedere sotto i contraccolpi emotivi lanciati nell’aere dalle persone.

Percepivo comunque, in ogni momento del giorno e della notte, il dolore dei famigliari e degli amici delle vittime.

Erano come mille, piccoli aghi che si conficcavano, uno alla volta, nella mia carne, nel mio cervello.

Incessantemente.

Non li potevo evitare, ma ora potevo dominarli e non lasciarmi schiacciare da essi.

Non era una consolazione, solo un dato di fatto.

Una consolazione, in quell’oscurità dilagante, non la vedevo da nessuna parte.
 
 
 
 
 
 

 

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Capitolo 14
*** cap. 14 ***


 
14.
 
 
 
 
 
 
La cicatrice che, il potere di Rah, aveva lasciato sulla mano sinistra di Alex, mi procurava un dolore pungente e difficilmente esauribile.

Neppure le rassicurazioni del mio premuroso cugino, bastarono a eliminare il senso di inadeguatezza che sentivo dentro di me in ogni istante.


Certo, sapevo che Rah aveva avuto le sue buone ragioni per intervenire – diversamente, avrei davvero rischiato di morire.

Il fatto che lui avesse usato il corpo di Alex per arrivare a me, e darmi una mano a costruire le mie barriere psichiche, mi faceva star male.

Alex, addirittura, si era mostrato orgoglioso all’idea di avere una cicatrice del genere sul palmo della mano, cosa che mi aveva fatta imbestialire non poco.

Non c’era stato verso di fargli capire che il potere di un dio, incanalato in un corpo umano, non era l’equivalente di una scarica di adrenalina.

Era qualcosa capace di friggere i centri nervosi, come l’olio bollente con le patatine.

A lui era parso non importare, e tutte le mie estenuanti reprimende non erano servite a togliergli quello stupido sorriso dal viso.

Alla fine, non avevo potuto far altro che ringraziarlo per ciò che aveva fatto per me, ottenendo per diretta conseguenza una spallucciata e un altro sorriso tronfio.

Avevo avuto la netta sensazione che, l’idea di aver salvato una creatura mitologica come me, lo avesse riempito di…

Beh, le uniche cose che mi erano venute in mente, in quel momento, erano orgoglio smisurato e soddisfazione unica.
 

 
***

 
Rientrare a Harvard, dopo ciò che era successo a New York, non fu facile.

Diversi miei compagni di corso, come molti altri studenti dell’ateneo, avevano perso un parente, o un amico, in quel tragico attacco terroristico.

Tutto il mondo piangeva e gridava vendetta, e lei sapeva bene che, ben presto, si sarebbero accese le micce di una guerra di non certo breve durata.

Questo, avrebbe portato altri morti, altri lutti, altro dolore.

Il presidente Bush aveva già dichiarato, a reti unificate, che la ferita lasciata su New York sarebbe stata ben presto vendicata.

Mentre lei si accingeva a riprendere le lezioni, cacciabombardieri e milizie armate si stavano dirigendo verso oriente per dare vita a un’aspra lotta contro il terrorismo.

O così, per lo meno, la pensavano i più.

Joy, però, sapeva già quanto inutile sarebbe stato, questa volta in particolare, un attacco su larga scala come quello che si accingevano a lanciare.

Il terrorismo era camaleontico, inestricabile, formato di celle sparse per il mondo, senza una connotazione geografica precisa.
Sarebbe stato come combattere contro un’Idra di Lerna dalle mille teste.

Dubitava fortemente che avrebbero risolto il problema, mandando dei contingenti militari in Afghanistan.

Nel frattempo, però, i danni collaterali si fecero sentire subito.

Joy, pur trovando la cosa riprovevole, non poté non comprendere le radici dell’odio razziale che si scatenò in tutti gli Stati Uniti.

Anche in ateneo, nonostante la mentalità aperta degli studenti, i musulmani iniziarono a essere malvisti.

Più di una volta, Joy si ritrovò a intervenire verbalmente in discussioni nate tra allievi di estrazione politica opposta.

Fin da quando era rientrata nello studentato, Joy aveva iniziato a gironzolare assieme alla sua vicina di stanza.

Era stata conscia del fatto che, il suo essere di origine marocchina, l’avrebbe presto o tardi condotta tra le fauci di coloro che si scagliavano ciecamente contro coloro che non erano americani.

L’aria fredda proveniente dal Labrador stava falciando la costa, quella mattina di dicembre.

Nell’uscire in cortile per raggiungere le stradine inghiaiate che collegavano i vari plessi universitari, Joy sorrise benevola a Haniya, e le domandò: “Notizie dai tuoi?”

Con una scrollatina di spalle, la ragazza si sistemò nervosamente la kefia bianca e nera che portava al collo e, accennato un sorrisino, sussurrò: “Tutto bene, a Marrakech. Volevano più che altro sapere come me la sto cavando io, piuttosto, così ho cercato di rassicurarli.”

La mano di Joy si mosse spontanea per darle una carezza sul braccio, che tratteneva la tracolla della sacca nera che Haniya portava su una spalla.

Dolcemente, le disse: “Sono sicura che loro non subiranno ripercussioni per quanto sta succedendo, e qui hai amici fidati che non ti lasceranno sola.”

Un sospiro sconsolato le uscì dalle labbra carnose e ripiegate verso il basso mentre, poco distanti da loro, un gruppetto di studenti le fissavano con facce distorte da un odio cieco e sciocco.

Haniya aveva vinto una borsa di studio per venire a studiare a Harvard e, trasferitasi in America presso degli zii, si era impegnata anima e corpo per fare fruttare appieno quell’opportunità rara.

Desiderava con tutta se stessa diventare un medico chirurgo, e tornare poi in Marocco per dare una mano alla sua gente.

Pur essendo un paese tra i più sviluppati, nella zona del Maghreb, non godeva comunque dei benefici dati dalla ricchezza di un paese come gli Stati Uniti d’America.

Avere dottori in quantità sufficiente per poter curare tutti, era il suo imperativo primario.

Joy l’aveva sempre sostenuta, fin da quando si erano conosciute e lei aveva scoperto questo suo desiderio.

Quando era avvenuto l’attentato terroristico, si era messa d’impegno ancor più di prima per darle una mano, comprendendo cosa volesse dire essere perseguitate a prescindere.

I ricordi della Santa Inquisizione erano ben chiari in lei, come se fossero avvenuti solo il giorno prima.

Le tante donne che era riuscita a salvare dalle atroci torture, come dal pubblico rogo, non le erano mai sembrate sufficienti.

Troppe erano perite, in nome dell’ignoranza e del cieco servilismo nei confronti di un Dio che mai aveva desiderato simili scempi.

Haniya stava subendo lo stesso tipo di vessazione gratuita, e solo i tempi moderni l’avevano salvata da ben più tragica sorte.

A ogni buon conto, Joy preferiva non farla girare per il campus senza alcuna protezione.

Era più che convinta che, se l’avessero vista da sola, se ne sarebbero approfittati.

Sotto una leggera nevicata, Joy e Haniya oltrepassarono gli alti colonnati corinzi che delimitavano l’ingresso dell’Harvard Medical School.

Dopo essere entrate, si diressero senza indugio verso le aule di studio, infischiandosene di chi, stupidamente, le stava additando.

A Joy poco interessavano quelle manifestazioni di pubblica stupidità, ma trovava ingiusto che Haniya fosse vittima di tali vessazioni.

Avrebbe tanto voluto che la smettessero di darle fastidio.

“L’uomo non è mai stato molto intelligente, lo sai…” intervenne a sorpresa, nella sua mente, la voce sibillina di Rah.

Cercando di non lasciar trapelare la sua sorpresa, Joy mormorò sommessamente: “Speravo che l’evoluzione della specie portasse a dei cambiamenti sostanziali, ma vedo bene che ero troppo ottimista.”

"Sei Fenice. E’ insito in te.”

“Ultimamente, ho forti dubbi sul fatto di essere una brava Fenice.”

“Sai perfettamente anche tu che la piena maturità dei tuoi poteri l’avrai solo intorno ai trent’anni anni. Non incolparti di nulla e, soprattutto, non avercela con Alexander perché ha deciso di darti una mano. Non è un ragazzo sciocco, e aveva capito perfettamente i rischi che correva, quando mi ha permesso di usarlo come tramite.”

“E tu non avresti dovuto proporglielo” tenne a precisare Joy, mentre si accomodava per entrare nell’aula di psicologia.

“E lasciarti morire? Mia cara, allora non mi conosci!” rise Rah, svanendo dalla sua mente con un frullo d’ali.

Con un ‘mpfh’ sbuffato a denti stretti, Joy lasciò perdere e si limitò ad aprire il suo libro e il block-notes per gli appunti.

Non le era passato per la mente che, prendere bei voti all’università e terminare in tempi record gli studi, le avrebbe portato, come diretta conseguenza, una certa dose di popolarità tra gli studenti.

Macinare esami su esami come se nulla fosse, ricevendo lodi sperticate da professori e aiutanti, aveva condotto alla sua porta un’autentica folla di postulanti.

E tutti richiedenti aiuto.

Non le dispiaceva dare una mano, un po’ meno quando le proponevano con candore sconcertante di farli copiare, al che lei rispondeva sempre di no.

Si sarebbe fatta in quattro per coloro che volevano imparare veramente, ma non si sarebbe mai e poi mai piegata alla legge del servilismo.

Non le importava chi fosse a chiedere il suo aiuto.

Non avrebbe mai accettato di dare il suo contributo, se non avesse visto in loro reale interesse o sincera partecipazione.

Non a caso, era invisa a molti, per questo suo comportamento maledettamente onesto, ma a lei poco importava.

Per lo stesso motivo, era anche la paladina dei più retti e probi tra gli studenti.

In parole povere, nel bene e nel male, si parlava di lei, a Harvard.

 
***

Addentando un sandwich al pomodoro e tonno, seduta su una delle panchine del parco adiacente l’università, Haniya masticò irritata per qualche secondo prima di bofonchiare: “Giuro che, se potessi, li friggerei in padella.”

Con una risatina, Joy si bevve un po’ di succo di frutta al lampone, lo sistemò in equilibrio tra le gambe e, dopo aver scartato il suo hamburger, chiosò: “I fritti fanno ingrassare.”

Il ghigno di Haniya fece risaltare i suoi denti bianchissimi sulla pelle color caffelatte.

Sistematasi una trecciolina dietro la spalla, la ragazza marocchina replicò alla sua battutina: “Credimi, varrebbe la pena di mettere su qualche chilo, pur di liberarsene.”

“Secondo me, hanno un pessimo sapore, anche da fritti. E dire che, frittengo le cose, risulta buono tutto” ribatté Joy, addentando il panino.

“Uhm, forse hai ragione tu. Allora, potrei confezionarci delle copertine per i libri” ipotizzò allora Haniya, sollevando un dito verso l’alto non appena le balenò in mente quell’idea.

“Oh, sì, come La danza della morte*… il libro che hanno alla Brown, giusto?” annuì divertita Joy, ammiccandole complice.

“Esatto. Sarebbe un’idea carina per Natale, non ti sembra? Elegante, raffinato e di gran stile” continuò a dire Haniya prima di scoppiare a ridere con Joy.

Quando le risate scemarono e le due ragazze tornarono con i piedi per terra, Joy le chiese: “Che hanno detto, stavolta?”

“Quando mi hanno vista che compravo un sandwich al bar, mi hanno detto che non potevo prenderlo, perché non dovrei mangiare carne” le spiegò la ragazza, sollevando gli occhi al cielo. “Che avrei dovuto dire?”

“Che erano degli idioti? Che il tonno non c’entra niente con il maiale? Nah. Neppure ti avrebbero sentita. Lascia stare. Prima o poi, la gente capirà che questa ostilità gratuita non serve a niente” sentenziò bonariamente Joy, dandole una pacca sulla coscia.

“E’ snervante, però” ammise Haniya, reclinando il capo a fissare quel che rimaneva del suo sandwich smozzicato.

“Lo so” annuì Joy, rammentando fin troppo bene ciò che le era successo nelle epoche passate e ciò che, in quei primi anni della sua nuova vita, il professor Thomson le aveva fatto passare.

Complice la distanza che li separava, non aveva più sentito parlare di lui, né si era più sentita minacciata dalle sue ricerche.

Dubitava comunque fortemente che avesse smesso di cercare: semplicemente, stava aspettando il suo ritorno per tornare a tenerla sott’occhio.

Non sperava neppure lontanamente che lui avesse accantonato l’idea di scoprire la sua reale identità, ma non aveva nessuna intenzione di farsi rovinare la vita, e i piani, da quell’uomo.

Se fosse stato del tutto necessario, lo avrebbe affrontato a quattr’occhi, e avrebbe cercato di fargli capire il suo punto di vista.

Solo in un caso, sarebbe ricorsa ai suoi poteri.

Ma, a quel particolare frangente, non voleva neppure pensare, e per più di un motivo.

In primis, non voleva danneggiare la mente di nessun mortale e, secondo, non avrebbe mai voluto dare un dolore a Morgan.

Per quanto fossero tesi i loro rapporti, dubitava fortemente che avrebbe preso bene un eventuale incidente occorso a suo padre.

No, meglio non pensare a quell’ipotesi.

“Torni a casa, per Natale?” le chiese di punto in bianco Haniya, finendo il suo sandwich.

“Sì. Con Alex. Ha detto che sarebbe passato a prendermi una settimana prima, e che avremmo fatto un viaggio in auto per raggiungere casa. Non ti sembra una bella idea?” le disse Joy, tutta contenta.

“Wow! Un coast-to-coast davvero degno di nota! Ma come viene qui? E’ in zona?”

“Sta lavorando a un caso a New York con una sua collega e, da quel che mi ha detto, terminerà tutto prima delle vacanze natalizie. Così, gli è venuta l’idea del viaggio on the road” le spiegò succintamente Joy, appallottolando la cartina dell’hamburger non appena l’ebbe terminato.

“Tuo cugino è un mito. Ha già la ragazza?” ridacchiò Haniya, afferrando la carta di Joy prima di gettarla nel cestino assieme alla propria.

“Ha già una donna che gli fa palpitare il cuore” ammise Joy, facendo spallucce.

“Oh. E lei non è caduta ai suoi piedi? Ma che le dice la testa?” esalò sorpresa Haniya prima di afferrare le spalle di Joy e, tirandola verso il basso, urlare: “Giù!”

Una palla di neve le sfiorò di pochissimo, andando a schiantarsi contro un albero vicino mentre, il fautore del tiro, se la rideva di gusto, già pronto per il bis.

Inviperita come poche altre volte, Joy fu lesta a piegarsi su un ginocchio, raccogliere un po’ di neve e lanciare una bordata poco prima dell’avversario.

Forte del suo braccio e della sua vista da falco, Joy sferrò un lancio degno della Major League.

Con precisione millimetrica, la palla andò a centrare in pieno la faccia del loro assalitore.

Impreparato alla potenza del tiro, il ragazzo scivolò sull’assito bagnato e finì gambe all’aria, sotto gli sguardi divertiti di parecchi studenti.

Non contenta, Joy afferrò la sua sacca e si avviò a grandi passi verso di lui – tallonata dappresso da Haniya – , macinando metri su metri sulla neve appena caduta.

Quando lo raggiunsero, il ragazzo si stava risollevando, inondando l’aria con un mare di imprecazioni.

Passata la sacca a Haniya senza neppure guardarla, Joy poggiò le mani sui fianchi, fissando aspramente il ragazzo che le aveva prese di mira.

Un piccolo capannello di gente, nel frattempo, si andò addensando attorno a loro per curiosare sulla ‘scena del crimine’.

Il ragazzo in questione, una matricola del primo anno che Joy aveva visto solo un paio di volte, rispose al suo sguardo con uno altrettanto accigliato.

Passandosi nervosamente le mani sui calzoni bagnati, bofonchiò: “Mi hai fatto male.”

“E tu hai provato a farlo a noi” precisò Joy, glaciale.

“Beh, lei se lo meritava!” ringhiò il giovane, indicando Haniya con fare spavaldo.

“E perché, sentiamo?” ritorse Joy, fissandolo arcigna.

“Beh,… perché è una sporca musulmana!” le rinfacciò con un gran ghigno stampato in faccia.

Sollevando un sopracciglio con evidente fastidio, Joy si limitò a dire: “Ma pensa un po’! Anche Malcom X era musulmano. Eppure, tu porti una felpa con la sua faccia stampigliata sopra. Ti vesti con le facce di persone che odi?”

Preso in contropiede, il ragazzo lanciò un rapido sguardo alla felpa che si intravedeva sotto il parka e, affrettatosi a chiudere la giacca, ringhiò: “Non c’entra niente.”

“A me sembra di sì. Se ti sei messo una felpa di Malcom X solo perché sei afroamericano, ma non sai un accidente di ciò che diceva e pensava lui, sei solo un fesso. E i fessi dovrebbero stare zitti, non criticare gli altri senza sapere quel che dicono” dissertò con calma olimpica Joy, fissandolo con sufficienza.

Dei cori di assenso si levarono tra i presenti mentre il ragazzo, sempre più agitato, fissava Joy con rabbia manifesta.

Imperturbabile, Joy riprese la sua dissertazione.

“Te la sei presa con lei perché è musulmana. Ma, forse, non hai tenuto conto di un fatto; al WTC sono morti cristiani, ebrei, musulmani, induisti, atei, agnostici. Nessuno escluso. Bianchi, neri, gialli, … nessuna distinzione, né di sesso, né di età, né di estrazione sociale. Sono morti e basta.”

Un altro assenso generalizzato, mentre un paio di mani davano delle pacche consolatorie sulle spalle di Haniya.

Ritenendosi soddisfatta, Joy terminò di dire: “Prima di fare di tutta un’erba un fascio, io ci ragionerei un po’, non ti pare?”

Il ragazzo non disse nulla, limitandosi a raccogliere da terra la sua sacca prima di andarsene via a grandi passi lungo lo stradello.

Il capannello di gente radunata attorno a loro, nel frattempo, scoppiò in una risatina collettiva. Il peggio sembrava passato.

“Avresti una carriera come avvocato, Patterson!” fischiò un ragazzo tra la folla, strizzandole l’occhio.

Joy ridacchiò di quel commento, replicando: “Ne abbiamo già uno in famiglia, e basta e avanza.”

“Se cambiassi idea, sarò il tuo primo cliente!” ribatté il ragazzo, affiancando Haniya e guardandola con fare ammiccante. “Quanto ti costa, per un’arringa simile?”

“Un caffè allo Starbucks, di solito” dichiarò con un risolino la ragazza.

“Uhm, è anche a buon mercato. Ottimo!” sogghignò il giovane, prima di allungare una mano verso Haniya e dire: “Chad Fletcher, tanto piacere. Faccio parte del comitato ‘Salviamo l’America dall’idiozia’. Ti vuoi iscrivere?”

Mentre il capannello di gente andava disperdendosi, Joy e Haniya risero di fronte a quel nome così strambo e, quasi contemporaneamente, esalarono: “Ma esiste davvero?”

“Ehi, pure stereofoniche! Siete grandi!” sogghignò Chad, tornando serio subito dopo. “In quanto al gruppo, esiste davvero, ma non si chiama così. Ci riuniamo ogni venerdì nella biblioteca dell’università, e teniamo dei comizi per parlare di come l’11 Settembre abbia cambiato le nostre vite.”

Si grattò una guancia fresca di barba, indeciso forse su cosa dire prima ma, alla fine, dichiarò: “Tramite questi scambi di opinioni, cerchiamo di dare una mano a chi ne ha bisogno. Ci chiamiamo ‘Comitato per i diritti di tutti’. E’ un po’ pretenzioso, ma è ciò che vogliamo ottenere. Se vi va di partecipare, dite che vi mando io. Iniziamo alle nove di sera.”

“Sembra interessante” annuì Joy, rivolta all’amica.

“Verremo volentieri” asserì allora Haniya, sorridendo a Chad che, ben lieto dell’assenso ricevuto, strinse loro le mani con fervore.

“Vi prometto che vi piacerà. A venerdì, allora!” esclamò Chad a gran voce, andando via di corsa dopo aver dato un buffetto sulla guancia a Haniya.

Joy fissò un momento l’amica, poi spostò lo sguardo verso l’alto e prestante Chad e, con ironia, celiò: “Sento puzza di bruciato.”

“Io sento puzza di neve, invece. Sta per ricominciare, e non ho intenzione di arrivare in camera bagnata come un pulcino” precisò Haniya, restituendole in fretta la sacca prima di voltarle le spalle e dirigersi a grandi passi verso il dormitorio.

Ridacchiando sommessamente, Joy si limitò a seguirla, preferendo lasciare a un secondo momento il suo terzo grado.

 
***

Quando anche l’ultimo bagaglio fu pronto, Joy si volse a fissare una sorridente Haniya che, le mani strette attorno a una sciarpa di lana color salmone, le disse con voce rotta: “Sarà un dramma stare lontane per quasi un mese. Telefona, mi raccomando.”

“Ovvio, amica mia” annuì Joy, avvicinandosi a lei per abbracciarla. “E grazie per il regalo.”

Con un risolino, Haniya scosse una mano come per non darle ascolto ma Joy, sollevando la bella collana che aveva al collo, replicò: “Davvero. Mi piace un sacco!”

“E’ solo un ninnolo della nostra tradizione. La mano di Fatima protegge contro il malocchio, tutto qui” le spiegò Haniya con un sorriso imbarazzato.

“Beh, a me piace un sacco” sentenziò Joy, rigirandosi tra le dita il fine gioiello in argento, decorato con filigrana sapientemente lavorata.

“E a me piace la tua sciarpa. Dovrai insegnarmi come si fa, perché io non sono capace” disse allora Haniya, drappeggiandosela infine intorno al collo.

“Volentieri” annuì Joy, prima di sentire il cellulare squillare una sola volta. Alex. “E’ arrivato il passaggio.”

“Ti aiuto a portare fuori le valige” le propose Haniya, afferrandone una.

“Grazie” sussurrò Joy, chiudendosi alle spalla la camera dello studentato per dirigersi, assieme all’amica, verso le scale che conducevano dabbasso. “Starai con gli zii, o torni a casa per un po’?”

“Questo e quell’altro. E poi…” con un risolino, aggiunse: “… Chad ha detto che vorrebbe vedermi. Siamo d’accordo di trovarci al Rockfeller Center per Capodanno. Andremo a vedere assieme la parata in Fifth Avenue.”

“Ohhh. Ottimo!” esclamò Joy, tornando ad abbracciarla poco prima di aprire le porte a vetri per uscire dal dormitorio.

Fuori, sulla strada imbiancata di fresco da una leggera nevicata, si trovava Alex.

Appoggiato svogliatamente al cofano di una Bmw grigio metallizzata che Joy non aveva mai visto, sorrise alle due ragazze, accennando un saluto con la mano.

Quando si furono avvicinate a sufficienza, Joy e Haniya dissero quasi in coro: “E questa?”

Alex ridacchiò del loro commento e, sollevandosi con grazia, si sistemò il cappotto color cammello prima di dare una pacca al cofano lucido dell’auto, dichiarando: “E’ il compenso per il buon lavoro svolto. Mica male come commessa, eh?”

“Per la miseria, direi proprio di no!” esclamò Joy, osservando la Bmw 328i che le stava dinanzi in tutta la sua smagliante bellezza.

“Beh, complimenti Alex. Davvero bellissima” esalò Haniya, tutta sorridente.

“Grazie, Haniya. Lascia, prendo io la valigia di Leen” la ringraziò il giovane avvocato, allungandosi per prendere la borsa che ancora la ragazza teneva tra le mani.

“Oh… grazie a te.”

In un lampo, Alex caricò tutti i bagagli sulla vettura dopodiché, scrutate le due ragazze con un gran sorriso, disse: “Bene. Io partirei. Come siete messe, a saluti?”

“Già fatto” ridacchiò Joy, volgendosi verso l’amica per aggiungere: “Buone vacanze, allora.”

“Anche a voi. Fate buon viaggio” mormorò la ragazza, abbracciando sia Joy che Alex.

Fatto ciò, i due giovani salirono sull’auto, mentre la loro amica li salutava con un cenno della mano.

Il motore rombò non appena la chiavetta venne girata e Alex, ingranata la prima, sorrise alla cugina, dicendo: “Si parte!”

“Evvai!” esclamò Joy, prima di chiedergli: “Allora, vuoi dirmi il perché di questo viaggio?”

Immettendosi nella via principale, dopo aver controllato che non vi fossero auto che sopraggiungevano da destra e da sinistra, Alex inserì la terza e dichiarò: “Voglio conoscere Fenice.”

“Come?” esalò Joy, sgranando gli occhi smeraldini, colmi di sorpresa.

Accennandole un sorriso mentre prendeva velocità, diretto verso la Huntington Avenue e da lì, fuori città, in direzione dell’interstatale 90, Alex le spiegò meglio.

“Conosco Leen da più di diciannove anni, ma non so quasi nulla di Fenice, se non ciò che c’è scritto su internet. Io vorrei sapere di più su di lei, dalla sua bocca.”

“Ti andrebbe davvero?” chiese allora Joy, illuminandosi in viso.

“Sì” assentì Alex, scoppiando a ridere un attimo dopo. “Papà e mamma mi hanno dato del pazzo, quando ho detto loro che saremmo tornati a questo modo.”

“Sarà un viaggio bellissimo” replicò Joy, reclinando verso di lui per sfiorargli la spalla col capo. “Ti racconterò tutto ciò che vorrai sapere.”

“E’ importante, per me” ci tenne a dire Alex, sorridendole.

“Anche per me lo è. Saresti la prima persona in assoluto, a sapere tutto di me. La prima in tutte le mie vite” ammise Joy, sorridendo imbarazzata.

“Speravo fosse così” ammiccò Alex, imboccando la corsia di accelerazione per raggiungere l’interstatale, mentre l’agglomerato urbano di Boston si allontanava sempre più alle loro spalle.

“Pensavo di fermarmi a Buffalo, stanotte, se ti va bene” aggiunse dopo un attimo.

“Non ci sono problemi. Hai già fatto una tabella di marcia, per caso?” gli chiese, prima di vederlo indicare il cassetto portaoggetti che aveva dinanzi a lei.

Apertolo, Joy si ritrovò per le mani opuscoli di alberghi di almeno dieci Stati.

Ridendo, li aprì uno dopo l’altro, adocchiando foto di camere, di ampie facciate, di ospitali salette da pranzo, tutti disposti su una linea immaginaria che collegava Boston a Lincoln City.

“Direi che questo risponde alla mia domanda” chiosò Joy, rimettendo tutto in ordine.

“Non stiamo più insieme, ultimamente, e mi mancava il nostro cameratismo” le spiegò Alex, accelerando non appena trovò l’interstatale sgombra.

“Anche a me mancano i nostri pomeriggi passati a chiacchierare” ammise Joy, dandogli una pacca affettuosa sulla mano, che teneva sul pomo del cambio. “Com’è andata questa trasferta con Susan?”

“Abbiamo litigato” sogghignò Alex.

“Sai che novità” esalò Joy, scuotendo il capo. “Non ti avevo detto di fare finta di nulla, con lei? Devi ignorarla.”

“Non è facile, quando ti pianta il suo ditino indice - corredato da unghia sapientemente laccata di rosso - sotto il naso, e te lo rigira minacciosamente a qualche millimetro di distanza, dicendoti le peggio cose” precisò Alex, accigliandosi leggermente.

Uomini. Siete capaci di spaccare il mondo in due, a parole ma, quando vi ritrovate davanti una donna tosta come voi, andare in poltiglia” sbuffò Joy, falsamente disgustata. “Da quel che ho capito di Susan, è più che interessata a te, ma devi renderle le cose difficili! Ora gioca al gatto col topo, perché tu glielo stai concedendo… falle capire che non è detto che tu sia poi così interessato, e  vedrai che cambierà atteggiamento.”

“Domanda: ma non potrebbe semplicemente dirmi che ci vuole stare, con me? Sempre che tu abbia ragione?” chiese seccato Alex, accigliandosi.

“Da quando, la mente di una donna è lineare?” sentenziò Joy, serafica.

“Già. Perché l’ho chiesto? Stupido io che ho fatto questa domanda” bofonchiò lui.

Con un risolino, Joy cercò di consolarlo.

“E’ probabile che sia solo timida. Molte persone timide tendono a diventare aggressive, quando sono imbarazzate. Coglila di sorpresa. Ignorala completamente, oppure dimostrale brutalmente cosa provi. Ma, in ogni caso, devi fare qualcosa che lei non si aspetta.”

“Cosa intendi per ‘brutalmente’, scusa?” le chiese, sollevando un sopracciglio a scrutarla con interesse.

“La prima volta che siete da soli in ufficio, bloccala contro il muro e baciala senza lasciarle spazio per la fuga, o per qualsiasi altra cosa. Di certo, questo la spiazzerà” ridacchiò Joy.

“Sì, oppure mi piazzerà un pugno nei denti. Susan è cintura nera di karate, se proprio vogliamo essere precisi. Rischio di finire steso a terra nel giro di mezzo secondo” brontolò Alex, serio in viso.

“Io dubito seriamente. Anzi, sarà più facile che ti si avvinghi addosso come un polipo” ipotizzò Joy, prendendosi per diretta conseguenza un piccolo schiaffetto sul ginocchio.

Con l’abbozzo di un sorriso, Alex esalò: “Dio, non ce la vedo a fare una cosa simile, ma… beh, sarebbe divertente. Ma da dove ti vengono, certe idee? Hai sperimentato di persona?”

Arrossendo suo malgrado, Joy scosse il capo, ma mormorò sommessamente: “Quando hai interrotto Morgan, sulla spiaggia, stava succedendo qualcosa del genere. Mi ha sorpresa a guardia abbassata, e io non sapevo più che fare.”

“Avresti voluto che ti baciasse?” le chiese, ora del tutto serio.

“L’ha… l’ha fatto qualche giorno più tardi, nel negozio di Craig. Non volevo, però… beh…”

Ora completamente paonazza, si coprì il viso con le mani e sussurrò: “Mi è piaciuto, dannazione a lui! Avevo il cervello completamente fuori uso!”

“E’ stato gentile? O ti ha prevaricata?” volle sapere lui.

“Gentile, delicato, sfacciatamente sexy. Devo aggiungere altro?” bofonchiò Joy.

“No, grazie. Non ci tengo a sapere altro, sulla faccenda” tossicchiò imbarazzato Alex, prima di ridacchiare. “Però, sono contento che l’abbia fatto. Credo che, nonostante tu dica il contrario, sia carino che qualcuno ti ami a quel modo.”

“Ma non posso ricambiarlo, e  questo mi uccide!” esalò Joy, spiacente. “Tu non sai come mi ribolle il sangue, quando sono vicina a lui. E’ come, se ogni cellula del mio corpo, urlasse: ‘vattene, vattene!’… e io, lì a chiedermi come scappare da lui.”

“Cosa credi che possa succedere? Con Rah non è esploso il mondo, mi pare, no? Eppure, ci sei anche andata a letto, da quel che ho capito” tenne a precisare Alex, mantenendo un tono di voce molto serio.

“Lui era un dio. Era una faccenda molto diversa. Inoltre, non mi è mai capitato prima, di provare simili sentimenti per qualcuno. Amore filiale sì, e già quello mi ha causato dei guai, in passato, ma qualcosa del genere… davvero mai” sospirò Joy, reclinando il capo.

“Non ti sei mai innamorata di un uomo, a parte Rah?” le chiese, sinceramente sorpreso.

"Con Rah, era qualcosa di molto particolare. Qualcosa che andava oltre l’amore. Era come se fossimo i due lati della stessa medaglia… era giusto che stessimo assieme, tutto qui. Con Morgan… non so. Lui è umano e, in quanto tale, precluso al mio sguardo. Non posso avere delle preferenze per qualcuno in maniera così totalitaria. Devo essere coerente e, con lui, non riesco a esserlo. Vorrei dargli il mondo intero un momento e, il momento dopo, romperglielo in testa. Decisamente improponibile, ti pare?” cercò di spiegarsi Joy, muovendo nervosamente le mani.

“Questa è la descrizione tipica di una sbandata coi fiocchi, tesoro” commentò Alex, con un mezzo sorriso. “Ma ti lascerò crogiolare nella tua autocommiserazione. Se dici che non sei mai stata innamorata di nessuno a questo modo, come puoi dire che non devi esserlo? Dove sta scritto?”

Basita, Joy ristette in silenzio per alcuni attimi prima di esalare: “Me lo dice il sangue! Il cuore! Il cervello! Ogni più piccola parte di me, che mi intima di allontanarmi da lui!”

“Questa si chiama fifa, sai?” le mise sotto il naso Alex, sconvolgendola.

“Non sai di cosa stai parlando” bofonchiò Joy, irritandosi.

Alex si limitò a ridere e, dopo aver dato un’occhiata all’espressione accigliata della cugina, sentenziò: “Lasciamo stare l’argomento, va bene? Voglio passare una bellissima settimana con te, non farti venire il broncio. Non nominerò più Morgan, okay?”

“Affare fatto” annuì una sola volta Joy.

“Andata. E ora dimmi: cosa vorresti per pranzo?”




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Note:   * Libro realmente esistente, presente nella Brown University e rilegato in pelle umana.

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Capitolo 15
*** cap. 15 ***


15.
 
 
 
 
 
Quando Alex mi aveva accennato alla sua idea di fare un viaggio coast-to-coast, mi ero dichiarata entusiasta ed ero salita in auto senza sapere quale percorso avesse in mente.

Mai, però, mi sarei immaginata ciò che poi in effetti successe.

Piuttosto che puntare alle grandi città, Alex rimase nelle loro immediate vicinanze, preferendo ai grandi hotel le pensioncine locali dei piccoli paesi.

Impiegai poco a comprendere il perché di questa scelta.

Certo, le metropoli potevano offrire di tutto ma, in quel modo, non avremmo mai scoperto la storica Perrysburg, in Ohio, con i suoi parchi a tema o i suoi sontuosi musei.

Non avremmo visitato Chesterton, in Indiana, con il suo bellissimo parco di dune di sabbia che, leggiadre e battute dal vento, si gettavano sul lago Michigan.

Non avremmo visto l’Iowa Speedway, nei pressi di Newton, desiderando di potervi entrare e lasciar correre sulla pista la sua nuova Bmw.

Nè ci saremmo gustati i buonissimi formaggi che producevano in quella zona – cosa per cui avrei pianto affranta, vista la mia passione per i latticini.

Le rocce granitiche dell’area di Vedauwoo, nei pressi di Laramie – con le loro goffe forme arrotondate dal vento – sarebbero rimaste nell’oblio, se non avessimo deciso di deviare per immergerci nel Wyoming.

Inerpicarsi con l’auto fino a Salt Lake City e, da lì, tra le Montagne Rocciose, sarebbe rimasto un sogno irrealizzato, se avessimo seguito le grandi arterie stradali.

E, se non avessi accettato di fare questo viaggio tumultuoso in giro per l’America, non avrei mai scoperto cosa volesse dire aprirsi veramente con qualcuno.

Se, dapprima, era stato difficoltoso parlare ad Alex di cosa fosse veramente una Fenice, man mano che i giorni passavano, le parole erano fluite sempre più liberamente.

Sotto la pioggia, come sospinti dal vento inclemente o baciati da candidi fiocchi di neve, io avevo continuato a parlare, parlare, parlare.

E Alex aveva ascoltato… e capito.

Cos’altro si poteva dire di lui, se non che era un ragazzo perfetto? Ben poco.

 
 
***

 
 
Se ne stava seduta su uno dei letti della camera che avevano preso, per quella notte, in un piccolo hotel di Gresham, a poca distanza da Portland, i piedi a pezzi e le membra stanche.

Osservando distrattamente la televisione, ascoltava distrattamente le notizie di cronaca che si accavallavano a quelle politiche, o di gossip.

Alex era impegnato ad asciugarsi i capelli, dopo una lunga doccia ristoratrice mentre, in un angolo della stanza, si trovavano coloro che li aveva ridotti in quello stato.

Cartoni su cartoni di vino della zona.

Di comune accordo, avevano curiosato alla ricerca di una azienda vinicola locale che producesse del vino adatto per la cena della Vigilia di Natale.

Dopo aver fatto più miglia a piedi di quanti ne avessero all’inizio preventivati, avevano infine trovato ciò che avevano a lungo cercato.

L’aver lasciato l’auto a miglia di distanza, non li aveva affatto aiutati a rientrare in albergo.

E le casse di vino sapevano essere assai pesanti, se volevano.

Quando erano infine riusciti a raggiungere l’albergo, anche i piedi di un maratoneta avrebbero gridato pietà.

Persino Joy, pur con tutti i suoi poteri, aveva sentito un poco la fatica, dopo quel lungo peregrinare sobbarcati da pesanti cartoni di vino.

Poteva perciò comprendere come si sentisse Alex, e perché avesse deciso di farsi mandare la cena in camera.

Quando bussarono alla porta per avvisare dell’arrivo del carrello con le vivande, Joy si affrettò ad andare ad aprire.

Lasciata una mancia al cameriere, avvertì Alex e tolse il coperchio in argento dal proprio piatto, sorridendo affamata all’orata in crosta di patate e spinaci che aveva ordinato.

Un attimo dopo, Alex uscì dal bagno indossando unicamente i pantaloni di una tuta e un asciugamano passato attorno al collo.

Sorridendo nell’osservare il suo torace nudo e morbidamente muscoloso, commentò: “Continuo a dirlo. Susan deve essere pazza a non saltarti addosso, quando ti vede.”

Con un risolino, Alex prese il suo piatto di tagliata di vitello con patate al forno e lo portò sul piccolo tavolino che avevano nella stanza.

Afferrata forchetta e coltello, replicò bonario: “Di solito non vado in ufficio vestito così. E poi, continuo a credere che Susan non mi veda proprio.”

“Tu tieni a mente quel che ti ho detto, poi mi farai sapere” sogghignò Joy, affondando la forchetta nella sua orata prima di portasela alla bocca e sospirare felice. “Buona.”

“Anche la tagliata è cotta alla perfezione.”

Ingoiò il saporito pezzo di carne prima di servirsi un po’ del vino che avevano portato per loro, domandandole: “Deduco che tu abbia avuto esperienze anche in quel senso, giusto?”

“Ho visto cose che voi umani non potreste neppure immaginare” citò Joy, ridacchiando. “I giochi di potere tra uomo e donna sono vecchi come il mondo, Alex, e ormai non mi stupisco più di niente. O quasi.”

“Oh, già, il nostro bel pompiere è il caso X.”

Servito un po’ di vino a Joy, che lo fissò gelida, Alex continuò a mangiare imperterrito la sua carne, preferendo non rispondere alla sua occhiata.

“Già, proprio un caso X. Grosso come una casa di tre piani” brontolò lei, arrotolando qualche ciuffo di spinaci attorno alla forchetta prima di portarselo alla bocca.

“Mi ha stupito sapere dei trascorsi della Corte francese, lo ammetto. Non pensavo vi fosse così tanto malaffare, dietro quegli specchi dorati e quelle crinoline ingombranti.”

“Potrei citarti centinaia di nomi, ma penso non ne conosceresti neppure la metà, e tutti erano dediti a loschi traffici, sesso sfrenato e spesso non consenziente, alcolismo e quant’altro. Il gioco d’azzardo, poi, non ne parliamo!”

Gesticolando con una mano, come per dare maggiore enfasi alle sue parole, Joy infilzò un altro pezzo di orata, mangiandoselo con gusto prima di aggiungere: “La Corte francese però non era così diversa da quella inglese, tengo a precisarlo. Non vorrei che tu pensassi che solo i francesi fossero dediti ad attività frenetiche.”

Con un ghigno, Alex scosse il capo, replicando: “Non sia mai che io pensi questo.”

“Bene” sussurrò falsamente altezzosa Joy, prima di ridacchiare.

Alex lasciò che tra loro scendesse un morbido silenzio fino alla fine della cena, trovandolo appropriato quanto appagante.

Quando, però, Joy poggiò il tovagliolo sul tavolo, le chiese: “Quando potrò avere l’onore di vederti?”

Joy si volse lentamente a guardarlo, il volto tranquillo e atteggiato a un’espressione di assoluta serenità e, con un mezzo sorriso, annuì.

“Se ci tieni, ti accontenterò. Ma non avvicinarti finché non avrò terminato, va bene?”

“Come vuoi” promise Alex, scostando la sedia di legno scuro dal tavolo per spostarla in direzione del centro della stanza, dove Joy si stava dirigendo con passo tranquillo.

Non appena ebbe raggiunto un punto sgombro da mobili, Joy si volse per fissare il cugino e, assolutamente seria in viso, chiuse gli occhi e sussurrò: “Qualsiasi cosa tu veda, non  avvicinarti.”

“Te lo prometto” sentenziò Alex, alzandosi in piedi e fissandola senza alcuna paura o tensione negli occhi di colomba.

Annuendo, Joy sollevò lentamente le braccia quasi a creare la forma di una croce.

Sotto gli occhi ora sgomenti di Alex, lingue di fuoco scarlatto si levarono dai piedi della ragazza, avvolgendola in sinuose spire ed elevando tutt’intorno a lei un dolce profumo di cannella e cardamomo.

Già sul punto di muoversi verso di lei per liberarla da quelle fiamme divoranti, Alex rammentò la richiesta pressante della ragazza.

Pur sentendosi dilaniare dalla paura, si rese ben presto conto che quelle fiamme non le stavano facendo male, né stavano bruciando la moquette color caramello che era stesa sotto i suoi piedi.

Lentamente quanto inesorabilmente, le uniche cose che vennero bruciate furono i suoi vestiti, mentre la sua pelle veniva via via ricoperta di piume scarlatte.

Quando anche l’ultimo brandello di abito fu evaporato sul suo corpo, Joy si ritrovò completamente ricoperta di piumaggio color ciliegia.

Fu a quel punto che la ragazza, piegandosi in ginocchio, emise un sommesso canto in una lingua che Alex non riuscì a comprendere.

Pur non comprendendo neppure una parola, trovò la canzone di una bellezza struggente.

Poco alla volta, essa calmò i suoi muscoli al punto tale da costringerlo a sedersi sulla sedia che aveva alle spalle.

Fu allora che il corpo di Joy iniziò a cambiare.

Le ossa si spezzarono sotto i suoi occhi intorpiditi dal canto, creando una nuova struttura, miracolosamente e stranamente più piccola.

Era allungata in punti diversi, e strutturalmente sempre più simile a un’aquila.

Penne remiganti fluirono verso l’esterno come per magia, mentre le braccia si assottigliavano fino a prendere la forma di ali possenti, e scarlatte alla vista.

Una lunga coda pendula e vermiglia, con tre buffe e lunghe penne azzurre e rosa, si srotolò dietro di lei come un mantello mosso dal vento.

Sul capo, ora munito di un becco a rostro color oro, due ciuffi color cobalto si sollevarono come morbide antenne ripiegate all’indietro, incurvate come archi tesi.

Lunghi artigli affondarono nella moquette, mentre il becco dorato dell’uccello scarlatto che Alex aveva di fronte, schioccando nell’aria simile a un colpo di frusta, mise fine alle fiamme.

Lentamente, senza potersi fermare, Alex crollò in ginocchio, fissando quello splendido animale dal piumaggio infuocato.

Quei profondi occhi verdi, che sapeva essere della cugina, lo stavano osservando pacificamente a non meno di tre metri da lui.

Un falco imponente e fiero nella sua figura, con la testa sollevata e le ali richiuse attorno al corpo forte e possente.

Allungate le mani verso di lei, Alex osservò con le lacrime agli occhi la splendida Fenice che aveva preso il posto di Joy.

Un passo alla volta, quella meravigliosa creatura si avvicino a lui per annullare la distanza che li separava.

Quando anche l’ultimo metro che c’era tra loro venne annullato, Alex accarezzò con reverenziale timore il corpo dell’uccello, non sapendo bene a quale specie collegarlo.

Possente come un’aquila, aggraziato come un ibis, ammaliante quanto un pavone.

Era vero che Fenice era unica. Niente di ciò che conosceva le somigliava neppure lontanamente.

“Leen” sussurrò Alex, lasciando che una lacrima scivolasse lungo la sua gota pallida.

Lei emise un verso che era a metà tra una risata e un canto celestiale e Alex, scoppiando a ridere nervosamente, se la strinse al petto carezzandola con delicatezza.

Il folto piumaggio sprigionò profumi ancestrali, e lui godette del suo calore così come di quegli aromi da tempo dimenticati.

Rimasero così per minuti interi finché Alex, con una nuova pace nel cuore e nell’animo, si scostò per darle un leggero bacio sul capo.

“Sapevo che dovevi essere splendida anche così, ma non immaginavo potessi essere tanto di più rispetto a quanto pensassi.”

Fenice emise ancora quel suono ancestrale e bellissimo, quasi desiderasse ringraziarlo, o volesse irriderlo bonariamente.

Tornando a carezzarla fino a sfiorare le lunghe penne azzurre e rosa della coda, il cugino le chiese: “In questa forma non possiamo comunicare, vero?”

Lei scosse il capo in segno di diniego prima di allargare le ali, che raggiunsero un’apertura non inferiore ai due metri.

Avvoltolo in uno strano abbraccio piumato, Fenice poggiò il musetto sulla spalla di Alex, e lì rimase in religioso silenzio per diversi attimi.

“Questo è di certo l’abbraccio più strano che io abbia mai ricevuto” sentenziò con un risolino Alex, ricambiando la stretta come meglio poté.

Un altro attimo eterno passò tra loro e, quando Fenice lo ritenne opportuno, si scostò da lui e tornò nel centro della stanza, avvolgendosi nuovamente di fiamma. Le piume iniziarono a svanire, sostituite da candida pelle di pesca.

A quel punto Alex, preferendo non vedere così tanto di sua cugina, si volse pudicamente dall’altra parte, restando fermo finché le dita di Joy non picchiettarono contro la sua spalla.

Il giovane, allora, si volse a scrutarla, lei nuovamente la sua Leen, con quei rilucenti occhi smeraldini, i bei riccioli ramati sparsi sulle spalle e il viso sorridente di sempre.

Ora, però, era acceso da una luce nuova, che ancora non aveva visto, e lo scrutava come se avesse voluto … neppure lui sapeva esattamente cosa.

Limitatasi ad abbracciarlo, Joy si strinse a lui sussurrando contro il suo torace nudo: “Grazie, Alex. Grazie.”

“Grazie a te di avermi concesso anche questo” replicò lui, avvolgendola con le braccia prima di cullarla teneramente. “Ora posso dire di conoscerti pienamente, e ne sono felicissimo.”

“Non avevo idea se avresti sopportato anche questo, ma dovevo sapere che saresti stato abbastanza coraggioso per reggere di fronte a un simile spettacolo. Hai avuto paura?” gli chiese a quel punto, sollevando il viso a scrutare quello del cugino.

“Per un momento. Ma poi è passato tutto, quando ho visto che la tua pelle non subiva danni, nonostante le fiamme. Ma come mai i vestiti sono evaporati?” le domandò curioso, invitandola a sedersi accanto a lui.

“Non mi servivano. E fare uno spogliarello davanti a te per togliermeli, credo avrebbe comportato più danni che altro” ridacchiò lei, notando il suo leggero rossore sulle gote.

“Sì, in effetti… non ci tengo a conoscerti così  a fondo.”

Sbuffò, si volse un attimo a fissare le finestre velate da tende bianche che davano sul retro dell’hotel e, infine, Alex se ne uscì dicendo: “A casa, però, ci sono persone che pensano questo e altro.”

Joy sobbalzò per la sorpresa, faticando a comprendere quell’uscita improvvisa e il cugino, adombrandosi in viso, le spiegò ogni cosa.

“Non ho voluto dirtelo subito per non allarmarti, ma è giusto che tu sia pronta, per quando arriveremo a casa. I miei genitori ma, a dire il vero, anche gli zii, non hanno preso benissimo la mia idea di questo viaggio, noi due soli. Temono che io… beh, insomma, che noi due… ooohhh, per farla breve, pensano che io abbia approfittato di te, in questi giorni. Che l’idea del viaggio fosse tutta una scusa per stare assieme, lontani da occhi e orecchie indiscreti.”

La sorpresa di Joy mutò in sgomento, e lo sgomento in rabbia.

“Ma non è possibile che credano questo!” sbottò Joy, sconvolta. “Dovrebbero saperlo che non lo faresti mai!”

“Pensaci bene, Leen. Io e te siamo sempre stati assieme, fin da piccoli, condividiamo un’amicizia davvero profonda e, da quando io ho saputo di te, la cosa è persino peggiorata. Cosa dovrebbero pensare, loro che non sanno? In fondo, non siamo veramente parenti.”

Si passò una mano tra i neri e folti capelli e, con un’imprecazione a denti stretti, si mosse nervosamente per la stanza.

Joy lo seguì con lo sguardo, rabbia e sgomento che danzavano a braccetto, bagnato da lacrime che non avrebbe versato, ma che il suo animo stava divorando a piene mani.

Passandosi la lingua sulle labbra secche e tese allo spasimo, Alex continuò dicendo: “Mio padre mi ha chiamato, l’altro giorno, per chiedermi che diavolo stessi combinando, cosa mi passasse per la testa. Mi ha domandato se fossi diventato pazzo!”

“Ho combinato un guaio, dicendoti tutto” sospirò Joy, reclinando il capo afflitta.

“NO!” esclamò con veemenza Alex prima di imporsi un po’ di calma. “Non rimpiangerò mai che tu lo abbia fatto, volevo solo che sapessi cosa ci aspetta a casa.”

“Farò capire loro che non c’è nulla di sordido nella nostra amicizia” gli promise Joy, pur non sapendo esattamente come mettere in pratica le sue parole.

“Ci penserò io” ribatté per contro lui, accigliandosi in viso.

“Non ho bisogno che tu risolva tutti i miei problemi, Alex. Posso cavarmela benissimo da sola.”

Si alzò in piedi per raggiungerlo in mezzo alla stanza, lo afferrò per le braccia e aggiunse: “Sono Fenice. So difendermi con le mie mani.”

“E io sono tuo cugino, indipendentemente o meno dal sangue che scorre nelle nostre vene. E sono il tuo Oracolo” sbottò lui, divincolandosi dalla sua stretta prima di trapassarla con i suoi occhi adamantini. “Ho giurato che ti avrei protetta sempre e comunque, ho una cicatrice che lo prova più di qualsiasi altra cosa, e non mi tirerò indietro proprio ora che i problemi vengono dalle nostre famiglie!”

Joy si morse un labbro, prendendo tra le sue la mano sinistra di Alex.

Lì, ormai sbiadita ma ben evidente, stava il simbolo primo della sua dedizione alla parola data, e svettava dinanzi ai suoi occhi come un memento senza fine.

L’energia sprigionata da Rah aveva inflitto quel retaggio eterno ad Alex, e lui lo portava con orgoglio, pronto a rimettersi nuovamente in gioco per lei.

Anche se questo voleva dire andare contro la sua stessa famiglia.

Sollevata quella mano, quel simbolo di fedeltà incondizionata, Joy lo baciò con tenerezza e sussurrò: “Accetta l’energia di Fenice, il suo amore, la sua fedeltà totale a te.”

“Leen…” esalò lui, ritrovandosi poi tra le braccia della cugina.

Stringendo le braccia attorno a lui, mormorò sommessamente: “Non avere paura.”

Un attimo dopo, lingue di fiamma scarlatta li avvolsero e Alex, sobbalzando dalla paura, fece per allontanarsi.

Nello stesso istante, si rese conto che i sinuosi serpenti di fuoco che lo stavano circondando non emettevano che un tiepido calore e che, come mille piume, lo accarezzavano delicatamente.

Rilassandosi, Alex restituì infine l’abbraccio e, poggiata la guancia sui capelli ramati della cugina, che si muovevano all’unisono con l’ondeggiare ipnotico delle fiamme, sussurrò: “Come mai le fiamme?”

“Ti proteggeranno” gli spiegò, gli occhi chiusi e la guancia poggiata contro la pelle di Alex. “Nessuna mano umana potrà scalfire questa barriera. E’ quanto di meglio io possa fare senza infrangere le regole. Darti di più sarebbe venire meno alla regola dell’equità e, già così, sto camminando su una fune molto sottile.”

“Che intendi dire, Leen?” le chiese per contro, scostandosi leggermente per guardarla in viso.

Riaperti gli occhi mentre le fiamme scemavano attorno a loro, Joy asserì: “Se qualcuno dovesse tentare di farti del male, non potranno ferirti. Non posso proteggerti da nessun tipo di mezzo atto a offendere, ma da altri umani, sì.”

“Quindi, potrei beccarmi un pugno senza subire danni?” esalò lui, sbattendo più volte le palpebre, confuso.

“Esattamente. Non avvertirai che una carezza lieve, tutto qui” scrollò le spalle Joy, scostandosi e sorridendo soddisfatta.

Con un ghigno divertito, Alex sentenziò: “Beh, credo mi servirà davvero, visto che prevedo che mio padre mi riempirà di pugni prima di sentire la mia opinione.”

“Meglio partire prevenuti” annuì Joy, prima di sospirare afflitta.

“Andrà bene. In un modo o nell’altro” le promise Alex, battendole una mano sulla spalla.

 
***

La neve stava cadendo copiosa, in grandi fiocchi leggeri e simili a ciuffi di bianco cotone, quando l’auto di Alex finalmente giunse di fronte alla casa dei Patterson.

Lì, i due giovani sapevano perfettamente che avrebbero trovato le due famiglie al gran completo.

Persino Brian era tornato da Quantico per passare il Natale in famiglia.

Da quel poco che Alex aveva detto a Joy, con l’unico scopo di ripassare per benino il fratello maggiore, che considerava un traditore e un approfittatore.

Spiegargli per telefono quanto fossero sciocche le sue recriminazioni, non era servito a nulla.

Sia i Barrett che i Patterson si erano creati un’idea ben precisa in mente, e niente di quanto avessero detto loro via etere sarebbe servito a chetarli.

Dovevano parlare a quattr’occhi, sperando che i loro volti sinceri bastassero a far regredire la rabbia accumulata.

Scesi in fretta dall’auto senza pensare ai bagagli, Alex e Joy si diressero di corsa fin sotto la tettoia che proteggeva la porta d’entrata di casa.

Dopo aver suonato il campanello, si videro aprire da Mel che, sorridendo esitante ai due giovani, disse: “Ehi, finalmente siete arrivati.”

“Già” annuì allegra Joy, dandole un rapido abbraccio prima di attirare dentro casa Alex. “Prendiamo un paio di asciugamani per i capelli. Abbiamo fatto benzina poco fa, e non siamo riusciti a non bagnarci.”

“Ah… sì, bene” tentennò Mel, guardandoli con ansia correre via assieme lungo il corridoio, diretti al bagno di casa.

Nel salotto, Richard fissò preoccupato Peter che, a braccia intrecciate sul petto, se ne stava addossato al camino acceso.

Stephen, Brian e Beth, invece, sedevano rigidamente sul divano, i volti tesi e ombrosi.

Entrando con l’aria di chi non sapeva bene che dire, Mel comunicò loro dell’arrivo dei ragazzi e Beth, sospirando, sussurrò: “Come … ti sembravano?”

“Felici. Tranquilli” scosse il capo Mel, sollevando impotente le mani.

Joy e Alex, nel frattempo, chiusi in bagno ad asciugarsi alla bell’e meglio i capelli, si guardarono timorosi in viso.

Non sapevano bene quanto tempo ancora aspettare, prima di uscire e affrontare la situazione spinosa che li attendeva nella stanza accanto.

“Ancora qualche minuto, e mio padre butterà giù la porta. Il suo battito cardiaco è in drammatica ascesa” sospirò Joy, poggiando l’asciugamano sul lavandino.

“Meglio di un ECG a lungo raggio” sogghignò Alex senza troppa allegria. “E va bene. Andiamo, ma lascia parlare me.”

“E’ il tuo funerale” sentenziò bonariamente Joy, afferrando la sua mano quando uscirono assieme dal bagno.

“Non mi hai protetto per un’eventualità simile?” la rimbeccò gentilmente, sorridendole da sopra una spalla.

“Vero” ammise lei, prima di aprire la porta che conduceva al salotto.

Non appena scorse i volti tesi e seri dei presenti, Joy si sentì quasi mancare.

Che avevano mai fatto? Possibile che, la sua amicizia con Alex, avesse creato tutto quell’astio e quel rancore a stento trattenuto?

Scrutando a momenti alterni i volti accigliati dei cugini e degli zii, oltre a quelli preoccupati dei genitori, Joy fece istintivamente un passo indietro.

Alex, protettivo, le cinse le spalle con un braccio, borbottando: “Bel comitato di benvenuto, complimenti.”

“Vedi di non prenderti troppe confidenze con Joy, fratello” esordì Brian, alzandosi in piedi e ponendosi di fronte a loro in una posa in tutto simile a quella del padre.

La stretta sulle spalle di Joy si accentuò, mentre gli occhi di Alex si riducevano a due esili fessure di diamante.

“Mi prendo tutte le confidenze che voglio… fratellino.”

“Ora basta, voi due. E tu, Alex, vediamo di allontanarci un po’ da Joy, d’accordo?” intervenne Peter,  lasciando il suo posto accanto al camino.

Mel e Richard, gli sguardi fissi sulla figlia, non dissero nulla, limitandosi ad attendere impazienti che Alex si allontanasse.

Lui, però, non si mosse, preferendo dire: “Non avete capito un accidente di niente, quindi io non mi sposto. Non sto facendo niente di male.”

“Maledizione, Alex, che dovremmo pensare? Guardatevi!” sbottò il pacato Stephen, guardando il fratello con espressione a dir poco sconvolta.

O meglio, delusa e disgustata.

Beth si levò a sua volta in piedi, avvicinandosi un poco al figlio maggiore.

“Senti, Alex, capiamo benissimo quanto questa situazione sia strana ma, in fondo, Joy fa parte della famiglia nonostante…”

Interrompendo sul nascere la madre, Alex attirò dietro di sé Joy che, nel frattempo, si era aggrappata a lui con forza.

“Primo, so benissimo che Leen fa parte della famiglia, anche se non è nata da zio Rich e zia Mel. Secondo, la state spaventando a morte, perciò vedete di tenervi alla larga da lei e di calmarvi.”

“Siamo la sua famiglia!” ringhiò Brian, avanzando ancora di un passo, lo sguardo solcato da un’onda di rabbia pura.

I pugni di Joy si strinsero attorno al maglioncino a coste di Alex che, avvedutosene, si spostò automaticamente per mettersi tra lei e Brian, ringhiando a sua volta: “Non. Un. Passo. Di. Più.”

“Alex, basta! Allontanati da lei!” sbottò Peter, mentre Richard si levava in piedi per affiancare il cognato.

“Alex…” sussurrò Joy, chiudendo gli occhi per poi affondare il viso contro la sua schiena, il corpo tremante e già rovente.

“Tranquilla, Leen” disse in un soffio lui, dandole un rapido bacio sui capelli prima di fissare in cagnesco la famiglia.

“E poi non dovremmo pensare che ti sei preso una sbandata per Joy? Dio, fratello, ci credi davvero degli idioti?! Come hai potuto tradire così la fiducia degli zii!?” esclamò infuriato Brian, annullando praticamente la distanza che lo separava dai due.

Afferrato un braccio del fratello, tentò di allontanarlo dalla cugina con uno strattone.

L’incantesimo di Joy si comportò egregiamente.

Brian allontanò la mano come se si fosse scottato mentre Alex, fissando il braccio con aria vagamente meravigliata, sollevò un sopracciglio e commentò: “Wow. Fichissimo.”

“Ma che diavolo…” esalò Brian, prima di fissare arcigno il fratello e sibilare: “Allontanati, se non vuoi che ti spacchi la faccia, è chiaro?”

“Non ci penso proprio, finché non vi date una calmata” scosse il capo Alex. “Le state facendo del male e basta, e lei ha bisogno di me, ora, per non crollare.”

“Ma sentitelo!” sibilò Brian, infuriato. “Ti ascolti, mentre parli, fratello? Fino a dove si è spinta la tua pazzia?”

“Basta, vi prego…” esalò Joy, tremando ancor più forte di prima.

Il dolore e la rabbia dei famigliari la colpivano ininterrottamentem, simili a dardi acuminati e dalle punte intrise di veleno.

“Le state facendo male!” urlò Alex, ora furibondo. “Basta! La porto via di qui, finché non avrete sbollito i nervi.”

Già sul punto di muoversi per allontanarsi, Alex intravide con la coda dell’occhio i movimenti del fratello, pronto a scagliarsi su di lui per bloccarlo in malo modo.

Ben sapendo di essere protetto dallo scudo di Fenice, non si preoccupò affatto di quella mossa scorretta.

Ma non badò neppure ai movimenti di Joy che, scostandosi istintivamente da lui per proteggerlo da quella potenziale minaccia, si interpose tra lui e il fratello.

Senza poterle impedire alcunché, la fissò mentre, con le mani sollevate e chiuse a pugno, andava a piazzarsi proprio di fronte a Brian.

Gli artigli erano evidenti, ma ancor più le zanne, messe in mostra dalle labbra ritratte e piegate in una smorfia.

Quella visione lo paralizzò al pari degli altri che, sgomenti e increduli, fissarono la scena senza sapere cosa dire.

Joy cercò con tutta se stessa di non aggredire Brian, tremando da capo a piedi  e tentando con ogni mezzo di non portare avanti la mutazione in Fenice.

Quando riuscì in qualche modo a riprendersi da quello shock momentaneo, Alex la raggiunse, avvolgendole la vita con le braccia per trattenerla mentre Brian,  basito, esalava: “Joy, ma cosa…”

“Bambina mia…” sussurrò sgomenta Mel, poggiando le mani tremanti sulla bocca spalancata.

Reclinando le braccia e lasciando che calde lacrime le colassero sulle gote pallide, Joy sussurrò sconvolta: “Perdonatemi… perdonatemi…”

“Complimenti davvero” sbuffò Alex, lasciando lentamente andare Joy per afferrarle le mani, ancora munite di acuminati artigli. “Un bel respiro, Leen. Coraggio. Uno, due, tre…”

“Quattro” esalò lei, aprendo leggermente la bocca e muovendo la mandibola per far rientrare le zanne.

Gli artigli svanirono poco alla volta, lasciando il posto a unghie corte e perfettamente curate.

Con le zanne, il processo fu più complesso.

Lo scatto delle ossa mandibolari fu più che udibile e, quando Joy tornò alla normalità, il suo volto era pallidissimo, simile a un cencio.

“Qualcuno vuole dirmi che succede?” riuscì a dire Brian, mettendo a parole ciò che il resto della sua famiglia non era in grado di dire.

“Se la smettete di guardarla come se fosse un mostro, potrei anche farvi il favore di parlare” ringhiò loro contro Alex, tornando ad abbracciare Joy, che continuava a piangere in silenzio. “Ssst, piccola… va tutto bene.”

“Come puoi dirlo, Alex? Guarda i loro volti!” singhiozzò Joy.

“Sono confusi, concediglielo. Di solito, cose del genere si vedono nei film” sussurrò teneramente lui, carezzandole il capo con il tocco di una guancia. “Forse è il caso che voi vi sediate, mentre lei si calma.”

“Sì… forse è meglio” annuì debolmente Brian, rischiando di inciampare nel tavolino mentre indietreggiava fino al divano.

Richard si accomodò accanto alla moglie mentre Peter, poggiandosi contro il davanzale della finestra, fissò il figlio quasi senza riconoscerlo e chiese: “Tu cosa sai di tutto questo?”

Con un gran sospiro, Alex mostrò la sua mano sinistra e chiese: “A nessuno è mai venuto in mente che questa bruciatura è uguale identica alla voglia che Leen ha sul fianco?”

“In effetti…” constatò Brian, aggrottando la fronte prima di esclamare. “… oddio! Sei anche tu come lei?!”

Esasperato, Alex guardò il soffitto per un momento prima di borbottare scocciato: “No, idiota. Ma pensate bene a questo simbolo. Non vi fa venire in mente niente?”

“Non dovremmo dirlo e basta?” chiese debolmente Joy, fissando a momenti alterni i volti dei presenti.

“Rischierebbero l’infarto come l’ho rischiato io” precisò Alex, con un mezzo sorriso. “Meglio un passo alla volta.”

“Arriva al punto, Alex. Comincio ad averne le scatole piene” brontolò Brian, intrecciando le braccia sul petto.

“Per essere uno che lavora per l’FBI, hai davvero poca attenzione per i dettagli” sogghignò Alex in risposta. “E’ un disco solare. Non vi dice nulla il dio Rah?”

“Quello degli egizi?” chiese Stephen, il volto aggrottato e l’aria ancora poco convinta.

“Un grazie alla tua ragazza che ti ha insegnato qualcosa” annuì Alex, guadagnandosi per diretta conseguenza un’occhiataccia dal fratello minore.

Infischiandosene, continuò nel suo lento avvicinamento alla verità.

“Tu che dovresti essere il più ferrato, Steve, fatti venire in mente un personaggio della cultura egizia che ha a che fare con Rah, e che sia anche munito di artigli.”

“Ma che cavolo stai…” cominciò col dire Stephen prima di sgranare gli occhi, impallidire e fissare Joy con due occhi sconvolti e increduli. “Parli di Benu? Della Fenice?”

“Bingo” ammiccò Alex.

“Non puoi dire sul serio!” esclamò Stephen, mentre tutti i presenti lo fissavano in cerca di spiegazioni. “Fenice è solo un mito e…”

Guardando suo padre, che la guardava senza avere il coraggio di parlare, Joy intervenne dicendo: “… e risorge dalle sue stesse ceneri, costruendosi un nido con rami di cedro e mirto, spargendo sul suo giaciglio profumi di spezie orientali, cannella e incenso e cardamomo. Tu sai che non mento. Rammenti.”

Richard, senza dire una parola, si levò in piedi, attraversò la stanza e, sotto gli occhi sconvolti di tutti, avvolse Joy tra le sue braccia limitandosi ad annuire.

Alex, allora, lasciò andare la ragazza, sapendola ormai al sicuro.

Joy ricambiò l’abbraccio del padre, sentendo l’ansia scemare nella stanza, sostituita da curiosità e sana confusione, ma non più da odio o risentimento.

Lasciandosi andare, la ragazza accettò il calore dell’uomo e il suo pianto sommesso, sussurrando contro il suo petto: “Non potevo dirvelo. Sarebbe stato troppo, per tutti voi. Ma era necessario che sapeste, a questo punto, perché non volevo che travisaste ciò che c’è tra me e Alex.”

“Perché tu sai, scusa?” lo accusò Brian, ancora accigliato ma vagamente più calmo.

Con aria leggermente strafottente, Alex lo guardò divertito e dichiarò: “Sono l’eletto.”

“Sì, fatemi il piacere! Pensi di essere Neo*?” lo irrise Brian, mentre Alex ridacchiava.

Joy si lasciò andare a un risolino nervoso mentre il padre, scostandosi da lei per carezzarle il viso, abbozzò un sorrisone e celiò: “Fenice, eh?”

“Puoi sopportarlo, papà?” chiese lei, titubante.

“Chi può vantare, al mondo, una simile grazia?” replicò lui, scoppiando a ridere fragorosamente prima di allungare una mano in direzione della moglie, chiamandola a sé.

Mel fu lesta ad accettare e, lasciandosi abbracciare e abbracciando Joy al contempo, baciò le guance umide di lacrime della figlia.

“La più grande delle grazie.”

Richard fissò il figlio maggiore, fermo a osservare i Patterson nuovamente riuniti, e dichiarò: “Beh, ragazzo, tu sì che riesci sempre a sorprendermi.”

“Pensavi davvero che fossi uscito di testa,… altro che storie!” lo rabberciò bonariamente Alex, facendo spallucce.

“Dacci il beneficio del dubbio, Alex. Insomma, siete sempre stati come pane e marmellata, voi due…” esalò suo padre, sollevando per aria le mani con fare sconsolato. “… e, quando siete diventati grandi, nessuno poteva dividervi. La cosa ha cominciato a sembrarci preoccupante, e non volevamo che qualcuno di voi soffrisse.”

“Ho giurato di proteggerla fin da quando Leen era nella culla…” replicò Alex. “… e non verrò mai meno a questo mio patto. Giusto perché tu lo sappia, casomai ti venissero altri dubbi in merito.”

“La cicatrice, allora, te l’ha fatta Joy?” chiese a quel punto Beth, avvicinandosi al figlio maggiore per scrutarla con maggiore attenzione.

Joy si scostò un poco dai genitori per guardare Alex che, titubante, la scrutò a sua volta senza sapere bene cosa dire.

Già una notizia del genere era stata un bello shock per tutti; parlare di Rah, forse era troppo presto.

Sì, davvero troppo presto.

“Facciamo che ve lo racconterò un’altra volta, eh?” buttò lì, Alex, sorridendo nervosamente.

“C’è dell’altro?” esalò Brian, sgranando gli occhi.

Alex e Joy preferirono non proferire parola.

 
 
 
________________________________________ 
*Neo: Personaggio principale del film Matrix. Era definito l’Eletto, colui che avrebbe salvato gli umani dalla tirannia delle macchine. 
 
*****Dopo questo interludio cugino-cugina, tornerà anche Morgan. 
 

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Capitolo 16
*** cap. 16 ***


16.
 
 
 
 
 
 
Dopo l’iniziale – e doveroso, oserei dire – sconcerto, la famiglia accettò ben presto il mio doppio ruolo di Joy e di Fenice.

Può, la grazia, assumere i volti di una famiglia unita e comprensiva?

Io direi di sì, perché a me successe questo, in quel freddo e nevoso Natale.

Lily ci raggiunse per festeggiare Capodanno.

Sotto il vischio appeso in mezzo al salotto di casa nostra, lei e Stephen si scambiarono il primo bacio ‘ufficiale’, suggellando in presenza di tutta la famiglia il loro legame.

Certo, subito dopo quell’evento, Stephen divenne paonazzo e gli occorse almeno mezz’ora per riprendere un colorito più o meno normale.

Ormai, però, il gran passo era fatto.

Con l’approssimarsi dell’alba, lui la condusse fuori sulla veranda, la strinse in un abbraccio gongolante prima di
inginocchiarsi dinanzi a lei e porle la domanda fatidica.


Stesa sul divano con le palpebre cadenti dal sonno – ascoltando distrattamente il ronfare sommesso dei parenti – sorrisi soddisfatta quando vidi Lily con le lacrime agli occhi.

Il suo sorriso avrebbe potuto rivaleggiare con la lucentezza del sole allo zenith.

Ai piedi del divano, mezzo addormentato al pari mio, Alex sussurrò: “Bella scena, eh?”

“Già” annuii, poggiando il mento sulle mani intrecciate.

Lily accettò l’anello, buttandosi tra le braccia di Stephen con una foga tale da stenderlo a terra, sul cotto fiorentino della veranda.

Sbadigliando nel tentativo di sorridere, mi distesi per bene e sussurrai: “Hurrà per i futuri sposi.”

“Hurrà, hurrà, hurrà” esalò Alex, prima di crollare addormentato, il capo poggiato scompostamente su un cuscino.
 
 
***
 
 
Il caos che circondava Joy e i suoi cugini, nei pressi dei gate d’imbarco dell’Aeroporto Internazionale di Portland, era paragonabile solo alla finale dei play-off di football.

Un via vai di persone armate di sacche, trolley, e giacche a vento, si mescolava alla processione di vigilantes, tecnici, addetti aeroportuali e carrelli della pulizia.

Procedere con il check-in, dopo i fatti dell’11 Settembre, era divenuto un inferno.

E, a giudicare dai tabelloni con gli orari dei voli, l’aerero diretto a New York – che Joy avrebbe preso di lì a poco – avrebbe avuto ritardo di venti minuti.

Di quel passo, sarebbe partita a mezzanotte passata.

Guardando distrattamente l’ora, lasciò che lo sguardo corresse poi tutt’intorno a sé.

Joy studiò con vago interesse la struttura di metallo e vetro con cui era composto l’intero aeroporto, la sua struttura ultramoderna e dalle linee curve, simili ad ali spiegate nel vento.

Ne ammirò per un attimo l’ingegnoso disegno avveniristico e originale, prima di sbadigliare sonoramente.

Tornò così a osservare i volti assonnati di Alex, Brian e Stephen – seduti accanto a lei nella sala d’attesa – e mormorò: “Mi spiace che dobbiate fare così tardi per causa mia.”

“Ehi, mica l’hai deciso tu che le ali del Boeing dovessero ghiacciare, e che i tecnici fossero costretti a mettere mano agli idranti con i sali a quest’ora di notte” sogghignò Brian, strizzandole l’occhio. “Certo, potresti anche involarti per conto tuo, ma non credo che passeresti inosservata.”

“Ah-ah. Che spirito!” brontolò Joy, tornando a poggiare la schiena contro la poltroncina dov’era accomodata. “Speriamo che facciano alla svelta.”

 
***

A cosa era servito studiare per più di due anni quella maledetta piuma colorata?

Assolutamente nulla.

Soprattutto se si considerava che non poteva in alcun modo collegarla ad Aileen Patterson.

Lui aveva solo scorto la ragazza sulla spiaggia, la stessa spiaggia in cui aveva trovato quell’apparente manna dal cielo.

A conti fatti, però, nessuno con un minimo di cervello si sarebbe preso la briga di credere che i due eventi fossero collegati.

Stentava ormai a crederlo anche lui stesso.

Inoltre, dopo diverse ricerche fatte sia su internet, che presso alcuni ornitologi di sua conoscenza, aveva scoperto che diversi uccelli possedevano un piumaggio rosso fuoco.

Senza un’analisi comparativa, sarebbe stato difficile capire a quale specie potesse appartenere la remigante di cui lui era in possesso.

Il genoma degli uccelli non era certo stato mappato con l’assiduità con cui, i ricercatori, si erano lanciati a studiare quello umano.

Inoltre, ormai non si fidava più di nessuno, e non avrebbe permesso che alcun altro venisse a conoscenza delle sue ricerche.

La cocente delusione vissuta in gioventù bruciava ancora, in lui, e questo non gli consentiva di rischiare una seconda volta.

No, tutto ciò che avesse scoperto, sarebbe stato tenuto gelosamente segreto finché tutte le prove fossero state inconfutabili.

Grazie alle sue instancabili ricerche, era infine riuscito a trovare i resti di quello che, anche a un osservatore disattento, non sarebbe apparso che come un cesto.

Cesto in cui, ormai da anni, quasi tutti a Lincoln City sapevano essere stata trovata la piccola Aileen.

Nessuno in città, però, era a conoscenza dell’effettiva composizione di quel cesto ed era stato questo, in particolare, a colpirlo.

I rami di mirto e cedro – piante introvabili nella natura del luogo – erano stati intrecciati così finemente che, le intemperie e il tempo, li aveva solo parzialmente intaccati.

Cosa più sconcertante di tutte, però, era stato notare l’intenso, conturbante profumo di cannella e cardamomo proveniente da quell’intreccio di rami.

Come fosse possibile un simile evento, non gli era stato possibile comprenderlo ma ancora adesso, se apriva la teca in cui era conservato, poteva odorarne gli effluvi.

Tutto ciò, però, non bastava ancora a collegare queste singolarità ad Aileen Patterson.

Senza una traccia di DNA, nessuno avrebbe creduto alle sue parole.

E, per studiare il filamento di DNA di Aileen, se mai l’avesse ottenuto, avrebbe dovuto affidarsi a un laboratorio, cosa che al momento non poteva fare.

Aveva contattato, pochi mesi prima, un suo vecchio amico di università che, in quel periodo, faceva parte di una task-force impegnata a identificare i resti umani trovati all’interno del WTC.

Gli aveva chiesto di poter esaminare la remigante presso i suoi laboratori, ma lui l’aveva caldamente sconsigliato di partire per Washington per sottoporgli quel caso.

Da quel poco che aveva capito, sarebbero stati impegnati per un periodo di tempo lunghissimo.

Stando così le cose, Oliver aveva preferito evitare di rivolgersi ad alcun altro, non conoscendo nessuno tanto strettamente da permettersi il lusso di parlare della penna che era in suo possesso.

A conti fatti, era a un punto morto, senza quell’esame del DNA, e senza una comparazione con quello di Aileen.

“Oliver!”

La voce di Consuelo oltrepassò il battente a vetri satinati del suo ufficio, raggiungendo le sue orecchie.

Sollevandosi dalla poltrona di pelle su cui, ormai, aveva passato fin troppo tempo, per quel pomeriggio, si affacciò sulla porta e disse: “Dimmi, cara.”

“Non vieni a salutare, Morgan? Sta partendo.”

Il suo tono gli giunse stanco, quasi rassegnato e Oliver, nel chiudere a chiave lo studio, sospirò amaramente.

Non era stata sua intenzione deteriorare a quel modo il rapporto tra sé e il figlio, ma la loro visione del mondo era così diversa!

Le loro aspirazioni erano diametralmente opposte, e lo scontro era stato quasi inevitabile.

Consuelo, presa nel mezzo, aveva cercato con ogni mezzo di porre rimedio a quella situazione di stallo, ma nulla di ciò che aveva fatto, o detto, era servito.

Certo, Morgan passava a trovarli ogni qualvolta il lavoro glielo concedeva ma, con il padre, non aveva più avuto un dialogo sano da almeno tre anni.

Era ormai passato tanto tempo, da quando il giovane aveva deciso di mollare gli studi di Legge a Yale per tornare a Lincoln City, e diventare un pompiere.

La lite che era scaturita da quella decisione apparentemente improvvisa, quanto assurda, era riverberata tra le pareti di casa come una tempesta.

Furioso come poche altre volte, Morgan se n’era andato sbattendo la porta, rifugiandosi per più di un mese da suo zio Eduardo.

Quest’ultimo, aveva contribuito a trovargli una casa al limitare della città, per permettere a figlio e padre di non vedersi per un po’.

Grazie alla vendita di diversi quadri dipinti da Morgan durante gli anni di scuola, le spese sostenute da Eduardo erano state ben presto ripagate.

Morgan aveva potuto iniziare quella sua nuova vita lontano dal padre, permettendo così a entrambi di chetare i rispettivi animi.

Libero da qualsiasi tipo di divieto, si era potuto impegnare a pieno ritmo nella sua nuova attività, il tutto senza mai smettere di dipingere.

Il tarlo di quella divisione violenta aveva, però, continuato a erodere ciò che era rimasto dentro di loro di incompiuto.

A ogni nuova riunione di famiglia, gli scheletri nell’armadio erano stati esposti per essere messi alla pubblica gogna.

Quel giorno non era andata diversamente.

Alla notizia della sua prossima partenza per New York, dove Morgan avrebbe seguito un corso riguardante gli incendi alle Torri Gemelle, il padre era sbottato.

Si era dichiarato sconcertato, trovando assurda l’idea di perdere del tempo a esaminare un incendio già morto e sepolto.

Morgan aveva preferito non dire nulla, limitandosi a sorridere alla madre prima di fulminare con lo sguardo il padre.

Avevano pranzato in un cupo silenzio fatto di parole non dette, di insulti solo immaginati e di sguardi più vividi di mille urla strazianti.

In quel freddo pomeriggio di gennaio, senza più null’altro da dire alla famiglia, Morgan osservò il suo comandante, fermo sulla Rover parcheggiata nel vialetto.

Lo attendeva da pochi minuti, pronto ad accompagnare il suo sottoposto all’aeroporto.

Morgan si volse per l’ultima volta verso i genitori, e l’unica cosa cui seppe pensare Oliver fu il mangime per Monet.

Erano davvero andati troppo oltre, lui e il padre, e non era sicuro che sarebbero mai riusciti a trovare una via comune ove rincontrarsi.

Con un ultimo saluto, Morgan salì sull’auto sbattendo la portiera con fin troppa forza mentre il suo comandante, il Capitano Nathan Graff, commentava sarcastico: “Le guarnizioni lasciale integre, per favore, eh?”

Uno sbuffo divertito, e Morgan disse: “Quest’auto è una roccia, capo. Non le succederà niente, se la maltratto un po’.”

“Se lo dici tu.”

Svoltato che ebbe sulla Northeast in direzione della Oregon Coast Highway, Nathan chiese titubante: “Com’è andata?”

“Come al solito” bofonchiò Morgan, calandosi sulla fronte il cappellino grigio a scritte rosse dei vigili del fuoco.

“Oookay, messaggio ricevuto” mugugnò a mezza voce il suo capo, procedendo spedito lungo la statale e dirigendosi alla massima velocità consentita in direzione di Portland.

Quando il ragazzo decideva di non parlare, era inutile insistere.

Buttare giù un muro di cemento armato con una leva Halligan1, sarebbe stato più semplice.

***

Infilata la giacca nella cappelliera sopra il suo posto, Joy si accomodò sulla poltroncina accanto al finestrino.

Dopo aver abbassato le tendine – in previsione dell’alba che avrebbe colpito l’aereo di lì a qualche ora – sistemò per bene il cuscino cervicale e chiuse gli occhi.

I ritardi si erano protratti all’infinito, quella notte.

La partenza era stata infine fissata per le due meno un quarto e, quando Joy aveva salutato i suoi cugini, era salita sull’aereo come una specie di zombie.

Era stremata, aveva sonno e non voleva doversi preoccupare di nulla.

Con un sospiro, lasciò che il chiacchiericcio stanco delle altre persone scivolasse su di lei come acqua fresca.

Cullata dal rollio dei motori che, al minimo regime, si stavano scaldando in previsione della prossima partenza, finì con l’assopirsi leggermente.

Non notò quindi il suo vicino di poltrona che, con un mezzo sorriso, infilò il suo parka nella cappelliera prima di sedersi e dire a mezza voce: “Gli dèi esistono, allora.”

Come il suono di un gong sparato nel bel mezzo del suo cervello, quella voce a lei cara, e invisa al tempo stesso, le fece spalancare di colpo gli occhi.

Dinanzi a lei, bello come una notte estiva e profumato d’incenso come suo solito, Joy vide Morgan tutto sorridente e con l’aria di chi se la stava godendo un mondo.

Di sicuro, aveva scritto in volto quanto fosse sconvolta, in quel momento.

Sapeva perfettamente di avere la bocca spalancata e gli occhi sgranati come un pesce palla, ma non poteva farci assolutamente nulla.

Tutto si sarebbe aspettata tranne trovarselo lì, sullo stesso volo, e come compagno di viaggio.

“Morgan, ma cosa…” esalò lei, confusa.

Un attimo dopo, notò il suo cappellino con lo stemma dei pompieri della North Lincoln City Fire & Rescue e la divisa d’ordinanza blu scuro, che lo fasciava alla perfezione.

“Ciao, Joy” sussurrò lui, togliendosi il cappello per poggiarselo sulle gambe muscolose.

In testa, la selvaggia chioma di onde corvine era sparita per lasciare il posto a un taglio molto più professionale e marziale.

Per un sordido motivo cui la ragazza preferì non dare peso, le spiacque la mancanza dei suoi bei capelli scuri.

“Ah, … ehm… ciao, Morgan” riuscì a dire lei, cercando di ricordarsi per lo meno l’ABC della corretta educazione.

Possibile che il suo cervello andasse in red out 2, con lui? Tutte le volte?!

Abbozzando un sorrisino divertito quanto scaltro – doveva aver sicuramente notato la sua confusione, e ne era certamente compiaciuto – Morgan le chiese: “Stai tornando a scuola?”

“Già. Unico volo disponibile. A Boston, l’aeroporto è bloccato da una bufera di neve” gli spiegò, facendo spallucce. “E tu?”

“Vado a New York per un corso di aggiornamento sulle metodologie da applicare in caso di incendi su vasta scala, come quelli che hanno colpito il WTC.”

Nel dirlo, il suo sguardo si fece cupo, gli occhi d’ossidiana persero lucentezza, vitalità.  

Joy avvertì chiaramente il suo cuore battere con maggiore frenesia per alcuni attimi, prima di riprendere un ritmo normale.

Spiacente, Joy mormorò: “Avete perso molti colleghi, tra quelle macerie, vero?”

Con un breve, secco cenno d’assenso, Morgan replicò: “Trecentoquarantatre3. Se mi metto d’impegno, potrei anche citarti i loro nomi, ma non credo ti interesserebbe saperli.”

Vagamente sorpresa, Joy esalò: “Li hai… imparati a memoria?”

Serio in viso quanto scavato da un dolore profondo e sincero, Morgan si limitò a dire: “Ognuno di loro merita di essere ricordato, anche se non ho avuto il piacere di conoscerli di persona.”

“Certamente, è vero” sorrise leggermente lei, arrischiandosi a sfiorargli una mano con la propria.

Morgan sobbalzò lievemente a quel tocco gentile e, dopo un attimo di indecisione, avvolse le sue dita sottili in una stretta consolatoria, che sapeva di accettazione e di ringraziamento.

Con un mezzo sorriso, aggiunse: “Mark Ferran4, che ha partecipato ai soccorsi dopo il crollo delle Torri, ci spiegherà come affrontare casi del genere. E’ un grande, quel tipo.”

“Prevedete possa succedere ancora?” chiese Joy, senza lasciare andare la sua mano.

Aveva idea che, in quel periodo più che in altri, il contatto fisico gli fosse caro come poche altre cose al mondo.

Non voleva in alcun modo farglielo mancare, per quanto possibile.

“Non si può mai dire. Siamo tutti in allerta” scrollò le spalle Morgan, poggiandosi stancamente contro lo schienale della poltrona senza mai mollare la mano di Joy. “Avrei tanto voluto essere lì per dare loro una mano!”

“Ti fa onore” dichiarò Joy, sorprendendosi non poco nello scorgere una smorfia comparire sul suo viso, subito dopo aver proferito quelle parole.

“L’onore non c’entra nulla. Avrei voluto dare una mano, tutto qui. L’onore e la gloria se li possono tenere i grandi capi, per i miei gusti.”

Stringendo leggermente la sua mano, Joy asserì con sagacia: “Tuo padre pensa tu sia diventato un pompiere per la gloria, e il fascino che la divisa ha sulle ragazze?”

Sollevando un angolo della bocca in un sorriso sardonico, Morgan la guardò per diversi attimi senza dire nulla.

L’ammirazione, e un vago senso di orgoglio, galleggiarono nelle sue iridi scure, prima che lui sentenziasse: “Non sei solo bellissima, ma anche intelligentissima. Quando diventerai dottoressa, voglio essere il tuo primo paziente.”

Non sapendo se scoppiare a ridere, arrossire o dargli dell’idiota, Joy si accontentò di abbozzare un sorrisino e dargli un buffetto sulla mano che ancora li teneva uniti.

“Non ti auguro di diventare un mio paziente, visto che intendo lavorare in traumatologia, e recupero psicologico e motorio.”
Morgan la fissò a occhi sgranati mentre un lungo, sommesso fischio scivolò fuori dalle sue labbra carnose, dando una chiara
idea di quanto quel suo progetto lo lasciasse senza parole.

Il rossore infine giunse e Joy, ridacchiando imbarazzata di fronte alla sua ammirazione crescente, riuscì in qualche modo a dire: “E dai, non faccio nulla di speciale!”

“Come puoi dirlo, Joy? Farai un lavoro bellissimo. Difficile all’inverosimile, ma bellissimo” replicò lui, sorridendole sinceramente orgoglioso. “Potrai salvare un sacco di persone da loro stesse, e dai fantasmi che le tengono prigioniere.”

“Parli per esperienza diretta?” gli chiese Joy, leggermente preoccupata.

Cercando di contenere la risata che sorse spontanea nel suo petto, Morgan sogghignò, replicando sommessamente: “Non io, piccola… ma credo che mio padre avrebbe bisogno dell’analista, ormai.”

“Oh” esalò Joy, accigliandosi leggermente.

“Non ho idea di cosa stia combinando, Joy, altrimenti te lo direi.”

Con una scrollatina di spalle, aggiunse: “Sembra sempre più frustrato, più irritato, più… posseduto. Non so in che altro modo descriverlo.”

“Mi spiace” sussurrò Joy, reclinando il capo.

Il tocco delicato di un dito le fece sollevare lentamente il viso, mentre lo sguardo sinceramente comprensivo di Morgan le sfiorava la pelle con il suo calore.

“Non è colpa tua se crede che, dietro il tuo ritrovamento, vi sia nascosto chissà che cosa. Quando infine capirà che sei solo una splendida ragazza, allora potremo dirgli insieme che è stato uno sciocco, ti va?”

Joy non poté far altro che sorridergli e, scostandosi gentilmente dal suo tocco, poggiò il capo contro lo schienale e mormorò: “Non cedi mai, vero?”

“Il fato mi ha condotto qui con te, stanotte, sullo stesso aereo. Quante probabilità c’erano, Joy, dimmi, tu che sei tanto più intelligente di me?” replicò semplicemente lui, sorridendole disarmante.

“Io non sono più…” cominciò col dire lei, subito azzittita dal dito indice di Morgan, che le bloccò le labbra con una leggera pressione.

“Lo sei. Punto. Ora, però, rispondimi.”

Ammiccò divertito, ritirò il dito e se lo passò svogliatamente sulle labbra prima di sospirare.

“Sì, hai lo stesso sapore di fragola dell’altra volta. E io adoro le fragole.”

Avvampando in viso al ricordo di quel bacio rubato nel negozio di animali, Joy si morse il labbro inferiore per non uscirsene con un’imprecazione.

Era più desiderosa che mai di ripetere l’esperienza, quanto di piantare un sonoro ceffone in faccia a Morgan per fargli sparire quel tronfio sorriso.

Dio, com’era difficile trattare con lui!

“Perso la parola, piccola?” la punzecchiò Morgan.

Afferrando d’impulso il cappellino di Morgan per coprirsi il viso e nascondersi così al suo sguardo, Joy ringhiò: “Piantala, ti prego!”

“Forse è meglio se quello lo rimetti dov’era, a meno che tu non voglia mettermi in imbarazzo” ghignò Morgan, facendola arrossire ancora di più.

Non aveva idea se la stesse prendendo in giro o se, realmente, il loro incontro avesse scatenato quel qualcosa in lui.

In ogni caso, non voleva rischiare ulterio imbarazzi, perciò non si volse verso di lui, continuando a rimanere nascosta dietro il cappellino.

Con un risolino, Morgan intrecciò sapientemente le mani in grembo prima di sussurrarle: “Pericolo scampato. Ho rimediato in altro modo, visto che sembra piacerti tanto il mio cappellino.”

“Oooh, insomma!” sbottò Joy, scostando di colpo il copricapo per affrontarlo.

Mossa sbagliata.

Morgan ne approfittò per coglierla di sorpresa e, con un movimento rapido quanto improvviso, le scoccò un bacio sulle labbra prima di ritrarsi e fissarla divertito.

Soddisfatto, celiò: “Sì, sai proprio di fragola.”

Sbalordita da tanta audacia, Joy rimase  a guardarlo con la bocca socchiusa, incapace di replicare in alcun modo al suo gesto.

Prenderlo a schiaffi sarebbe servito? Forse no.

Sobbalzò di sorpresa, quando la hostess disse loro di legare le cinture di sicurezza per la partenza imminente.

Imprecando tra sé per la propria idiozia mentre, con gesti febbrili e tremanti, agganciava la cintura – quando Morgan compì le stesse manovre con grazia e calma – Joy tornò a puntare il suo sguardo accigliato sul volto sempre più sorridente del giovane.

A quel punto, non potendo fare altrimenti, rise sommessamente e celiò: “Sei un caso senza speranza.”

“Lo so” ammiccò Morgan, indicando poi il cappellino ancora in mano a Joy. “Puoi tenerlo davvero, sai? Mi farebbe piacere che tu avessi qualcosa di mio.”

Scrutando con attenzione il cappello di cotone dalla visiera curva, con lo stemma azzurro cielo a scritte rosse dei pompieri di Lincoln City, lei mormorò: “Li colleziono, sai?”

“Buono a sapersi” sorrise Morgan, prima di avvertire l’aumento dei giri dei motori dell’aereo. “Si parte.”

“A quanto pare…” annuì Joy, afferrando istintivamente la mano di Morgan. “Un po’ di panico pre-partenza.”

“Ti difenderò io da qualunque cosa” le promise, con un sorriso carico di aspettative.

“Anche se dovessimo precipitare?” lo irrise bonariamente lei.

Il suo sorriso si spense, sostituito da un’intensità nello sguardo da stordire Joy al punto tale da non farle percepire il lieve avvicinarsi di Morgan a lei.

Con la mano libera, il giovane le sfiorò il viso mentre i motori aumentavano ulteriormente i loro giri, rombando feroci a poppa dell’aeromobile.

Il muso dell’aereo si levò per staccarsi dalla pista e la voce di Morgan, in un sussurro appena percettibile, disse con una veemenza a stento controllata: “Niente mi impedirebbe di proteggerti. Niente.”

Quelle parole penetrarono nel suo cervello con la stessa violenza di una saetta.

Impossibilitata a muoversi perché imprigionata dallo sguardo d’ossidiana di lui, Joy fece l’unica cosa che il cuore le disse di fare – e di cui si sarebbe più tardi pentita.

Levò il viso per offrire le sue labbra a Morgan, mentre il Boeing 747 si levava da terra e la gravità li schiacciava contro le poltrone di seconda classe.

Non le interessava se la testa le diceva di non farlo, se il suo sangue stava bruciando per la tensione nervosa.

Ci avrebbe rimuginato più tardi, si sarebbe data delle randellate sulle mani una volta raggiunto il dormitorio ma lì, in quell’istante, racchiusi tra cielo e terra, voleva quel bacio.

E lo ottenne.

Morgan non si tirò certo indietro e, tenendole il viso con una mano, fece sue quelle labbra mielate e le assaporò lentamente, con meticolosità.

Respirò il suo profumo a pieni polmoni, riempiendosi di lei come se sapesse, subodorasse che, per molto tempo ancora non avrebbe più potuto concedersi un simile piacere.

Quando il fiato venne a mancare, Joy si scostò da quella bocca tentatrice e, sorridendogli nella penombra della carlinga, sussurrò: “E’ una follia, e tu sai coscientemente che non potresti mai fare una cosa simile… ma ti credo.”

“Bene” ansò lui, prima di lapparsi le labbra, tornare a sedersi compostamente e aggiungere: “Ora è meglio se la smetto. Ho promesso di farti una corte spietata, non di essere frettoloso nel muovermi.”

Emettendo un risolino a fior di labbra, Joy lo fissò senza sapere bene come affrontare quell’immane problema con il volto diabolico e insieme angelico di Morgan.

Scuotendo il capo con fare esasperato, gli fece notare un particolare non da poco.

“Il fatto che ti abbia detto che tra noi non potrà mai esserci nulla non conta, vero?”

“Hai risposto al bacio. Mi hai cercato” precisò lui, sollevando un sopracciglio bruno e arcuandolo con classe. “Non ero da solo, credimi.”

“Lo so” sbuffò Joy, non sapendo se ridere o ingiuriarlo a male parole. “Lo so. Ma ugualmente, non posso darti più di questo.”

“Mi basta” buttò lì lui, prima di aggiungere lapidario: “Per ora.

“Oh, Morgan…” sospirò lei, avvertendo solo vagamente il lento reclinare della prua dell’aereo, ormai giunto in quota.

Oh, Joy…” la scimmiottò bonariamente Morgan, sbattendo comicamente le ciglia lunghe e scure.

Non potendo non sorridere divertita di fronte al suo modo di fare così scanzonato, Joy sentenziò senza mezzi termini: “Tu mi farai impazzire, lo so.”

“Tu l’hai già fatto” scrollò le spalle lui, con falsa indifferenza. “E credimi, la cosa mi piace un sacco.”

Scorgendo una delle hostess diretta come un missile aria-aria nella loro direzione, l’aria risoluta quanto professionale, Joy sussurrò all’indirizzo di Morgan: “Finiamola qui. Stanno venendo a bacchettarci.”

Morgan mosse lesto lo sguardo in direzione dell’assistente di volo, sfoderò un sorriso così smagliante da far concorrenza ai modelli dei dentifrici.

Con fare conciliante, disse alla donna in divisa: “Le nostre più sentite scuse. Rimarremo in silenzio.”

Sbattendo le palpebre un paio di volte,  vagamente turbata dal sorriso di Morgan, la hostess annuì, mormorando sommessamente: “Ve ne sarei grata, signore. Sapete, molti desiderano riposare, ora.”

“Ne siamo consapevoli” dichiarò Morgan, umile al punto giusto.

“Buon viaggio, allora” augurò loro la donna, esibendosi in sorriso alquanto allusivo, rivolto esclusivamente a Morgan.

Joy si accigliò all’istante, a quella vista e, tra sé, si diede dell’idiota per essersela anche solo presa a livello mentale, visto e considerato che Morgan non era suo.

Non che questo contasse molto, visto che il suo cuore e il suo corpo sembravano pensarla diversamente.

Quando l’hostess fu abbastanza lontana da non sentire alcunché, Morgan sorrise a Joy e si chinò per sussurrarle all’orecchio: “Non hai neppure idea di quanto la tua gelosia sia corroborante.”

“Io non…” scattò subito lei, prima di essere azzittita dal dito indice di Morgan.

Lui le chiuse le labbra senza sforzo, mentre i suoi occhi le dicevano chiaramente quanto avesse compreso di lei a un solo sguardo.

C’era qualcosa che sfuggiva a quei due occhi scuri e profondi? Joy cominciava seriamente a dubitarne.

“Riposa, mia bella principessa. Ci vorrà ancora un po’ per arrivare al JFK” le alitò sulle labbra lui, sfiorandole la fronte con un bacio amichevole.

Dormire. Aveva di sicuro bisogno di dormire.

Dopo un buon sonno, avrebbe certamente potuto affrontare meglio Morgan, e sarebbe riuscita a tenere le sue mani e le sue labbra lontano da lei.

O almeno, era quello che sperava. O no?

 
***

Fermi in attesa dell’arrivo dei loro bagagli a mano, Joy e Morgan se ne stavano ritti in piedi nei pressi del nastro trasportatore.

Erano distanti non più di un braccio, eppure più vicini di quanto non fossero mai stati fino a quel momento.

Il risveglio, mezz’ora prima dell’arrivo al JFK, le aveva fatto scoprire un altro tassello importante, su Morgan.

Quando dormiva, il suo volto era ancora più adorabile.

Persi il sorriso sornione e gli occhi carichi di malizia, acquisiva una tenerezza nei tratti tale che, per poco, Joy non si era arrischiata ad accarezzarlo per il solo gusto di farlo.

Per sua fortuna, Morgan si era destato pochi minuti dopo di lei e, con un gran sbadiglio e una stiracchiata di braccia, l’aveva salutata con un sorriso solare.

Dopo l’atterraggio, erano scesi insieme e si erano messi in coda, aspettando con pazienza di poter uscire dallo stretto corridoio della seconda classe.

Ora, non dovevano che attendere il bagaglio e recarsi ai metal detector per uscire dall’aeroporto.

Per il check-out avrebbero impiegato un sacco di tempo, viste le restrizioni previste dal Patriot Act5.

I passeggeri stranieri non erano pochi, perciò i controlli si sarebbero dilungati non poco.

Nessuno dei due, però, sembrava aver fretta di abbandonare lo scalo aeroportuale.

Quell’aeroporto era come un’ultima spiaggia, per loro, come l’ultima fermata dell’autobus prima del capolinea.

Quando infine giunsero le valigie e Joy fece per ritirare il suo trolley, Morgan la anticipò e la prese per lei prima di incamminarsi in direzione dei controlli.

Joy lo seguì a un passo di distanza, un mezzo sorriso a illuminarle il volto.

A Morgan non importavano i suoi ‘grazie’ o i suoi ‘non dovevi’.

Gli bastavano quel sorriso sornione, quello sguardo divertito e quel suo procedere accanto a lui, divorata dal desiderio di prendergli la mano senza però averne il coraggio.

Ancora non comprendeva i motivi che la spingevano a negare, prima di tutto a se stessa, e in seguito a lui, quell’attrazione più che evidente.

Era comunque disposto ad aspettare e rispettare i suoi ritmi, certo che prima o poi avrebbe avuto la meglio.

Ne valeva la pena, per lei, ne era più che sicuro, indipendentemente da tutte le idee balzane che correvano per la mente del padre.

Non gliene importava nulla delle ricerche del padre, delle sue convinzioni che, dietro la sua comparsa a Lincoln City, vi fosse più di una bimba abbandonata.

Joy era una donna bellissima, intelligente e spiritosa, che sapeva farlo sentire importante e speciale, pur rifiutando di continuo il legame esistente tra loro.

Avrebbe lottato con tutto se stesso per ottenere da lei ciò che più desiderava e se, per il momento, ciò che poteva avere da lei era qualche bacio, beh, si sarebbe accontentato.

Presto o tardi, lei sarebbe stata sua. In un modo o nell’altro.

“Hai la stessa espressione di un gatto che ha mangiato un canarino, sai?” gli disse Joy, non appena raggiunsero la fila ai check-out.

Rendendole la valigia, lui sollevò ironico un sopracciglio e si indicò come per dire: ‘chi, io?’.

Joy lo fissò scettica, limitandosi a scuotere la testa.

Un attimo dopo, fisso sconsolata i controlli capillari e, spesso e volentieri, umilianti, portati avanti dalle guardie preposte allo smistamento dei passeggeri in arrivo.

“Trovi sia eccessivo?” le chiese lui, mentre procedevano a singhiozzo verso i metal detector.

“E’ umiliante. Nessuno merita di essere trattato così. C’è modo e modo di fare le cose, e questo modo è disgustoso.”

Reclinando il viso, Joy preferì puntare lo sguardo sulla mano che teneva il cappellino di Morgan, piuttosto che lasciarlo sulle guardie impegnate nel controllo dei passeggeri stranieri.

“L’abolizione dell’Habeas corpus6 per gli stranieri è stata una vigliaccata. Temo si stia esagerando dall’altra parte” sospirò Morgan, avvolgendole le spalle con un braccio con fare consolatorio.

“Già” annuì debolmente Joy, prima di notare un particolare che, in precedenza, le era sfuggito.

L’orgoglio composto delle persone, e i loro sorrisi ammirati.

La giacca blu scuro, e il cappello della divisa perfettamente sistemato sul capo di Morgan, attiravano l’attenzione della gente.

Ancora fresca delle emozioni soverchianti provate durante il disastro di New York, osservava con ammirazione uno dei rappresentanti del corpo dei Vigili del Fuoco che, quel giorno, tanto si erano fatti valere.

Alcuni di loro, tra i più intraprendenti, si arrischiarono ad avvicinarsi per stringere la mano a Morgan, ringraziandolo per ciò che il Corpo aveva fatto in quei tragici momenti.

Altri gli diedero leggere pacche sulle spalle, o abbozzarono dei sorrisi imbarazzati.

Per ognuno di loro, Morgan dispensò sorrisi e ringraziamenti, mentre i suoi occhi si riempirono di lacrime che, per nessuno motivo, avrebbe mai abbandonato.

Quanto doveva avere sofferto, quel giorno, vedendo i suoi compagni morire o andare incontro alla morte, senza poter fare nulla per aiutarli?

No, il ragazzo che stava al suo fianco non aveva indossato quella divisa per il fascino che sapeva suscitare,

Era il desiderio di portare aiuto a chi ne aveva bisogno, ad averlo spinto. Null’altro.

Quando anche l’ultima persona se ne fu andata per lasciarli nuovamente a loro stessi, Joy gli strinse la mano, gli sorrise orgogliosa e disse: “Sono felice di essere qui con te, oggi.”

Lui abbozzò un sorriso, il primo sorriso imbarazzato che gli vide dipinto sul viso da quando si erano conosciuti e, restituendo la stretta, le sussurrò: “Anche io.”


 
***

 
Non so se fu la cosa giusta da fare, ma ci scambiammo i numeri di cellulare e ci promettemmo di rivederci per un drink o un panino.

Visto che, per un po’ di mesi, lui si sarebbe trovato nelle vicinanze, mi era parso giusto rivederlo.

Era assurdo che io avessi ceduto al suo fascino per l’ennesima volta, eppure era successo.

Cosa sarebbe successo dopo quel mio momentaneo cedimento, non avrei saputo dirlo.

Avevo comunque deciso di accettare la sfida, e speravo solo di essere all’altezza di ciò che mi ero apprestata a fare.

Cosa fosse, solo Dio forse lo sapeva.
 
 
 


Note:

1 leva Halligan: è un particolare attrezzo in uso al corpo dei pompieri, una sorta di piede di porco.
2 red out: indica la condizione in cui il cervello rimane per breve tempo in assenza di ossigeno. Il termine è usato solitamente nell’aviazione militare.
3 Trecentoquarantatre: è il numero ufficiale stilato dal Dipartimento dei vigili del fuoco di NYC.
4 Mark Ferran: all’epoca uno dei capi del 12° Battaglione dei Vigili del Fuoco di Harlem.
5 Patriot Act: emendamento varato subito dopo gli eventi dell’11 Settembre 2001, che hanno di fatto annullato diversi diritti fondamentali spettanti agli stranieri in visita negli Stati Uniti e anche per i residenti. E’ stato, ed è tutt’ora, fonte di molte critiche.
6 Habeas corpus: divieto per i poteri repressivi di tenere in prigione qualcuno, intercettarne posta, messaggi e telefonate, e perquisirne domicilio e uffici senza un preciso e motivato mandato della magistratura. E’ stato abolito con il Patriot Act.

 

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Capitolo 17
*** cap. 17 ***


 
17.
 
 
 
 
Haniya notò subito il mio strano cappellino dei pompieri e, soprattutto, il modo in cui lo tenevo stretto, quasi avessi il terrore che qualcuno potesse sottrarmelo.

Dopo lunghe ed estenuanti domande sulla provenienza di un tale copricapo, fui costretta ad ammettere le mie colpe.

Il fatto che anche Icy Joy potesse avere un cuore che palpitava per un uomo, la sorprese.

Quel simpatico nomignolo mi era stato affibiato quando, dopo un anno di diversi approcci amorosi da parte dei maschi di Harvard, io avevo sempre risposto ‘no’.

Cortesemente, con la gentilezza più spontanea, ma sempre no era rimasto.

A un certo punto della nostra amicizia, mi aveva anche chiesto se io non preferissi la compagnia femminile, al che io avevo risposto con un cortese ‘no’.

Avevo però aggiunto che, se mai avessi incontrato una donna capace di farmi girare la testa, avrei anche potuto cambiare idea.

Lei aveva preso con una risata il mio commento, e la cosa era finita lì.

Lo scoprire che, invece, un uomo esisteva davvero nella mia vita, ed era in grado di farmi arrossire al solo pensare a lui, le instillò una tale curiosità che, alla fine, capitolai.

Le parlai a grandi linee di Morgan, di come ci fossimo conosciuti e di come la nostra non-storia fosse proseguita.

Le spiegai della mia strenua intenzione di non voler portare avanti la nostra relazione, al che lei mi diede della pazza.

Mi disse che, se un uomo era in grado di mettere miele in bocca a una donna, non avrebbe mai potuto essere solo un amico.

Fui così sciocca da chiederle cosa intendesse dire.

Con un sorriso comprensivo, Haniya mi disse con sincerità che, mentre parlavo di Morgan, non solo i miei occhi si facevano
luminosi, ma la mia voce esprimeva il legame che c’era tra me e lui.


Non ne fui soddisfatta. Per niente.
 

 
***

 
Waffles e cupcakes dai mille colori erano sistemati nella che Alex aveva ritirato in pasticceria,  quella mattina.

Da anni, ormai, l’ufficio per cui lavorava era in stretti rapporti con quel raffinato locale profumato di zucchero a velo e cioccolato.

I gestori del locale, a loro volta, erano più che lieti di annoverare, tra i loro clienti, avvocati del calibro di Alex e soci.

L’eco dei loro successi si era allargato da New York fino a giungere nelle lontane terre dell’ovest.

Naturalmente, Susan aveva stemperato la gioia di Alex dichiarando che l’avvocato avversario si era rivelato un autentico perdente.

Vincere la causa contro di lui, pertanto, non poteva essere considerato un gran risultato.

Il loro capo, l’avvocato Montgomery Elliott, aveva riso di quella battuta al vetriolo e aveva dato una pacca sulla spalla ad Alex, rassicurandolo sulle sue capacità avvocatizie.

Alex non ci aveva fatto alcun caso, memore delle parole di Leen.

Era ben deciso a mettere in pratica una strategia di attacco che mai, Susan, si sarebbe aspettata da lui.

Avrebbe dovuto solo scegliere il momento adatto per attuarla.

Il trillo del telefono del centralino lo colse di sorpresa, mentre poggiava la scatola dei dolci sulla scrivania della centralinista – assente.

Con voce professionale e pacata, disse: “Studio Elliott & Co., posso esservi utile?”

“Alexander… sei tu?”

La voce cadaverica di Sandra, la segretaria e centralinista dell’ufficio, uscì dalla cornetta assieme al rombo cupo di un naso soffiato con forza.

“Oh-oh. Sandra, sbaglierò ma hai preso un raffreddore coi fiocchi” esalò Alex, sgranando leggermente gli occhi.

“Ho trentotto di febbre e sono incollata a una scatola di Kleenex come se ne andasse della mia vita. Avverti tu Monty, per me? La voce mi sta andando via con la stessa velocità con cui il mio naso si sta intasando.”

Uno starnuto confermò la sua condizione disastrosa e Alex, con un risolino comprensivo, le promise di riferire tutto al capo prima di salutarla calorosamente.

In quel mentre, la porta dell’ascensore si aprì sull’atrio dell’ufficio, in classico stile Old English.

Susan ne uscì subito dopo, facendo il suo ingresso in grande stile.

Quella mattina, indossava un soprabito nero lungo fino alle caviglie, che nascondeva un tailleur grigio ghiaccio di Armani fresco di sartoria.

In equilibrio perfetto su un paio di Jimmy Choo pitonate dal tacco vertiginoso, la donna avanzò con la classe che sempre la contraddistingueva.

Scrutando ironica Alex mentre sistemava la cornetta sul telefono, esordì melliflua: “Il capo ti ha degradato, Yale?”

“Sandra è a casa malata” si limitò a dire lui, squadrandola da capo a piedi con sufficienza prima di afferrare la scatola dei dolci e domandare: “Cupcakes?”

Sollevando un sopracciglio biondo con aria dubbiosa – forse sorpresa che Alex non le avesse risposto per le rime – Susan si avvicinò ancora un po’ a lui.

Allungò una mano per prendere un dolcetto dalla glassa rosa pallido ma Alex, all’ultimo momento, scostò la scatola e le chiese: “Non hai dimenticato qualcosa?”

Sempre più sconcertata, Susan aggrottò pericolosamente la fronte e disse leggermente irritata: “Non mi sembra, Yale. Ma, forse, non dovrei stupirmi che la tua testa ragioni in maniera differente da quella degli altri, visto dove hai studiato.”

Indifferente alla sua battuta, Alex ritirò la scatola, se la mise sottobraccio con nonchalance e si diresse verso il suo ufficio.

“Quando ti sarà venuto in mente cosa dire, forse te ne darò uno.”

Detto ciò, aprì la porta di legno massello, la fissò per un attimo da sopra la spalla con un sorrisino canzonatorio e alla fine chiuse il battente alle sue spalle.

Susan sbatté più volte le palpebre senza sapere bene cosa dire, o che fare, di fronte a quell’Alex che non aveva mai visto prima.

Pestando un piede sulla morbida moquette di lana color cioccolato, imprecò senza troppo riguardo e fissò rabbiosa la porta chiusa.

Inviperita, si sfilò di dosso il costoso soprabito di Valentino per poi appenderlo seccata all’appendiabiti, che tenevano dentro il ripostiglio.

Dopo essersi guardata intorno come in cerca un’arma contundente, pensò bene che la sua cintura nera di karate bastasse abbondantemente per dargli una sonora lezione.

Nessuno poteva snobbarla! Soprattutto lui!

A passo di carica, per quanto la gonna a tubino glielo permettesse, Susan spalancò la porta dell’ufficio per poi chiudersela con violenza alle spalle.

Veemente e davvero poco controllata, puntò direttamente alla scrivania del collega iniziando a dire: “Se pensi che io…”

Bloccandosi quasi subito quando si rese conto che, alla scrivania di mogano del XIII secolo non c’era nessuno, solo la scatola dei dolci, Susan si chiese confusa dove diavolo fosse finito Alex.

Cogliendo al volo quel suo momentaneo stordimento Alex, si staccò dal muro accanto alla porta e ringhiò: “Ora vediamo di finirla una volta per tutte!”

Sorpresa e sgomenta, Susan sobbalzò nel sentirlo parlare con un tono che mai, prima di allora, gli aveva sentito usare.

Voltandosi verso di lui per affrontarlo, riuscì solo a lanciare un gridolino di stupore quando lui la afferrò alla vita e la spinse contro la porta dell’ufficio.

Alex era ormai ben deciso a chiarire chi avesse il controllo, in quella situazione.

Senza darle il tempo di reagire, di pensare, Alex calò la bocca sulla sua, carnosa e deliziosamente evidenziata da un rossetto color corallo.

Un ansito strozzato fu subito seguito da un mugolio – di piacere? – e Alex, non avvertendo alcuna resistenza provenire dal suo corpo tonico e maledettamente seducente, approfondì il bacio.

Come dotate di vita propria, le braccia di Susan si avvolsero come le spire di un serpente attorno al collo di Alex.

Le loro labbra, libere ormai da freni, diedero libero sfogo a una passione a lungo trattenuta quanto mal interpretata.

Mentre una mano le teneva bloccata la nuca, Alex scivolò con quella libera sull’incavo della sua schiena, attirandosela contro per aderire completamente a Susan.

Da quel poco che Alex poteva capire dal linguaggio del suo corpo, Joy aveva avuto ragione in pieno.

Susan aveva solo voluto giocare al gatto col topo con lui, forse per timidezza, forse per insicurezza, ma era tutt’altro che indifferente.

Quando infine si scostò per riprendere fiato, Alex poggiò la fronte contro quella della ragazza che, ansimante, era aggrappata di peso a lui per non cadere.

Con voce roca, sussurrò trionfante: “Vedi che ti è venuto in mente cosa mancava?”

Lei annuì tremula e Alex, schiacciandola completamente contro la porta, piegò in avanti il viso per scrutarla negli occhi fumosi e colmi di desiderio, aggiungendo baldanzoso: “Ero sicuro che, pur avendo studiato a Harvard, ci saresti arrivata.”

A Susan scappò una risatina mentre, con delicatezza, avvolgeva la caviglia di Alex con la propria, fasciata di costoso collant di seta.

In un attimo, niente più di un battito di ciglia, Susan lo stese a terra, mettendosi a cavalcioni su di lui mentre ancora Alex cercava di comprendere perché, da posizione dominante, fosse passato di colpo a succube.

Sorniona, Susan avvicinò il viso al suo e sussurrò civettuola: “Potrei ucciderti per questo, lo sai, Alex?”

Lui sorrise soddisfatto e, con una mossa improvvisa, la afferrò alle spalle per ribaltare la situazione, voltandosi di lato per poi farla stendere sul pavimento, sotto di sé.

“E’ la prima volta che mi chiami per nome, Susan.”

Con un movimento deliberatamente lento e sensuale, le sfiorò la gola con la punta del naso, mentre il resto del corpo restava scostato da lei, pur tenendola imprigionata.

“Questo vuol dire che non vuoi davvero farmi fuori.”

“Solo perché ti ho chiamato per nome?” lo irrise lei, pur tremando sotto il suo tocco delicato.

Alex rise – una risata maschile quanto profonda – e sussurrò: “Mi stavi baciando come se non aspettassi altro, Susan. E credimi, ho una certa esperienza in materia.”

Quel commento la fece irrigidire, mentre iridi di un feroce color diamante lo trafissero da parte a parte.

La voce, da roca e sensuale, divenne sibilante.

“Oh, certo! Megan può confermarlo!”

A quel punto, Alex si bloccò di colpo, sollevò il viso a fissarla con autentica sorpresa e Susan, spalancando la bocca di fronte a una verità che mai si sarebbe immaginata, esalò: “Non è… oh, merda! Non è venuta a letto con te, giusto?”

“Che diavolo di storia è questa?” borbottò Alex, rialzandosi da terra per poi trascinare Susan in piedi con sé.

Sistemandosi nervosamente il tailleur mentre, il viso rimaneva caparbiamente puntato verso le sue mani, all’opera sulla stoffa costosa, Susan sussurrò: “Mi aveva detto che… sì, insomma… e poi voi due siete andati a Portland e… sì, quella notte voi…”

“Calmati!” esclamò Alex, prendendola per le spalle e scuotendola con una certa energia. “Resetta tutto, e dimmi esattamente  cosa ti ha raccontato Megan.”

Susan allora prese un gran respiro, annuì una sola volta prima di deglutire con coraggio e dire: “Mi ha detto che, quando siete andati a Portland per quel caso di stalking, voi due avete… insomma, siete finiti a letto insieme.”

“Vero” ammise Alex, senza scomporsi.

A quelle parole, Susan si fece paonazza di rabbia in viso, già pronta a cantargliene quattro ma Alex, sollevando una mano per bloccarla, aggiunse serafico: “Analizza quello che tu stessa hai detto. A letto insieme. Non ci ho fatto sesso.”

“Ma…” tentennò lei, sempre più confusa.

“Sono stato disteso tutta notte accanto a lei, perché ha avuto una vera e propria crisi di nervi. Il suo ragazzo l’ha lasciata per telefono dieci minuti prima dell’udienza. Era fuori di sé. L’ho ascoltata fino a quando non è crollata e, al mattino, le ho portato la colazione a letto. Tutto. Qui.”

Con una scrollata di spalle, Alex si appoggiò alla scrivania e intrecciò le braccia, in attesa di qualche spiegazione da parte sua.

Mordendosi un labbro – ora non più ricoperto di rossetto, ma deliziosamente tumido – Susan lo fissò al colmo dell’imbarazzo e borbottò: “Ho fatto un gran casino, eh?”

“Credo che lo abbia fatto Megan, a questo punto” sentenziò con calma Alex, prima di sorriderle e chiedere gentilmente: “Non ho fatto caso che le battute sono nate subito dopo il nostro ritorno. Eri gelosa?”

“Io non…” sbottò subito Susan.

Un attimo dopo, sospirò e annuì  sconfitta, le lacrime pronte a debordare dagli occhi.

“Eri così gentile, con lei, e io…insomma, non sapevo come…”

Correndo ai ripari prima che il fiume di lacrime prendesse il via, Alex la avvolse in un abbraccio e le fece poggiare il capo contro la spalla, cullandola gentilmente.

“Non avrei dovuto esserlo? Era in crisi nera. Non pensavo che la cosa avrebbe potuto darti fastidio.”

“Pensavo avessi capito” singhiozzò lei, nascondendo il viso contro la sua spalla.

Con una risata liberatoria quando divertita, Alex replicò: “Susan, solo un folle sarebbe riuscito a capire la tua strategia inversa. O meglio, solo una donna, avrebbe potuto comprenderlo,  a pensarci bene.”

“Come?” esalò Susan, sollevando il capo per scrutarlo in viso con curiosità.

Ammiccando al suo indirizzo, Alex si spiegò meglio.

“Mia cugina mi ha fatto notare un paio di cose, e me ne ha consigliate un altro paio. L’agguato alle spalle era uno di quei consigli.”

“Dovrò ringraziarla, allora” ridacchiò Susan, prima di tornare seria e dire spiacente: “Non ho rovinato tutto, vero?”

“Pensi che ti avrei baciata come ho fatto, se tu avessi rovinato tutto?” le chiese Alex, sfiorandole la fronte con un bacio leggero.

“No” esalò lei, soddisfatta. “Ora, però, posso avere la mia cupcake?”

Con un sopracciglio levato con fare malizioso, Alex le avvolse la vita con le braccia e le sussurrò sulla bocca: “Non credo tu abbia pagato per tutte le cupcakes che ti ho comprato.”

“Rimedio subito” ansò lei, afferrandolo alla nuca per attirarlo vicino.

Joy meritava davvero un premio, pensò Alex prima di perdersi nel bacio di Susan.

 
***

Si sentiva un’idiota, ma ormai erano state tante le volte in cui ci si era sentita, che una in più non contava.

Morgan aveva chiamato una settimana dopo il suo ritorno a Harvard e, con voce tranquilla e quasi indifferente, l’aveva invitata a bere qualcosa quel venerdì sera.

Le aveva detto che sarebbe passato a prenderla con una berlina grigia presa a noleggio, e che l’avrebbe aspettata all’uscita dei dormitori per le sei.

Quando aveva chiesto dove sarebbero andati, Joy non aveva saputo se sentirsi lusingata o infastidita dalla sua scelta.

Prudential Center.

Certo, avventurarsi su un edificio così alto, dopo ciò che era successo alle Torri Gemelle sembrava quasi una sfida agli elementi.

Dubitava comunque seriamente che sarebbe successo qualcosa, se anche vi fossero andati.

Non aveva più ricevuto segnali negativi in tal senso, forse perché una guerra vera e propria era cominciata, e l’attenzione verso gli Stati Uniti ora si era spostata altrove.

A ogni buon conto, era un luogo abbastanza caotico per permetterle di stare tranquilla sulle reali intenzioni di Morgan.

Al tempo stesso, offriva luoghi di indubbio fascino dove parlare e stare in santa pace con la persona cara.

Insomma, aveva scelto alla perfezione.

Non sapendo come regolarsi, Joy aveva optato per un comodo paio di pantaloni neri di velluto scuro, un maglioncino bianco dal collo alto e scarpe coi tacchi.

Nonostante la neve caduta in quei giorni, lei non vi avrebbe mai rinunciato.

Adorava quegli stivaletti di pelle nera, dal tacco a spillo alto dieci centimetri e, ghiaccio, neve o tormenta di grandine, lei li avrebbe indossati.

Era sciocco, lo sapeva ma, quando c’era di mezzo Morgan, la logica andava a farsi un giro.

Perciò, avvolta dal suo pesante cappotto scuro dagli inserti di pelo, i capelli lasciati sulle spalle e le sue favolose scarpe ai piedi, Joy raggiunse impaziente lo stradello dei dormitori.

Lì, si mise a scrutare la strada, in attesa che Morgan la raggiungesse per quella serata.

Aveva espressamente vietato a Haniya di seguirla, ma sapeva che la stava osservando dalla finestra della camera, e non osava voltarsi per farle dei gestacci perché la smettesse di spiarla.

Quando una Ford Taurus grigio ghiaccio avanzò lungo la via fino a bloccarsi dinanzi a lei, Joy prese un gran respiro e attese che Morgan scendesse per salutarla.

Come una visione paradisiaca – o diabolica, a seconda dei gusti – lui smontò con un movimento fluido di gambe e le sorrise.

In jeans scuri e cardigan blu su camicia di un bianco abbagliante, passò oltre l’auto per raggiungerla e darle un simpatico bacetto sulla guancia.

“Ehi, ciao, piccola” le sussurrò, lanciando subito dopo uno sguardo allo studentato e, ridacchiando, levare una mano per salutare.

“Ciao” ansò lei, prima di sibilare: “Non dirmi che stai salutando una ragazza di colore…”

“Precisamente” sghignazzò Morgan, aprendole la portiera dell’auto. “La tua compagna di stanza?”

“Esatto” sospirò Joy, salendo in auto mentre Morgan pensava a chiudere la portiera.

Una volta risalito in auto, mise in moto e si diresse verso il Prudential Center, domandandole: “Allora, com’è andato il rientro?”

“Bene, direi. I professori sono al settimo cielo” ridacchiò Joy, prima di aggiungere: “Se continuo di questo passo, finirò gli ultimi due esami entro questo mese e, per il prossimo giugno, inizierò l’internato in ospedale.”

Morgan emise un fischio ammirato, nello svoltare sulla via principale per dirigersi verso il centro di Boston e, con voce carica di orgoglio, esclamò: “Wow! Vuol dire che sono seduto in macchina con un autentico genio!”

Arrossendo fino alla radice dei capelli, Joy replicò: “Ma no… è solo che mi piace quello che sto studiando.”

“Perché ti piace tanto sminuirti?” la prese bonariamente in giro lui, sorridendole generosamente. “Non devi sentirti in imbarazzo se ti dico che sei intelligente. Non voglio né lusingarti, né altro. E’ la pura, semplice verità.”

“Davvero?” sussurrò lei, titubante.

Con una risatina, Morgan le disse: “Certi giochetti non li userei mai, con te. E poi, è passato da un po’ il tempo in cui mi divertivo a fare il cascamorto con le ragazze.”

“Oh, addirittura… hai, quanto? Ventuno anni?” esalò lei, ridacchiando.

“Ventidue compiuti il tre gennaio” precisò lui, ammiccando.

“Auguri in ritardo, allora. Comunque, non sei così vecchio da aver mollato l’idea di…”

“Non voglio avere nessun’altra ragazza se non te. E’ così difficile da capire?” ammise con disarmante sincerità Morgan, gelandola sul suo sedile del passeggero.

Che dirgli, senza rovinargli la vita per sempre? Come allontanarlo, senza ferirlo irreparabilmente? Cosa doveva fare?

“Ehi! Non ho detto che ti sto portando in una cappella per sposarci!” rise di gusto Morgan, notando immediatamente l’ansia comparsa sul viso di Joy.

Abbozzando un sorrisino, lei annuì tremula, replicando: “Sì, certo…ma…”

“Forse mi sono spiegato male, e tu hai giustamente tratto le tue brave conclusioni” rise Morgan, grattandosi distrattamente una guancia perfettamente rasata e di un naturale color bronzo.

“Non mi interessa in che modo… o meglio, il modo mi interessa, ma non è basilare. Voglio stare con te, in tutti i modi in cui mi permetterai di stare con te. Non ce la faccio a guardarmi in giro e cercarmi un’altra, anche se so che tu sei testardamente convinta di non voler cedere. E’ così che sono fatto, e non ci posso fare nulla.”

“Ma Morgan, io… e se un giorno decidessi che quello che ti posso dare non è ciò che desideri?” sospirò Joy, stringendosi le mani in grembo con fare nervoso.

“Quello sarà un problema mio.”

Con un gesto esperto, svoltò in direzione dei parcheggi sotterranei del Prudential Center che, imponente e maestoso nella sua figura squadrata di acciaio e vetro, si elevava verso il cielo plumbeo.

L’oscurità li avvolse per un momento, prima che le luci di cortesia si accendessero nel primo sottolivello dei parcheggi.

Mentre Morgan posteggiava l’auto con precisione millimetrica, Joy esalò: “Sarà anche un mio problema, credimi.”

“Ti impedirò di soffrire per me, a costo di torturarti con una piuma notte e giorno, finché non cederai” ridacchiò lui, facendola sorridere.

“Con una piuma?” chiese lei, dubbiosa.

“Mai sofferto il solletico?” ammiccò il giovane, facendola scoppiare a ridere.

Lieto di essere riuscito a scacciare l’apparente tristezza che l’aveva colta, Morgan scese dall’auto prima di chiuderla.

Assieme a lei, si diresse verso gli ascensori stando semplicemente al suo fianco, senza neppure prenderle la mano.

Joy apprezzò quella delicatezza e, dopo essere entrata nella cabina metallica dell’ascensore, pigiò per il piano corrispondente alla libreria Barnes & Noble.

Subito, i cavi si misero in movimento, mentre una musica soffusa di archi e flauti si diffondeva nell’aria attorno a loro.

Morgan, poggiato contro una delle pareti con fare molto rilassato, le sorrideva divertito mentre lei, armeggiando con gli alamari del cappotto, tentava di liberarsi senza apparire troppo goffa.

Cosa difficile, visto che il suo solo sguardo la mandava in confusione.

Quando infine riuscì a liberarsi e a drappeggiarsi il cappotto su un braccio, Joy fece per parlare.

Di colpo, però, la luce saltò e l’ascensore si bloccò con un secco sussulto, portandola ad allungare istintivamente le mani in avanti.

Morgan fu lesto a prenderla, attirandosela vicino mentre le luci di emergenza si accendevano con un fioco color pesca.

Stretta a lui, il cuore che le rombava in testa simile a un martello pneumatico, Joy esalò: “La mia solita fortuna.”

“Tranquilla. Probabilmente, una centralina si è sovraccaricata per via dell’eccessiva richiesta di energia di questi giorni. Nel giro di mezz’ora al massimo, andrà tutto a posto” le spiegò tranquillamente, sfiorandole gentilmente i capelli e la schiena in una lenta, sensuale carezza.

Sollevando lo sguardo a fissarlo con autentica sorpresa, Joy gli chiese: “Ma come fai a startene qui così tranquillo, visto dove siamo rinchiusi?”

Lanciando uno sguardo verso l’alto, Morgan le disse: “Vedi quella botola? Porta direttamente al tettuccio dell’ascensore e, da lì, a una scaletta di servizio che conduce fino ai pannelli di controllo che usano i tecnici per entrare e uscire dal condotto per esaminare lo stato dei cavi degli ascensori. Se proprio ce la vedremo brutta, passeremo da lì, ma conto che non impieghino più di mezz’ora per sistemare le cose.”

Sinceramente ammirata, Joy gli sorrise più tranquilla.

“Beh, sono contenta di essere chiusa qui dentro con un pompiere.”

“Ben lieto di esserle d’aiuto, mademoiselle” ridacchiò lui.

“Uh, sai il francese?”

“Mia madre è fissata con le lingue. So lo spagnolo e il francese discretamente bene, e mastico un po’ di portoghese” le spiegò lui, come se niente fosse. “Inoltre, amando molto sia la cultura francese che spagnola e i loro pittori, mi è sembrato giusto imparare la loro lingua.”

“Sei una fonte continua di sorprese, Morgan Thomson” sussurrò Joy, scostandosi appena dal suo corpo statuario per poggiare le mani sul suo torace.

“Che fai?” le chiese curioso, fissando le sue piccole mani posate sul cardigan scuro.

“Ascolto il tuo cuore” si limitò a dire lei.

“Parla la dottoressa che è in te?” ridacchiò Morgan, prima di vederla scuotere la testa.

“Hai un battito cardiaco piuttosto lento, come di uno sportivo. Inoltre, ne deduco che la tua non è solo scena per farmi stare tranquilla, ma che sei veramente sereno riguardo a questa situazione” gli spiegò, vedendolo annuire divertito.

“Cos’altro senti?” sussurrò, reclinando il capo verso di lei.

Socchiudendo parzialmente gli occhi, mentre quelli di lui la mandavano letteralmente a fuoco, Joy esalò roca: “Caldo. Hai un corpo caldo, tonico, possente. Immagino sia merito anche del tuo lavoro, ma ti rammento com’eri sulla spiaggia, ed eri già così. E’ un corpo che potrebbe davvero proteggere chiunque, persino me, forse.”

Soprattutto te” le disse in un soffio, prima di impadronirsi gentilmente della sua bocca, senza minimamente tentare di bloccarla, di obbligarla a cedere a quel bacio.

Joy apprezzò anche quello e lasciò che le loro labbra giocassero per un po’, come se non si fossero mai conosciute in precedenza e volessero prendere confidenza prima di fare il passo successivo.

Ristettero così, l’uno accanto all’altra ma senza mai abbracciarsi, senza mai spingere oltre quel lieve sfiorarsi di labbra.

Quando la luce tornò all’improvviso, si scostarono con un sobbalzo, ridendo divertiti e trovando l’intera situazione assurda quanto esilarante.

“Questo è l’appuntamento più strano a cui io sia mai andato, lo ammetto” ghignò Morgan, mentre l’ascensore riprendeva il suo percorso verso l’alto.

“Non ho metri di paragone, ma strano lo è di sicuro” sorrise Joy, aggiungendo subito dopo: “Come fai a sapere esattamente quel che devi – o non devi – fare con me?”

Invece di risponderle con una battuta, come Joy si sarebbe aspettata, Morgan ci pensò bene prima di rispondere.

Sento di dover fare così. E’ un po’ difficile da spiegare ma so che, con te, tutto funziona diversamente, e quello che andrebbe bene per qualsiasi altra ragazza, non va bene per te. Non sei una conquista, un trofeo da mettere in bacheca, sei qualcosa che esula la mia comprensione. So solo che devo stare con te. Vicino, lontano, come amico, come amante, sarai tu o saranno gli eventi, a dirlo. Ma devo poter condividere la mia vita con te, in qualche modo. Senza questa certezza, mi sento vuoto.”

Deglutendo a fatica di fronte a quella confessione spiazzante, Joy sentì le lacrime pungerle gli occhi, pronte a scivolare fuori come un fiume in piena.

La dolcezza non c’entrava, né il tentativo di far bella figura ai suoi occhi, Morgan era davvero così, anche se non comprendeva perché.

Come poteva offrirgli la vera gioia, visto che le era impossibile?

Certo, sarebbe potuta andare a letto con lui per farlo felice, ma a cosa sarebbe servito?

Lui avrebbe compreso i suoi intenti, e si sarebbe infuriato a morte.

E poi, lei sarebbe stata in grado di rimanere abbastanza distaccata e concedere se stessa a Morgan, senza rimanere essa stessa vittima di ciò che le stava ribollendo nel sangue?

No, non ne era affatto sicura. Si sarebbero fatti solo del male.

Come renderlo felice, dunque?

In quanto Fenice, la soluzione avrebbe dovuto essere a portata di mano, poiché lei sapeva sempre cosa fare ma, con lui, questo processo automatico non funzionava, come se il suo cervello si spegnesse.

Quando le porte dell’ascensore si aprirono, e il profumo dei libri si confuse con quello di cera per pavimenti e dell’aroma variegato delle persone presenti in libreria, Joy sussurrò: “Siamo davvero nei guai.”

“Direi di sì” ammise lui, sospingendola all’interno del negozio per mescolarsi assieme alle altre persone presenti. “Ma non voglio che pensi a quel che ti ho detto. Siamo qui per divertirci e per passare una serata assieme. Pensi di riuscirci?”

“Tu ci riuscirai?” gli chiese per contro, fissandolo dubbiosa.

“Io sì” ammiccò Morgan, prima di allungare una mano, prendere tra le dita un libro e mostrarglielo. “Il Libro delle Risposte. Perché non provi a formulare una domanda, e vediamo che succede?”

Scettica, ma  ben disposta a fare di tutto perché quella serata andasse bene, Joy ci pensò su un attimo prima di chiedere, assurdamente: “Mi sposerò mai?”

Morgan parve sorpreso da quella domanda, ma Joy fece spallucce e il giovane, non potendo fare altro che essere accomodante, aprì a caso il libro e lesse in silenzio ciò che vi era scritto.

Subito dopo, volse il volume in direzione della ragazza e sussurrò: “Più chiaro di così…”

Impallidendo, Joy lesse a mezza voce: “Come una Fenice che risorge dalle ceneri, lascerai alle tue spalle un brutto periodo della tua vita per iniziarne uno nuovo, fatto di gioia e serenità.”

“Giuro, non sono stato io…” intervenne la voce di Rah, simile a una carezza vellutata nella sua mente.

“Lo spero per te, o potrei decidere di venire a cercarti per ucciderti” brontolò Joy tra sé, prima di abbozzare un sorriso e rivolgerlo a Morgan, che chiuse il libro e lo rimise sulla pila da cui l’aveva prelevato.

 "Non puoi uccidermi, e tu lo sai. Non ho forma materiale, ma solo spirituale.”

"Troverei un modo, se sapessi che è opera tua. Che significa, piuttosto?”

“Non lo so e, anche se fosse, non te lo direi.”

“Oh, ma… tu guarda!” sbottò Joy, afferrando un libro a caso per non dare a vedere quanto fosse impegnata in qualcosa che, di umano, aveva ben poco. “E’ così che ti rivolgi alla tua migliore amica?!”

“Tesoro, amica o non amica, ci sono cose che non posso dirti, punto e basta. Goditi la giornata con il bel Morgan, e non pensare ad altro.”

“Non dirlo come se fosse solo bello” bofonchiò lei, sentendosi in dovere di proteggere Morgan dai commenti di Rah, per quanto assurda potesse sembrarle la cosa.

“Mai detto il contrario. Il ragazzo mi piace, soprattutto quello che dice.”

“Ma i suoi desideri non potranno concretizzarsi, e lo sai.”

“Divertiti, Fenice.”

Detto ciò, svanì dalla sua mente e la ragazza, poggiando il libro di cucina che aveva sfogliato distrattamente fino a quel momento, sbuffò e disse: “Andiamo nel reparto thriller. Voglio sangue, in questo momento.”

“Basta che non sia il mio” ridacchiò lui, avvolgendole le spalle con un braccio.

Incamminatisi insieme per raggiungere il reparto che interessava a Joy, la ragazza notò di sfuggita le occhiate interessate di alcune ragazze e udì i commenti di altre.

Come già le era capitato, la gelosia prese il sopravvento sul buonsenso e, prima di riuscire a frenare il suo braccio, lo passò attorno alla vita del giovane, possessiva quanto bastò per far sospirare infelici parecchie ragazze.

Un risolino spontaneo salì dalla gola di Morgan che, svoltando nel reparto thriller – dove capeggiava un poster di Sherlock Holmes – le disse divertito: “Sei davvero un miscuglio incredibile di emozioni, eh?”

“Scusa. E’ da ipocriti, ma…” scrollò le spalle Joy, sentendo le gote andarle a fuoco per la vergogna e l’impossibilità di spiegare i suoi istinti.

“Fai pure l’ipocrita quanto vuoi. Mi piace” le fece l’occhiolino, prima di fermarsi in corrispondenza dei libri di Jeffery Deaver e curiosare attento tra i titoli a disposizione.

“Ti piace?” si interessò Joy, prendendo in mano la versione economica de Il Collezionista di Ossa.

Annuendo distrattamente mentre sfogliava l’ultimo nato di casa Deaver, Morgan rispose con voce pacata: “E’ un libro culto, nel genere. L’avrò riletto almeno quindici volte. Il film era carino, o meglio, Angelina Jolie era carina da impazzire, ma niente a che vedere con il libro.”

Il commento sulla Jolie fece sorridere Joy ma, più di tutto, le piacque il modo in cui i suoi occhi navigarono veloci sulla quarta di copertina, desiderosi di scoprire se quella storia valesse la pena di essere letta.

Qualche attimo dopo, se lo mise sottobraccio, decretando: “Andata. E’ mio.”

Con un risolino, Joy chiese: “Amore a prima vista?”

Socchiudendo le palpebre per fissarla con intensità bruciante, lui annuì, mormorando soltanto: “Sì.”

Lo squillo del cellulare la salvò dall’ennesima brutta figura.

Affrettandosi a prendere il telefonino in mano, aprì lo sportello un attimo dopo aver letto il nome di Alex sul display e, con una gratitudine quasi palpabile, esclamò: “Ehi, ciao!”

“Ciao, Leen!” ridacchiò Alex, forse sorpreso da tanta foga nel rispondere.

“Chi è?” chiese curioso Morgan, chinandosi verso di lei e avvolgendole la vita con un braccio.

“Ehi, chi c’è?” domandò a quel punto Alex, accigliandosi immediatamente nell’udire una voce maschile nei pressi della cugina.

Storcendo il naso, fulminò con lo sguardo Morgan, che si raddrizzò con un risolino stampato in faccia, dopodiché si rivolse al cugino.

“Morgan è qui con me…” poi, voltandosi un secondo, aggiunse: “… e lui è mio cugino Alex.”

“Oh, Mister Ti-proteggo-io. Me lo ricordo” commentò ironico Morgan.

“Come, Morgan? Sei tornata a Lincoln City, e non me l’hai detto? Che ci fa lì con te?” esclamò Alex, agitandosi maggiormente a ogni parola pronunciata.

“E nervosetto?” ridacchiò Morgan, azzittito da un’occhiata venefica di Joy.

Lo sproloquio di Alex andrò avanti per altri trenta secondi circa prima che Joy, con un secco ‘basta!’, lo portasse al silenzio.

Preso un gran respiro, fatto di esasperazione e imbarazzo, la ragazza mugugnò subito dopo: “Sono con Morgan perché lui si trova nei pressi di Boston, non perché io sono tornata a casa di nascosto per vederlo.”

“E perché lui è lì?”

“Stati facendo un’arringa, o sei semplicemente curioso come una comare?” brontolò Joy mentre, alle sue spalle, Morgan faceva di tutto per non scoppiare in una grassa risata.

Un borbottio sommesso giunse dall’altra parte del telefono, prima che il tono di Alex si facesse più calmo.

Dopo un attimo, il giovane avvocato le chiese: “E’ lì per lavoro?”

“Qualcosa del genere. Sta facendo un corso di aggiornamento in preparazione di altri eventi come quello avvenuto al WTC” gli spiegò Joy, tornando seria.

“Oh, giusto. E’ un pompiere. L’avevo scordato” assentì Alex. “Tutto bene?”

“Tutto okay” asserì Joy, accorgendosi di non stare dicendo affatto una bugia.

Per quanto quella situazione fosse stramba, stava bene. “Come mai hai chiamato?”

“Volevo solo dirti che sei un genio.”

Uno, due… al terzo secondo di interdizione totale, Joy collegò fatti a parole.

Lanciato un gridolino prima di tapparsi la bocca e ridacchiare sordida, esalò al colmo dell’eccitazione: “Dimmi che l’hai baciata come ti ho detto io…”

“Baciato chi?” si interessò subito Morgan, divertito dalla sua ilarità quasi incontenibile.

Facendogli cenno con una mano per azzittirlo, con una promessa nello sguardo che lo fece annuire con un ghigno soddisfatto in volto, Joy disse ancora: “Dai, dimmelo, dimmelo, dimmelo!”

Ridendo di gusto per la sua impazienza, Alex le raccontò la faccenda delle cupcakes e di come fosse finita la loro battaglia tra sessi.

Al colmo della gioia per quella bella notizia, Joy si volse verso Morgan per abbracciarlo, saltando allegramente e facendo ridere sommessamente il giovane.

A mezza voce, il pompiere disse all’indirizzo del telefono: “Non so che gli hai detto, bell’imbusto, ma sta saltando come una cavalletta!”

“Leen? Che combini?” volle sapere Alex, dopo aver sentito sì e no le parole di Morgan.

Tornando con il telefono accanto all’orecchio, Joy riuscì a dire: “E’ solo che sono felicissima, così mi sono sfogata un po’. Oh, Dio, dimmi che porterai Susan a casa, per Pasqua! Voglio assolutamente conoscerla.”

“Vedremo se durerà fino a Pasqua” tenne a precisare Alex.

“Malfidato. Dai più credito a entrambi, per favore” lo redarguì bonariamente Joy, prima di dire più seriamente: “Sono contenta per te, Alex, davvero.”

“Grazie, Leen. E lì, come sta andando? La tua avversione per i rapporti intimi si fa ancora sentire?”

“Sono alquanto combattuta, ma mi sto divertendo” ammise Joy, sorridendo per un secondo a Morgan.

“Non ti dirò quel che devi fare, perché sono in ballo forze che stento ancora a capire ma, se senti che è la cosa giusta, lasciati andare” le consigliò Alex, prima di ridacchiare. “Che cose da dire, alla propria cugina!”

Spalancando gli occhi e facendosi falsamente inorridita, Joy esalò: “Mi stai mandando tra le braccia di un uomo, Alex? Cosa direbbe mio padre?”

“Io sarei d’accordo” intervenne Morgan, ridacchiando.

“Digli che l’ho sentito, e non sto ridendo” bofonchiò Alex.

“Ti ha sentito” sussurrò Joy a Morgan, che scrollò le spalle noncurante prima di muovere una mano dinanzi alla ragazza, perché gli passasse il cellulare.

Vagamente sorpresa, Joy lo accontentò e Morgan, non appena fu a tiro di microfono, disse: “Non sindacherò sul fatto che tu sia così attaccato a tua cugina da preoccuparti per ogni evento della sua vita…”

“Ma che diavolo…” brontolò Alex, prima di venire azzittito da Morgan.

“… ma tengo a precisare che non sono un idiota, e so riconoscere il gioiello di inestimabile valore che ho davanti. Se Joy è qui con me, è perché si fidava ad uscire col sottoscritto, non certo perché l’ho circuita o l’ho rapita dal dormitorio di Harvard.
Non mi permetterò mai di farle del male, né di fare qualcosa che lei non voglia. E con questo non voglio più tornare sull’argomento.”

Detto ciò, restituì il cellulare a una basita Joy che, ripresolo in mano, esalò: “Alex? Tutto okay?”

“Ci sono, ci sono” sussurrò lui, ancora intontito da quella strana dichiarazione. “Che dire? Buona fortuna.”

“Ah. Tutto qui?” bofonchiò Joy, aspettandosi chissà quale manfrina.

“Ora devo andare, ma tu vedi di goderti la vita, Fenice o non Fenice, va bene?” le disse Alex, speranzoso.

“Lo dirò a papà, che mi spingi nel letto di un uomo” ridacchiò Joy, prima di mandargli un bacio e chiudere la comunicazione.

Come due ali di colomba, le braccia di Morgan la avvolsero teneramente, portandola a poggiare la schiena contro il suo torace mentre la sua bocca, leggera e soffice, si posò sul suo capo.

“Non ti voglio nel mio letto, ora come ora.”

Joy si volse a mezzo per scrutarlo in viso e, sorridendo a mezzo, gli domandò: “Perché sono confusa all’inverosimile?”

Lui si limitò ad annuire prima di scostarsi, prenderla per mano e dire: “Altra tappa?”

“Va bene” acconsentì lei, aprendosi in un sorriso spontaneo quanto sincero.

Morgan sapeva maledettamente bene cosa dire, e cosa fare e, soprattutto, quando farlo.

Come avrebbe potuto resistergli?



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Capitolo 18
*** cap.18 ***


18.
 
 
 
 
 
Raccontare a Morgan di Alex e Susan fu strano e divertente al tempo stesso.

Soprattutto, quando mi fece i complimenti per la tattica che avevo suggerito a mio cugino, che lui approvò in pieno.

Mangiammo un sandwich al bar, preferendo non salire all’ultimo piano, dove si trovava il ristorante.

Evitammo così l’imbarazzo delle luci soffuse, dei camerieri in livrea e dei separé di velluto, che avrebbero reso tutto molto più complicato di quanto già non fosse.

L’atmosfera rilassata del bar era di gran lunga migliore e, a conti fatti, aiutò entrambi a rilassarci.

Nella mente, avevo ancora quella maledetta frase del Libro delle Risposte che, per quanto assurda, mi stava facendo impazzire.

Avevo fatto di proposito quella domanda, perché sapevo che la sua degna risposta avrebbe dovuto essere negativa.

Quando, invece, avevo letto quelle parole scritte in bella grafia, mi ero sentita crollare il mondo sotto i piedi.

Certo, non era altro che un gioco, e quello stupido libro non aveva nessun tipo di potere mistico al suo interno.

Non era certo come il Libro di Anubis o il Libro di Rah - che donavano la vita e la morte a chi fosse stato in grado di leggerli - eppure mi ci fissai per tutta la sera.

Quando infine tornammo al dormitorio e Morgan mi lasciò all’entrata con un abbraccio e un bacio sulla fronte, non resistetti all’impulso di chiedergli lumi.

Perché lui non aveva fatto alcuna domanda al libro?

Con una semplicità che mi sconcertò, mi disse con candore: “Perché il mio desiderio lo sto tenendo tra le braccia, adesso. Che altro potevo chiedere?”

Quella notte, non riuscii a dormire affatto.

 
***

 
Seduto compostamente in una delle ultime file dell’aula didattica in cui stavano tenendo il corso di aggiornamento, Morgan giocherellò distrattamente con la matita.

Con lo sguardo, seguiva attentamente le spiegazioni dell’architetto Swanson, che stava delineando su una lavagna luminosa i punti di cedimento della struttura della Torre Nord del WTC.

Le barre di acciaio temperato, che componevano la struttura portante, avevano ceduto, in primis, a causa dell’impatto del Boeing 747.

Di fatto, l’aereo ne aveva tranciato la travatura interna.

Successivamente, la deflagrazione delle migliaia di litri di kerosene contenuto all’interno delle ali, aveva causato un incendio che aveva dato il colpo di grazia alla torre.

Il calore sprigionato aveva indebolito le travi già danneggiate dall’impatto, finendo con il far implodere la struttura su se stessa.

Chi aveva trovato scampo – ben pochi – lo aveva fatto grazie alle sacche d’aria formatesi nelle trombe delle scale.
Accartocciatesi su loro stesse, avevano ammonticchiato i mezzanini gli uni sugli altri, formando piccole bolle protettive per coloro che si erano trovati sotto di esse.

Non molti, per la verità, avevano avuto quella fortuna.

Con più di cento piani sopra la testa, e accartocciati come dopo un disastro nucleare, non ci si sarebbe potuti aspettare nulla di diverso.

La vera tragedia era stata causata dalla struttura stessa delle scale di sicurezza, troppo strette e troppo poche, per il numero di persone presenti normalmente all’interno del WTC.

Nessuno, però, al momento della progettazione, aveva pensato a un simile scenario apocalittico, questo era sicuro.

“Più la guardo, e più mi viene da dire che, quando le hanno fatte, ci abbiano disegnato sopra un bersaglio” brontolò al suo fianco il caporale Anthony Colicchio.

“Di certo, attiravano l’attenzione” annuì distrattamente Morgan, scribacchiando qualche appunto riguardante la saturazione di gas nocivi e infiammabili all’interno della torre, causati dalla combustione del carburante.

Lo sguardo, come sempre, gli corse al cappellino con lo stemma di Harvard che teneva sul banco dove stava prendendo appunti.

Immediato, un lento sorriso fece capolino sul suo viso.

Joy glielo aveva regalato alla loro seconda uscita, avvenuta meno di tre giorni prima.

Con un sorrisino imbarazzato e speranzoso assieme, glielo aveva consegnato distendendo entrambe le braccia come una bambina, dicendo allegra: “Per ricompensarti di quello che hai dato a me.”

Lui lo aveva accettato con un ‘grazie’ e un abbraccio e, solo a stento, si era trattenuto dall’afferrarle la nuca per darle un bacio divorante.

Per qualche motivo che sfuggiva alla sua stessa comprensione, sapeva che quel genere di mossa, con lei, avrebbe sortito un effetto disastroso.

E Morgan non voleva in alcun modo darle un pretesto per allontanarsi.

Con lei, voleva riuscire a ottenere il massimo, il che non voleva dire necessariamente portarsela a letto, anche se era una componente che non poteva escludere del tutto.

Come farlo, quando lei era così adorabilmente perfetta, dai lineamenti simili a quelli di una dea greca, i capelli di fiamma e gli occhi luminosi e misteriosi come quelli di un gatto?

No, era abbastanza sano di mente e di corpo per desiderarla anche  dal punto di vista fisico, ma voleva di più da lei, molto di più.

Voleva il pacchetto completo e, per averlo, era più che certo che avrebbe dovuto lottare con le unghie e con i denti.

Aveva ormai ben chiaro quanto Joy fosse terrorizzata alla sola idea di legarsi a qualcuno, e in quel modo.

Non le aveva mai chiesto i motivi di quella ritrosia, e dubitava che fosse per una precedente storia andata male.

Sapeva, però che, quello scoglio, sarebbe stato il suo vero nemico negli anni a venire.

Era evidente che l’attrazione era reciproca, ed era anche già piuttosto forte, ma quella sua atavica paura lo era molto di più.

Morgan non si sarebbe comunque dato per vinto e, anche a costo di aspettare in eterno, avrebbe avuto l’ultima parola.

Sfiorando con un dito la visiera del cappello, Morgan accentuò il sorriso sul volto e Anthony, accanto a lui, sogghignò.

“Si può sapere chi ti ha dato quel cappellino?”

“Non te lo dirò mai” sentenziò Morgan, con un ghigno furbo.

“Ohhh. Una donna così bella?” ridacchiò allora Anthony.

“Scordatelo. Non te la presenterò.”

Infilatosi il cappellino in testa, tirò in basso la visiera fin quasi a coprirsi gli occhi e Anthony, afferrando al volo il messaggio, lasciò perdere per il momento il terzo grado.

Rischiare di essere beccati come due scolaretti a chiacchierare in classe, non era il massimo.

Meglio aspettare la fine della lezione.

***


“Tu sei pazza, lasciatelo dire.”

Sgranocchiando una patatina fritta con aria severa, Haniya proseguì nella sua arringa, borbottando: “Siete usciti tre volte, vi sentite per telefono,… quanto? Tre volte al giorno, quattro? E tu vuoi farmi credere che non vuoi andarci a letto o, per lo meno, metterti con lui in pianta stabile?”

“E’ complicato” sussurrò Joy, sorseggiando la Coca-Cola dal suo bicchierone di carta rossa e bianca. “Non è tutto incentrato sulla faccenda lui-lei-il letto.”

“Lo so benissimo, cara, ma questo non toglie che, dopo essere tornata da un appuntamento con Morgan, ti brillano gli occhi e sei stralunata per almeno un paio d’ore” tenne a precisare la ragazza, facendo dondolare una patatina come la bacchetta di un orchestrale.

Copertasi il viso con le mani, lo scosse un paio di volte per l’esasperazione prima di ringhiare: “Io non devo essere stralunata.”

“Aileen Joy Patterson” la richiamò all’ordine Haniya, facendole levare il capo per la curiosità. “Hai i migliori voti di sempre, stai per finire prima di tutti gli altri studenti l’università più prestigiosa d’America, non entrerai nel Guinness dei Primati solo per poco, hai seguito il  New Pathway facendo piangere di gioia i tuoi insegnanti, comincerai l’internato in ospedale tra due mesi e, se tutto va bene, potrai dare l’esame di specializzazione tra due anni, se prosegui come sei andata fin’ora… e mi dici che non puoi essere stralunata?!”

“Okay, messa così suona male davvero” ammise Joy, sbuffando.

“Eccome, se suona male. Io dovrò stare incollata ai libri ancora per un anno buono e, per la specializzazione, si parlerà almeno di tre anni, ne sono sicura. Tu potrai essere operativa sul campo molto tempo prima di me. Di che ti lamenti?” esalò Haniya, fissandola con falso nervosismo.

“Chiedo venia. Non ho di che lamentarmi.”

Passandosi una mano tra i capelli rilasciati sulle spalle, Joy però mormorò lapidaria: “A ogni modo, Morgan non può entrare nell’equazione, non più di quel tanto, per la precisione.”

Con un esagerato sospiro di esasperazione, Haniya crollò col capo sul tavolino del bar dove si erano sedute per pranzo e, con un brontolio sommesso, mugugnò: “Non ci sono speranze, con te.”

***

L’occhiata che Morgan lanciò ad Anthony avrebbe dovuto scoraggiare anche il più tenace tra i curiosoni, ma non lui, non Anthony Colicchio di Atlanta.

Dopo averlo lasciato in pace durante la loro permanenza in aula, Tony lo aveva poi subissato di domande non appena avevano messo piede fuori.

Ora che si trovavano a cena in un bar del centro, la cosa aveva preso i contorni di un’autentica inquisizione.

Sospirando con aria falsamente afflitta, Morgan si passò una mano sulla corta chioma corvina prima di esalare: “Hai intenzione di mettermi un cappio al collo, se non ti dirò nulla di lei? No, perché ormai comincio a temerlo davvero.”

“E’ che la tua ritrosia a parlare di Joy è davvero stuzzicante.”

Sì, era riuscito a strappargli il suo nome, e il fatto che stesse studiando a Harvard per diventare dottore.

Tutto il resto, soprattutto la fotografia che teneva ben nascosta nella sua fotocamera digitale, era rimasto sigillato dietro la sua bocca piegata in una smorfia.

“Cavolo, Tony, sei sposato e in procinto di avere un bambino. Che ti frega delle mie avventure amorose?” borbottò esacerbato Morgan.

“Ragazzo…” cominciò col dire Tony, con il suo tono da professore. “… è più che evidente che, in questa storia, qualcosa non va come dovrebbe. Hai uno sguardo nostalgico, quando osservi quel tuo prezioso cappellino, non di certo un occhio ingrifato come dovrebbe avere un giovane di ventidue anni.”

Sollevato un sopracciglio con aria disgustata, Morgan replicò piccato: “Non vedo Joy come uno stallone in calore vedrebbe una giumenta, chiariamo questo punto.”

Mimando poi le virgolette, aggiunse: “E non mi vedrai mai ingrifato, come dici tu, perché lei non si merita da me un comportamento da idiota.”

Lo sguardo di Anthony si fece serio, a quelle parole e, poggiato un gomito sul tavolino che li divideva, celiò: “Ragazzo mio, sei innamorato perso della tua dottoressa, a quanto pare.”

“Ma va?” esclamò Morgan, levando ironico le sopracciglia.

“Non sei un po’ troppo giovane per fissarti su una sola ragazza che tra l’altro, per un bel po’, non rivedrai per via del lavoro che fa?” gli chiese allora Anthony, dubbioso.

“So già che i primi anni farà praticantato qui a Boston e che, solo più tardi, potrà chiedere trasferimento a Lincoln City, ammesso e non concesso che cerchino dottori con la sua specializzazione, ma non mi importa. E’ lei. Punto” sentenziò Morgan, intrecciando le braccia sul torace abbracciato da una maglietta dei Metallica.

Levate le mani per chetarne l’umore, Anthony si affrettò a dire: “Okay, okay, non ti scaldare. Quindi, lei sarebbe l’Unica, eh? E l’hai incontrata, quando?”

Fissandolo bieco, Morgan ringhiò: “Quasi tre anni fa, ormai. E non ti dirò altro. Non me ne frega niente se dovrò aspettarne venti, prima di averla. Ogni attimo sarà valso allo scopo.”

“Beh, hai tutta la mia comprensione. Sei matto come un cavallo, ma coraggioso, non c’è dubbio” se ne uscì Anthony, fissandolo con aria falsamente angosciata.

“Ahhh! Lasciamo perdere!” bofonchiò Morgan, tornando ad afferrare il suo panino per finirlo e andare a rifugiarsi nella sua stanza d’albergo.

Il cellulare lo bloccò a metà di un morso e, ingollando quel che aveva in bocca con la foga di un affamato nel bel mezzo di un deserto, afferrò il suo telefono e lo aprì.

“Ciao, piccola. Cosa succede?”

“Ciao. Non succede nulla. Volevo solo sapere se ti andava di venire a vedere una partita di hockey con me. I Boston Bruins giocano in casa, questa domenica, e mi chiedevo se ti andasse di venire allo stadio.”

La voce gli giunse allegra, vagamente eccitata e solo un poco speranzosa, quasi non desse per scontato il suo sì.

Sgranando gli occhi mentre un lento, tronfio sorriso saliva sul suo viso solcato dalla sorpresa, Morgan esalò: “Donna, non dirmi che tu sei una fanatica dell’hockey su ghiaccio?”

“Tutta la famiglia, per la verità. Infatti, i biglietti che ho sono un regalo di Alex. Sapeva della partita, così mi ha fedexato due biglietti per la partita al TD Garden di domenica. Allora, ti va?” gli spiegò lei con quel tono di voce pimpante che tanto lo faceva andare in brodo di giuggiole.

“Sarò lì da te due ore prima, okay?” dichiarò subito, facendola ridere di piacere.

“Perfetto. Ti aspetto, allora. Ciao!”

Chiudendo il cellulare con uno scatto lento della mano, Morgan chiosò: “Come posso non amare una donna che mi invita a una partita di hockey?”

Ad Anthony non rimase altro che annuire, prima di offrirgli da bere per un brindisi.

 
***

La maglietta di Joe Thornton – di un bel nero e oro, con scritte bianche sulla schiena – le stava splendidamente, anche se era di una taglia più grande del necessario.

E anche se sotto portava un leggero maglione nero a coste, per compensare il freddo dello stadio indoor dove si trovavano.

I posti erano perfetti, in terza fila e proprio a metà del campo di gioco.

Si trovavano in corrispondenza della zona di penalizzazione degli atleti più indisciplinati. La visuale era semplicemente eccezionale.

Morgan non poté che ringraziare mentalmente Alexander per quel regalo davvero insperato e, nel prendere per mano Joy per raggiungere i posti a loro designati, le sorrise ilare.

“Tutto mi sarei mai immaginato, tranne questo.”

“Che penserai di me, se ti dico che sono una che ama la velocità e le macchine potenti?” ridacchiò allora Joy, ammiccando complice.

Facendo tanto d’occhi, Morgan si finse scandalizzato ed esalò: “Oh, mio Dio! Ma tu non sei la dolce sirena che ho conosciuto io. Esci da questo corpo!”

Scoppiando a ridere di gusto, Joy si lasciò cadere sulla sua poltroncina di plastica non appena la raggiunse.

Morgan, imitandola con più grazia, le passò il bicchierone di Coca-Cola e il sacchetto di patatine che avevano acquistato, prima di dire più seriamente: “Davvero sei una patita di macchine?”

“Ho una Chevrolet Camaro del ’98, con il motore completamente rifatto dal mio meccanico di fiducia. Gli ho fatto installare un cambio a marce ravvicinate e una barra antitorsione sul blocco motore. Inoltre, ne ho fatto ribassare l’assetto e le ho messo dei cerchi in lega da 17 e…”

Poggiatole un dito sulle labbra per interromperla nel suo elenco interminabile, Morgan la fissò per alcuni istanti prima di esclamare: “Sposami!”

Sapendo bene che lo stava dicendo solo per ridere, Joy stette al gioco e si esibì in un sorrisone allegro, replicando: “Ci conosciamo appena, Morgan…”

“Chi se ne frega. Una ragazza che mi parla di barre antitorsione e cambio a marce ravvicinate, è da sposare!” rise lui, prima di notare la risatina del loro vicino di poltroncina. “Sbaglio, forse?”

“Affatto, amico. Anzi, se ti scarica, le chiedo io di sposarmi” celiò l’uomo, facendo poi l’occhiolino a Joy, che rise di gusto.

“Oh, quante proposte di matrimonio, in pochi minuti” rise la ragazza, bevendosi  tutta calma la sua Coca-Cola e snobbando di proposito i due contendenti.

“Non ci prende sul serio, mi sa” dichiarò falsamente irritato Morgan.

“Ehh, mi sa proprio di no. Peccato.”

L’uomo sollevò una mano per battere il cinque con Morgan mentre, dal fondo del campo, cominciarono a uscire i giocatori.

Abbassando il bicchiere, Joy esclamò: “Smettetela, adesso. Si comincia.”

“Una vera tigre. Auguri, amico” ridacchiò l’uomo all’indirizzo di Morgan.

“Grazie” ammiccò lui prima di stringere una mano a Joy, che gli sorrise eccitata.

Dire che Morgan rimase sorpreso nel vedere Joy durante la partita, fu un eufemismo.

La ragazza, da calma ed educata che era, divenne un’autentica furia della natura, urlando a squarciagola per appoggiare i Boston Bruins.

Con ben poca sportività, nel frattempo inneggiò a ignominiosa fine gli avversari.

Ben poche volte rimase seduta al suo posto e, quando alla fine la partita venne vinta dalla squadra di casa, contenerne l’entusiasmo fu un’avventura degna di nota.

Le risate di Joy gli avevano ammorbato i sensi durante tutta la durata della partita che lui, alla fin fine, aveva guardato ben poco.

Era stato troppo preso a perdersi in lei, e nella sua gioia incontenibile.

Quella splendida, imprevedibile creatura diventava, a ogni giorno che passava, sempre più affascinante, sempre più indispensabile per la sua stessa sopravvivenza.

L’idea di averla tutta per sé era qualcosa con cui non riusciva a venire a patti, eppure sapeva che, con il mestiere che aveva scelto, Joy avrebbe dedicato tantissime ore del suo tempo ai suoi pazienti.

Inoltre, lui stesso aveva un mestiere che, di certo, non aiutava la sua causa.

Attraversarono Boston commentando il risultato della partita e le mosse dei giocatori.

Joy non la smise di parlare un solo attimo mentre Morgan, sorridente e colmo di desiderio, non potè che ascoltare e godersi i suoni melodiosi che scaturivano da quella bocca perfetta.

Quella bocca fatta per essere baciata fino a consumarsi in essa.

Quando infine giunsero al dormitorio, e Morgan la accompagnò alla porta come di consueto, il sole era ormai reclinato oltre l’orizzonte e i lampioni erano accesi un po’ ovunque.

Un’aria gelida soffiava da nord, ma la struttura a più piani del dormitorio la schermava a meraviglia, consentendo loro di scambiare qualche parola all’esterno senza morire assiderati.

Ancora accalorata per la partita ed eccitata per la bella giornata, Joy saltellò fino alla porta a vetri e lì, nel volgersi verso Morgan, cominciò col dire: “Allora, non è stata…”

Con una mossa fulminea del braccio, la attirò a sé e, senza darle il tempo di riprendersi dalla sorpresa, calò sulla sua bocca con una bramosia che mai, prima di allora, aveva osato esternare con Joy.

La ragazza si ritrovò letteralmente risucchiata dal desiderio insaziabile di Morgan, mentre il suo montò con la forza di una piena di fiume, inondandole il cervello.

Andò completamente in tilt.

Ogni pensiero cognitivo, ogni voce proveniente dal mondo, ogni sensazione esterna venne annullata da quel bacio, cui Joy rispose pienamente e con altrettanta foga.

Il suo corpo aderì completamente a quello di Morgan, divenendo un tutt’uno con lui mentre le mani affondavano nei suoi corti capelli scuri, assaporandone la sericea consistenza.

Il respiro le si fece affannoso, le gambe iniziarono a cedere e solo il corpo solido di Morgan – unica cosa reale attorno a lei – le impedì di crollare a terra e interrompere così il bacio.

Quando, però, si rese conto di ciò che le stava succedendo, si scostò da lui in preda al terrore più cieco.

Tenendo le mani sul suo torace per impedirgli di riprenderla tra le braccia, esalò sconvolta: “Non sento… più nulla… più nulla.”

“Joy, ma cosa…” tentennò Morgan, lo sguardo reso vacuo dalla passione che lo aveva colto.

Portandosi le mani al viso, ora pallido e scioccato, Joy scosse il capo ed esalò con voce incrinata dall’ansia: “E’ come se tutto il mondo non esistesse più!”

“Anche per me. Esisti solo tu” le sussurrò lui, sorridendole gentilmente.

“Ma io non … non posso! Non posso!” singhiozzò Joy, sollevando nuovamente le mani quando lui tentò di abbracciarla. “No! Non farlo! Non posso perdere il controllo a questo modo! Non puoi… non devi essere l’Unico!”

“Joy, ma che stai dicendo?” si impensierì Morgan, vedendola così sconvolta.

Scuotendo le mani con fare nervoso, la ragazza sussurrò ormai allo stremo: “Siamo andati troppo oltre, ed è colpa mia, solo colpa mia. Non posso darti cosi tanto di me, o gli altri… io…”

“Joy, calmati. Joy, Joy, guardami, per favore.”

La chiamò più volte, mentre lei camminava avanti e indietro davanti alla porta del dormitorio come se fosse stata un’invasata.

Alla fine, non ottenendo nulla di buono, la afferrò per le spalle, la scrollò con una certa incisività e le disse seccamente: “Ascolta. Ho esagerato, va bene, e prometto che non lo farò più, se tu non ti sentirai pronta, ma non andare fuori di testa per un bacio.”

Volesse il cielo che fosse solo per un bacio, pensò lei disperata, pur calmandosi un poco.

Preso un gran respiro, Joy poggiò le mani su quelle di Morgan, ancora sulle sue spalle, e le scostò con gentile fermezza, trattrenendole tra le sue.

Fatto ciò, lo guardò con una sofferenza percepibile sulla pelle e mormorò: “Ci sono cose che non sai di me, e che ci costringono a stare separati. L’unica cosa che posso offrirti è l’amicizia, ma sono costretta a chiederti di non baciarmi mai più. Spero solo di non farti soffrire più di quanto tu stai soffrendo già ora, a causa della mia indecisione a parlarti chiaramente.”

Sciogliendosi dalla stretta di Joy, Morgan si passò le mani tra i capelli, non sapendo bene se sentirsi irritato con lei, o con se stesso,

Meno male che aveva voluto andarci piano, con lei!

“Mettiamola così, Joy. Io non ci resto senza di te, che ti piaccia o no. Non mi vuoi dire cosa ti trattiene dallo stare con me, come so che tu vorresti fare? Va bene. Tieniti i tuoi segreti. Ma non ti sognare di chiudere con me, perché allora mi incazzerò di brutto. Mi puoi dare solo amicizia? Okay. Te l’avevo già detto, prenderò quel che mi darai. Non lo capisco, ma lo accetto.”

“Ho fatto un casino” sospirò Joy, reclinando il capo, i sensi che ormai avevano ripreso le sue consuete funzioni.

“Sì e no. L’ho combinato anch’io, a dirla tutta. Mi ero ripromesso di non metterti fretta, e poi ti ho letteralmente risucchiata in quel bacio” brontolò Morgan, continuando a passarsi una mano tra i capelli, come per un tic nervoso.

“E’ stato bello” ci tenne a dire lei.

“Finché non sei uscita di testa” precisò il giovane, con un mesto sorriso.

“Già” esalò Joy, sconsolata.

Come spiegargli quel che il suo bacio era riuscito a fare su una creatura ancestrale come lei?

Come renderlo edotto sui poteri che il suo tocco aveva su di lei?

Impossibile farlo, senza rischiare che lui la odiasse o, peggio, andasse a dire tutto a suo padre.

“Senti, ora me ne vado e ti lascio sbollire, poi ti chiamerò domani per sapere come stai. Se vorrai continuare con la faccenda del ‘siamo solo amici’, io lo accetterò e prenderò nota, va bene?” le propose, conciliante.

“Sei troppo buono con me. Non me lo merito.”

“Stronzate” sbuffò lui, sorprendendola.

“In che senso?” esalò Joy.

“Continui a pensare che il sesso sia l’unica ragione per cui ti corro dietro e dai per scontato che, avendomi negato la parte fisica di questo rapporto, io sia incazzato con te. Tutte balle. La faccenda va ben oltre, almeno per me.”

Si guardò intorno, come in cerca di ispirazione, dopodiché proseguì nella sua arringa difensiva.

“E’ vero, vorrei andare a letto con te, solo un pazzo o un idiota lo negherebbero. Ma non è  solo quello!” sbottò lui, irritandosi non poco. “C’è altro! C’è la tua compagnia, il piacere di parlare con te, di dividere dei momenti divertenti, il poterti confortare se ne hai bisogno, o il sentire la tua presenza confortante quando sono io ad aver necessità di un sostegno. L’amicizia è di vitale importanza, per me. Non dubitarne mai.”

“D’accordo” sussurrò Joy, prima di sollevare indecisa una mano.

Morgan rimase assolutamente fermo, una statua meravigliosa di carne e sangue e Joy, sfiorandogli la guancia, mormorò con un mesto sorriso: “Posso essere ciò che hai detto. Davvero.”

“Allora, io sarò per te ciò che ho detto” sentenziò Morgan, allontanandosi poi dal suo tocco.

Sollevò una mano per salutarla, dandole però le spalle per poi andarsene in direzione dell’auto.

Joy lo scrutò per tutto il tempo, finché l’auto non svanì oltre il contorno alberato dell’isolato e, alla fine, rientrò nel dormitorio, dove sperò di non trovare Haniya.

Neppure con lei, in quel momento, avrebbe potuto parlare.

Solo una persona era in grado di consolarla, in quei tragici istanti.

Ringraziato mentalmente il cielo, quando raggiunse la sua camera – vuota – Joy si buttò sul letto senza neppure togliersi la giacca a vento e, chiusi gli occhi, sussurrò nella sua mente confusa: “Rah…”

“Tutto bene?”

“Per niente. Sapevi che avrei potuto perdere il controllo fino a questo punto?”

“Non sentivi più nulla?”

“Niente di niente. Mi sembrava di avere i sensi ottenebrati. E’ stato traumatico.”


“E una cosa del genere non ti dice niente?”

“Sì, che non devo più farmi baciare da Morgan” dichiarò perentoria, mettendosi a sedere prima di riaprire gli occhi e fissare arcigna tutto ciò che la circondava.

Dalla scrivania ricolma di libri aperti, all’armadio ordinato, tutto le parve odioso e degno di essere ridotto in briciole.

Gli artigli le spuntarono senza che lei potesse fermarli e Rah, avvedendosene, celiò: “Sei sicura che sia la soluzione migliore?”

“Ti pare che possa permettermi di andare in tilt?” ringhò a voce alta Joy, rivolgendo uno sguardo accigliato al soffitto.

“Non ho consigli da darti, né soluzioni al tuo problema. Fa parte delle cose che non posso dirti” le disse spiacente Rah.

“E chi ha il potere di tappare la bocca a un dio?”

“La stessa entità che diede la vita a Fenice la prima volta.”

Sbattendo le palpebre per la confusione, Joy esalò: “Di chi parli?”

“Anche questo non mi è concesso dirlo, poiché interferirebbe con il tuo processo di crescita.”

“Al diavolo! Tutti quanti! Voi uomini sapete essere odiosi, quando volete!” sibilò Joy, rizzandosi in piedi e togliendosi gli abiti con gesti febbrili delle mani.

Dopo aver gettato tutto su una sedia, si diresse a grandi passi verso la doccia e, aperto il getto dell’acqua calda, attese impaziente che giungesse in temperatura.

Ciò fatto, si gettò sotto il sifone, dove pianse lacrime amare imprecando contro se stessa e contro il suo destino.

 
***

“Una chiamata per te, Alexander. Dice di chiamarsi Morgan” esordì Sandra, quando Alex sollevò la cornetta del telefono del suo studio.

Sbattendo sorpreso le palpebre, il giovane accettò la chiamata prima di dire dubbioso: “Conosco un solo Morgan. Sei chi penso io?”

“Tu che dici?”

“Sei tu” annuì preoccupato Alex, chiedendo subito dopo: “Devi aver combinato qualcosa di grosso, per avermi chiamato. E poi, come cavolo hai fatto ad avere questo numero?”

“Leggo i giornali, Barrett. La tua vittoria a New York ha avuto una certa ridondanza, a Lincoln City, visto che tu sei uno dei suoi figli” ironizzò Morgan. “Ma non ti chiamo per farti i complimenti, tranquillo. A dir la verità, neppure pensavo ci fosse qualcuno, la domenica pomeriggio. Volevo lasciare un messaggio in segreteria ma, visto che la centralinista ha risposto…”

“Vieni al dunque” gli ordinò senza mezzi termini Alex, irrigidendosi.

“Dimmi solo una cosa, e salvami dalla pazzia; Joy non è stata violentata, vero?”

La sua voce suonò così turbata all’orecchio di Alex che, il tono risentito che era già pronto a rivolgergli contro, gli morì in gola, subito sostituito da una comprensione quasi palpabile.

“Dio, no! Perché hai pensato questo?”

Un lungo, sottile sospiro di sollievo giunse fino all’orecchio del giovane avvocato mentre Morgan, più tranquillo, gli spiegava: “Ha questa fissa del non poter avere legami seri con nessuno e, poco fa, dopo essere tornati dalla partita, ha dato di matto perché l’ho baciata con un po’ troppo… beh, sentimento.”

“Sai di stare rischiando la vita, dicendomi tutto questo…” gli fece notare Alex, accigliandosi. “… ergo, perché lo fai?”

“Te l’ho detto. Volevo essere sicuro che la sua reazione non fosse dovuta a una brutta esperienza passata.”

Passò qualche secondo, poi Morgan aggiunse: “Ha risposto al bacio, Alex, non l’ho mai forzata. Ne è la riprova che, quando ha dato fuori di testa, l’ho lasciata andare subito.”

Aggrottando la fronte nel passarsi una mano sulla nuca ora sudata per l’ansia, Alex gli chiese: “Ha detto qualcosa di preciso?”

“Che era come se il mondo si fosse annullato attorno a lei. Ti pare che sia una cosa negativa?” volle sapere Morgan.

Dio, siamo a questo punto!, pensò tristemente Alex.

“Senti, per quanto mi spiaccia dirlo, tu non c’entri nulla, a quanto pare. O meglio, non hai fatto niente di sbagliato. E’ un conflitto interiore di Leen, che ha da sempre.”

“E nemmeno tu mi dirai il perché si comporta così. Perché tu sai i motivi che la spingono a volermi solo come amico, vero?” lo sollecitò Morgan, sorprendendo non poco Alex.

Beh, dovevo aspettarmelo che Leen non avrebbe potuto innamorarsi di un tipo soltanto bello, pensò con una certa ironia Alex.

“Diciamo che, finché lei non mi darà il benestare, io non aprirò bocca.”

Un altro sospiro uscì dalla bocca di Morgan che, amareggiato, esalò: “Forse, se non l’avessi baciata così…”

“Ti prego…” esclamò Alex, irrigidendosi. “… non scendere nei particolari; è pur sempre mia cugina!”

“Scusa, comunque, pensavo che forse le cose sarebbero andate diversamente, se fossi stato meno… focoso.”

“Hai detto che ha risposto al bacio, quindi le andava bene così.”

Nel dirlo, rabbrividì. Dio, che razza di telefonata!

“Il punto è un altro e credimi, non dipende da te. Sarebbe successo comunque, prima o poi. E’ già tanto che ti abbia detto che vuole rimanere tua amica.”

“Beh, le ho detto che senza di lei non vivo” ammise con un risolino Morgan.

“Ed è vero?” gli chiese serissimo Alex, adombrandosi in viso.

Cogliendo il cambio di tono, Morgan fece lo stesso e disse: “Vero all’ennesima potenza. E’ come l’aria nei polmoni, per me. E non esagero nel dirlo. Voglio essere suo amico, credimi. E me lo farò bastare, se è l’unica cosa che potrò avere da lei.”

“Sei certo di poter arrivare a tanto?”

“Per Joy? Ehi, amico, stiamo parlando della stessa persona?” lo irrise bonariamente Morgan.

Ritrovandosi a sorridere complice del ragazzo, Alex se ne uscì con un risolino, esalando: “Ah, cavoli! Ti sei ficcato in un ginepraio non da poco, Morgan.”

“Comincio a sospettarlo. Nessuna dritta su come farla felice, dopo questo mio scivolone?” gli chiese allora Morgan, speranzoso.

Ritrovandosi a pensarci seriamente, Alex parlò dopo un minuto buono di silenzio.

“Regalale qualcosa che abbia a che fare con gli egizi. Un libro, una stampa, qualcosa del genere.”

“Le piacciono le piramidi e quelle cose lì?” esalò un po’ sorpreso Morgan.

“Esatto.” E non puoi sapere quanto!

“Okay, grazie per la dritta. E scusa se ti ho chiamato in un giorno festivo. A proposito, che ci fai lì?”

“Un caso grosso come un palazzo di dieci piani. Saremo impegnati in tre avvocati per il prossimo mese e mezzo, e solo per raccogliere tutta la documentazione, quindi si lavora anche la domenica” sospirò Alex, grattandosi distrattamente una guancia punteggiata di barba.

“Cavolo! Beh, buon lavoro, allora.”

“Grazie. E … Morgan. Prenditi cura di lei.”

Glielo disse sinceramente, perché aveva idea che, indipendentemente dalla ritrosia di Joy, il giovane pompiere le sarebbe rimasto accanto per parecchio tempo.

“Lo farò.”

Detto ciò, mise giù e, sdraiandosi sul letto della sua stanzetta d’albergo, nei pressi di Harlem, sospirò e chiuse gli occhi.

Alex aveva parlato degli antichi egizi e lui, di arte, ne sapeva abbastanza per sapere che, nella cultura sorta sulle rive del Nilo, c’erano così tanti simboli da far diventare pazzi persino gli accoliti della materia.

Cosa sarebbe stato più adatto, per lei? Di certo, era bella come Nefertiti, ma dubitava che un ciondolo con le sue forme le sarebbe piaciuto.

Un lento sorriso gli si dipinse sul viso un attimo dopo e, riaperti gli occhi, disse tra sé: “Sono davvero un idiota. Sono o non sono un pittore?”

Le avrebbe dedicato un dipinto.

In quello era bravo e, di sicuro, era più personale di qualsiasi altra cosa che avrebbe potuto comprarle in un negozio di New York.

Perché, per Joy, nulla era abbastanza.

Le cose comuni non andavano bene.

Ci voleva qualcosa di unico, come era lei.

 

 
***


 
Morgan fu di parola.

Mi chiamò il giorno dopo, come se nulla fosse successo e, con tono volutamente allegro, mi chiese se mi fosse passata la smania da hockey, per un po’.

Non so bene se, in quel momento, avrei voluto picchiarlo per la sua eccessiva gentilezza, o abbracciarlo per il modo in cui si prese cura di me.

A ogni modo, mi feci coraggio e risposi alle sue domande senza più tornare sull’argomento ‘bacio’.

Stranamente, dopo qualche minuto di conversazione, la sensazione di panico andò attenuandosi.

Cullata dalla sua voce pacata e profonda, mi calmai al punto che, quando infine chiusi la comunicazione, non mi stupii più di tanto che fossimo stati al telefono per più di un’ora.

La vicinanza fisica complicava le cose ma, stando al telefono con lui, tutto era più semplice, e la vita mi appariva più facile da affrontare.

Suonava anche alle mie orecchie come codardia ma, all’epoca, non vidi altre soluzioni al mio annoso problema.

Il giorno prima della sua partenza per Lincoln City, si presentò al dormitorio con un enorme quadro racchiuso da un telo di cotone.

Quando me lo offrì in pegno, perché io mi ricordassi di lui durante il lunghissimo periodo di tempo che avrei passato a Boston, non potei che sorridere impressionata di fronte alla sua bravura.

Certo, avevo saputo proprio da lui della sua bravura nell’arte pittorica, ma mai mi sarei immaginata un simile dono.

E, soprattutto, non avrei mai immaginato di vedere me stessa con abiti che, un tempo, avevo portato in altri luoghi, abbellita da larghe collane di lapislazzuli, oro e smeraldi.

Mi aveva raccolto i capelli attorno a una corona a forma di serpente e, splendente alle mie spalle, la sagoma imponente di Giza era riccamente decorata da pannelli di calcare traslucido.

In barba ai miei propositi, lo abbracciai stretto fin quasi a piangere, lo baciai su una guancia e gli augurai un buon rientro a casa.

Gli promisi che avrei vegliato sul suo meraviglioso regalo come una leonessa su sui cuccioli.

Lo vidi andarsene sorridente e soddisfatto, e quella per me fu una consolazione.

Non sapevo se lui, solo nel suo letto, nella sua casa di Lincoln City, avrebbe sentito la mia mancanza.

Di sicuro, io l’avrei sentita eccome.

Ma io potevo soffrire per lui, era uno dei miei compiti. L’importante, era che lui non patisse alcun dolore causato da me.


 

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Capitolo 19
*** cap. 19 ***


 
19.
 
 
 
 
 
Conoscere Susan fu piacevole e, soprattutto, lo fu vedere il modo in cui osservava Alex, quando pensava che nessuno la stesse scrutando con uguale interesse.

Mi piaceva la forte aura di possesso che sembrava emanare al solo parlare di Alex, come mi piaceva il suo modo di fare timido, non appena mio cugino ricompariva al suo fianco

Sembrava quasi non si sentisse completamente degna delle sue attenzioni.

Era dolce e determinata al tempo stesso, spigliata nel parlare del suo lavoro, quanto apertamente soddisfatta dei traguardi fin lì raggiunti.

Non si percepiva minimamente il fatto che provenisse da una ricca famiglia di Salem, che aveva all’attivo più soldi di quanti io stessa potessi immaginare.


Anzi, il ritrovarsi nell’intimità familiare della casa di Alex, parve piacerle parecchio.

Osservò ogni fotografia appesa alle pareti, o appoggiata sulla mensola del camino del salotto, con occhi accesi di curiosità e un misto tra nostalgia e tristezza.

Quando gliene chiesi il motivo, mi disse che difficilmente, a casa sua, avrei trovato un simile sfoggio di affetto o partecipazione familiare.

Certo, a detta di Susan, i suoi genitori le volevano bene, ma non c’era l’affiatamento più che evidente che intercorreva tra i Barrett e i Patterson.

La cosa mi spiacque e, al tempo stesso, me la fece piacere ancora di più.

La mancanza di affetto poteva creare solchi profondissimi, nel cuore delle persone, ma lei era stata in grado di rafforzare il suo animo senza rimanerne schiacciata.

Grazie ad Alex, ero più che certa che le ferite che aveva nell’animo si sarebbero ben presto rimarginate, permettendole di vivere più serenamente.

La Pasqua passò allegramente, tra le gag di Lily che, come sempre, era pimpante e festosa, e le battute maliziose di Brian.

Approfittò della presenza delle due fidanzate dei fratelli per massacrarli ben bene, rischiando più volte di essere malmenato per diretta conseguenza.

Susan non smise di ridere un solo attimo, mentre Lily ribattè alle frecciate di Brian con un’arguzia e una sottigliezza davvero uniche.

Fui lieta di vederli così felici e sereni, e la loro gioia stemperò la mia tristezza fin quasi a farla sparire.

Non mi sorpresi più di tanto quando, per Pasquetta, un corriere consegnò di fronte a casa nostra un cesto di vimini.

Era ricolmo di frutta, e di tutto il necessario per un pic-nic in grande stile.

Non assunsi un’espressione costernata neppure quando lessi il biglietto del mittente.

Da quando io e Morgan avevamo preso di comune accordo la decisione di rimanere solo amici, lui se n’era uscito spesso con sorprese di quel genere.

Dopo le prime settimane di sconcerto, mi ero ormai abituata alle sue gentili premure.

Naturalmente, spiegare ai miei genitori perché il figlio di Oliver Thomson fosse così prodigo di gentilezze nei miei confronti, fu complicato.

Come sempre, Alex corse in mio aiuto, dicendo loro quanto ritenesse Morgan un bravo ragazzo e una persona affidabile.

L’argomento che, più di tutti, convinse mio padre, fu sapere che non ero la sua ragazza, ma solo una sua amica.

Il fatto che non avessi in programma di cambiare lo stato delle cose, almeno per il prossimo futuro, lo rasserenò non poco.

Ero pur sempre la sua bambina, Fenice o meno che fossi.

Come sempre facevamo ogni anno, ci recammo sulla spiaggia per il primo pic-nic dell’anno.

Forte del mio regalo, stesi sulla sabbia la tovaglia a quadrettoni bianchi e verdi che trovai all’interno del cesto, e vi deposi sopra  tutto ciò che Morgan vi aveva inserito.

Banchettammo al suono della musica degli Abba, che mia madre volle a tutti i costi.

Mentre mangiucchiavo i biscotti al miele che Morgan mi aveva regalato, sorrisi nel pensare a lui mentre, indeciso e insicuro, se ne stava di fronte al fornaio alle prese con l’annosa decisione di cosa prendermi.

Fu dolce all’inverosimile, pensare a lui in quelle vesti.

Pur ritenendomi ancora un’egoista per averlo praticamente obbligato a recitare la parte del buon amico, mi godetti pienamente il suo dono, sperando di potermi rifare quanto prima.

Non che, andando avanti, avrei avuto molto tempo, ma contavo di farcela, in qualche modo.

 

 
***
 


Alla fine, le erano occorsi quasi tre anni, ma quella laurea in Medicina Fisica e Riabilitativa  era in mano sua.

Già sei mesi prima del traguardo, era stata ammessa come tirocinante in una delle cliniche di Boston legate alla Harvard University.

Da quel giorno in poi, avrebbe lavorato come specializzanda sotto la supervisione della dottoressa Inge Rutherford.

Sapeva da altri tirocinanti, che aveva conosciuto durante gli stage, che la dottoressa Rutherford era un’autentica spina nel fianco e una vera e propria schiavista.

La cosa non turbava affatto Joy, abituata da vite intere ad aver a che fare con personaggi simili.

Era sopravvissuta all’Inquisizione Spagnola, alla Rivoluzione Francese, a due Guerre Mondiali… poteva benissimo avere a che fare con una donna dal carattere difficile.

In una calda mattina di maggio, con addosso il corto camice bianco dei tirocinanti e lo stetoscopio attorno al collo, Joy si ritrovò a fissare con aria divertita gli altri tre suoi colleghi.

Erano tesi come corde di violino, e pallidi come cenci.

Sembravano tutti in procinto di imboccare la via per la sedia elettrica e Joy, non potendo trattenersi, si esibì in un sorriso che sapeva di leggero sconcerto e fiducia in se stessa.

La più vicina a lei scosse il capo e chiosò scioccata: “Oddio, c’è una suicida nel gruppo.”

Joy si limitò a fissarla ironicamente, non trovando che il suo comportamento fosse quello tipico di un suicida.

Già sul punto di risponderle, si azzittì immediatamente, non appena la figura giunonica della dottoressa Rutherford fece la sua comparsa nella saletta d’aspetto dei medici.

Corti capelli biondo platino incorniciavano un viso dal taglio squadrato, dove brillavano gelidi due occhi azzurro cielo.

Quegli occhi inquisitori squadrarono dall’alto al basso tutti i presenti prima di puntare, simili a quelli di un falco, sul viso tranquillo di Joy.

La donna aprì la cartelletta con le loro schede didattiche e, accigliandosi leggermente, la richiuse con una mossa secca della mano prima di esordire dicendo: “Patterson, eh? Sei tu il genietto che mi ha mandato la dottoressa Edison, allora.”

Annuendo una sola volta, Joy si limitò a mormorare: “Sì, dottoressa.”

Un lento sogghigno salì sul volto militaresco della donna che, continuando a fissarla dal suo metro e ottanta di statura, attese invano che Joy calasse lo sguardo.

Imperturbabile, Joy continuò a sostenere gentilmente la sua occhiata irritata e rigida al tempo stesso.

Gli altri tirocinanti borbottarono preghiere tra di loro, attendendendo impazienti che la situazione si sbloccasse in un modo o nell’altro.

Accigliandosi in viso, la dottoressa Rutherford intrecciò le braccia possenti sul torace prosperoso e ringhiò: “Ti farò abbassare la cresta, genietto, credimi. Qui non siamo più in un’aula universitaria e, anche se i tuoi precedenti tutor hanno detto che sei naturalmente portata per la materia, a me non interessa un accidente.”

Uscendo dallo stanzino, seguita a ruota da tutti gli specializzandi, la dottoressa proseguì nel suo soliloquio galvanizzato.

“Nel mio reparto, ci ritroviamo ad affrontare persone di ogni genere e ogni età, con problemi così disparati che, sui vostri bei libri immacolati, non troverete mai. Io voglio gente capace, gente che si spezzi la schiena per quelli che dobbiamo curare e tu, bella mia, con quel tuo corpicino da fata, dubito che potrai essermi d’aiuto.”

Sollevando un sopracciglio con aria indifferente, Joy replicò: “Sapevo esattamente a cosa sarei andata incontro, venendo qui e scegliendo questa branca di studi. Non sarò un colosso come lei, ma il mio lavoro lo so fare.”

“Lo vedremo” sibilò la dottoressa, prima di fare un cenno al resto del gruppo perché la seguissero durante il loro primo giro tra i pazienti.

Accodandosi e tenendo il passo della Rutherford senza alcun problema, Joy rise tra sé per la presa di posizione della donna.

Se solo avesse saputo in quali frangenti lei aveva lavorato nel corso dei millenni, non le avrebbe mai rivolto una simile accusa.

Ma, visto che non poteva enumerare ciò che aveva fatto…

Si fermarono di fronte a un giovane sui vent’anni che, a fatica, stava trascinando un piede dietro l’altro, tenendosi a due parallele d’acciaio.

La Rutherford prese la cartella dall’infermiera e borbottò: “Elliott Briant, ventidue anni, incidente in motocicletta, con frattura multipla esposta di tibia e fibula della gamba destra. Operato otto settimane fa, con decorso ospedaliero regolare. Ha iniziato la riabilitazione motoria e funzionale due settimane fa, con risultati altalenanti.”

Con un mezzo sorriso, Elliott si fermò per lanciare uno sguardo alla dottoressa e chiosare: “Questo per dire che non sono un bravo paziente?”

La Rutherford si esibì in un rapido quanto professionale sorriso, prima di dirgli: “Voglio solo dire che ogni tanto batti la fiacca, Elliott.”

Poi, rivolto uno sguardo gelido a Joy, aggiunse: “Patterson, controlla la sua condizione fisica attuale e dimmi cosa ne pensi.”

Senza lasciarsi scoraggiare, si mosse dal gruppo di tirocinanti per avvicinarsi a Elliott che, sorridendole spontaneamente, si scostò dalle parallele per raggiungere la sua sedia a rotelle.

“Puoi farti mettere qui in pianta stabile?” le sussurrò il giovane, sorridendo.

Joy si limitò a rispondere gentilmente al sorriso, prima di tastare con mano abile il polpaccio flaccido.

Manipolò la caviglia, ancora abbastanza rigida nei movimenti, e sfiorò delicatamente il tessuto cicatriziale dove le ossa erano fuoriuscite.

Sollevando infine il viso per fissare quello di Elliott, Joy gli chiese: “Senti dolore in qualche punto specifico, dopo la terapia in palestra?”

“Su un fianco, in effetti. Dietro la schiena, all’altezza delle reni” ammise il ragazzo.

Annuendo lentamente, mentre le sue dita tastavano apparentemente a caso le piante dei piedi di Elliott, Joy domandò al ragazzo: “Te la senti di metterti in piedi e piegarti in avanti, perché possa controllarti la spina dorsale?”

“Come no!” sorrise Elliott, sollevandosi dalla sedia a rotelle per mettersi in piedi e piegarsi lentamente in avanti, dopo essersi tolto la maglietta che indossava.

La dottoressa Rutherford annuì senza dire nulla, mentre Joy controllava l’asse spinale, tastando qua e là nella zona lombare del giovane.

Al suo ‘ahi’ si fermò, annuì e accigliandosi leggermente, dichiarò: “Mi sembrava che il problema fosse questo. C’è una leggera scogliosi e, con l’urto a terra durante l’incidente, può essere stato espulso completamente, o in parte, un disco vertebrale, formando una protrusione discale o addirittura un’ernia. Consiglierei manipolazione e massaggi, oltre alla consueta sessione riabilitativa della gamba. E anche delle sessioni in vasca. Camminare in acqua lo aiuterà.”

Controllando con fare attento la cartella del giovane paziente, mentre Elliott tornava a sedersi sulla sedia a rotelle e Joy si rimetteva in mezzo al gruppo, la Rutherford sentenziò: “Diagnosi corretta, Patterson. Le ultime lastre che abbiamo fatto dimostrano che è presente una protrusione discale tra L3-L4, che va a premere lievemente sul nervo sciatico, provocando i dolori di cui soffre Elliott. Corretto il suggerimento di manipolazione e massaggi. Quale pensi sia il migliore approccio?”

“Consiglierei la Riflessologia plantare. Ha dato ottimi risultati” dichiarò senza esitazione Joy.

Un sopracciglio sollevato su due occhi colmi di curiosità, la dottoresse annuì lentamente.

“Sì, può andare.”

Scribacchiò qualcosa sulla cartella del ragazzo, e proseguì verso il paziente seguente senza dire null’altro.

A Joy non servì altro.

Non era lì per ricevere complimenti, ma solo per lavorare e fare del suo meglio per aiutare persone che soffrivano.

Che fosse per malanni fisici o mentali, poco importava, l’importante era che lei potesse essere d’aiuto.

Con il paziente seguente, la Rutherford prese di mira l’unica altra ragazza del gruppo, che si districò agevolmente sul caso, pur tenendo quasi sempre lo sguardo basso.

Quando, però, raggiunsero un apparente caso di Sindrome di Tourette1, le cose si complicarono.

La ragazza in cura pareva avere sui quindici, sedici anni e presentava dei tic nervosi piuttosto evidenti alla mano destra.

Continuava a battere senza sosta, e a ritmo controllato, contro le spalliere a cui era stata accostata per degli esercizi ginnici di base.

La cicatrice evidente al braccio sinistro dichiarava a chiare lettere perché si trovasse lì e, quando Joy ascoltò l’anamnesi letta dalla dottoressa Rutherford, il cuore pianse per il dolore.

Non si era fatta male da sola.

Era stata maltrattata dal padre a causa della sua disabilità e, dopo l’intervento dei servizi sociali, era stata condotta in clinica per essere curata sia a livello fisico che psicologico.

Persino nello sguardo della Rutherford si formò un velo di rabbia a stento trattenuta ma, quando parlò alla ragazzina – Jenna Erikson – il suo tono fu come sempre professionale e pacato.

Mentre l’infermiera che l’assisteva la faceva voltare verso di loro, la dottoressa esordì dicendo: “Ciao, Jenna. Hai visto quanti ragazzi nuovi sono venuti a trovarti?”

Il viso era pallido, incorniciato da corti capelli rosso scuro, tagliati alla paggetto.

Due occhi neri, tremanti di paura, si fissarono un momento sulla figura a lei famigliare della Rutherford, prima di passare al setaccio i volti dei tirocinanti.

Il timore era evidente nel modo in cui le sue iridi correvano da una parte all’altra della sclera, come non volendo intrecciare lo sguardo con alcuno di loro.

Come abbagliata, bloccò però ogni movimento per fissarsi su Joy, che ricambiò l’occhiata con una dolcezza quasi palpabile.

Sotto gli occhi sorpresi e sgomenti di infermiera e dottoressa, Jenna sollevò le braccia esili e si diresse verso una tranquilla e preparata Joy.

Aprendosi a lei, allargò il suo sorriso e si lasciò abbracciare goffamente dalla minuscola ragazza.

Sorprendendosi un poco della forza che, nonostante tutto, Jenna possedeva per quanto fosse magrissima, Joy assorbì il suo abbraccio senza fiatare.

Con le mani, le massaggiò la schiena fino a sentirla rilassarsi e, solo a quel punto, mormorò: “Va tutto bene, Jenna, va tutto bene.”

“Sei come il sole… come il sole…” sussurrò Jenna, affondando il viso nella sua spalla prima di ridere felice ed esclamare: “Sto abbracciando il sole!”

Vagamente preoccupata, la Rutherford fece per intervenire ma Joy scosse lentamente il capo e, rivolta a Jenna, le disse: “Ti piace il sole, Jenna?”

“Sì, lo guardo tutti i giorni.” La ragazza annuì contro di lei, sempre tenendola stretta. “Vi somigliate.”

“Grazie” sussurrò Joy, scostandosi gentilmente da lei per fissarla negli scuri occhi di pece. “Ti piace stare qui con l’infermiera… Eliza?” chiese poi Joy, dopo aver dato un veloce sguardo al cartellino della donna.

Jenna si volse indietro a sorridere alla sua infermiera,  e ammise: “Sono buoni, qui, e nessuno mi picchia. Ma mi manca il sole.”

Guardandosi intorno per un momento prima di sorridere soddisfatta, Joy scrutò la dottoressa Rutherford con una muta domanda nello sguardo.

La donna rispose affermativamente, preferendo lasciarla fare.

Soddisfatta, Joy prese per mano Jenna e le disse: “Guarda un po’ quelle belle spalliere laggiù. Sono proprio vicino alla finestra che da sul parco. Ti piacerebbe lavorare là? C’è il sole.”

Un estatico sorriso si aprì spontaneo sul volto di Jenna che, allungata la mano libera in direzione di Eliza, esclamò: “Se lavoriamo là, guarirò prima!”

“Sicuramente” annuì l’infermiera, sorridendo grata a Joy.

Facendo l’atto di ritirarsi da lei, Joy si ritrovò a guardare dubbiosa Jenna, quando la trattenne con forza.

“Non vuoi andare con Eliza?”

“Tu, però, prometti di tornare a trovarmi?” le domandò speranzosa Jenna.

“Certo. Sarò qui tutti i giorni. Io mi chiamo Joy.”

Istintivamente, le diede un buffetto sulla guancia e, nel frattempo, lasciò che un briciolo della sua magia la riscaldasse.

Jenna sorrise lieta, forse percependone il tepore, e disse: “E’ un bel nome. Ti sta bene.”

“Anche il tuo è bello, Jenna.”

La mano della ragazza si allargò, permettendole di riprendere possesso della propria.

Mentre Eliza si allontanava con una più tranquilla Jenna, la Rutherford la fissò con autentico stupore, prima di esalare: “Come diavolo hai fatto a calmarla a quel modo? Di solito, non apprezza affatto gli estranei.”

Con una scrollata di spalle, Joy le chiese per contro: “Non ha mai parlato del sole, prima?”

Scuotendo il capo, la dottoressa sospirò sconcertata.

“Non scambia mai più di qualche parola, con noi. L’unica di cui si fida veramente è Eliza, infatti l’abbiamo messa in pianta stabile con lei ma, prima di oggi, non si era mai spinta a tanto.”

Con lo sguardo, Joy tornò a fissare Jenna alle spalliere, il tic al braccio decisamente meno evidente e più controllato.

Dopo alcuni istanti di assoluto silenzio, mormorò: “Fate indossare a Eliza dei camici gialli, o anche delle maglie gialle, qualcosa che possa ricordarle il sole e, soprattutto, fatela passeggiare fuori all’aperto, perché possa sentire i raggi solari sulla pelle. Credo le faranno bene.”

La Rutherford la fissò bieca per alcuni istanti, prima di sospirare sconfitta.

“Detesto ammetterlo, ma credo tu abbia ragione. Visto che è saltato fuori questo particolare apparentemente rilevante, tanto vale sfruttarlo e vedere dove ci porta. Te la affido. D’ora in poi ti prenderai cura di Jenna. Pensi di farcela, genietto?”

Joy non si lasciò andare a moti di rabbia, di fronte all’aperto nervosismo della dottoressa.

Limitandosi a sorridere serafica, annuì. “Sarò il suo sole personale.”

“Ah!” esclamò disgustata la Rutherford, prima di allontanarsi in direzione di un altro paziente.

Rimasta indietro mentre gli altri tirocinanti la seguivano come cagnolini ammaestrati, la collega Miriam Moralez le sorrise complice e sussurrò: “Sei stata bravissima.”

“Fortuna” si sminuì Joy, preferendo non dire quanto, Jenna, avesse visto più dei comuni umani che la circondavano.

Spesso i  savant2,  gli autistici o i Tourette, potevano squarciare il velo sottile che ricopriva i segreti del mondo, scorgendo ciò che i cosiddetti ‘normodotati’ non erano in grado di cogliere.

Jenna lo aveva fatto con sorprendente facilità vedendo il lei il sole, il suo simbolo, la sua fonte di energia, la sua matrice di vita.

Sarebbe stato un piacere lavorare con lei, finché avesse potuto.

Per quanto le sarebbe stato concesso di fare, Joy l’avrebbe aiutata a crearsi dei punti fermi con cui proseguire al meglio delle sue possibilità quella vita già tanto difficile.

 
***

Sdraiata sul suo lettuccio, nel microscopico monolocale nel quale abitava da quando aveva lasciato Harvard, Joy si coprì il viso con un braccio, infastidita dalla poca luce proveniente dal lampadario.

Sul tavolino che si trovava nell’angolo cottura, i resti del take away del ristorante cinese erano vuoti, le bacchette infilate in una delle scatole del pollo in agrodolce.

Una singola bottiglia d’acqua Yosemite se ne stava solitaria sul comodino, mezza vuota, mentre le dolci note di Claire de Lune di Debussy galleggiavano nell’aria.

Il locale era ben tenuto, pulito, ma privo di orpelli o di rifiniture di pregio, però a Joy non interessava.

Parte dell’affitto veniva pagato dai suoi genitori, visto che la sua paga da praticante era alquanto misera.

Non voleva gravare sull’economia famigliare, desiderando qualcosa di più elegante o di più grande.

Era da sola, non aveva alcuna intenzione di intrattenere persone all’interno del monolocale e lo spazio vitale era sufficiente.

Inoltre, le altre persone presenti nella palazzina erano tutte educate e carine, perciò le stava benissimo stare lì.

La linea dell’autobus la portava direttamente in clinica, senza dover essere costretta a prendere delle coincidenze e, di notte, la metro la portava a un solo isolato da casa.

Il meglio che si potesse ottenere.

Inoltre, non avendo la necessità di essere accompagnata fino alla porta di casa, non le importava di girare per Boston da sola, alla luce dei lampioni.

Certo, suo padre non era stato della stessa idea, quando gli aveva detto in che posto aveva trovato l’appartamento.

Era servito tutto il suo impegno per fargli capire che, in quanto Fenice, difficilmente avrebbero potuto farle del male.

A meno di non tirarle addosso una bomba atomica, il che era praticamente impossibile, nessuno avrebbe potuto farle nulla.

Il fatto di poter essere onesta con la sua famiglia era un sollievo, per lei, cosa che però non poteva fare con Morgan.

Non appena il giovane aveva controllato su internet la distanza che la separava dall’ospedale, era dato in escandescenze.

Joy era stata costretta a tenere il cellulare lontano dall’orecchio per cinque minuti buoni mentre il giovane le elencava, e con dovizia di particolari, tutto quello che avrebbe potuto succederle durante il viaggio da casa all’ospedale.

Per tutto il tempo, lei aveva sorriso deliziata, sentendosi stupida nel farlo ma provando un piacevole tepore nel petto, nel sentirlo così preoccupato per lei.

Alla fine della sfuriata, gli aveva semplicemente detto che, durante quegli spostamenti, non era mai da sola.

Gli aveva raccontato che un altro dottore abitava in zona, che facevano gli stessi turni per andare in clinica e che, perciò, aveva sempre le spalle coperte.

Non era vero ma, per tenerlo buono, era bastato fargli sapere che non era sola.

L’idea che il dottore da lei accennato fosse un maschio, non gli aveva fatto particolarmente piacere, nei primi momenti.

In seguito, però, si era dichiarato soddisfatto, perché sicuramente un uomo avrebbe dato più filo da torcere a eventuali malviventi, piuttosto che una coppia di ragazzine.

Un vero discorso da amico.

Amico che, in quel momento, fece trillare il suo cellulare, risvegliandola dal torpore in cui era caduta.

Allungata una mano per afferrare il telefonino, lo portò all’orecchio dopo averlo aperto e bofonchiò: “Pronto…”
“Ehi, dove sei? Nella bocca dell’inferno? Ruthi ti ha malmenata, oggi?”

‘Ruthi’ era il nomignolo che Morgan aveva dato alla dottoressa Rutherford, la prima volta che Joy gliene aveva parlato.

Da quel momento, per la ragazza era diventata un’autentica impresa non scoppiarle a ridere in faccia tutte le volte che la vedeva.

Quel nome, canticchiato al telefono con ironia dalla voce stonata di Morgan, le balzava alla mente ogni volta che quel viso arcigno le si parava innanzi.

Non sghignazzare era diventata un’autentica sfida, per lei.

Un sorriso spontaneo le salì al volto nel sentirgliela nominare e, voltandosi su un fianco mentre il cd passava alla Suite Ceca di Dvořák, Joy esalò: “Oggi mi ha fatto vedere i sorci verdi, per intenderci. Siamo state sul punto di venire alle mani e, vista la stazza, ne sarei uscita sconfitta e malconcia.”

“Tu sei più veloce” le ricordò Morgan, ridacchiando, prima di chiederle più seriamente: “Cos’è successo?”

“Voleva che Jenna lavorasse lontano dalle finestre, perché si abituasse anche a luoghi meno piacevoli, e io mi sono rifiutata di farlo. Lei si è infuriata, io mi sono infuriata…”

Con un sospiro, Joy si massaggiò in mezzo alla fronte, dove un principio di emicrania stava minacciando di esplodere con la potenza di un missile balistico.

“Com’è finita?”

“Jenna si è arpionata a me, piangendo come una fontana. Mi ci sono volute due ore per calmarla e, alla fine, il tic al braccio è ripreso come un forsennato. La Rutherford non se ne è voluta prendere il merito, per così dire. Sono stata con lei in camera finché non si è addormentata, e poi sono venuta a casa.”

Un altro sospiro, molto più profondo e stanco del precedente.

“Quante ore hai fatto, oggi?” le chiese gentilmente Morgan.

“Diciotto, credo. No, diciannove” bofonchiò Joy, guardando arcigna la sveglia sul comodino. “Devo rimontare domattina alle cinque.”

“Oh, cacchio! Il fuso! L’ho dimenticato! Diavolo…lì, che ore sono?” esalò spiacente Morgan.

“Le ventitré e venti, ma non ti preoccupare, tanto ero sveglia” ci tenne a dire Joy, sorridendo debolmente.

“Vuoi che ti canti la ninna nanna?” le propose lui, con un risolino.

“Avrei gli incubi, Morgan. Sai di essere stonato come una campana. E la cosa mi lascia interdetta, visto che hai una bella voce” borbottò Joy, rigirandosi nel letto.

Il fruscio delle lenzuola giunse fino alle orecchie di Morgan che, abbassando di un’ottava il tono di voce, le sussurrò: “Prima mi fai i complimenti sulla voce, e poi ti muovi languida nel letto? Tu hai intenzione di uccidermi, piccola.”

Joy ridacchiò, limitandosi a dire: “Lungi da me. Non ti voglio morto, per nessun motivo al mondo.”

“E’ confortante saperlo. Quindi, non ti incazzerai se ti dico che resterò a casa per un mese con un braccio ingessato” le buttò lì Morgan, con indifferenza.

Balzando a sedere sul letto, gli occhi sgranati e il viso teso in una smorfia di disappunto, Joy esclamò: “Che diavolo ti è successo?!”

“Piano, piccola! Il mio timpano vorrei mantenerlo integro!” si lagnò Morgan.

“Scusa…” si affrettò a dire Joy, prima di chiedergli ancora: “Allora, vuoi dirmi che hai combinato?”

“Sono stato troppo focoso durante un intervento in un palazzo” ridacchiò lui.

“Ah-ah. Un pompiere focoso. Carina, questa. Ritenta, sarai più fortunato” brontolò Joy, accigliandosi.

“Un trave mi è caduto addosso, spezzandomi ulna e radio. Frattura composta, non esposta, quattro settimane di gesso più sei mesi di riabilitazione. Ti va bene, così?” le spiegò allora Morgan, con tono più serio.

“Anamnesi perfetta, grazie” rispose lei, prima di aggiungere: “Ti fa molto male?”

“E’ solo scomodo farsi il bagno e vestirsi, ma mia madre viene a darmi una mano, ogni tanto, così mi arrangio” le spiegò con tono noncurante.

“E tuo padre?” gli chiese gentilmente la ragazza, notando con quanta attenzione avesse evitato di menzionarlo.

Uno sbuffo infastidito le giunse all’orecchio, prima che Morgan le dicesse: “E’ incavolato marcio perché ti ho menzionata durante un pranzo domenicale. Pare furioso all’idea che io e te siamo amici, e continua a dirmi che mi caccerò in guai seri se continuerò su questa strada, perché tu non sei quel che sembri, e bla bla bla. Insomma, una cosa così.”

Come dar torto al Professor Thomson?

In fondo, aveva ragione da vendere, ma pensava di lei le cose sbagliate.

Di sicuro, su tutta la terra, nessuno meno di lei avrebbe recato danno a Morgan, tutt’altro!

Ma come farglielo capire, come tranquillizzarlo senza mettere a nudo la sua natura di fronte a lui, visto ciò che voleva fare del suo segreto?

“E tu gli credi? Pensi che io sia un pericolo per te?” volle sapere lei.

Morgan lanciò un’imprecazione davvero degna di nota prima di sbatterle il telefono in faccia e Joy, fissando con un mezzo sorriso il cellulare ormai muto, ridacchiò e disse: “Era un no?”

Il plin plon di un sms la fece sobbalzare e, aprendolo con curiosità, Joy sorrise benevolmente quando lesse ‘6 1 scema se lo pensi. ‘notte’

 
***
 
Starsene sdraiato sul divano di casa sua ad ammirare le travature della baita, era quanto di più noioso, antipatico e inconcludente vi potesse essere.

A conti fatti, però, nonostante fosse piena estate e potesse andarsene a fare un giro per il centro città giusto per sgranchirsi le gambe, la voglia non veniva.

Specialmente, dopo la telefonata fatta a Joy.

Possibile che credesse che lui desse retta alle storielle del padre?

Quella domanda lo aveva fatto davvero sbarellare ma, in fondo, come poteva darle torto fino in fondo, visto che lui aveva in parte il suo DNA?

L’uomo che la ossessionava da anni, volto a scoprire la sua reale identità, era suo padre, e questo nessuno dei due poteva dimenticarlo.

Non avrebbe dovuto prendersela tanto con lei, per quella domanda. E, soprattutto, non avrebbe dovuto darle della scema.

Ma, ormai, l’sms era partito.

Fissando bieco il cellulare che teneva nella mano sana, Morgan sobbalzò di sorpresa quando il telefonino reclamò la sua attenzione per comunicargli che era arrivato un messaggino.

Lesto, aprì lo sportello nero del cellulare e scrutò l’sms, leggendo divertito: “Scemo sarai tu. E poi, bastava dire no. ‘notte.”

La faccina sorridente alla fine del messaggio lo rincuorò non poco.

Era davvero messo bene.

Non faceva sesso praticamente da quando aveva conosciuto Joy, e non  aveva più baciato nessuna ragazza se non lei.

A incorniciare quel quadro di assoluta perfezione, era contento come una Pasqua perché lei non si era arrabbiata per il tono del suo messaggio.

Tutto quello poteva voler dire una sola cosa, e a lui stava più che bene, a quanto pareva.

Era innamorato perso di lei, di ogni suo difetto come di ogni suo pregio e, pur odiando la distanza che li separava, lui godeva di ogni momento passato con lei a parlare al cellulare.

Neppure in cento anni, avrebbe trovato un’altra ragazza capace di ridurlo in quello stato e, al contempo, di farlo sentire appagato per essersi ridotto così.

Sì, era davvero messo bene.

“Morrrr-gan! Morrr-gan!” trillò allegro Monet dalla sua gabbia, aprendo le ali bianche per attirare la sua attenzione.

Ridacchiando, il giovane si levò in piedi per raggiungerlo, aprì lo sportello di metallo e, con la mano sana, lo fece uscire per poi poggiarselo su una spalla.

Lì, il cacatua lo accarezzò alla guancia con il becco.

“Ti va di fare un volo in giro, amico?” gli propose lui.

Monet non se lo fece ripetere due volte e, con una leggera spinta sulla spalla di Morgan, cominciò a gironzolare per l’enorme open space della baita dove abitava da almeno un paio d’anni.

Tutto, in quel luogo, rispecchiava i gusti del giovane, dai suoi quadri di ambientazione campestre, allo stile country della cucina e dei divani del soggiorno.

Larghi tappeti messicani ricoprivano il pavimento in travi di legno, mentre statuine del mesoamerica riposavano su ripiani lignei appesi ai muri.

Due enormi pale da soffitto mantenevano fresco l’ambiente nelle giornate più calde, permettendo a Monet di giocare con le correnti d’aria discensionali che creavano all’interno della stanza.

Fermo ad ammirarlo mentre volteggiava leggero come una piuma, Morgan non poté far altro che sperare che, prima o poi, la paura atavica di Joy si disgregasse.

Era più che certo che, anche dentro di lei, albergasse un sentimento in tutto simile al suo.

Il bacio che li aveva quasi fatti separare era stato rivelatore e, di certo, lui non se lo sarebbe mai dimenticato.

Sarebbe comunque rimasto nel suo cuore per sempre, a imperitura memoria di ciò che aveva provato in quel momento.

Aperto lo sportello del frigorifero, Morgan estrasse una birra e, sollevatala come per fare un brindisi in onore di Joy, mormorò a mezza voce: “Vale la pena starsene in casa a guardare un pennuto che svolazza libero se il premio, alla fine, sarai tu, Joy Patterson.”



 
***


 
Fu in una mattina di settembre, quando ancora mi stavo riprendendo dal turno di notte in ospedale, che giunse una telefonata che mi sconvolse.

In positivo.

Stephen e Lily avevano deciso la data del matrimonio.

Visto che Lily non aveva una sorella, o un’amica così fidata cui affidarle il ruolo di damigella d’onore, chiese a me di esserla.

Non solo la notizia mi diede una gioia infinita, ma mi risvegliò dal mio stato di apparente catalessi.

Chiesi perciò a Lily ogni particolare sulla cerimonia, che si sarebbe tenuta da lì a dieci mesi, il dodici giugno.

Con non poca sorpresa, venni a sapere che, visto che entrambi loro lavoravano nei pressi di Portland, avrebbero preso casa nelle vicinanze, lasciando Lincoln City.

Sapevo che, prima o poi, avrebbe potuto succedere – erano entrambi dei bravi architetti – ma, in ogni caso, sentii una stretta al petto, alla notizia.

Pur essendo felice per le motivazioni che li spingevano a trasferirsi, mi spiacque pensare che avrei avuto meno occasioni ancora per vederli.

Lily mi disse che la cerimonia si sarebbe svolta in modo molto tradizionale, senza eventi eclatanti o ampollossi.

Il rinfresco si sarebbe tenuto all’aperto, nel giardino di casa Barrett, circondati da miriadi di fiori e sotto bellissimi percolati da cui sarebbero scesi, a cascata, bellissimi glicini rosa.

La sola idea mi eccitò al punto tale da chiederle se avesse già deciso quale abito indossare, e quale avrebbe fatto mettere a noi damigelle.

In breve, passammo quasi un’ora a discutere di organze, pizzi, nastri di seta, scarpe col tacco e senza laccetto alla caviglia… chi ci avesse ascoltate, sarebbe sicuramente impazzito.

Alla fine della telefonata, eccitata da quella notizia e all’idea di partecipare per la prima volta a un matrimonio, mi ritrovai a piangere.

Mi resi conto che, in quella nuova esistenza, stavo vivendo un sacco di esperienze che mai, prima di allora, avevo vissuto.

Nelle mie precedenti vite, mi ero sempre allontanata piuttosto presto dalle case in cui, per necessità, avevo dovuto vivere nei primi anni di vita.

Vuoi perché le mode del tempo prevedevano così, vuoi per necessità di altro genere.

Quella era la prima volta in cui mi veniva chiesto di fare da damigella d’onore, o di partecipare a un matrimonio di un membro della mia famiglia.

Perché loro, per quanto fossero tutti umani, erano la mia vera famiglia. La mia prima, vera famiglia.
 
 




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1 Sindrome di Tourette: è un disordine neurologico ad esordio nell'infanzia, caratterizzato dalla presenza di tic motori e fonatori incostanti, talvolta fugaci, altre volte cronici, la cui gravità può variare da estremamente lievi a invalidanti.
2 Savant: si intende un individuo che presenta una o più capacità super sviluppate in concomitanza con un certo grado di ritardo mentale.


 

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Capitolo 20
*** cap.20 ***


20.
 
 
 
 
 
Giugno si avvicinava e, mentre io divenivo sempre più un animale da appartamento, Lily e Stephen procedevano di buona lena nei preparativi per il loro matrimonio.

Tramite internet, Lily mi mandò una foto dell’abito da damigella d’onore che aveva scelto per me, sua sorella e Susan.

Con le lacrime agli occhi, osservai per una buona mezz’ora quella cascata di chiffon color blu, che scivolava come una nuvola sul manichino che lo sorreggeva.

Lo stile era semplice; lo scollo a V, generoso senza essere volgare, era sormontato da una fascia di brillanti, che andata a terminare sulla schiena.

La gonna, lievemente plisettata, era leggera e fluente, simile al frusciare del vento tra le fronde.

Per me, Lily aveva scelto dei sandali Jimmi Choo blu scuro, intrecciati in onde asimmetriche sul collo del piede.

Il tacco era vertiginoso, uno spillo striminzito di dieci centimetri, ma io ridacchiai eccitata al solo pensiero di poterle indossare.

Era un vezzo che avevo fin dai tempi della corte di Eliopolis, e Rah l’aveva sempre usato per vezzeggiarmi.

Potevo resistere a molte cose, ma non alle belle cose. E quelle Jimmi Choo erano strepitose.

La cerimonia si sarebbe svolta, come da programma, nel giardino di casa dei Barrett.

Tutt’intorno, un tripudio di rose, gerbere e glicini avrebbe fatto risplendere l’ambiente, assieme alle sete preziose drappeggiate sui gazebo e le lunghe tavole del rinfresco.

L’unico dubbio da sciogliere su quel giorno, che ormai era lì da venire, era uno: chi sarebbe stato il garçon d’honneur che mi avrebbe accompagnato?

Stephen e i suoi fratelli erano stati lapidari sulla risposta; sarebbe stata una sorpresa fino al giorno del matrimonio.

E io non sapevo se tremare, o meno, al solo pensiero.


 
 
***


 
“Continuo a trovarlo strano ma, se pensi che sia la cosa giusta da fare per Joy, allora per me possiamo invitare anche tutta la legione straniera, i paracadutisti e i marines.” Stephen scrollò le spalle senza porsi troppi problemi.

“Lily lo sa?” gli chiese per contro Alex, grattandosi pensieroso una guancia.

“Trova la cosa adorabile. Ma non chiedermi di imitarla quando lo dice, perché non lo farò” tenne a precisare Stephen di fronte all’occhiata divertita del fratello.

“Il matrimonio è vostro, e io non voglio essere prevaricatore.”

Alex cominciò a tamburellare le dita di una mano su un ginocchio, attendendo impaziente la risposta del fratello.

Fin da quando gli era venuta in mente quell’idea, aveva fatto il tutto e per tutto per metterla in pratica, pur non sapendo se sarebbe stato un colossale flop.

Non sperava in un successo pieno, perché conosceva bene Leen.

Sicuramente, si sarebbe fatta venire qualche paturnia ma voleva darle qualcosa che, altrimenti, non avrebbe mai potuto concedersi da sola, testarda com’era.

Fenice o non Fenice, meritava un po’ di gioia personale, ogni tanto, che lei lo volesse capire o meno.

Sapeva per bocca sua dei buoni risultati che stava ottenendo a Boston, e della felicità che provava ogni qual volta riusciva a riportare il sorriso sul volto di una persona.

Era frustrante lavorare al fianco della Rutherford, ma questo non l’avrebbe fermata, né l’avrebbe abbattuta minimamente.

Leen era forte e determinata, ma il suo benessere non poteva venire solo e unicamente da quello degli altri, o almeno lui la pensava così.

“Se posso fare qualcosa per Joy, la farò” si limitò a dire Steve, con un sorriso pacifico. “Magari, sarebbe carino se ci incontrassimo con lui almeno un paio di volte, giusto per prendere confidenza, ma per me va bene.”

“Lo sento subito, allora” gli propose Alex, afferrando la cornetta del telefono del suo ufficio.

Approfittando della presenza di Stephen a Salem per alcuni lavori di ristrutturazione di un palazzo in centro città, Alex lo aveva fatto passare dal suo studio per parlargli della sua idea.

Dopo aver messo sul piatto tutto ciò che voleva ottenere, o meglio, che sperava di ottenere, aveva atteso con trepidazione le reazioni del fratello minore.

Fratello che si era dimostrato ben disposto a dargli man forte.

Non appena Alex riuscì a prendere la linea, ascoltò impaziente il tu tu della linea libera prima di sorridere, non appena udì la voce di Morgan.

“Ehi, avvocato, dimmi tutto.”

“Ciao, Morgan. Hai un minuto da dedicarmi?” gli chiese Alex, ascoltando con curiosità il rumore di fondo che avvertiva provenire dal telefono.

Con un fruscio di stoffa, un’imprecazione e un rollio di ruote, Morgan si allontanò, sbatacchiando i pesanti scarponi sul cemento del garage della sede locale dei pompieri.

Raggiunto il cortile soleggiato dietro la caserma, dichiarò: “Abile e arruolato. Che succede?”

“Che stavi facendo?” non poté esimersi dal chiedergli Alex.

“Ero sotto al vano motore della mia camionetta a controllare un manicotto che perdeva olio, perché?”

“Niente, niente. Semplice curiosità.”

Con una risatina, Alex mise in viva voce il telefono e aggiunse: “Sono qui con Stephen, mio fratello minore. Volevamo proporti una cosa.”

“Ragazzi, siete carini, ma io adoro le rosse. Le donne rosse” ridacchiò Morgan, facendo sorridere i due giovani nello studio.

“Sai che Steve si sposa? Leen te lo ha detto?” si informò Alex, intrecciando le braccia sulla scrivania.

“Eccome se me lo ha detto. Era fuori di testa per un paio di scarpe che la futura sposa le ha scelto da abbinare all’abito. Non ricordo il nome, ma lei ne era entusiasta” gli spiegò Morgan. “Vi serve un autista per la limo, per caso?”

“Qualcosa di più, in effetti. Vorremmo che fossi uno dei garçon d’honneur al matrimonio.”

Alex sapeva di avergliela praticamente gettata addosso senza un minimo di grazia, ma voleva scoprire le sue reazioni a caldo.

Per almeno una decina di secondi, Morgan rimase in perfetto silenzio, accompagnato solo dal via vai delle auto che correvano lungo la Oregon Coast Highway.

Con un risolino, infine, se ne uscì dicendo: “Sapete che vi ammazzerà di botte con il suo stetoscopio, vero?”

“E’ un rischio calcolato” ammise Alex, sogghignando all’indirizzo di Stephen, che annuì. “Morgan, la faccenda è questa. Io non sono d’accordo con il modo di fare di Leen, e voglio che ogni tanto, almeno, sia felice. Per qualche strano scherzo del destino, tu sembri renderla più felice di tutti noi messi assieme. Quel tuo regalo, a Pasqua, l’ha fatta semplicemente brillare, e non è poco.”

“Lieto di saperlo” commentò Morgan, asciutto. “Neppure io sono d’accordo con il suo modello ‘rimaniamo solo buoni amici’, ma le ho detto che lo porterò avanti finché lei vorrà, e io mantengo le promesse. Non credete che invitarmi al matrimonio possa scioccarla?”

“Da principio sì, ma credo che poi apprezzerà il gesto… se tu ti comporterai da bravo amico.”

Alex e Stephen si guardarono dubbiosi, non sapendo bene come Morgan avrebbe preso quelle parole.

“E’ già da un po’ che faccio solo questo e ti dirò, la cosa mi piace. Certo, siamo onesti, la vorrei anche come amante, non voglio mentirvi ma, se lei non se la sente, mica la posso obbligare! Joy è così speciale che il tempo speso per lei è sempre speso bene, in qualsiasi modo esso venga speso.”

Stephen sorrise a quelle parole e annuì all’indirizzo di Alex, prima di dire: “Che ne diresti se, uno di questi giorni, ci vedessimo da Starbucks per fare due chiacchiere, Morgan? Così ci potremo conoscere di persona.”

“Il futuro sposo?” chiese Morgan.

“Esatto. Sono Stephen.”

“Okay, Stephen. Nessun problema. Mi sembra giusto. Hai la stessa faccia del fratellone?” chiese allora Morgan, facendo sogghignare Alex.

“Più o meno. Io ho gli occhi azzurri e i capelli castano chiari.”

“Uhm, detta così, potrei anche fare una follia e innamorarmi di te” rise Morgan, facendo scoppiare a ridere i due fratelli. “Senti, sabato ho il giorno libero. Se hai tempo, ci possiamo incontrare alle tre del pomeriggio davanti al bancone del bar, che dici?”

“Perfetto, ci sarò. E grazie” disse Stephen, allegro.

“Sono io a ringraziare te. Il favore lo stai facendo a me” replicò Morgan. “Vorrà dire che ti farò un regalo extra.”

“In che senso?” volle sapere Stephen, vagamente sorpreso.

“Ehi, amico, sei uno dei cugini adorati di Joy. Pensavi che non ti avessi preso qualcosa per il grande evento, invitato o meno che fossi?”

“L’avresti fatto… per Joy?” esalò Steve, a occhi sgranati.

“Mi rompe essere ripetitivo, ma sì. Qualsiasi cosa, per Joy” chiosò Morgan, come se nulla fosse.

“Beh, comincio a capire perché Joy ti trova così speciale” ridacchiò Stephen.

“Rendi edotto anche me?” si informò allora Morgan, ghignando.

“Sei… altruista. E se c’è una cosa che può far andare in brodo di giuggiole Joy, è l’altruismo” ammise Stephen, con profonda sincerità.

Morgan rimase in silenzio per alcuni attimi, prima di dire con un borbottio imbarazzato: “Beh, insomma, dai, non esageriamo, non ho mica fatto questa gran cosa e…”

Alex scoppiò a ridere assieme al fratello e, in aiuto del giovane pompiere, disse: “Credimi, Morgan, sei proprio l’ideale, per Joy. Il più, è che lei riesca a capirlo.”

“Pazienterò.” Poi, dopo un attimo, aggiunse: “Ora devo scappare, mi chiamano. Pare che qualcuno abbia usato con troppa foga un fornello da campeggio. Ci sentiamo!”

“Buon lavoro!” gli gridò Alex, prima di sentire la chiamata interrompersi. “Che ne dici? Avevo ragione o no?”

“Cavoli, sì al cento percento. Quel che mi chiedo io, è come faccia a portare così tanta pazienza. Si sente lontano un miglio che è innamorato cotto di lei” esalò Stephen, scuotendo incredulo il capo.

“Credimi, è reciproco” sospirò Alex, adombrandosi in viso per un momento.

“Ma è possibile che lei non possa lasciarsi andare all’amore, anche se è una creatura mistica?” brontolò Stephen, irritandosi leggermente.

“Dice che non può, che è insito nel suo ruolo. Può amare in modo altruistico, non assolutistico” sbuffò Alex, prima di sogghignare scaltro. “Voglio fare un tentativo ma, ti prego, non urlare o dare di matto. Sarà una cosa un po’ singolare.”

Aggrottando la fronte, Stephen intrecciò le braccia al petto e mormorò: “Che vuoi fare?”

Indicando il soffitto con un dito, Alex gli spiegò succintamente la sua idea mentre Stephen, con occhi sempre più sgranati e increduli, lo fissava come se non avesse tutte le rotelle a posto.

Non che il fratello maggiore si aspettasse niente di diverso: come credere in quello che gli stava dicendo? Era strano persino alle sue orecchie!

Ugualmente, prese un gran respiro, aprì la mano sinistra dove si trovava la cicatrice biancastra del disco solare e, con voce sommessa, chiese: “Rah… puoi sentirmi?”

Non successe nulla e Stephen, con aria pienamente scettica, fissò il fratello come per dire: «In cosa speravi?»

Un attimo dopo, però, il telefono squillò sorprendendo entrambi e Alex, mettendo in viva voce, mormorò con voce vagamente roca: “Sì, chi è?”

“Indovina un po’?”

La voce che uscì dal telefono fu così dissimile da una voce umana che Stephen rabbrividì al solo udirla e Alex, riconoscendola all’istante, esalò balbettante: “Beh… cavoli… non pensavo che funzionasse davvero…”

“Hai il mio marchio, Alexander, e sei l’Oracolo di Fenice. Come lei, anche tu puoi chiamarmi al tuo cospetto. In cosa posso esserti utile, giovane mortale?”

“Hai per caso ascoltato la nostra conversazione?” gli chiese allora Alex, deglutendo a fatica per l’ansia che stava provando in quel momento.

Non era certo cosa di tutti i giorni, parlare con un dio che non si pensava esistesse ma che, invece, poteva interagire con loro come se nulla fosse.

Se non avesse già visto – e provato sulla propria pelle – eventi di portata soprannaturale, probabilmente avrebbe dato di matto.

“Non posso rispondere ai vostri dubbi, così come non ho potuto rispondere a quelli di Fenice. Mi è… impossibile. Voi direste che c’è un conflitto di interessi.”

Nel tono di voce di Rah, Alex percepì un misto di rimpianto e mesto divertimento, come se il non poter parlare apertamente gli desse molto fastidio.

“Conflitto di interessi? E da parte di chi?” chiese allora Stephen, grattandosi nervosamente una guancia, gli occhi ancora vagamente dilatati dallo shock.

“Altra domanda a cui non posso rispondere, e per lo stesso motivo.”

Rah sospirò pesantemente, prima di aggiungere: “La cosa che avete fatto per Fenice, però, è giusta, e io mi impegnerò perché la giornata sia speciale. E’ il minimo che possa fare.”

“Sole splendente tutto il giorno?” chiese allora speranzoso Stephen.

“Ovviamente, giovane Stephen Michael.”

Quest’ultimo divenne un tantino pallido, nel sentir nominare il suo doppio nome dal dio, ma Alex preferì non pensarci troppo e chiese: “Morgan è la persona giusta, per Leen?”

“Ti risponderò a questo modo, giovane Alexander. Per uno Yin, esiste uno Yang, ma bisogna riconoscersi in uno di questi cardini, prima di accettare che ve ne sia un altro che ci completi.”

“E’ abbastanza criptico” brontolò Alex.

“Sono un dio… e amo gli oracoli.”

Detto ciò, la voce svanì e il tu tu del telefono si librò nell’aria come una specie di dispettosa zanzara.

Chiudendo la comunicazione con un gesto secco della mano, Alex sbuffò, gracchiando: “Non ci ho capito granché.”

“Come faceva a sapere i miei nomi?” esalò Stephen, ancora piuttosto pallido.

Guardandolo con sufficienza, Alex celiò: “Steve. E’ un dio. Non ti dice niente?”

“Oh, santo cielo!” esclamò Stephen, passandosi le mani tra i capelli con aria sconvolta.

E come dargli torto?

 
***

“E’ normale sentire la gamba che non c’è?” chiese il paziente a Joy, fissando bieco la fasciatura bianca che avvolgeva completamente la sua gamba, amputata all’altezza del ginocchio.

Joy annuì nel passare una mano sul braccio dell’uomo, un reduce dell’Afghanistan che era saltato su una mina nascosta nei pressi di Herat.

Il contraccolpo aveva falciato completamente la parte inferiore dell’arto destro, graziando miracolosamente il sinistro.

A parte ferite superficiali, non aveva subito danni ulteriori.

Operato d’urgenza in loco, era poi stato fatto rientrare con un C130 dell’aviazione e condotto all’ospedale dove lavorava Joy per la riabilitazione fisica e psicologica.

“E’ l’arto fantasma, ed è caratteristico degli amputati. Niente di strano che tu la avverta, Jeremy. Non ti preoccupare” lo rassicurò Joy, sorridendogli. “Incubi anche stanotte?”

Con un sogghigno che voleva mascherare la paura ben visibile negli occhi scuri del marine, Jeremy annuì debolmente prima di fissare il soffitto candido e sussurrare roco: “La sento sempre. La mina antiuomo che si aziona, il clic sordo dell’innesco sotto il mio piede… e il rombo. La terra che mi schizza addosso assieme al sangue e alla carne maciullata della mia gamba. Il dolore arriva dopo, quando sono già a terra e…”

Joy strinse gentilmente la mano dell’uomo, che si aggrappò freneticamente a lei, quasi temesse di scivolare in un dirupo senza fine.

Con la voce sommersa dai singhiozzi, continuò dicendo: “Chiudo gli occhi e urlo. Urlo fin quasi a perdere la voce, mentre i miei compagni mi raggiungono e si apprestano a un fuoco di copertura per portarmi fino al blindato. Poi, non ricordo più nulla. Almeno, fino al mio risveglio su un letto d’ospedale, senza … quella.”

Nell’indicarla, il marine si morse un labbro e inspirò con forza, per riprendere un minimo di controllo sulle proprie emozioni.

Fuori, oltre la finestra lasciata aperta, il rumore delle auto si confondeva con quello dei mezzi pubblici, creando un rumor bianco di fondo che riempì i vuoti lasciati dai lunghi silenzi del soldato.

Joy, ben sapendo di dover solo ascoltare e consolare, in quella fase, attese paziente che Jeremy riprendesse il racconto.

Si limitò a carezzargli il braccio con la mano libera mentre l’altra, trattenuta dal marine, erano l’ancora a cui l’uomo si stava aggrappando per non affogare.

Dopo un tempo che parve interminabile, Jeremy volse il capo di capelli rasati in direzione della ragazza e, con un mezzo sorriso, le chiese: “Non dirà al mio superiore che ho pianto, vero?”

Abbozzando una risatina, Joy scosse il capo e replicò: “Non mi sembra di aver visto nessuno piangere, qui.”

“Grazie” sussurrò Jeremy, chiudendo un momento gli occhi prima di lasciarsi andare a un sospiro abbastanza rilassato.

“Non credo che il tuo comandante ti biasimerebbe, soprattutto dopo tutto quello che hai passato laggiù. Comunque, io non ho visto, né sentito, nulla” gli promise Joy.

Si scostò dal soldato per controllare la flebo e, dopo un attimo, aggiunse: “La ferita sta guarendo bene e il tessuto cicatriziale è pulito, non presenta necrosi, né pus. Per la protesi, verranno domani a prendere i calchi e, nel frattempo, ti mostreranno alcune opzioni tra cui scegliere. Io, nel frattempo, ti metterò in lista per la settimana prossima, così cominceremo a fare i primi esercizi per recuperare la capacità motoria.”

“Non sono mai stato un tipo paziente, ma mi sa che qui ne avrò per un po’, vero?” sospirò Jeremy, sconsolato.

“Avresti dovuto chiamarti Augustine, non Jeremy” sorrise benevola Joy, incuriosendolo.

“Perché dottoressa?”

“Sant’Agostino era come te. Poco paziente. Così pregò Dio dicendogli: ‘Dio, dammi la pazienza, per favore… ma dammela subito!’ Un po’ un controsenso, no?” ammiccò lei.

Jeremy annuì con un mezzo sorriso, replicando: “Capisco Sant’Agostino.”

“Lo immaginavo. Vorrà dire che…” cominciò col dire Joy, prima di interrompersi quando la porta della stanza si aprì.

Dietro il pannello ligneo comparve la figura imponente e austera di un uomo in divisa.

“Colonnello!” esalò Jeremy, cercando di raddrizzarsi sul letto, con ben scarsi risultati.

“Riposo, riposo, figliolo” borbottò in fretta l’uomo brizzolato, prima di lanciare un rapido sguardo a Joy, che stava aiutando il marine ad afferrare la gruccia per raddrizzarsi contro i cuscini. “Lei è la sua dottoressa, signorina?”

“Sono solo una tirocinante, al momento, Colonnello. La dottoressa Rutherford è la titolare del caso, e io mi occupo di coadiuvare.”

Con un sorriso professionale, gli offrì una sedia per accomodarsi, gentilmente rifiutata dall’alto ufficiale.

Tornando a guardare il suo sottoposto, l’uomo indurì leggermente il viso, ma non per rabbia, solo per la profonda commozione che stava provando nel vederlo in un letto d’ospedale.

Joy avvertì perfettamente quel mare violento di emozioni, sentendolo sciabordare contro la sua pelle con forza.

Rapida, lo escluse dalla mente per non farsi prendere a sua volta dal nervosismo.

“Allora, come sta il nostro ragazzo?” si impose di chiedere il Colonnello, gonfiando il petto ricolmo di mostrine e medaglie al valore.

“Il caporale Rodriguez risponde benissimo alla terapia e, già dalla settimana prossima, potrà iniziare la riabilitazione fisica con l’ausilio di una protesi. La ferita si è rimarginata perfettamente, e non dovrà subire ulteriori amputazioni dell’arto. Avendo salvato il ginocchio, la mobilità con la protesi sarà più facilitata, e anche il decorso riabilitativo sarà più veloce” spiegò con solerzia Joy, leggendo la cartella clinica con voce limpida e tranquilla.

Abbozzando un sorriso a Joy a mo’ di ringraziamento, il Colonnello riuscì a racimolare la forza per buttare fuori una risatina.

“Siamo sicuri che ti impegnerai a fondo, caporale, o questa giovane dottoressa ti spingerà a rallentare i lavori?”

Joy sorrise, dando una pacca sul braccio di Jeremy che, con un largo sorriso, scosse il capo, replicando: “La dottoressa Patterson sarebbe un buon motivo per rimanere di più ma no, preferisco uscire il prima possibile.”

“Ben detto, figliolo, ben detto!” approvò il marine, sollevando fiero il capo.

“Ora riposati un po’, Jeremy. La dottoressa Rutherford tornerà da te stasera, per la visita serale. Colonnello, se mi vuole seguire, le mostrerò dove si allenerà il suo caporale.”

Con un gesto della mano, invitò l’uomo a uscire, avendo notato quanto fosse prossimo a scoppiare in lacrime.

Il Colonnello accolse di buon grado lo spunto e, dopo aver dato un ultimo saluto al giovane marine, uscì con Joy nel corridoio.

Una volta fuori, l’uomo si lasciò andare a un pesante sospiro tremulo mentre Joy, paziente, attese che il marine buttasse fuori quello che, all’interno della camera, non aveva avuto il coraggio di dire.

Quando infine si sentì pronto, il marine esalò: “L’ho mandato là io, e guardi com’è tornato!”

“E’ il vostro lavoro, mi pare. Credo proprio che il Caporale fosse più che consapevole dei rischi che correva. Nessuno l’ha costretto ad arruolarsi, ma lo ha fatto con cognizione di causa” replicò gentilmente, ma perentoria, Joy.

“E ora lei lo deve rattoppare” sospirò il marine.

“Di mestiere, questo faccio. Non voglio mentirle, Colonnello. La guerra non mi piace, e non ne comprendo i motivi. Trovo che, soprattutto questa, sia assurda, e  costerà in vite umane più di quanto ne ricaverete, ma non sono io che decido. Mi limito a salvare il salvabile, quando posso. Con Jeremy otterremo grandi risultati, ma non posso dire lo stesso di altri soldati che ho visto passare in questi corridoi. Quello che vedono laggiù, a volte, è così tremendo che neppure noi, pur con tutta la nostra buona volontà, riusciamo a capire.”

Sospirando, Joy scosse il capo e terminò di dire: “Farò sempre tutto il possibile, per coloro che verranno qui, anche se non ne approvo i gesti.”

“Essere onesti è sempre la cosa migliore” ammise l’uomo, sorridendole mesto. “Io ritengo che attaccare per debellare il problema sia corretto, ma non voglio farle cambiare idea. Si limiti a curare il mio ragazzo.”

“Questo posso farlo, e lo farò” annuì Joy, tornando a sorridere. “E ora venga. Non scherzavo, dicendole che volevo mostrarle come lavoriamo. Penso le farà bene.”

“Non sono io il malato, qui” tenne a precisare il Colonnello, pur seguendola lungo il corridoio.

“Ci sono molti tipi di ferite, mi creda, e non tutte stillano sangue” chiosò Joy, prima di indicargli una porta lasciata aperta per far circolare l’aria.

 
***

Il matrimonio del cugino di Joy.

Lui, un garçon d’honneur.

Sì, la cosa poteva anche funzionare, sempre che prima la ragazza in questione non decidesse di farli fuori in tronco per il tiro mancino che le avevano tirato.

Però, la cosa gli piaceva un sacco, soprattutto l’idea di essere in coppia con lei.

Non ne sapeva granché di matrimoni, ma quel particolare lo conosceva.

Per ogni damigella c’era un accompagnatore, e lui sarebbe stato quello di Joy.

Si sarebbe occupato di far accomodare parenti e amici e poi, tutta la sua attenzione si sarebbe incentrata su un’unica persona; lei.

Strappata la bustina dello zucchero per dolcificare il caffè, che galleggiava nella tazza di ceramica che aveva dinanzi a sé, Morgan si volse a mezzo quando udì la porta d’entrata dello Starbucks aprirsi.

Abbigliato con camicia a quadri, jeans schiariti e scarponi della Cat – un fascio di fogli arrotolati sotto un braccio – Morgan fissò la copia sputata di Alex entrare nel locale.

Sollevando una mano per farsi notare, esordì dicendo: “Stephen?”

Annuendo, il giovane abbozzò un sorriso e si avvicinò con la mano destra già sollevata, dicendo per contro: “Sono io. Tanto piacere, Morgan.”

“Piacere mio” replicò il giovane pompiere, stringendo quella mano grande e forte, dalla stretta sicura.

Gli piacque subito.

Guardandolo mentre si sedeva allo sgabello accanto al suo, Morgan fece cenno al barista di preparare un altro caffè, prima di chiedergli: “Sei in giro per lavoro?”

“Mi hanno chiamato in un cantiere qui nelle vicinanze. Avevano dei problemi con la posa di alcune tubature del sistema fognario” gli spiegò Stephen, scrollando le spalle con noncuranza.

Sorridendo grato quando si vide consegnare una tazza fumante di caffè, esalò: “Ah, di questo ne ho davvero bisogno. E’ da stamattina alle cinque che sono in giro.”

“Ti hanno buttato giù dal letto?” esalò Morgan, vagamente sorpreso.

“Qualche capo cantiere troppo zelante.”

Con un assenso divertito, Stephen sorseggiò il caffè nero e senza dolcificante, sospirando deliziato prima di mormorare: “Dio, grazie.”

“Caffeinomane?” ridacchiò Morgan.

“Fatto e finito” ammiccò Stephen, squadrandolo con un certo interesse. “D’accordo, hai una bella faccia, te lo concedo. Ma non penso che Joy sia interessata a te solo per questo, giusto?”

Sollevando un sopracciglio con evidente sorpresa, Morgan glissò la domanda e gli chiese a sua volta: “Curioso. Alex la chiama Leen, mentre tu, Joy. Come mai?”

Con una scrollatina di spalle, Steve decise di lasciar perdere il suo terzo grado per rispondergli.

“Alex l’ha sempre chiamata così, ma non ho idea del perché. Non mi sono mai arrischiato a chiederglielo, da piccolo, perché era un autentico schiavista, con noi, e io ne avevo un terrore folle. In seguito, il dubbio si è trasformato in dato di fatto e non mi sono mai più posto il problema.”

Ridendo, Morgan sorseggiò il suo caffè ed esalò: “L’avvocato, uno schiavista?”

“Era il paladino personale di Joy, nessuno la poteva prendere in braccio senza il suo permesso e, una volta che abbiamo iniziato la scuola, non si poteva giocare con lei se prima non avevamo finito i compiti. Ovviamente, lui era sempre il primo a finirli” nel dirlo, ghignò divertito.

Sbattendo le palpebre con aria sgomenta, Morgan sentenziò: “Non ho davvero parole.”

Stephen sollevò le mani in aria come per dire: «Così è la vita!»

“Alex ha sempre pensato di dover badare a ogni cosa e, gliene do atto, è bravo in questo. Con Joy, ha sempre avuto un occhio di riguardo in più.”

“La piccola del gruppo, eh?”

“Diciamo di sì” annuì Stephen, prima di tornare a fissare lo sguardo negli occhi scuri di Morgan, sorridere e chiedergli: “Come fai a sopportare di vederla solo come amica?”

Appoggiandosi allo schienale dello sgabello, Morgan poggiò un gomito sul bancone scuro del bar.

Tutt’intorno, i pochi avventori presenti in quel momento chiacchieravamo sommessamente tra loro.

Fuori, sulla via principale di Lincoln City, il traffico era regolare, il sole brillava allegro sulla città costiera e, in lontananza, l’oceano scivolava tranquillo sulle spiagge.

“Non è questione di sopportare o meno…” esordì Morgan, ponderando bene le parole. “… ma di chiedersi quanto si è legati alla persona che ci chiede questo sacrificio. Se c’è una persona a cui io mi sento legato, è lei. E’ difficile da spiegare, perché in parte non ne capisco neppure la logica, ma è così. Sento di volerle stare accanto in tutti i modi possibili, ma senza prevaricarla. Joy, ora, è insicura e, per motivi che voi vi ostinate a non dirmi, è convinta che il solo modo di vivere questo nostro rapporto, sia da semplici amici. Io le ho promesso di accettare le sue scelte, e l’ho fatto. Ma non mi sento frustrato dalla cosa, o almeno, non così tanto da voler mollare tutto per cercarmi qualcun’altra. E’ un fastidio sopportabile.”

“Beh, hai tutta la mia comprensione, amico” sospirò Stephen, terminando di bere il suo caffè. “Tuo padre sa niente di questa vostra amicizia?”

Con una smorfia, Morgan sbuffò prima di imprecare a denti stretti.

“Tocchi un tasto dolente. Non ci parliamo praticamente più, per via di Joy, ma chi ci perde è solo lui. Ha questa fissa assurda di pensare che Joy non sia chi in realtà dice di essere, ed è tutto preso da questa smania di provarlo. Cioè, anche se saltasse fuori che è la figlia naturale del Presidente degli Stati Uniti o di un narcos, che differenza farebbe? A me non fregherebbe nulla!”

“Già…” sussurrò Stephen, davvero spiacente di non poter dire la verità a Morgan.

Passandosi una mano tra i corti capelli tagliati a spazzola, Morgan proseguì dicendo: “Io ho provato a ficcargli in testa che Joy è una brava ragazza, ed è la persona più altruista che ci sia, ma lui dice che è solo un mascheramento, che nasconde qualcosa. Dio, a volte vorrei ammazzarlo, quando fa così il testardo!”

“Meglio di no” ci tenne a dire Stephen, prima di sobbalzare leggermente quando sentì un cellulare suonare vicino a loro.

Affrettandosi a prendere il telefonino dalla tasca dei pantaloni, Morgan aprì lo sportellino solo dopo aver fatto segno a Stephen di non fiatare.

Con quanta più calma possibile, riuscì a esclamare: “Ehi, piccola, ciao! Tutto bene?”

“Voglio uccidere qualcuno” esordì Joy, la voce cavernosa e irritata.

“Ahia. La Ruthi ha colpito ancora” sbuffò Morgan, accigliandosi leggermente.

“Ha inveito contro di me, perché uso delle tecniche di approccio ai casi troppo anticonformiste e ha tenuto a precisare che, nel suo reparto, si fa solo e unicamente ciò che vuole lei. Ma a me non va di sembrare un automa!” sbottò Joy, rigirandosi sul suo letto con fare nervoso.

Adombrandosi, Morgan le disse: “Tu non devi sembrare un automa, Joy. Assolutamente. Non hai modo di farti cambiare reparto?”

“Dovrei cambiare ospedale e riprendere quasi da capo il praticantato perché, se solo ci provassi, lei chiamerebbe il, o la, collega dell’ospedale da me scelto per massacrarmi ai loro occhi. So come è fatta quella strega, e non posso aspettarmi niente di meglio.”

Emise un sospiro sconsolato, prima di lanciare un cuscino contro il muro per la rabbia.

“Joy? Stai buttando giù casa?” le chiese turbato Morgan.

“No. Niente di tutto ciò. Sono solo irritata. E ti sto usando da stampella, scusa…”

“Sono la stampella più disponibile del pianeta, credimi” ridacchiò lui, prima di tornare serio e chiederle: “Non puoi farne menzione ai suoi superiori?”

“Se lo faccio, posso scordarmi la sua lettera di valutazione per l’esame di abilitazione. L’unico modo in cui potrei liberarmi di lei sarebbe che i suoi superiori fossero d’accordo con il mio metodo, ma come fare per metterli di fronte al fatto compiuto?” esalò Joy, con voce spenta.

Morgan si passò una mano sulla fronte, pensieroso, mentre Stephen lo fissava al colmo della preoccupazione, non comprendendo cosa stesse succedendo tra i due.

Quando l’idea gli balzò alla mente, quasi si illuminò in viso e, con voce più sicura, Morgan dichiarò: “Senti, il nostro capo, dopo i brutti incendi con morti al seguito, ci manda da una strizzacervelli qui al Samaritan, e lei è una in gamba. Non credi che potrei chiederle un aiutino?”

“La disturberesti per una che neanche conosce?” sussurrò sgomenta Joy.

“Non conosci la dottoressa Abrahams. Lei è un po’ come te. Scommetto che, appena le sottoporrò la questione, si interesserà subito.”

Il tono di Morgan, in quel momento, rasentò la gioia assoluta.

“Sei sicuro di volerlo fare?” borbottò Joy.

“Per te? Piccola, ti darei un pizzicotto sul tuo bel nasino, al momento, per la stupidaggine che hai detto” ridacchiò Morgan, strizzando l’occhio a Stephen per tranquillizzarlo.

“E in che modo la ripagherai?” chiese allora Joy, con un tono leggermente malizioso.

Scoppiando a ridere di gusto, Morgan le disse: “Tesoro,  Cynthia Abrahams ha cinquantacinque anni, è felicemente sposata e con due figli. E ha dichiaratamente detto che a lei piacciono gli uomini biondi. Sono al sicuro dalle sue eventuali avances e, di certo, io non ne farò.”

“Allora… sono felice di averti chiamato e, giuro, riceverai un premio per il tuo aiuto.”

Socchiudendo gli occhi, Morgan calò di un tono la voce e sussurrò roco: “Ora mi intrighi.”

Lei scoppiò a ridere, più serena di quanto non fosse all’inizio della telefonata e, con voce calda e gentile, asserì: “Penso ti piacerà, ma credo che rimarrai stupito quando lo riceverai.”

Ora vagamente confuso, Morgan sbatté le palpebre ed esalò: “Che intendi dire?”

“Lo scoprirai” sussurrò lei, schioccando un bacio sul microfono del cellulare per poi chiudere la comunicazione.

Morgan allontanò il telefonino per fissarlo vagamente accigliato dopodiché, esasperato, guardò Stephen e borbottò: “Tua cugina è criptica.”

“Più di quanto tu non pensi” ammise Stephen, prima di chiedergli lumi.

Morgan gli riassunse il problema, notando il cipiglio del giovane architetto farsi sempre più evidente.

Non appena gli espose la sua soluzione, però, trovò il suo plauso incondizionato.

Non sapeva se avrebbe funzionato ma, di sicuro, ci avrebbe provato.


 
***

 
L’arrivo a sorpresa della dottoressa Abrahams a Boston, non poté che farmi piacere.

Questo, però, aveva rinfocolato un decennale rancore che covava tra le due contendenti. La Rutherford e la Abrahams.

Quando Morgan aveva accennato il mio problema alla psicologa, che si occupava dei vigili del fuoco di Lincoln City, la dottoressa aveva immediatamente fatto armi e bagagli.

Aveva avvisato il primario dell’ospedale di Boston dove lavoravo di una sua prossima visita e, nel giro di quarantotto ore, era giunta a destinazione.

Dire che la Abrahams e la Rutherford si erano guardate in cagnesco, è essere ottimisti.

Vista la maggiore nomea della prima, il primario si era ben guardato dal metterle i bastoni tra le ruote, e l’aveva fatta girare per l’ospedale con tanto di sorrisi e smielati convenevoli.

Avere nel nostro ospedale una psicanalista del calibro della Abrahams, era l’equivalente di avere in visita Madonna o i Rolling Stones.

Questo, naturalmente, alla Rutherford non andò giù.

Per niente.

Come previsto, Cynthia si dichiarò d’accordo con il mio stile di analisi dei vari casi, e con le conseguenti terapie da attuare.

Il tutto fu discusso sotto l’occhio fiammeggiante della Rutherford, e quello attentissimo del primario dell’ospedale.

Non era certamente il modo più corretto di agire ma, visto che l’unico sistema per liberarmi della Rutherford, era comportarmi in quel modo non proprio ortodosso, non potei fare altro che adeguarmi.

Come ciliegina sulla torta, la Abrahams si espresse in lodi sperticate nei miei confronti, dichiarandosi speranzosa di potermi rubare all’ospedale.

Il primario ne fu sorpreso, ma non particolarmente contrariato.

Non era insolito che i tirocinanti cambiassero sede di studio ma mai, forse, gli era capitato che un dottore venisse direttamente per prelevarne uno.

Sapevo bene che il Samaritan sarebbe stato perfetto per me e, più di tutto, io volevo quello, ma senza la lettera di valutazione di Ruthi, ero bloccata a Boston.

Lettera che, mi assicurò lo stesso primario, io avrei avuto, e con il massimo delle benemerenze.

Avrei sostenuto il mio esame di idoneità a Lincoln City a tempo debito, continuando l’internato direttamente sotto il controllo della Abrahams.

Certo, per questo, il primario avrebbe dovuto rimodernare tutto il reparto della Rutherford, in cambio.

Alla fine, a me non importava.

Io non ero lì per litigare con nessuno.

Sorseggiando un caffè, a fine turno con la dottoressa Abrahams, mi rincuorai non poco nel sentirle dire che i problemi con la Rutherford erano la norma.

Chi aveva inclinazioni simili alla mia, si era sempre trovato osteggiato dalla donna.

Non era la prima volta che lei, o altri suoi colleghi ‘salvavano’, dalle grinfie di quella donna, promettenti praticanti e, di certo, io non sarei stata l’ultima.

La Rutherford una brava dottoressa, ma aveva una mentalità troppo chiusa e poco incline ai cambiamenti e, perciò, limitata.

Con una pacca sulla spalla e un sorriso, la Abrahams mi disse: “Quando potrai venire da noi, ne saremo tutti felici. Ho visto come lavori e credimi, al Samaritan troverai un reparto che ti calzerà a pennello.”

“Grazie.”

Non riuscii a dire altro, sentendo le lacrime pungermi le iridi, pronte a scivolare fuori per la gioia.

La dottoressa, con un sorriso ancora più accentuato, mi strinse in un rapido abbraccio prima di carezzarmi una guancia con comprensione.

Capiva e, per me, era già tantissimo. Sperai davvero che il giorno del mio trasferimento avvenisse presto.



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Capitolo 21
*** cap. 21 ***


 
21.
 
 
La Fenice è simbolo del Sole e nulla
nell’universo è più grande di esso; il Sole infatti
 sovrasta e scruta ogni cosa ed è per questo
 che viene chiamato dai molti ‘occhi di Horus’.
(I Geroglifici I, 34)


 
 
 
 
Non avevo idea se, il tipo di regalo che avevo scelto per Morgan, avrebbe potuto fargli piacere o meno.

Sapevo bene cosa desiderasse realmente da me e, quello, proprio non potevo darglielo.

Sperai comunque ardentemente che, ciò che avevo scelto in sostituzione, potesse andare bene.

Tenevo i due biglietti per la mostra di Donald Holden al PMA all’interno della mia borsetta.

Desideravo che quella giornata potesse essere speciale per lui come, per me, lo era stato il giorno in cui avevo visto entrare la dottoressa Abrahams in ospedale.

Parlando con lei a ruota libera su ciò che desideravo fare con i miei pazienti, avevo trovato in Cynthia una donna pronta ad ascoltare, ma anche una valida alleata.

Insieme, avremmo creato un nuovo modo di affrontare i problemi legati alla riabilitazione fisico-psicologica del paziente.

Una volta che io avessi ottenuto l’okay della Rutherford per andarmene da Boston, avrei trovato calde braccia aperte pronte ad accogliermi a Lincoln City.

Come sempre, non mi sarei presa il merito di nulla – come era stato anche in passato, per altri eventi che avevano cambiato considerevolmente il benessere del pianeta.

Come sempre, mi sarebbe stato bene così.

Io ero solo uno strumento che agiva per il bene della gente, non avevo bisogno di titoli onorifici, di statue elevate in mio nome o quant’altro.

Inoltre, tutt’altro genere di pensieri affollavano la mia mente, non certo le possibili onorificenze che avrei potuto ottenere.

Avevo ancora ben poco tempo da passare accanto alle persone che conoscevo e amavo.

Entro breve tempo, qualche anno al massimo, la mia fisionomia avrebbe smesso di cambiare per cristallizzarsi per decenni interi in un’unica forma.

I miei trent’anni anni non stavano solo a indicare il momento in cui io avrei avuto pieno possesso dei miei poteri, ma anche l’istante in cui le mie cellule avrebbero iniziato a smettere di invecchiare.

Il processo d’invecchiamento sarebbe mutato per divenire quello di Fenice e io, entro breve tempo, avrei dovuto iniziare il mio pellegrinaggio per il mondo.

Era sempre andata così e, anche questa volta, non avrebbe fatto alcuna differenza.

O almeno, io speravo che fosse così.

Avevo già messo in guardia la mia famiglia di quel mio prossimo distacco da loro.

Pur non apprezzando la cosa, avevano accettato che, nel giro di una decina d’anni al massimo, mi avrebbero vista partire per cambiare vita, nome e città.

Nel frattempo, avrei messo in pratica ciò che mi prefiggevo di fare per quel mio primo approccio nel mondo moderno.

In seguito, lo avrei portato avanti sotto altre spoglie, in altri luoghi, con altri pazienti e altri colleghi.

L’unico problema era Morgan.

Come avrei fatto a spiegarlo a lui?



 
***
 



Il sole splendeva alto in cielo mentre una leggera brezza spirava dal mare, portando con sé il profumo salmastro delle acque.

La temperatura gradevole di quel giorno era il giusto coronamento dei sogni degli sposi che, divisi da meno di un isolato, attendevano impazienti di potersi riunire per dare inizio alle danze.

Lily – che aveva dormito in camera con Joy – non poté non lasciarsi sfuggire una lacrima, quando la madre giunse dall’albergo per aiutarla a vestirsi.

Susan, tenendo in mano spazzola e piastra, sorrise al settimo cielo e, nel carezzare la chioma bruna dell’amica, asserì: “Piangi ora, visto che non ti ho ancora preparata, ma dopo, scordatelo.”

“Signorsì, Susy” annuì Lily, ridacchiando nel strizzarle l’occhio complice.

Susan le diede un buffetto sulla guancia, prima di cominciare a spazzolarle i capelli, lunghi fino in fondo alla schiena.

La chioma sbarazzina sarebbe tornata dopo il matrimonio ma, per quell’occasione unica, aveva preferito attenersi alla tradizione.

Mentre l’avvocatessa era impegnata con la sposa, Joy aiutò Mrs Elliott a indossare il suo abito, un fresco vestito di chiffon grigio perla lungo poco sotto le ginocchia.

Osservando la madre dallo specchio, Lily le chiese: “Brenda è con papà?”

“Sì, ha pensato di rimanere con lui perché era un po’ pallido, stamattina. Ci raggiungeranno a casa di Steve” le spiegò la madre, sistemandosi nervosamente una spallina dell’abito.

Con un risolino, Lily annuì, immaginandosi l’alto e imponente padre cedere di schianto perché sopraffatto dalla troppa emozione.

Melinda, nel frattempo, aveva già terminato di fare la cravatta al marito e, dopo essersi controllata allo specchio, raggiunse la camera della figlia, chiedendo: “Serve aiuto, qui?”

“Tutto regolare, mamma, ma tu e Mrs Elliott potete prendere un tè assieme, nel frattempo” le propose Joy, ben sapendo che, entro breve, Lorelay Elliott sarebbe scoppiata in lacrime.

Comprendendo al volo la situazione, Melinda prese sotto braccio la donna, già in procinto di esplodere in un pianto dirotto.

Dandole affettuose pacche su una mano, la accompagnò fuori, cominciando a parlarle di Stephen e di come lo avesse visto nervoso, il giorno addietro.

Mentre le chiacchiere delle due donne si allontanavano dalla sposa, Joy prese il suo abito blu steso sul letto e lo indossò con poche, rapide mosse.

Susan, nel frattempo, creò boccoli su boccoli color bruno scuro, sistemandoli accuratamente con una miriade di spille.

Sorridendo dello sguardo fiero, sicuro e illuminato d’amore di Lily – che si stava ammirando allo specchio, quasi incredula – Joy si sedette per indossare le sue Jimmi Choo.

“Mio cugino non potrebbe essere uomo più fortunato. I tuoi occhi sono colmi di stelle.”

“Dici?” rise sommessamente Lily, facendo rifulgere i profondi occhi color cioccolato.

“Joy ha ragione.”

Con un colpo magistrale di pettine, Susan intrecciò i capelli sulla cima del capo di Lily, creando una crocchia da cui scesero, a cascata, decine di boccoli dalle linee morbide e perfette. “Stephen non potrebbe trovare moglie migliore di te.”

“E tu e Alex? Ormai è un anno che state assieme. Non ci pensi, ogni tanto?” le  domandò Lily, guardandosi nel frattempo con aria sognante.

Ridacchiando, Susan infilò con destrezza forcine su forcine per bloccare l’acconciatura prima di passare alla lacca.

Con voce un tantino troppo sicura di sé, sentenziò: “Prima che io e Yale ci si sposi, si dovranno riaprire le acque del Mar Rosso.”

Joy scoppiò a ridere, sentendole dire quelle parole – e sapendo bene di poterla accontentare, una volta raggiunti i trent’anni di età – e, con le lacrime agli occhi, esalò: “Ma perché dici così, Susy?”

“Perché, al momento nessuno, dei due vuole il matrimonio o, almeno, Alex non lo vuole” replicò la bionda avvocatessa, un poco meno sicura di prima.

“E perché mai non lo vuole?” sbottò Joy, terminando di allacciare le scarpe prima di mettersi in piedi e fare una mezza piroetta, per controllare l’effetto globale.

Con un mezzo sorriso, Susy le disse: “Sei stupenda… davvero sfolgorante, Joy.”

“Grazie” sorrise lieta la ragazza, prima di tornare a chiederle: “Perché pensi che Alex non ti voglia sposare?”

“Per la verità, non ne abbiamo parlato e poi, ammettiamolo, è poco che stiamo assieme e…”

Mordendosi un labbro, lasciò la frase a metà e continuò a spruzzare lacca e tastare i capelli di Lily perché si fissassero nel modo giusto.

Joy la fissò dubbiosa per alcuni attimi, lasciando che la sua domanda scivolasse fuori da sola, vagamente maliziosa: “Perché non glielo chiedi tu?”

Sobbalzando, Susan rischiò di lasciar cadere la bomboletta della lacca a terra mentre Lily, con un risolino, diede man forte a Joy, esclamando: “E’ vero. Fai tu la prima mossa!”

Rossa in viso come un peperone maturo, Susan riprese a sistemare la complessa acconciatura di Lily, bofonchiando imbarazzata: “Oggi è il giorno del matrimonio di Lily e Stephen. Si parla solo di loro due, chiaro?”

La sposa e Joy ridacchiarono nell’annuire poco convinte e Susan, con uno sbuffo infastidito, si volse verso la padrona di casa, minacciandola apertamente.

“Giuro che ti farò una pettinatura orrenda, se non la smetti!”

“Comandi!” sogghignò Joy, mettendosi sull’attenti prima di scoppiare in un secondo accesso di risa.

A Susan non restò altro che sospirare esasperata.
 
***

“Okay, non sto morendo, questo è assodato ma, di sicuro, sto per svenire” esalò Stephen, pallido come un morto e tremante come una foglia.

Scuotendo il capo per l’esasperazione, Alex lo prese per le spalle per scuoterlo un poco e, fissandolo bieco, esclamò: “Oggi è il tuo matrimonio! Sveglia! Vuoi lasciare Lily sola all’altare?!”

Rispondendo allo sguardo accigliato del fratello maggiore, Stephen replicò piccato: “Certo che non voglio lasciarla sola, ma sono un tantino nervoso. Vorrei vedere te, al mio posto!”

Alex divenne un tantino pallido, a quelle parole, ma mascherò abilmente il tutto, replicando con alterigia: “Vedi di non svenire come un pesce lesso, o il tuo matrimonio finirà su internet come la papera del secolo.”

“Spiritoso” sbuffò Stephen, stiracchiandosi la giacca scura e lunga fino al ginocchio.

Sorridendo divertito nel sorseggiare pigramente un po’ di champagne da una flûte di cristallo, Morgan fissò i due fratelli per un lungo momento.

Erano spassosi, tutti e due, e l’atmosfera gogliardica dei fratelli Barrett era qualcosa che mancava alla sua vita da tempo.

In casa sua, ormai, l’aria era così densa da potersi tagliare con il coltello.

Alzandosi dalla poltrona ove si era accomodato, raggiunse la coppia, li prese per le spalle per separarli e dichiarò: “Ragazzi, sembrate due galli pronti a suonarvele. Allontanatevi, se non volete andare all’altare con gli occhi neri.”

“Bravo, Morgan, cantagliele!” celiò Brian, spaparanzato sul divano del salotto di casa Barrett, dove i ragazzi si erano ritirati in attesa di uscire in giardino.

Morgan sogghignò all’indirizzo del giovane agente dell’FBI – da quel che aveva capito, era dall’11 Settembre che non faceva altro che leggere scartoffie su potenziali jiadisti.

Portava i capelli mossi e castani in un agglomerato informe e vagamente sbarazzino, anche se non riusciva a capire se per scelta, o necessità.

Forse, le troppe ore al lavoro, gli avevano impedito di visitare un barbiere?

Sollevata la flûte per brindare in suo onore, Brian  si passò la mano libera nella chioma confusionara e sentenziò: “A parti invertite, farebbero lo stesso. Sono dei gran fanfaroni ma, messi nelle mani di una donna, diventano di gelatina. E questi sono i risultati.”

Stephen e Alex lo fulminarono con lo sguardo, mentre Brian terminava di bere in santa pace il suo champagne, del tutto indifferente alle occhiate venefiche dei fratelli.

“Vedremo come ti sentirai tu, quando finirai tra le grinfie di una donna” gli ringhiò contro Stephen, sorridendo a suo padre e suo zio non appena misero piede in salotto. “Ah, Dio ti ringrazio! Voi due, toglietemi dalle scatole Brian!”

Ridendo, Peter diede una pacca sulla spalla a Brian, che sghignazzò e si levò in piedi per uscire in giardino.

Richard, nel frattempo, squadrò pensieroso Morgan e, dopo alcuni attimi di indecisione, si avvicinò a lui con il chiaro intento di parlargli.

L’aver saputo dai ragazzi che, tra i garçon d’honneur, ci sarebbe stato anche il figlio del Professor Thomson, non lo aveva certo rallegrato.

Non era comunque uno sciocco e si era reso conto che, a dispetto delle parole di Joy, qualcosa tra loro effettivamente c’era.

Il regalo del giovane, il giorno di Pasquetta, l’aveva resa felice come poche altre volte, e questo non poteva certo imputarlo alla bella giornata passata sulle rive dell’oceano.

Imperturbabile, Morgan attese l’arrivo di Richard senza dare minimamente adito al più piccolo accenno di panico.

Quando l’uomo infine lo raggiunse, gli sorrise gentilmente prima di allungare una mano e dire cordiale: “Finalmente ci incontriamo di persona, signor Patterson. Sono Morgan Thomson.”

Accogliendo la mano del giovane e stringendola con energia, Richard apprezzò subito la sua stretta vigorosa, e replicò: “Piacere mio, ragazzo. Allora, …i miei nipoti ti hanno incastrato, da quel che ho capito.”

“Qualcosa del genere” annuì Morgan, con un sorrisino divertito. “Per la verità, avevo tutta l’intenzione di venire qui in divisa da pompiere, e non in smoking perché temo che, quando Joy mi vedrà, si incendierà come un falò. Nessuno l’ha voluta avvisare, e io ho il terrore di quello che potrà fare a tutti noi.”

Ridacchiando tra sé al pensiero che, in effetti, Joy avrebbe potuto davvero andare in fiamme per la rabbia, Richard si limitò però a dire: “Avevo capito che eravate amici. Le cose sono cambiate, ultimamente?”

“No, affatto. Ma, ecco… diciamo che non le piacciono le sorprese, se ci sono di mezzo io. E, visto che con lei devo andare con i piedi di piombo, questa non è esattamente una mossa azzeccata” ammise Morgan, tornando serio in viso.

“Con i piedi di piombo, dici?” si interessò subito Richard, accigliandosi.

“Non ha senso girarci intorno, visto che sono qui” confessò con calma Morgan, osservando distrattamente Peter mentre sistemava il plastron di Stephen. “Il mio interesse per Joy va oltre la semplice amicizia, lei lo sa come lo so io. Per motivi che nessuno intende spiegarmi, non vuole andare oltre, e io ho accettato. Quindi, farò il bravo ragazzo e sarò per lei solo un amico.”

“E ti sta bene così?” chiese vagamente incredulo Richard, fissandolo dubbioso.

“Come ho detto ai suoi nipoti, ogni momento passato con Joy vale più di qualsiasi altra cosa. Anche come amico.”

Con un mezzo sorriso, si allungò verso il vassoio delle flûte e ne allungò una all’uomo.

Dopo averla accettata, Richard la bevve d’un fiato.

“Non apprezzo ciò che tuo padre ha fatto passare a Joy, ma non posso certo mettere sulle tue spalle le sue colpe. Sei un bravo ragazzo, Morgan.”

“Grazie” disse semplicemente lui, prima di veder comparire nel salotto la wedding planner.

Con la capacità organizzativa di un generale, li spedì tutti fuori per prendere posto di fronte all’entrata della casa.
Stephen, invece, venne indirizzato di corsa verso l’altare per attendere la sposa, che sarebbe giunta di lì a mezz’ora.

Subito, gli uomini corsero fuori per prendere posto come ordinato mentre, sulla strada, le auto degli invitati cominciavano ad assiepare ogni centimetro utile della strada.

Impettiti nei loro tuxedo, i tre garçon d’honneur si misero in posizione per potersi mettere a disposizione degli invitati mentre, lungo la via, la Chevrolet Camaro di Joy faceva la sua comparsa.

Morgan si ritrovò a deglutire nervosamente, quando vide l’auto fermarsi a poche centinaia di iarde da loro.

Le portiere dell’auto infine si aprirono per fare scendere le ragazze, e il tempo parve fermarsi, per lui.

Gli occhi si fissarono su quella figura fluttuante come una nuvola, dai capelli fiammeggianti raccolti in una crocchia di riccioli che le scivolavano sulle spalle come una colata di fuoco.

Il viso, ridente e fresco come la rugiada del mattino, sembrò raccogliere tutta la lucentezza del sole.

In quel momento rise, forse per una battuta che una delle ragazze aveva detto prima di scendere dall’auto.

Il tutto avvenne in pochi secondi.

Il viso di Joy si volse verso la casa dei cugini e, come un magnete, i suoi occhi smeraldini incrociarono e affondarono in due profondità oscure e calde che ben conoscevano.

Lì, rimasero imbrigliate per un istante eterno.

Al suo fianco, Susan seguì con lo sguardo la sua occhiata, sorrise divertita e infine prese sottobraccio la ragazza, sussurrandole all’orecchio: “Sbaglierò, ma tu e quel bell’ispanico dal fisico eccezionale vi conoscete.”

“Ma che ci fa qui?” esalò Joy, cominciando ad avvertire un profuso rossore salirle alle gote.

Brenda, raggiunto il fianco libero di Joy, le avvolse l’altro braccio e le spiegò: “Lily mi ha detto che voleva essere una sorpresa e, a quanto pare, ha funzionato. Sei tutta rossa, tesoro!”

“Lo so” farfugliò alla bell’e meglio Joy, ritrovandosi di fronte all’entrata del giardino dei Barrett senza essersene neppure accorta.

Parte degli invitati erano già accomodati, ma a lei poco importava, in quel momento.

Il suo sguardo era tutto per Morgan.

“Ciao” si limitò a dire quest’ultimo, sorridendole un po’ scioccamente.

Joy sbatté le palpebre un paio di volte, cercando di riprendersi.

Provò a non badare a quanto stesse bene con quell’abito cucito su misura, o a come la camicia candida si sposasse perfettamente con la sua pelle naturalmente abbronzata.

Fatica sprecata.

Era stupendo, e poco poteva fare per non notarlo.

Guidata praticamente da Susan e Brenda, Joy si vide sollevare le mani in direzione di quelle di Morgan.

Con un risolino, il giovane asserì, rivolto alle due damigelle d’onore: “Ancora un po’, e sviene.”

“La reggi?” gli chiese Susan, allontanandosi con un risolino per raggiungere Alex, che stava ammirando la scena con un sorriso idiota stampato sul volto.

Non appena le mani di Joy raggiunsero quelle di Morgan, anche Brenda si scostò.

Riacquistata di colpo una certa lucidità mentale, Joy strinse le mani del giovane prima di voltare al rallentatore il capo e fissare con la morte negli occhi i suoi due cugini.

“Oh, oh” esalò Brian, sogghignando e mettendosi prudentemente dietro la figura esile di Brenda, che scoppiò a ridere di gusto.

Alex fece lo stesso con Susan, avvolgendole la vita e poggiando il mento sulla spalla della fidanzata.

“E’ inutile che ci guardi come se volessi ammazzarci seduta stante, Leen. Si vede lontano un miglio che ti fa piacere che il tuo garçon d’honneur sia lui.”

Irrigidendosi non poco, Joy replicò gelida: “Una telefonata per avvisarmi sarebbe stata quanto meno cortese.”

“E rovinarti la sorpresa? Mai e poi mai!” scoppiò a ridere di gusto Brian, prendendo sottobraccio Brenda per allontanarsi con lei e raggiungere gli invitati al matrimonio.

Lasciando le sue mani per avvolgerle le spalle con un braccio, Morgan la scosse leggermente, mormorando: “E dai, Joy, non hanno fatto nulla di male.”

“Mi hai tenuta all’oscuro di tutto!” esclamò a quel punto Joy, piantandogli un pugno in un fianco, mentre un lento sorriso divertito si dipingeva sul suo viso.

“Ahia!” ridacchiò Morgan, accompagnandola attraverso il prato.

Alex e Susan si misero al loro fianco e l’avvocatessa, scrutando curiosa Morgan, chiese: “Quindi, sei tu l’amico pompiere di Joy?”

“Affermativo” ammiccò Morgan. “Caso mai ti servisse un vigile del fuoco, non esitare a chiamarmi. Mi faccio sempre in quattro, per degli avvocati così belli.”

Ridendo sommessamente, Susan annuì con foga, mentre Alex le dava un pizzicotto sul fianco, lanciando una strana occhiata a Morgan.

Quest’ultimo, per tutta risposta, aggiunse ammiccante: “Ehi, amico, mi riferivo a te.”

Mentre Alex si ricopriva di un lieve velo di rossore, Susan scoppiò a ridere di gusto e Joy, sollevando lo sguardo in direzione di Morgan, gli domandò: “Da quanto siete d’accordo?”

“Da un po’” ammise lui, avvolgendole la vita per aiutarla a percorrere i due gradini che conducevano al padiglione principale, dove si sarebbe svolta la cerimonia.

“Grazie” sussurrò Joy, prima di scostarsi un poco per prendere la sua mano. “Papà ti ha già visto?”

“Abbiamo già parlato, sì, e non mi ha minacciato con la pistola, tranquilla” sogghignò lui, indirizzando un cenno del capo a Richard.

L’uomo si era già accomodato in prima fila, su una delle lunghe panche bianche disposte sui due lati della navata centrale del padiglione.

Con un risolino, Joy sollevò un dito facendolo girare in tondo un paio di volte per indicargli che la madre sarebbe arrivata più tardi, con la sposa.

Richard annuì mentre Morgan e Joy raggiungevano il palco, dove si sarebbero posizionati damigelle d’onore e garçon d’honneur.

Seguendo le rigide disposizioni della wedding planner, si lasciarono per mettersi ai due lati opposti del palchetto.

L’aria fresca e il sole a picco rendevano l’atmosfera perfetta, e i pochi invitati già debitamente accomodati scalpitavano impazienti, speranzosi di vedere quanto prima la sposa.

Stephen e Lily avevano preferito non avere più di un’ottantina di ospiti, alla cerimonia.

A dispetto del suo carattere solare e allegro, la ragazza desiderava - al pari del futuro marito - intimità e quiete, per il loro matrimonio.

Lanciando un sorriso d’incoraggiamento a Stephen, che se ne stava impettito nel suo completo di Armani, Joy mimò il gesto dell’okay per dargli coraggio.

Non appena udì il clacson dell’auto della sposa, però, si rimise in posizione e, orgogliosa, si volse verso la strada al pari degli altri presenti.

“Non avercela con Alexander, per quello che ha fatto…”

Joy cercò di non sobbalzare per la sorpresa, quando udì la voce di Rah nella sua testa.

Vagamente sconvolta, esalò: “Eri d’accordo con lui?”

“E’ stato lui a cercarmi. Ingegnoso, da parte sua, devo ammetterlo.”

“E come diavolo… oh, la ferita, vero?”

“E’ un tramite come il tuo neo, sì. E lui ha pensato bene di sfruttarlo.”

“Dovresti saperlo che mandarmi tra le braccia di Morgan può portare solo guai” ci tenne a dire Joy, mentre la sposa scendeva dalla limo, accompagnata dal suono dei violini dell’orchestra, che si trovava nel giardino.

“Goditi la festa e non pensare ad altro. Inoltre, non mi sembra che tu abbia intenzione di fare qualcosa di diverso da quel che ho contribuito a fare io, visto che hai comprato due biglietti per la mostra, e non uno.”

Il tono di Rah fu così ironico che Joy non poté far altro che sorridere.

Avrebbe lasciato quella discussione a un secondo momento perché, in quegli istanti di perfezione, tutta la sua attenzione doveva andare a Stephen e Lily.

Con grazia sopraffina, la sposa mise piede sul lungo corridoio di petali di rosa che era stato steso per lei sull’erba perché raggiungesse il padiglione.

Mr Elliott, perfetto nel suo tuxedo scuro, la accompagnava gonfio di gioia e con occhi scintillanti di lacrime.

Melinda e Mrs Elliott raggiunsero in silenzio i loro posti per godersi l’incedere lento di Lily, al suono del Canone in re maggiore di Johann Pachelbel.

Tutto era perfetto, dalla musica superbamente eseguita, ai fiori che pencolavano dal padiglione come gocce di colore, all’abito della sposa di raso color bianco di titanio. Il bustino rigido,  dallo scollo arrotondato, disegnava con grazia le forme atletiche di Lily.

Dal modo in cui Morgan osservò l’intera scena, Joy non dubitò neppure per un istante che, al primo momento utile, avrebbe dipinto un quadro di quel momento perfetto.

Perché nessuno con un minimo di cuore, avrebbe potuto non rimanere colpito dall’incedere fatato di Lily, e dall’atmosfera incantata che circondava la sposa.

Sì, quel giorno, la magia era tutt’intorno a loro.
 
***

Sorseggiando pacifico un po’ di champagne mentre, con Brian, osservava Brenda e Joy parlottare tra loro all’altro capo della pista da ballo, Morgan celiò: “Perché sembra sempre che le donne stiano complottando per la conquista del mondo mentre, invece, magari parlano solo di abiti e trucchi?”

“Perché sono notoriamente criptiche” ridacchiò Brian, prima di dare una pacca sulla spalla al giovane e aggiungere: “Grazie per essere qui. Anche se Joy non lo ammetterà mai, le ha fatto piacere averti al suo fianco.”

“Le volete tutti un gran bene, eh?” lo interrogò gentilmente Morgan. “Anche se non è veramente vostra cugina.”

“Nel nostro cuore, la è. Ed è quello che conta” si limitò a dire Brian. “Tuo padre si è fatto passare la fissa per Joy?”

Con uno sbuffo infastidito, Morgan scosse il capo e mugugnò: “Dovrei fracassargli la testa con una leva Halligan. Forse così risolverei il problema alla radice.”

Brian ridacchiò, dicendo per contro: “Dio non voglia! Se tu finissi in galera per un motivo simile, Joy ci rimarrebbe malissimo.”

“Vero” mugugnò il giovane pompiere.

Un attimo dopo, sorrise spiacente forse per la ventesima volta quando, all’ennesimo invito a ballare, lui rifiutò cortesemente. “Posso spararmi?”

Brian sghignazzò e lanciò uno sguardo ad Alex e Susan che, invece, si stavano divertendo sulla pista da ballo, seguendo il ritmo di A Kind of Magic dei Queen.

I due sposi, invece, i piedi sollevati su un paio di sedie e l’aria stanca, si stavano godendo in santa pace un momento di tregua dai balli.

I rispettivi genitori, per contro, ridacchiavano alle loro spalle, impegnati in chissà quale discussione esilarante.

Nel complesso, tutto stava procedendo alla perfezione. Tranne che per un particolare.

Morgan voleva ballare con Joy ma aveva il terrore che, spingerla a farlo, sarebbe stata la mossa sbagliata.

Dando una pacca sulla spalla al pompiere, Brian finì di bere il suo champagne prima di poggiare il bicchiere su un tavolino e dichiarare: “Vado a dare una scrollata alla mia tarda cuginetta.”

Ridacchiando, Morgan replicò: “Se ti sentisse, ti tirerebbe le orecchie.”

“No problem” scrollò le spalle Brian, allontanandosi per raggiungere la cugina.

In quel momento, stava chiacchierando con altre quattro ragazze.

A Brian non era mai andata a genio la storia della castità obbligatoria che Joy aveva propinato loro, quando si erano informati sui motivi per cui teneva a distanza Morgan.

Pur non volendo pensare alla cugina tra le braccia di un uomo, qualsiasi uomo, detestava l’idea che non si divertisse nemmeno un po’.

Perciò, avrebbe fatto la sua parte, anche se avesse ricevuto una tirata d’orecchie in cambio.

Quando infine la raggiunse, la rapì cortesemente al gruppetto di donne prima di guardarla in viso, in quel momento sorridente e acceso di ilarità.

“Vai a ballare con il tuo uomo e, per l’amor di Dio, non ti sognare di dirmi di no.”

Joy sbatté le palpebre, vagamente confusa e, sorridendogli dolcemente, replicò: “Ti ha mandato lui?”

“No, per niente. Ma ero stufo di vederlo là a mangiarti con gli occhi, senza avere il coraggio di muoversi. Lo stai facendo ammattire, questo lo sai, vero?” le domandò Brian, non senza una certa acredine.

Con un pesante sospiro, Joy annuì debolmente: “Credi che non lo sappia? Credi che non soffra al pensiero di quanto non posso dargli?”

“Non esploderebbe il mondo, se ti concedessi a lui!” sbottò Brian.

Sgranando gli occhi, Joy esalò: “Brian! Ma che dici!?”

“Sì, lo so, lo so… non dovrei dire certe cose…” brontolò il giovane, scuotendo con nervosismo le mani. “… ma mi fa pena.”

Joy non poté far altro che abbracciarlo con foga e stampargli due baci sulle guance.

“Sei un cugino adorabile, B.”

Scostandola da sé con la faccia paonazza e lo sguardo imbarazzato, Brian bofonchiò: “Vai ad abbracciare lui, non me…”

La ragazza si limitò a ridere, allontanandosi da lui in un leggero sventolio di chiffon.

Un attimo dopo raggiunse Morgan e, presolo per mano, esclamò: “Balla con me!”

Senza lasciarsi pregare, il giovane si lasciò trascinare in pista sotto gli sguardi furenti di parecchie ragazze.

Fu con un risolino che avvolse la vita della ragazza con le braccia, prima di prendere il tempo con Please Forgive Me di Brian Adams.

Guardandosi intorno nel sentirsi mitragliata da sguardi venefici, Joy poggiò le mani sui fianchi stretti del giovane, sussurrando maliziosa: “Chi tra loro ha un coltello nascosto dietro la schiena?”

“Credo nessuna. Penso che l’idea sia quella di aggredirti a suon di unghiate e borsettate” ammiccò Morgan, facendola volteggiare leggera sulla pista, quasi non avesse peso.

“Ho notato che non hai ballato con nessuna di loro. Come mai?” gli chiese, mentre i loro corpi si facevano più vicini, passo dopo passo.

Socchiudendo gli occhi per diretta conseguenza, Morgan le sussurrò roco: “E te lo chiedi anche? Io sono il tuo garçon d’honneur.”

Il sospiro che le uscì dalle labbra, coincise con l’istante in cui il capo di Joy si poggiò sul torace di Morgan.

Per un istante, quest’ultimo trattenne il respiro prima di tornare a riprendere il pieno controllo di sé.

Non se l’era aspettato, visto soprattutto il modo in cui si erano lasciati a Boston, dopo quel tragico bacio sull’entrata del dormitorio.

Questo cambiamento lo lasciò interdetto per alcuni attimi, spingendolo però a stringerla un po’ più a sé.

“Non chiedermi di andare con le altre, quando vorrei sempre e solo te tra le braccia.”

“Non te lo chiederò. Né lo vorrei.”

Le mani si mossero lentamente, raggiungendo i baveri della giacca e, attiratolo verso di sé, aggiunse: “Non fare un solo movimento.”

Lui si limitò ad annuire, terrorizzato e al tempo stesso elettrizzato da ciò che, sapeva, sarebbe successo di lì a qualche attimo.

Non l’aveva sperato, neppure ci aveva pensato ma infine eccolo, leggero, pallido, niente più che una carezza di ali di farfalla sulle sue labbra calde.

Mantenere il controllo fu la cosa più difficile che gli fosse mai capitata nella vita, ma riuscì nell’intento perché sapeva quanto valesse quell’istante.

Sapeva quanto Joy stesse mettendo in quel bacio casto, quanto profondamente sensuale.

Durò un battito di ciglia, e forse non se ne sarebbe neppure reso conto, se non fosse stato più che concentrato per evitare di saltarle addosso, ma gli bastò.

Lo rese felice e, quando infine si scostarono per riprendere a ballare, lui le sussurrò: “Dirti grazie, mi sembra doveroso.”

“Dirti scusa, mi sembra il minimo” replicò lei con un risolino, mentre il mondo intorno a loro continuava a girare, senza che nessuno si fosse reso conto di nulla.

Era stata una follia, eppure ci era riuscita.

Non era stato come quella sera di alcuni anni fa, in qui il suo cervello era partito per la tangente, lasciandola sola in mezzo al nulla, consapevole solo di Morgan e di null’altro al mondo.

Certo, il desiderio l’aveva scossa come una barchetta in balia di una tempesta, ma non era crollata. Era già qualcosa.

“Non ti devi scusare di nulla. Siamo qui, siamo insieme, e tanto mi basta” scosse il capo Morgan, continuando a farla ballare con grazia di movimenti.

“E se io aggiungessi un bonus?” gli propose lei, sorridente.

“Pensavo fosse il bacio” ammiccò Morgan, facendola arrossire.

“Una mostra. Ho due biglietti per una mostra e, visto che domani è domenica e, suppongo, tu non debba lavorare, vorrei che venissi con me a Portland per…”

Joy non si fermò, continuò a parlare di getto, senza quasi prendersi il tempo di rifiatare.

E, non appena Morgan udì il nome della città, il giovane spalancò gli occhi, si bloccò nel mezzo della pista e la strinse in un abbraccio stritolante.

“Sei riuscita a trovare due biglietti per la mostra di Donald Holden al PMA?!” esclamò lui, affondando il viso nei suoi riccioli ramati.

Ridendo, e tentando al tempo stesso di non soffocare, Joy annuì mentre Morgan, un attimo dopo, la trascinava fuori dalla pista per guardarla in viso, lui ancora sconvolto, incredulo.

“I … i biglietti sono esauriti da mesi e… come diavolo…” balbettò lui, gli occhi scuri eccitati e frenetici.

Lieta di aver centrato in pieno il regalo, Joy gli afferrò entrambe le mani, ammettendo: “Li ho acquistati non appena ho saputo della mostra. E mi è andata bene, perché stavano andando via come il pane.”

“Sei adorabile!” esalò Morgan, tornando ad abbracciarla con foga.

L’istente successivo la afferrò alla vita, sollevandola per farla volteggiare per la gioia.

Ridente e felice, Joy si aggrappò alle sue spalle mentre Brian e Alex, avvicinandosi curiosi, chiesero praticamente in coro: “Beh, che succede di bello?”

Rimettendo a terra Joy, Morgan rise allegro, dicendo: “Andremo a una mostra assieme.”

I due giovani fissarono prima Morgan e poi Joy, come se non avessero parole e la ragazza, vagamente piccata, esclamò: “Che avete, da fare quelle facce schifate?!”

Senza dire nulla, Alex e Brian si allontanarono, lanciando in aria in sincrono le braccia, come se quella domanda non avesse senso di esistere.

Morgan, avvolte le spalle irrigidite della ragazza, la rassicurò, replicando: “Non deve piacere a loro, ma a noi.”

“Giusto!” sbottò lei, prima di sorridere a Morgan e aggiungere: “Sono felice che tu sia qui.”

“E io sono felice di esserci.”
 
***

Trovare la Ford Taurus dei genitori, posteggiata di fronte alle baita, non lo rese di certo felice.

Dopo la splendida giornata passata a casa Barrett, non aveva alcuna intenzione di litigare con suo padre.

La giacca drappeggiata su una spalla, salì a passo di carica le scale che conducevano all’ampia veranda che precedeva la porta d’entrata.

Lì, Morgan aprì la porta ed entrò in casa con oscuro cipiglio, trovando i genitori accomodati sul divano del salotto.

“Qual buon vento?”

Fu Consuelo a prendere la parola e, levatasi in piedi, lo raggiunse in pochi rapidi passi per  abbracciarlo.

“Come stai bene, caro. Dove sei stato?”

“Matrimonio” dichiarò conciso il figlio, poggiando la giacca dello smoking  su una poltrona senza porvi troppa attenzione.

“Oh, e di chi? Li conosciamo?” si informò gentilmente la donna, mentre Oliver fissava dubbioso il figlio.

“Stephen Barrett e Lily Elliott” srotolò a forza Morgan, digrignando i denti non appena il padre si accigliò nell’udire un nome in particolare.

“Non mi dire che c’era anche lei!?” esclamò Oliver, levandosi in piedi con rabbia.

“Cristo, papà! E’ sua cugina! Vorrei ben vedere!” sbottò Morgan, irritandosi maggiormente a ogni secondo che passava.

“Ti avevo detto di non vederla più, di non avere più niente a che fare con lei, e invece tu che fai?!”

Con un gesto secco, intrecciò le braccia sul torace per poi fissarlo in malo modo ma Morgan, imperturbabile, non vi fece alcun caso.

“E’ passato un bel po’ di tempo da quando quella posa mi faceva qualche effetto” sentenziò amaro Morgan, mentre Consuelo li guardava preoccupata. “Joy è una persona bellissima, è gentile, generosa, altruista. Non esiste una persona migliore di lei, al mondo. Perché non te ne convinci?”

“Non è chi dice di essere!” esplose Oliver, ormai furioso.

Monet, nella sua gabbia, trillò nervosamente.

“Dimostramelo!” ringhiò allora Morgan. “Ma con prove certe, non con quel guazzabuglio di mezze verità che ti ostini a tenere chiuse nel tuo sancta santorum personale! Altrimenti, smettila di pensare male di lei e lasciami vivere come meglio credo!”

“Morgan, tesoro…” tentennò Consuelo, levando titubante una mano a sfiorargli un braccio, teso allo spasimo.

“No, mamma. E’ tempo che papà la smetta di darle fastidio.”

Scuotendo il capo, Morgan tornò a rivolgersi al padre, sibilando gelido: “Se tu potessi capire quanto è bello passare del tempo con lei, non mi odieresti tanto. Perché non puoi essere felice per tuo figlio, perché non puoi capire quanto Joy mi renda felice?”

“Non ti dice la verità” si limitò a dire Oliver, ora fissandolo come se non lo conoscesse affatto. “Non l’ha mai detta a nessuno!”

“L’ho stretta tra le mie braccia, papà, e non mi è parso di avere accanto a me un mostro, o nulla di simile. Certo, se avessi ballato con qualcun’altra, avrei potuto cogliere delle differenze, ma sono stato così idiota da danzare solo con la mia damigella d’onore e, guarda caso, mi è piaciuto un sacco!”

Il suo tono fu così aspro che Consuelo sospirò sconsolata.

Oliver si accigliò a quelle parole e Morgan, male interpretando il suo cipiglio, lo mandò al diavolo con un gesto secco del braccio.

“Neanche a fare il ragazzo beneducato, si ottiene il tuo benestare! Sai, mi chiedo perché non mi sia mai dato alle attività criminali… tanto, a te non sta mai bene niente di quel che faccio!”

Detto ciò, si avviò verso le scale che conducevano al primo piano e, senza dire altro, si diresse a grandi passi verso la sua stanza, ben deciso a cambiarsi e farsi una doccia.

Era incavolato marcio e, se fosse rimasto dabbasso un solo secondo di più, lo avrebbe ucciso.

Consuelo, dopo aver osservato spiacente la scale ormai vuote, si volse verso il marito, sentenziando: “Vale la pena di continuare questa tua crociata personale? Quanto ancora vuoi perdere, lungo la via?”

Oliver non disse nulla e Consuelo, non avendo altro da aggiungere, si affrettò a seguire il figlio al piano superiore, ben decisa a chetarne l’animo.

Rimasto solo, Oliver si affrettò a raggiungere la giacca di Morgan, dimenticata sullo schienale di una poltrona.

Afferratala, la sollevò per osservarla in controluce mentre Monet, irritato, sbatteva le ali e gridava il nome di Morgan a più riprese.

Un lento sorriso sorse sul volto pallido di Oliver quando, sfolgorante come una lingua di fuoco, un singolo capello ramato cadde sotto il suo sguardo attento.

Con indice e pollice lo afferrò per poi riporlo al sicuro tra le pieghe del suo fazzoletto e, dopo aver riposto la giacca sulla poltrona, fissò ombroso le scale.

“Vuoi delle prove? Le avrai. E che Dio mi perdoni se questo ti spezzerà il cuore, figliolo.”


 






 

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Capitolo 22
*** cap. 22 ***


 
22.
 
 
 
 
 
 
 La sveglia per partire per Portland, nel Maine, fu antelucana.

Prima di ogni altra cosa, avremmo dovuto andare a Portland, nell’Oregon, per prendere l’aereo e attraversare tutti gli Stati Uniti per raggiungere il PMA.

Solo allora avremmo potuto visitare la mostra di Donald Holden, che tanto mi era costata in termini di tempo.

Naturalmente, a Morgan non avevo detto quanto fossi stata in fila agli sportelli per avere quei biglietti perché, probabilmente, mi avrebbe dato della pazza.

Il desiderio di sdebitarmi era stato così vitale, che non me l’ero sentita di rinunciare.

Sapevo quanto amasse i paesaggi, e avevo ipotizzato che Holden fosse il pittore adatto a lui.

Passò perciò a prendermi alle tre del mattino, con il suo pick-up GMC nero metallizzato.

Dopo avermi aiutato a caricare le valige – io sarei rimasta sulla East Coast per tornare a Boston – partimmo assieme in direzione dell’aeroporto di Portland.

La sera prima, pur stanca per il matrimonio, avevo avuto la forza di salutare la mia famiglia al gran completo – Stephen e Lily sarebbero partiti per il viaggio di nozze la settimana seguente – spiegando loro che ci saremmo rivisti per il Giorno del Ringraziamento.

Gli impegni all’ospedale mi impedivano di tornare, il 4 luglio e, in tutta onestà, non volevo sfidare la sorte chiedendo un altro permesso alla dottoressa Rutherford.

Ascoltammo brani di Johnny Cash, mescolati a ballate di Elvis Presley, mentre ci dirigevamo all’aeroporto.

Fu così che venni a scoprire che Morgan era un estimatore della musica degli anni ’60 e che, da un paio d’anni, aveva iniziato una collezione di vinili originali.

Non che avesse molto tempo per ascoltarli, o soldi da buttare per acquistarli – la paga di un pompiere non era granché e, pur vendendo ogni tanto i suoi quadri, non poteva certo scialacquare denaro.

Gli piaceva l’idea di averli, anche solo per ammirarli ogni tanto quando rientrava stanco dal lavoro, o la giornata era stata pessima per più di un motivo.

A quell’accenno, gli chiesi del padre e lui, sorridendo mestamente, mi spiegò dello scontro acceso avuto solo la sera prima e di come, quel suo modo di fare, lo avesse infastidito.

Nello stringergli una mano, sorrisi generosamente e gli dissi: “Oggi non pensare a lui.”

Lui si limitò ad annuire, ma percepii con fin troppa chiarezza quanto soffrisse per la distanza forzata che si era venuta a creare tra lui e il padre.

Distanza di cui ero l’artefice primaria.

Anche di quello dovevo farmi perdonare e, per una Fenice dedita alla felicità altrui, era un bello smacco.

Stavo mettendo sulle spalle di quel giovane di soli venticinque anni, un peso così enorme che, chiunque altro, si sarebbe ritirato in buon ordine, desiderando soltanto di non rivedermi mai più.

Morgan, invece, non solo voleva con tutto se stesso rimanere mio amico, ma anche passare quanto più tempo possibile assieme a me.

E io con lui.

Perché era inutile che ci girassi intorno, inutile che mentissi a me stessa, inutile che adducessi scuse su scuse.

Morgan era l’aria, per me, come io ero l’aria, per lui.

Ma non potevo permettere a questo mio sentimento di oscurare tutto il resto, perché ero Fenice, e questo non sarebbe mai cambiato. Mai.


 
***


 
Le linee forti, i colori magistralmente mescolati tra loro, le atmosfere eteree e surreali erano i punti di forza dei quadri di Holden.

Morgan, incantato di fronte a essi e con occhi lucidi di emozione, quasi non aprì bocca per tutta la durata del giro all’interno del PMA.

A Joy non importò di non essere al centro della sua attenzione, e gradì piuttosto il modo in cui il suo regalo aveva centrato nel segno.

Dubitava che qualcun altro, all’interno di quei saloni, fosse felice al pari suo, e lei ne fu più che lieta.

Nulla le avrebbe recato più gioia del sapere Morgan appagato.

E lui, quel giorno, lo era.

La tenne per mano per tutto il tempo, spiegandole di quando in quando l’uso delle pennellate in un quadro, piuttosto che in un altro.

Joy, sempre attenta e sorridente, annuiva impressionata di fronte alle sue dissertazioni puntuali.

Più di una volta, si fermò a commentare con altre persone alcune delle opere più recenti dell’autore.

Era affascinante ammirarlo in quell’ambiente a lui così congeniale.

Pur sentendosi un po’ sciocca a pensarlo, gongolò quando titolati critici gli fecero i complimenti per i commenti tecnici che Morgan snocciolò con cognizione di causa.

Quando infine, verso pomeriggio inoltrato, uscirono dal Portland Museum of Art, Morgan galleggiava a quasi mezzo metro da terra e Joy, letteralmente, era raggiante.

Raggiunsero a piedi il Plush West End, un locale sito a poche centinaia di metri dal museo.

Una volta entrati, si diressero senza indugio verso un tavolino affacciato sulla via, dove bei divanetti rosso fuoco si sposavano alla perfezione con l’ambiente.

I muri, in mattoni faccia a vista e di un bel color carminio, si intervallavano a intere pareti bianco latte.

Il tutto era reso più evidente dall’illuminazione del locale, che alternava angoli immersi in atmosfere ovattate, ad altri dove la luce era sfavillante come il sole.

Dopo aver ordinato un paio di drink alla frutta, Joy afferrò il menù per controllare cos’avessero di buono in quel locale.

Morgan, sorridendole generosamente, le sussurrò: “Mi hai regalato una giornata stupenda. Ora sarò in debito con te per sempre.”

Congelandosi sul posto, il librettino del menù sollevato a mezzo, Joy sgranò lentamente gli occhi prima di emettere un sospiro tremulo, subito seguito da un più robusto: “Non se ne parla neanche! Ho fatto tutto questo perché ero io a essere in debito con te!”

Con un sopracciglio levato, mentre gli occhi la fissavano scettici, Morgan replicò: “In debito? E per cosa?”

Joy avvampò immediatamente, lasciando scivolare il menù sul tavolino di legno di tek.

“Beh, insomma, sai… per tutto il casino di Boston e…”

Morgan rise leggermente prima di afferrarle una mano, intrecciare le dita alle sue e mormorare roco: “Il casino l’abbiamo fatto in due e, se ben ricordo, lo avevamo già sistemato.”

“Ma so che, per te, tutto questo non è…” tentennò Joy, prima di venire azzittita da un’occhiata gelida del giovane.

“Non osare togliere merito ai momenti che passiamo insieme, perché allora giuro che ti strangolerò con sommo piacere.”

Nel dirlo, fu mortalmente serio.

La ragazza annuì lesta, prima di sorridere esitante e chiedere: “Non lo faresti seriamente, vero?”

“Tu non mettermi alla prova” sbuffò lui, giocherellando distrattamente con le dita di Joy. “Sembra che tu non abbia capito una cosa, ma te la ripeterò fino allo sfinimento. Io voglio te, solo te, in tutti i modi possibili. Posso ottenere solo questo? Va bene. Ma non pensare mai e ripeto, mai, che questo non sia ciò che voglio, perché ti sbagli di grosso. Quel che rende felice te, rende felice me. Punto. Sarà da idioti, ma è così.”

“Vale anche per me” tenne a precisare Joy, allargando un poco il suo sorriso.

“Allora, o siamo due idioti, o tra noi funziona bene così” sentenziò Morgan, ritrovando a sua volta il sorriso.

“Mi piace di più la seconda” ammise Joy, prima di stringere con entrambe le mani quella di Morgan e sussurrare: “Non so dirti quanto stare con te mi renda felice e, al tempo stesso, confusa. Non mi è mai capitato di vivere un’esperienza simile e… vedi…”

“Joy” sussurrò lui, interrompendo la sua stentata dissertazione. “Stai diventando viola. Non c’è bisogno di una confessione scritta col sangue, o cose simili. Mi dirai quello che mi devi dire quando lo vorrai, non prima e, di sicuro, non oggi.”

“Ma mi sembra di non essere onesta nei tuoi confronti…” sospirò Joy, scuotendo il capo. Non poteva dirgli la verità, però… dio, se lo voleva!

“Hai ucciso qualcuno?” le chiese con ironia.

“No!” esalò lei, sgranando gli occhi.

“Sei sposata?”

Joy si limitò a fissarlo malissimo e Morgan scoppiò a ridere, annullando la domanda con un gesto della mano.

“Sei una donna dalla A alla Z?”

Con uno sbuffo infastidito, Joy poggiò il mento sulla mano libera e fissò Morgan con aria vagamente irritata, al che lui si difese, replicando: “Ehi, andiamo! Voglio solo essere certo di non essermi sbagliato!”

“Mi hai vista in bikini. Secondo me si vedeva bene che avevo tutte le cose al posto giusto” brontolò Joy, pur trovando divertente quel terzo grado scherzoso.

Ammiccando con fare comico, Morgan annuì, ammettendo: “Sì, in effetti… ora che mi ci fai pensare…”

“Non pensare troppo… sto cominciando a vedere un filmino porno nei tuoi occhi” mormorò sommessamente Joy, volendo stare al suo gioco.

Morgan fece tanto d’occhi a quell’uscita, prima di esplodere in una calda risata ed esalare: “Ah, Joy… ti adoro!”

“Come la statua di una dea?” ironizzò lei, cercando di non dare troppo peso alle sue parole, pur sentendo il suo cuore farsi rovente.

Tornando serio, Morgan annuì lentamente e sussurrò: “Certo che ti adoro come una dea. Sei fatta per essere adorata.”

“E smettila!” sbottò Joy, arrossendo.

Lui ridacchiò e, sollevata la mano che teneva ancora nella sua per baciarle il dorso morbido e vellutato, disse con tono pacato: “Se vuoi, ti adorerò come se tu fossi un giocatore di football.”

“Eh?” esalò la ragazza, sgranando gli occhi di colpo.

Facendo spallucce, Morgan replicò alla sua sorpresa.

“Me l’hai detto tu, no? Se non vuoi che ti adori come una dea, ti adorerò come se tu fossi Kerry Collins.”

“Chi, scusa?” chiese sempre più confusa Joy.

Morgan si finse scioccato ed esalò: “Oh, santo cielo… tesoro, New York Giants. Ti scongiuro, dimmi che sai chi sono.”

“So che usano una palla ovale per giocare, ma non chiedermi di più” ridacchiò Joy, quando Morgan fece non solo una faccia offesa, ma addirittura schifata.

Scuotendo il capo, il giovane disse perentorio: “Non è accettabile che la mia migliore amica non conosca un’acca di football. Quando tornerai a L.C., ti addestrerò in prima persona e verrai allo stadio a vedere almeno una partita.”

“Se proprio devo…” ammiccò Joy, sussurrando subito dopo: “Sei anche tu il mio migliore amico.”

“Non è Alex?” gli chiese per contro Morgan, pur sorridendo soddisfatto.

“Con lui è diverso” scrollò le spalle Joy, non sapendo bene come spiegarsi.

Con Alex aveva un rapporto che rasentava quello esistente con un fratello gemello ma, a tutti gli effetti, c’erano particolari di lei che solo Morgan conosceva.

Era diverso, tutto qui.

“Beh, lo spero che sia diverso, o potrei sfondargli la faccia con un pugno” poi, pensandoci sopra, aggiunse ridacchiando: “O, forse, basterebbe lasciarlo nelle grinfie della sua fidanzata. Mi sembra un tipo che risolve da sola i suoi problemi.”

“Susy è cintura nera di karate” ammise Joy, ghignando.

“Gran donna” sentenziò Morgan, sollevando il suo bicchiere per onorare Susan con un brindisi.

Joy lo assecondò prima di chiedergli: “Davvero spaccheresti la faccia ad Alex?”

“Se ti avesse toccata in un modo diverso da come ci si dovrebbe comportare con una cugina? Ovvio che sì” annuì senza alcun problema Morgan.

Joy si sentì stupida a sorridere tronfia come sapeva di stare facendo, ma non poté far nulla per fermare la soddisfazione che le salì al volto e, tanto meno, quella che le riscaldò il cuore.

Non ci poteva fare niente. Con Morgan stava bene. Punto.

Un vero peccato che lei fosse la donna meno indicata al mondo, per il giovane pompiere.

“Sicuro che non ti scocci prendere l’aereo da solo, per tornare a L.C.?” gli chiese Joy, terminando il suo drink mentre veniva servita loro l’insalata mista e l’hamburger che avevano ordinato.

Morgan si limitò a fare spallucce, replicando: “Non piangerò, promesso.”

Detto ciò, si fece una croce sul cuore e la fissò con grandi occhi colmi di coraggio.

Joy ridacchiò, dandogli una pacca leggera su una mano prima di rubargli una patatina fritta dal piatto e dire: “Quello ti aumenterà il colesterolo in maniera scandalosa.”

“Ne mangio uno all’anno, dai… non fare la pignola” brontolò lui, affondando i denti nel panino grondante ketchup e insalata.

Vagamente sorpresa, Joy ammise di non conoscere affatto quel lato di Morgan – le poche volte che avevano mangiato assieme, si erano limitati a dei sandwich.

Curiosa, infilò la sua forchetta nell’insalata mista, domandandogli: “Ebbene? Quale sarebbe il tuo stile di vita?”

Fissandola con una certa ironia, Morgan le disse vagamente derisorio: “Credimi se ti dico che, se mi ingozzassi di proteine, grassi e carboidrati in quantità industriale, con il lavoro che faccio, sarei già morto d’infarto. Ho studiato come un matto per entrare nel corpo dei vigili del fuoco, il tutto all’insaputa di mio padre. Mentre ero al college, il primo anno, davo più esami per i pompieri, che di economia.”

“Oh” sorrise divertita lei.

“Ci tengo a quello che faccio e, anche se non è un mestiere ‘da soldi’…” nel dirlo, mimò le virgolette. “…, a me piace così. E, di certo, non mi rovinerò il fegato perché gli hamburger sono buoni.”

“Ti è dispiaciuto abbandonare Economia?” gli chiese Joy, infilzando un pomodoro succoso assieme a una foglia d’insalata.

“Non faceva per me. Ci ho provato soprattutto per fare contenta mamma, ma la testa era da un’altra parte.”

Nel dirlo, sorrise.

“Da cosa ti è venuta l’idea di diventare un pompiere?” si informò Joy mentre, tutt’intorno a loro, il chiacchiericcio degli avventori del locale si confondeva con il ritmo placido della musica, che usciva dagli altoparlanti sparsi un po’ ogni dove.

Dopo aver masticato una patatina fritta, ne allungò una a Joy, che lei accettò con piacere.

“Ho pensato che fosse il metodo più pratico per aiutare le persone. Mi piace farlo, tutto qui.”

“E’ un bel pensiero” ci tenne a dire Joy, sorridendo maggiormente. “Non tutti pensano al bene del prossimo.”

“Tu lo fai” ammiccò Morgan. “Non so come puoi sopportare di vedere tutto quel dolore, tutti i santi giorni. Sei coraggiosa.”

“E’ reciproco” precisò lei, fissandolo con una certa intensità. “Molti avrebbero paura a gettarsi nel fuoco per salvare delle vite. E’ lodevole ciò che fai.”

“Il fuoco è come una creatura vivente. Va capito. Respira, si muove, ha degli scoppi di rabbia, si ammansisce… ci parla, a volte. Dovresti sentire che razza di ringhi emette, quando si incunea lungo una tromba delle scale.

Rise, nel dirlo, e mangiucchiò una patatina mentre un lampo di passione genuina passava attraverso i suoi occhi scuri.

“E’ pericoloso, certo, ma è controllabile, nei limiti del possibile. L’importante è temerlo nella giusta misura, non pensare mai di essergli superiore.”

Joy trovò ironico il fatto che fosse proprio un pompiere a mandarla in deliquio e, al tempo stesso, al manicomio.

Una persona che domava il fuoco.

Già, non poteva che esserci un che di perversamente ironico nel suo destino.

“Pensi di fare carriera nel Corpo?” gli chiese allora Joy.

“Beh, ora sono solo alle prime armi. Per avanzare di carriera, dovrò dare altri esami e fare un sacco di apprendistato ma sì, l’idea è quella. Per ora, mi piace fare da spalla a Capo Nat. La Rescue Co.1 è la mia compagnia ideale.”

“La più pericolosa, oserei dire” si informò Joy, incuriosita.

Con un risolino, Morgan annuì.

“Sì, siamo i primi a intervenire. Le Ladder Co.2 arrivano solo in seguito, quando noi già ci stiamo accingendo a entrare.”

“Stai sempre attento a ciò che fai?” sussurrò Joy, allungando una mano a sfiorare il suo braccio, poggiato sul tavolino.

Morgan fissò per un momento quella bianca mano, quelle dita sottili e curate, le sue unghie smaltate di rosa confetto e, sorridendo, tornò a guardarla in viso.

“Non ti libererai di me a questo modo, tranquilla.”

Joy ridacchiò, dandogli un pizzicotto prima di allontanare la mano e, tornando alla sua insalata, ripensò a come gli occhi di Morgan si fossero fatti fumosi, nell’osservarla.

Sì, non si sarebbe fatto ammazzare… perché c’era lei ad attenderlo.

L’avrebbe aspettata in eterno, ormai l’aveva capito e, pur sapendo quanto fosse ingiusto da parte sua pensarlo, ne fu lieta.

Avrebbe tanto voluto stringerselo al petto, ricoprirlo di baci e tenerlo avvinto a sé per l’eternità, ma tutto ciò non avrebbe potuto succedere.

Però, poteva dargli quanto più possibile di sé, nei dieci anni che ancora avrebbe passato a L.C. come Joy Patterson.

Era il minimo che potesse fare per lui, visto ciò che li legava.

Ti darò tutto ciò che posso, Morgan, pensò tra sé Joy, sorridendogli calorosamente mentre lui discorreva su un quadro di Holden che gli era particolarmente piaciuto.

Non si sarebbe risparmiata e, per quanto possibile, l’avrebbe reso felice. Non meritava niente di meno.
 
***

“Senti, Oliver, te l’ho già spiegato. Il laboratorio è oberato di lavoro come non mi capitava da anni. Ci vorrebbero mesi, per non dire anni, prima di riuscire a trovare un buco per infilare le tue analisi del DNA” borbottò il dottor Clark con tono tra il rassegnato e l’esasperato.

“Benjamin, non ti sto chiedendo di farmelo domani. Mi sta bene anche aspettare dei mesi, non mi interessa.”

Oliver passò una mano tra i folti capelli scuri, scompigliandone la rigorosa pettinatura.

Un attimo di silenzio e, infine, il dottore sospirò, esalando: “E va bene. Portami pure quel campione di capello. Ma a cosa ti serve, poi?”

“Sto conducendo una ricerca per la scuola sull’ereditarietà dei geni, e volevo mostrare ai ragazzi un esempio pratico di ciò che voglio spiegare. Per questo non ho fretta. E’ una cosa che è solo agli inizi e, prima di arrivare a parlare di alleli e di RNA messaggero, ce ne vorrà.”

Spiegare l’analisi di un capello avrebbe richiesto molte meno spiegazioni, rispetto a una penna remigante.

E di quella, si sarebbe occupato in modo ben diverso.

“D’accordo. Senti, durante le vacanze di Natale, qui facciamo una pausa. Portami il campione in quel periodo e, nel giro di sei mesi al massimo, dovrei avere il tuo DNA stampato su un bel tabulato, va bene?” gli propose Benjamin.

“Vedrò di sdebitarmi adeguatamente” gli promise Oliver, già sorridendo all’idea di avere tra le mani le prove inconfutabili della reale identità di Aileen Joy Patterson.

“Ti costerà una follia, lo sai questo, vero?” ci tenne a ricordargli l’amico.

“Ottomila dollari, lo so. Tranquillo, avrai quelli e un bonus per la pazienza” gli promise Oliver, ormai raggiante.

“Mi basta la parcella, Oliver. Curioso, però, che la scuola ti dia tutti questi soldi. Siete diventati ricchi, lì nell’Ovest?” ridacchiò Benjamin.

“Fanno parte di una donazione, tutto qui” disse sbrigativo Oliver.

Non voleva che Benjamin indagasse troppo sulla provenienza di quei soldi.

“Buon per voi, allora. Ti aspetto per Natale, allora” assentì il dottor Clark prima di salutare Oliver.

Non appena il professor Thomson chiuse la comunicazione, si lasciò andare contro lo schienale della poltrona di pelle del suo studio.

Osservando due bustine di plastica trasparente, dove erano contenute le prove regine del suo ventennale studio su Aileen Joy Patterson, sorrise.

Aver trovato i resti di un nido di quella che, secondo il mito, poteva essere Fenice, non bastava a provare nulla.

Pur se quegli elementi non avrebbero dovuto trovarsi in una foresta pluviale dell’Oregon, non sarebbe bastato a convincere gli scettici.

E forse, nemmeno lui stesso. Dopotutto, stava basando tutta la sua teoria su un mito ancenstrale.

Eppure, quella visione così chiara, quelle sensazioni divoranti!

No, non potevano essere state solo frutto della sua fervida immaginazione.

Gli serviva quel DNA, per smascherarla definitivamente e dire al mondo che le creature mitologiche esistevano davvero, e camminavano tra noi.

Non si sarebbe più soltanto occupato di una misera cattedra in una scuola media di provincia, ma avrebbe partecipato alle più grandi conferenze mondiali come era giusto che fosse.

La scoperta che aveva fatto in India avrebbe dovuto portarlo nell’Olimpo dei ricercatori, invece l’aveva fatto precipitare nell’oblio e nel ridicolo.

Ora, con quella nuova opportunità tra le mani, avrebbe avuto la sua rivalsa.

E il dottor Chandra avrebbe dovuto ricredersi, e rimangiarsi le male parole con cui l’aveva ingiuriato a Nuova Delhi.

Non gli rimaneva che decidere dove portare la penna remigante.

Aveva preferito non mettere tutto in mano a Benjamin perché, se avesse paragonato i due DNA, avrebbe notato delle cose di cui voleva essere il primo scopritore in assoluto.

No, meglio far eseguire due esami separati in due laboratori differenti.

Prendendo un gran respiro, Oliver chiuse un momento gli occhi prima di esalare: “Presto dirò al mondo chi sei.”

Certo, questo avrebbe voluto dire spezzare il cuore al figlio che, da quel poco che aveva capito, era sinceramente affezionato alla ragazza.

Ma lui non poteva tenere nascosta al mondo una notizia simile. Tutti dovevano sapere!

Una volta riferita la verità, avrebbe cercato in qualche modo di far capire a Morgan quanto fosse dispiaciuto per le menzogne che la ragazza gli aveva propinato fino a quel momento.

Si sarebbe riavvicinato a lui per aiutarlo a superare il dramma della scoperta e del tradimento e, finalmente, sarebbero tornati a essere una famiglia.

Ovviamente, da quel momento in poi, Aileen Patterson sarebbe stata braccata come un animale raro da esporre in uno zoo, ma quello non sarebbe più stato un suo problema.

L’ombra oscura che aveva visto dietro di lei, non poteva essere quella di una creatura dall’aura positiva.

Anche se le prove lo conducevano al mito di Fenice, perciò a un misticismo positivo, non poteva dare per scontato nulla.

Lui avrebbe ottenuto ciò che, anni prima, gli era stato tolto ingiustamente e Morgan avrebbe compreso quanto e come fosse stato raggirato.

Un quieto bussare alla porta dello studio lo portò a nascondere le buste nel cassetto della scrivania.

Mentre Consuelo entrava con un vassoio colmo di biscotti al cioccolato appena sfornati, lui le sorrise benevolo.

“Questo profumino sveglierebbe anche i morti.”

“Preferisco non avere zombie in casa… divorerebbero noi, invece dei biscotti” ridacchiò la moglie, allungandogliene uno mentre poggiava il vassoio sulla scrivania.

Presa una sedia per sé, Consuelo si accomodò accavallando le gambe e aggiunse: “Posso sperare in una tua riemersione, o pensi di cenare ancora in studio?”

Oliver ridacchiò, addentando un secondo biscotto e, emettendo un ‘mmh’ deliziato, annuì.

“Niente studio, per un po’. Sarò tutto tuo.”

Assottigliando le iridi scure, Consuelo lo fissò maliziosa, esalando: “La cosa mi intriga e, visto che Morgan non viene a cena, stasera…”

“Cos’hai in mente?” le chiese Oliver, abbandonando a metà il biscotto per afferrare le mani della moglie.

“Ho preso un completino di Victoria’s Secret che vorrei tu vedessi. Secondo me è stupendo, ma sai, l’opinione di un uomo è basilare” gli confidò con falsa noncuranza.

Oliver si levò in piedi trascinando con sé la moglie e, stampandole un bacio piuttosto appassionato sulle labbra, sussurrò roco: “Spero che la cena sia veloce, perché ho davvero voglia di vedere cos’hai comprato.”

“Bene.”

Non ci fu altro da dire.

 
***

Scrutando pensieroso l’elenco dei voli in partenza per Portland, Oregon, Morgan sorrise non appena intercettò il suo.

Volgendosi in direzione di Joy – che attendeva al suo fianco – le disse: “Parte tra tre ore. Giusto il tempo del check-in. Il tuo, quando parte?”

“Le cinque. Farò un giretto per i negozi mentre aspetto e, nel frattempo, farò un paio di telefonate a casa per avvisare i miei che tutto è andato bene” gli spiegò, tutta sorridente.

Con un risolino, Morgan celiò: “Pensavano che ti avrei rapita?”

“Qualcosa del genere, forse” sogghignò Joy. “E’ stata una bella giornata, per te, Morgan?”

“Perché me lo chiedi? Dubiti di essere una buona compagnia?” le ritorse contro, vagamente sorpreso.

“Quando si tratta di te, il mio cervello fa un po’ fatica a connettere, lo ammetto, e così preferisco chiedere” si limitò a dire Joy, scrollando le spalle.

Morgan rise in maniera decisamente mascolina, facendola vibrare dall’interno come una corda d’arpa pizzicata con sapiente maestria.

Roco, allora, le disse: “Adoro quando mi dici che fai fatica a connettere per colpa mia.”

“Sbruffone” mugugnò lei, pur sorridendo divertita.

“Colpevole” ammise il giovane. “Ma è gratificante, per un uomo, sentirselo dire.”

“Un po’ meno per me, che subisco gli effetti dei tuoi effluvi disturbanti” precisò lei.

Morgan ridacchiò nel sentirglielo dire e le carezzò una guancia, mormorando più seriamente: “Pensi che io sia immune a te? Beh, ti sbagli. E dovresti averlo capito da un pezzo, visto che sono alla tua completa mercé, e mi sta pure bene.”

Arrossendo suo malgrado, Joy reclinò il viso per non essere costretta a scorgere nei suoi occhi ciò che non voleva in alcun modo sentirgli dire.

Morgan, comprendendo al volo la sua ritrosia ad andare oltre, si limitò a darle un bacio sul capo, aggiungendo: “Sei una fifona di proporzioni bibliche, ma mi piaci anche per questo.”

“Scusa” sussurrò spiacente Joy.

Proprio non ce la faceva, in quel momento, ad affrontare i sentimenti di Morgan. E i propri.

“E di che? Voglio essere sicuro che la cosa sia reciproca e, per il momento, tu sei ancora troppo intimorita dal nostro rapporto per lasciarti andare, perciò non parlerò” replicò lui, scrollando le spalle. “Sai quando la Ruthi ti darà carta bianca?”

“Spero per Natale. Non ne posso più di stare sotto la sua egida” sospirò afflitta Joy, poggiando il capo contro il torace di Morgan.

Il battito rilassato del suo cuore la chetò immediatamente.

Curioso come riuscisse a renderla nervosa e, al tempo stesso, tranquillizzarla. Era davvero unico, in questo.

Carezzandole la cascata di capelli ramati con il tocco gentile di una mano, Morgan le disse: “Se non te la firma, torno qui e le spacco la testa con un’ascia.”

Joy scoppiò a ridere e, d’impulso, lo abbracciò. “Dio, come vorrei che lo facessi!”

Morgan restituì l’abbraccio e replicò con un sogghigno: “Non lo vorresti mai davvero, neppure per lei.”

“Lo so” sospirò alla fine la ragazza, scostandosi per guardarlo in viso. “Ma è bello sapere che lo faresti per me, e solo per rendermi felice.”

“So che è reciproco” si limitò a dire Morgan, sgomentandola per la sicurezza insita nella sua voce.

Era vero. Avrebbe ucciso per lui, se fosse stato estremamente necessario.

Dio, ma quanto potere aveva Morgan, su di lei?

 


 
***



 
Parlare con Alex, dopo aver visto partire Morgan sul Boeing 767 che lo avrebbe ricondotto a casa, mi servì a schiarirmi un poco le idee.

Affrontare il mare di emozioni che sapeva risvegliare in me Morgan era difficile ma, con Alex a farmi da ancora di salvataggio, era un tantino più semplice.

Ridacchiò nel sentirmi dire che la mostra gli era piaciuta un sacco, perché lui trovava che il mio regalo non fosse stato all’altezza di quello che Morgan provava per me.

E come dargli torto?

Però, a onor del vero, lui si era sentito veramente felice durante la visita al museo, e anche in seguito.

In questo, non potevo sbagliarmi, perché le sue emozioni erano scivolate fuori dal suo animo come un dolce profumo di spezie orientali.

Se c’era una cosa in cui ero brava, era cogliere i sentimenti delle persone.

Alex allora mi augurò un buon rientro all’inferno e mi consigliò di parlare anche con Rah che, di sicuro, mi conosceva ancora meglio di lui.

Parlare con Rah.

Sì, mi sarebbe piaciuto, ma il caos presente nell’aeroporto avrebbe reso complicato ascoltarlo mentalmente, perciò lasciai perdere per dedicarmi alla ricerca di qualcosa con cui tenermi occupata.

E fu così che l’occhio mi cadde su una libreria, che si trovava non molto lontana dal mio gate d’imbarco.

Curiosando tra i volumi in esposizione, lo sguardo mi cadde su un saggio che esponeva i concetti base della ricerca sul campo.

Quando lessi l’autore del libro, la mia irritazione salì a tal punto che rischiai di dare in escandescenze.

Oliver Thomson.

Oh, certo! Lui, nella ricerca, era più accanito di un cobra durante la caccia! Non c’erano dubbi!

Morgan mi aveva detto che non aveva affatto gettato la spugna, pur se erano passati anni da quando mi ero trasferita a Boston per studiare e lavorare.

Mi aveva assicurato di non avere alcuna idea su cosa stesse lavorando di preciso, e non mi era occorso molto per capire che non mentiva.

Mi angustiava l’idea che potesse avere qualcosa di così solido, o credibile, da spendere tanto tempo nel suo studio a indagare su di me.

Di cosa poteva trattarsi?

Il solo fatto di non saperlo, mi irritò ancora di più.

Un libro non molto distante, però, mi raggelò sul posto, spegnendo la mia rabbia per sostituirla con il terrore misto al dubbio.

Bharat Chandra.

Perché quel nome tornava a tormentarmi?

Presi subito in mano il libro – che trattava di cultura indiana e mitologia locale – e fissai astiosa la quarta di copertina.

Affondai negli occhi scuri dell’uomo ritratto in fotografia, riconoscendo in essi l’anima nascosta, il Naga che si trovava sopito dentro di lui.

Erano secoli che non ne incontravo più uno, ligia alla parola data a Siddharta di tenermi lontana da loro, come loro da me.

Ora, però, nel volgere di pochi anni, il nome di uno di essi tornava a tormentarmi come una zanzara fastidiosa ronza attorno all’orecchio, indecisa su dove pungerti.

Non volevo una guerra, non volevo neppure sentirne l’odore.

Eppure, per due volte nel giro di quindici anni, questo nome tornava ad assillarmi.

Perché?

 
 



_________________________
1 Rescue Co.: Sono le compagnie di intervento rapido, quelle che si presentano per prime e nei punti ‘caldi’ degli eventi catastrofici. (brutti incendi,  recuperi in luoghi pericolosi, ecc.)
2 Ladder Co.: Sono le compagnie con le autoscale, le autopompe, ecc.


 

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Capitolo 23
*** cap. 23 ***


 
23.
 
 
 
Natale era giunto e, con esso, il mio regalo.

La lettera di referenze della dottoressa Rutherford riposava al sicuro nella mia valigia, assieme a quella del primario del reparto di traumatologia.

Il direttore dell’ospedale, inoltre, mi aveva chiamata in separata sede, e all’oscuro della collega, per darmi la sua personale lettera di referenze.

Non avevo voluto indagare sui perché di quel comportamento poiché, alla fin fine, avevo ottenuto ciò di cui avevo bisogno per rientrare a L.C.

Abbracciai con calore Alex e Susan, quando scesi con l’aereo a Portland.

Saremmo scesi assieme a L.C. per le festività natalizie.

Dalle loro bocche, seppi della loro decisione di andare a vivere insieme, nell’appartamento che la donna aveva a Salem.

Quello di Alex era effettivamente troppo piccolo, per loro, e lui non era certo il tipo da sentirsi in imbarazzo nell’accettare un simile compromesso.

Inoltre, Susan aveva chiarito fin dall’inizio che l’appartamento non apparteneva ai suoi genitori, né era stato pagato con i loro soldi.

Da quel poco che avevo saputo della famiglia di Susan, i suoi genitori l’avevano praticamente lasciata libera di decidere su quasi tutta la sua vita, fino a quel momento.

L’idea che Susan avrebbe preferito avere il loro parete, o il loro appoggio, non li aveva minimamente sfiorati.

Solo grazie al suo carattere serioso e moderato, Susan non si era cacciata in qualche guaio colossale.

La mancanza dei genitori, comunque, le pesava, soprattutto in periodi come quello.

Avrebbe tanto voluto riunirsi attorno a un tavolo assieme a loro per presentargli Alex, invece di ricevere le loro e-mail da Saint Moritz, o da Chamonix.

Certo, i genitori erano a conoscenza di Alex e del fatto che, entro breve, avrebbero convissuto.

Questo, però, non li aveva convinti a presentarsi alla sua porta per conoscere il ragazzo della figlia, e questo le procurava più fastidi di quanti non volesse ammettere.

Alex le aveva fatto capire di non sentirsi offeso dal loro apparente disinteresse, ma sapeva benissimo che a Susan la cosa pesava, e anche molto.

Avrei tanto voluto poter fare qualcosa per lei, ma una Fenice non può condizionare i pensieri e gli animi delle persone, neppure in un caso come questo.

In quegli ultimi anni e, soprattutto, in questa mia nuova vita, quel genere di conflitto si era riproposto infinite volte.

Anche in quest’occasione, mi ero ritrovata a chiedermi perché, pur con così infiniti poteri, non potevo rendere felici le persone che amavo.

Ovviamente ne conoscevo i motivi – soddisfacendo una sola persona, diventavo parziale, e perciò non più interessata al bene comune – ma, contrariamente al solito, la cosa mi aveva dato un fastidio quasi palpabile.

Per la prima volta in tutte le mie vite, era cresciuto in me con forza l’impulso di rompere qualcosa.

Qualcosa di grosso.

Peccato che, se mi fossi lasciata andare a qualche gesto inconsulto, avrei anche potuto far esplodere la faglia di Sant’Andrea.

Decisamente, avrei dovuto trattenere i miei impulsi.

 
 
 
***


 
“Haniya, ti giuro, se avessi saputo che tu e Chad avreste combinato un tale casino, beh… sarei rimasta lì per godermi lo spettacolo!” rise Joy, sdraiata sul letto della sua cameretta e intenta a chiacchierare al telefono con l’amica.

“Prendi, prendi in giro, cara…” ritorse allegra Haniya, seduta scompostamente su uno dei divanetti della sala relax dell’ospedale, dove lavorava come praticante in medicina d’urgenza. “… ma ti capisco. Avrei detto la stessa cosa, se tu e Morgan aveste fatto una scena simile nel bel mezzo della corsia di un ospedale.”

Joy rise ancora, alla sola idea di vedere la compassata, seriosa Haniya alle prese con un cesto di rose rosse alto non meno di due metri e portato a braccio da un sorridente Chad Fletcher.

Quest’ultimo, neo laureato alla Harvard Law School, si era insinuato nelle loro vite in quel lontano giorno d’inverno, quando le aveva invitate al loro comitato.

Da quel giorno, lui e Haniya non avevamo mai smesso di frequentarsi e, a quanto pareva, le cose erano progredite fino al grande passo.

Quando l’amica l’aveva chiamata per raccontarle della proposta di matrimonio che Chad le aveva fatto, Joy era rimasta letteralmente senza parole.

Certo, sapeva che si vedevano da tempo e che stavano bene insieme, ma niente l’aveva preparata a un simile evento.

Inoltre, aveva idea che il desiderio di Haniya di voler tornare in Marocco, per aiutare la sua gente direttamente in loco, cozzasse un po’ con le idee di Chad.

O almeno, questo era quello che aveva pensato Joy.

La ragazza ci mise poco, a smentirla.

“La parte più interessante viene ora. Chad sa benissimo che io desidero rientrare in Marocco, non appena avrò finito il mio praticantato qui a Boston e…” cominciò a dire Haniya, lasciando però in sospeso la frase.

“Vuoi vedermi morta? E…” esalò Joy, aggrappandosi al cuscino per stringerselo al petto, ansiosa.

“Lui vuole venire con me!” esclamò a sorpresa Haniya, facendo strillare di gioia Joy.

Mel, di passaggio lungo il corridoio, la fissò vagamente sorpresa e la ragazza, ridacchiando imbarazzata, esalò: “Scusa. Bella notizia.”

“Me lo racconterai dopo” chiosò allora la madre, proseguendo con la sua cesta di panni sporchi stretta tra le mani.

Con un cenno d’assenso, Joy tornò alla telefonata, esclamando: “Dio, ma… è sicuro? E’ un passo enorme! E i tuoi genitori che dicono? In fondo, lui è cattolico e…”

Ridacchiando con tono vagamente isterico, Haniya replicò subito: “Oh, non è un problema. I miei hanno conosciuto Chad l’inverno scorso, quando sono venuti a trovarmi. Lui ha detto subito che, se ci fossero stati problemi, si sarebbe convertito, ma i miei gli hanno detto che lo farà solo nel caso in cui lo sentirà nel cuore, e non solo per fare un favore a me, o a loro. Il fatto che creda in un dio che non sia il nostro non è un problema, per loro.”

“E’ una cosa positiva, ma non sarà comunque facile per lui. Ha coraggio” ammise Joy, sospirando languida.

“Oh, lo sa… o, per lo meno, sembra convinto di saperlo. In ogni caso, lo aiuterò. Lo aiuteremo. Tengo troppo a lui per rinunciare e, se proprio dovesse essere impossibile vivere in Marocco, vedremo di trovare una soluzione diversa.”

Nel dirlo, Haniya dimostrò una concretezza che poche ragazze di ventiquattro anni avevano, e Joy ne fu fiera.

“Sai che, per qualsiasi cosa, io ci sarò vero?” le ricordò Joy.

“Le immani distanze non mi preoccupano, finché esisteranno i telefoni e internet” rise Haniya prima di aggiungere più seriamente: “Lo so, cara, e ancora ti ringrazio. Stiamo organizzando tutto per l’anno prossimo, attorno a settembre. Pensi di poterti liberare?”

“Uhm, vediamo… siamo al ventinove dicembre e tu mi parli di settembre. Direi di sì, a costo di saltare a forza un giorno di lavoro” le promise Joy, con una promessa solenne nella voce.

Shukran” sussurrò Haniya, con voce rotta dall’emozione.

“Di nulla, amica mia.”

Nel sorridere, Joy si ripromise che, ghiaccio, neve o tempesta tropicale, lei sarebbe andata a quel matrimonio.

Haniya lo meritava e lei avrebbe fatto il tutto e per tutto, per esserci, a costo di volare  come Fenice fino a Baltimora – dove viveva Chad, e dove si sarebbero sposati.

Nel sentire il campanello suonare, Joy mormorò: “Mmhh, mi sa che il comitato di benvenuto è arrivato.”

“Le tue amiche?” asserì Haniya, prima di esalare: “Ops. Devo andare anch’io. Sta arrivando una comitiva di sportivi finita contro uno spartineve con il pullmann. Prevedo disastri su larga scala.”

“In bocca al lupo!” esclamò Joy, sentendo una gran frenesia in sottofondo.

“Crepi lui e non i ragazzi! Ciao!” urlò Haniya per sovrastare il caos del reparto.

Con un balzo, Joy si levò da letto non appena chiuse la comunicazione.

Già sulla porta della sua stanza, strillò eccitata non appena vide giungere  -praticamente di corsa - le sue vecchie amiche d’infanzia.

O, per meglio dire, Kelly e Margot giunsero correndo, mentre Aileen arrivò zoppicando con la sua stampella.

Appariva allegra e pimpante, nonostante il tutore al ginocchio, retaggio di un salto con il parapendio sulle Ande.

Quando lo aveva saputo, Joy ne era rimasta stupefatta, soprattutto quando aveva conosciuto i reali motivi per cui si era lanciata da quella vetta andina.

Per una scommessa.

Il risultato era stato un ginocchio lussato e venti giorni di tutore.

Almeno da quello che aveva avuto modo di scoprire, comunque, Aileen aveva vinto la scommessa con le sue compagne di corso dell’università.

Dopo essersi strette nel loro consueto abbraccio di gruppo, Joy le invitò a sedersi in salotto e, servito a tutte tè corredato di pasticcini, fissò inquisitoria Aileen.

“Spiegami la gamba, una volta per tutte. Che ti è saltato in mente?”

Scrollando le esili spalle, su cui galleggiavano riccioli neri a profusione, lei rise e ammise: “Credevano che non avrei mai accettato di sperimentare il mio nuovo modello di tuta alare su una cima così alta, così le ho volute smentire.”

Facendo tanto d’occhi, al pari delle amiche, Joy esclamò scioccata: “No, aspetta! Io avevo capito che era un parapendio!”

Arrossendo leggermente e tingendo le gote color caramello, Aileen mormorò spiacente: “Bugia mia. Non volevo vi innervosiste troppo, almeno finché non mi aveste rivista in piedi.”

Vagamente accigliata, Joy strinse le braccia al petto in una posa identica a quelle di Kelly e Margot e, all’unisono, ringhiarono: “Raccontaci ogni cosa.”

Nel vedere Richard passare per il corridoio con una cassetta di birre tra le mani, Aileen esalò: “Non è che mi presterebbe una di quelle, vero?”

Fermandosi a metà di un passo, Richard fissò le tre ragazze accigliate e Aileen, prima di chiedere con un risolino: “Che hai combinato per farle irritare tanto?”

“Ho raccontato una bugia, così ora mi servirebbe un po’ di coraggio in lattina.”

Nell’ammetterlo, sorrise speranzosa.

Richard rise divertito ed entrò in salotto per lasciarle una lattina di birra light, strizzandole un occhio prima di ricordarle: “E’ analcolica, perciò nessun danno.”

“Grazie” esalò Aileen, scolandosene subito una buona dose prima di dire in un soffio: “Ho provato la tuta alare, ma non è stata colpa sua, se mi sono fatta male. Sono atterrata su una pietra instabile, e il ginocchio ha ceduto. Colpa mia, solo mia. Ma la tuta ha funzionato che era uno sballo.”

Anche Richard la fissò stralunato, esalando un sospiro sconcertato e Aileen, fissandolo sconvolta, esclamò: “Non anche tu, Cop Richard!”

Nel sentirsi chiamare a quel modo – le ragazze l’avevano chiamato così fin dai tempi delle elementari – Richard esplose in una risata.

Lasciandole una seconda lattina, si diresse verso la cucina e celiò: “Mi sa che, per un po’, dubiteranno della tua salute mentale, Lynny.”

“Già” mugugnò la ragazza reclinando le spalle e fissando spiacente le sue amiche.

Nello scuotere il capo con espressione esasperata, Joy brontolò: “Quale altra bizzarria ti verrà in mente, la prossima volta? D’accordo che stai studiando ingegneria aerospaziale, Lynny ma, per l’amor di Dio, non ti sembra che sia meglio testarle in laboratorio, prima, certe trovate?”

“Vero” asserì colpevole Aileen, prima di mordersi un labbro, sorridere esitante e chiedere: “Mi perdonate?”

“Ovvio che sì, sciocchina!” esclamò Margot, alzandosi dal divano per abbracciarla forte.

Subito, Joy e Kelly la imitarono e Richard, di ritorno dalla cucina, sorrise lieto nel vederle teneramente abbracciate.

“Che ne dite di venire anche voi a vedere il nuovo appartamento di Joy?” esclamò a quel punto l’uomo, attirando così l’attenzione generale.

Le quattro ragazze si sciolsero dall’abbraccio mentre Joy, basita, esalava: “Appartamento? Di che appartamento parli?”

Strizzandole l’occhio, Richard si limitò a dire: “Andate in macchina. Vi ci porto subito.”
 
***

Seduta al posto di guida della sua Camaro mentre, assieme alla famiglia e le amiche, si dirigeva verso nord sulla Oregon Coast Highway, Joy aveva ancora la testa percorsa da mille e più domande.

Né Mel ne Richard le avevano parlato di quella novità e, quando suo padre se ne era uscito a sorpresa con quella frase, era letteralmente caduta dalle nuvole.

Senza neppure accorgersene, oltrepassarono la caserma dei pompieri dove lavorava Morgan, fermandosi nel parcheggio di un nuovo complesso residenziale.

Le allegre pareti giallo paglierino si sposavano alla perfezione con gli infissi di un bianco abbagliante, dando alla struttura un aspetto fresco e gaio.

L’entrata, delimitata da una bassa siepe di ligustro, aveva una porta blindata a vetri fumé e grandi vasi di fiori ai lati.

In quel momento, erano colmi di agrifogli.

Quando Richard e Mel scesero dall’auto assieme a Kelly e Margot, Joy spense la Camaro e chiese ad Aileen: “Tu che dici? Sono impazziti?”

“Ti amano. E’ un’altra cosa” rise l’amica, scendendo un po’ a fatica dall’auto sportiva, subito seguita a ruota da Joy.

Ancora vagamente stordita, fissò il padre con un enorme punto di domanda ben stampigliato in viso e lui, tutto sorridente e orgoglioso, estrasse dalla tasca una lunga chiave a T.

“La chiave della porta d’ingresso” dichiarò poi il padre.

“Ne avevo avuto una vaga idea” annuì Joy, continuando a fissarlo senza capire.

Presa la figlia sottobraccio, Mel afferrò la chiave al posto suo e la accompagnò all’interno, percorrendo con lei i gradini di granito satinato.

Con un sorriso, le spiegò l’arcano.

“Abbiamo pensato che volessi un po’ di indipendenza, visto che ormai sei adulta e hai un lavoro tutto tuo. Così, quando abbiamo saputo di questi nuovi appartamenti, abbiamo firmato subito un contratto a tuo nome.”

“Ma… deve essere costato…” tentennò Joy, mordendosi un labbro senza sapere bene cosa dire.

Fermatosi a metà di un gradino, Richard le chiuse la bocca con un dito, scuotendo il capo e replicando: “Abbiamo acceso un mutuo piccolo piccolo, tranquilla. In realtà, non è costato tanto perché conoscevo il costruttore.”

Sempre più confusa, Joy terminò di salire le scale fino al primo piano e lì, aperta una porta dal battente bianco latte, Richard mormorò: “Benvenuta nella tua nuova casa, Joy.”

Percorrendo il disimpegno d’entrata color canarino, la ragazza si ritrovò a fissare un piccolo salottino, già arredato con un divanetto e due poltrone dai cuscini color carminio.

Una piantana in ferro battuto si ripiegava sinuosa su una delle poltrone, lanciando una luce calda in tutta la stanza.

Nel mezzo del piccolo salotto, su un tavolino in legno chiaro, si trovava un cesto di frutta con gli auguri di benvenuto da parte della ditta costruttrice.

Guardandosi intorno con aria sbalordita, Joy esclamò: “Ma… e i mobili?”

“Abbiamo messo qualcosa, giusto per non fartelo vedere completamente vuoto ma, per la maggior parte, dovrai pensarci tu” le spiegò Mel, dandole un bacio sulla guancia.

“Continuo a non capire” esalò Joy, con le lacrime agli occhi.

Sapevano che, tra qualche anno, avrebbe dovuto abbandonarli, eppure…

Fissandola con estremo orgoglio e una punta di rimpianto, Richard le consegnò le chiavi di casa, asserendo: “Hai diritto ad avere una casa tutta tua. Non è grandissima ma, per iniziare…”

“Oh, papà!” mormorò Joy, gettandosi tra le sue braccia prima di scoppiare in un pianto silenzioso e liberatorio.

Kelly e Margot singhiozzarono emozionate mentre Aileen, stringendo con il braccio libero le spalle tremanti di Melinda, sentenziò: “Direi che le piace.”

“Credo di sì” annuì Mel, guardando con amore marito e figlia ancora stretti tra loro.

Occorse qualche minuto, prima che Joy riuscisse a scostarsi dal padre senza scoppiare in un altro pianto dirotto.

Senza riuscire a dire nulla, aprì la prima porta che trovò per iniziare la perlustrazione del suo nuovo appartamento.

Con un gridolino di sorpresa, fissò senza parole le pareti dipinte in stucco veneziano.

I colori variavano dal verde smeraldo al verde acqua, digradando dall’uno all’altro con mille sfumature diverse.

Notare gli attacchi del gas, esalò: “Oddio, questa sarà la cucina?”

“Esatto. Ti piace il colore?” le chiese Richard, sorridendo soddisfatto.

“Oh, cielo, sì. Lo adoro!” riuscì a dire Joy, continuando a scrutare con ammirazione le pareti stuccate con abile maestria. “Ma scusa… devi esserti costato un patrimonio!”

Richard si limitò a ridacchiare senza però dire nulla e Joy, accigliandosi leggermente, uscì dalla cucina vuota per fiondarsi verso un’altra porta.

Apertala di getto, si fermò di botto nel ritrovarsi immersa in un oceano blu e azzurro.

Sulle pareti del bagno – dove erano stati montati i sanitari e il box doccia – era stato dipinto uno spaccato di fondale marino, con tanto di pesciolini e alghe fluttuanti.

Sconcertata, e sempre più sospettosa, Joy uscì senza dire una parola, dirigendosi a grandi passi in fondo al corto corridoio.

Preso un gran respiro, aprì l’ultima porta prima di emettere un sospiro sconcertato e sussurrare: “Oh, sant’Iddio!”

Se tre delle quattro pareti erano color sabbia, la quarta, interamente in trompe l’oeil, raffigurava la veduta della spianata di Giza, vista dall’alto di un minareto.

Solo una persona avrebbe potuto creare un simile capolavoro e Joy, voltandosi di colpo per guardare suo padre – tutto sorridente – esclamò: “E’ stato Morgan! Morgan ha dipinto tutto l’appartamento!”

Richard si limitò a sorridere sornione e la ragazza, esplodendo in una calda risata di gola, sentenziò: “Non sarò mai al suo pari. Sarò per sempre in debito con lui.”

“Per la verità, lui ha detto l’esatto contrario” precisò Mel, sorridendo a sua volta alla figlia.

Ridendo e cercando di trattenersi dal piangere, Joy tornò ad osservare lo splendido capolavoro che Morgan aveva creato nella sua stanza.

L’attimo dopo, si scusò con tutti loro per correre fuori dall’appartamento e buttarsi a capofitto verso la Camaro, ben decisa ad andare da lui per ringraziarlo di persona.

Fu solo a quel punto che si rese conto di dove si trovasse la caserma.

Con un risolino sciocco, lasciò perdere l’auto e iniziò a correre sul marciapiede in direzione del caseggiato a pian terreno dove sapeva trovarsi Morgan.

Il suo profumo la guidò come un faro nella notte, dicendole che il giovane si trovava al suo interno.

Quando suonò alla porta d’entrata, la frenesia quasi le fece spalancare il battente, senza aspettare che qualcuno venisse ad aprirle.

All’ingresso si presentò infine un uomo di mezza età, vagamente sovrappeso e con l’aria gentile e disponibile.

Cercando di trattenere l’ansia, Joy disse con quanta più calma possibile: “Morgan Thomson è qui?”

“Per una così bella signorina, sono sicuro di sì” annuì gioviale l’uomo, facendola entrare con un gesto della mano, prima di lanciare un grido possente.

“Ehi, ragazzo! C’è una visita per te!”

Un coro di risate seguì quell’urlo imperioso mentre la voce di Morgan, vagamente scocciata, richiamava tutti all’ordine, intimando ai presenti di farsi gli affari loro.

La minaccia che seguì le sue parole fece aumentare, e di molto, le risate.

Sorridendo di quella scherzosa gag, Joy divenne pura luce quando vide comparire Morgan dall’anticamera che conduceva ai garage.

Senza lasciare al giovane il tempo di dire alcunché, si gettò tra le sue braccia con una foga inaspettata e, sulle sue labbra, sussurrò: “Ti adoro come Kerry Collins!”

Detto ciò, stampò sulla sua bocca un bacio così feroce che Morgan, per poco, non perse la presa dal morbido corpo della ragazza premuto contro il suo.

Incespicando su un piede, troppo sconvolto da quel dolce assalto, Morgan andò a sbattere contro lo stipite della porta da cui era uscito mentre Scott, scoppiando a ridere di gusto, esclamava: “Questo sì che è un bacio!”

Quando Morgan riuscì a riprendere un minimo di controllo sui propri sensi, si scostò dalla bocca di Joy giusto il tempo di riprendere fiato.

Senza parole, fissò gli occhi della ragazza prima di ritrovarsi incatenato a due magnetici smeraldi dalla profondità quasi infinita.

Era la prima volta in assoluto che scorgeva un simile splendore e, di sicuro, la prima volta che Joy agiva spontaneamente e con un tale impeto.

Sbattendo le palpebre come per liberarsi di un incantesimo, Morgan si aprì in un lento, orgoglioso sorriso e mormorò roco: “Kerry Collins?”

Joy scoppiò a ridere, rossa in viso per l’eccitazione e l’imbarazzo.

Tornando a poggiare i piedi a terra – si era quasi arrampicata su Morgan, per baciarlo a quel modo – si limitò a dire: “L’hai detto tu.”

“Giusto. Ma valeva per me” ci tenne a dire Morgan, prima di fissare malamente Scott, che ancora li stava scrutando malizioso. “Si può avere un minimo di privacy?”

“No” scrollò le spalle Scott, urlando subito dopo: “Nat, c’è da spegnere un incendio, qui all’entrata! Il tuo cocco sta prendendo fuoco!”

Qualche attimo dopo, la maglia sporca di grasso per motori e il viso non molto dissimile, un uomo dal fisico imponente e dai capelli brizzolati, giunse a quel richiamo.

Nel fissare Morgan e Joy ancora avvinghiati, sorrise sornione e commentò: “Beh, ne capisco anche i motivi, Scott.”

Lasciando andare a malincuore Joy, Morgan si limitò a tenerla per mano e sorrise al suo capo.

“Nathan, lascia che ti presenti la dottoressa Joy Patterson.”

Estratto uno straccio dalla tasca posteriore dei pantaloni da lavoro, l’uomo si ripulì alla bell’e meglio le mani, prima di allungare la destra e domandare: “Dottoressa, eh? Posso chiedere in che specializzazione?”

Sorridendo nello stringere quella mano forte e gentile al tempo stesso, Joy mormorò: “Medicina Riabilitativa. Lavorerò al Samaritan Hospital a partire da gennaio. Farò lì il mio praticantato.”

“Sarà un piacere farsi male, d’ora in poi” ammiccò l’uomo. “Capitano Nathan Graff, signorina. Al suo servizio. Il ragazzo la importunava?”

“Casomai, il contrario” ci tenne a dire Morgan, ridacchiando.

Nathan lo fulminò bonariamente con lo sguardo, prima di dirgli: “Cortesia in primis, ragazzo. Le signorine hanno sempre ragione.”

Trovandolo immediatamente simpatico, Joy sorrise e dichiarò: “Mi deve scusare, capitano, se sono piombata qui a questo modo ma…”

Strizzando l’occhio a Morgan, Nathan ordinò secco: “Hai cinque minuti, ragazzo. Falli valere.”

“Signorsì” esclamò Morgan, mettendosi sull’attenti, prima di sorridere complice a Nat, che se ne tornò in garage tirandosi dietro Scott.

Rimasti soli, Morgan si volse a fissare vagamente sorpreso Joy.

“Non che non abbia apprezzato il bacio soffocante e l’agguato, ma… perché?”

Arrossendo copiosamente, il coraggio ora del tutto scemato per lasciare spazio a un profondo disagio, Joy mormorò imbarazzata: “Ho visto quello che hai fatto nell’appartamento e…”

“Oh” annuì lui, sorridendole dolcemente. “Speravo ti sarebbe piaciuto.”

“Piaciuto? E’… semplicemente perfetto!” esalò la ragazza, sgranando gli occhi di fronte al suo sminuire la propria opera. “Morgan, è davvero troppo!”

“Nulla lo è, quando ci sei di mezzo tu” replicò il giovane, facendo spallucce.

“Perché ho la netta impressione che tu c’entri anche con l’acquisto dell’appartamento? Papà non è mai bravo nel raccontare bugie” gli fece notare Joy, accigliandosi leggermente.

“Per la verità, c’entra davvero. Io e tuo padre ci siamo trovati ad affrontare assieme un intervento piuttosto importante, presso l’abitazione del proprietario dello stabile. Per ringraziarci di aver salvato la sua famiglia, ci ha proposto l’acquisto di un piccolo appartamento a prezzo di mercato. Insomma, un affare che non potevamo lasciarci sfuggire, ti pare?” le spiegò sinceramente Morgan.

“Dimmi che non hai pagato tu, ti prego, o mi sotterrerò seduta stante” sussurrò sgomenta Joy, spalancando gli occhi.

“No, tranquilla. Sapevo che l’idea ti avrebbe sconvolto a morte, così mi sono limitato a fare da manovale” le spiegò divertito, invitandola a sedersi su una delle poltroncine che si trovavano nella saletta d’ingresso della caserma.

Emettendo un sospiro di sollievo, Joy mormorò: “Già così sarò in debito con te per il resto dei miei giorni, figurarsi se poi me l’avessi anche pagato.”

“Non c’è nessun debito, Joy, vuoi ficcartelo in testa? Non faccio mai niente, se non lo voglio” ridacchiò lui, dandole un bacio gentile sui capelli. “Andava bene il trompe l’oeil?”

“Farò sogni stupendi, in quella stanza” sussurrò Joy, chiudendo gli occhi e poggiando il capo contro la sua spalla. “Non ti merito davvero.”

“Dillo un’altra volta, e ti strangolo con una manichetta” la minacciò bonariamente Morgan, dandole un colpetto in testa con un pugno.

Joy ridacchiò prima di afferrare la sua mano e baciarne con forza le nocche.

Un attimo dopo, mormorò con enfasi: “Non ti succederà mai nulla, te lo prometto.”

“Sono io il pompiere, piccola” replicò lui, pur apprezzando le sue parole.

Joy si limitò a sorridergli, non potendo certo dirgli quanto potere contenessero le parole che lei aveva appena detto.

Godette semplicemente dello sguardo tenero che lesse nei suoi occhi d’onice, prima di chiedergli: “Sarai libero, per Capodanno?”

“No, mi spiace. Troppi pericoli, per via dei fuochi d’artificio. Sarò impegnato tutta notte” scosse il capo spiacente, sfiorandole il naso con la punta dell’indice.

Dopo averlo percorso in tutta la sua lunghezza, si spinse più giù, sulle labbra morbide e seducenti, percorrendole lentamente prima di portarsi il dito alla bocca e sussurrare: “Sai di fragola, come ogni volta.”

“Posso stare con te?”

Sobbalzando leggermente a quelle parole, Morgan la fissò basito per alcuni attimi prima di arrossire – con grande sorpresa di Joy – ed esalare: “Che… che intendi dire?”

“La notte di Capodanno, posso venire qui alla caserma con te?” precisò lei, vedendolo sospirare di sollievo.

Vagamente confusa, aggiunse: “Perché l’alternativa ti terrorizzava?”

“Perché mi avrebbe fatto dubitare della tua sanità mentale” ammise Morgan, sorridendole. “La mia Joy non mi avrebbe chiesto di andare a letto con lei così, su due piedi.”

“Oh” esalò lei. “E’ un bene o un male?”

“Un bene. Ti…” si interruppe, rise tra sé, sciogliendosi in un altro accesso di rossore prima di schiarirsi la voce e continuare dicendo: “… ti preferisco così.”

“Allora?” insistette la ragazza, cercando di non pensare a cosa non fosse riuscito a dire un attimo prima.

“Chiederò a Nat. Ma sei sicura di non volerlo passare con le tue amiche?” volle sapere Morgan, scrutando nei suoi occhi alla ricerca di una risposta sincera.

Apparentemente trovando ciò che cercava, Morgan abbozzò un sorriso, le stampò un bacetto sul naso e si dileguò per alcuni minuti prima di tornare assieme a Nat.

Vagamente sorpreso, il pompiere si piantò a gambe larghe e mani poggiate sui fianchi di fronte a una serafica Joy, domandandole a bruciapelo: “E’ uscita di testa, dottoressa?”

“Affatto, capitano. E’ possibile?”

Nathan scoppiò in una risata di gola potente e sincera, prima di dare una pacca sulla spalla a Morgan e dire: “Falla pure venire ma, se usciremo, lei resterà qui.”

“D’accordo, capo. E grazie” sussurrò Morgan, grato.

Nat tornò sui suoi passi dopo aver fatto un saluto militare a Joy che, rialzatasi, strinse le mani a Morgan ed esclamò: “E’ fatta!”

Mettendosi a ridere, Morgan annuì e sentenziò: “Nat ha ragione. Sei uscita di testa.”

“Forse” si limitò a dire lei.

“O sei semplicemente…”

Interrompendo sul nascere le parole di Rah, Joy ingiunse inviperita: “Non osare andare avanti! Che ci fai nella mia testa proprio ora?!”

“Volevo capire perché l’aria sprigionava scintille.”

“Spiritoso” brontolò Joy, sorridendo a Morgan per non fargli capire quanto, invece, fosse irritata.

“Perché te la prendi tanto? Sarebbe così tragico ammettere che…”

Ancora una volta, Joy lo interruppe sibilando: “Ho detto basta, Rah. Non posso, punto. Ma lo renderò il più felice possibile.”

“Per lui, per te, o per entrambi?”

“Vai al diavolo, Rah!” ringhiò nella sua testa Joy, interrompendo il collegamento con il dio.

Non voleva sentir parlare di certe cose, soprattutto non da lui.

Aveva le sue regole da rispettare, regole che non comprendevano affatto un compagno per la vita, un amante mortale o l’amore esclusivo per una persona sola.

Ma poteva rendere felice la persona che, in quel momento, la stava guardando con scintillanti occhi color ossidiana.

Quello era nelle sue corde, quello non avrebbe spezzato i delicati fili che reggevano l’equilibrio dell’universo.
 
***

Armata di due torte ai mirtilli e una scorta di bottiglie di Coca-Cola, Joy si presentò alle nove di sera in caserma.

Dopo aver salutato Scott, le vennero presentati il Caporale Sean McNamara, dai cortissimi capelli rosso fuoco e Mario Morales, giovane recluta al pari di Morgan e dalla parlantina degna di un Dj.

Poggiate torte e bottiglie sul bancone d’ingresso, Joy salutò Nathan non appena entrò nell’atrio della caserma e, mostrando le sue opere, asserì: “Per festeggiare degnamente la serata.”

“Se sono buone come appaiono, verranno spazzolate ben prima di mezzanotte” ridacchiò Nathan, prendendone un pezzo per saggiarne il sapore. “Mmhh. Bontà divina!”

“Vanno bene” esclamò soddisfatta Joy, prima di veder giungere anche Morgan, abbigliato in tenuta da pompiere e già pronto a intervenire, qualora il telefono fosse suonato.

La maglia a maniche lunghe, così come i pantaloni scuri, gli aderivano al corpo tonico e slanciato.

Joy, per un momento, desiderò essere sola con lui per dirgli quanto quella vista le avesse mandato in subbuglio il cuore.

Morgan le sorrise sornione, dandole l’idea di aver capito tutto pur senza averle sentito dire nulla.

Facendogli la lingua con fare birichino, gli offrì un pezzo di torta, esordendo: “Dammi anche la tua opinione.”

Lui si limitò ad annuire, prima di chiudere gli occhi ed emettere un mugolio deliziato e sussurrare: “Mi trasferirò a casa tua già da domani.”

Joy scoppiò a ridere assieme agli altri uomini presenti mentre Morgan, non potendo fare altro, afferrò un altro pezzo di torta per poi infilarlo in bocca e gustarselo pienamente.

Aveva sempre adorato la torta di mirtilli, e quella era davvero speciale.

“Quando mi monteranno la cucina, vedrò di prepararvi torte tutti i giorni” promise loro Joy.

“Affare fatto” stabili Nathan, prima di sorridere e dichiarare: “Signori, nevica. Preparatevi a qualsiasi cosa.”

Bianche lacrime ghiacciate iniziarono a cadere dal cielo ombroso e Joy, accostandosi alle vetrate, scrutò in silenziosa ammirazione quel candido spettacolo.

Dalla radio, giungevano vecchie canzoni di Natale, che riscaldavano l’aria della caserma e i cuori degli uomini.

Le sue amiche si erano dichiarate d’accordo, con la sua decisione di passare il Capodanno assieme a Morgan.

In quel momento, si trovavano da Starbucks, in attesa che la mezzanotte giungesse e il vischio fosse preso d’assalto per i baci di rito.

Mentre i piccoli cristalli di neve si trasformavano in soffici batuffoli candidi, imbiancando strade e marciapiedi, Joy seppe di aver sfiorato per la prima volta la felicità vera.

Lì, tra persone che combattevano tutti i giorni per la salvezza delle genti, armati di coraggio infinito e dedizione totale, toccò per un momento la perfezione.

Fu un attimo, niente più di un battito di ciglia, eppure le parve di non poter desiderare nulla di più.

Quando poi Morgan le avvolse le spalle con un braccio e le sorrise, Joy non ebbe più dubbi. La felicità era lì con lei, per quella notte.



 
 
***
 



Non successe nulla di spiacevole, neppure un gattino abbarbicato su una pianta e bisognoso di un aiuto per scendere.

Allo scoccare della mezzanotte – con le torte già terminate da tempo – il nuovo anno infine bussò alla nostra porta, portandoci una nevicata di proporzioni storiche.

Senza neppure concederci il tempo di un brindisi con tutti i sacri crismi, Nathan ci spedì fuori – sì, anche la sottoscritta – a spalare la neve per tenere libere le uscite dei mezzi di soccorso.

Gli spartineve, coadiuvati dai mezzi spargi sale, entrarono in azione per ripulire le vie principali di L.C. da uno strato nevoso alto già quaranta centimetri.

Spalai fin quasi a scorticarmi le mani, affiancando Morgan per tutto il tempo e ridendo con lui per quello strano modo di festeggiare l’arrivo del nuovo anno.

Quando, all’alba, smise di nevicare concedendoci un attimo di tregua, potemmo ammirare il sorgere del sole oltre le colline boscose della città.

A occhi socchiusi e con un sorriso stanco dipinto sul volto, mi appoggiai al torace di Morgan mentre lui mi avvolgeva la vita con le braccia, sussurrandomi buon anno nuovo.

Al tempo stesso, nella mia mente, Rah mi disse: “Buon anno, mia buona amica.”

“Buon anno a te, caro amico mio.”

Non vi fu bisogno d’altro, né altro venne detto.

Mentre i raggi del sole incendiavano la coltre di neve, tingendola d’arancio e rosso, seppi che quello sarebbe stato un anno fantastico, da non dimenticare neppure nei secoli a venire.



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Capitolo 24
*** cap. 24 ***


 
24.
 
 
 
 
 
La borsa di studio con cui mi ero pagata Harvard mi aveva permesso di mettere via un po’ dei soldi – ben pochi, per la verità – che avevo guadagnato a Boston lavorando in ospedale.

Grazie anche all’aiuto di mamma e papà, avevo arredato il mio nuovo appartamento, con la promessa che avrei ripagato i miei genitori per quello che avevano anticipato per me.

Non avevo voluto sentire ragioni.


Si erano già disturbati troppo, per me, e non volevo che bruciassero i loro soldi in questo modo, per quanto la cosa potesse farmi piacere.

Sapevo che mi amavano, come io amavo loro, e ciò mi bastava. Non volevo in alcun modo dimostrazioni ‘materiali’ del loro amore.

Mi alternai per settimane tra la clinica riabilitativa del Samaritan e il mio appartamento, ben decisa a ultimarlo quanto prima per potervi finalmente entrare.

Le mie amiche, rientrate ai loro atenei, mi messaggiavano di continuo, per sapere a che punto fossero i lavori.

Morgan, non appena aveva mezz’ora di tempo, staccava dal lavoro per passare a darmi una mano e, il più delle volte, a caricarsi pesi immani al mio posto.

Sarebbe stato imbarazzante, e persino complicato, spiegargli quanto fossero inutili simili sforzi perciò, pur sentendomi un po’ in colpa, lasciai che le sue forti braccia si mettessero al mio servizio.

Ogni volta, lo ripagai con cene luculliane o torte di mirtilli, per cui lui andava pazzo.

Quando anche il letto fu montato, decisi di passare la prima notte all’interno del mio appartamento.

Con gli occhi fissi sul trompe l’oeil di Morgan, parlai per un’ora buona con il suo creatore, descrivendogli dettagliatamente le sensazioni provate nel trovarmi in quella stanza.

Ripensai alle venticinque candeline spente proprio in quella stanza, il giorno del compleanno di Morgan, e sorrisi nel tornare con la memoria al momento in cui gli avevo dato il mio regalo.

Avevo visto qualcosa di molto simile alla commozione, quando avevo poggiato tra le sue mani una confezione di colori a olio, abbinata a una gamma di pennelli tra i più ricercati che vi fossero sul mercato.

Li aveva sfiorati con reverenziale timore, saggiando sulle dita la morbidezza delle setole prima di abbracciarmi teneramente, tremando per l’emozione.

Mi aveva sussurrato tra i capelli un ‘grazie’ così sentito da farmi venire le lacrime agli occhi.

 
 
 
***



 
Cynthia Abrahams sedeva a gambe accavallate dietro la sua larga scrivania di mogano, su cui capeggiava un sottobraccio in pelle, steso sul ripiano lucido di legno.

Il portacarte in metallo, ricolmo di cartelle giallognole, brillava sotto la luce del sole che penetrava dalla larga finestra dell’ufficio, affacciata sul Devil’s Lake.

Solitaria, una penna stilografica Mont Blanc riposava inerte nel portapenne cromato, a forma di Bastone di Esculapio.

Joy la osservò per alcuni secondi, accomodata su una comoda poltroncina a braccioli posta proprio di fronte alla scrivania.

Rammentava ancora la prima volta in cui aveva visto una penna stilografica, e quanto tempo fosse passato da quel giorno.

Riscuotendosi da quel pensiero, allungò alla dottoressa una carpetta contenente l’anamnesi completa di uno dei pazienti che, in quel periodo, avevano in cura.

Con tono professionale, esordì dicendo: “Grant Philliss, ventisette anni, sergente dei marines degli Stati Uniti. E’ tornato dall’Iraq circa due mesi fa, dopo un’esplosione avvenuta nei pressi di Bàssora, dove ha riportato diverse ferite agli arti superiori e l’amputazione di un piede.”

Cynthia annuì pensierosa, e Joy proseguì nel suo monologo.

“Il moncherino è guarito perfettamente, ed è stato possibile salvare quasi tutto l’arto inferiore, amputato a circa cinque centimetri dai malleoli. E’ in cura presso il nostro centro riabilitativo da tre settimane. La dottoressa Donaldson, il mio supervisore, mi ha assegnato il caso, per questo sono qui. Pensavo che fosse il caso di abbinare le sedute riabilitative con l’arto artificiale, a sedute di psicoterapia. Il paziente lamenta forti dolori alla testa e frequenti incubi notturni, legati al giorno dell’incidente.”

Annuendo, e scorrendo con occhio veloce la scheda del soldato, Cynthia tornò a levare i penetranti occhi grigio ghiaccio per puntarli in quelli smeraldini di Joy.

“Avete controllato con una TAC la presenza di eventuali coaguli di sangue nel cervello?”

“Esito negativo. Non ha subito danni neurologici. Sembra proprio un problema psicosomatico.”

Nello scuotere il capo, sospirò prima di aggiungere: “L’associazione Helping a Hero1 si è messa in contatto con noi, qualche giorno fa, per sapere se fosse possibile parlare con lui, e conoscere la sua attuale situazione. Credo vogliano mettersi in campo, per raccogliere delle donazioni per il sergente e la sua famiglia.”

“Conosco alcuni membri di quell’associazione e, già in passato, abbiamo lavorato con loro” asserì Cynthia con un mezzo sorriso. “Chiamerò direttamente io la sede e mi metterò d’accordo per un incontro. Nel frattempo, vedrò di inserire il vostro sergente nel carnet dei miei ragazzi, perché gli venga data un’occhiata.”

“Grazie, dottoressa” annuì sollevata Joy, facendo l’atto di alzarsi in piedi per tornare al suo reparto.

Cynthia la bloccò con un cenno della mano e soggiunse: “Primo, chiamami Cynthia, secondo, dimmi un po’ come sono andati i primi due mesi qui da noi. Ti trovi bene, con la Donaldson?”

Abbozzando un sorrisino, Joy annuì e disse: “Direi che va tutto bene… Cynthia. Il metodo adottato in questo ospedale è davvero innovativo, e mi piace l’interconnessione che esiste tra tutti i reparti. Per quanto io possa stimare la bravura della dottoressa Rutherford, trovo che il suo sistema suddiviso in compartimenti stagni non sia proficuo. Si rischia che qualcosa venga tralasciato.”

Intrecciando le dita sottili e ricoperte di anelli d’oro, Cynthia sorrise compiaciuta, asserendo: “E’ il difetto del sistema. Niente sinergia, niente risultati ottimali. Almeno, secondo i nostri standard, s’intende.”

“Li preferisco” sorrise docilmente Joy.

“Lo immaginavo” ammiccò complice Cynthia, prima di fissarla con aria vagamente maliziosa e chiederle: “E con il nostro bel pompiere, come va?”

Arrossendo come un peperone maturo, Joy reclinò in fretta il capo per guardare fissamente le sue mani intrecciate in grembo.

Scoppiando in un’allegra risata, Cynthia si scusò, esalando: “Perdonami, cara, qui è la vecchia pettegola a parlare, non la collega.”

“Beh, ecco… non c’è molto da dire…” boccheggiò Joy, quasi in assenza d’aria.

Guardandola con fare molto materno, Cynthia mormorò: “Vedo un grande conflitto in te, mia cara, e passioni molto forti che collidono tra di loro continuamente.”

Joy si limitò ad annuire e Cynthia, continuando nella sua oratoria, aggiunse: “Mi chiedo solo se questa tua battaglia interiore abbia uno scopo. Mi sembra che il giovane Thomson sia un bravo ragazzo.”

“E lo è! Il problema sono io!” esclamò Joy, sentendosi in dovere di difendere Morgan e il suo buon nome.

Cynthia allora sorrise e, bonariamente, soggiunse: “Quale strenua difesa… sì, vedo bene che ritieni di essere indegna di lui, o qualcosa del genere, e me ne chiedo il motivo.”

“Sono molti, i motivi, più di quanti potrei ammettere” sospirò Joy, tornando a guardarsi le mani, ora strette a pugno.

“Non voglio psicanalizzarti, mia cara, ma ti offro un consiglio gratuito. Vivi la vita per quella che è, perché ne abbiamo una sola, e viverla nel rimpianto è una gran brutta cosa” sentenziò gentilmente Cynthia.

Joy annuì, levandosi in piedi e, con un saluto a fior di labbra, uscì dall’ufficio e ripensò alle ultime parole della dottoressa mentre, con passo lesto, si dirigeva agli ascensori.

Se fosse stata un comune essere umano, non avrebbe che potuto essere d’accordo ma lei, di vite, ne aveva già avute tante, anche se non ricordava esattamente quante.

I primi, più antichi ricordi erano sfocati, come celati da nebbia e, sebbene sapesse dove aveva vissuto fin dalla prima volta, non ricordava precisamente gli eventi legati a quella prima vita.

Non che le importasse davvero, dato che non le cambiava nulla, saperlo o non saperlo, ma era una cosa assai curiosa visto che, per tutto il resto, rammentava ogni istante delle sue tante esistenze.

Pigiando il pulsante per richiamare l’ascensore, attese paziente di fronte alle porte argentate, osservando il suo riflesso ritorto e storpiato dal metallo.

Con un mezzo sorriso, disse tra sé: “Bel mostro, che sembro.”

Quando il campanello dell’ascensore tintinnò nell’area di disimpegno, Joy fece per muoversi quando, all’improvviso, i suoi sensi si tesero allo spasimo.

Immediatamente, il sentore acidulo del pericolo le sconvolse l’animo, mettendola in allarme.

La ragazza non fece neppure in tempo a volgere lo sguardo, che un’esplosione fortissima squassò le fondamenta stesse dell’ospedale

Questo la portò a gridare il nome di Cynthia mentre, tutt’intorno a lei, urla e terrore si levavano come un’onda di piena inarrestabile.

Un attimo dopo, i detriti la colpirono.
 
***

Stava sgranocchiando una barretta ai cereali, intento a osservare il suo capo sistemare una manichetta sull’arrotolatore appena aggiustato.

Fu in quel momento di apparente calma che Morgan si volse a mezzo, in direzione degli uffici, non appena udì il telefono squillare a gran voce.

In quei giorni, a causa delle nevicate, gli incidenti stradali erano stati frequenti e, non di rado, erano dovuti uscire per recuperare incauti automobilisti dal piede troppo pesante.

Nat, tergendosi le mani con uno straccio, ammiccò al giovane collega chiosando: “Dieci a uno che è un’auto in panne per via della neve.”

“Un SUV?” rilanciò Morgan, sorridente, prima di avvertire una fitta dolorosa al costato.

Portandosi la mano destra all’altezza del cuore, il giovane venne percorso da un dubbio atroce mentre Nathan, accortosi di quel gesto, tornò immediatamente serio e domandò preoccupato: “Ehi, tutto bene?”

“Non so, è che…” tentennò Morgan, indeciso su cosa dire, prima di veder emergere Scott dagli uffici, tutto trafelato e bianco come un lenzuolo.

Pessimo auspicio.

Subito, Nathan si avvicinò al suo sottoposto, mentre Morgan e compagni lo seguivano per avere notizie.

Scott, dopo aver lanciato un’occhiata significativa al giovane ispanico, mormorò roco: “Un’esplosione al Samaritan. Pare che sia coinvolto il blocco principale dell’ospedale. Pensano a una fuga di gas nel reparto seminterrato, dove si trovano le bombole di ossigeno.”

“Cazzo!” esclamò Nat, accigliandosi immediatamente. “Ragazzi, andate subito alle autopompe. Mi sa tanto che oggi ci sarà da ballare! Via, via, via!”

Morgan non se lo fece ripetere due volte.

Non appena la parola Samaritan era comparsa all’interno della frase esposta da Scott, i suoi piedi si erano mossi come spinti da volontà propria in direzione del Rover.

Era già pronto ad agire, per salvare coloro che si trovavano all’interno di quell’inferno.

Joy non era lì, o almeno così sperava.

Il suo reparto era distaccato dal corpo centrale dell’ospedale, trovandosi in una palazzina a pian terreno nei pressi delle rive del Devil’s Lake.

La sensazione che aveva provato pochi istanti prima del comunicato di Scott, però,  non lo lasciavano ben sperare.

Doveva arrivare là il prima possibile.

Doveva essere sicuro che lei fosse sana e salva.

Già con il motore acceso e la marcia inserita, Morgan lanciò uno sguardo ansioso al cappellino di Harvard che Joy gli aveva regalato alcuni anni prima.

Da quel giorno, era sempre stato al suo fianco, in ogni azione.

Si era scolorito, a furia di stare sul cruscotto della jeep, ma non l’avrebbe cambiato con nessun altro porta fortuna al mondo.

Era un dono di Joy, una parte di lei. Non importava se non era più bello come un tempo.

“Vola come il vento, ragazzo!” esclamò Nat, non appena salì sulla jeep con lui.

Morgan annuì, uscendo dal garage come un forsennato e accendendo immediatamente le sirene, che ringhiarono nell’aria per segnalare a tutti l’urgenza della loro missione.

Gli pneumatici sibilarono sull’asfalto freddo, quando si immise sulla via principale, senza darsi troppa pena di controllare il traffico.

Nat, tenendosi alla maniglia sulla portiera, esclamò: “Ehi, asso, vorrei arrivarci vivo, là!”

“Ci arriverai!” borbottò Morgan, accelerando e lanciandosi a tutta velocità sulla Oregon Highway.

Con il cuore che gli rimbombava nelle orecchie, Morgan si fece una mappa mentale dell’ospedale, cercando di rammentare il più possibile la costruzione.

Quando, però, si gettò a spron battuto sulla West Devil Lake Road, il suo cervello andò per un istante in corto circuito, dimenticando ogni cosa.

Nere nubi di fumo si levavano dalla fiancata sud-est dell’edificio in fiamme, levandosi verso il cielo plumbeo e minaccioso.

Dal reparto di riabilitazione, quello che aveva tutta l’aria di essere un militare, assieme a un paio di medici, stava aiutando i pazienti ad allontanarsi per raggiungere le aree di raccolta.

Di Joy, nessuna traccia.

Inchiodando senza troppi complimenti la jeep, incurante dell’imprecazione sputata tra i denti del suo capo, Morgan si catapultò fuori dal mezzo per raggiungere coloro che stavano dirigendo l’evacuazione.

Poggiata la mano sulla spalla dell’enorme tizio dalla protesi al piede, che urlava ordini a tutti come se fosse abituato a farlo da sempre, esclamò: “La dottoressa Patterson! Joy è qui?!”

Volgendosi a mezzo dopo aver instradato un gruppo di ragazzine impaurite, il militare scrutò per un momento il pompiere dall’aria ansiosa che gli stava davanti.

Fu a quel punto che collegò le parole appena proferite e, in fretta, replicò: “No, Doc Patterson non è qui. Si trovava nel monoblocco, al momento dell’esplosione, o almeno, noi sappiamo che doveva essere lì.”

Un brivido di terrore puro scosse il corpo di Morgan mentre la sua mano, fino a quel momento poggiata sulla spalla dell’uomo, scivolò via inerte, senza forze.

Con un groppo in gola, riuscì comunque a chiedere: “In che reparto doveva recarsi?”

“Psichiatria, dalla dottoressa Abrahams” rispose l’uomo, prima di sospirare e aggiungere: “Era lì per me.”

A Morgan non occorse sapere altro.

Mentre le sirene dei mezzi di rinforzo si udivano in lontananza, il giovane afferrò la sua giacca ignifuga indossandola in tutta fretta.

Fatto ciò, mise sulle spalle la bombola dell’ossigeno e, sul capo, il casco protettivo.

La lega Halligan ben legata in vita, e la determinazione a illuminargli lo sguardo, afferrò a un braccio Nat ed esclamò: “Io entro. Joy è là!”

Nat imprecò nuovamente, mentre indossava a sua volta la sua giacca ignifuga e, con tono imperioso, gli ordinò: “Non te ne vai in giro in quell’inferno tutto da solo! Sei ancora una recluta, razza di incosciente!”

“Non è più vero già da un po’, e lo sai anche tu!” replicò Morgan, mettendosi a correre verso le fiamme e le persone che, nel frattempo, stavano scappando freneticamente dall’edificio in fiamme.

“Le carte non contano nulla! Sono io a dire quando potrai andartene in giro da solo!” ringhiò per contro Nat, scavalcando agilmente un pezzo di cemento armato volato via, presumibilmente, a causa dell’esplosione.

“Non sei mio padre! Ma grazie per la preoccupazione!” esclamò il giovane, strizzandogli l’occhio, sfondando con la leva Halligan quel che rimaneva di una finestra.

Entrati che furono all’interno, Nat mugugnò irritato una serie di improperi.

Era un dannato casino.

Le fiamme erano un po’ ovunque e lambivano le pareti pericolanti, le trombe delle scale ormai divelte e ciò che restava di diverse apparecchiature mediche.

Scrutando accigliato il suo compagno, Nathan ringhiò turbato: “Sai che non dovremmo mettere in atto una missione suicida solo per una persona.”

“Aiuteremo tutti quelli che incontreremo sulla nostra strada, ma io devo andare da lei” ci tenne a dire Morgan, guardandosi intorno per tentare di capire come fare a raggiungere i piani alti.

Quello che aveva davanti, ormai, era un groviglio di travi metalliche, fili elettrici pericolosamente pencolanti e blocchi di cemento grandi quanto un pick-up.

“Tu sei completamente pazzo” mormorò Nat, iniziando la risalita lungo quella che, un tempo, doveva essere stata una scala.

“Sono un pompiere.” Nel dirlo, sorrise.

Nat preferì non replicare.
 
***

Il dolore alla gamba era infernale ma non poteva farci nulla, almeno al momento.

La trave che le era caduta addosso le aveva spezzato tibia e fibula, poteva sentirlo con una chiarezza fastidiosa.

In quel momento però, la sua attenzione non poteva vertere su se stessa, visto che i suoi poteri erano concentrati sulle persone presenti all’interno dell’ospedale.

Tutta la sua energia e la sua attenzione erano convogliate lì, nel tentativo di permettere a quante più persone possibile di uscire dall’edificio prima che esso crollasse.

Se tutto fosse andato come sperato, l’unica vittima sarebbe stata lei.

Non le era mai capitato di perdere la vita dopo così pochi anni dalla sua rinascita.

Per salvare così tanta gente in pericolo, però, non avrebbe esitato a prosciugarsi pur di portare in salvo fino all’ultima persona presente.

Cynthia era salva, lo aveva percepito con chiarezza, e così tutto il reparto.

Da quel poco che riusciva a comprendere in quel caos di esplosioni, crolli e urla, i pompieri stavano portando in salvo coloro che avevano più difficoltà nel deambulare.

Fortunatamente, l’esplosione non aveva coinvolto il reparto di terapia intensiva che, in quel momento, era sotto il pieno controllo dei vigili del fuoco.

Tutto stava procedendo per il meglio.

Joy sperò che, in quel guaio colossale, Morgan non fosse presente o che, per lo meno, non fosse nelle vicinanze della zona più pericolosa dell’incendio.

Un esile sospiro fluì dalla bocca riarsa di Joy.

Era sempre più stanca, ma ben decisa a evitare che quell’ala dell’edificio crollasse, quando ancora molte persone si trovavano lì.

Si spiacque di non aver salutato i genitori, quella mattina, prima di andare al lavoro.

Era sempre solita chiamare ma, poiché si era svegliata in ritardo, era uscita dall’appartamento senza telefonare.

In quel momento, fu il suo rammarico più grande.

Chiusi gli occhi per un momento, Joy esalò: “Rah…”

“Fenice! Perché non hai ancora usato i tuoi poteri per uscire da quel groviglio di macerie!? Ora…”

Bloccandolo sul nascere, Joy sussurrò debolmente: “Non fare nulla, Rah. Non ho la forza di controllare i tuoi poteri e, se tu li riversassi dentro di me in questo momento, esploderebbe tutto. Non hai un tramite con cui agire, stavolta.”

L’imprecazione di Rah riverberò nel suo cervello, portandola a sorridere per un momento.

“Ti ringrazio per la tua sollecitudine, ma non è un problema. Posso rinascere…”

“E non pensi a tutte le persone che lascerai?” esplose Rah, con insolita veemenza.

Dolorose lacrime le inumidirono gli occhi, quando lei replicò tremula: “Certo che ci penso, ma… forse è meglio così…”

“Sei davvero più sciocca di quanto pensassi.”

Detto ciò, Rah svanì dalla sua mente un attimo prima che, in tutto quel caos convulso, una voce a lei familiare le sfiorasse le orecchie con la sua dolcezza.

“Joy! Joy!”

L’urlo si ripeté con più forza, più vicino e la ragazza, sgomenta, si ritrovò a provare più paura di quanta non ne avesse mai provata in tutte le sue vite.

Morgan era lì. Lì per lei! E lei, ormai, non aveva più forze per mantenere stabile la struttura!

“Morgan, vattene immediatamente da qui!” strillò la ragazza, sentendosi ormai prossima allo svenimento.

“Nat, è di là, l’ho sentita!”

La voce di Morgan risuonò chiara, eccitata, speranzosa e, ancora, Joy tremò per lui.

“La vedo!” urlò Nathan, indicandola dal punto in cui si trovava.

Ora piangendo di paura per loro, Joy riuscì a esalare sconvolta: “Vi prego, andatevene! E’ pericoloso!”

“Non se ne parla!” sbottò Morgan, arrampicandosi per gli ultimi metri che lo separavano da lei.

Aggrappatosi al cornicione di cemento su cui Joy era sdraiata, la fissò con un mezzo sorriso, prima di incrociare il suo sguardo.

Non appena i loro occhi si intrecciarono tra loro, umidi e terrorizzati quelli di lei, speranzosi e lieti quelli di lui, tutto si annullò.

Joy non avvertì più il dolore alla gamba o l’incendio che divampava tutt’intorno a loro.

Solo lui era presente, il suo respiro affannato, il suo mezzo sorriso, gli occhi vispi e pieni di gioia. Solo Morgan.

“Perché sei venuto?” esalò lei, continuando a piangere.

“Per te, sciocchina” ridacchiò Morgan, scrutandola con attenzione.

Notò subito la benda compressiva che la ragazza aveva sistemato sulla gamba, grazie all’utilizzo del suo camice.

Era intriso di sangue.

Accigliandosi immediatamente, Morgan si guardò intorno prima di urlare: “Nat, lì sei stabile?!”

“Tutto okay, qui. La struttura regge!” sbraitò di rimando il suo capo.

Annuendo a quel responso, Morgan si mosse per afferrare Joy e spostarla da quella sporgenza frastagliata ma lei, scostando le sue mani, sibilò: “Andatevene, e salvatevi. Io non ho…”

“Cosa?! Tu non hai bisogno di aiuto?!” sbottò Morgan, ora fissandola con rabbia palese. “Beh, mia cara, nel caso specifico, sono io che comando, e non lascio qui a morire la donna che amo, è chiaro?!”

Quelle parole, gettate fuori con violenza e del tutto inaspettate, gelarono Joy sul posto e permisero a Morgan di afferrarla per la vita e caricarla su una spalla.

“…la donna che amo… la donna che amo…”

Aggrappata alla sua giacca ignifuga e sporca di fuliggine, Joy riascoltò nella sua mente quelle parole esclamate con veemenza.

Registrò dentro di sé la loro veridicità, la loro forza, il loro calore e, nuovamente, le lacrime tornarono.

“Nat, riesci a prenderla?!” ringhiò Morgan, la voce resa affannosa dalla discesa piuttosto complessa cui era stato costretto.

“Passamela!” assentì l’uomo, allungando le braccia verso di lui.

Quando il giovane scostò Joy dalla sua spalla, le sorrise nello scorgere il suo viso ancora sconcertato e, datole un bacio leggero sul naso, sussurrò: “Ne riparleremo più tardi, buona samaritana.”

A Joy sfuggì una risatina isterica, prima di passare tra le braccia di Nathan che, con un caloroso sorriso, le disse: “Ben ritrovata, dottoressa. Come sta?”

“Siete due pazzi” borbottò la ragazza, scuotendo il capo più e più volte, cercando nel contempo di contenere l’ondata di dolore che minacciava di farla svenire. “Non … non mi faccia addormentare.”

“Ne avrebbe motivo, invece. Si rilassi, mentre noi la portiamo fuori” replicò Nat, mentre Morgan scendeva velocemente sotto di lui per riprendere in braccio Joy.

Con un passamano che si ripeté non meno di venti volte, riuscirono infine a riportare alla luce Joy che, ormai allo stremo, crollò infine contro la spalla robusta di Morgan.

Impossibilitata a mantenere oltre il controllo su se stessa e sulla struttura ospedaliera, lasciò infine la presa sui suoi poteri.

Con un ruggito furioso e apparentemente senza fine, l’ala sud dell’ospedale crollò di botto, sollevando un polverone infernale e macerie lanciate ogni dove.

Al riparo dietro le autopompe, ancora impegnate a spegnere i residui di incendio che fiammeggiavano qua e là, Morgan strinse a sé la ragazza ora svenuta e, a bassa voce, sussurrò: “Sei viva. Sei in salvo.”
 
***

La soluzione fisiologica scivolava flebile, goccia dopo goccia, lungo la cannula che terminava nel dorso della mano di Joy.

Quelle dita, pallide e scorticate, erano poggiate inerti sul lenzuolo bianco del letto del reparto di ortopedia del Memorial Hospital di Salem.

Era stata ricoverata, e operata lì, dopo il suo rocambolesco salvataggio all’interno del Samaritan.

Ancora assopita dopo un breve risveglio nella stanza post-operatoria – dove la giovane aveva sorriso stentatamente al dottore che l’aveva operata – Joy non era consapevole della presenza di Morgan nella stanza.

Fin dal momento in cui l’aveva portata fuori dall’incendio, non si era più allontanato da lei.

Aveva percorso tutto il tragitto fino a Salem con l’eliambulanza, standole sempre accanto mentre, professionale e rassicurante, aveva avvisato la sua famiglia di ciò che era successo.

Nel sentire la porta della stanza aprirsi, Morgan sorrise cordiale a Melinda che, tra le mani, reggeva un bicchiere di quello che, dal profumo, sembrava essere un ottimo caffè.

“Come sta?” gli chiese a bassa voce la donna, consegnandogli il bicchiere, che lui accettò con un sorriso riconoscente.

“Riposa tranquilla. Pochi minuti fa è passata l’infermiera per cambiare la flebo ma, per il resto, niente è cambiato” le spiegò Morgan, tornando a osservare il viso assopito di Joy, segnato da alcuni tagli superficiali sugli zigomi e sul mento.

Nel complesso, era andata dannatamente bene.

Avrebbe potuto essere un disastro di proporzioni bibliche.

Grazie a chissà quale miracolo, invece, la struttura aveva retto a sufficienza per permettere a tutti di uscire, e mettere in sicurezza le zone non colpite dal crollo.

I feriti più gravi erano Joy, con una frattura esposta di tibia e fibula e altri quattro dottori che, tra braccia e gambe rotte, avevano rimediato i colpi più duri.

Nessuno dei pazienti ricoverati aveva subito danni rilevanti e, tra i pompieri, nessuno era rimasto ferito, a parte qualche bruciatura.

Un maledettissimo miracolo.

“Grazie per aver salvato la nostra bambina” sussurrò Melinda, accomodandosi sulla sedia accanto a quella di Morgan.

Con un mezzo sorriso, il giovane si limitò a dire: “Dovere. Inoltre, non avrei mai lasciato che le succedesse qualcosa. Gliel’avevo promesso.”

“La ami?” gli chiese teneramente la donna.

Con una scrollata di spalle, Morgan annuì e sussurrò: “Più di qualsiasi altra persona al mondo, e in un modo così potente, e unico, che quasi non so spiegarmelo. E ora che ho rischiato di perderla, non le permetterò più di tenermi lontano.”

“Non darle la possibilità di dirti di no” lo sollecitò a sorpresa Melinda, lasciandolo senza parole.

Ridendo di fronte al suo sconcerto, la donna batté una sua mano su quella libera del giovane e, con tono sommesso, gli confidò: “Ho sempre pensato che il suo essere così generosa con tutti, ma non con se stessa, non fosse giusto. In te vedo una brava persona, una persona che potrà amarla come merita e farle capire che l’amore può bussare anche alla sua porta, pur se lei non ne vuole neppure sentire parlare.”

“Le farò cambiare idea. A tutti i costi” le promise Morgan, prima di udire un mugugnare sommesso provenire dalla ragazza.

Subito, il giovane si levò in piedi – al pari di Melinda – e, con un sorriso illuminato dalla gioia che provava in quel momento, sussurrò: “Ehi, piccola. Ciao.”

Le palpebre sbatterono confuse per un paio di volte, prima di permettere alle iridi di mettere a fuoco ciò che la circondava.

Pallide visioni di un passato recente le rimbalzarono nella mente, mentre la voce di Morgan la incitava a non mollare.

Nel rammentare di colpo ciò che era avvenuto all’ospedale, la consapevolezza di essere ancora viva le scivolò addosso come una calda coperta di velluto.

Questo la portò a sorridere spontaneamente al volto che stava scrutandola speranzoso.

“Morgan…” gracchiò con voce impastata dall’anestesia.

Un risolino sgusciò dalle sue labbra inarcate in un sorriso mentre Melinda, sfiorandole un braccio, mormorava: “Bimba mia… come stai?”

“Mamma?” sussurrò Joy, guardandola confusa prima di chiedere: “Dove sono?”

“Sei al Memorial Hospital di Salem, piccola, e un paio d’ore fa ti hanno rimesso in loco tibia e fibula, che avevano pensato bene di fare un giretto fuori dalla tua gamba.”

Morgan ammiccò, indirizzando il suo sguardo sulla gamba ingessata, e tenuta sollevata da un piccolo argano.

Argano che Joy fissò costernata prima di esalare un sospiro e chiudere gli occhi, sconcertata dalla piega che gli eventi avevano preso.

“Ci sono… stati… morti?” riuscì a domandare, pur sentendo la gola in fiamme.

Pigiato un pulsante per sollevare lo schienale del letto, Melinda le mise tra le labbra una cannuccia perché potesse bere un po’ d’acqua.

Morgan, con dovizia di particolari, le illustrò ciò che era successo, spiegandole l’autentico miracolo che era avvenuto quel giorno.

La ragazza ascoltò avida, speranzosa di non dover essere messa al corrente di brutte notizie.

Quando finalmente Morgan ebbe terminato il suo dettagliato racconto, Joy si accigliò e dichiarò offesa: “Non avresti dovuto rischiare la tua vita per me.”

“Piccola, sono un pompiere. Rischio sempre la vita per qualcuno. Per te, l’avrei rischiata anche due volte” ghignò Morgan, strizzando l’occhio in direzione di Melinda, che sorrise complice.

Avvedendosene, Joy la fissò scandalizzata prima di esalare: “Mamma! Non puoi… non ti ci mettere anche tu!”

“Tesoro, io sono contentissima che Morgan ti abbia salvata, e nulla di ciò che dirai potrà farmi cambiare idea. Quindi, rassegnati” sentenziò Melinda, dandole un bacio sulla guancia prima di aggiungere: “Vado a vedere se papà è tornato. E’ corso allo studio di Alex per vedere se lui e Susy potevano venire.”

“Oh… ma non era…” iniziò a dire lei, prima di venire bloccata dallo sguardo imperioso della madre.

“Siamo una famiglia, Joy. Mettitelo in testa e finiscila di fare i capricci. Non li facevi da piccola… non vorrai cominciare ora?” ammiccò Melinda, uscendo subito dopo con un sorrisino malizioso stampato sul volto.

Accigliata, Joy fissò la schiena della madre con aperta riprovazione prima di sentire Morgan ridere, e commentare: “Tua madre è adorabile. Sotto quell’apparente dolcezza, si cela un vero generale.”

Joy lo scrutò per diversi secondi senza sapere bene cosa dire, il viso attraente e illuminato dal sollievo di saperla viva.

Aveva gli abiti ancora sporchi di fuliggine – si era tolto solo la tuta ignifuga.

Fu in quel momento che venne scossa da un tremito così violento che persino i denti sbatterono gli uni contro gli altri e, sollevate le braccia verso di lui, esalò: “Morgan!”

“Ehi, piccola!” esclamò lui, sorpreso da quel cedimento improvviso.

Avvoltala tra le sue braccia, Morgan le carezzò gentilmente la schiena mentre la giovane, scossa dai singhiozzi, piangeva contro la sua spalla.

Inspirò l’odore di fumo, mescolato al profumo della pelle del ragazzo, come se non potesse più farne a meno.

Aveva rischiato di perderlo.

Aveva desiderato di perderlo, per permettergli di crearsi una vita senza di lei, ma avrebbe commesso un’idiozia senza pari, a lasciarsi andare a quel sentimento autodistruttivo.

Rah aveva avuto ragione, a ingiuriarla a quel modo, se l’era ben meritato.

“Nessuno merita di morire, mia Fenice, men che meno tu.”

“Rah…” sussurrò lei, mentre le lacrime si affievolivano e il calore benefico emanato dal corpo di Morgan ne chetava i tremori.

“Riuscirai a trovare le risposte che cerchi, amica cara, ma non dubitare mai, neppure per un istante, che la tua vita valga meno delle altre. Riposa, cura il tuo corpo mortale e accetta ciò che Morgan può darti, come ciò che tu puoi dare a lui. Sono più che sicuro che, alla fine, vedrai ciò che deve essere visto.”

La sua voce, intrisa d’amore e fiducia, la rincuorò.

“Naturalmente, non mi dirai nulla di neppure lontanamente chiaro e comprensibile, vero?”

“No.”

E, con una risatina, se ne andò, lasciandola sola con Morgan.

Un lento sorriso le sorse sul volto pallido mentre, scostandosi dal corpo possente e protettivo del giovane pompiere, Joy tornava a osservare quei profondi, scurissimi occhi di pece.

In quel momento, erano in pensiero per lei, così come lo erano stati tra le macerie dell’ospedale, poche ore prima.

Il sorriso le si allargò, quando Morgan si chetò nel vedere che le lacrime erano scomparse.

Lentamente, una mano si avventurò sul suo viso, cancellando le ultime tracce del pianto prima di fermarsi sulle sue labbra e sussurrarle: “Mi prenderò cura di te, d’ora in poi. Di qualsiasi cosa tu abbia bisogno, voglio che chiami me. E non accetterò un no come risposta.”

“Sai che, per certe cose, dovrò chiedere a mia madre, vero?” lo punzecchiò maliziosamente Joy, notando un lampo di ironia balenare nei suoi occhi scuri.

“Ti concederò una proroga, su quello… anche se non avrei problemi a farti il bagno, piccola.”

Nel dirlo, le strizzò un occhio prima di liberarsi di un sospiro di sollievo e di una singola, ribelle lacrima di gioia.

A Joy quasi si spezzò il cuore, nel vederla.

Quella lacrima l’aveva causata lei, lei e la sua superficialità.

Come aveva potuto pensare che la sua morte avrebbe potuto liberarlo?

Lentamente, Joy sollevò le mani per poggiarle sulle gote roventi di Morgan e, attirato quel volto splendente al suo, asciugò quella singola lacrima con un bacio.

“Ti sarò per sempre debitrice, per avermi salvato la vita. E sì, accetterò il tuo aiuto, ma non perché io mi senta in dovere di farlo, piuttosto perché desidero che tu mi aiuti.”

Morgan si limitò ad annuire, troppo  stordito da quelle parole tanto bramate, per avere il coraggio di spezzare quell’incantesimo con una frase di troppo, o una battuta fuori luogo.

Tutto era troppo perfetto, in quel momento, perché lui lo guastasse con la sua voce.

A spezzare l’idillio pensò Richard.

Dopo aver bussato una volta – giusto per dar tempo a entrambi di non farsi trovare in atti compromettenti – entrò nella stanza con un gran sorrisone stampato sul volto ed esclamò: “Ecco la mia campionessa!”

“Papà!” esalò lei, allungandosi spontaneamente verso l’uomo, che si affrettò a raggiungerla per abbracciarla.

“Mi hai fatto morire di paura, bambina. Meno male che Morgan ti ha ripescata in mezzo alle macerie” le sussurrò Richard, stringendola con forza per un attimo. Sentendosi interpellare, il giovane sorrise a entrambi prima di dire: “Sono qui fuori per un po’.”

“Va bene. E grazie ancora” annuì Joy, seguendolo con lo sguardo.

Richard gli diede una pacca su un braccio, esponendo con lo sguardo ciò che, a parole, non riuscì a dire.

Annuendo, Morgan ricambiò l’occhiata e uscì dalla stanza, ritrovandosi nel corridoio del reparto di ortopedia, assediato di infermiere e carrelli.

Scivolò abilmente tra quel via vai confuso, raggiunse senza problemi la sala d’attesa illuminata da lampade al neon e lì vide Melinda, in compagnia con Alex e Susan.

In quel momento, Alex sembrava avere una serrata discussione telefonica con qualcuno perciò, quando mise piede nella saletta, fu Susan ad andargli incontro per chiedergli lumi.

Sorridendole generosamente, Morgan la salutò con un rapido abbraccio prima di dirle: “Tutto bene. E’ lucida e la gamba non le fa male… almeno per il momento. Richard è con lei.”

Un sospiro di sollievo sfiorò le labbra rosso corallo di Susan mentre Alex, chiuso il telefono, si alzò a sua volta per raggiungerlo.

Senza dire nulla, abbracciò Morgan con tale foga da sbilanciarlo.

I pugni stretti contro la schiena del pompiere, Alex poggiò la fronte contro la sua spalla mormorando un ‘grazie’ così sentito da fargli tremare la voce.

Morgan, ben deciso a smorzare la paura che percepiva fremere sotto la pelle del giovane avvocato, se ne uscì dicendo: “Ehi, amico, non davanti alla tua ragazza! Mandi in malora le apparenze!”

Alex si scostò da lui con una risatina nervosa, subito seguita da un pugno, che indirizzò su una spalla di Morgan.

Sogghignando, il pompiere strizzò un occhio a Susan e celiò: “Mi spiace… speravamo di nasconderti il  nostro amore ancora per un po’, ma…”

Susan rise sommessamente a quella battuta mentre Alex, avvolgendole la vita con un braccio, chiese a Morgan: “Il danno è circoscritto alla gamba?”

Tornando serio, il giovane annuì e spiegò loro l’anamnesi della ragazza.

“Una frattura esposta di tibia e fibula. Ora, ha un bel gesso sul quale scarabocchiare sconcerie varie.”

“Grazie. Davvero” mormorò Alex, allungando una mano verso di lui in modo molto formale.

Morgan l’accettò senza emettere fiato, limitandosi ad annuire.

Melinda, sorrise di fronte alla scena, facendosi pensierosa.

Si chiese se mai, nelle sue tante vite, la donna che era Fenice, e che lei amava come una figlia, avesse avuto due valenti protettori come i giovani che si stavano stringendo la mano in quel momento.

Ne dubitava fortemente.

 
 
 
***



 
Ti amo. Quelle parole, urlate quasi come uno schiaffo in quel mare di detriti e di fiamme, mi avevano dato la scossa sufficiente per non cedere.

Ora, le portavo con me, dentro di me, chiuse nel mio cuore in subbuglio, preziose come un’intera cascata di diamanti, o come il più raro tra i gioielli.

Non potevo più fare finta di non sapere cosa provasse realmente per me Morgan, perché sarebbe stato un insulto per entrambi.

Come non potevo più fare finta di non sapere cosa provassi io.

Rah mi aveva detto di recuperare le forze – l’uso di una dose così massiccia di potere, unita alla debilitazione fisica, mi avevano davvero sfiancata.

L’avrei sicuramente fatto, e avrei cercato di capire il significato delle parole del mio mentore e amico.

Ma, soprattutto, avrei cercato di capire come affrontare quel nuovo, potente sentimento che galleggiava dentro di me, sempre più dirompente, sempre più incontrollato.

La riabilitazione non sarebbe servita solo alla mia gamba malandata – che, in quel momento, pulsava come un’ossessa – ma anche al mio cuore.

Speravo soltanto che, alla fine di quel lungo processo ricostruttivo, mente e corpo trovassero un equilibrio che, in quel momento, mi mancava.

 






 
 
 
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1 Helping a Hero: E’ una vera associazione no profit americana che aiuta soprattutto i militari con disabilità fisiche e psicologiche. Raccoglie donazioni e si interessa perché militari e famiglie possano avere ciò di cui necessitano a seguito di incidenti di guerra o della perdita di un caro in battaglia.

 

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Capitolo 25
*** cap. 25 ***


 
25.
 
 
 
 
Cosa significa la parola felicità?

Come Fenice, ho sempre saputo cosa volesse dire. E’ sempre stato il mio compito rendere felici gli altri.

Ma essere felice?

Questo non mi è mai stato concesso, non pienamente per lo meno.

Ho avuto bellissime amicizie, più o meno profonde e, qualche volta, l’affetto incondizionato di coloro che, ancora in fasce, mi avevano accolto nelle loro vite per crescermi e condurmi nel mondo.

Per amore di mia madre adottiva, mossi guerra contro i Naga e, per poco, non persi di vista la mia missione, il mio scopo primo nelle mie tante esistenze.

Ora, in quest’epoca, in questa mia strana vita, tutto mi sembrava amplificato.

Era come se scorgessi il mondo attraverso una lente d’ingrandimento e ogni cosa mi apparisse più grande, più sfaccettata, più intensa.

I sentimenti che le altre persone che provavano per me, e io per loro, erano molto, molto più forti.

Rimasi in ospedale a Salem il tempo necessario della degenza, coccolata ogni giorno da Alex e Susan che, a turno, mi raggiungevano al Memorial per controllare le mie condizioni di salute.

A ogni visita, telefonavano ai miei genitori per riferire le ultime novità ma, soprattutto, tenevano informato Morgan.

Mi ero rifiutata di vederlo fare la spola da L.C. a Salem tutti i santi giorni e così, dopo una lunga trattativa, aveva accettato di non venire a trovarmi durante il mio ricovero ospedaliero.

In cambio, lui mi avrebbe ricondotta a casa personalmente.

Quando infine uscii con la gamba ingessata, seduta su una sedia a rotelle, Morgan mi sollevò come se fossi stata un fuscello per poi depositarmi sul largo sedile del suo pick-up.

Per tutto il tempo, non fece che sorridere e dirmi tutto ciò che aveva fatto, per rendere più agevole il mio soggiorno a casa.

Mia madre gli aveva lasciato le chiavi del mio appartamento, da quanto venni a sapere.

Essendo un pompiere, sarebbe comunque riuscito a entrare, per cui fui lieta che mia madre si fosse fidata a lasciargliele.

In quei giorni di lontananza forzata mi aveva sempre chiamato, raccontandomi dei lavori di ricostruzione del Samaritan e parlandomi dell’inchiesta in corso.

Sembravano aver riscontrato dei difetti di costruzione in una valvola di sicurezza di una bombola di ossigeno, che aveva così innescato le esplosioni a catena.

In braccio a lui che, con mosse piuttosto contorte, riuscì ad aprire la porta dell’appartamento, tornai finalmente a casa.

Non appena vidi i fiori che profumavano l’ambiente – sistemati in una miriade di vasi colorati – sorrisi spontaneamente e lo ringraziai con un casto bacio sulla guancia.

Più che soddisfatto, Morgan mi depositò sul divano prima di correre dabbasso a recuperare le mie valige.

Fu in quel momento che mi accorsi di una presenza insolita nell’appartamento.

Dal fondo del corridoio, in direzione della camera da letto, giunse un trillo piuttosto familiare e allegro.

Quando Morgan tornò all’interno e lo sentì a sua volta, ridacchiò e disse: “Ti presento un altro inquilino, oltre a me. Monet.”

Risi deliziata, pregandolo di portarlo da me e, non appena vidi il suo cacatua bianco dalla cresta gialla, me ne innamorai.

Lui, ovviamente, riconobbe subito la mia doppia natura e, come ogni altro volatile di mia conoscenza, iniziò a deliziarmi con il suo canto.

Aprì le candide ali e volò via dalla spalla del suo padrone, per poggiarsi sullo schienale del divano.

Morgan rise con me, dichiarandosi sorpreso quanto soddisfatto del nostro reciproco amore e io, per un momento, desiderai potergli dire tutto, raccontargli ogni cosa di me.

La paura di non essere compresa o, peggio, di essere tradita, mi fermò.

Non era giusto, ma l’ombra cupa del padre oscurava l’immagine limpida di Morgan, ai miei occhi.



 
 
***



 
“Beee-nu! Beee-nu!” trillò allegramente Monet, quando il sole lambì il viso di Joy attraverso le imposte socchiuse.

Le tende a veneziana, completamente sollevate, lasciarono filtrare la luce del  mattino.

Avvertendo il calore del giorno sul suo viso e il richiamo accorato del cacatua, Joy aprì un occhio e mugugnò: “Cosa c’è, Monet?”

Su sua richiesta, Morgan aveva installato il piedistallo e la gabbia di Monet nella sua camera da letto.

Il pompiere invece, nonostante le protesta della ragazza, aveva preso pieno possesso del divano, lasciando a lei il letto matrimoniale.

Non che Joy avesse pensato di fare cose strane, tra le lenzuola, ma le era parso giusto proporre a Morgan di dividere il letto.

Poiché lei occupava ben poco spazio e lui aveva bisogno di riposare, visto il lavoro che faceva, le era parso più che giusto.

Morgan, però, si era rifiutato di accettare, pur ringraziandola per il pensiero.

Senza più tornare sull’argomento, aveva preso cuscino e coperta di lana e si era sistemato sul divano di pelle color carminio.

Sapeva perfettamente che, per un ragazzone alto un metro e novanta ,quel divano non andava affatto bene per dormire.

Joy aveva così scoperto che la testardaggine di Morgan non era selettiva, ma totalitaria.

Si impuntava per qualsiasi cosa, con grazia ed eleganza, ma si impuntava.

E lei era deliziata dalle discussioni che riuscivano ad accendere, ogni qualvolta saltava fuori un argomento su cui avevano opinioni discordanti.

Sua madre passava ad aiutarla ogni giorno, assicurandosi che avessero abbastanza cibo in casa.

Era così che aveva scoperto le indubbie doti culinarie di Morgan, bravissimo nel preparare la parmigiana di melanzane.

Nel corso delle sue molteplici visite, Melanie era più volte tornata a casa con pirofile di cibo sapientemente creato da Morgan.

Alla donna era piaciuto molto, quell’aspetto imprevisto del giovane, ma era stato altro a spingerla così assiduamente dalla figlia, nei primi giorni della sua degenza.

Era più che altro interessata a conoscere i retroscena della convivenza improvvisa, quanto sorprendente, con Morgan.

“Beee-nu!” la chiamò ancora Monet, mentre il rumore delle chiavi nella toppa la avvertirono della presenza di qualcuno.

Sapeva che Morgan avrebbe dovuto alzarsi alle cinque di mattina e che, in quel momento, erano le otto passate, perciò Joy dedusse trattarsi della madre.

Sollevatasi su un gomito non appena udì la porta aprirsi e chiudersi, gridò a gran voce: “Mamma, sei tu?!”

“No, sono la strega cattiva!” ridacchiò la donna.

In un fruscio di borse e di tessuto, Mel si diresse verso la camera matrimoniale e, dopo aver aperto la porta, sorrise alla figlia ancora in pigiama.

“Buongiorno tesoro!”

Uno sbadiglio sonoro fu il suo salutoto, a cui seguì un saluto e un bacio con lo schiocco, lanciato platealmente verso la madre.

Mentre Melanie le sorrideva divertita, Joy uscì da letto, afferrando con una smorfia le stampelle prima di seguire la madre fuori dalla camera da letto.

Se solo fosse stata da sola, avrebbe potuto trasformarsi in Fenice e sistemare la gamba in quattro e quattr’otto.

Obbligata dalla situazione a mascherare la sua natura divina, doveva però sopportare quel gesso insopportabile, e che le procurava un prurito fastidiosissimo.

“Cos’hai portato di buono? Percepisco un sacco di profumi, ma sono ancora mezza addormentata, e non ne capisco l’origine.”

Con un risolino, Mel la lasciò passare perché potesse andare in bagno a rinfrescarsi e, nel seguirla, le spiegò succintamente: “Oh, ho solo pensato di rifornirti il frigorifero, prima che Morgan passi al contrattacco. Ho visto che vi mancavano un po’ di cose, e così…”

Ammiccando, Joy mormorò: “E’ tutto talmente strano…”

“Puoi dirlo” annuì la madre, lasciando che andasse in bagno da sola.

Non potendo fare altro, la donna iniziò a preparare la colazione nella piccola cucina ad angolo.

Dopo aver messo a scaldare il latte, e la torta sul tavolo, sorrise a Joy non appena la vide tornare, più fresca in viso e con la massa arricciata di capelli fulvi legata in una coda di cavallo.

Poggiate le stampelle, Joy si sedette al tavolo ed esalò: “La cosa più fastidiosa da sopportare è il fatto che potrei già essere guarita, se solo …”

Interrompendosi di botto, arrossì e aggiunse spiacente: “Scusa, non dovevo neanche accennarlo.”

Con una scrollata di spalle, Mel replicò: “E perché? E’ la verità. Se fossi sola, potresti compiere uno dei tuoi prodigi, no? Come per la clinica. Non credere che non ci sia arrivata.”

Joy le sorrise generosamente, afferrando una sua mano per portarsela al viso.

Socchiudendo gli occhi, la giovane mormorò: “E’ il mio compito, salvare vite umane e, nel caso specifico, che altro avrei potuto fare?”

“L’hai fatto egregiamente, direi” sentenziò bonariamente Mel, prima di guardare la coperta diligentemente ripiegata sul divano del salotto. “Come va con lui?”

“Bene, direi. A parte alcuni dibattiti accesi su chi debba fare cosa” ghignò Joy, indicando la gamba fratturata. “Non vuole che faccia assolutamente niente, ma per me è una cosa impensabile. Solo che, se uso il mio potere quando lui non c’è, poi devo giustificare i lavori fatti, perciò alcuni proprio non li posso fare, e la cosa mi snerva.”

Un risolino salì dalla gola della madre, mentre un sorriso le rallegrava il viso paffuto e roseo.

“Allora, direi che sono screzi positivi. E’ gentile con te, quindi.”

“Anche troppo. Vorrei che non mi trattasse come una bambola di porcellana, ma capisco che lo fa perché il pensiero di perdermi lo ha quasi ucciso. Percepisco con fin troppa chiarezza i suoi sentimenti, perciò non me la sento di criticarlo, ma…”

Con un sospiro, Joy scosse il capo e lanciò un trillo soave per chiamare a sé Monet.

Subito, in uno svolazzo di piume, il cacatua giunse da lei e si appoggiò sul muretto divisorio che separava la cucina dal salotto.

Sollevata la cresta gialla, Monet lanciò un acuto stridio prima di esclamare gioioso: “Beee-nu! Beee-nu!”

“Come mai ti chiama così?” si informò curiosamente la madre.

“E’ il mio nome più conosciuto, tra di loro. Così ero chiamata quando ancora vivevo a Heliopolis, alla corte dei faraoni” sussurrò Joy, intingendo un biscotto nel latte caldo, lo sguardo perso sulla superficie ondeggiante del liquido denso e biancastro.

Sfiorandole una spalla con la mano, Mel le sorrise benevola e le propose: “Raccontami di quei tempi.”

Joy rise sommessamente, ripensando a quei momenti per lei così familiari e, al tempo stesso, così distanti nel tempo e nello spazio.

“Ero una regina tra le regine, al tempo in cui l’Egitto era il centro del mondo. Faraoni e dignitari si inchinavano a me, mentre la luce di Rah splendeva sul mio capo.”

Sollevò una mano con uno svolazzo e, sul suo palmo, piccolo e ovale, comparve un lapislazzulo dalla purezza rara.

Melanie lo scrutò sbalordita, mentre la figlia proseguiva nel suo racconto.

“Vivevo nel lusso più sfrenato, idolatrata da tutti e da tutti amata poiché portavo letizia, gioia e prosperità.”

Allungò la pietra alla madre, aggiungendo: “Uno dei tanti doni che mi portarono dall’oriente.”

“E’… è un …”

“Un lapislazzulo, sì” assentì Joy, disinteressata. “La gente mi conosceva come Benu, l’Astro del Mattino, e io potevo volare libera nel cielo come uccello, o camminare a testa alta come donna. Ori, sete preziose e gioielli adornavano il mio corpo umano, mentre spezie orientali e profumi di ancestrale memoria erano sempre presenti nel mio nido di Fenice.”

“Sembra una vita degna di essere vissuta” sussurrò ammirata Mel, gli occhi vagamente sgranati.

Joy ammirò il lapislazzulo nelle mani di sua madre, ammiccò leggermente e, al suo posto, apparvero due orecchini della stessa pietra.

“Questi, potrai portarli più agevolmente di un lapislazzulo grosso come un uovo di piccione” mormorò Fenice, mettendoli alle orecchie della madre.

Melanie rimase senza parole e Joy, nel tornare a quei momenti, sospirò.

Non era stato tutto oro o splendore, in quella vita.

Levata una mano in direzione di Monet, lo richiamò a sé  e l’uccello, planando verso di lei fino a poggiarsi sul tavolino, piegò il capo in avanti per farsi accarezzare.

Lentamente, con un movimento ipnotico e continuo, Joy iniziò a carezzare il cacatua, mormorando: “Era bello, sì. Ma ero sola. Tutti mi temevano e, spesso, l’amore che la gente provava per me era più infuso di paura e timore, che di vero affetto, e io lo avvertito. I faraoni stessi, a volte, provavano questi sentimenti per me. Solo una persona mi è sempre stata amica.”

Mentre Monet emetteva dei bassi gorgoglii di gola, Joy gli baciò il becco con un sorriso amaro dipinto sul volto.

“Colui che era chiamato il Disco Solare, era mio amico. Rah. Ai tempi in cui le piramidi si ergevano nel cielo del Leone, Rah e io fummo amici, compagni e amanti.”

Il leggero ansito di sorpresa di Melinda portò Joy a sollevare il viso per osservarla e, sorridendole comprensiva, le sfiorò una mano, comprensiva.

“La bruciatura di Alex è opera sua. Come il neo che ho sul fianco.”

“Ma cosa…” esalò Mel, prima di riprendere fiato, farsi aria in viso e riprendere a dire: “Cosa significa che… che Rah era tuo amico e amante?”

“Era una creatura divina come me, perciò potevamo condividere anche quell’aspetto della mia esistenza, senza che io non venissi meno al mio impegno con i mortali. Amare lui mi era concesso perché immortale, non legato direttamente alle sorti umane” le spiegò Joy, tornando ad accarezzare Monet.

Gli occhi ancora vagamente sgranati per la sorpresa ben più che manifesta che provava, Melinda mormorò: “E’ tutto così difficile da credere…”

“Lo so. Ma volevo che lo sapessi anche tu. Alex sa già tutto. Permise a Rah di utilizzare il suo corpo come canale di energia, per aiutarmi quando le Torri Gemelle crollarono. Il dolore provato da così tante persone, e in una volta sola, mi stava uccidendo e, senza l’aiuto di Rah, sarei morta. Poté proteggermi da tutto quel male assoluto solo grazie ad Alex” le spiegò succintamente Joy.

“Quel ragazzo ti ha sempre adorata…” sorrise spontaneamente Mel. “… ma non avrei mai pensato che potesse rischiare tanto, per te. Perché immagino abbia rischiato.”

“Sì” si limitò a dire Joy.

“Moooorrr-gan!” esclamò Monet, rialzando la cresta con vigore.

Scoppiando a ridere, Joy annuì al pennuto, aggiungendo: “Certo che anche Morgan ha rischiato il tutto e per tutto per me, Monet. Lo amo anche per questo.”

Mel sgranò di colpo gli occhi, a quelle parole e, fissando stupita la figlia, sussurrò: “Non è semplice amore, vero?”

Lei scosse il capo, tornando a sospirare afflitta e, strette un momento le mani a pugno, si impose di rilassare il proprio corpo.

Era inutile accumulare tossine e cattivi pensieri come stava facendo, ma era così difficile!

“Cresce dentro di me senza che io possa fermarlo, e ci ho provato! Non mi è mai successo, in tante vite che ho passato su questo mondo, e non so come comportarmi. Coscientemente, so che non posso dare l’amore esclusivo a una sola persona, ma non riesco a non amarlo in modo diverso.”

Scrutò disperata sua madre, la donna che l’aveva cresciuta, l’aveva accudita e protetta e, per un attimo, desiderò piangere.

“Per voi, provo l’amore altruistico che provo per tutti Certo, esso è più forte e più profondo, ma questo non mi impedisce di percepire il resto dei mortali. Se mi lascio andare con Morgan, tutto si annulla, e questo non dovrebbe succedere. Oltretutto, Rah non vuole darmi consiglio, e io non so che fare. Lui si è limitato a dirmi di seguire l’istinto. Come se fosse facile!”

Le ultime parole, quasi le sputò fuori, corrucciata, e Mel, ritrovandosi a sorridere nonostante tutto, le disse: “E’ quasi un sollievo vederti sospirare per un uomo, come farebbe qualsiasi altra giovane della tua età.”

“Peccato che io non lo sia” mugugnò Joy, poggiando il capo alla spalla della madre. “Faccio male a permettergli di stare qui con me?”

“Tu come ti senti, quando stai con lui?” le chiese allora Mel.

“Felice” mormorò Joy.

“E lui, con te?”

“Felice” ripeté Joy, sollevandosi per guardarla con aria vagamente confusa.

“Io direi che, per ora, può bastare. Il mondo non è esploso, non ci sono cataclismi in arrivo e, per quel che ne so, la faglia di Sant’Andrea non ha in previsione di esplodere. Quindi, ciò che stai facendo, non sta sbilanciando nessun equilibrio cosmico, o che so io” motteggiò Mel, stringendola in un abbraccio affettuoso. “Vivi giorno per giorno, e sono sicura che le risposte arriveranno.”

Annuendo, Joy si arrischiò a dirle: “Vorrei fare l’amore con lui.”

“E’ una buona cosa” ammise Mel. “Devo andare in farmacia?”

Joy esplose in una risata di gola, che portò Monet a sobbalzare sul tavolo prima di nascondere il capo sotto l’ala.

Dandole un buffetto sulla guancia, Mel borbottò divertita: “Insomma, giusto per stare tranquille.”

“Oh, mamma, ti voglio tanto bene!” esclamò Joy, dandole un bacio sulla guancia.

“Ti voglio bene anch’io, tesoro” asserì la donna, chiedendole maliziosamente subito dopo: “Com’è fare l’amore con un dio?”

A Joy non restò altro che scoppiare nuovamente a ridere. Sì, era felice, davvero felice.
 
***

L’acqua era fredda al punto giusto e, gettandosela sul viso per schiarirsi le idee, Morgan mugugnò nel sentirsela scivolare lungo la gola, giù in mezzo al torace.

La mattinata era stata calma e, con Nat e Scott, si era potuto prendere cura dei mezzi che avevano bisogno di un po’ di manutenzione.

In quel momento, però, nella solitudine del bagno della caserma, intento a specchiarsi alla luce diafana dei neon, si sentì come se avesse scalato l’Everest.

Era distrutto, e sapeva benissimo il perché.

L’idea di andare a vivere in pianta stabile da Joy, finché lei non si fosse rimessa completamente, era stata sua, perciò lui non aveva nulla da recriminarle.

Inoltre, Joy era stata così carina da invitarlo nel suo letto, per permettergli di riposare più agevolmente.

Stoico in un modo quasi assurdo, era stato lui ad aver rifiutato, comportandosi da compito damerino quale non si sentiva affatto, in quel momento.

Perché era inutile girarci intorno. Il problema era uno, e uno solo.

Averla accanto a ogni ora del giorno, sette giorni su sette, era sfiancante per i suoi nervi e per il suo autocontrollo.

La voleva con una disperazione che poteva quasi toccare con mano, e non poteva farci proprio nulla.

Le sue notti passavano praticamente insonni, sapendola a pochi metri da lui, protetta solo dalle lenzuola e dal suo buonsenso che però, ormai, era agli sgoccioli.

“Non puoi andare avanti ancora per molto, ragazzo.”

Quella voce, sgorgata all’improvviso dalla bocca di Nathan, lo colse di sorpresa e, sobbalzando nel voltarsi a mezzo, esclamò: “Dio Santissimo, Nat! Avverti, se non vuoi vedermi morire qui all’istante!”

“La rianimazione polmonare non te la faccio, ragazzo” ci tenne a dire Nat, dandogli una pacca sulla spalla prima di aprire il rubinetto dell’acqua.

“Grazie” sibilò stizzito Morgan.

Risciacquandosi le mani con abbondante sapone liquido, Nat scrutò pensieroso l’espressione contratta e le occhiaie evidenti  sul volto dell’amico.

“E’ evidente che qualcosa ti turba, e ho quasi la certezza che c’entri la tua dottoressa. Vuoi parlarne?”

“Sei diventato Cynthia, e non me ne sono accorto?” lo rabberciò caustico Morgan, scuotendo il capo un attimo dopo, per poi scusarsi. “Sono un idiota. Tu non c’entri nulla con il mio malumore, e non è giusto che lo sfoghi su di te.”

“Se vuoi prenderti qualche giorno di ferie, per me puoi farlo. Hai un sacco di ore in arretrato” gli propose Nathan.

“No, al momento sarebbe peggio. Già adesso, stare con lei è un dramma. Se avessi più tempo libero, impazzirei” scosse con veemenza il capo Morgan.

Sollevando un sopracciglio con aria curiosa, Nat gli domandò: “E’ una strega?”

“Affatto. E’ dolcissima, e adora Monet. Ma…”

Imprecando, Morgan si passò una mano tra i corti capelli ed esalò: “…vorrei infilarmi nel suo letto, ma mi sentirei un mostro a farlo, proprio ora che è così vulnerabile.”

“Non mi è parsa molto vulnerabile, quando la siamo andati a ripescare tra le macerie.”

Nel dirlo, sogghignò.

“Già, Joy ci starebbe a rimetterci la vita, piuttosto che far rischiare ad altri la propria” ammise Morgan, con un sorrisetto orgoglioso. “Ha l’anima del pompiere.”

“Troppo piccola, non andrebbe bene” scosse il capo Nat, ghignante.

Un lungo, lento sospiro fuoriuscì dalle labbra carnose di Morgan, mentre le sue mani si poggiavano sul lavabo, sostenendolo.

I muscoli tremarono per il nervosismo a stento trattenuto e, con voce flebile, il giovane mormorò: “Mi ha anche chiesto di dividere il letto, perché potessi dormire meglio, ma… come avrei fatto a non saltarle addosso, se l’avessi avuta lì accanto, tutta calda e profumata?”

“Okay, ora non scendere nei particolari. Mia moglie è a Portland, al momento, perciò non ho bisogno di arrivare a casa frustrato e inappagato” brontolò Nat. “Però, scusa, se è stata lei a proportelo, perché hai detto di no?”

“Perché me l’ha detto per essere gentile, non perché volesse farlo. Inoltre, avrei una paura folle di farle male alla gamba” sbottò Morgan, ormai ai limiti della follia.

“Gliel’hai chiesto?” buttò lì Nat, sorprendendolo.

“No!” esclamò Morgan, scioccato a morte.

Fissandolo con aria vagamente accigliata, Nathan lo spinse fuori dal bagno e ringhiò: “Per oggi, hai finito. Fila a casa e chiarisciti con la tua donna una volta per tutte, se vuoi rimettere piede qui dentro.”

“Ma, Nat!” esclamò Morgan, facendo resistenza.

“Manca solo un’ora alla fine del turno, vedrai che non succederà nulla e, se proprio dovesse scoppiare il finimondo, ti chiamerò, va bene? Ma ora fila via più veloce della luce, se non vuoi che ti tiri dietro un martinetto!” lo ingiuriò Nat, trattenendosi a stento dal ridere.

“E va bene, ma piantala di spingere!” ridacchiò Morgan, uscendo nel cortile prima di ritrovarsi la luce del sole negli occhi.

Marzo era alle porte;  quel giorno, l’aria era frizzante, ma non particolarmente fredda.

Solo una lieve brezza trasportava il profumo dei pini e degli abeti sitka, non lontani dalla cittadina di Lincoln City.

Affiancando il giovane collega, Nat tornò serio e dichiarò: “Rischi di farti male, se non hai la mente sgombra, e lo sai. E tu non vuoi che lei soffra per te, vero?”

“Questa era sporca, capo” mormorò Morgan, prima di andarsene a grandi passi verso l’appartamento di Joy.

Non sapeva ancora esattamente cosa dirle, come affrontare l’argomento, ma Nat aveva ragione.

Stava impazzendo e, se non chiariva le cose con Joy, avrebbe sicuramente combinato un casino nel momento meno opportuno.

Muovendosi lesto lungo il marciapiede, dove tracce residue di neve stavano ormai sciogliendosi lungo il selciato, Morgan arrivò ben presto nel cortile antistante il palazzo.

Lì, sorrise a mezzo e fissò la Camaro della ragazza, coperta da un telo protettivo.

Se non ricordava male, aveva un appuntamento dal meccanico per il cambio dell’olio e dei filtri.

Avrebbe dovuto dare un’occhiata al calendario, per esserne certo.

Fatte le scale a due a due, Morgan estrasse la chiave per aprire la porta blindata.

Non appena entrò nell’appartamento, però, si bloccò a metà di un passo, invaso dal profumo dolcissimo e inebriante della torta ai mirtilli di Joy.

Lei, seduta sulla sua seggiola da ufficio con le rotelle, stava armeggiando accanto al forno con la stessa attenzione di un medico durante un intervento a cuore aperto.

Non volendo disturbarla o spaventarla, Morgan la osservò mentre, con perizia, estraeva la teglia, le mani infilate nei guanti imbottiti.

Lo guardo accigliato e la punta della lingua infilata tra le labbra, segno primo della sua grande concentrazione, Joy poggiò con cura la teglia rotonda sul piano di lavoro della cucina.

Fatto ciò, si spinse con il piede buono per dirigersi verso la credenza ma, nel farlo, incrociò lo sguardo di Morgan e si bloccò.

La bocca lievemente spalancata per la sorpresa, Joy se ne stette immobile per alcuni attimi, prima di esalare uno sconcertato: “Sei già qui?!”

Morgan scoppiò a ridere di gusto, chiudendosi la porta alle spalle e gettando la sua sacca da lavoro contro lo schienale del divano.

A grandi passi, la raggiunse in cucina e le chiese divertito: “Ho rovinato i tuoi piani?”

Annuendo come una bambina, Joy mugugnò: “Contavo di farti trovare la cena pronta in tavola, e il tuo dolce preferito con un bel fiocco sopra, ma mi hai rovinato tutto.”

“Oh, perdonami, piccola. Farò finta di non aver visto nulla” mormorò il giovane, piegandosi su di lei per darle un affettuoso bacio sulla fronte.

Come poteva pensare al sesso, quando Joy lo stupiva con gesti simili? Era davvero da malati in testa.

“Sarà difficile, visto che hai la vista ottima…” replicò lei, pur sorridendo. “…ma posso vederla dal lato positivo. Puoi darmi una mano a finire.”

“Questo, lo faccio volentieri. Cosa posso fare?” le domandò, già rimboccandosi le maniche.

Preso un gran respiro, Joy si levò dalla sedia tenendosi sul piede buono.

Sotto gli occhi sorpresi e sgomenti di Morgan, lo avvolse con le braccia per poi poggiare il capo contro il suo torace, dove il suo cuore martellava come un tamburo impazzito.

Trattenendo il fiato, non sapendo bene cosa fare, o come comportarsi, Morgan sgranò gli occhi non appena le sentì dire in un soffio: “Vorrei indossare un abito particolare, stasera, e avrei bisogno del tuo aiuto.”

Stretti i denti con forza, Morgan si impose di scostarla da sé e, facendola nuovamente accomodare sulla sedia, mormorò con voce resa roca dal desiderio a stento trattenuto: “Non chiedermi questo, te ne prego.”

“Morgan, guardami.”

Il suo tono fu così imperioso che il giovane non poté che eseguire l’ordine all’istante.

Quelle calde profondità smeraldine non contenevano inganni, solo amore.

Sì, amore.

Quel tipo di amore che, per tanti anni, aveva voluto scorgere nel suo sguardo, sul suo viso, nei suoi sorrisi.

Pur gioendo di quella vista, non riuscì a goderne appieno perché frenato dalle condizioni di salute di Joy e, soprattutto, dalla loro attuale situazione.

Lui l’aveva salvata dalla morte.

Chi poteva garantirgli che, quel sentimento, non fosse nato dalla gratitudine provata nei suoi confronti?

Nessuno poteva smentirlo ma, a quelle condizioni, non l’avrebbe mai accettato.

Non voleva Joy a quel modo.

Afferrate le mani del giovane, ancora strette a pugno e tremanti, Joy vi infilò a forza le proprie dita per intrecciarle alle sue.

Parlando con voce calma, suadente, calda come morbido velluto, mormorò: “Desidero stare con te, e non perché mi hai salvata. L’ho desiderato fin dal primo giorno in cui ti ho visto, su quello scoglio, illuminato dal sole e bello come un dio. Ti ho voluto quando mi hai baciata per la prima volta, quasi per gioco, o per dimostrarmi che ero ormai persa. Ti ho voluto su quell’aereo, quando tentasti di ricucire le distanze tra di noi. Ti ho voluto sempre, pur non potendo, pur venendo meno a tutti i miei precetti. E ti voglio adesso, qui, e non accetterò un no come risposta.”

A Morgan sfuggì una risatina nervosa, cui seguì un laconico: “Alla faccia della dichiarazione diretta.”

Anche Joy ridacchiò e, dopo essersi portata alle labbra le mani di Morgan, chiuse gli occhi e, in un sussurro appena udibile, disse: “Io ti amo.”

La ragazza non seppe bene cosa aspettarsi.

Aveva tremato fino all’ultimo istante, prima di dire quelle fatidiche parole, forse temendo che le cateratte del cielo si aprissero, o l’Armageddon avesse inizio.

Nulla successe, invece, nessun fulmine a ciel sereno, nessuna piaga biblica. Nulla.

Joy riaprì gli occhi, quasi per sincerarsi di non essersi sbagliata.

Guardandosi furtivamente intorno, non notò nulla di strano, né rumori sospetti, solo il suo cuore che batteva all’unisono con quello di Morgan.

Morgan che, ancora stordito dalle sue parole, non poté far altro che sollevarla di peso dalle sedia e stringerla in un abbraccio stritolante.

Subito dopo, improvvisò qualche passo di danza, rischiando di sbattere contro il tavolo per la sua troppa esuberanza.

Joy, a quel punto, rise di pura gioia, stringendogli le braccia al collo.

Fu lieta di non aver causato un danno enorme, lieta di aver dato ascolto al suo cuore e lieta di averlo reso felice come mai, prima di allora, lo aveva visto.

Ancora ridente e gioioso, Morgan la poggiò sul muretto divisorio che separava la cucina dal salotto.

Carezzandole il viso più e più volte, come a volersi sincerare che lei fosse veramente lì, le baciò con tenerezza le labbra prima di sussurrare: “Sei sicura, assolutamente sicura di volerlo?”

Con un semplice cenno di assenso, Joy si limitò a dire: “Ti amo, ed è giusto così.”

“Allora, posso aspettare” sentenziò lui, sconvolgendola a morte.

“Cosa?!” esclamò Joy, facendo tanto d’occhi.

Scoppiando a ridere di fronte alla sua espressione allibita, Morgan celiò divertito: “Sei davvero buffa, ora, Joy. Hai una faccia…”

“Ma… Morgan, ti ho detto che…” mugugnò lei, prima di venire zittita da un bacio.

“So cosa mi hai detto, e ti ringrazio, ma ora che so con assoluta certezza che mi ami, posso aspettare che quel maledetto affare sparisca. Quando faremo l’amore, piccola, non voglio ostacoli di sorta, perché desidero che tu apprezzi tutto ciò che faremo assieme” le sussurrò sulle labbra, sorridendo malizioso.

Poggiate la mani sulle sue spalle, Joy lo fissò nei profondi e scuri occhi di pece prima di mormorare: “Hai qualche idea specifica in mente?”

Maliziosamente, Morgan le passò le labbra lungo il contorno del viso, soffiando aria calda sulla sua pelle sensibile prima di giungere al suo orecchio, sussurrandole tutto ciò che aveva in mente di fare.

Joy non poté far altro che scoppiare a ridere e abbracciarlo con forza, desiderando che quel momento non finisse mai.

“Sei felice, mia Fenice?”

“Come poche altre volte lo sono stata, amico mio” assentì Joy, lasciando che Morgan la facesse nuovamente sedere sulla sedia.

“E per quanto sarai felice?”

“Fin quando potrò, è ovvio. Ma ora non voglio pensarci, desidero vivere il momento.”

Non voleva pensare all’istante in cui, obbligatoriamente, avrebbe dovuto abbandonare Morgan per sempre.

Desiderava godere appieno di quei momenti senza dover pensare al Fato che, inevitabilmente, li avrebbe visti separarsi per l’eternità.

Un lento sospiro giunse alla mente di Joy mentre, come una folata di vento, la presenza di Rah svaniva senza dare alcuna risposta al suo dire.

Cosa si era aspettato di sentire, da lei?



 
 
***



 
Provai più volte a contattare Rah, quella notte, mentre Morgan – finalmente più tranquillo – riposava nel letto accanto a me, stringendomi tra le sue forti braccia e inondandomi con il suo amore.

Rah non rispose mai, neppure una volta, né diede segno di avermi udita.

Sulle prime, mi infuriai parecchio.

Solo in seguito iniziai a chiedermi cosa, nel mio comportamento, o nelle mie risposte, potesse averlo angustiato a tal punto da renderlo sordo e cieco ai miei appelli.

Sapevo che non era geloso di Morgan; aveva sempre creduto che la mia reticenza a farlo avvicinare fosse stata stupida.

Il mio cedimento, quindi, non avrebbe potuto che fargli piacere.

Qual era, dunque, il dilemma che lo arrovellava, e che lo teneva lontano da me?

Quando il sonno mi prese, anche i miei pensieri errabondi ebbero un momento di requie.

La mattina seguente, svegliandomi accanto a Morgan, il volto poggiato contro la sua pelle calda, sorrisi e lo baciai, trovando del tutto naturale averlo lì al mio fianco.

Il suo Fato era legato al mio in quel modo così inconsueto?

 Chi poteva dirlo? Per il momento, andava bene così.

 

 
 

Note: Spero che, fino a ora, la storia vi abbia appassionato e tenuti/e incollati/e allo schermo. Se avete domande o chiarimenti, o volete anche soltanto lasciare un commento, io sono a vostra disposizione. Grazie per avermi seguita fino a qui!

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Capitolo 26
*** cap. 26 ***


 
26.
 
 
 
 
 
Il gesso mi fu tolto i primi giorni di marzo, in concomitanza con una delle più brutte nevicate degli ultimi anni.

Scherzando, Morgan mi disse che persino la Natura si rifiutava di rivedermi in piedi così presto.

Rientrare al Samaritan come degente fu una cosa strana, e divertente, al tempo stesso.

Il giorno in cui misi piede nella palestra per la riabilitazione – dopo aver ammirato affascinata i lavori di consolidamento della struttura principale dell’ospedale – mi ritrovai a fissare commossa i festoni appesi alle pareti.

Dottori e degenti mi accolsero con abbracci e sorrisi, oltre che con battute di spirito e prese in giro.

Ero mancata loro più di quanto le parole non potessero dire, e questo mi riempì il cuore di una commozione così forte e profonda che, solo a stento, non scoppiai a piangere.

Molte vite, molti volti e molti luoghi avevo visto, toccato e conosciuto eppure mai, come in quel momento, mi sentii parte di un tutto.

Non ero isolata, potente e intoccabile come ero stata nelle altre vite.

Ero parte di quel mondo, fusa assieme a loro come i tanti componenti di una lega metallica, indissolubilmente uniti nell’intento di creare qualcosa di nuovo, di diverso.

Seguita dall’intero staff e da alcuni dei pazienti più legati a me, iniziai subito le cure riabilitative.

Furono quell’appoggio incondizionato e quell’affetto sincero, che non mi fecero perdere la testa, di fronte ai miei progressi lenti e mutevoli.

Mantenere un basso profilo, e non cedere alla tentazione di mutare in Fenice, fu una vera impresa ma, soprattutto, lo fu comprendere le intenzioni di Morgan.

Fin da quando avevo tolto il gesso, avevo dato per scontato che io e lui avremmo veramente condiviso il letto, e non solo dormito assieme.

Lui, però, non aveva mai neppure tentato di approcciare l’argomento, da quando ci eravamo chiariti sui nostri rispettivi sentimenti.

La cosa non poteva che confondermi e, in qualche modo, impensierirmi. Che diavolo aveva in mente?

Sapevo di piacergli ancora – leggere i suoi sentimenti era facile come vederli scritti in bella mostra su un cartellone pubblicitario – eppure, qualcosa lo frenava.

Tutte le volte che pensava non lo guardassi, inoltre, sogghignava.

Avevo il dubbio sempre più crescente che stesse nascondendomi qualcosa di grosso.

 

 
 
***



 
Tenendosi alle parallele mentre, con passo cauto, i piedi avanzavano l’uno davanti all’altro, Joy sbuffò stancamente quando raggiunse l’infermiera Meggy Perkins.

Con una smorfia, le chiese: “Hai recuperato le cartelle di Bethany?”

Sorridendo divertita – stava ristabilendosi e, al tempo stesso, seguendo i pazienti in riabilitazione – l’infermiera assentì, porgendole il plico.

Il dottor Greyson, suo nuovo supervisore, dopo averla guardata attentamente per un paio di minuti, aveva accettato di lasciarla lavorare.

Questo, però, non l’aveva esonerato dal prenderla bonariamente in giro, scatenendo spesso in Joy alternati moti di riso e di rabbia.

“Riduzione dell’ematoma del venticinque percento, gonfiore del tutto scomparso e punti perfettamente saldati. Il recupero sta procedendo ottimamente” mormorò infine l’infermiera, sorridendole.

Joy annuì, reggendosi alle parallele con una mano, mentre l’altra reggeva la cartella.

Non appena lesse del rifiuto di procedere con ulteriori sessioni di fisioterapia, però, aggrottò la fronte e, picchiettando il dito sul quel punto, chiese: “Ha spiegato perché non vuole proseguire?”

Il sorriso dell’infermiera scemò fino a svanire dietro una maschera di dubbio e, calando volutamente la voce, mormorò: “Non voglio attribuire colpe a nessuno, dottoressa, ma il marito non è parso per nulla d’accordo nel volerla portare ulteriormente qui, dopo l’ultima visita. Dice che può benissimo recuperare a casa e che, quello che facciamo al Samaritan, lo può replicare tranquillamente tra le pareti domestiche.”

Accigliandosi ulteriormente, Joy scosse il capo, indispettita.

“Dubito fortemente che sappia riconoscere un’aderenza, o che possa sistemare il ginocchio di sua moglie allo stesso modo in cui potremmo farlo qui. Fammi un favore, Meggy. Controlla se ci sono dei precedenti ricoveri che possano sembrarti sospetti e, se ne trovi, chiamami.”

“Molto bene, dottoressa” annuì la donna, scivolando via veloce con la cartella di Bethany Simpson tra le mani.

Avvicinandosi alla propria tirocinante – e paziente – , il dottor Greyson le diede una pacca sulla spalla prima di chiederle: “Problemi?”

Sollevato il viso a scrutare l’alto afroamericano dai capelli ricci che le incombeva accanto, Joy sorrise e scosse il capo, limitandosi a dire: “Un controllo. Per scrupolo.”

“Il caso Simpson?” ipotizzò il dottore, invitando la giovane a sedersi sulla sedia a rotelle.

Dopo essersi accomodata, si vide sospingere verso il leg press1 orizzontale da Greyson.

Non potendo far altro che parlare, gli espose il suo dubbio.

“Un legamento crociato rotto non è sintomo di un abuso domestico, ma la fretta del marito può esserne un sintomo, così ho chiesto a Meggy di fare un controllo.”

Annuendo, Robert Greyson sistemò cinque chili sulla pressa, prima di aiutare Joy a sedersi sul sedile della macchina.

“Mi è parso strano che volesse riportarla a casa così di corsa ma, visto che il caso era tuo, non ho ficcato il naso più del necessario. Hai fatto bene a chiedere un controllo.”

“Se dovesse risultare qualcosa di anomalo, come faremo a darle  una mano?” si informò Joy, vagamente preoccupata.

Controllato che i piedi di Joy fossero al posto giusto sulla pedana di spinta, Robert la pregò di iniziare i piegamenti.

La giovane, obbedendo scrupolosa, iniziò i suoi esercizi mentre il dottore mormorava pensieroso: “Qualcosa troveremo. Inoltre, so dove lavora suo marito, e posso fare in modo di trattenerlo il tempo necessario per fare ricoverare la moglie, se proprio si dovesse arrivare a questo.”

Sollevando un sopracciglio con evidente sorpresa, Joy esalò: “Userà tutta la sua influenza, dottore?”

Robert sogghignò beffardo, ammiccando al suo indirizzo.

“Essere il figlio di un senatore, ogni tanto, serve a qualcosa. Diciamo che, se proprio dovessi arrivare a tanto, stiracchierò un po’ la legge.”

Facendo tanto d’occhi, Joy se ne uscì con un falsamente scandalizzato: “Cielo! Non voglio saperne nulla! Mi tenga all’oscuro di tutto! Dopotutto, sono la figlia dello sceriffo!”

L’uomo scoppiò a ridere, le diede una pacca sulla spalla e la lasciò ai suoi esercizi mentre Joy, speranzosa, pregò con tutto il cuore di sbagliarsi, di aver preso solo un abbaglio.
 
***

L’officina di William Cosworth era più linda di una sala operatoria.

Quando Morgan vi giunse portandovi la Camaro di Joy per il cambio dell’olio, il giovane la ammirò con sguardo affascinato quanto interessato.

Sorrise spontaneamente, quando un uomo magro e dai chiari capelli castani gli venne incontro, tergendosi le mani in uno straccio.

Allungata la mano per presentarsi, Morgan disse lesto: “Signor Cosworth, devo farle i miei complimenti. La sua officina è uno specchio.”

Un ghigno orgoglioso salì al volto dell’uomo, prima che la sua curiosità prendesse il sopravvento.

“Conosco quel gioiellino con cui è arrivato e, a meno che la sua padrona non gliel’abbia venduta, mi chiedo come mai stesse guidando l’auto di Joy.”

Infilate le mani nelle tasche dei jeans, Morgan si espresse con totale tranquillità, sapendo bene che quell’uomo era un vecchio amico di famiglia di Joy.

Non c’era motivo di girare intorno alla verità.

“Sono il suo ragazzo. Ora, lei è all’ospedale per la riabilitazione, io ho la giornata libera, e così…”

Un sopracciglio si arcuò in segno di enorme sorpresa e, dopo averlo squadrato da capo a piedi per alcuni istanti, William rise e chiosò: “Fortuna tua, ragazzo. Quella bimba è un angelo.”

“Concordo in pieno” ammiccò Morgan, sorridendo compiaciuto.

Gli faceva piacere che gli amici di Joy approvassero la loro relazione.

Forse era sciocco, ma avere il loro benestare era importante, per lui.

“Come sta quella Chevy?” si informò allora William, dirigendosi verso la Camaro scintillante e lucida come uno specchio.

“Canta come un usignolo, ma Joy mi ha detto che ormai era tempo di cambio filtri e olio, così ho provveduto a portargliela” gli spiegò Morgan.

Ammiccando all’indirizzo del cofano, dove si potevano intravedere sottili fiamme color antracite e argento, William gli domandò: “Ha dato un’occhiata a quel che c’è sotto?”

Scoppiando a ridere, Morgan annuì e sospirò deliziato.

“Joy mi ha insultato dalla finestra del suo appartamento, perché non volevo scollarmi dal motore di questa Camaro. E’ un autentico spettacolo!”

Compiaciuto dal suo dire, William aprì la portiera per raggiungere la leva dello sblocco per il cofano.

Dopo averlo sollevato con un leggero sibilo, agganciò il fermo nell’apposito foro e scrutò ammirato il blocco motore perfettamente pulito.

Con mano leggera, sfiorò la barra antitorsione color ciliegia prima di mormorare: “Ricordo ancora quando Joy venne qui con il catalogo in mano, mostrandomi ciò che voleva. Scoppiai a ridere come un matto, prima di vederla mettere il broncio e impuntarsi perché gliela montassi.”

Ridendo sommessamente, Morgan domandò: “Una fanatica?”

“Puoi dirlo, ragazzo” ammiccò William. “Posso darti del tu, vero?”

“Mi offenderei del contrario” ci tenne a dire Morgan.

“Andata anche per me, allora” sentenziò William, aggiungendo subito dopo. “La barra è stata la prima cosa. Subito dopo, ha voluto cambiare il filtro dell’aria e le valvole di aspirazione.”

“Mi sto eccitando al solo pensiero” sussurrò Morgan, socchiudendo gli occhi.

William rise di gusto, dandogli una pacca sulla spalla ed esclamando: “Con una donna che sa di motori? Mi ecciterei anch’io!”

“Non capisce un accidenti di football, purtroppo…” sospirò sconsolato Morgan. “… ma, per lo meno, è una campionessa nell’hockey, quindi mi accontento.”

“Non si può avere tutto nella vita” asserì William. “Se hai tempo di aspettare un paio d’ore, sistemo questa vecchia Ford e sono subito da te.”

Guardandosi intorno per un momento, Morgan adocchiò il reparto gomme e dichiarò: “Vado a fare un giretto di là.”

“Ottima scelta” sogghignò William, tornando al lavoro.
 
***

Seduta al leg curl2 , tra le mani otto cartelle cliniche diverse ma con evidenti somiglianze, Joy aggrottò la fronte al pari del dottor Greyson.

“O soffre del più grave caso di labirintite3 che io abbia mai visto, o questa donna è stata fatta cadere intenzionalmente, o picchiata.”

Masticando un’imprecazione tra i denti, Greyson ringhiò indispettito: “Ecco cosa succede a tagliare sulle spese sanitarie. Il pronto soccorso ha così tanto da fare, e i dottori sono così oberati di lavoro, che cose del genere non vengono neppure notate.”

“E, quando arrivano da noi, ci fidiamo delle loro precedenti diagnosi, senza badare a possibili dimenticanze” sospirò Joy, scuotendo il capo.

“Per questo, con Cynthia, abbiamo voluto rendere più sinergici i nostri reparti. Ma temo non basti ancora. Sfuggono ancora troppi casi, tra le maglie del nostro controllo” mormorò stizzito Greyson.

“Come la chiamiamo all’ospedale, per un consulto con i servizi sociali?” gli chiese a quel punto Joy.

“Io vado a fare un paio di telefonate. Tu senti tuo cugino” le propose lui, allontanandosi poi a grandi passi, il bianco camice svolazzante alle sue spalle.

“Problemi, Doc?” si informò Grant, avvicinandosi con passo lesto. Il suo controllo sulla protesi era migliorato tantissimo.

“Guai che vorrei far risolvere a un branco di marines, se si potesse” ghignò amaramente lei, mentre digitava il numero di Alex sul cellulare.

Curioso, Grant si accomodò sul tappetino a fianco del leg curl, e attese di comprendere i motivi di una frase simile.

“Tesoro, ciao! Tutto bene?” esordì Alex, al telefono.

Sorridendo spontaneamente, Joy lo salutò prima di esporgli il suo problema e Alex, tornato subito serio, mugugnò irritato: “Certe persone starebbero prese e buttate in una galera senza processo.”

“Un avvocato che dice una cosa simile?” mormorò lei, pur sentendosi esattamente come lui.

Detestava quel genere di eventi e, purtroppo, gliene erano capitati davvero troppi sotto mano.

Mentre Grant si accigliava a sua volta, adombrandosi in viso, Alex le disse: “Legalmente, se la donna non denuncia il marito, non c’è molto che si possa fare, a meno di non coglierlo sul fatto. Immagino che la donna non si sia mai sognata di parlare con la polizia, vero?”

“Purtroppo no. Pensiamo di chiamarla qui per parlarle a quattr’occhi e, nel contempo, tener lontano il marito, ma non so se funzionerà.”

Nel dirlo, sospirò malinconica. A volte, le persone non volevano proprio essere aiutate.

Un identico sospiro fuoriuscì dalle labbra di Alex, che replicò: “Mi spiace non poterti dire nulla di più ma, se riuscite a incastrarlo, io posso sbatterlo dentro per un bel po’.”

“Vedremo cosa riusciremo a fare. Grazie, Alex” sussurrò lei, terminando la frase con un grugnito.

“Riguardati, Leen. Un bacio!”

“Anche a te” mormorò prima di chiudere la comunicazione e guardare Grant in viso.

Era paonazzo di rabbia.

“Desiderio di imbracciare un AK-474?”

“Magari” ringhiò Grant, rimettendosi in piedi con sufficiente grazia.

Sorridendo compiaciuta, Joy gli disse: “La tua abilità motoria è strabiliante. La protesi va bene, vero?”

Con un risolino, Grant la guardò con uno sguardo carico di sincero affetto e mormorò: “Sei qui per curarti dopo una bruttissima esperienza, ma pensi sempre prima di tutto a noi. Chi ti manda, Doc? Dio?”

“Forse” ridacchiò lei, scrollando le spalle.

“Esistono poche persone così altruiste, e tu sei tra queste” la omaggiò Grant prima di poggiare il peso sulla protesi e ammettere: “Me la sento bene. Il moncherino è  un po’ rosso, la sera, ma è normale, o così mi hanno detto.”

Annuendo, Joy confermò la diagnosi degli altri dottori e Grant, continuando a parlare, andò più sul personale.

“Anche gli incubi sono spariti, o quasi. Subito, non pensavo potesse servirmi l’aiuto di uno strizzacervelli. Credevo di essere superiore a queste cose, invece… invece, parlare mi ha fatto bene.”

“Credo che potresti tornare al servizio attivo già tra sei mesi o un anno, se tu lo volessi” lo informò lei, infilando la gamba sotto l’imbottitura della leva per il sollevamento dei pesi.

Aiutatala a sistemare un peso leggero per la gamba – su cui spiccava rosea la cicatrice dove le ossa erano fuoriuscite dalla carne – Grant annuì e le spiegò ciò che aveva intenzione di fare.

“Penso di tornare alla base di San Francisco, una volta terminata la riabilitazione qui. E credo che farò domanda per l’Afghanistan.”

“Ti auguro di riuscire in ciò che credi, allora” gli mormorò sinceramente, digrignando i denti nel riprendere i suoi esercizi. “Maledetta gamba!”

Grant scoppiò a ridere sommessamente, fissato subito malamente da Joy che, a fatica, proseguiva con i suoi allenamenti.

Suadente, il militare chiosò: “E’ divertente vederti dall’altra parte della barricata, Doc.”

“Ah-ah. Davvero spiritoso” brontolò Joy, prima di notare il ritorno frettoloso del dottor Greyson.

Continuando nei suoi esercizi, Joy lo fissò con un’aspettativa negli occhi più che evidente e Robert, dopo essersi fermato accanto a lei e Grant, la informò di ciò che era riuscito a fare.

“Ho convinto Mrs Simpson a venire qui per una visita di controllo, spiegandole che abbiamo ricontrollato le sue lastre, e abbiamo avuto il sospetto vi fosse un frammento d’osso distaccatosi dalla rotula.”

“Frammento… d’osso?” esalò Joy, sgranando gli occhi.

“Ehi, andiamo, non sapevo che altro dirle di abbastanza preoccupante da spingerla a tornare” si lagnò Robert, sollevando in aria le mani con fare impotente.

“Vabbeh, lasciamo stare. Ha detto che verrà?” si informò allora Joy, lasciando perdere il resto.

“Le ho detto che avrebbe dovuto venire qui subito, perché il frammento avrebbe potuto rompere un vaso sanguigno, nel muoversi, formando così un’emorragia interna. Mrs Simpson mi ha assicurato che sarebbe arrivata in taxi nel giro di un’ora al massimo” le spiegò Robert.

Sempre più scettica, Joy mormorò: “La prossima volta, la telefonata la faccio io, e lei sente l’avvocato. Non sa raccontare balle.”

Robert la fissò malissimo, mentre Grant sghignazzava divertito.

“Sarà il caso che rimani nei paraggi, caso mai si presentasse anche il marito. Purtroppo, era già uscito dal lavoro, perciò non impiegherà molto a scoprire che sua moglie non è a casa” brontolò Robert, fissando pensieroso Grant.

“Meglio chiamare anche mio padre e un paio di guardie di sicurezza” si affrettò a dire Joy, afferrando nuovamente il cellulare.

Dopo due squilli, disse: “Ciao, papà. Posso disturbarti?”

“Per te ci sono sempre, piccola. Dimmi.”

“Potresti venire qui con un paio di colleghi… in borghese?” gli domandò, mentre Robert correva al telefono interno dell’ospedale per farsi inviare  un paio di uomini della sicurezza.

Subito professionale, Richard le chiese: “E’ successo qualcosa?”

“Potrebbe succedere qualcosa, e vogliamo testimoni con il distintivo” gli spiegò succintamente Joy.

“Saremo da voi nel giro di un quarto d’ora” dichiarò sintetico Richard, buttando giù il telefono.

Con un sospiro, Joy tornò a fissare Grant, che appariva in pensiero non meno di lei ed esalò: “Speriamo vada tutto bene.”
 
***

Riconsegnate le chiavi a Morgan, William diede un’ultima occhiata alla Camaro prima di sorridere al suo autista.

“Casomai Joy volesse qualche altra modifica, non ha che da chiamarmi. In settimana, dovrebbe arrivarmi il nuovo catalogo dei pomelli per il cambio, quindi…”

Con un risolino ironico, Morgan esalò: “Basta che non le monti un teschio con gli occhi di rubino.”

“Mi asterrò” promise William. “Salutamela.”

“Garantito. E grazie per l’auto. Sei stato velocissimo” ammiccò Morgan, prima di salire sull’auto e dirigersi al Samaritan.

Per quell’ora, Joy avrebbe dovuto essere già pronta per tornare a casa, e lui aveva una mezza idea di portarla fuori a cena.

Allegro e pimpante, ingranò la marcia e ascoltò con piacere il motore rombare come una tigre, mentre accelerava lungo la Highway, rimanendo incollata a terra come se fosse stata sulle rotaie.

Quell’auto era davvero assettata a meraviglia.

Gli occorsero solo pochi minuti per uscire dal traffico congestionato della strada, per buttarsi sulla Southeast Devil’s Lake Road.

Non appena raggiunse il filare di abeti che delimitava il parcheggio del Centro di Riabilitazione, si mise d’impegno per trovare un posto per la Camaro.

Nel posteggiare l’auto, però, notò a sorpresa l’auto di Richard e, curioso, si chiese se l’uomo fosse venuto a far visita alla figlia.

Controllando l’orologio, la sorpresa aumentò a dismisura: era orario di lavoro, per lui.

Perché era qui, allora?

Leggermente accigliato, Morgan si affrettò a scendere dall’auto.

Dopo averla chiusa a chiave, oltrepassò la strada di corsa e si avviò a passo lesto verso l’entrata, cominciando a fremere d’impazienza e ansia assieme.

Che fosse successo qualcosa?

Se Joy si fosse sentita male, l’avrebbe sicuramente avvertito o, almeno, così sperava.

Quel che trovò alla sua entrata nella palestra, però, lo sconcertò a tal punto da bloccare i suoi passi nel bel mezzo delle porte antipanico.

Gli occhi erano puntati, del tutto sgranati e sorpresi, sulla scena tragicomica che si stava svolgendo nel centro riabilitativo.

Un uomo robusto, e apparentemente incavolato nero, stava prendendosela a gran voce con il caporeparto che, con una flemma olimpica, stava rispondendo alle sue accuse sempre più irose.

Il suo sguardo era tranquillo, la voce pacata e, con grande sconcerto di Morgan, la sua postura del tutto rilassata.

Possibile che il dottor Greyson non percepisse il pericolo provenire da quell’uomo furioso?

Joy, al fianco di una donna pallida e impaurita, osservava la scena senza perdere d’occhio l’uomo furente quando, all’improvviso, tutto degenerò.

Nel giro di pochi secondi, il tizio infuriato si avventò sul dottor Greyson.

Colto di sorpresa, l’afroamericano non poté fare altro che indietreggiare spaventato, levando le mani per difendersi dal pugno che stava giungendo per abbattersi contro di lui.

Joy fu più veloce di tutti e, frapponendosi tra loro, lasciò andare le stampelle  dietro di sé in tutta fretta.

Poggiata sulla gamba buona, afferrò con le mani polso e gomito dell’aggressore e fece leva per sfruttare la forza dell’aggressore a proprio vantaggio.

Torcendo con abilità il braccio, lo arcuò con forza prima di scaraventare a terra l’uomo e sedersi sulla sua schiena, urlando: “Non ci riprovi mai più!”

Un attimo dopo, come apparsi dal nulla, Richard e Peter intervennero per bloccare l’aggressore steso da Joy.

Rotolando via per poi sedersi su un vicino materassino blu, sospirò sollevata prima di sgranare gli occhi, non appena vide Morgan sull’entrata.

Avanzando lentamente mentre Richard ammanettava uno scalmanato Mr Simpson, e Peter gli leggeva i suoi diritti, il giovane pompiere sorrise nell’allungare una mano a Joy.

“Ho sbagliato posto, e sono finito in una palestra di Wrestling?”

Ridendo nervosamente nell’aggiustarsi la cravatta, il dottor Greyson rispose per Joy ed esalò: “Beh, avrebbe potuto anche essere, fino a un attimo fa.

Rivoltosi alla sua praticante, le sorrise grato.

“Grazie per avermi salvato da un brutto livido in faccia.”

“Di nulla, capo” ammiccò Joy, appoggiandosi a Morgan prima di guardarsi intorno alla ricerca delle sue stampelle.

Gliele riconsegnò Grant che, con un sorrisone orgoglioso, le domandò: “Hai preso lezioni di autodifesa da un marine, Doc?”

“Precisamente” ammise Joy, preferendo non spiegare quando le avesse prese.

Dire loro che aveva imparato in Vietnam durante la guerra, quando era un medico sul campo, sarebbe stato davvero troppo complicato.

Ammirato, Morgan la lasciò andare solo quando fu stabile sulle stampelle e mormorò: “Dovrò stare attento, con te, piccola.”

Joy rise e, nell’osservare una spaventata – ma sollevata – Mrs Simpson, mormorò: “Con questa aggressione, abbiamo prove sufficienti per farlo mettere in galera il tempo sufficiente per permetterle di chiedere – e ottenere – il divorzio, se lo vorrà.”

La donna, vistasi interpellata, annuì tremante prima di lanciare un ultimo sguardo al marito – portato via ammanettato dai due poliziotti in borghese – e sussurrò roca: “Grazie per quello che avete fatto. Avrei dovuto trovare da sola la forza per denunciarlo, ma…”

Greyson le batté gentilmente una mano sulla spalla, chiosando: “Si spera sempre di salvare certi rapporti, lo so.”

Grata per quel sostegno, Bethany si lasciò andare a un pianto liberatorio mentre le infermiere, gentilmente, la accompagnarono nel vicino salottino per darle qualcosa con cui calmarsi.

Il momento più brutto, ormai, era passato.

“Ora che hai fatto a botte, posso riportarti a casa?” sussurrò Morgan all’orecchio di Joy.

“Mmmh, direi di sì” assentì Joy, tutta sorridente. “Vado a prendere la mia borsa e arrivo.”

Mentre Joy si allontanava velocemente sulle sue stampelle, Morgan si avvicinò a Greyson e gli domandò: “Come procede il recupero?”

“Ottimamente. Joy è un’eccellente paziente. Sarà perché conosce la procedura a memoria, ma non cede mai, e ci permette di torchiarla come vogliamo” sorrise fiero l’uomo. “Anche dal punto di vista psicologico, non ha risentito minimamente dell’incidente. Una vera roccia.”

“Già” annuì Morgan, ritenendosi soddisfatto delle parole del dottore.

Quel che più gli premeva, era sapere che Joy si stava riprendendo al meglio, e che la brutta esperienza passata all’interno di quell’inferno non avesse lasciato strascichi di nessun tipo.

Certo, lui dormiva ormai da settimane nel suo letto, e non l’aveva mai sentita lamentarsi nel sonno, o svegliarsi terrorizzata per qualche incubo.

Avere la conferma anche del dottore, era per lui un balsamo per il cuore.

Quando la vide tornare, il borsone a tracolla e un sorriso sereno stampato sul viso acqua e sapone, non poté che ritenersi il più fortunato tra gli uomini.

Salutato il dottore, uscirono dalla clinica per dirigersi alla Camaro e Joy, sorridendo spontaneamente nel vederla, chiese a Morgan: “E’ andato tutto bene, con Will? Ti ha fatto il terzo grado, o che?”

“Si è limitato” rise Morgan, gettando la sacca di Joy sul sedile posteriore. “Ti saluta, e vuole farti sapere che, la settimana prossima, arriverà un nuovo catalogo con alcuni pomelli del cambio davvero chic.”

Illuminandosi in viso, Joy sospirò deliziata.

“Non vedo l’ora di vederli.”

Morgan ghignò di fronte a tanto entusiasmo e, ingranata la retro, fece manovra per uscire dal parcheggio dell’ospedale.

“Gli ho detto di non venderti un pomello a forma di teschio.”

Dopo aver sgranato un momento gli occhi per lo stupore, Joy esplose in una calda risata di gola che coinvolse anche Morgan.

Da quando i dubbi e le incomprensioni erano svaniti dalla loro vita, Morgan stava vivendo i momenti più belli e intensi della sua vita.

Da questa equazione perfetta, però, aveva dovuto eliminare a piè pari i genitori.

Certo, con sua madre si sentiva regolarmente e, quando suo padre era a scuola e lui poteva assentarsi dalla caserma, passava a trovarla per trascorrere qualche ora in sua compagnia.

Questa, comunque, non era una soluzione che avrebbe potuto durare in eterno.

Presto o tardi, la loro relazione sarebbe sfociata in qualcos’altro, in qualcosa di più duraturo.

Volente o nolente, il padre avrebbe dovuto accettare la sua decisione e, soprattutto, avrebbe dovuto accettare Joy.

Il fatto che il suo risentimento, e la sua riluttanza a fidarsi della ragazza, persistessero da anni, lo aveva quasi portato a odiarlo.

Solo per questo, sentiva il suo cuore andare in pezzi perché, nonostante tutto, era l’uomo che l’aveva messo al mondo, che l’aveva protetto e che, a suo modo, l’aveva amato.

Morgan non voleva ridursi a vederlo come un nemico.

Al momento, però, non era che quello, ai suoi occhi.
 



 
 
***




 
Tornati al mio appartamento, Morgan mi chiese se volessi andare fuori a cena e io, entusiasticamente, accettai.

Averlo vicino, baciarlo, scambiarci tenerezze più o meno audaci con lui, aveva degli effetti davvero deleteri sul mio autocontrollo.

Una volta raggiunto l’acme della passione, avrei avvertito lo stesso silenzio irreale di quel bacio scambiatoci davanti al dormitorio di Harvard?

Il mondo si sarebbe cancellato totalmente?

Non lo sapevo, ma la cosa mi turbava, e il fatto di non poterne parlare con Rah mi angustiava.

Ormai da settimane, non udivo più la sua voce e, ancora, mi chiedevo se ce l’avesse con me per qualche motivo a me oscuro.

Io e Rah non avevamo mai litigato prima di allora e, se ciò era avvenuto, io avrei almeno voluto conoscerne i motivi per chiedere scusa o, eventualmente, difendermi.

Tutto ciò non era avvenuto, e io brancolavo nel buio più totale, chiedendomi quando avrei potuto risentire la sua profonda voce all’interno della mia mente.

 

 
 
___________________


Note:
1 leg press:
pressa orizzontale. Attrezzo usato per la riabilitazione dei quadricipiti femorali e dei gemelli.
2 leg curl: Attrezzo usato per la riabilitazione dei quadricipiti femorali e per la flessione del ginocchio.
3 labirintite: infiammazione di una zona dell’orecchio interno che mina il sistema vestibolare, responsabile dell’equilibrio del corpo.
4 AK-47: altresì noto come Kalashnikov.

 

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Capitolo 27
*** cap. 27 ***


27.

 

 

 

 

 

 

Equinozio di primavera.

Scozia, 1746.

Le Highlands erano bellissime.

Distese interminabili di erica in fiore si inframmezzavano a rocciose protuberanze dalle forme arrotondate, dando all’orizzonte quel misto di romanticismo e forza per cui, quella terra, sarebbe diventata famosa ogni dove.

L’aria era greve di profumi, come del canto di una guerra sempre più prossima al culmine massimo.

Le forze dei dignitari scozzesi si stavano raccogliendo in massa per dare man forte al principe Carlo Edoardo Stuart, desideroso di soppiantare il re d’Inghilterra per prendere possesso del trono.

Percepivo con chiarezza quanti morti vi sarebbero stati, quanto sangue avrebbe macchiato quelle verdi terre, quanto strazio quella lotta avrebbe disperso nell’aria come una pestilenza.

Ugualmente, l’unica cosa che potei fare fu mettere quante più persone in salvo.

Sordi e ciechi di fronte alle mie preghiere – cantate con veemenza al mio illustre padre adottivo, dignitario di un potente clan del Nord – nessun Highlander volle cedere il passo

Pur se la sconfitta era sempre più vicina, la caparbietà scozzese ebbe la meglio.

Quel giorno, che segnava il risveglio della Natura, io seppi quanti morti avrei dovuto scrutare con i miei occhi, e piansi.

Piansi fino a non avere più lacrime, piansi fino a farmi dolere gli occhi, piansi fino a farmi quasi esplodere la testa per il dolore.

La mia madre adottiva, assieme a me in preghiera di fronte alla statua della Vergine Maria, seppe che il mio pianto sarebbe stato solo il primo tra molti.

Piegata di fronte alla statua lignea di colei che aveva dato alla luce il Salvatore, mia madre pregò.

Ma, come me, non pensò mai, neppure per un istante, che le nostre preghiere avrebbero avuto ascolto.

In spregio agli ordini del capo clan, io e mia madre portammo via più di seimila persone dal nostro villaggio e dalle valli vicine.

Molti altri non furono fortunati quanto noi.

L’onda di Culloden1, dopo aver divorato con brutalità gli uomini giunti al fronte, si espanse da Aberdeen a Edimburgo, falciando senza pietà ciò che il Duca di Cumberland ritenne giusto.

Di giustizia ne vidi ben poca, in quell’epoca.

Ma, come sempre, non potei intervenire direttamente per fermare lo scempio.

Fenice può consigliare, non ordinare.

Fenice può chiedere, non comandare.

Fenice può allungare una mano, non può costringere nessuno a stringerla.

Quel giorno, nell’equinozio di primavera del 2005, avvertii la stessa aspettativa, lo stesso preludio alla battaglia, lo stesso odore di sangue.

Memore di ciò che era avvenuto alla Torri Gemelle, potei riconoscere immediatamente lo stesso tipo di tremolio mentale, la stessa aura negativa, lo stesso sordo dolore al costato.

Come la volta precedente, però, non compresi da dove provenisse quel brivido di rabbia.

Pregai solo di sbagliarmi.

Ma ero sicura che, neppure questa volta, le mie preghiere sarebbero state ascoltate.

 

***

 

Ancora una volta.

Massaggiandosi lo sterno nel vano tentativo di far cessare quel dolore sordo, Joy non poté far altro che lasciar perdere quando il suo tocco non sortì alcun effetto.

Sapeva con una certezza quasi matematica che qualcosa sarebbe successo, ma non aveva idea del come, del dove e del quando.

Né tanto meno del perché.

Essere Fenice, in quei tempi, era più difficile del previsto.

Pur se stava mettendo tutta se stessa nel portare avanti il suo personale progetto, le sembrava di non fare abbastanza, o a una adeguata velocità.

La gamba era migliorata notevolmente, e ora poteva camminare discretamente bene anche senza la stampella.

Le sarebbero occorsi ancora dei mesi per un completo recupero dell’arto, e lei aveva fretta.

Come sempre.

Pur avendo tutto il tempo del mondo, a le sembrava non bastasse mai.

Controllava cartelle cliniche mentre era impegnata nei massaggi al polpaccio, oppure ascoltava le lagnanze dei suoi pazienti mentre era essa stessa impegnata in sfiancanti esercizi ginnici.

Il tutto, senza mai perdere il suo consueto sorriso o la sua inesauribile pazienza, che metteva al servizio dei suoi protetti.

Suo compito non era più ricevere le preghiere dei postulanti, o benedire la piena del Nilo, ma donare tutte le sue competenze mediche e umane a coloro che ne avevano bisogno.

Era più snervante, si ottenevano meno risultati, ma si agiva in maniera più capillare, e ciò che riusciva a ottenere era di qualità decisamente migliore rispetto al passato.

Inoltre, era sempre difficile iniziare un percorso di crescita dall’inizio.

Più semplice sarebbe stato proseguirlo quando il tempo per lei, in quei luoghi, sarebbe terminato e si sarebbe trasferita altrove con il suo bagaglio di conoscenze.

Ma non era questo il giorno.

Quel giorno, nonostante la certezza di un possibile disastro, aveva di che essere felice.

Grant era stato dimesso ufficialmente, e la sua gamba non gli dava più noie.

Il decorso post-operatorio era andato nel migliore dei modi e, quel giorno, sarebbe tornato alla sua base a San Francisco per iniziare il suo nuovo lavoro.

Seduto sul materassino al fianco di Joy che, pesi legati alla caviglia, stava sottoponendosi ad alcune sessioni di ginnastica isometrica2 , Grant le sorrise bonario.

Intrecciando le braccia al torace, celiò: “E’ ancora un po’ magrolina, quella gamba.”

Ammiccando al suo indirizzo, Joy assentì.

Afferrata la bottiglietta dell’Evian che teneva a fianco, ne bevve un sorso prima di mugugnare: “Dovrò massacrarmi sul leg curl, per farla diventare un figurino.”

“Ce la farai di sicuro, Doc” asserì Grant, prima di aiutarla ad alzarsi.

Le slacciò la cavigliera da due chili e gliela porse, allungandole poi la mano destra, tutto sorridente.

“E’ stato un onore essere curato dal vostro staff, Doc.”

Ridendo – era stato il primo ad affibbiarle quel nomignolo e, da quel momento in poi, non era più scomparso – Joy accettò la stretta di mano e replicò: “E’ stato un onore curare una persona in gamba come te. Lavora sodo come so che sai fare e stammi bene, Grant.”

Grant esitò un attimo prima di abbracciarla, quasi facendola scomparire nel suo mare di muscoli.

Dopo averle dato due pacche leggere sulla schiena, si scostò con un risolino imbarazzato e mormorò: “Sei stata un dono del cielo, per me, Doc.”

“E’ il più bel complimento che tu potessi farmi” replicò sommessamente lei, dandogli una pacca sul braccio. “Ora vai, prima che mi metta a piangere.”

Il giovane marine rise divertito e se ne andò dopo un allegro ‘arrivederci’, cui Joy replicò scherzosamente con uno ‘speriamo proprio di no’.

Le sarebbe mancato, già lo sapeva, ma era abituata da millenni agli addii.

***

Gli iris profumavano delicatamente e il salone brillava come uno specchio, lucidato ad arte con detergenti alla cera d’api.

I cuscini del divano erano in bell’ordine, mentre il tappeto era stato spolverato da poco meno di mezz’ora, restituendo colore ai disegni damascati dell’intreccio.

Le mani poggiate sui fianchi, e l’espressione soddisfatta dipinta sul volto incorniciato da bei riccioli bruni, Consuelo osservò il figlio ed esclamò: “Direi che potresti ospitare il presidente degli Stati Uniti, ora.”

“Mi basterà Joy” replicò bonariamente lui, voltandosi a mezzo per sorriderle.

Sistematasi una ciocca di capelli dietro l’orecchio, da cui pendeva un orecchino a forma di gufo, Consuelo si avvicinò al figlio.

Dopo essersi poggiata alla consolle della cucina, lo scrutò amorevole per alcuni momenti prima di mormorare fiera: “Non ti ho mai visto così appagato, o felice. Vorrei solo che i tuoi occhi perdessero l’ombra che vedo in loro.”

“Per quella non c’è soluzione, al momento” sospirò Morgan, chinandosi per darle un bacio sulla fronte. “Pensi le piacerà?”

“Sei autorizzato a incavolarti a morte con lei, se non apprezzerà i tuoi sforzi” sorrise divertita Consuelo, ammirando la tavola ovale del salone, dove splendevano alti calici trasparenti e un servizio di piatti di porcellana bianca a rifiniture argentee.

I sottopiatti, di fine cristallo boemo, rifrangevano piccoli arcobaleni sulla tovaglia damascata mentre le posate, ben distese sul tavolo, erano lucide come specchi.

“Sono sicura che, quando saprà che mi hai aiutato, sarà felicissima” la informò Morgan, passandole un braccio attorno alle spalle.

“Puoi anche dirle che hai fatto tutto da solo” precisò sua madre, pur apprezzandone la gentilezza.

Scuotendo il capo, Morgan ribatté sicuro: “No, voglio che sappia che, almeno uno dei miei genitori, non le è ostile.”

Quell’accenno neppure troppo velato portò Consuelo a sospirare e, reclinando il capo, mormorò spiacente: “Se solo sapessi cosa fa nel suo studio, quando si chiude dentro a chiave, potrei aiutarti, ma così…”

“Non voglio sapere su cosa si è intestardito. Gliela presenterò, e tutto questo avrà fine” sentenziò Morgan, costringendosi a sorridere. “Voglio che lei faccia parte della mia vita, mamma.”

“Glielo hai già detto, tesoro?” gli chiese allora Consuelo, non sapendo se sentirsi triste o lieta.

Essere nel mezzo della guerra intestina tra il figlio e il marito, non era mai stato semplice, ma aveva come il sentore che presto le cose sarebbero peggiorate.

“Con Joy, bisogna muoversi con i piedi di piombo, perciò no. Non gliene ho parlato. Ma, presto o tardi, cadremo in argomento. A ogni modo, non ho fretta. Nessuno mi corre dietro, e io so che lei mi ama quanto la amo io. Non conta nient’altro” asserì Morgan con sicurezza.

“Questo è molto importante” ammise Consuelo, prima di lanciare uno sguardo alla foto che Morgan teneva sul tavolino accanto ai divani.

Era retaggio del matrimonio a cui il figlio aveva partecipato come garçon d’honneur e ritraeva Morgan e Joy, teneramente abbracciati durante una danza.

Erano gli occhi negli occhi, e il sorriso di uno che rispecchiava quello dell’altra.

Nessuno al mondo avrebbe potuto negare l’amore esistente tra loro ma sapeva benissimo che, se il marito avesse visto quella fotografia, sarebbe esploso.

Non aveva idea del perché trovasse tanto pericolosa quella ragazza, né da cosa gli derivassero quelle convinzioni.

Sapeva per cosa certa, però, che era impossibile smuovere Oliver da un suo convincimento, una volta che esso aveva preso forma nella sua mente.

Era un brav’uomo, lo era sempre stato, ma quello che era successo in India lo aveva minato nell’animo e i suoi contraccolpi si notavano ancora, a distanza di anni.

Consuelo era convintissima che l’accanimento nei confronti della ragazza, fosse dovuto unicamente a questo.

Cosa avesse in mente di scoprire, però, le risultava oscuro.

Sperava soltanto che, presto o tardi, si rendesse conto dell’enorme baratro che aveva scavato tra sé e il figlio con le sue stesse mani.

Perché era sicura che Morgan, prima o poi, avrebbe perso del tutto la speranza di riavere suo padre.

Una volta che questa speranza fosse morta, anche il loro rapporto sarebbe morto con essa.

E questo non lo voleva, per nessun motivo al mondo.

***

La borsa da palestra stretta in una mano, e un sorrisino divertito stampigliato in faccia, Joy entrò nella sua camera da letto trovandovi Morgan, intento a dar da mangiare a Monet.

Indossava una camicia azzurro cielo, infilata in un bel paio di pantaloni in gessato nero a righine bianche.

Sul copriletto, la giacca abbinata non aspettava altro che di essere indossata e la ragazza, dopo averlo visto sorridere in risposta alla sua entrata, esalò: “Esci a cena?”

Usciamo a cena” ci tenne a precisare Morgan, sfregando le mani tra loro per eliminare i residui di mangime. “Indossa il tuo abito dorato, ti prego. Ti sta tanto bene.”

Una sera, Joy aveva inscenato una specie di sfilata di moda per Morgan e, tra i tanti abiti che aveva indossato, c’era stato anche lo sfavillante abito del ballo di fine anno.

Da quel momento, Morgan l’aveva assillata perché tornasse a indossarlo per lui.

“Dovrei indossare i tacchi alti, e ancora non me la sento.”

“Non saranno necessari i tacchi, nel posto dove andremo” la rincuorò lui, avvicinandosi per darle un bacio. “Com’è andata, oggi?”

“Bene, direi.”

Dopo un attimo, gli domandò: “Se non servono i tacchi, perché vuoi che indossi quell’abito?”

“Vuoi farmi contento?” la pregò allora lui, unendo le mani supplichevole.

Un dolce sorriso sorse immediatamente sul viso di Joy che, annuendo, si avviò verso l’armadio dopo aver lasciato la sua borsa a terra, accanto ai piedi del letto.

Aperte le ante, si volse a mezzo verso Morgan e mormorò: “Sai che renderti felice, rende felice me.”

“Lo so” annuì lui, ammiccando. “Per questo ricorro sempre a questo stratagemma.”

“Cattivo!” esclamò lei, ridacchiando nell’estrarre la sacca trasparente dove teneva l’abito incriminato.

La seta traslucida con cui era stato confezionato l’abito scintillava tenue, alla luce dei faretti a led della stanza.

Dopo averlo estratto e poggiato delicatamente sul letto, Joy lo sfiorò con lo sguardo e con le mani, seguendone la forma a sirena con occhio colmo di nostalgia.

Aveva indossato quell’abito quando aveva raccontato ogni cosa ad Alex e, per lei, era colmo di ricordi dolcissimi.

Indossarlo nuovamente, le avrebbe dato altrettanta gioia? Lo sperava.

“Posso sapere dove andiamo?” gli chiese curiosamente, iniziando a togliersi felpa e pantaloni.

Poggiandosi contro lo stipite della porta in assorta osservazione del corpo della giovane, Morgan socchiuse debolmente le palpebre prima di sussurrare roco: “Potrei divorarti centimetro dopo centimetro, in questo momento.”

La pelle di pesca, messa in evidenza dal chiarore delle lampade, era accarezzata dalla cascata fiammeggiante di capelli che, ormai lunghi fino alla vita, ondeggiavano sinuosi a ogni minimo movimento.

Con un sorriso malizioso, Joy si volse mostrandogli le spalle e, in un sussurro appena udibile, replicò: “Ci basta rimanere a casa.”

Pur desiderando accontentarla, Morgan scosse decisamente il capo e borbottò: “Esco, altrimenti do di matto. Tu non metterci molto.”

Nel sentire chiudersi la porta, Joy si ritrovò a ridacchiare compiaciuta.

Toltasi gli indumenti intimi, li sostituì con qualcosa di più congeniale all’abito e, lei immaginava, alla serata che si apprestavano a vivere assieme.

Quello sguardo di fuoco, le aveva percorso il corpo lasciandola fremente di impazienza e desiderosa di dare sfogo alla smania di entrambi.

Quando Morgan si era ritirato in buon ordine per non lasciarsi andare alla passione che aveva letto sul suo volto, Joy aveva esultato.

Quale sensazione di potere poteva dare, l’amore! E quanto si sentiva schiava e padrona, nel viverlo così pienamente!

Comprendeva bene perché molte persone facessero follie, per quel sentimento travolgente.

Nel lasciarsi scivolare addosso l’abito, che andò a coprire il completo di pizzo nero, Joy si ammirò allo specchio, ammantata della luce della seta dorata e del proprio alone di fuoco divino.

Era dea, era donna, era Fenice.

Sollevando le mani per sfiorarsi il viso, avvertì la morbidezza di piuma della sua seconda natura e del potere che, a malapena sotto controllo, galleggiava in lei.

Con un certo sforzo, lo ricondusse nei recessi del suo animo, smorzando l’alone di fiamma fino a farlo svanire.

Quella sera, ci sarebbe stata solo Joy. Nessuna dea, nessuna Fenice.

Quando infine aprì la porta, i capelli raccolti in un disordinato chignon che lasciava libere alcune ciocche ondulate e ribelli, Joy chiamò Morgan e gli chiese: “Che scarpe devo mettere?”

Ma Morgan non le rispose, troppo distratto dalla sua mise per badare alle sue parole.

“Sei reale? O sei un sogno?” mormorò Morgan, sfiorandole il viso con il dorso della mano, lentamente, disegnando il contorno del suo volto con delicatezza.

Joy socchiuse gli occhi, inarcando istintivamente il collo all’indietro perché la carezza scendesse sul suo corpo.

Pur desiderando accontentarla, Morgan ritirò la mano e, sospirando a fatica, esalò: “Puoi mettere le ballerine dorate. Andranno benissimo.”

“Sembrerò un tappo vestito di stagnola dorata” brontolò Joy, riprendendosi a stento dalla carezza di Morgan.

Quella sera era ardente come fiamma viva; dubitava che ne sarebbe uscita senza neppure una scottatura.

“Dubito fortemente” la smentì lui, avvolgendole il braccio quando fu finalmente pronta.

Dopo essere saliti sulla Camaro, Morgan puntò direttamente verso sud e accese la radio nella speranza di calmare i nervi.

Si augurò di tutto cuore di riuscire a raggiungere casa sua, possibilmente senza finire prima contro un semaforo, o peggio.

Era talmente agitato all’idea che lei vedesse la sua baita per la prima volta, che quasi non riusciva a tenere le mani sul volante.

Aveva impiegato settimane, per capire quale sarebbe stato il modo migliore per festeggiare la piena ripresa di Joy.

Alla fine, però, aveva compreso che nessun luogo sul pianeta sarebbe stato sufficiente per farle capire quanto fosse felice per lei.

Mostrarle il suo mondo, farla partecipe di un altro pezzetto di sé, permetterle di appropriarsi anche del suo nascondiglio, gli era parso il modo migliore per farle comprendere quanto lui la amasse.

Così, non appena svoltò su Stephen Road, Morgan si volse per un istante a guardarla, lei debitamente confusa, e le disse: “Spero possa piacerti.”

Joy si volse a fissarlo, non comprendendo le sue parole.

Quando, però, i suoi occhi si posarono sulla bella baita montana davanti a cui si era fermato Morgan, la ragazza esclamò: “Oh, ma… è bellissima!”

Il sorriso di Morgan si allargò immediatamente, a quelle parole.

Smontato in fretta dall’auto, la raggiunse per aiutarla a scendere.

Presa la sua mano, la accompagnò attraverso il cortile inghiaiato e, fermatosi dinanzi alle scale che portavano alla veranda aperta, le spiegò: “Questa è casa mia.”

“Davvero?” esalò Joy, continuando a scrutare il contorno della baita e il vicino bosco di abeti.

Il prato, illuminato da un lampione, era la naturale continuazione della radura che divideva la casa dall’abetaia alle sue spalle.

In quel momento, brulicava di piccoli bucaneve in procinto di aprirsi e da centinaia di pianticelle di primule che, la mattina seguente, avrebbero permesso al sole di baciarne i petali delicati.

Il profumo della resina si univa a quello dell’umido della terra e, nel percorrere le scale che conducevano al piano rialzato, Joy osservò ammirata l’intera struttura.

La porta d’entrata, in legno chiaro, recava un rosone in vetro colorato nel mezzo, e raffigurava la testa di un cervo.

“Hai una casa splendida…” iniziò col dire lei, mentre Morgan apriva la porta con le chiavi. “…e non ho ancora visto l’interno.”

“Spero avrà lo stesso effetto che ha ora su di te” ammiccò lui, accendendo le luci.

Una miriade di lampade, applique e faretti si accesero all’unisono, colorando di tinte calde l’intero open space.

Spalancando lentamente la bocca, Joy osservò più che mai sorpresa gli splendidi quadri appesi alle pareti, oltre al mobilio rustico ma ricercato.

A predominare sulle altre, erano le tinte calde del rosso e dell’arancione.

Svettavano evindenti sull’ampio divano e sulle due poltrone, oltre che sul bellissimo tappeto messicano, che si trovava nel bel mezzo del salone.

Scorci di bosco erano stati sapientemente riprodotti su tela, con tocchi di colore abilmente miscelati.

Sfiorandoli con sguardo ammirato, la ragazza si volse a scrutare il volto enigmatico di Morgan per dirgli: “Sono magnifici! Hai un talento eccezionale! Già lo sapevo, ma questi hanno davvero qualcosa in più.”

“Grazie” mormorò lui, raggiungendola e stringendola a sé prima di darle un bacio sul capo.

Accostata a lui, Joy continuò nell’esplorazione meticolosa dell’ampio open space, sorridendo nel notare i vasi ricolmi di iris multicolori.

Con una mano carezzò quella di Morgan, che riposava possessiva sul suo fianco e, flebile, mormorò: “Hai fatto una cosa splendida, grazie.”

“E’ anche merito di mia madre. Mi ha aiutato” le spiegò Morgan, facendola voltare per poterla guardare in viso.

Vagamente sorpresa, Joy fece per domandargli qualcosa ma il giovane la precedette, baciandola con una tenerezza quasi dolorosa.

La giovane si inarcò istintivamente contro di lui, prima di esalare un sospiro tremulo e sussurrare: “Ho le ginocchia deboli.”

Morgan rise roco, sapendo bene che il problema non riguardava la sua gamba dolorante, ma tutt’altro.

Lasciatala andare, la accompagnò in cucina – dove Joy emise un gridolino di sorpresa nel vedere la tavola già imbandita – prima di chiederle: “Vuoi cenare con me?”

A Joy sfuggì una risatina e, annuendo, si accomodò al suo posto prima di vedere Morgan armeggiare con il forno e alcune pentole, che già si trovavano sui fuochi della cucina.

“Cosa c’è di buono?” si informò Joy, non sapendo bene come sentirsi.

Era elettrizzata, spaventata e infinitamente eccitata.

E non aveva la minima idea di quanto avrebbe potuto mantenere un controllo ferreo sulle sue emozioni.

Era fin troppo vicina al punto di non ritorno, lo sapeva benissimo, ma non poteva farci assolutamente nulla.

Ammiccando al suo indirizzo, Morgan le confidò: “E’ tutto il giorno che ci lavoriamo, io e mamma, quindi spero ti piacciano. Ci sono capesante al gratin come antipasto, zuppa di pesce e una spigola al vapore. Può andare?”

Sempre più commossa, Joy annuì e si lasciò andare a un singhiozzo involontario.

“Vi siete disturbati fin troppo.”

“Te l’ho detto; tutto, pur di farti felice” le rammentò lui, prima di estrarre il vassoio di capesante dal forno e accendere sotto la pentola della zuppa.

Afferrata con due dita la conchiglia dove riposava la capasanta, Joy annuì e mormorò felice: “Sì, me l’avevi detto.”

***

Poggiata al parapetto di legno della balconata del secondo piano, Joy si volse a mezzo per sorridere a Morgan e gli domandò curiosa: “E’ qui che vieni, quando vuoi dipingere?”

Annuendo, lui la raggiunse al parapetto e si appoggiò per ammirare il paesaggio boschivo, immerso nell’oscurità della notte e baciato dai candidi raggi lunari.

L’aria era frizzante e, senza che neppure glielo chiedesse, Morgan si tolse la giacca per drappeggiarla sulle spalle di Joy.

La ragazza, a quel punto, si accoccolò contro di lui, mentre il giovane rispondeva alla sua domanda.

“Quando sono stanco di starmene chiuso nello studio, vengo qui. Oppure, prendo blocco e matita e me ne vado nel bosco. Costruire la casa qui è stato un toccasana, per me. Lo zio mi ha fatto un favore, quando mi ha trovato questo lotto di terra dove potermi rifugiare.”

Joy conosceva bene la storia legata alla baita e, con un sospiro, asserì: “Se sei qui, è anche colpa mia.”

“E’ merito tuo” replicò lui, avvolgendole le spalle con un braccio. “Amo questo posto, Joy, e amo starci con te. Non mi importa cosa mi ha portato qui, quel che conta è esserci con te, ora.”

“Morgan” sussurrò Joy, levando il viso a scrutarlo con intensità.

Lui sorrise, sfiorandole la gota rosea con un dito e, socchiudendo gli occhi, le confidò: “Sembri una dea, in questo momento. Quasi un miraggio. Così pallida, alla luce della luna, così eterea. Potresti scomparire da un momento all’altro dinanzi ai miei occhi, e io non me ne stupirei.”

“Non vado da nessuna parte” mormorò lei, sollevandosi in punta di piedi per baciarlo.

Un attimo prima che le loro labbra si sfiorassero, Morgan ringhiò roco: “Né io permetterò che tu te ne vada. Mai!

Il bacio fu divorante, senza condizioni, privo di delicatezza, ma Joy non voleva essere delicata, in quel momento.

Pretese e ottenne ciò che desiderava ormai da tempo e Morgan, dopo qualche momento di sbandamento, rispose e saccheggiò la sua bocca.

Emise un singulto strozzato, mentre le mani la trascinavano contro il suo corpo marmoreo e teso allo spasimo.

Scostandosi dalle sue labbra, Joy inarcò il collo all’indietro perché lui ne assaporasse la pelle eburnea, e Morgan non si fece pregare.

Assaggiò, leccò e baciò quel candore vergineo prima di mugolare qualcosa che Joy non comprese.

In un attimo, Morgan la sollevò da terra per prenderla in braccio e lei, aggrappandosi al suo collo, esalò sorpresa: “Dove andiamo?”

“Di certo, non ti prenderò su questa terrazza, a marzo!” sentenziò lui, prima di stamparle un bacio con lo schiocco che la fece ridere di piacere.

La camera da letto di Morgan rispecchiava l’intera casa.

Un baldacchino in legno scuro era poggiato contro la parete est della stanza, mentre una cassettiera e un mobile a due ante ne completavano l’arredamento spartano.

Il copriletto, in stile patchwork, la avvolse caloroso quando lui ve la depositò sopra.

Allargando le braccia sul morbido tessuto di lana, Joy lo guardò bramosa e mormorò: “Raggiungimi.”

Morgan non se lo lasciò ripetere e, dopo essersi quasi strappato di dosso la camicia, le fu accanto.

Continuò a baciarle e mordicchiarle il collo, mentre lei armeggiava con i suoi pantaloni nel vano tentativo di liberarlo da quella gabbia di tessuto di ottima qualità.

In quel momento, pur apprezzandone la sericea morbidezza, li trovò dannatamente fuori posto.

Quando infine Joy riuscì nell’impresa, si ritrovò a esalare un sospiro di sorpresa e desiderio assieme.

Era la prima volta in assoluto che Morgan si lasciava andare a tutta la sua passione e ora il suo corpo, libero da freni inibitori, era il chiaro testimone di questa resa totale.

Senza che lei se ne accorgesse, l’abito sparì, lasciando che Morgan potesse avere libero accesso al suo corpo morbido come seta.

Le sue mani, avide conquistatrici, si impossessarono di angoli di lei mai inesplorati prima, mentre la sua bocca la cercava bramosa.

Tentando di trattenersi il più possibile – ben sapendo che Joy era vergine – Morgan la portò al culmine solleticandole il corpo con lievi baci, ardenti carezze e leggeri morsi, cui lei rispose con altrettanta passione.

L’istinto lo guidò al pari dell’amore che provava per lei, le sue mani seguirono quelle della ragazza, come i suoi baci la sfiorarono alla piena risposta di Joy.

In preda alla frenesia, la ragazza mormorò il suo nome più e più volte, inarcandosi contro di lui e premendo i seni contro il suo torace rovente.

Fu con estrema delicatezza che penetrò in lei, cercando di oltrepassare le sue difese senza procurarle troppo dolore, ma fu Joy a spezzare l’ultimo sigillo che li separava.

Lo attirò a sé, baciandolo con veemenza sulla bocca tumida di baci e a quel punto Morgan, del tutto perso in lei, affondò pienamente.

Insieme al suo primo e unico amore, iniziò una danza lenta e sempre più travolgente.

Come Joy aveva temuto, tutto ciò che aveva attorno scomparve, non più un pensiero, non più un’emozione, solo i loro due corpi avvinti attorno al loro amore dilagante come una piena.

Sempre più velocemente, si mosse assieme a lui gridando il suo nome.

Le unghie affondarono nella sua schiena contratta per la tensione e, quando finalmente raggiunsero l’acme, Morgan chiuse gli occhi e mormorò qualcosa di intelligibile.

Un attimo dopo, le sue labbra sfiorarono la sua fronte prima che il suo intero corpo scivolasse accanto a lei, stremato quanto soddisfatto.

I sensi erano ottenebrati e la pelle, sensibilissima.

Joy avvertiva ogni minimo contatto con il corpo di Morgan, dalla gamba rilasciata trasversalmente sulle sue al braccio che, protettivo e possessivo assieme, le avvolgeva la vita.

Lenti e sensuali, lievi baci le solleticarono la spalla mentre Morgan, con sussurri leggeri come ali di colomba, le mormorava dolci parole all’orecchio.

Volgendosi a mezzo per guardarlo nella penombra della stanza – solo una abat-jour permetteva loro di vedersi negli occhi – Joy sorrise soddisfatta e sorniona assieme, esalando: “Mi perdonerai se non ho capito cos’hai detto, alla fine. Ero piuttosto presa.”

Morgan ridacchiò, annuendo, prima di sfiorarle un seno con l’indice e replicare rauco: “Ho solo detto che ti amo.”

“Oh” sussurrò lei, annuendo a sua volta.

Un attimo dopo, seguì i movimenti del dito di lui e, curiosa, domandò: “Mi stai dipingendo?”

“Adorerei fare body painting sul tuo corpo, ma poi non sopporterei che alcuno ti vedesse” ammise Morgan, chinandosi a baciarle i seni con gesti lenti e meticolosi.

Sospirando, Joy chiuse gli occhi e si inarcò verso la sua bocca come a volergli facilitare il compito.

Sogghignando al suo indirizzo, Morgan le ricordò: “Rammenti quel che ti dissi?”

“Sì” ansò lei, sentendo il desiderio tornare a montare in lei come marea.

Morgan era come un geniale pianista, e lei era il pianoforte accordato alla perfezione solo per le sue abili mani.

“Quindi, sai che siamo solo all’inizio” sussurrò lui, mordicchiandole un fianco mentre la sua bocca scendeva sempre di più, disegnando scie di fuoco sul suo ventre piatto.

Quando sfiorò la voglia a forma di disco solare, Joy quasi svenne, percorsa da un’ondata di energia così pura da farle venire i brividi.

Avvedutosene, Morgan rise di pura soddisfazione virile e ripeté il gesto.

Non comprendendo i motivi di una tale reazione, ma trovando tutto ciò estremamente piacevole, Joy lasciò che Morgan continuasse a stuzzicarla.

A colmarla di energia.

Per una volta, non si preoccupò di perdere del tutto il controllo su se stessa.

Non lo voleva solo per rendere felice Morgan.

Lo voleva per se stessa.

Per la prima volta nelle sue tante vite, desiderava qualcosa per sè.

***

Sbadigliando nello stiracchiarsi le membra indolenzite ma stranamente rilassate, Joy si volse a mezzo solo per ritrovarsi il viso di Morgan a poco meno di un centimetro di distanza.

Fu in quel momento di momentaneo stordimento, che rammentò.

L’amore che avevano condiviso, la scoperta dei loro corpi, le risate che avevano condiviso.

I baci, le carezze, ogni cosa.

Lappandosi debolmente le labbra, Joy sorrise spontaneamente e, allungatasi a dargli un bacio sulle labbra, sussurrò: “Buongiorno.”

Morgan mugugnò qualcosa prima di muovere debolmente le palpebre, ancora parecchio assonnato.

Gli scuri occhi di pece impiegarono qualche secondo prima di metterla a fuoco ma, quando lo fecero, si illuminarono come braci, portando Joy a sorridere divertita.

Un lento, mascolino sorriso si dipinse sul viso del giovane mentre, sollevandosi su un gomito, la scrutava voglioso, il desiderio già pressante nel suo sguardo.

Socchiudendo le palpebre con fare malizioso, Joy allungò una mano verso di lui come un muto invito.

Prima ancora che Morgan muovesse un solo muscolo nella sua direzione, però, la radio dei pompieri emise uno stridio acuto, facendo sobbalzare entrambi sul letto.

Con un’imprecazione a denti stretti, Morgan si contorse sul letto per raggiungere la base dove era appoggiata la radio e, afferratala, esclamò con un ringhio: “Che c’è?!”

“Ehi, ehi, svegliato male, piccolo?” ridacchiò Nathan, all’altro capo. “Muovi le chiappe. C’è un brutto incendio a sud di L.C., e hanno richiesto anche la nostra presenza. Ti do venti minuti al massimo, è chiaro?!”

Un ‘sì’ smozzicato tra i denti gli fuoriuscì mentre si liberava delle lenzuola e, completamente nudo, uscì dal letto per dirigersi verso il bagno.

“Morgan!” lo richiamò Joy, facendolo bloccare a metà di un passo.

Spiacente, lui si volse a mezzo per guardarla, fiera e bellissima nel suo letto, coperta unicamente dalla coperta di lana colorata e dai suoi capelli di fuoco.

Sospirando esacerbato, esalò: “Un casino fuori L.C.. Hanno bisogno anche di noi.”

Joy si limitò a sorridergli e, liberatasi a sua volta delle coperte, lo raggiunse, afferrò la sua mano e, trascinandolo con sé in direzione del bagno, celiò: “La doccia è abbastanza grande per tutti e due.”

“Verissimo” ammise lui, prima di scoppiare a ridere assieme a Joy.

Dubitava che sarebbe riuscito a raggiungere la stazione dei pompieri in venti minuti, facendo una doccia con Joy, ma poteva sempre tentare.

***

Il suono del campanello, a metà mattinata, la colse di sorpresa.

Affrettandosi a raggiungere la porta, Consuelo controllò dallo spioncino solo per aprire un secondo dopo al postino che si trovava sul pianerottolo di casa.

Sorridente e con una busta oblunga trattenuta in una mano, mentre l’altra sorreggeva la carpetta con i dati dei destinatari della posta, l’uomo la salutò gaudente e le chiese: “Abita qui il Professor Oliver Thomson?”

“E’ mio marito” annuì Consuelo.

Consegnatale la busta, il postino le spiegò: “Raccomandata da New York dallo Studio Analisi Mediche New Genesis. Mi può mettere una firma qui?”

“Oh, sì, certo.”

Consuelo prese in mano la carpetta e inserì il suo nome nell’apposita casella, prima di restituirla al postino e augurargli buongiorno.

Rientrata che fu, poggiò la busta nel raccoglitore sul tavolino all’entrata e, curiosa, si chiese cosa potesse contenere.

Sapeva che, l’inverno scorso, Oliver si era recato a New York da un amico per  affari personali.

Forse, la busta riguardava quella famosa visita.

Il telefono squillò, rubandola alle sue peregrinazioni mentali.

Sola e incustodita, la busta rimase nel raccoglitore all’ingresso, inconsapevole latrice di informazioni che, ben presto, avrebbero cambiato la vita di Oliver.

Per sempre.

________________________________

1 Culloden: La battaglia di Culloden (gaelico: Blàr Chùil Lodair), combattuta il 16 aprile 1746 presso Inverness nelle Highlands scozzesi, vide i sostenitori di Carlo Edoardo Stuart, detto il "Giovane Pretendente" (detto anche "Bonnie Prince Charlie"), definitivamente sconfitti dalle forze lealiste comandate dal Duca di Cumberland, figlio di re Giorgio II, che per l'efferatezza della repressione portata avanti nei confronti dei giacobiti fu soprannominato "Billy il Macellaio".

 

2 ginnastica isometrica: La ginnastica isometrica è quel tipo di ginnastica atto a favorire la contrazione muscolare, senza movimento, allo scopo di potenziare il muscolo.


 



 Credo abbiate capito cosa contiene la busta, perciò immaginerete anche cosa aspetta i nostri due giovani amanti. Il tempo del divertimento è finito… ora è tempo di dar battaglia!

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Capitolo 28
*** cap. 28 ***


 
28.
 
 
 
 
 
Risvegliarmi accanto a Morgan, respirare il suo profumo, assaporare la sua pelle sotto le mie labbra, toccare con mano esitante i suoi muscoli tonici, lasciare che le sue braccia mi avvolgessero.

Tutto era una novità, per me.

Con Rah, non era mai stato così intenso, pur se lo avevo amato di amore sincero, ed ero stata riamata con altrettanta devozione.

Mentre lo osservavo vestirsi in tutta fretta per andare al lavoro, il mio cuore traboccò di una felicità che sentii di non poter provare.

Almeno, non senza avvertire un vago senso di rimorso.

Fenice non dovrebbe gioire per se stessa, eppure io l’avevo fatto.

Il mondo non era esploso, tutto sembrava essere rimasto immutato nel tempo e nello spazio, e io cominciavo a domandarmi se la mia reclusione forzata fosse così indispensabile.

Amare Morgan era davvero contro le regole?

Non amavo ancora appassionatamente la Terra, e coloro che vi abitavano?

Cos’era dunque cambiato?

Certo, amavo lui più di tutti, però… però…

Nel baciarlo a fior di labbra, lasciandogli in pegno il cesto per il pranzo e la promessa che ci saremmo rivisti quella sera, tra quelle mura, gli consegnai le chiavi della Camaro.

Poiché il suo pick-up era davanti al palazzo dove abitavo io, gli promisi che avrei chiamato mio padre perché mi venisse a prendere.

Dalla veranda soleggiata, lo osservai allontanarsi lungo Stephen Road e, con una mano levata, lo salutai.

Fu a quel punto che un dolore sordo mi colpì al basso ventre, in corrispondenza del Disco Solare.

Con un singulto strozzato, vi posai la mano percependo, allarmata, il gelo della pelle attorno al neo.

Il tutto durò solo qualche secondo, ma bastò a mettermi in allarme.

Cosa stava succedendo?




 
 
***



 
La giornata era stata snervante ma per lo meno, per un paio di giorni, non avrebbe dovuto rimettere piede in aula.

Scontrarsi con l’inettitudine di alcuni allievi era così avvilente, a volte, da fargli temere che, un giorno o altro, avrebbe dato in escandescenze di fronte a tutta la classe.

Il lato più tragico della faccenda era che, trattandosi di figli di papà di prima categoria, una sua eventuale sfuriata non sarebbe certo passata inosservata.

Oltre al danno, ci sarebbe stata anche la beffa.

No, non poteva permettersi di rovinare tutto. Non un’altra volta.

Stavano bene, lì a L.C., nonostante fosse una cittadina quasi sconosciuta ai più, dispersa nell’anonimo Stato dell’Oregon.

Consuelo era felice, e le sue colleghe erano tra le sue più grandi amiche.

Sradicarla da quel luogo, dove avevano cresciuto Morgan, e l’avevano visto farsi uomo, sarebbe stato uno sgarbo che lei non avrebbe potuto sopportare in alcun modo.

E lui doveva già così tanto a sua moglie!

Era stata l’unica ad averlo sempre ascoltato e appoggiato, quando tutto il Mondo Accademico gli si era rivoltato contro tacciandolo per pazzo.

Consuelo non si era mai lasciata andare a crisi di pianto, o a lagnanze di alcun genere.

Anche quando lui si era lanciato in quella specie di crociata personale che, da più di vent’anni, lo teneva impegnato giorno e notte, non lo aveva mai abbandonato.

Certo, l’aveva vista sospirare a ogni suo litigio con Morgan, o ne aveva sentito il pianto sommesso quando pensava di non essere vista mentre, in cucina, preparava la cena per entrambi.

In quei momenti, aveva desiderato mollare tutto, bruciare le poche, esili tracce che era riuscito a racimolare in quegli anni.

Tutto, pur di vederla nuovamente felice, nuovamente serena.

Ma poi aveva rimesso piede nel suo studio, fissato le sue carpette piene di ritagli di giornale, e la maledizione era tornata.

La sua maledetta, fragilissima prova regina se ne stava sotto una teca sottovuoto, protetta da qualsiasi agente esterno, nascosta agli occhi di tutti, eccetto i suoi. 

Giorno dopo giorno, anno dopo anno, aveva scrutato quel nido di rami di mirto e tronchetti di cannella, e profumato di cardamomo, come se fosse stato il Santo Graal.

Aveva impiegato anni, prima di trovarlo ma, quando lo aveva scorto, semi nascosto tra il sottobosco, quasi aveva pianto.

Perché quello che aveva rinvenuto in quella piovosa domenica di settembre, altro non era che la conferma alle sue ipotesi.

Neppure il più pazzo tra gli uomini, avrebbe avuto motivo di intrecciare un cesto in cui riporvi il corpo nudo di una bambina nata da poco.

Non avrebbe utilizzato piante del tutto inusuali, per una foresta pluviale come era quella nei dintorni di L.C.

Ma, soprattutto, il cesto non avrebbe mai potuto mantenersi negli anni, in una foresta invasa da muschi e licheni, come invece era avvenuto per ciò che aveva trovato.

Nessuno aveva mai saputo da dove fosse giunta quella bambina perché, a tutti gli effetti, non era giunta da nessuna parte.

Quando aprì la porta di casa, il pensiero ancora rivolto alle sue scoperte – o non scoperte, che dir si volesse – Oliver appese la giacca all’appendiabiti accanto all’entrata, e disse a mezza voce: “Sono tornato.”

Nell’aria, il profumo delle frittelle di mais si confondeva con quello della cera usata sul parquet, e il detergente al limone che Consuelo soleva utilizzare per spolverare i mobili.

Tutto era come sempre, a casa.

La risposta allegra della moglie, i fiori nel vaso poggiato sulla credenza d’entrata e…

Sgranando gli occhi di colpo, quando Oliver scorse la busta oblunga nel cesto della posta, l’uomo si affrettò a prenderla in mano, ansioso e speranzoso insieme.

Consuelo lo avvertì che il pranzo sarebbe stato pronto nel giro di mezz’ora, mentre lui leggeva più e più volte l’intestazione del mittente.

Quando fu certo di non aver preso un abbaglio, corse nel suo studio, il cuore a mille per l’impazienza.

La porta a vetri fumé venne aperta e chiusa con gesto ansioso, prima che le mani di Oliver strappassero a forza la carta giallognola della busta.

Si procurò un piccolo taglietto all’indice, ma non se ne curò.

Estratti i fogli, li poggiò con delicatezza sulla scrivania, ed estrarre quelli relativi alla piuma, fatta analizzare meno di due mesi prima.

Dopo aver affiancato le tabelle riguardanti gli alleli, le scrutò in religioso silenzio per più di cinque minuti prima di esalare un sospiro tremulo.

Senza forze, crollò sulla poltrona di pelle, incapace di dire alcunché.

Combaciavano alla perfezione.

Il dottor Meson, a cui aveva fatto analizzare la piuma rosso fuoco in suo possesso, si era dichiarato sconcertato dai risultati.

Nessuna creatura di sua conoscenza, aveva un genoma simile.

Aveva insistito inutilmente per conoscere l’origine della piuma, ma Oliver si era limitato a dirgli di averla ricevuta da un suo alunno, ma di non sapere affatto da dove provenisse.

Ora sapeva.

O, per lo meno, aveva le prove che qualcosa di estremamente anomalo stava accadendo proprio sotto i suoi occhi.

Nessun essere umano poteva avere lo stesso genoma di un uccello.

Solo una creatura ancestrale, avrebbe potuto costruire un nido di rami di mirto e cannella indistruttibile agli agenti atmosferici.

Ed esisteva solo una creatura mitologica, che lui ricordasse, legata alle sorti di un nido così singolare.

Fenice.

Dio solo sapeva come questo fosse possibile, ma le prove erano inconfutabili.

E poi c’era la sua visione, così chiara, così lampante!

Non era mai stato un uomo legato al misticismo religioso eppure, ciò che aveva visto quel giorno, sulla spiaggia, assomigliava molto a una visione.

Una visione terrificante, che lo aveva spinto a ricercare la verità con ancora più assiduità che in precedenza.

L’interesse del figlio verso quella creatura, verso Joy Patterson, aveva messo fretta al suo agire.

Era suo compito proteggerlo, anche da se stesso, se necessario.

E la creatura oscura e alata che aveva scorto alle spalle della ragazza, quel giorno, non poteva che essere un essere malvagio.

Il fatto che non avesse ancora ucciso suo figlio, era un dato irrilevante.

Lui doveva intervenire, ora che sapeva.

Lo sguardo gli tornò al nido di rami intrecciati e, all’improvviso, la vista gli si offuscò.

Calde lacrime gli caddero dagli occhi scuri e, in pochi attimi, tutti gli anni di ricerche, tutte le ore perse nel vano tentativo di trovare prove a confutazione delle sue idee, si ridussero a quell’unico istante di rivelazione.

I risultati erano davanti a lui. Aileen Joy Patterson non era umana.

Come spiegarlo al figlio, però?

Quanto dolore gli avrebbe causato, quella scoperta?

“Consuelo” esclamò ad alta voce Oliver. “Ho bisogno di parlarti.”
 
***

Non aveva idea del perché sua madre l’avesse chiamato e, soprattutto, del perché avesse insistito perché lui andasse a trovarli a casa, quel pomeriggio.

Aveva avuto tutta l’intenzione di preparare un’altra cenetta coi fiocchi a Joy, dopo il successone della sera prima.

Dal tono di voce della madre, però, aveva capito che era successo qualcosa di grave.

Sperava soltanto che nessuno dei suoi genitori stesse male.

Poteva anche avere avuto screzi profondi con il padre, ma non desiderava che lui si ammalasse, o peggio.

Parcheggiato il pick-up dinanzi a casa – Joy era passata dalla caserma a lasciargli auto e chiavi, prima di andare al lavoro  – spense il motore e uscì sbattendo la portiera alle spalle.

Percorse il breve vialetto quasi di corsa e, senza esitare, suonò il campanello.

Era ancora casa sua, ma gli sembrava scorretto entrare senza avvisare della sua presenza.

Un attimo dopo, sua madre aprì la porta e lo accolse con un sorriso così stentato che portò Morgan a chiedere turbato: “Cosa succede?”

“Vieni in casa, per favore.”

Sua madre disse solo questo, non aggiunse altro e, a Morgan, non restò altro che obbedire e seguirla in cucina, dove lei si diresse con passo dimesso.

Lì, accomodato al tavolo, ricoperto da un centrotavola in pizzo di San Gallo, trovò il padre, una miriade di foglie sparsi dinanzi a sé e l’aria di chi non sa che pesci prendere.

Una rarità, per suo padre.

Salutatolo stentatamente, Morgan allargò le braccia in cerca di spiegazioni e domandò: “Ebbene? Che succede, qui?”

“Siediti, per favore, figliolo” mormorò mesto suo padre, lo sguardo perso nervosamente su due cartelle plastificate, composte da una serie imprecisata di colonne colorate.

Vagamente sorpreso dal suo tono, Morgan lo accontentò senza replicare.

Non appena si fu seduto, sua madre si mise dietro di lui per poggiargli le mani sulle spalle con fare consolatorio.

Sempre più preoccupato, Morgan fissò i suoi occhi neri sul volto pallido del padre e chiese flebilmente: “Non ti senti bene?”

“Come?” esalò Oliver, sorpreso dal suo sincero interessamento. “No. No, sto bene. Ma…”

Sbuffando, Morgan iniziò a tamburellare le dita di una mano sul tavolo, cominciando a dire: “Senti, papà, vorrei andare a casa. Più tardi devo vedermi con Joy, quindi…”

“Non è umana!” esclamò a sorpresa Oliver, bloccando il figlio a metà di una frase.

Accigliatosi immediatamente, Morgan fece per levarsi in piedi ma la madre lo bloccò, scuotendo il capo nella sua direzione.

“Ascoltalo, ti prego. Non sta mentendo.”

Senza sapere cosa dire, Oliver allungò al figlio le tabelle che, fino a quel momento, aveva avuto dinanzi e, con tono esitante, gli chiese: “Sai leggere più o meno una tabella genica?”

Storcendo il naso, Morgan annuì confuso e afferrò i due fogli con fare nervoso.

“Se mi chiedi se la differenza tra maschio o femmina, no, ma so capire se…”

Gli occhi si sgranarono lentamente, dolorosamente, mentre la vista metteva a fuoco ciò che, sulla tabella, era scritto con la bella grafia di suo padre.

Sul quadrante di sinistra, c’era il nome di Joy.

Su quello di destra, era indicata una data e un luogo per lui indimenticabili ma che, in quel particolare contesto, stridevano tremendamente.

La prima volta che aveva parlato con Joy, sulla spiaggia.

Sotto la data e il luogo, era specificato qualcosa di incomprensibile, di assurdo.

Penna remigante rossa.

Staccando gli occhi da quelle tabelle perfettamente identiche, Morgan li posò sul volto del padre, sconvolto non meno del suo e parimenti sconsolato.

Con voce resa roca dall’incredulità, esalò: “Cosa significa, papà?”

“E’ la mappatura genetica di Aileen Joy Patterson, ottenuta da un suo capello, e di una piuma che trovai sulla spiaggia, quando tu la incontrasti per la prima volta” gli spiegò succintamente Oliver, la voce flebile e stanca, quasi rassegnata.

Morgan scosse il capo, non volendo credere a ciò che vedeva.

Non potendo fare altro, Oliver gli pose innanzi le foto del nido che aveva trovato, e alcune documentazioni riguardanti la Fenice Araba.

Il giovane lesse tutto avidamente, con occhi che guizzavano da un foglio all’altro, come impazziti.

Quando lo sguardo gli cadde sul Disco Solare, simbolo di Rah, emise un rantolo strozzato.

Con dita esitanti, accarezzò la foto rammentando un simbolo simile, sul corpo perfetto di Joy.

“Com’è possibile?” gracchiò sconvolto.

“Non posso spiegarti come, figliolo, ma posso dirti che è tutto reale. La genetica parla chiaro. E sai benissimo anche tu che un essere umano non può avere lo stesso genoma di un animale.”

Nel dirlo, Oliver sospirò pesantemente.

“Non potrebbero aver confuso…” tentennò Morgan, prima di venire interrotto dal padre.

“Le analisi provengono da due laboratori separati” gli spiegò il padre, allungando incerto una mano per sfiorare quella del figlio.

Morgan tremò, a quel contatto, prima di mormorare: “Lei è… Joy non può…”

Stringendo quelle dita improvvisamente fredde tra le sue, Oliver esclamò con veemenza: “Non ti ha detto la verità, Morgan. Neppure sappiamo se sia veramente ciò che penso! Ma una cosa è certa, non è chi dice di essere!”

Le palpebre di Morgan si chiusero con forza per non dover scorgere altro e, nel ritirare la mano da quella del padre, mormorò frettolosamente: “Devo andare.”

“Non puoi tornare da lei, dopo tutto quello che ti ho mostrato!” protestò Oliver, levandosi in piedi per sbarrargli la strada.

Le carte ancora nelle sue mani, Morgan le strinse con foga prima di ringhiare furente: “Ho diritto a una spiegazione. E l’otterrò. Con o senza il tuo consenso.”

“E se ti facesse del male?” ipotizzò Oliver, come estrema risorsa.

Morgan esplose in un’aspra risata, prima di chiosare gelido: “Se avesse voluto farmi fuori, lo avrebbe già fatto anni fa, quando la tampinavo senza sosta. No, lei non farebbe del male a nessuno, anche se tu pensi il contrario. Ma io voglio sapere la verità. Solo dopo, deciderò riguardo a noi due.”

“Voi… due?” esalò Oliver, impallidendo visibilmente.

Mestamente, Morgan lo scostò con un gesto della mano e sentenziò amaro: “Tuo figlio è stato con un’aberrazione della natura, a quanto pare, papà e, quel che è peggio, la ama alla follia.”

Detto ciò, uscì dalla casa dei genitori per dirigersi al suo chalet con il chiaro intento di attendere il ritorno di Joy, ben deciso a chiederle spiegazioni.

Era tutto così assurdo! Eppure sapeva che suo padre non stava mentendo.

Potevano essere in disaccordo su tutto, ma lui aveva sempre saputo quando riconoscere in suo padre una menzogna.

In quegli occhi così simili ai suoi, non aveva visto alcuna traccia di calunnia.

Il punto era un altro.

Come credergli? Come credere che esistesse una creatura mistica decantata solo nei miti dell’antichità?

Possibile, a questo punto, che anche ciò che suo padre aveva trovato in India, tanti anni prima, fosse stato ciò che aveva sempre sostenuto essere.

Possibile che la Comunità Scientifica, per ragioni a lui sconosciute, non gli avesse creduto?

Di quel fatto, lui conosceva solo ciò che la madre gli aveva raccontato ma, dopo ciò che il padre gli aveva rivelato su Joy, come poteva dargli del folle?

Inchiodato il pick-up dinanzi allo chalet, salì le scale a due a due prima di aprire la porta con la chiave.

A sorpresa,  si ritrovò a fissare la gabbia di Monet e il suo cacatua, appollaiato accanto al divano del salotto.

Sulla gabbia, scritto in bella grafia, un biglietto di Joy.
 
‘Ho pensato che potesse sentirsi solo, nell’appartamento e, visto che anche stasera saremmo stati qui,
ho deciso di portarlo da te. Ha già mangiato, e gli ho cambiato l’acqua nell’abbeveratoio. J’
 
Il cuore in fondo al messaggio lo fece rabbrividire e, mentre Monet lo guardava curioso, la cresta gialla ben sollevata sul capo candido, Morgan si volse a fissarlo.

“Tu sai chi è, vero? Sai chi è Joy?”

Il cacatua cominciò a sbattere le ali allegramente e, aperto il becco, gorgogliò orgoglioso: “Beee-nu! Beee-nu!”

Morgan quasi crollò sulla poltrona più vicina, nell’udire quel nome.

Lo aveva appena letto negli appunti di suo padre.

Benu. Il nome di Fenice, per il popolo egizio.

“Cristo. Santo” esalò, passandosi una mano sul volto con espressione scioccata.

I fogli gli caddero dalla mano, riversandosi sul pavimento di legno in un fruscio accusatorio.

Fissando addolorato il suo cacatua, Morgan esalò: “Chi è, Monet? Dimmi tu chi è?”

“Beee-nu! Beee-nu!”

Quel nome continuò a riecheggiare per interi minuti nello chalet immerso nella semi oscurità, mentre pallide lacrime scorrevano sul viso contorto dal dolore di Morgan.
 
***

Morgan era già arrivato a casa, e lei non aveva nulla di pronto per la cena.

Afferrate le borse della spesa dal sedile del passeggero, si affrettò a uscire dall’auto per correre su per le scale.

Quando, però, mise piede sulla veranda, avvertì qualcosa di insolito, di preoccupante.

Nitido come un profumo acre e pungente, un sentore di lacrime le giunse alle nari mettendola in allarme.

Senza perdere altro tempo, Joy entrò a precipizio nello chalet, esclamando: “Morgan! Morgan, dove sei?”

L’unica luce accesa era l’applique a muro posta accanto al divano, dove Morgan era seduto scompostamente, una mano premuta contro la fronte.

L’altra, stretta a pugno, riposava irrequieta su una coscia. Accanto a lui, una miriade di fogli sparsi a casaccio.

Avvicinatasi di qualche passo, Joy si immobilizzò subito non appena udì Monet gracchiare felice: “Beee-nu! Beee-nu!”

Impallidendo visibilmente, Joy fece per zittirlo ma Morgan, levando la mano dal viso, mormorò roco: “Lascialo dire… Benu.”

Il neo sul fianco si fece improvvisamente gelido e Joy, poggiandovi sopra la mano per un istante, esalò turbata: “Che intendi dire, Morgan?”

“Dimmelo tu” replicò il giovane, levandosi in piedi prima di allungarle un paio di fogli stampati.

Il gelo al fianco crebbe di intensità, quasi portandola a incespicare nei suoi stessi piedi.

Quando ella prese tra le mani le tabelle che Morgan le porse, per poco non crollò a terra svenuta.

Dinanzi a lei stava la rivelazione che, per tanti anni, aveva tenuto segreta al mondo.

Dinanzi a lei stava la menzogna che aveva portato avanti per quasi un lustro, nel loro travagliato rapporto.

Dinanzi a lei stava la sua sconfitta come donna, che stava creando un solco sempre più profondo tra sé e l’unico uomo che avesse mai amato in tutte le sue vite.

La mano che tratteneva i fogli ricadde lungo il fianco, mentre gli occhi umidi di pianto fissavano spiacenti il volto inespressivo di Morgan.

Il giovane era fermo a pochi passi da lei ma, al tempo stesso, era già lontano miglia e miglia.

Il dolore al fianco si fece quasi insopportabile, come se volesse scavarla dall’interno, divorandola.

La mano libera premuta sul neo – nascosto alla vista dai jeans a vita bassa che indossava – esalò contrita: “Mi spiace.”

“E’ tutto quello che hai da dire… Fenice? O dovrei chiamarti Feng? O Karura? Dimmi tu, perché onestamente ho le idee un po’ confuse!” sbottò lui, tornando ad animarsi in volto.

Muovendo un passo verso Morgan, si vide sbarrare la strada dalla sua mano levata.

Simile a una barriera insormontabile, la tenne a distanza di sicurezza, impedendole di toccarlo, di chetarlo, di abbracciarlo.

Di amarlo.

La prima lacrima le scivolò sul viso, subito seguita da un’altra, che raggiunse la gemella sul mento prima di percorrere la linea del collo e accoccolarsi all’attaccatura delle clavicole.

“Non… non potevo dirti la verità” iniziò col dire Joy, prima di singhiozzare e perdere la voce.

Il dolore era così straziante, così divorante, da farle bruciare la gola.

“Oh, ti prego! Non fare la vittima!” le ringhiò contro Morgan, lo sguardo talmente gelido e ferito da spezzarle il cuore. “Mi hai mentito! Io vedo solo questo!”

“Come potevo dirtelo?! Come potevo metterti sulle spalle un simile segreto!?” lo supplicò Joy, tergendosi nervosamente il viso con una mano.

“A tuo cugino l’hai detto, scommetto!” la rabberciò per contro, scorgendo subito dopo la verità nei suoi occhi colpevoli. “Appunto, come avevo immaginato.”

“E’ più complicato di così…” sussurrò Joy, reclinando il capo a fissare le sue mani tremanti.

Tutto stava andando a rotoli troppo velocemente, e lei non sapeva come affrontare tutto il dolore serpeggiante che la stava stritolando tra le sue spire.

“No, Joy. Era tutto semplicissimo. Si chiama fiducia. Una sola, dannatissima parola. Hai avuto fiducia in lui, no? Perché non potevi aver fiducia in me?!” esplose il giovane, raggiungendola in pochi, rapidi passi.

La afferrò ai polsi, portandosi le sue mani al viso, e urlò: “Conosco tutto di te, eppure non ti conosco affatto! Perché?!”

Stringendo gli occhi allo spasimo, Joy ritirò le mani dal suo viso, ora bagnato di lacrime che non ebbe il coraggio di guardare, e mormorò sconfitta: “Avevo paura l’avresti detto a tuo padre.”

Un silenzio tombale calò all’improvviso nella stanza, gelandola sul posto.

Quando ebbe infine il coraggio di riaprire gli occhi, scorse ciò che mai avrebbe voluto vedere sul viso di Morgan. Dolore.

E sfiducia.

Il labbro inferiore stretto tra i denti bianchissimi, Morgan la fissò come se ella l’avesse appena accoltellato a morte.

Con voce resa roca dalla delusione che stava provando, mormorò lapidario: “Ti avrei amata sempre e comunque, perché so che sei buona, e gentile, e generosa, la donna fatta apposta per me. Non ti avrei mai tradita. Ma tu hai tradito me, e questo non posso accettarlo. Non mi hai ritenuto degno di te.”

“NO!” esclamò Joy, scioccata.

“Vattene. Ti prego, vattene” esalò Morgan, voltandole le spalle prima di dirigersi verso le scale che lo avrebbero portato al piano superiore.

Non una sola parola di più. Non un’occhiata. Tutto era infine giunto al termine, e nel modo peggiore possibile.

Oliver Thomson sapeva.

Morgan sapeva.

Sarebbe stata gettata in pasto ai media nel giro di pochissimo tempo, finendo con l’essere braccata come un fenomeno da baraccone.

I suoi genitori, la sua famiglia, i suoi amici sarebbero stati presi d’assalto per conoscere ogni cosa di lei.

Ben presto, nessuno di loro avrebbe avuto una vita normale. E tutto perché si era voluta concedere il lusso di amare.

Ecco perché una Fenice non doveva lasciarsi andare all’amore.

L’amore, per lei, era solo fonte di disperazione e guai.

E dire che pensava di essere stata una persona intelligente!

Nell’uscire mestamente dalla casa di Morgan, estrasse il cellulare dalla borsetta e, come in trance, compose il numero di Alex.

Voleva parlare con l’unica persona al mondo che l’avrebbe capita fino in fondo.

Quando udì la sua allegra risposta, lei si limitò a dire: “Lui sa. Sa tutto.”

Silenzio.

Forse, era il leitmotiv della serata.

“Morgan?”

“Sia lui che suo padre.”

“Scappa, allora. Scappa più in fretta che puoi” gli disse Alex. “In qualche modo ci contatterai ma tu, nel frattempo, scappa!”

Joy sorrise, le lacrime che, silenziose, scivolavano sul suo viso di perla, e sussurrò: “Ti ho voluto tanto bene, Alex. Davvero tanto.”

“Io te ne voglio ancora, Leen. E sempre te ne vorrò” replicò lui, dolcemente. “Passa da me, lasciati abbracciare un’ultima volta, Leen. Lasciati aiutare un’ultima volta.”

“Sei stato come il fratello che non ho mai avuto” mormorò Joy, prima di chiudere la chiamata.

L’urlo concitato di Alex si perse nell’etere mentre Joy, iniziando a percorrere i primi gradini per scendere in cortile, ripercorse con la mente tutto ciò che era avvenuto in quei febbrili momenti di smarrimento.

Tutto si era aspettata, ma non certo di dover scorgere sul volto del suo unico amore tutto quel dolore, tutto quello scoramento, e solo per causa sua.

Aveva fallito. Su tutta la linea. Non aveva scusanti di nessun tipo.

“Se non torni immediatamente lì dentro, giuro su quanto ho di più caro che ti prenderò a pedate!”

La voce imperiosa e stentorea di Rah rimbalzò nella sua mente con così tanta forza che, per poco, non rotolò dalle scale.

Era da troppo tempo che non ne udiva il celestiale suono.

Visto il suo stato di prostrazione, però, quell’entrata in scena così violenta la sconcertò non poco, ammutolendola il tempo necessario per permettere a Rah di proseguire.

“E’ vero. Hai gestito tutta la faccenda in modo pessimo, ma non puoi andartene come una codarda. Non lo sei mai stata, e non puoi certo cominciare adesso!”

“Rah…”

“Rah un corno! Vai da lui e spiegati! Dimostrami che non sei Fenice solo di nome!”

Detto ciò, tornò a svanire con la stessa prepotenza con cui era ricomparso dopo tanto silenzio e lei, vagamente indispettita da un trattamento così irrispettoso nei suoi confronti, ringhiò furiosa: “E’ diventato un vizio, quello di sbattermi la porta in faccia?!”
 
***

La tela bianca dinanzi a lui non gli trasmetteva nulla, né la sua mente riusciva a trovare l’ispirazione per mettere sul foglio ciò che provava in quel momento.

Tutto sembrava essersi congelato; la sua mano, il suo occhio, la sua fame di vita, ogni cosa.

Niente funzionava come avrebbe dovuto, perché nulla stava andando come avrebbe dovuto.

L’unica donna della sua vita, si era dimostrata essere una creatura di ancestrale memoria.

Se si fosse trattato solo di questo, ne avrebbe riso con lei, ne avrebbe gioito, si sarebbe sentito speciale, baciato dalla fortuna.

Ma no, quella donna gli aveva mentito, non si era fidata abbastanza di lui per raccontargli la verità.

Questo, lo aveva ferito in un modo così straziante. Neppure in mille anni, si sarebbe mai più ripreso.

Gettando a terra pennello e tavolozza, Morgan fece per uscire dal suo studio, disgustato da tutto ciò che lo circondava.

Ritrovare Joy, ferma sull’entrata della stanza, le mani strette tra loro e un’espressione volitiva nello sguardo, lo fece sobbalzare di sorpresa.

Perentoria, disse soltanto: “Dobbiamo parlare.”

Morgan non poté far altro che ringhiarle contro, furioso: “Cos’altro vuoi, da me? Strapparmi il cuore dal petto?!”

“Niente di tutto ciò” scosse il capo lei, cercando di mantenere un tono calmo e assertivo. “Voglio offrirti la verità che ti ho taciuto fino a questo momento, una verità che non si trova nella ricerca di tuo padre.”

Detto ciò, gli allungò speranzosa una mano leggermente tremante ma Morgan, con un sospiro appesantito dalla stanchezza, la rifiutò con rabbia.

Passandole accanto per scendere, le ringhiò contro: “Non ti permetterò di rovinare con un brutto ricordo il mio studio. Scendiamo!”

“D’accordo” annuì Joy, seguendolo pacata.

Doveva pur accordargli un po’ di rabbia e, forse, parecchio scetticismo.

Dopotutto, lo aveva ferito nel profondo e non poteva sperare che con poche, misere parole, tutto passasse sotto silenzio.

Non appena giunsero nel salone, lui si volse per appoggiarsi allo schienale di una poltrona e, con gesto stizzito, sibilò: “Ebbene? Parla, se proprio ci tieni!”

Preso un gran respiro, Joy iniziò a mormorare debolmente: “Nacqui per la prima volta quattordici vite fa, non so esattamente dove, poiché non ho chiari ricordi della mia prima nascita. Quel che ricordo con chiarezza, di quella prima esistenza, sono le colline dorate e le oasi prosperose di Ur, le acque scintillanti del Tigri e dell’Eufrate, il profumo della mirra e il sapore dei datteri freschi.”

Levato un momento lo sguardo a fissare Morgan, lo vide pallido, intento a trattenere il respiro, lo sguardo non più arrabbiato ma colmo di meravigliata sorpresa.

Forse, non si era aspettato una sua piena confessione.

Invogliata a proseguire da quella reazione, Joy aggiunse: “Ogni cinquecento anni circa, muoio e rinasco, così come proclamano alcuni miti. Ciò che tuo padre trovò nel bosco, era il mio ultimo nido. E lo trovò perché fui allontanata prima di poterlo distruggere.”

Sorrise mesta nel rammentare Richard e il loro primo incontro e, in un sussurro, mormorò: “In seguito, non pensai mai di andarlo a cercare. Pensai, scioccamente a questo punto, che nessuno lo avrebbe mai trovato.”

Morgan deglutì a fatica, ancora ammutolito dal suo racconto.

“Questa mia vita è iniziata prima del tempo, poiché sono morta con quarant’anni circa di anticipo. Le troppe guerre hanno minato il mio sistema endocrino, facendomi ammalare prematuramente” continuò Joy, tornando a guardarlo.

Non avrebbe più abbandonato i suoi occhi, così come non avrebbe più abbandonato lui.

Morgan si lasciò scivolare a terra, gli occhi ora spalancati e la bocca socchiusa.

Accoccolandosi accanto a lui, Joy gli strinse debolmente una mano, sussurrando: “Ardo come fuoco vivo, e dalle mie ceneri rinasco. Popoli interi mi venerarono, finché il mio nome non fu associato al figlio del vostro Dio, e mi fu impossibile espormi alle genti con il mio vero volto. Mi mossi perciò nell’ombra, vita dopo vita, cercando di portare prosperità nei popoli, consigliando e salvando il salvabile. Una sola volta, venni meno al mio mandato. Un solo nemico, mi insegue da quel giorno, sordido ingannatore e potenziale pericolo per me e per il mio compito primo. I Naga, gli uomini rettile, sono miei nemici.”

Al singulto strozzato di Morgan, Joy annuì.

“Capisci cosa mi terrorizzava? Non solo tuo padre, ma anche il suo legame con i Naga. Tuo padre li ha conosciuti e non sa in che guaio si sia cacciato, con le sue ricerche.”

Morgan strizzò un istante gli occhi, come per immagazzinare quel mare di informazioni, prima di esibirsi in un mezzo sorriso ed esalare: “Quel giorno… al negozio di animali…”

Joy sorrise, accentuando la stretta sulla sua mano – che venne prontamente accettata e ricambiata – e ammise: “Io e i serpenti non siamo mai andati d’accordo. Io non do fastidio a loro, se loro non danno fastidio a me. Ma non posso sapere cosa pensi l’ultima Manasa in carica ora, della mia eventuale entrata in scena nel mondo mediatico. Perché suppongo che tuo padre voglia sbandierare la sua scoperta al mondo intero.”

Morgan assentì spiacente, prima di chiederle: “Cos’è una Manasa?”

“E’ il nome di una dea Naga della fertilità. E’ così che vengono chiamate le regine del popolo degli uomini serpente. L’ultima di cui io ho conoscenza non è esattamente quella che si definirebbe una persona accomodante” gli spiegò Joy, sospirando.

Si passò una mano tra i capelli, accomodandosi a terra, accanto a lui, e proseguì nel suo racconto.

“Ho sempre tenuto d’occhio la comunità Naga per essere sicura di non pestare i piedi, per così dire, a nessuno di loro. Loro mi hanno riservato la stessa cortesia. L’intervento di tuo padre porterebbe troppa attenzione sulle creature mistiche e, con tutta probabilità, salterebbero fuori i suoi antichi studi e il nome di Bharat Chandra che, tra le altre cose, è il braccio destro di Manasa.”

Nel dirlo, Joy storse il naso con aria infastidita.

Morgan imprecò tra i denti ed esclamò: “Quindi… è stato lui ha insabbiare tutti gli studi di mio padre! Aveva ragione!”

Joy fissò Morgan con aria seria e preoccupata assieme, prima di sentenziare: “E’ tutto vero, su di me e sui Naga. Ma dimmi, Morgan, pensi che tuo padre sia pronto a finire nel bel mezzo di una guerra tra dèi? Perché è questo che accadrà, se pubblicherà le sue ricerche. Né io né Manasa diventeremo le cavie di qualche laboratorio e, con tutta probabilità, lei si muoverà prima che ciò avvenga, eliminando dalla faccia della terra tutto ciò che può essere ricollegato a lei. Chi pensi che ucciderà, per primi?”

Morgan preferì non parlare e Joy, lapidaria, dichiarò: “Le prime vittime sulla sua lista saremo io e tuo padre. Conosco come ragiona una Manasa, e non mi aspetto altro.”

“Non possiamo fermarla?” le chiese a quel punto Morgan.

“Chiediti piuttosto se tuo padre possa essere fermato” replicò Joy, sospirando. “C’è altro che vuoi sapere su di me?”

Morgan fissò per un momento le loro mani intrecciate, prima di sorriderle dubbioso e chiederle: “Sei anche l’uccello di cui parla il mito?”

“Sì” sussurrò Joy, con un semplice cenno del capo.

Morgan allora si levò in piedi, portandola con sé e, con un sorriso colmo di speranza, le sfiorò la fronte con un bacio.

“Conosco la donna meglio di chiunque altro. Posso sperare di conoscere anche l’altra parte di te?”

Joy si limitò a sorridergli. A Morgan non servì altro.

A tutto il resto, avrebbero pensato il giorno dopo.



 
 
***
 




L’evento che tanto avevo temuto, infine si era realizzato, ma non nel modo che avevo paventato.

Morgan mi aveva osservata con occhio attento mentre io, con passo quasi strascicato, raggiungevo il centro del salone.

Lì, sotto il suo sguardo sconcertato, un alone di fiamma purpurea mi avvolse come un mantello.

Il suo primo pensiero, come pompiere, fu quello di avvicinarsi per strapparmi alle fiamme.

Tale fu la sua sorpresa, nel rendersi conto che il fuoco non bruciava affatto, che scoppiò una risata di puro cuore.

I suoi occhi scuri si accesero di meravigliata letizia e io, accentuando il mio sorriso, iniziai la mia mutazione.

Piumaggio morbido sostituì la pelle eburnea, mentre le mie sembianze cambiavano per la seconda volta in tanti anni, assumendo il mio aspetto di creatura mistica e immortale.

Quando anche gli artigli e il becco furono completi, arcuai il collo all’indietro per emettere il mio ancestrale richiamo.

Monet, all’interno della sua gabbia, trillò felice prima di inchinarsi al mio cospetto, omaggiandomi.

Morgan, a occhi sgranati e bocca spalancata, crollò a terra senza smettere di fissarmi, mentre una risatina nervosa scaturiva dalle sue labbra.

Una lacrima solitaria di gioia scivolò sul suo viso incredulo.

Rimasi immobile a fissarlo con la mia prospettiva leggermente schiacciata, ammirai il suo coraggio e la sua forza e, sì, lo amai ancora di più.

L’adorazione incrollabile che lessi nei suoi occhi, mi diede una forza mai provata prima.

Mi amava nonostante tutto.

Lo avvicinai, sfiorando il pavimento con le zampe artigliate fino a raggiungerlo.

Dopo aver emesso ancora una volta il mio canto trillante, gli sfiorai il viso con il capo piumato. Fu a quel punto che Morgan crollò.

Scoppiò a piangere e ridere assieme, abbracciandomi e stringendomi a sé mentre le sue mani percorrevano il mio corpo ricoperto di piume scarlatte.

Giocò con le lunghe penne colorate della coda, ammirandole sconcertato prima di tornare a fissarmi negli occhi, e chiedermi se potessi capirlo.

Assentii e lui, ancor più felice di quanto non lo fosse già stato fino a quell’istante, si allungò per baciarmi sul becco.

Devoto, mormorò: “Ti amo, mia Fenice, mia Benu, mia Joy.”

Non potei far altro che ritrasformarmi per abbracciarlo.

Mentre le fiamme ci avvolgevano, io tornai donna e lo strinsi a me, concedendomi un pianto liberatorio e il suo abbraccio.

Ridendo della mia nudità – dovetti spiegargli che gli abiti si perdevano inesorabilmente, nella mutazione – mi fece indossare la sua camicia per risolvere il dilemma.

Per ore, restammo seduti sul tappeto del salone a parlare di me, di tutte le mie vite, dei miei poteri.

Quando infine il sonno ci prese, crollammo abbracciati sul divano, dimentichi di tutto e di tutti.

I pericoli non erano certo scemati, ma li avremmo affrontati. Assieme.







Note: Ora ci aspetta l'incontro con Oliver, e il tentativo di Joy di spiegare ogni cosa all'uomo, nella speranza che le creda. Perché resta ancora un particolare da chiarire. Perchè il professore la vede come una creatura oscura, capace di fare del male al figlio, nonostante sia certo che sia Fenice, e cioè una creatura per sua natura buona?
Lo scoprirermo davvero presto ma, per ora, grazie a tutti/e per avermi seguita fino a qui!
 

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Capitolo 29
*** cap. 29 ***


 
 
29.
 
 
 
 
 
 
Era mezzanotte passata, eppure il sonno stentava ad arrivare.

Negli occhi, aveva ancora lo sguardo ferito del figlio, nelle orecchie, il suo tono accorato e ruvido, nella mente, la paura per ciò che sarebbe potuto succedere.

Morgan era stato con lei.

Presumibilmente, in quel momento, era in compagnia di quella creatura, di cui non conoscevano praticamente nulla, tranne un particolare non da poco; non era umana.

Avrebbe dovuto fermarlo, impedirgli di lasciare la loro casa in qualche modo.

Invece, si era bloccato sul posto sotto il suo sguardo volitivo, era raggelato al suono delle parole del figlio, dichiaratosi innamorato di quella donna, di quell’abominio.

No, non ce l’aveva fatta a trattenerlo.

La sola idea che Morgan potesse provare simili sentimenti per una creatura non umana, era di per sé assurdo.

Pur sentendosi un idiota per aver lasciato andare suo figlio a quel modo, non era riuscito a trovare la forza per opporsi.

Perché?

Delusione, semplice delusione.

Non aveva creduto possibile che Morgan potesse aver ceduto alle lusinghe di quella strega e che, nonostante ora sapesse la verità, volesse, desiderasse ancora la sua compagnia.

Fenice Araba.

Certo, i miti parlavano di lei come di una creatura positiva, pura e incontaminata.

Ma come sapere la verità?

Per quanto ne sapeva, il comportamento assurdo di Morgan poteva dipendere da qualche sorta di incantesimo che quella ragazza aveva gettato su di lui!

Non aveva la più pallida idea di quali poteri potesse avere ma, già il fatto di aver trovato una piuma con il suo stesso genoma gli diceva molte cose, su di lei.

Era potente, e molto.

Nessun essere umano poteva mutare in uccello ma, se quella piuma significava ciò che lui pensava, lei ne era in grado.

E se poteva fare questo, quali altri inganni poteva creare?

Quell’ombra oscura alle sue spalle, cosa rappresentava? E perché gli era parsa, fin dalla sua prima apparizione, così minacciosa?

Avrebbe sistemato lui le cose, una volta per tutte, e avrebbe salvato suo figlio dalle grinfie di quella mentitrice.

Per quanto potente ella fosse, anche gli umani possedevano capacità e conoscenze tali da metterla in difficoltà, ne era più che sicuro.

Una volta smascherata e catturata, avrebbero scoperto tutto ciò che c’era da sapere, su di lei, e Morgan sarebbe stato libero dalla sua malia.

Sì, non c’era altro modo per salvare suo figlio da quella creatura.

In silenzio, senza disturbare il sonno della moglie, Oliver uscì dalla camera da letto per raggiungere il suo studio.

Lì, afferrò l’agenda telefonica, ne sfogliò febbrilmente i fogli ingialliti finché non trovò un numero che gli avrebbe portato fama e gloria.

E la salvezza per suo figlio.

Dopo averlo composto, lanciò un’occhiata distratta all’orologio per sincerarsi di non aver sbagliato i calcoli del fuso orario.

Alcuni squilli dopo, ascoltò disinteressato il messaggio preregistrato dello studio del professor Chandra, prima di farsi attento quando rispose finalmente la sua segretaria.

“Buongiorno. Sono il professor Thomson di Lincol City, Oregon. Sono un vecchio collega del professor Chandra, e vorrei parlare con lui. Gli dica che abbiamo lavorato assieme a Nuova Delhi, poco dopo l’università. Capirà.”

Professionale, la donna lo mise in attesa.

Mentre una dolce nenia accompagnata dal suono di un citar1 gli solleticava l’orecchio, Oliver si chiese come avrebbe reagito nell’udire, dopo tanti anni, la voce del vecchio compagno di studi.

Con tutta probabilità, il professor Chandra era stato il committente del furto della sua ricerca sui Naga.

Non ne aveva mai avuto le prove certe, ma il più accanito detrattore tra i suoi colleghi dell’epoca era stato lui.

In tutti quegli anni, passati a leccarsi le ferite, se ne era sempre chiesto il motivo.

Non aveva mai avuto particolari screzi con Bharat ma, dopo il furto - e i tentativi di presentare ugualmente le ricerche fatte - la sua animosità si era fatta più che evidente.

Alla fin fine, era stato il comportamento astioso di Chandra, a mandarlo nel baratro dove era vissuto in tutti quegli anni.

Partire da lui per quella sua nuova crociata, era quasi un punto d’onore, ma non sapeva davvero se avrebbe resistito alla tentazione di insultarlo.

Quando infine la voce roca e bassa di Bharat sfiorò il suo condotto uditivo, Oliver si irrigidì sulla poltrona di pelle.

Un sospiro, e infine disse: “Professor Chandra, spero di non averla disturbata.”

“Niente affatto, Professor Thomson. Quanti anni sono passati, da Nuova Delhi? Davvero troppi, credo. Qual buon vento la porta da me, pur se solo attraverso la cornetta del telefono?”

Esattamente come lo ricordava.

Affabile e dalla parlantina sciolta, ma pronto a pugnalarti alle spalle alla prima occasione buona, ne era certo.

Ugualmente, Oliver mantenne un tono di voce neutro e lo informò sulle sue ricerche, sulle scoperte cui era giunto dopo lunghi anni di indagini e analisi di laboratorio.

Man mano che la conversazione procedette, l’interesse di Chandra per il suo lavoro si fece sempre maggiore e alla fine, con estrema cortesia, l’uomo esalò ammirato: “Davvero eccellente, Oliver. Non ho davvero parole. La sua è una scoperta mirabile! E dice di avere le prove scientifiche della sua esistenza! Sono strabiliato!”

“Ho pensato che parlarne con lei sarebbe stato il modo più sensato di agire, vista la sua grande esperienza nel campo dei miti ancestrali” gli spiegò Oliver, pur sentendosi tremare dentro per la rabbia.

Se voleva che la notizia fosse pubblicata, doveva ingoiare qualche rospo, e passare attraverso il professor Chandra.

“Non avrebbe potuto fare scelta migliore, Oliver. Nelle prossime settimane, mi troverò negli Stati Uniti per una serie di convegni, che termineranno a San Francisco il cinque di maggio. Sarei lieto di vederla dopo quella data, per discutere con lei su come meglio agire per portare all’attenzione di tutti le sue scoperte.”

Poi, con enfasi, aggiunse: “Ah, mi immagino già i titoli di giornale! Diventerà un uomo famoso, Oliver!”

“Grazie anche a lei” precisò quest’ultimo, trattenendo a stento l’ira.

“Ricordo bene i danni che feci alla sua carriera, seppur involontariamente e, se potessi riabilitare il suo nome, farebbe di me la persona più felice del mondo, mi creda” replicò Bharat, con tono sufficientemente contrito da portare Oliver a stringere con forza la cornetta del telefono.

Che ipocrita! Involontariamente!

Doveva immaginarlo davvero uno sciocco, se pensava che lui credesse alle sue parole di pentimento.

Ma gli andava bene anche così. Che credesse pure quel che voleva.

A lui interessava lo scopo ultimo, non il modo in cui vi sarebbe arrivato.

“Allora, saremo felici in due, alla fine” chiosò Oliver, serafico.

“Naturalmente, naturalmente” asserì più che lieto Bharat. “Sarà mio piacere presentarle la dottoressa Kapoor, al nostro incontro. E’ un’appassionata dei miti legati alla Fenice Araba, e sarà lietissima di sapere che non si tratta soltanto di storia antica, ma di un fatto reale… di una creatura reale.”

“Il piacere sarà tutto mio” si sentì in dovere di dire Oliver.

Che portasse pure un pubblico, per lui non c’era alcun problema. La soddisfazione sarebbe stata doppia.

“Mi metterò in contatto con lei non appena terminati i convegni” gli promise allora Bharat.

“Le lascio il mio numero di casa, e il cellulare” gli disse Oliver, elencando i numeri con attenzione.

“Sarà un vero piacere rivederla, professore” mormorò mellifluo Bharat, prima di chiudere la comunicazione.

Osservando con un sogghigno la cornetta del telefono, Oliver replicò: “Anche per me sarà un piacere.”
 
***

Nel suo studio di Nuova Delhi, immerso in un ambiente raffinato e di stampo inglese, il professor Chandra levò il capo per fissare il volto perlaceo di una donna.

Ella era accomodata su una delle poltrone nei pressi delle larghe finestre fumé, lo sguardo fisso sulo volto teso del professore.

Quest’ultimo esordì con tono ombroso: “Thomson è ricomparso.”

La donna, dalla lunga chioma scura raccolta in uno chignon ordinato e perfetto, sollevò con interesse un sopracciglio arcuato e celiò: “Una lezione non gli è bastata? Cos’ha in mente, questa volta?”

“Ha trovato Garuda2” mormorò Bharat.

La donna si accigliò immediatamente e, nel levarsi in piedi, il suo sari rosso e oro frusciò irritato al pari di chi lo indossava.

Muovendosi sinuosa come il serpente che era, Amrita Kapoor si avvicinò alla scrivania vittoriana di Chandra e sibilò furiosa: “Come ha fatto quella sciocca a farsi scoprire?!”

“Non ne ha fatto menzione, ma mi ha assicurato di avere le tracce del suo DNA. Di due DNA identici, ma appartenenti a specie diverse” la informò Bharat, non sapendo bene cosa aspettarsi dalla sua Manasa.

Amrita non aveva mai brillato per pazienza o per lungimiranza ma, fino a quel momento, era riuscito a trattenerla dal commettere sciocchezze.

Non era sicuro che, questa volta, avrebbe potuto contenere la sua ira, o il suo desiderio di vendetta.

Già salvare la vita il professor Thomson, tanti anni prima, era stato un compito arduo.

Stavolta, la sua Manasa non avrebbe sentito ragioni.

Pur se non colpita direttamente, Amrita odiava con tutta se stessa Fenice e, fino a quel momento, si era astenuta dal cercarla solo perché consigliata diversamente in tal senso.

Ora che il segreto della loro più acerrima nemica era in procinto di essere svelato, nessuno l’avrebbe fermata.

Stringendo le mani ingioiellate in un’unica morsa d’acciaio, Amrita dichiarò con tono perentorio: “Se l’avessi eliminata dalla faccia della Terra quando avevo deciso di cercarla, ora non ci ritroveremmo con questo problema tra capo e collo! Quanto tempo impiegheranno, i media, a riscoprire i vecchi studi di Thomson, una volta che questa faccenda sarà sulle pagine di tutti i giornali?!”

“Pochissimo” sospirò Bharat, annuendo. “Ma mia signora, Garuda rinasce dalle ceneri, ed eliminarla non servirebbe a nulla.”

“Ma avremmo impedito a quei due di incrociare le loro strade, con tutta probabilità, se avessimo agito per tempo!” strillò Amrita, agitandosi senza posa.

Levandosi in piedi a sua volta, Bharat la raggiunse in fretta per frenarne il peregrinare nervoso.

Afferrate le sue mani gelide, le mormorò pacato: “Calmatevi, Manasa. Risolveremo tutto. Questa notizia non vedrà mai la luce, ed elimineremo tutti coloro che ne sono al corrente. Oltre a colei che ha commesso l’errore di farsi scoprire.”

Il sorriso di Amrita sorse come il sole a est, la mattina presto, e illuminò il suo volto perfetto fino a raggiungere gli scuri occhi neri, che mandarono fiamme di soddisfazione e giubilo.

“Non vedo l’ora di mettere piede in America. Non ci sono mai stata” mormorò la donna, prima di sciogliersi dalla stretta del Naga. “Predisponi tutto, Bharat. Non voglio viaggiare scomoda.”

“Così sarà fatto, Masana” annuì mellifluo Bharat.

A volte, non era facile essere al servizio delle divinità. Specialmente di una così capricciosa.
 
***

“Beee-nu! Beee-nu!”

Mugugnando nel risvegliarsi dal lungo sonno che l’aveva afferrata per le braccia la sera prima, Joy aprì stentatamente gli occhi prima di allungare una mano in cerca della sveglia.

Era più che convinta di trovarsi a casa, nel suo letto.

Niente di più sbagliato.

Nulla trovando e artigliando solo aria con le dita, Joy si accorse troppo tardi di trovarsi in bilico sul ciglio di un divano.

Non potendo trattenersi, e impedire così alla forza di gravità di fare il suo lavoro, crollò a terra tirandosi dietro il suo compagno di riposo.

Morgan, trascinato a forza, si svegliò di soprassalto, confuso e stordito, prima di atterrare violentemente sul corpo esile di Joy che, con un lamento soffiato tra i denti, esclamò: “Cristo, Morgan!”

Puntellandosi immediatamente sui gomiti per lasciarle la possibilità di respirare, Morgan scrollò il capo per cancellare gli ultimi residui di sonno.

Vagamente confuso, fissò il viso di Joy sotto di sé, notò la sua aria mezza addormentata e, con un sorrisino divertito, esalò: “Ma che è successo?”

“Chiedilo a Monet” brontolò Joy, prima di mettersi a sedere sul tappeto, su cui era atterrata malamente. “Ahia.”

“Ti ho fatto male, cadendo?” le chiese il giovane, aiutandola a rialzarsi.

“No, solo il mio fondoschiena ha patito” mormorò Joy, massaggiandoselo con una smorfia sul viso.

Ridacchiando, Morgan replicò: “Sempre disponibile a curare donzelle in difficoltà. Va meglio?”

Nel dirlo, le massaggiò delicatamente il fondoschiena contuso.

“Un po’” ammise lei, ghignando nel socchiudere gli occhi maliziosi. “Buongiorno.”

“Buongiorno a te, piccola” le sussurrò Morgan tra i capelli, dandole un bacio sul capo.

Vagamente insicura, Joy sollevò il viso a scrutarlo, prima di chiedergli: “Ancora sicuro di voler stare con me?”

Morgan si limitò a darle un pizzicotto sul naso.

“Vivi cinquecento anni, invecchi lentamente e puoi rinascere. Riesci a fare cose incredibili e diventi un uccello stupendo. Sai cantare meglio di qualsiasi artista io abbia mai sentito, e sei la donna più bella che il mondo abbia mai conosciuto. Uhm, sì, direi che posso stare con te senza problemi.”

Pur ridacchiando di quel suo commento, Joy gli sollevò le mani per baciargliele e, incerta, replicò: “Sii serio. Potrai accettare che io non invecchi? Dovremo andarcene, tra qualche anno, perché apparirà chiaro a tutti che io non sto invecchiando e, tra qualche decennio, io non potrò che interpretare la parte di tua figlia, e non certo della tua compagna. Potrai sopportarlo?”

Già sul punto di uscirsene con una battuta, Morgan lesse immediatamente quanto, quella prospettiva, spaventasse realmente Joy.

Tralasciando perciò quel che avrebbe voluto dire, la fece accomodare sul divano e le chiese: “Non ti è mai capitato prima, vero?”

Scuotendo il capo, Joy negò quella possibilità e Morgan, pur ringalluzzito dall’idea di essere l’unico uomo che, in tante Ere, avesse mai colpito il cuore di Fenice, le disse: “Impareremo assieme. Ma credimi quando ti dico che, per nessun motivo al mondo, io ti lascerò mai. Siamo fatti per stare insieme, Joy. Lo dimostra il fatto che, nonostante tutte le tue paure, il mondo non sta per finire, o non ci sta colpendo una catastrofe naturale.”

Storcendo il naso, Joy replicò: “E tuo padre dove lo metti?”

“Lo convincerò a desistere. Una volta che ti avrà conosciuta, sono sicuro che capirà quanto sia necessario mantenere il tuo anonimato” le promise, sorridendole speranzoso.

“Lo conosci meglio di me” sospirò Joy, non del tutto tranquilla.

Abbracciatala strettamente, Morgan le sussurrò tra i capelli disordinati: “Risolveremo tutto insieme e, se sarà necessario, scapperemo. Non mi spaventa l’idea di andarmene.”

“Non voglio costringerti a una vita da perseguitato” brontolò Joy, prima di accigliarsi ed esalare: “Sta venendo qui!”

“Come?” esalò Morgan, sobbalzando.

“Tuo padre. Sta arrivando” sibilò Joy, levandosi in piedi dopo essersi sciolta dall’abbraccio di Morgan.

“E come fai…” cominciò col dire il giovane, prima di fissarla per un momento e chiosare: “Super udito?”

Joy si limitò a scuotere le spalle, come scusandosi e Morgan, ghignando, si levò in piedi per raggiungerla e circondarle le spalle con un braccio.

“Non hai esattamente l’abito più adatto per una visita di cortesia, ma fa lo stesso.”

La ragazza si guardò divertita – la camicia di Morgan le arrivava fino alle ginocchia, e le maniche arrotolate al gomito erano così rigonfie da sembrare due palloncini.

“Mi prenderà come sono” sentenziò lapidaria.

“Questo è sicuro” ammiccò Morgan, tornando serio. “Insieme, okay?”

“Insieme” asserì Joy, mentre il rumore di un’auto sopraggiunse nei pressi della baita.

Il tempo era infine giunto.

Il confronto che, per tanti anni, aveva rifiutato, rifuggito, ora stava per avvenire.

Contrariamente a quanto aveva immaginato, però, lo avrebbe affrontato assieme all’uomo che amava.

Non era sola.

Aveva il suo conforto e il suo appoggio e, pur essendo una delle creature più potenti del Creato, quel particolare la aiutò a non fuggire via terrorizzata.

Quando infine il campanello suonò, Morgan andò ad aprire e Joy, dietro di lui, osservò il battente aprirsi e lasciar penetrare la chiara luce del mattino.

Subito, i suoi occhi smeraldini incontrarono quelli scuri e indagatori di Oliver che, sorpreso di trovarla lì, ristette sull’entrata senza sapere bene cosa dire, o come comportarsi.

Fu Morgan a spezzare quel momento di stallo tra loro.

Afferrò il padre a un braccio e lo attirò all’interno della casa, prima di chiudere a chiave la porta d’entrata.

“Non uscirai da qui finché non avrai conosciuto la verità” sentenziò il giovane, rivolgendosi al padre.

“Sei pazzo, forse?” lo rabberciò Oliver, prima di fissare bieco Joy e ringhiare: “Quale incantesimo gli hai fatto, per renderlo così succube a te?!”

Impassibile di fronte al suo sfogo, Joy intrecciò le braccia sotto il seno, mentre Morgan apriva una a una le imposte delle finestre del primo piano.

“Non sono vittima di un incantesimo, papà. Piantala di fare l’ottuso, e dacci il tempo di spiegarti come stanno le cose.”

“Dovrei credere che non parli guidato da lei, quando non fai altro che difendere quella… quella…” sibilò Oliver, non riuscendo neppure a trovare le parole per definire ciò che, ai suoi occhi, non era altro che un mostro.

Sbuffando, Joy gli chiese con tono accigliato: “Esattamente, cosa crede che io sia?”

Lanciato uno sguardo al tavolino del soggiorno, dove si trovavano alcune copie della sua ricerca, Oliver replicò piccato: “Sai perfettamente cosa penso tu sia.”

“E nonostante questo, lei crede che io possa fare del male a qualcuno… a suo figlio, nella fattispecie” esalò Joy, sinceramente sorpresa. “Non potrei fare del male a nessuno, neppure se lo volessi, e…”

Bloccandosi di colpo a metà della frase, la ragazza si avvicinò a grandi passi a Oliver, sorprendendo sia lui che Morgan.

Senza dare alcuna spiegazione, poggiò una mano sulla fronte dell’uomo ed esclamò indispettita: “Per le corna di Api3! Avrei dovuto capire chi si celava dentro di lei!”

Scostandosi di qualche passo, suo malgrado spaventato e confuso da quell’affermazione, Oliver fissò il figlio come in cerca di aiuto.

Morgan, però, si limitò a chiedere a Joy: “Che succede? Cos’hai visto?”

Perdendo di colpo qualsiasi animosità nei confronti di Oliver, Joy sospirò e spiegò loro: “Non fa specie che tuo padre ce l’abbia sempre avuta con me o, per meglio dire, che avesse capito fin dall’inizio che in me c’era qualcosa di diverso.”

“Perché?” esalò Morgan, fissando curiosamente il padre che, sempre più accigliato, li osservava a momenti alterni senza sapere bene cosa fare.

“Possiamo sederci come delle persone civili, o dobbiamo discuterne qui nel mezzo del salone?” chiese allora Joy, guardando Oliver in particolar modo. “Non ho intenzione di fare del male a nessuno. E lei dovrebbe capirlo meglio di altri.”

Con un semplice cenno di assenso, Oliver si diresse alla poltrona di fronte al divano mentre Morgan, affiancando Joy, le sussurrò all’orecchio: “Spero vorrai spiegarmi che intendevi dire, prima.”

“Ovvio” annuì lei, accomodandosi sul divano assieme al giovane. “Scommetto che, anche adesso, lei può vedere la mia doppia forma, vero?”

Sobbalzando leggermente per la sorpresa, Oliver annuì cauto e mormorò: “Intravedo un’ombra oscura, un uccello dalle ali enormi e fiamme nere, immense e deformi.”

“Curioso che mi veda così” esalò vagamente sorpresa Joy.

Rivoltasi poi a Morgan, gli domandò: “Tu non vedi nulla, giusto?”

“Niente di niente, se intendi la tua forma animale” confermò Morgan, annuendo.

Intrecciando le mani su un ginocchio, Joy disse loro senza mezzi termini: “C’è una Pizia, nell’animo di tuo padre, Morgan.”

Portando la sua attenzione su Oliver, gli domandò: “Lei sa a chi mi riferisco, vero?”

Mentre Morgan fissava senza capire sia Joy che suo padre, Oliver sgranò gli occhi ed esalò: “Cosa stai dicendo?!”

Accorrendo in aiuto dell’espressione confusa di Morgan, Joy gli spiegò: “Pizia era il nome dato agli oracoli di Apollo a Delfi. Erano le sacerdotesse che predicevano il futuro per conto del dio, e riportavano le parole della divinità agli uomini. Anche Alex ha un Oracolo dentro di sé, ma di altro genere. Lui ha percepito fin da subito che, in me, c’era qualcosa di unico ma, contrariamente a tuo padre, non se ne è sentito minacciato.”

Morgan si passò una mano tra i capelli, sinceramente confuso, ed esalò: “Mi sto perdendo.”

Ridendo sommessamente, Joy lanciò uno sguardo a Oliver, che la stava ascoltando più che attentamente, e continuò nella sua spiegazione.

“Capita sovente che gli Oracoli scelgano involucri umani, per portare la voce dei loro antichi dèi nel mondo degli uomini. Ma non tutte le divinità hanno segreti da divulgare e, spesso, gli Oracoli rimangono silenti. Nostradamus era un Oracolo, per intenderci. L’Oracolo di Alex è di origine egizia, e quindi legato al culto di Rah, il dio Sole, e a me, che ne sono il lungo braccio.”

Guardando Oliver, aggiunse: “La Pizia, invece, pur essendo stata sacerdotessa di Apollo, appartiene a un culto più antico, legato al serpente. Apollo uccise il dio-demone Pitone, e fece propri i suoi santuari. Per non inimicarsi coloro che erano devoti a Pitone, però, ne preservò le sacerdotesse e alcuni dei riti, tra cui la presenza dei serpenti nei templi. Come vedete, le divinità solari e i serpenti non sono mai andati molto d’accordo.”

Storcendo il naso, Morgan allora chiese: “Fammi capire bene: mio padre è un Oracolo di Apollo?”

“Se Apollo volesse parlare al mondo, potrebbe farlo per mezzo suo, sì” annuì Joy, tranquillamente, mentre Oliver appariva sempre più sconcertato e scettico. “Ma Apollo ha perso da tempo il desiderio di prestare orecchio a ciò che avviene quaggiù.”

“Mentre Alex…”

Con un sorriso carico di ricordi e d’affetto, Joy mormorò: “Alex ha parlato, e agito, in nome di Rah per salvare me dalla morte. Avrai notato che, sulla mano sinistra, ha una bruciatura.”

“Sì, e…” sgranando gli occhi, Morgan, esclamò: “E’ come il tuo neo! Ora capisco perché mi parve tanto strano!”

“Se lo è fatto per aiutarmi a incanalare l’energia di Rah.”

Interrompendosi, scrutò il volto incredulo di Oliver per dirgli: “So che nulla di ciò che sto dicendo la può convincere, perché è tutto così assurdo da non avere quasi un senso, per chi non è addentro ai segreti delle divinità, ma mi permetta di aiutarla. Forse, comprenderemo entrambi perché mi vede come una creatura aberrante, invece che un’emanazione del dio a cui deve rispetto.”

Detto ciò, chiese a Morgan di accendere il fuoco nel caminetto.

Mentre il giovane la accontentava senza richiedere spiegazioni, Joy fissò il volto accigliato di Oliver e asserì: “Non mi lascia molta scelta ma, senza questa prova schiacciante, non credo lei mi crederà mai. Perciò, prepari se stesso a ciò che entro breve vedrà e ascolterà.”

“L’unica cosa che vedrò sarà la porta d’ingresso, prima di andarmene da qui” ringhiò lui, già sul punto di alzarsi dalla poltrona.

Nei suoi occhi, Joy lesse solo risentimento e rabbia, un’immensa rabbia senza fondo.

“Fossi in te, non lo farei!” esclamò una voce imperiosa, proveniente dal fuoco sfrigolante.

Morgan balzò in piedi e indietreggiò spaventato, un ciocco di legno ancora tra le mani.

Mentre le fiamme prendevano le sembianze di un volto umano, la voce tuonò stentorea e proclamò: “La pazienza di Fenice è ben maggiore di quella che mi appartiene, mortale. Poiché ella sembra tenere alla tua vita, risponderò al suo richiamo e mi porrò al suo servizio per il bene di colei che siede innanzi a te, Oracolo!”

Oliver sobbalzò sulla poltrona, impallidendo visibilmente mentre Morgan, crollando praticamente a sedere accanto a Joy, mormorò terrorizzato: “Dimmi che lo conosci, o penso scapperò a gambe levate da qui!”

Sorridendogli comprensiva, Joy gli strinse la mano per dargli coraggio.

Rivolta al volto di fuoco dalle chiome purpuree, la ragazza esordì sommessamente: “Ti sono grata per aver accolto il mio invito, Febo Apollo. Non ho trovato altro modo per convincere il tuo Oracolo della mia parola, se non far intervenire te.”

“Lieto di giungere in tuo aiuto, Fenice. Penso di sapere cosa impedisce al mio Oracolo di udire la tua verità, oltre alla mia. Pitone mi è ostile in tutte le sue forme e in tutti i tempi, …anche in questo caso, temo.”

Vagamente sorpresa, Joy esalò: “Intendi dire che…”  

Volgendo lo sguardo in direzione di Oliver, che pareva sul punto di avere un collasso isterico, Joy gli chiese gentilmente: “E’ mai stato morso da un serpente, mentre si trovava in India per i suoi studi sui Naga?”

“Come?” gracchiò Oliver, gli occhi che correvano dalle fiamme sfrigolanti, in cui il volto di un uomo lo fissava pensoso, al viso ansioso della ragazza di fronte a lui. “Sì, ma come… lo sapevi?”

“E’ stato allora” annuì Joy, comprendendo ciò che era successo. “Il veleno che le ha iniettato il serpente, serviva a rendere predominante l’ascendente di Pitone su Pizia, e annullare i poteri del dio del Sole e, perciò, anche i miei, che sono una divinità legata alla luce.”

“E’ un danno più che risolvibile con il tuo fuoco, Fenice” intervenne Apollo, volgendo il suo viso di fiamma in direzione della ragazza.

“Avrei dovuto rendermi conto prima della presenza di Pizia ma, evidentemente, il veleno di serpente ha reso opache anche le mie percezioni” si scusò Joy, prima di ringraziare Apollo.

Con un ultimo sfrigolio, la divinità scomparve, lasciando che le fiamme tornassero alla loro forma originaria.

Morgan tirò un sospiro di puro sollievo e crollò contro lo schienale del divano, esalando: “Avvertimi, la prossima volta che intendi invitare qualcuno di così inusuale, o il mio cuore potrebbe cedere.”

“Scusami” fece la lingua Joy, prima di rivolgersi a Oliver e chiedere: “Mi permetterà di aprire i suoi occhi alla verità?”

“Vedo già anche troppo, per i miei gusti” ringhiò Oliver, alzandosi in piedi per andarsene.

Affrettandosi a seguirlo, Morgan lo bloccò a un braccio ed esclamò: “Joy! Muoviti! Fai quel che devi!”

“Lasciami andare, Morgan!” gli urlò contro Oliver, divincolandosi.

Morgan fu sordo ai suoi appelli e, mentre Joy si avvicinava in tutta fretta, il giovane mormorò spiacente al padre: “Non ti farà male, ma devi sapere tutto.”

Un attimo dopo, le fiamme lo avvolsero.

Spaventato, Oliver cominciò a divincolarsi e urlare, tentando senza posa di allontanarsi dal pericolo.

Joy, però, lo bloccò al polso, al pari del figlio che lo tratteneva al braccio, e mormorò gentilmente: “Guardi suo figlio. Le fiamme avvolgono anche lui, ma non sta soffrendo. E neppure lei, se si degnerà di calmarsi un istante. Il fuoco non le può fare del male, le sta solo purificando il sangue.”

Le urla scemarono con il passare dei secondi.

Mentre le fiamme scarlatte andavano ritirandosi come il reflusso della marea su una spiaggia, la realtà apparve agli occhi di Oliver con colori nuovi, più vividi.

Scivolando a terra lentamente, accompagnato in quel movimento dalle mani di Joy e Morgan, Oliver fissò con occhi spalancati e increduli il viso della ragazza che aveva innanzi.

Tremante, mormorò: “Sei… sei splendente come il sole. E meravigliosa.”

“Riesce a vedermi per quello che sono realmente, ora?” sorrise Joy, lasciandogli andare la mano.

Subito, Oliver la sollevò per sfiorarle il viso, avvertendo sotto le sue dita la morbidezza delle piume del mitico uccello di fuoco che riusciva a intravedere attorno a lei.

Sorridendo di ammirata meraviglia, esalò: “Niente può essere così bello…”

“Sta bene, ora?” mormorò Morgan, all’indirizzo di Joy.

“Sì, il suo sangue è ripulito dal veleno, così come il suo cuore” annuì Joy, ora più tranquilla. “Vede ancora l’ombra dietro di me? L’essere che tanto la turbava?”

“No, non c’è più” scosse il capo Oliver, chiedendo subito dopo: “Perché mi sento così… leggero?”

“Perché è libero dal velo di oscurità che i Naga avevano calato dinanzi ai suoi occhi” gli spiegò Joy, tendendo una mano verso di lui.

Oliver la prese, stringendola flebilmente tra le proprie prima di esalare un sospiro di sorpresa e mormorare: “Sei… sei calda. Sempre più calda.”

Joy annuì e Morgan, sorridendo un istante alla ragazza, spiegò poi al padre: “Lo fa quando è contenta.”

Oliver a quel punto si volse verso il figlio, gli occhi ricolmi di un dispiacere dalle radici profonde e ben radicate.

Con voce resa roca dal rimorso, mormorò sommessamente: “Potrai mai perdonarmi per non aver avuto fiducia in te, e per aver rischiato di perderti?”

Morgan si sedette a terra a gambe incrociate assieme a loro e, poggiate le mani sulle ginocchia, guardò il padre con un sorrisino divertito dipinto sul volto.

“Abbiamo appurato che non sei stato pienamente in te, in questi anni. Mi interessa soltanto che tu abbia capito che Joy non è una creatura malvagia, e che non pubblicherai il tuo articolo su di lei.”

A quell’accenno, Oliver ebbe la compiacenza di arrossire e, con tono profondamente contrito, esalò: “Temo di aver commesso un altro errore.”

Accigliandosi immediatamente, Joy gli chiese: “Che intende dire?”

“Ne ho parlato con il professor Chandra, un mio vecchio collega e…”

Interrompendosi con un sobbalzo quando sentì la mano di Joy farsi gelida, Oliver la fissò a occhi sgranati nel vederla adombrarsi in viso.

Senza avere il tempo di trattenerla, le dita di lei sgusciarono via dalla sua stretta, mentre la ragazza si levava in piedi con un diavolo per capello.

Vagamente sorpreso, anche Morgan la fissò senza parole e Joy, bloccatasi per fissare terrorizzata Oliver, esclamò: “Perché ha dovuto parlare proprio con lui?! Ma di che dovrei stupirmi, poi? Dopotutto, l’anima di una Pizia cercherà sempre i suoi simili!”

Oliver preferì non mettere a parole la sua stupida idea di rivalsa, ma a Joy bastò guardarlo negli occhi per capire.

Gesticolando nervosamente con le mani, riprese a camminare avanti e indietro per l’open space, sibilando infuriata: “Di tutti gli eminenti studiosi a cui si poteva rivolgere, proprio a un Naga doveva parlare di me!”

Quel riferimento, fece impallidire Oliver al punto tale che Morgan lo fissò preoccupato per diversi attimi, temendo potesse insorgere una sincope, o qualcosa di peggio.

Fortunatamente, il padre si riprese alla svelta e, con l’aiuto del figlio, si rimise in piedi prima di domandare sgomento: “E’ stato dunque lui ha insabbiare le mie ricerche?”

“Certo che è stato lui!” brontolò Joy, iniziando a perdere qualche piuma nel gesticolare sempre più freneticamente.

Morgan la osservò con  un certo divertimento e, afferrata una piuma scarlatta, le domandò: “Ti capita spesso?”

“Quando sono furiosa o spaventata” gli spiegò distrattamente, prima di guardare Oliver e aggiungere: “E’ così che tuo padre ha trovato la piuma. Quel giorno, sono successe parecchie cose che mi hanno innervosita.”

Rigirandosi la piuma tra le dita di una mano, Morgan la bloccò al braccio, domandandole: “Senti… se mio padre non edita nulla, i Naga non avranno di che preoccuparsi, no?”

“E pensi che lascerebbero in giro delle notizie così compromettenti, senza pensare di eliminare chi le ha trovate?” ribatté Joy, scuotendo il capo. “No, li conosco troppo bene. Ormai, le cose si sono spinte troppo avanti, per essere fermate con le buone.”

“Che intendi dire?” le chiese turbato Morgan, accigliandosi e accentuando la stretta sul suo braccio.

Mortalmente seria, Joy si limitò a dire: “Dovrò combattere.”

A quel punto Morgan esplose in un’imprecazione così volgare che persino suo padre lo fissò accigliato mentre Joy, a occhi sgranati, esalava sconvolta: “Morgan, per l’amor di Dio!”

Per nulla turbato da ciò che aveva detto, Morgan la fissò con sguardo d’acciaio, esclamando lapidario: “Tu non combatterai. Non se ne parla! Li affronterò io!”

Joy impiegò qualche istante prima di recepire completamente la frase di Morgan.

Quando il suo cervello l’ebbe registrata e catalogata, scoppiò in una risata così amara che il giovane la fissò accigliato, adombrandosi a ogni secondo che passava.

Scuotendo il capo con aria incredula, Joy esclamò: “Ma non ti rendi conto che loro sono divinità? Io stessa sono una divinità! Tu sei mortale, Morgan. Cosa pensi di fare? Hai mai visto un Naga? Sai che poteri ha, o quanto sia grosso, nella sua forma animale?”

Azzittito da quella filippica più che appropriata, Morgan intrecciò testardamente le braccia sul petto, pronto a ribattere a ogni sua parola.

Fissandolo con autentico sconcerto, Joy esalò: “Oh, no! Non discuterò con te di questo. Non se ne parla. Li affronterò da sola, punto e basta.”

“Da sola, non farai un accidente di niente, è chiaro?” protestò Morgan, sordo a qualsiasi sua parola.

Conciliante, Oliver sfiorò una spalla del figlio per ricondurlo a più miti consigli ma Morgan neppure se ne accorse, troppo impegnato in una silenziosa battaglia di sguardi con Joy.

Joy che, sempre più incredula di fronte alla testardaggine di Morgan, esplose in alone di fiamma e sentenziò stentorea: “Puoi tu dunque reggere il confronto con il potere di un dio?”

Levando una mano verso il soffitto, assottigliò le iridi smeraldine fino a ridurle a due esili fessure prima di aggiungere furente: “Puoi tu dunque richiamare a te il potere del sole?”

Prima ancora di poter proferire parola, Morgan sgranò gli occhi per il terrore, non appena vide la mano levata di Joy divenire sempre più splendente, quasi avesse un piccolo sole stretto tra le dita.

Quando il solo guardare quello spettacolo fuori da ogni logica divenne impossibile, Morgan chinò il capo.

Mentre il calore attorno a lui diveniva sempre più asfissiante, Joy esclamò ancora: “Puoi tu dunque accogliere nelle tue mani la stessa energia degli astri?”

“No che non posso!” urlò a un certo punto Morgan, piegandosi su un ginocchio, prostrato dal calore sempre più prepotente che lo stava colpendo.

A sorpresa, vide che suo padre, invece, non ne stava subendo minimamente la forza, così come Monet.

Che Joy volesse metterlo alla prova, senza per questo ferire alcun altro?

Con un tono di voce più moderato, Morgan iniziò ad ansimare e mormorò: “Ho capito che sei molto più forte e potente di me, Joy, ma non ti lascerò mai andare da sola. Ovunque tu vorrai andare per affrontare quei tipi, io sarò con te, perché sono in te.”

La mano calò di colpo, e così il caldo soffocante che lo aveva prostrato a terra.

Joy si inginocchiò al suo fianco per abbracciarlo – come a scusarsi per quella prova di forza – , e lui rispose all’abbraccio, sussurrandole tra i capelli: “Siamo una cosa sola, Joy. Non dimenticarlo mai.”

Lei annuì, cercando di non piangere e Oliver, osservandoli con occhi colmi di una gioia venata di tristezza, sentenziò: “Lascia che ti aiuti. Lasciate che vi aiuti. Lasciatemi rimediare.”

Nel risollevare lo sguardo, Joy fissò i suoi occhi di smeraldo in quelli di Oliver, ora tanto simili a quelli del figlio per brillantezza e profondità – non più venati dal veleno del Naga.

Annuendo una sola volta, mormorò: “Per quanto mi sarà possibile, accetterò il suo aiuto.”




 
 
***



 
Impiegammo gran parte della mattinata a chiarire i punti rimasti in sospeso.

Man mano che la calma tornava a brillare negli occhi ora pacificati di Oliver, la sua sana curiosità di studioso venne a galla.

Per me, fu quasi divertente rispondere alla sue migliaia di domande, osservati da un Morgan raggiante e, al tempo stesso, preoccupato.

Potevo immaginare quanto, l’imminente scontro con i Naga, lo turbasse, ma non intendevo parlare di questo con lui proprio in quel momento.

L’importante era restituirgli suo padre e se, per farlo, avessi dovuto rispondere per giorni interi alle sue domande, lo avrei fatto.

Vederci assieme sembrava pacificarne lo spirito e risanarne le ferite vecchie di anni.

Sapevo che il suo più grande desiderio era stato quello di vedere me, e suo padre, seduti assieme a parlare come due persone cordiali.

Pur se non aveva mai neppure immaginato i reali motivi che ci avevano tenuti così a distanza, ora quel particolare non aveva alcuna importanza.

Con Monet appollaiato sulla mia spalla e che, ogni tanto, canticchiava allegramente per spingermi a fare altrettanto, spiegai a Oliver dei miei trascorsi in Egitto.

Gli raccontai dei Naga, spiegando così sia a lui che a Morgan il perché della mia millenaria disputa con gli uomini serpente.

L’idea che avessi conosciuto Siddharta, provocò una reazione piuttosto curiosa in Morgan.

Deglutì a fatica diverse volte, prima di scusarsi con noi e uscire in veranda, dove rimase per la successiva mezz’ora.

Preferii non indagare troppo sulle sue emozioni, lasciando che la solitudine che aveva cercato fosse solo sua.

Concentrata unicamente su Oliver, terminai di spiegare la mia storia quando Morgan rimise piede in casa.

Era ancora vagamente pallido, ma il suo cuore batteva con regolarità e, quando lo invitai a sedersi al mio fianco, accettò senza remore.

Mi baciò con forza sulle labbra, portandomi ad arrossire leggermente – fin troppo consapevole dello sguardo di Oliver fisso su di noi – e, quando si scostò per guardarmi negli occhi, mi disse soltanto: “Sei Joy. Indipendentemente da tutto.

Gli sorrisi, comprendendo quanto fosse difficile, per lui, accettare tutto ciò come un dato di fatto.

Con una carezza delicata sul suo viso, mormorai debolmente: “Sono Joy. Tutto qui.”

 
 
 
 
 
 
__________________________________
1 citar: chitarra indiana.
2 Garuda: nome della divinità indiana equiparata a Fenice.
3 Api: Bue Api, divinità egizia legata al culto di Osiride.

 
 
Spero di aver spiegato il mito della Pizia in modo abbastanza chiaro ma, se avete dei dubbi, non esitate a chiedermi. Grazie a chi ha letto, e/o commentato! :)

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Capitolo 30
*** cap. 30 ***


 
30.
 
 
 
 
 
Nel sentire la porta di casa aprirsi, Consuelo si asciugò frettolosamente le mani per poi portarsi in corridoio e dire: “Oh, tesoro, sei riuscito a…”

Si interruppe subito, quando vide Oliver.

Era accompagnato da Morgan e da Joy, che tante volte aveva visto in fotografia, durante le sue visite a casa del figlio.

Sobbalzando di sorpresa, esalò: “Oh, mio Dio!”

Oliver le sorrise bonariamente, comprendendo appieno la sua sorpresa e il suo smarrimento.

Quando, però, fece per parlare, si ritrovò gli occhi sgranati di Consuelo addosso.

Al limite delle lacrime, lo fissavano come se lo vedessero per la prima volta. O come se fossero tornati a vederlo dopo tanti anni di assenza.

Portandosi una mano alla bocca per soffocare un singhiozzo, Consuelo lo abbracciò con forza, esclamando al colmo della gioia: “Sei di nuovo tu! Sei di nuovo tu!”

Joy sorrise nel sentirle pronunciare quelle parole e, a Morgan, sussurrò: “E’ evidente che a tua madre non fosse sfuggito un cambiamento negli occhi di tuo padre.”

“A quanto pare…” asserì Morgan, sorridendo nel vedere la coppia così teneramente abbracciata.

La decisione di recarsi da Consuelo era venuta di comune accordo ma, prima di andare a casa Thomson, Joy li aveva pregati di fermarsi al suo appartamento.

Continuare a indossare la camicia di Morgan, non era esattamente il modo migliore per presentarsi a una persona mai vista né conosciuta.

In fretta e furia, aveva indossato un paio di jeans e una maglietta con felpa correlata e, dopo aver infilato le scarpette da ginnastica, era tornata di corsa all’auto del professore.

Vagamente sorpreso, Morgan le aveva chiesto spiegazioni circa la sua agilità di movimenti e la totale mancanza di zoppia.

“L’essermi trasformata in Fenice mi ha permesso di guarire” gli aveva spiegato con semplicità, prima di vedersi appuntare addosso lo sguardo indagatore di Oliver.

Con un sorrisino, aveva aggiunto: “Sì, suo figlio mi ha vista anche nell’altra mia forma.”

E Morgan, estasiato, ne aveva decantato la bellezza con parole così ispirate che, a un certo punto, Joy aveva dovuto frenarne la loquacità per non morire d’imbarazzo.

Sapeva che, l’eccessiva parlantina del giovane, dipendeva da una non completa assimilazione della realtà.

Era anche conscia del fatto che, per riavere accanto a sé un Morgan nuovamente ‘in fase’, avrebbe dovuto aspettare ancora qualche giorno.

Anche Alex aveva faticato a digerire la verità, pur avendo dentro di sé un Oracolo di Alessandria d’Egitto.

Comprendeva appieno le difficoltà di Morgan, perciò non le era parso strano sentirlo straparlare di lei e della sua doppia personalità.

Tutto si sarebbe risolto ma, per il momento, avrebbe dovuto lasciar parlare Morgan a briglia sciolta, almeno con lei.

Quando infine avevano raggiunto la villetta dei Thomson, Morgan aveva circondato la vita di Joy con un braccio e si era incamminato assieme a lei lungo il vialetto.

Aveva sorriso sornione, con una soddisfazione quasi palpabile dipinta sul volto.

Joy ne aveva gioito, perché sapeva quanto avesse desiderato quel momento, pur se nubi all’orizzonte adombravano in parte la bellezza di quell’istante tanto agognato.

Nessuno di loro aveva dimenticato il pericolo incombente, ma la riappacificazione della loro famiglia era un evento così importante che non poteva non essere festeggiato.

Nello sciogliersi dall’abbraccio col marito, Consuelo scrutò la giovane coppia sull’ingresso e, sorridendo loro con autentica gioia, sussurrò grata: “Me l’avete riportato.”

“E’ stato tutto un po’ complicato, ma… sì. Papà è come prima” annuì Morgan, sciogliendosi dalla stretta con Joy per dare un bacio sulla fronte alla madre.

Sorridente e con mano leggermente tremante, Consuelo diede una carezza al figlio prima di volgere gli scuri occhi di pece in direzione di Joy.

“Posso solo immaginare che il merito di tutto sia tuo.”

“Se fossi stata più oculata, avrei potuto rendermene conto anni fa, ma ho avuto paura” ammise Joy, scrollando leggermente le spalle. “Ma sono lieta di aver liberato suo marito dalla nebbia che lo avvolgeva.”

Detto questo, le raccontò brevemente ciò di cui era stato vittima Oliver.

Annuendo a più riprese, pur se con un’espressione di vaga meraviglia nello sguardo, Consuelo sospirò e ammise: “Sapevo che qualcosa non andava in lui, ma mai avrei pensato una cosa simile. E’ ancora tutto così assurdo, ai miei occhi!”

“Credo anche per loro” sostenne Joy, sorridendo ai due uomini accanto a loro.

Consuelo annuì prima di ridacchiare e prendere Joy sotto braccio, ammiccando all’indirizzo della cucina.

“Andiamo a sederci. Mi sembra sciocco parlare di cose così importanti nel bel mezzo di un corridoio.”

“Ha ragione” annuì Joy, sorridendole.

Con una pacca sulla mano della ragazza, Consuelo replicò gentilmente: “Dammi del tu, bambina. Ora che tutto si è risolto, non c’è bisogno di mantenere le distanze.”

A quel commento, Oliver sospirò e, nell’accomodarsi al tavolo della cucina, la moglie lo fissò turbata.

Lanciò poi un’eguale occhiata dubbiosa ai due giovani, che si sedettero l’uno accanto all’altro, tenendo le mani allacciate tra loro.

Intrecciando le proprie sulla tovaglia di pizzo bianco, la donna sollevò un arcuato sopracciglio scuro prima di chiedere ai presenti: “Cosa vi siete dimenticati di dirmi? Devo ringraziare il fatto di essere seduta? Cosa può esserci di più strano di quanto mi avete detto fin’ora?”

Fu Oliver a parlare.

Le spiegò della sua telefonata a Bharat Chandra, e delle ripercussioni che avrebbe avuto su tutti loro.

Quando Consuelo ebbe terminato di ascoltare la dissertazione imbarazzata del marito, non si lasciò sfuggire un singulto strozzato quanto irritato.

Comprendendone la giusta ira, Oliver reclinò il capo con fare colpevole e la moglie, dandogli una pacca piuttosto energica sul braccio, sibilò: “Ma perché hai dovuto parlare proprio con lui?!”

“In parte, a causa della possessione del veleno del Naga e, in parte, per via dell’Oracolo. La Pizia nacque sacerdotessa di Pitone e perciò, a causa dell’influsso del Naga, non ho potuto percepire Apollo, né il suo lungo braccio” mormorò l’uomo, lanciando un’occhiata spiacente a Joy,

“E’ stato praticamente spinto a dire tutto a Chandra” spiegò succintamente quest’ultima, sospirando tremula. “Il problema è un altro. Qui, sono in condizione di svantaggio, poiché sono una creatura legata al fuoco, mentre i Naga sono legati all’acqua. Lincoln City non è esattamente un luogo ideale per uno scontro, per me.”

Morgan strinse maggiormente la mano attorno a quella esile di Joy, mormorando: “Possono prendere forza dal posto in cui si trovano?”

Annuendo, Joy asserì: “Non è un caso se Manasa si trova in India. E’ uno dei luoghi più umidi della Terra, oltre a essere il posto in cui è nato il suo culto.”

“E tu dove dovresti andare?” replicò Morgan, curioso.

La ragazza gli sorrise sorniona e il giovane, sollevando un sopracciglio con evidente sorpresa, esalò: “Phoenix?!”

“Già” ammiccò lei, divertita dalla sua sorpresa.

A quel punto, Consuelo e Oliver si guardarono sorpresi in volto e vagamente speranzosi.

Stupita dalla loro reazione, Joy chiese loro: “C’è qualcosa che non so?”

Fu il turno di Morgan di sorriderle con fare sornione.

Avvolgendole le spalle con un braccio, il giovane le disse: “Devi sapere, piccola, che papà e mamma sono nati a Phoenix – si conobbero lì, prima di perdersi di vista, e ritrovarsi tempo dopo all’università. Comunque, per la cronaca, papà ha una casa, laggiù.”

Sgranando gli occhi per la sorpresa, Joy fissò in volto l’uomo prima di aprirsi in un mezzo sorriso ed esalare: “Sembra che fossimo destinati a incontrarci in ogni caso, io e lei.”

“Ha un significato speciale, per te, quella città?” le chiese allora Oliver, sorridendole generosamente.

Ridendo sommessamente, Joy annuì.

“Ero lì, quando Jack Swilling decise di fondare Phoenix. La Valle del Sole è uno dei miei luoghi preferiti.”

Morgan tossicchiò sgomento, a quel commento, e Joy, sorridendogli spiacente, mormorò: “Mi spiace. Vedrò di stare attenta nelle uscite. So che questo genere di nozioni può dare alla testa.”

“Mai come quella faccia di fuoco che è comparsa nel mio camino” brontolò Morgan, scuotendo il capo, ancora poco convinto riguardo a ciò che aveva visto e sentito.

Ci sarebbe davvero voluto ancora molto, perché accettasse quella parte di lei. Ma avevano tempo o, almeno, così sperava.

Anche Consuelo parve piuttosto restia a comprendere l’uscita del figlio e, soprattutto, ad accettarla ma, gentilmente, non espresse i suoi dubbi.

Era già tanto che non fosse svenuta, alla notizia della sua duplice identità.

Stare al fianco con Oliver tutti quegli anni, doveva averla svezzata alle stranezza.

Lo scontro con i Naga, comunque, la preoccupava più di qualsiasi reazione anomala da parte dei suoi uditori.

Questi erano tempi in cui, ben poco, sfuggiva all’occhio attento degli esseri umani, e divulgare la loro presenza al mondo, era un pericolo che avrebbe preferito evitare.

Preso un gran respiro, Joy chiese a Oliver: “Sarebbe disposto a prestarmi… prestarci la casa per qualche giorno?”

Nel dirlo, sorrise a Morgan che, non appena si era reso conto di essere stato tagliato fuori, le aveva dato un pizzicotto sulla spalla.

“Non ci sono problemi. Chiamerò i miei genitori perché vi vengano a prendere all’aeroporto e arieggino un po’ i locali. Di solito, ci andiamo solo un paio di volte l’anno, quindi sarebbe meglio rimpinguare le scorte, in vista del vostro arrivo” le spiegò Oliver, annuendo alla ragazza.

Un attimo dopo, però, guardò dubbioso il figlio.

“Sei certo di volerla seguire?”

“Dove va lei, vado io” replicò perentorio Morgan, chiudendo il discorso con poche, rapide parole.

Consuelo annuì nel sorridere al figlio ma, turbata, chiese: “Cosa succederà, all’incirca?”

“Niente di buono” sospirò Joy. “In che zona si trova la sua casa, Oliver?”

“Dammi del tu, per favore” la pregò lui, aggiungendo subito dopo: “Nella Orange Valley, sulla West Estrella.”

Annuendo, Joy mormorò pensierosa: “Ci sono dei rilievi montuosi, a Est, neppure troppo distanti, e una quantità imprecisata di arroyo1. Può andare, ma non basta.”

Afferrato il cellulare che teneva nella sua custodia, allacciata alla cintola, Joy compose il numero di Brian che, dopo pochi squilli, mugugnò uno stentato: “Che c’è?”

Ridacchiando suo malgrado per quel saluto borbottato a mezza voce, Joy gli domandò curiosa: “B, che stai facendo? Non dirmi che stavi dormendo! Dovrebbe già essere pomeriggio, lì da te.”

“Non ti stupiresti così tanto, se avessi lavorato per un intero mese perennemente di notte” borbottò lui, prima di sbadigliare sonoramente e chiederle: “Che succede, cuginetta? Guai con il tuo pompiere preferito?”

Ammiccando all’indirizzo di Morgan, Joy poggiò il telefonino sul tavolo e disse a mezza voce: “Metto il vivavoce, sappilo. E sappi anche un’altra cosa; sono con il professor Thomson e famiglia, e abbiamo più o meno chiarito tutto.”

“CHE COSA?!” sbraitò al telefono Brian.

Come una furia scatenata, si lanciò in una serie di oscenità tali da portare Consuelo a ridacchiare, e Oliver a fissare incuriosito Joy, che scrollò le spalle impotente.

Quando gli insulti terminarono, Brian aggiunse furente: “Che diavolo ci fai, lì? Ti si è fuso il cervello?! O Rah ti ha scaricato un millino di Volt in testa, e ti ha mandato in corto i neuroni?!”

Quel riferimento a Rah la fece arrossire e Morgan, fissandola con aria inquisitoria, le domandò: “Il cuginetto ha usato un riferimento casuale, o specifico?”

“Ehi, pompiere, ci sei anche tu? Non potevi fermarla?” brontolò Brian, con tono offeso.

Ridendo, Morgan si rivolse al telefono, replicando: “Guarda che Joy ti ha detto la verità. Il problema non è più mio padre.”

“E cosa, allora?” si insospettì Brian, prima di chiedere a Joy: “Cuginetta, vuoi spiegarmi?”

“E’ quello che volevo fare, ma tu hai cominciato a sbraitare come un ossesso” ci tenne a dire Joy, sbuffando.

“Okay, mi muro la bocca, per il momento. Spara.”

“Vorrei sapere se puoi farmi avere i tracciati dei satelliti spia, e non, che solcheranno i cieli dell’Arizona tra il sei e l’otto maggio di quest’anno” gli spiegò succintamente, sorprendendo vagamente i presenti.

Silenzio totale.

Brian ritrovò la voce solo dopo un minuto buono di riflessione e, con voce stranamente professionale e seria, asserì: “Mi ci vorrà qualche giorno, perché non è esattamente il mio campo, ma so a chi chiedere. Perché ti serve saperlo?”

“Pare che dovrò recarmi a Phoenix per affilare un po’ gli artigli, e preferirei non essere vista” si limitò a dire Joy, sperando gli bastasse.

Ovviamente, era stata una speranza vana fin da quando l’aveva pensato.

Brian mugugnò un altro mezzo insulto, prima di replicare scocciato: “D’accordo che tu e Alex siete come pane e marmellata, ma vorrei essere messo al corrente anch’io delle cose, se fosse possibile.”

Ridacchiando, Joy ribatté divertita: “Guarda che sei il primo a sapere di questa cosa, B.”

“Sì?” esclamò lui, tutto eccitato. Sghignazzando, sentenziò: “Lo farò morire, prima di dirgli tutto.”

Morgan fissò Joy con aria ghignante e lei, con una scrollata di spalle, chiosò: “Gelosia tra fratelli. Che ci vuoi fare?”

“Ti serve altro, Joy?”

“Mi basteranno i tracciati. Per il resto, dovrò rivolgermi ben più in alto” sospirò la ragazza, prendendo un gran respiro.

“Lo farai mai davanti a me? Non è giusto che Steve e Alex abbiano potuto parlarci, mentre io no” borbottò con fare petulante Brian.

“Brian, non è un gioco” precisò Joy, fissando malamente il cellulare.

“Lo so perfettamente. Ma il fatto rimane” puntualizzò Brian, testardamente.

Passandosi una mano sul viso con aria estremamente disgustata, Joy mugugnò: “Rimani in linea… e prega che voglia parlarmi. Ultimamente, è stato parecchio sulle sue.”

“Lo hai fatto arrabbiare? O è geloso del tuo ragazzo?” ridacchiò Brian, incuriosendo, e parecchio, Morgan, che fissò Joy in cerca di risposte.

“Brian!” lo richiamò all’ordine la ragazza, diventando paonazza.

“C’è qualcosa che non so?” le domandò con falsa ingenuità Morgan.

Divenendo, se possibile, ancor più rossa in viso, Joy lanciò delle occhiate veloci all’indirizzo di Oliver e Consuelo – che avevano ascoltato l’intera telefonata a metà tra il divertito e l’interessato.

Stridente, Joy allora ringhiò all’indirizzo dell’amante: “Non parlerò di certi argomenti di fronte ai tuoi genitori!”

“Oh” sussurrò Morgan, assottigliando le iridi scure per scrutarla con malcelato interesse.

Coprendosi il viso con le mani, Joy ringhiò: “Brian, se tutto finirà bene, giuro che ti scuoierò vivo!”

Ridacchiando senza il minimo imbarazzo, Brian ribatté caparbio: “Non puoi farlo! Sei Fenice!”

“Potrei sempre fare un’eccezione, esattamente come ho fatto con Morgan” replicò lei, mortalmente seria.

Brian ebbe la decenza di non dire altro.

Una volta che fu sicura del silenzio del cugino, Joy guardò i suoi interlocutori e disse spiacente: “Temo dobbiate sorbirvi uno spettacolo pirotecnico, ora. Non abbiate paura e, soprattutto, non stupitevi di ciò che sentirete. Invocherò Rah, il dio Sole, esattamente come stamani ho chiamato Apollo.”

Consuelo fu l’unica a sgranare gli occhi fin quasi a farsi male e Oliver, afferrandole una mano, la consolò, dicendole gentilmente: “Non sei stata tu a dirmi che al mondo esistono cose incredibili?”

“Era tantissimo tempo fa…” replicò ansando Consuelo, con tono vagamente piccato. “… e, di certo, non intendevo niente del genere! Già è stata dura mandar giù la sua indentità, ma altro

“Mi spiace, Consuelo. Avrò tempo di spiegarti tutto più avanti, se ogni cosa andrà per il verso giusto, ma ora non posso permettermi di essere gentile” asserì calorosamente Joy, allungando una mano a sfiorare il suo braccio.

Pur tremando, la donna annuì e disse roca: “Fai quel che devi. Vedrò di non svenire.”

Annuendo con un sorriso, Joy riprese nella sua la mano di Morgan e, chiusi gli occhi, mormorò con tono pacato e gentile: “Rah, io ti invoco. Ti prego, ho bisogno del tuo aiuto.”

“Dovrai offrirmi un mezzo tramite cui parlare, se vuoi che i presenti mi ascoltino” dichiarò una voce tranquilla nel buio della sua mente.

Sorridendo nell’udire quel timbro a lei tanto caro e che, in quelle ultime settimane, era quasi giunto a scomparire, Joy chiese a Morgan il suo telefonino.

Dopo averlo disposto sul tavolo accanto al suo, mormorò: “Conosci il numero di Morgan, vero?”

“Che domande!” esclamò Rah, ridendo nella sua mente.

Joy accentuò il suo sorriso e, quando il telefono squillò, tutti sobbalzarono per la sorpresa, tranne lei.

Accettata la chiamata e inserito il vivavoce, Joy gli chiese: “Posso fare affidamento sul tuo aiuto?”

“Benu, dovresti saperlo che, per te, ci sarò sempre!” esclamò una voce stentorea, proveniente dal telefonino.

Non occorse alcuna presentazione.

Il tono, quanto il timbro vocale, parlarono per Rah.

Il suo inglese strideva con il suo modo di parlare e, il suo accento orientale, dava alle sue parole un che di singolare, di mistico.

Oliver e sua moglie impallidirono visibilmente nell’udire quella voce mentre Morgan, fissando vagamente spaventato Joy, gracchiò: “E’ davvero Rah? Quel Rah che ipotizzo io?”

Annuendo, Joy gli spiegò: “E’ il Disco Solare, sì.”

“A quanto sembra, Manasa vuole assaggiare le tue carni, Benu, o sbaglio?” intervenne Rah, con tono incolore.

“Vedi bene, amico mio. Puoi coprirmi per il tempo in cui sarò a Phoenix?” gli domandò allora Joy.

“Vedrò di colpire la Terra con il mio dolce bacio” ridacchiò Rah, tornando serio subito dopo. “Preferirei portassi con te Alexander. Potrei aiutarti tramite lui. Con il giovane Morgan non posso intervenire, invece.”

“Alex dovrà rimanere al sicuro… e credimi, non ho bisogno del tuo intervento fino a questo punto” replicò Joy, pur apprezzando la sua preoccupazione.

“Il fulgore dei tuoi poteri non è completo, e lo sai” ribatté Rah, adombrandosi.

A quel commento, Morgan la fissò accigliato e lei, con un sospiro, gli spiegò: “I miei poteri saranno completi al compimento del mio trentesimo anno di età.”

“Allora, sequestrerò Alex e lo porteremo con noi” sentenziò Morgan, con un tono che non ammetteva repliche.

“C’era un motivo se ho sempre apprezzato questo giovane” ridacchiò Rah, facendo arrossire Joy.

Morgan trovò quel commento piuttosto bizzarro.

Rivolgendosi per la prima volta a quell’essere immortale che, stranamente, stava parlando con loro attraverso uno strumento che, di mistico, non aveva un bel niente, mormorò: “Posso sapere come fa a conoscermi?”

“Ragazzo, io vedo tutto e so tutto. Io sono l’Astro del Mattino e della Sera, sono colui che illumina i cieli, sono…”

Interrompendolo, Joy esclamò: “Rah, ti prego. Morgan sa benissimo cosa sei!”

“Chiedo venia, Benu. E’ così raro, per me, parlare con i mortali!” esclamò divertito Rah. “Venendo a noi, giovane Morgan Johnathan, so di te fin da quando tu e la mia prediletta vi conosceste. Non ho mai abbandonato il fianco della mia diletta Benu, nonostante ultimamente siamo stati decisamente in disaccordo.”

Joy sorrise a quel commento mentre, per la prima volta, veniva a conoscenza del secondo nome di Morgan.

Rah adorava stupire i suoi ascoltatori e il pompiere, nel sentir nominare il suo nome completo, impallidì.

“Devo… preoccuparmi?”

“Affatto. Anche se so che il giovane Brian Theodor ti ha messo in allarme su di me” replicò bonario Rah.

Brian, dal suo telefonino, ridacchiò nel sentirsi nominare.

“Quel che c’è stato tra me e Benu, si perde nei secoli e tra le sabbie del deserto, e non tocca minimamente il rapporto unico che vi lega” continuò col dire Rah, ora mortalmente serio. “Non potrò agire per aiutarla, ma so che la tua presenza le sarà ugualmente di conforto. Purtroppo, non posso dirvi altro.”

“Prima o poi scoprirò chi riesce ad azzittirti” brontolò Joy.

Una risatina allegra fuoriuscì dal telefono, mentre il tono di voce di Rah andava scemando, allontanandosi nell’ancestrale abisso dove il suo Io aveva dimora.

Quando la linea venne interrotta, Joy chiuse il telefonino di Morgan, restituendoglielo.

Dopo aver lanciato un’occhiata a tutti loro, spiegò succintamente: “Pare ci sarà una bella tempesta magnetica2, nel mese di maggio.”

“Rah riuscirà a influenzare il Sole?!” ansò Morgan, sobbalzando sulla sua sedia.

“Lui è il Sole” precisò Joy. “Contento, ora, Brian?”

“Più che sì. Ti farò avere i dati che ti servono, Joy, così potrai riferirli a chi di dovere” le promise il giovane prima di aggiungere, seriamente: “Fai attenzione. Fenice o meno, sei pur sempre la mia cuginetta e mi mancheresti, se ti succedesse qualcosa.”

Joy sorrise a mezzo e sussurrò: “Sarò prudente, nei limiti del possibile.”

Detto ciò, chiuse la comunicazione anche con il cugino e, con un lungo sospiro, guardò Oliver.

“Temo che ora dovremo parlare con i miei genitori. Preferisci rimanere qui?”

“Il guaio l’ho fatto io, perciò affronterò le conseguenze come merito.”

Poi, con un risolino nervoso, le chiese: “Tuo padre gira armato, per casa?”

Joy si limitò a ridere sommessamente ma, in tutta onestà, preferì non rispondere.

Metterlo in ansia non sarebbe servito a nulla.
 
***

Non si può mai conoscere una persona fino in fondo, a meno di non mettergli di fronte la sua peggiore nemesi, e aspettare di vederne le reazioni.

Fu per quel motivo che, prudenzialmente, Joy fece precedere Oliver da Morgan

Forte della sua stazza e dell’altezza considerevole, poteva offrire un riparo più che degno all’uomo, nel caso Richard avesse perso le staffe.

Consuelo, al suo fianco, strise tremante la mano della ragazza che, sorridendo incerta, suonò il campanello e attese impaziente che la porta venisse aperta per loro.

Occorsero pochi attimi, finchè una dubbiosa Mel si presentò all’entrata, sorridendo lieta nel vedere Morgan e Joy.

L’attimo seguente, spalancò lentamente gli occhi quando, nel suo campo visivo, vennero inglobati anche i coniugi Thomson.

Gli occhi scuri le si assottigliarono pericolosamente mentre Richard, a pochi passi dalla moglie, esclamava: “Ehi, Joy! Ciao! Qual buon…”

Bloccandosi a metà della frase, quando l’uomo intercettò lo sguardo colpevole di Oliver, Richard passò all’attacco nel giro di pochissimi secondi.

Secondi in cui Joy si fece da parte – facendo da scudo umano a Consuelo – per lasciar intervenire Morgan che, con un placcaggio da manuale, afferrò alla vita il poliziotto.

Non riuscendo a sfuggire alla stretta del giovane pompiere, Richard fece perciò andare a spron battuto la bocca.

Con rabbia sempre crescente, lasciò sgorgare tutto l’astio e il risentimento che, anni e anni di ansie sempre trattenute, erano cresciute poco alla volta in lui.

Oliver, silenzioso e contrito, accettò tutto ciò come degna punizione per il suo comportamento.

Muta spettatrice dell’ira funesta del marito, Melinda fissò la figlia con aria sinceramente confusa e, in un mormorio turbato, le chiese: “Cosa significa, Joy?”

“Sa tutto, mamma. Ma non è questo il problema. Non più” le spiegò con poche parole Joy, prima di esclamare seccamente: “Papà! Ora basta! Abbiamo capito!”

Arrestando il fiume di insulti, Richard fissò malamente Morgan, che ancora lo stava trattenendo senza sforzo apparente.

Raddrizzatosi con fare scocciato, lo sceriffo fissò bieco la figlia e ringhiò: “Che c’è? Non dovrei essere giustamente incavolato con lui?!”

“Siamo già passati oltre l’arrabbiatura, credimi, e ho dato spettacolo a sufficienza perché a Oliver non venga più in mente di dare fastidio a uno qualsiasi degli esseri mitologici che camminano sulla Terra” brontolò Joy, ritrovandosi addosso quattro paia d’occhi sconvolti e sgomenti assieme.

Lanciando una leggera imprecazione tra i denti, la giovane scosse nervosamente le mani e aggiunse: “Oh, per l’amor di Dio, non mi metterò qui a discutere con voi di cosa ci sia in giro! Non è questo il momento, e neppure deve interessarvi!”

Con un sospiro tremulo, Melinda annuì e disse: “Joy ha ragione. Entriamo e sentiamo cos’è successo. E’ inutile rimanere sulla porta a dare spettacolo di noi.”

Richard mugugnò tra i denti, allontanandosi da Morgan con un ringhio furioso.

Il giovane, ammiccando all’indirizzo di Joy, esalò: “E’ forte, tuo padre.”

“Terrà il muso per giorni, visto che sei riuscito a trattenerlo” gli predisse Joy, sorridendogli nel prenderlo sottobraccio.

“Vedrò di tenermi alla larga dai posti di blocco, non si sa mai” ridacchiò Morgan, chiudendo la porta dietro i genitori, che seguirono in silenzio i coniugi Patterson nel salotto adiacente all’entrata.

Lì, Melinda chiese loro se volessero qualcosa da bere; pur se la situazione era assurda, non poteva smettere di essere una perfetta padrona di casa.

Richard, ancora furioso, si accomodò su una delle poltrone.

Lanciata un’occhiata speranzosa alla madre, la giovane tornò a rivolgersi al padre per dire: “Tu e mamma vi dovete prendere almeno una settimana di ferie, e andarvene a Portland da Steve. Alex e Susy sono impegnati a Seattle, adesso, perciò sono sufficientemente distanti… e al sicuro dai guai che stanno per pioverci addosso.”

“Che intendi dire? Lui non bastava?” ringhiò Richard, indirizzando un’occhiata ferale a Oliver, che si limitò ad accettarla come dovuta.

“Papà!” esclamò Joy, richiamandolo all’ordine mentre Melinda rientrava nel salotto con un vassoio.

Servendo tè e pasticcini senza dire una parola, Melinda si accomodò sul divano, prima di guardare accigliata il marito e sentenziare: “Comportandoti come uno zuccone, non migliori la situazione, Richard. Non ti ricordi cosa può succedere a Joy, se l’ambiente intorno a lei è ostile e greve di odio?”

Sospirando, l’uomo assentì contrito, mormorando spiacente alla figlia: “Tutto bene, bambina?”

Joy sbuffò in risposta, muovendo seccamente la mandibola, che emise uno schiocco piuttosto evidente, quanto inquietante.

 “Di certo, avrò male in bocca per un po’.”

Vagamente confuso, Morgan le chiese: “Perché fai così?”

“Ricordi i rostri che ho sui fianchi del becco?” gli domandò per contro lei.

 Morgan annuì, prima di impallidire leggermente ed esalare: “Non mi dire che…”

Aperta la bocca, Joy mise in mostra le zanne lunghe già tre centimetri, bianche come coltelli di ceramica.

Con un sospiro sofferente, mormorò: “Fanno un male cane, quando escono, ma non ci posso fare niente. La rabbia di papà è fenomenale, per farle uscire.”

“Scusa” mormorò Richard, ancor più mogio.

“Non fa niente, papà. Ti voglio bene e, quando ti incavoli così tanto, il mio corpo reagisce” cercò di ironizzare.

Nel notare le espressioni confuse di Oliver, Consuelo e Morgan, spiegò comunque il perché della presenza delle zanne.

“Mi servono per combattere. Difficilmente, lo faccio in forma animale, e quella umana è priva di armi di difesa, così posso assumere una forma intermedia, dotata di zanne e artigli prominenti.”

“Di questo non si fa menzione nel mito” esalò Oliver, suo malgrado affascinato da questa novità.

Sollevando un sopracciglio con evidente ironia, Joy celiò: “Il mito non dice neppure la metà di ciò che io sono. Nessuno dei miti su di me.”

Accigliandosi, Richard le chiese: “Perché parli di combattimento?”

Tornando a volgere lo sguardo in direzione del padre, lo fissò spiacente prima di raccontargli ogni cosa, ogni più piccolo particolare della vicenda.

Quando ebbe infine terminato di spiegarli i motivi per cui li voleva lontani da L.C., sussurrò debolmente: “Nessuno deve morire per me. Nessuno di voi.”

“Rimarremo e ti difenderemo!” protestò vibratamente Richard, levandosi in piedi per dare maggiore foga al suo dire.

Levando gli occhi al cielo, Joy lanciò uno sguardo accigliato all’indirizzo di Morgan e brontolò: “Tutti eroi, eh?”
Morgan si limitò a ridacchiare.

Passandosi una mano sul viso, la ragazza allora scosse il capo e replicò: “Nessuno di voi può fare niente. L’unico aiuto che potete darmi è stare lontani da qui. I Naga non potranno individuare le vostre tracce olfattive, e io potrò lottare in tutta tranquillità, sapendovi al sicuro.”

Prendendo la parola per la prima volta, Oliver aggiunse: “Io rimarrò per dire ai Naga dove trovare Joy. Chandra e io abbiamo appuntamento in un luogo pubblico perciò, pur se intenzionato a farmi del male, non lo farà mai in presenza di testimoni. ”

Annuendo, Joy intervenne dicendo: “Manasa vuole innanzitutto la sottoscritta. La ricerca di Oliver è stata solo il pungolo necessario per venirmi a cercare. Inoltre, non potrà colpire Oliver, quando scoprirà che ha una Pizia, dentro di sé. Ne rimarrà alquanto sorpresa e, io spero, anche piuttosto infastidita.”

“Che intendi dire?” esalò Oliver, vagamente sorpreso.

Con un sogghigno, Joy spiegò loro: “Sei legato ai serpenti, volente o nolente, e una Manasa non può fare del male a chi ha un legame con loro, per quanto debole esso possa essere. Questo la farà incavolare a morte, ma non me ne preoccuperei.”

Scrutando Consuelo, Oliver replicò: “Lei, però, non ha alcun legame.”

Con un cenno di assenso, Joy ammise: “Consuelo dovrà seguire i miei genitori. E’ più sicuro così.”

La donna, sentendosi interpellata, strinse la mano del marito e replicò: “Io rimarrò con lui.”

Fu Melinda a intervenire, a quel punto.

“Joy sarà più tranquilla, se la saprà al sicuro, Consuelo. Accetti di venire con noi, la prego.”

Richard annuì, sorridendo brevemente alla moglie, così che alla donna non restò altro che annuire, pur se in totale disaccordo con il loro piano.

Tranquillizzata da quelle parole, Joy sorrise ai suoi genitori con orgoglio, lieta che avessero compreso le sue intenzioni e fossero disposti ad aiutarla.

Fissandola vagamente in ansia, Melinda però esalò: “Non c’è altro modo, vero? Dovrai combattere.”

Con un sorriso rivolto alla madre, Joy andò a inginocchiarsi dinanzi a lei e, prese le sue mani tra le proprie, gliele riscaldò leggermente col proprio potere.

Erano gelide, in quel momento, e lei sapeva bene che era per colpa sua.

“Voi mi avete conosciuta come una dolce e tenera bambina, ma non sono solo questo. Non sono mai stata solo questo. Ho potere sufficiente per difendermi e, nell’eventualità, eliminare il mio nemico, pur se tenterò di venire a
patti con Manasa.”

Una lacrima solitaria scivolò sulla gota pallida di Melinda e Joy, raccoltala con un bacio, le sussurrò: “Tornerò da te, mamma. Te lo prometto.”

“Mi arrabbierò tantissimo, se non lo farai.”

Nel dirlo, tremò e, con un abbraccio stentato, la attirò a sé scoppiando in lacrime.

Joy la cullò contro di sé, mentre un calore sempre crescente le invadeva le membra. Baciate più volte le gote fredde della madre, trasferì parte del suo potere dentro di lei per chetarne l’animo.

Quando la donna si scostò dalla figlia per scrutarla in viso con reverenziale timore, la ragazza iniziò a cantare.

Il canto, di ancestrale bellezza, perdurò per diversi minuti mentre, all’interno della stanza, gli animi andavano chetandosi.

Chiusi gli occhi, Joy proseguì nel suo antico inno rivolto al Sole.

Levate le mani verso l’alto, scivolò lentamente in ginocchio prima di reclinare il capo in avanti, e terminare la preghiera con un roco gemito prolungato.

Quando anche quel quieto rombo si spense, la ragazza riaprì gli occhi e sorrise ai presenti, dicendo loro: “Non resta altro da dire.”





 
 
***





 
Le mie preghiere erano volate lontano, attraversando il Nun3, sfociando nel Duat4, navigando solitarie nel miasma primordiale, dove l’energia primigenia galleggiava libera da freni.

Seduta nella posizione del loto sul retro della casa di Morgan, attorniata dalla radura in fiore e dagli abitanti del bosco, rilassai il mio spirito e il mio corpo in preparazione di quanto, entro breve, avrei dovuto affrontare.

Immobile e silenzioso a pochi metri da me, seduto anch’egli in mezzo al folto dell’erba fresca, Morgan mi osservava senza nulla dire.

Il suo respiro era quieto, mentre contemplava me e gli animali ossequiosi accoccolati al mio fianco.

 L’umidore della terra mi trasmetteva il potere delle reti di energia, che si estendevano infinite sotto di me.

Esse univano l’uno all’altro ogni filo d’erba, ogni pianta, ogni arbusto, fino a formare una catena senza fine, come un immenso cervello umano con le sue sinapsi.

Il giorno seguente, avrei chiesto a Robert un permesso per assentarmi dall’ospedale, così come avrebbe fatto Morgan con Nathan.

Se tutto fosse andato come speravamo, nel giro di qualche giorno al massimo, ci saremmo ritrovati nella Valle del Sole, in un terreno a me più congeniale per la lotta.

Certo, ai crotali piaceva il caldo e il secco ma, per mia fortuna, i Naga non appartenevano a quella razza.

E detestavano ciò che io amavo.

Phoenix sarebbe stato il luogo ideale, per me, dove svolgere un combattimento che non volevo.

E se, nel farlo, avessi potuto dare una lezione coi fiocchi a un’altra Manasa, tanto meglio.

Reincarnarsi nel corpo di un’umana, e subirne le bizze, non era la soluzione evolutiva migliore, ma non ero io ad avere questo problema, quanto piuttosto le nagini5.

Era evidente quanto l’ultima incarnazione di Manasa fosse una testa calda, altrimenti non si sarebbe accanita a questo modo contro me e Oliver.

Avrebbe preferito la trattativa, come altre avevano fatto prima di lei, invece di rischiare di innescare una bomba simile nel bel mezzo del ventunesimo secolo.

A ogni buon conto, io avrei lottato con tutta me stessa, se fosse stato necessario snudare denti e artigli.

Diversamente, mi sarei dichiarata disponibile alla trattativa, qualora Manasa fosse tornata a più miti consigli.

Non volevo spargere sangue, più di quanto volessi finire sulla prima pagina di Nature.

“Insieme, ce la faremo” mi sussurrò a un certo punto Morgan, strappandomi per alcuni attimi alla mia trance.

Mi volsi a mezzo per sorridergli, lui impegnato a coccolare tra le braccia un paio di scoiattoli grigi e, annuendo, replicai: “Affronteremo il pericolo assieme.”

Una stella cadente scivolò veloce lungo il cielo sgombro di nubi, illuminato da brillanti astri adamantini e io, pur sapendo quanto fosse sciocco, espressi un desiderio.

Chissà che, per una volta, non si avverasse.


 
 
 
 
 
 
 
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1 Arroyo: antico letto di un fiume, o torrente, ora disseccato. Si trovano per la maggior parte nella zona meso-americana.

2 Tempesta magnetica: altresì detta tempesta solare. Disturbo temporaneo della magnetosfera a causa dell’attività solare. Nel maggio del 2005 (periodo in cui si svolge questa parte della storia ) la Terra venne realmente a trovarsi nel bel mezzo di una ragguardevole tempesta magnetica.

3 Nut: acque primordiali da cui nacque anche Rah.

4 Duat: regno dell’oltretomba, per gli egizi.

5 Nagini: femminile di Naga.

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Capitolo 31
*** cap. 31 ***


 
31.
 
 
 
 
 
 
I tracciati dei satelliti erano più di quanti avessi immaginato ma, grazie al potere di Rah, non ci sarebbero stati problemi.

La tempesta magnetica che avrebbe colpito la Terra, li avrebbe resi ciechi per il tempo – speravo – sufficiente per chiudere la partita con Manasa una volta per tutte.


Non mi andava l’idea di combattere – ero terrorizzata al pensiero di Morgan privo di qualsiasi difesa – ma era evidente che la dea dei Naga era di tutt’altro avviso.

Quale altro motivo avrebbe avuto per raggiungere gli Stati Uniti assieme a Chandra, se non quello di eliminare alla radice un’antica nemica?

Allo stesso tempo, avrebbe tappato per sempre la bocca al professor Thomson.

Di certo, quando avesse scoperto di non poter torcergli neppure un capello, si sarebbe scagliata contro di me con ancor più livore.

Potevo anche vedere il lato buono in tutte le creature, ma nelle azioni di Manasa non ce n’era neppure uno.

Per lo meno, non in questa Manasa.

Prona sul letto della camera di Morgan – ci eravamo trasferiti lì per un po’, perché il contatto con il bosco mi tranquillizzava – osservai le scie dei satelliti disegnate sulla superficie dell’Arizona.

Mi chiesi come eludere in qualche modo la loro sorveglianza, qualora la tempesta magnetica non riuscisse a oscurare  tutti gli occhi elettronici puntati sul deserto.

Era peggio che cercare di passare tra le maglie fitte di un sistema di sicurezza al laser, neanche fossi stata Catherine Zeta Jones in Entrapment.

Morgan, steso accanto a me, mi carezzava distrattamente la lunga chioma fiammeggiante mentre, con lo sguardo, scrutava al pari mio l’articolata rete di satelliti e le loro scie.

Non ero sicura che avesse accettato tutto quello che avevo detto loro, circa i miei poteri, ma non aveva espresso più domande in merito, limitandosi a prendere per buoni i miei discorsi.

Il suo coraggio era lodevole e degno di nota.

Pur avendo conosciuto, in tante epoche e in tanti luoghi diversi, i più grandi eroi della storia, rimasi ancor più affascinata di prima di questo giovane impavido.

Morgan aveva il coraggio degli eroi classici e, al tempo stesso, una modestia del tutto eccezionale, quasi unica.

Se anche gli avessi detto, per il resto della vita che avremmo passato insieme, che il suo atteggiamento nei confronti di tutta quella situazione era più che incredibile, lui non mi avrebbe mai creduto.

Quanto eravamo simili, in questo!

Gli sorrisi, chinandomi a dargli un bacio sulla tempia, prima di vederlo volgere lo sguardo a incrociare i miei occhi di liquido smeraldo.

Replicando al mio sorriso, mi disse: “Facciamo una pausa.”

Accettai subito e, lasciate scivolare le carte a terra sul morbido tappeto d’angora, gli avvolsi le braccia attorno al collo per attirarlo a me.

Datogli un bacio sulle labbra calde, mormorai: “So che tutta questa situazione è paradossale, ma ti prometto che andrà tutto bene.”

“Sono con una creatura mitologica che ha, dalla sua, le divinità solari ed è padrona del fuoco.Come potrebbe non andare tutto bene?” rise, baciandomi languidamente sul collo, che inarcai con un ansito per permettergli di muoversi più agevolmente. “Ti ho mai detto che adoro il fuoco?”

“Sì” ansai, attirandolo sopra di me e sorridendo deliziata nel sentirlo già pronto a soddisfare il mio bisogno. E il suo.

“Bene” borbottò contro la mia gola, lasciando scivolare le sue mani avide sul mio corpo nudo.

Chiusi gli occhi, perdendomi nel calore sprigionato dal suo corpo umano.

Quando le sue mani sfiorarono i miei fianchi snelli, emisi un ansito strozzato mentre un’energia dilagante mi percorreva come una scossa elettrica ad alto voltaggio.

“Tutto bene?” sussurrò, baciandomi i seni con lenti cerchi infuocati.

“Mai… stata… meglio” esalai.

Ed era vero.

Neppure avvolta dall’energia di Rah, mi ero sentita così fiera, così potente.

Così unica.

Possibile che…





 
 
***




 
Seduta nell’ufficio del suo supervisore di fisioterapia, il dottor Greyson, Joy si morse un labbro, mentre il suo collega terminava di controllare una cartella clinica.

Era in ansia.

Non aveva la minima idea di come Robert avrebbe preso la sua richiesta di un breve periodo di ferie, specialmente considerando che era una specializzanda appena trasferita.

Ugualmente, non poteva semplicemente scappare da L.C. e dirigersi come una fuggiasca a Phoenix.

In quest’epoca, non potevi semplicemente decidere di sparire.

Tendenzialmente, venivi ritrovato, pur se con eclatanti eccezioni.

In ogni caso, lei desiderava essere onesta il più possibile con il suo superiore.

Quando lo vide riporre la carpetta dalla copertina giallo ocra nel porta documenti in acciaio satinato, esordì dicendo: “Grazie per avermi ricevuta.”

Abbozzando un sorriso, Robert mosse una mano dalle dita lunghe e affusolate nella sua direzione e, cordiale, replicò: “Parla pure, Joy. Di cosa avevi bisogno?”

Le mani intrecciate in grembo, Joy prese un gran respiro prima di iniziare a parlare con tono falsamente tranquillo.

“Vede, volevo sapere se fosse possibile prendere qualche giorno di ferie. So che vengo da un lungo periodo di malattia, e che sono qui da poco, ma…”

Robert la bloccò subito, sollevando una mano per azzittirla.

Allungatosi sulla scrivania in legno di palissandro, la fissò con i suoi magnetici occhi scuri, esaminandone per lungo tempo i tratti del volto e la reazione al suo sguardo prolungato.

Joy rimase immobile, perfettamente cosciente del suo esame – pur non comprendendone i motivi – e, quando infine Robert si mosse, lei esalò: “Ebbene?”

“Non stai andando a divertirti, questo è palese” sentenziò Robert, accavallando le lunghe gambe, abbracciate da un paio di pantaloni di lino color cachi.

Lei si limitò a scuotere la testa e il dottor Greyson, accigliandosi immediatamente, le domandò cauto: “E’ una cosa che posso sapere, o…”

“Meno persone sanno della cosa, meglio è” ammise Joy, prima di sospirare tremula e aggiungere: “Temo di essere nei guai, ma non posso chiedere aiuto a nessuno.”

Annuendo lentamente, gli occhi chiusi come a voler meglio rimuginare su ciò che stava navigando nella sua mente iperattiva, Greyson le rispose sinceramente: “Non ho problemi a concederti qualche giorno di ferie. Hai passato la tua degenza a seguire i pazienti, mentre eseguivi la riabilitazione. Nessun’altro l’avrebbe mai fatto perciò, per me, sei più che libera di prenderti qualche giorno di riposo. Il punto è un altro.”

“E cioè?” volle sapere Joy, agitandosi immediatamente sulla poltrona di pelle.

All’improvviso, le parve che la stanza fosse diventata piccolissima, soffocante.

“Non stai andando in una clinica per abortire, vero?”

Joy sgranò gli occhi talmente tanto che rischiò di farsi male e Robert, emettendo un sospiro di sollievo, le sorrise bonariamente, come a volerla tranquillizzare.

“Sai, ai giovani può succedere…”

“Non è per quello, credimi.”

Nel dirlo, sospirò nuovamente, scuotendo mesta il capo.

Al che, Robert le domandò accigliato: “Ti sei cacciata in qualche guaio più grosso di te, Joy?”

Mi ci hanno cacciata, ma non posso dirti altro” mormorò la ragazza, aggiungendo subito dopo: “Ma ti prometto che ti chiamerò, se… quando tutto sarà risolto.”

A quel punto, Robert si alzò per oltrepassare la scrivania e, con grande sorpresa di Joy, le si inginocchiò innanzi per afferrarle le mani tremanti e stranamente gelide.

Con lo stesso sguardo paterno con cui l’aveva scrutata suo padre, quando lo aveva avvisato della sua imminente partenza, le disse sentitamente: “Non pretendo di sapere i motivi che ti spingono ad allontanarti da qui ma sappi che, se avrai bisogno del nostro aiuto, noi ci saremo. Siamo una grande famiglia e, tra dottori, ci aiutiamo.”

A Joy non restò altro che annuire, non sentendosi abbastanza sicura per parlare.

Con un mezzo sorriso, Robert si rialzò sempre tenendole strette le mani, e aggiunse con una certa veemenza: “Potresti essere mia figlia, Joy. Non pensare nemmeno per un istante che non ti darei una mano, se potessi!”

“Lo so… dottore… Robert” mormorò lei sul punto di lasciare che le lacrime, a lungo trattenute, scivolassero libere dai suoi occhi.

Avvedendosene, Robert esalò sconvolto: “In nome di Dio, Joy,… a cosa stai andando incontro?”

“Non posso dirglielo” singhiozzò Joy, sul punto di crollare.

Preso un gran respiro, la ragazza si levò in piedi e, puntati gli occhi smeraldini in quelli scuri di Greyson, disse con tutta la forza che fu in grado di racimolare in quel momento: “Sapere che voi sarete qui e pregherete per me, mi aiuterà. Non chiedo altro.”

La stretta sulle sue mani si fece più decisa ma, dalle labbra di Greyson, uscì solo un laconico: “Ferie accordate.”

A Joy non occorse altro. Lo ringraziò e uscì dall’ufficio senza più dire nulla.

Era la prima volta in assoluto che affrontava una situazione del genere.

Soprattutto, però, era la prima volta che si trovava a fronteggiare un pericolo avendo, dietro di sé, amici e persone che le volevano bene, che avevano fiducia in lei.

Che avrebbero pianto, se le fosse successo qualcosa e gioito, se tutto si fosse risolto per il meglio.

Inoltre, aveva Morgan.

Quello, più di tutti, era un cambiamento epocale, per lei.

Mille nomi portava con sé, retaggio delle sue molte vite, ma un solo destino accomunava quei tanti volti idolatrati da migliaia di popoli dell’antichità.

Rimanere sola.

Ora, però, in spregio al mito, in spregio a ciò che aveva sempre cercato di portare avanti, in spregio al Fato stesso, lei non era più sola, era circondata da un amore dilagante, potente, che l’avrebbe protetta a ogni costo.

E lei, per la prima volta in vita sua, desiderava utilizzare quell’amore per se stessa.

Non l’avrebbe tenuto lontano dal suo cuore, si sarebbe lasciata annegare in quel denso abbraccio caloroso, e ne avrebbe fatto la sua forza.

Forse era un errore, non poteva saperlo, ma era sicura che valesse la pena di tentare.

“Perché hai chiesto il mio aiuto, Fenice?”

Bloccandosi a metà di un passo, proprio di fronte alla porta della palestra, Joy si scostò fino a raggiungere un punto tranquillo nello stabile dove si trovava la fisioterapia del Samaritan.

Con un lento sorriso, chiese per contro a Rah: “Non avrei dovuto?E perché sei tornato a chiamarmi Fenice? Sono stata felice, quando mi hai chiamata Benu.”

“E’ difficile usare quel nome. Sento bruciare il mio cuore, pur se non ho un corpo da far ardere per il dolore.”

La sua voce si fece melanconica, persa in un infinito memento che sembrava non concedergli scampo alcuno.

Sinceramente spiacente, Joy mormorò nella sua mente: “Non importa che nome usi, davvero. Fenice va bene. E, per rispondere alla tua domanda, il dio solare che preferisco sei tu. Inoltre, volevo chiederti scusa se, in qualche modo, ti ho arrecato offesa, in questo ultimo periodo.”

“Sono stato sgarbato con te, e dovrei essere io a chiedere perdono, amica mia. Ma vivo un conflitto personale molto aspro, e tu ne sei il fulcro.”

“Spero di fare la cosa giusta e toglierti dall’impiccio, allora” sorrise leggermente Joy.

“Lo spero anch’io. Per te, soprattutto.” Poi, con estrema dolcezza, aggiunse: “Sarò con te, durante la battaglia, anche solo con il pensiero.”

“Mi basterà saperti vicino.”

“Ho puntato una delle tue collane per una tua vittoria schiacciante. Quindi, vedi di non deludermi” ridacchiò Rah, pur non sentendosi veramente in animo di gioire per qualcosa.

Vagamente sorpresa, Joy esalò: “Una delle mie collane? Le hai ancora? E con chi hai scommesso, scusa?”

“Anubis.”

“Oh, il solito sciacallo!” ridacchiò Joy. “Quando si tratta di scommettere su qualcosa, c’è sempre di mezzo.”

“Ovvio.” Un sospiro, e Rah mormorò: “Il Duat è una noia, senza di te, ma non voglio che torni qui.”

“Né io intendo tornarci. Non voglio morire.”

“Sono lieto di sentirtelo dire, finalmente.”

Ciò detto, svanì con una carezza che la attraversò tutta, lasciandola stranamente vuota, quando essa perse di effetto.

Le mancava, non poteva farci nulla, ma ormai non era più il tempo per gli dèi del Nilo.

Essi non potevano più solcare il ricco fiume, camminare leggiadri tra i canneti, abbeverarsi alle sorgenti cristalline del Portatore di Vita e lasciare che i palmeti ne proteggessero il sonno.

Non il potente Ptah, né l’affascinante Isi, potevano rompere il sigillo che li legava eternamente al Duat.

Nessuno di loro avrebbe mai più goduto delle terre dove, per millenni, avevano beneficiato di rispetto e onore.

E, come loro, non Apollo, o Cerere, o Morrigan, potevano più intervenire nelle faccende umane.

Scomparsi i culti che avevano dato loro la forza, e un corpo fisico con cui muoversi, essi erano tornati alla loro forma primigenia, fatta di spirito ed energia.

Solo gli Oracoli potevano udirli, quando Essi volevano essere ascoltati.

Lei sola, unica tra le creature immortali, aveva mantenuto un corpo.

Neppure Manasa, per quanto si proclamasse dea in Terra, era come lei.

Il suo spirito era immortale e i suoi poteri erano quelli di una dea, ma le nagini nascevano da donne umane ed erano umane, mortali.

La nagini che fosse nata con in sé l’anima di Manasa, sarebbe stata la più potente tra le sue sorelle, rispettata dagli uomini e le donne serpente ma rimaneva, pur sempre, una fragile umana.

Il dono di una Fenice era ben diverso.

Il suo corpo, pur se di carne e sangue, aveva una maggiore resistenza e una maggiore forza fisica, nasceva dal fuoco e moriva nel fuoco.

Sempre se stessa, sempre unica, mai diversa.

Fenice era immutabile. Le Manasa, no.
 
***

“E così, vorresti una settimana di ferie, eh?” chiosò Nathan, intrecciando le braccia sul torace prima di fissare con aria inquisitoria il suo sottoposto.

Morgan ristette in piedi, in perfetto silenzio, di fronte al suo comandante.

Era desideroso di ricevere una risposta in tempi brevi ma, a quanto pareva, Nat aveva tutt’altro in mente.

Girandogli intorno come un lupo di fronte alla preda ormai spacciata, continuò a tenere i suoi occhi sul volto sempre più impenetrabile del giovane finché, accigliato,  ringhiò: “Non ti saltasse in mente di andare a Las Vegas per sposarti con la dottoressa perché, giuro su di Dio, ti legherò sull’autoscala e me ne andrò con te in giro fino ai confini dello Stato!”

Sobbalzando leggermente di fronte a entrambe le ipotesi prospettate dal comandante, Morgan esalò sconvolto: “Non voglio andare a sposarmi in gran segreto! E neppure ti permetterei di legarmi come un salame sulla scala!”

Ancora poco convinto, Nat gli si piantò innanzi con le gambe ben aperte e un nero cipiglio dipinto in volto, dicendogli serioso: “Non ci terrai fuori dal tuo matrimonio, ragazzo.”

Sbuffando, Morgan ribadì con tono fintamente calmo: “Non. Vado. A. Sposarmi. Chiaro?!”

“Bene” annuì allora Nat, accennando un pallido sorriso.

Esalando un sospiro liberatorio, Morgan mugugnò: “Ma sai che sei peggio di una donnicciola? Se anche avessimo deciso di sposarci in gran segreto, cosa sarebbe cambiato?”

“Fai parte del corpo dei Vigili del Fuoco, ragazzo, e sei uno di famiglia!” tuonò Nathan con aria più che convinta, veemente.

Sinceramente commosso, Morgan batté una mano sulla spalla del suo capo, replicando sommessamente: “Ti prometto che, se e quando accadrà, te lo dirò.”

Accigliandosi leggermente a quel ‘se’, Nathan ribatté: “Non avrete intenzione di dividervi, spero? Dove la trovi un’altra dottoressa così paziente e carina?”

Con un risolino privo di allegria, Morgan annuì prima asserire: “Non dipende da me, né da lei. Le ferie ci servono per affrontare un problema… del suo passato.”

“Sono saltati fuori i suoi veri genitori?” esalò sorpreso Nathan, che sapeva ormai ogni cosa ‘ufficiale’ del passato di Joy.

“Non proprio” mugugnò Morgan, storcendo la bocca carnosa.

Era snervante non poter dire la verità a uno dei suoi migliori amici.

Dentro di sé, comprese anche cosa avesse voluto dire, per Joy, mantenere intatto un tale segreto per così tanti anni, con così tante persone.

Non poteva che ammirarla ancora di più per il suo coraggio e la sua forza d’animo.

Chissà quanto le era costato sopportare la sua arringa, le sue accuse, senza infervorarsi come avrebbe giustamente potuto fare.

Certo, lui si era sentito tradito e ferito dal suo silenzio, ma come non capirla, sapendo che segreto gli aveva taciuto?

Trovandosi ora nelle sue stesse condizioni, capiva Joy come mai prima di allora e, ancora una volta, non si stupì di essersi innamorato di lei.

Come poteva non amare una donna così coraggiosa?

“Sicuro di non aver bisogno di aiuto?” gli domandò Nathan, strappandolo ai suoi pensieri.

“Ce la caveremo da soli, tranquillo” asserì Morgan, pensando poi tra sé: “Anche perché credo che, se falliamo, nessuno potrà fermare quei cosi squamosi.”

Un cenno di assenso anticipò le parole di Nathan.

“Avrai le tue ferie, ma esigo che tu mi chiami almeno una volta al giorno, altrimenti smuoverò mari e monti e ti verrò a cercare, va bene?”

“No!” esclamò Morgan, sgranando spaventato gli occhi prima di afferrare le spalle del suo capo e replicare con veemenza: “Non ti sognare di cercarmi, di cercarci! Non farmi stare in ansia, ti prego, Nat!”

Sinceramente sorpreso dalla reazione del suo sottoposto, Nathan esalò: “Ma cosa diavolo dovete affrontare?”

“Lascia perdere. Tu promettimi soltanto che non ficcherai il naso e, alla peggio, che chiederai prima a mio padre, o ai genitori di Joy, per avere nostre notizie, qualora non fossi in grado di mettermi in contatto con te. Non fare nient’altro” lo scongiurò Morgan, mortalmente serio in viso.

Annuendo, Nathan mormorò: “Farò come mi chiedi, ma chiama, se potrai.”

“Lo farò. In un modo, o nell’altro” gli promise Morgan, prima di abbracciarlo con forza.

Nathan, sorpreso dal suo gesto, replicò all’abbraccio dopo un istante e, con voce resa roca dall’ansia che avvertiva nel corpo teso del ragazzo, sibilò: “Se non torni meno che intero, ti ammazzerò con le mie stesse mani!”

“Promesso” ridacchiò Morgan, con voce tremula.

Detto ciò, sciolse l’abbraccio e accolse con favore il suono della campana nel deposito mezzi.

Il loro lavoro li chiamava. Tanto meglio, o il suo cervello si sarebbe sciolto per l’ansia.
 
***

Collegata su Skype con Alex e Stephen, Joy sorrise loro attraverso la webcam collegata al suo portatile e, dopo aver allungato un croccantino a Monet, disse loro: “La faccenda è questa. E’ più o meno chiara?”

“Se per chiara intendi che noi dobbiamo sentirci come due emeriti idioti che non possono fare niente per aiutarti, allora sì, è chiara” brontolò Alex, intrecciando le braccia sul torace, abbracciato da una fine camicia di Armani.

Alle sue spalle, la luce calda e soft dell’ufficio illuminava parzialmente il mobilio raffinato e il ficus, che si trovava accanto alla larga finestra, affacciata su una via del centro di Salem.

Il sole al tramonto si rifletteva sui vetri perfettamente puliti, lanciando scie aranciate sul pavimento.

Una lieve brezza, che scivolava attraverso i vetri socchiusi, faceva ondeggiare lievemente la tenda, trattenuta da un nastro di seta blu.

Joy sorrise spiacente a quelle parole, replicando al cugino: “Non devi sentirti così. Tu mi sei già stato tremendamente d’aiuto, in passato.”

“Ma io no” sbottò Steve, a quanto pare impegnato in uno dei cantieri della ditta per cui lavorava.

Dietro di lui, erano ben evidenti i contorni di un ufficio prefabbricato, dove una miriade di fogli erano stati fermati con delle calamite su una lavagnetta magnetica.

La camicia a quadri di Steve era lievemente sporca di polvere – presumibilmente calce – era arrotolata sulle maniche, e lasciava intravedere i fasci di muscoli e la leggera peluria scura che ricopriva la pelle abbronzata.

Le mani, intrecciate sulla scrivania, proprio accanto alla tastiera del pc, erano frementi; si scioglievano e si intrecciavano di continuo, in una danza senza fine.

Piegando la bocca in una smorfia, Steve proseguì nella sua reprimenda, aggiungendo: “E’ mai possibile che io non possa fare proprio niente?”

Un sospiro scivolò fuori dalle labbra rosso corallo di Joy che, preso in braccio Monet, lo accarezzò distrattamente per poi dire ai cugini: “Ho tutto l’aiuto che mi può essere dato. E ho Morgan con me.”

“Sarei più utile io, visto che posso essere il canale naturale di Rah!” brontolò Alex, scuotendo il capo.

Quando Joy, anni addietro, lo aveva messo al corrente della presenza di un Oracolo nella sua anima, Alex ne era rimasto sconvolto, ma anche profondamente onorato.

Venire finalmente a conoscenza dei motivi che gli avevano permesso di aiutare Joy gli avevano tolto, in un qualche modo, un peso dalle spalle.

Forse, si era sentito in dovere di avere un motivo più che valido per essere stato l’unico, tra i fratelli, a beneficiare della possibilità di parlare con Rah senza la mia presenza. 

Dopotutto, Alex rimaneva un ragazzo modesto, e voleva un bene dell’anima ai suoi fratelli.

L’essere il portatore di un Oracolo, in fondo, lo scagionava da qualsiasi colpa lui si fosse auto inflitto in passato.

E Joy era più che sicura che Alex si fosse sentito davvero in colpa, per quell’evidente differenza tra lui e i fratelli.

Sorridendo ad Alex, Joy si limitò a dire: “Basterà Morgan.”

“Per quanto tu possa amarlo, lui non ha il mio dono” precisò Alex, accigliandosi.

Mordendosi un labbro, Joy si arrischiò a confessare: “Credo che, invece, possa fare molto.”

“Che intendi dire?” si informò Steve.

“Non ne sono sicura, ma succede qualcosa di strano, quando stiamo insieme.”

Nel dirlo, arrossì, e così pure i cugini, che divennero paonazzi.

“Ti prego, non ricordarmi che fai sesso con lui, Leen! E’ già troppo sopportare che non potrò venire con voi…” esalò disgustato Alex, scuotendo il capo come per scacciare dalla testa pensieri torridi sulla cugina e Morgan.

Steve, al pari del fratello, mugugnò: “Non voglio pensare a dove ha messo le mani il tuo pompiere, grazie. Mi limiterò a prendere per buono il fatto che lui possa aiutarti. Ma non voglio sapere come l’hai scoperto.”

Ridendo suo malgrado, Joy annuì prima di volgersi a mezzo, non appena udì la porta di casa aprirsi.

Un sorriso le si dipinse spontaneo sul volto mentre, con mani delicate, sospingeva Monet verso l’alto perché planasse sul suo trespolo.

Un ‘Mooorr-gan!’ si levò gracchiante nell’open space, prima che il giovane si avvicinasse a Joy.

In barba alla webcam, il giovane la baciò languido sul collo, subito investito dal coro di insulti disgustati di Alex e Steve.

Sogghignando nell’osservare le due facce schifate dei fratelli Barrett, Morgan si accomodò sul bracciolo della poltrona dove era accomodata Joy, e chiosò: “Sarò pur libero di salutare la mia ragazza, no?”

“Non così, e non davanti a noi!” sbottò Steve, scuotendo il capo.

Joy rise delle loro espressioni ugualmente disgustate e, nel passare un braccio sulla coscia di Morgan, celiò Morgan: “Non devi far loro caso. Tutta invidia.”

“Lo sospettavo” ammiccò quest’ultimo, deponendo un casto bacio sui suoi capelli, rilasciati sulle spalle. “Li hai avvertiti del nostro imminente viaggio?”

“Sì. Nat era d’accordo?” si informò Joy.

“Tutto a posto, anche se è terrorizzato. E’ pronto ad ammazzarmi, se rientrerò con un graffio” la informò Morgan, sorridendole beffardo.

“Conto di evitarlo” asserì lei, prima di tornare a scrutare i cugini. “A Lily e Susan, dite quello che volete, anche la verità. Fanno parte della famiglia, perciò è giusto che siano informate dei fatti.”

“Ne sei sicura?” le domandò turbato Alex.

“Gli dèi non vogliano, Alex ma, se succedesse qualcosa di grave, in qualche modo dovrete pur spiegarglielo” sospirò Joy, reclinando un momento il capo.

“Non voglio neppure prendere in considerazione la cosa!” esclamò Alex, adombrandosi al pari del fratello.

“Non ragionate con obiettività. Sono forte, ma sono fallibile” mormorò Joy, stringendo leggermente la mano sul ginocchio di Morgan, quando lo sentì irrigidirsi alle sue parole.

Neppure lui voleva contemplare quella possibilità, lo sapeva bene.

“Tu vincerai. Punto” sentenziò Alex, prima di volgersi un momento quando sentì la porta dello studio aprirsi. “Susy, ciao.”

Nello schermo apparve il viso perfettamente truccato di Susy, incorniciato dal solito caschetto di capelli biondi.

Non appena la donna vide sul video il volto di Joy, sorrise spontaneamente e disse: “Ehi, ciao, Joy! Ciao Morgan!”

“Salve, avvocato” esclamò Morgan, chinandosi per essere a sua volta visibile.

“Diglielo, Alex” si limitò a dire Joy, prima di salutarli.

Rimasta in comunicazione con Steve, Joy asserì: “La tua missione è importante non meno della mia, Steve. Dovrai occuparti dei tuoi genitori, dei miei e della madre di Morgan. Non mi sembra una cosa da poco. Sarò più tranquilla, … saremo più tranquilli, sapendoli da te.”

“E va bene, mi prenderò cura di loro. Farò il possibile perché stiano al sicuro” le promise Steve, aggiungendo di seguito: “Comunque, sono d’accordo con Alex. Tu riuscirai.”

“E’ bello sapere quanto vi fidiate di me. Sono felice di sapervi al mio fianco” gli sorrise Joy, lanciandogli un bacio per chiudere la chiamata.

Soli nel silenzio ovattato della baita, interrotto solo dal gracchiare estemporaneo di Monet, Joy si levò in piedi per abbracciare Morgan e, al suo orecchio, sussurrò: “Dovrai sempre rimanere accanto a me, durante la battaglia. Non voglio lasciarti fuori.”

“Non te l’avrei permesso. Sai che sono più testardo di te, quando mi impunto” rise Morgan, accentuando la stretta attorno al suo corpo minuto e caldo.

Joy sorrise a quelle parole e annuì, replicando: “Oh, ne ho avuto ampie prove. Per questo sono sicura che, avendoti al mio fianco, vinceremo.”

“Anche se sono un semplice umano?” le ritorse bonariamente contro.

“Sei l’umano che mi ama, e che io amo. E’ questo l’importante.”

Nel dirlo, lo baciò delicatamente appena sotto l’orecchio, dove la carne era più tenera.

Morgan sospirò deliziato, prima di catturare la sua bocca con un bacio avido e sì, carico di ansia.

Nessuno di loro era certo di quel che sarebbe accaduto tra le lande desertiche dell’Arizona, eppure Joy era sempre più sicura che avere Morgan accanto a sé fosse la scelta più giusta.

Solo l’esito della battaglia, avrebbe dichiarato quanto avesse avuto torto, o ragione, nel volerlo al suo fianco.

Sperava solo di non condannarlo al più atroce dei destini.

“Non mi importa di morire, Joy. Finché morte non ci separi, io la penso così” le sussurrò, scostandosi dalla sua bocca, quasi le avesse letto nel pensiero.

Sorridendo di fronte al suo coraggio, Joy mormorò contro la sua bocca: “Non siamo sposati.”

“Non occorre una firma su un cavolo di contratto, per sentirmi legato a te per la vita. E non mi importa un accidente se tu rimarrai giovane, mentre io invecchierò e diventerò canuto, per poi morire. Fino a quando avrò un alito di vita, la spenderò per stare al tuo fianco. Anche se essa dovesse durare fino al prossimo mese, e basta.”

Detto ciò, si scostò da lei e le si inginocchiò innanzi mentre la giovane, a occhi sgranati, lo fissava senza avere il coraggio di parlare.

Infilata la mano nella tasca dei pantaloni, Morgan ne estrasse una scatoletta di pelle nera, che poggiò sul palmo destro prima di allungarla in direzione di Joy.

“Aileen Joy Patterson, mi sono innamorato di te fin dal primo giorno in cui ci siamo visti. Da quando il mio sguardo ha incrociato il tuo, niente ha più avuto importanza, a parte te. Ti ho inseguita, ti ho bramata, ti ho desiderata forse senza meritarti e tu, alla fine, mi hai accettato nella tua vita, come amico prima, come amante e compagno poi. Non agogno ad altro che a passare il resto dei miei giorni assieme a te, che tu sia Fenice, o Benu, o qualunque altro nome tu abbia mai avuto o avrai mai. Il mio cuore conosce il tuo, e tanto mi basta. Ed è con tutto il mio cuore che ti chiedo… vuoi rendermi l’uomo più felice di tutti i tempi, e diventare mia moglie?”

Trattenendosi a stento dal piangere, Joy ascoltò assorta ogni sua parola.

Si abbeverò lo sguardo in ogni istante con i suoi occhi, il suo sorriso, il suo volto incorniciato da un amore così forte da essere quasi accecante.

Quando infine la scatoletta fu aperta per lei, non poté non esalare un singhiozzo stupido e commosso quando scorse, al suo interno, un anello d’oro bianco a forma di Occhio di Horus.

Crollando in ginocchio, Joy lo abbracciò strettamente, annullando le distanze tra loro.

Con voce resa roca dall’emozione provata, annuì ed esalò: “Sì, sì, accetto. Sarò tua moglie.”

Morgan allora balzò in piedi, attirandola con sé in una giravolta intrepida che, per poco, non li vide cadere rovinosamente a terra.

Nessuno dei due vi badò.

Le risa che si levarono dai loro cuori surclassarono ogni cosa, ogni pensiero nefasto, ogni bruttura, ogni ansia.

Sarebbero stati una cosa sola, un solo essere, una sola entità.

Due anime in una.

Quando finalmente Morgan la depositò a terra, gli occhi scuri che scintillavano come ossidiane levigate, le sussurrò divertito: “Quando Nathan mi ha accennato a un matrimonio in gran segreto, ho pensato che non avesse tutti i torti. Desidero sposarti ora, perché tu sia mia per sempre.”

Joy sorrise, annuendo. Non poteva che essere d’accordo con lui.

“Possiamo sposarci in comune poco prima di partire, non ci sono problemi e se vorrai, quando torneremo, lo faremo anche in chiesa. Però, non voglio andare a Phoenix senza prima averti messo l’anello al dito.”

“I nostri genitori impazziranno, per il preavviso brevissimo” rise divertita Joy, ancora incredula di fronte all’enormità di ciò che aveva appena detto.

Stava andando volontariamente contro tutti i suoi precetti, ed era felice di farlo.

Sarebbe stata dannata, forse, ma voleva Morgan in ogni sua forma possibile. E non ci vedeva nulla di sbagliato, in questo.

“Si adegueranno, e così faranno anche i tuoi cugini” scrollò le spalle Morgan, afferrandola alla vita e sollevandola in aria un attimo dopo.

Joy rise ancora, lasciando che il giovane la facesse volteggiare in tondo per la stanza.

Ripiegando il collo all’indietro, emise un canto di giubilo a cui si unì anche Monet e, mentre Morgan la rimetteva a terra, la ragazza proseguì nella sua esibizione mutando mano a mano il proprio aspetto.

Tra i capelli comparvero lunghe piume azzurre e color oro mentre gli abiti, svaporando, lasciarono il posto a una fitta quanto lieve lanugine di piume scarlatte.

Possenti remiganti si estesero lungo le sue braccia e, mentre Morgan ammirava senza parole quel cambiamento radicale, Joy mormorò: “Volevo mi vedessi anche in questa forma… la assumerò quando combatteremo fianco a fianco, come un’unica entità.”

Sfiorando il suo corpo con lo sguardo e con mani esitanti, Morgan sorrise sempre più estasiato, esalando roco: “Sei… magnifica. Una autentica dea.”

“Vuoi tu dunque, mortale, unirti alla dea che tanto ti ama?” sorrise sorniona lei, tornando se stessa prima di afferrarlo alla nuca e baciarlo con trasporto.

Morgan non se lo lasciò ripetere.




 
 
***




 
La notizia del nostro frettoloso matrimonio lasciò, ovviamente, tutti di stucco, e preoccupò non poco coloro a cui la notizia venne comunicata.

Se i colleghi di Morgan lo subissarono di domande su domande, ottenendo solo dei laconici ‘ci è parso il momento giusto’, in ospedale non andò meglio.

Risposi a monosillabi a Robert e a Cynthia, per non parlare delle infermiere, che esplosero in cori entusiastici.

L’attimo seguente, andarono nel panico al pensiero di trovare un abito adatto alla cerimonia – che si sarebbe svolta la settimana seguente, in comune – in un tempo così breve.

Mamma e papà compresero ampiamente i motivi che avevano spinto Morgan ad agire in quel modo.

Pur sentendosi in obbligo di chiedermi se realmente volessi affrettare i tempi, non poterono che essere felici per me, quando mi dichiarai più che lieta della scelta fatta.

Naturalmente, Haniya espresse tutta la sua gioia nel sapere la grande notizia, ma mi informò che non avrebbe potuto partecipare, a causa di una importante quanto difficile operazione, prevista proprio per quel giorno.

Le promisi che avremmo fatto la cerimonia in chiesa più avanti, così da permettere a lei e a Chad di partecipare, sperando con tutta me stessa di non averle raccontato una frottola.

Tutto sembrava correre fin troppo velocemente, dalla notizia dell’arrivo di Manasa al mio imminente matrimonio con Morgan.

Al tempo stesso, però, le ore sembravano essere immerse in un liquido denso come melassa, che ne impediva il regolare susseguirsi.

Mi sentivo contratta su me stessa e, contemporaneamente, dilatata fino all’estremo.

Sapevo che ciò che stavo facendo era epocale per diversi motivi.

Forse, queste mie strane sensazioni dipendevano dal fatto che, per la prima volta in tutte le mie vite, decidevo per me stessa, e non per il resto del Creato.

Cosa ne sarebbe venuto in seguito, nessuno poteva dirlo.

Solo il tempo, così contratto e dilatato – quasi riflettesse all’infinito le mie emozioni – avrebbe potuto dirlo.







Note: Vi ho sorpreso? :)

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Capitolo 32
*** cap. 32 ***


 
32.
 
 
 
 
Come spiegare la mia decisione alle mie tre inseparabili amiche, senza far nascere in loro dei dubbi atroci?

Impossibile.

Allo stesso modo, sarebbe stato impossibile estrometterle, e fare una semplice cerimonia privata in Comune, senza nessuno al seguito se non i nostri genitori.

No, non avrei mai fatto un simile sgarbo a coloro che, fin da piccola, mi erano state accanto proteggendomi, prendendosi cura di me, volendomi bene con sincerità.

Aileen, Kelly e Margot erano quasi impazzite quando, tramite Skype, avevo detto loro della mia decisione di accettare la proposta di matrimonio di Morgan, giunta all’improvviso quanto inaspettatamente.

Naturalmente, mi avevano insultato per il così breve preavviso, che le avrebbe obbligate a scegliere il primo abito disponibile.

L’idea di non poter avere a disposizione mesi e mesi per impazzire nelle boutique di mezza West Coast, le aveva fatte infuriare, rallegrandomi.

Era così bello parlare di cose normali, come abiti e scadenze!

Alla fine, però, si erano congratulate con me, dichiarandosi d’accordo con la mia decisione.

Avevano adorato Morgan al primo sguardo, e per un unico motivo.

Il modo in cui lui guardava me, e io guardavo lui.

Per loro, non contava altro.

E neppure per me, sebbene mi sentissi stranita e quasi fuori dal mondo.

Era la prima volta in assoluto che mi sposavo, che decidevo di dividere il mio cuore con qualcuno, che abbandonavo tutti i miei precetti per dare tutta me stessa a un’unica persona, mettendola al di sopra di tutto e di tutti.

Non avevo la minima idea di cosa avrebbe potuto accadere, e Rah era stato sibillino come sempre, quando l’avevo pregato di darmi una mano a comprendere.

Cerca dentro di te.

Gran bella risposta.






 
 
***




 
I riccioli raccolti in una crocchia disordinata sopra la nuca, Joy si ammirò allo specchio per alcuni istanti, chiedendosi se fosse l’acconciatura adatta.

Sulla soglia della sua camera da letto, in quel mentre, comparvero le figure di Susan e Lily, abbigliate coi loro tubini color oro.

La ragazza sorrise loro spontaneamente, volgendosi completamente per ammirarle e dire divertita: “Non mordo, davvero.”

Alle due donne sfuggì un’identica risatina imbarazzata e, quasi all’unisono, entrarono nella stanza ammirando per un momento il trompe l’oeil sulla parete.

La prima ad annullare le distanze tra loro fu Lily che, avvoltala nel suo abbraccio profumato di limone, asserì diverita: “L’ambientazione è davvero adatta a chi abita qui.”

Joy annuì, ricambiando l’abbraccio e replicando sommessamente: “Morgan è sempre stato perspicace.”

Susan scrollò le spalle, come a voler scacciare un crampo fastidioso e, dopo aver imprecato tra i denti a mezza voce, abbracciò entrambe e mormorò: “Mi scuserete se io faccio la parte della scettica, vero?”

Rimasero così per alcuni secondi, strette le une alle altre, mentre Joy espandeva attorno a sé il suo calore dilagante e profumato alla cannella.

Lily e Susan esalarono dei sospiri pressoché identici, nel percepire quel cambiamento nell’ambiente.

All’unisono, puntarono i loro occhi sgranati sul volto solare dell’amica che, con un gran sorriso, disse loro: “Preferirei non spaventarvi oltre. Ma penso che, come presentazione, possa essere sufficiente.”

Lily annuì più volte, sorridendo eccitata e stranita al tempo stesso.

Susan, invece, si sciolse dall’abbraccio per andare ad accomodarsi sul letto, sciogliendosi poi in un sospiro tremulo e confuso.

Joy poteva percepire chiaramente la sua ansia, la sua confusione, il desiderio di credere alle parole del fidanzato e a ciò che aveva appena percepito.

Pur se combattuta per via del suo lato più serioso, meno propenso a lasciarsi andare ai sogni a occhi aperti, tentava di accettare ogni cosa per vera.

Inginocchiatasi dinanzi a lei facendo frusciare la vestaglia di seta bianca che indossava, Joy le prese le mani tra le proprie e, sommessamente, disse: “So perfettamente che una cosa simile può sconvolgere le certezze di una vita, Susan, e non pretendo che tu non sia confusa, o spaventata da ciò che sono. Ma credimi se ti dico che mai, per nessun motivo, potrei nuocerti.”

Susan sgranò gli occhi, terrorizzata al pensiero che Joy potesse pensare una cosa simile e, scuotendo freneticamente il capo, esalò: “Oh, no! Non pensavo a questo! Alex non ti vorrebbe così bene, senza un motivo! E’ solo che è tutto così tremendamente assurdo… così… incredibile. Non ho mai neppure creduto a Babbo Natale, figurarsi questo!”

Lily le passò un braccio attorno alle spalle nel sedersi al suo fianco e, scrollandola gentilmente, mormorò: “Mi spiace davvero un sacco che tu non abbia mai creduto a Santa Claus. E’ stata una vera perdita.”

“Tu come fai a credere a tutto, senza neppure fare una piega?” le ritorse bonariamente contro Susan, abbozzando un sorriso stentato.

Lanciato uno sguardo adorante a Joy, che le sorrise, Lily tornò a osservare il viso vagamente pallido di Susan, prima di asserire con una certa veemenza: “Io sono sempre stata convinta che la vita fosse un evento magico, qualcosa di eccezionale. Certo, non avrei mai immaginato fino a che punto questa magia potesse spingersi, ma veder confermate le mie ipotesi, è incredibile.”

Susan allora reclinò il capo, sconsolata e, stringendo un poco le mani di Joy ancora intrecciate alle sue, asserì mogia: “Avete avuto delle vite piene di amore e di gioia, molto più di me. Avete avuto momenti in cui far librare la vostra fantasia… io, no di certo. In casa mia, era quasi un lusso avere la possibilità di giocare con le bambole, figurarsi immaginare mondi fantastici o creature mitologiche.”

Nel dirlo, sorrise a entrambe, prima di proseguire.

“I miei genitori credevano fosse più importante che io imparassi a vivere nel mondo vero, non nei sogni. Non gliene faccio una colpa, ma…”

“Ma ora ti è difficile accettare. E’ naturale” annuì Joy, rialzandosi per abbracciarla con calore.

Lily si unì all’abbraccio e chiosò: “Ci penseremo noi ad aprire le porte alla bambina che c’è in te.”

Ridacchiando tremula, Susan disse loro: “Non dovremmo aiutare Joy a vestirsi?”

“Oh, lo faremo ma, nel frattempo, giocheremo un po’” sogghignò Lily, scostandosi dalle due giovani per afferrare il borsone che aveva lasciato sulla porta della stanza.

Joy e Susan si guardarono vagamente confuse, chiedendosi cosa nascondesse in quella borsa enorme mentre Lily, tutta soddisfatta, tornò da loro esclamando: “Si aprano le danze!”
 
***

“Arrivano le damigelle d’onore più belle del mondo e la testimone di nozze!” urlò a gran voce Kelly, entrando nell’appartamento di Joy quasi a passo di carica.

Dietro di lei, ridenti e felici, arrivarono Aileen e Margot, abbigliate con gli stessi tubini indossati da Susan e Lily.
Sentendole entrare, le due ragazze si affacciarono dalla camera da letto ed esclamarono in coro: “Ehi, ciao!”

Correndo verso la stanza, le tre amiche di Joy buttarono dentro le teste dai capelli raccolti in perfetti chignon e, sorridendo a Joy, urlarono a gran voce: “Ciao, sposina!”

La giovane sorrise alle amiche e, con lentezza, si infilò tra i capelli un fermacapelli d’oro a forma di falco dalle ali dispiegate.

Joy l’aveva trovato quella stessa mattina, sul suo comodino, assieme a un mazzo di fiori di mirto.

Non c’era stato bisogno di alcun biglietto, o di alcuna indagine, per scoprire chi le avesse lasciato quei doni così speciali.

Il fermacapelli era uno dei primi regali di cui le aveva fatto dono Rah, quando ancora vivevano all’ombra delle piramidi.

Altri ne erano seguiti ma, quando il suo tempo era giunto, Joy aveva preferito li tenesse lui.

Le si sarebbe spezzato il cuore a ogni reincarnazione, al pensiero che predoni e cacciatori di tombe potessero mettere le mani su quei preziosi.

E non tanto per il loro valore materiale, ma a causa di colui che glieli aveva regalati.

I bianchi fiori di mirto, invece, erano i suoi fiori preferiti e, quel giorno, avrebbe usato quel mazzo intrecciato con nastri di raso dorato per unirsi in matrimonio con Morgan.

Sorridendo, lanciò un’occhiata al corto abito bianco in pizzo e tulle che riposava sul suo letto.

Quando aveva detto alla madre di non volere nulla di particolare, per quella cerimonia, l’aveva vista inalberarsi per la prima volta in vita sua.

Senza lasciarle il tempo di spiegarsi, Melinda l’aveva sospinta verso l’auto e, con cipiglio da generale, si era diretta verso il più vicino negozio di abiti da sposa.

Lì, aveva pregato la commessa di trovare per la figlia un abito vezzoso e leggero per una cerimonia informale in comune, e a questo la donna si era attenuta.

Dalla sua ricerca, era infine saltato fuori un abitino corto, dalla gonna in tulle leggero come una nuvola e il corpetto in elegante pizzo fiorentino.

Data l’esuguità del tempo disponibile, Melinda aveva preso per sé l’incarico di sistemare – ove necessario – l’abito e aveva spedito la figlia a scegliere le scarpe.

Con un paio di decollté bianche e dal tacco alto, Joy si era infine presentata alla madre che, soddisfatta, l’aveva baciata sulla guancia, riportandola a casa.

Alla ragazza non era più saltato in mente di imporsi, circa il suo matrimonio affrettato.

Se Melinda era lieta di renderlo una cerimonia a tutti gli effetti, lei non l’avrebbe fermata in alcun modo.

E, tra sé, ne aveva gioito essa stessa.

Indossati due piccoli pendenti a goccia in smeraldo alle orecchie, Joy passò poi al bracciale in oro e smeraldi, dono dei genitori, e lo mise con reverenziale gratitudine.

Dopo essersi rimirata allo specchio per controllare che tutto fosse in ordine, infilò le scarpe e infine domandò: “Allora? Può andare?”

“Avrei preferito l’abito lungo, ma capisco perché hai optato per questo, più corto” ammise Aileen, abbracciandola strettamente. “Lo strascico e tutto il resto lo lasceremo per quando farete la cerimonia in chiesa.”

“Già” ammiccò Joy, dandole un bacio sulla guancia prima di stringere a sé le sue amiche.

Nessuna di loro domandò nulla, si limitarono ad annuire all’amica.

Quando gli abbracci ebbero il loro termine, Margot dichiarò: “A te l’onore, baby. E’ giunto il grande momento.”

A Joy non restò altro che afferrare il suo bouquet e avviarsi verso l’uscita.
 
***

Fermo nell’androne che precedeva la sala conferenze dove, entro breve, si sarebbe sposato con Joy, Morgan passeggiava nervosamente nel vano tentativo di calmarsi.

Quella notte, obbligato per convenzione a dormire da solo, non aveva praticamente chiuso occhio, agitato nonostante tutto al pensiero di ciò che avrebbe fatto il giorno seguente.

La mancanza di Joy al suo fianco, nel letto, lo aveva reso davvero nervoso.

Si era talmente abituato a percepire il tuo tiepido calore, o il suo profumo speziato che, non averlo accanto a sé anche solo per una notte, lo aveva quasi fatto impazzire.

Muovendosi come un puma in gabbia, continuò a passarsi le mani tremanti sui baveri della giacca nera prima di lanciare sguardi ansiosi in direzione dello scalone.

Sapeva che, ben presto, sarebbe apparsa Joy e, forse per l’ennesima volta, sospirò.

I genitori lo osservarono silenziosi, preferendo non esprimere i loro commenti riguardo alla sua ansia.

Stephen, però, non si lasciò sfuggire l’occasione per prenderlo un po’ in giro e, datogli di gomito non appena lo ebbe a tiro, celiò: “E poi ero io, quello nervoso. Tu sembri pronto a prendere fuoco da un momento all’altro!”

“Molto spiritoso” mugugnò Morgan, prima di sorridere al dottor Greyson, alla dottoressa Abrahams e al quartetto di infermiere che Joy aveva invitato alla breve cerimonia. “Ehi, salve. Ben arrivati.”

“La sposa si fa attendere?” chiese Greyson, quando tutti si furono concessi un minuto per abbracciare il futuro sposo.

“A quanto pare…” ammise Morgan, lanciando un’occhiata all’orologio.

In quel mentre, si udì il chiacchiericcio inconfondibile di Margot e Aileen.

“Queste voci le riconoscerei tra mille” ghignò Alex, ammiccando al futuro sposo.

Quando Morgan aveva conosciuto per la prima volta le amiche di Joy, era rimasto letteralmente soffocato dalle loro miriadi di domande.

Alla fine di quella specie di fuoco incrociato, però, si era ritrovato ad adorarle.

Pur essendo così diverse caratterialmente, se la intendevano alla grande.

Era felice che almeno loro fossero riuscite a raggiungerli per il matrimonio, visto il così breve preavviso.

La prima ad apparire dalle scale fu Aileen che, slanciata e bellissima nel suo contrasto di pelle scura e abito d’oro, avanzò sul pavimento di marmo con la stessa grazia di una pantera.

Giunta a metà strada, si fece da parte e, platealmente, esclamò: “Miss Joy Patterson!”

“E piantala!” esalò con un risolino Joy, comparendo a sua volta dalle scale, seguita a ruota dalle sue amiche.

Morgan sgranò leggermente gli occhi, incapace di dire alcunché.

L’abito le stava a pennello ed esaltava la sua carnagione eburnea quanto i suoi riccioli ramati, lasciati scivolare attorno al suo collo sottile e arcuato.

Il corpetto di pizzo sottolineava come una seconda pelle le forme squisite mentre la gonna, al ginocchio, si allargava in strati e strati di tulle vaporoso.

Quando infine lei lo raggiunse, un sorriso radioso tale da far impallidire il sole stesso per bellezza, Morgan le sfiorò il mento con un dito, mormorando ammaliato: “Nessuno è mai stato bello come te, né mai lo sarà.”

A Joy sfuggì un risolino e le gote si arrossarono di virgineo imbarazzo.

“Posso dire lo stesso di te?” replicò lei, ammirandolo nel suo completo.

Fin da quando lo aveva intravisto oltre la balaustra di marmo, Joy non era riuscita a staccargli gli occhi di dosso.

La scelta di abbinare all’abito scuro una camicia e un gilet dalle tinte color ghiaccio, le era parso perfetto.

Stemperavano la seriosità del vestito, dandogli un tono più casual e, nel contempo, esaltavano la sua carnagione olivastra.

In quel momento, era difficile rendersi conto delle persone che li circondavano con il loro affetto e la loro gioia.

Nessuno, a parte Morgan, in tante vite vissute, era riuscito in una tale impresa.

E ora le sembrava addirittura impensabile concepire l’esistenza senza di lui.

Margot avrebbe detto che era davvero alla frutta.

E lei ne era immensamente felice.

Quando Richard si mosse per avvicinarsi alla figlia, Joy gli sorrise e lasciò che il padre le baciasse la guancia nel sussurrarle: “Sei magnifica, bambina mia.”

“Grazie, papà” mormorò lei, recuperando in parte un certo controllo su se stessa.

Era difficile, con Morgan così vicino.

Dopo aver salutato uno a uno i presenti, i due promessi si avviarono infine verso le porte di legno della sala conferenze.

Le mani intrecciate tra loro, si sorrisero coraggiosamente prima di dare il via alla loro vita insieme come marito e moglie.

Niente e nessuno si sarebbe potuto frapporre tra loro, né il destino avverso, né tanto meno i nemici che, presto o tardi, avrebbero bussato alla loro porta.

Joy sapeva che quella cerimonia non era importante solo per il mondo degli umani, ma anche a livello cosmico.

La sua decisione non avrebbe avuto ripercussioni solo dal punto di vista burocratico, ma si sarebbe riverberata nel
Cosmo come un’onda di piena.

Sarebbe giunta fino ai confini conosciuti, e non conosciuti, dell’Eternità.

Quel ‘sì’, pronunciato solo una settimana prima di fronte all’uomo da lei tanto amato, non era stato dato con leggerezza, dettato dall’amore che lei provava per Morgan.

Tutt’altro.

Già da tempo si era accorta che, presto o tardi, Morgan le avrebbe chiesto di convolare a nozze.

Per questo, aveva potuto prepararsi a quell’eventualità, avendo già ben chiaro in mente ciò che voleva realmente.

Non avrebbe mai preso una simile decisione alla leggera, spinta da impulsi improvvisi.

Pronunciare quel sì di fronte a testimoni umani e non – sapeva che non solo lo spirito di Rah era presente in quel luogo, in quel momento – avrebbe avuto un peso enorme nelle sfere celesti.

Ben maggiore di quello che avrebbe avuto nel mondo reale.

Di questo, ne era consapevole e, per Morgan, era pronta ad affrontare qualsiasi decisione sarebbe stata presa a seguito di quel patto di amore reciproco e assoluto.

Non aveva la minima idea di cosa sarebbe successo, se gli equilibri del Cosmo si sarebbero sbilanciati al punto da creare una discrepanza nel continuum spazio ma, a quel punto, non le importava.

La decisione era stata presa, e lei non si sarebbe tirata indietro.

Morgan sarebbe stato suo, come lei sarebbe stata sua.
 

***
 
La mano poggiata sulla spalla leggermente ingobbita di Robert, Joy sorrise al suo supervisore – in quel momento vagamente alticcio – e, con voce ironicamente puntigliosa, gli disse: “Non avresti dovuto bere così tanto. Che figura ci fai, di fronte alle infermiere?”

Ridacchiando, Robert le strizzò un occhio, replicando: “Avranno un aumento, se staranno mute come pesci.”

“Buono a sapersi!” esclamò Ronda, battendo il cinque con le sue colleghe, che risero sguaiate.

Joy rise di fronte alla loro allegria, prima di lanciare uno sguardo d’insieme alla sala, che racchiudeva gli invitati al matrimonio suo e di Morgan.

Il salone del Bay House, rivolto verso il mare, era illuminato da enormi lampadari a goccia, che rifrangevano la luce in miriadi di più piccoli arcobaleni allungati.

Le basse poltroncine scure, accompagnate ai tavolini dove era stato servito il rinfresco, erano interamente occupate dai commensali.

Dopo ore di sfrenati balli initerrotti, gli invitati si godevano qualche istante di meritato riposo, assaporando i piatti di pesce cucinati con maestria dallo chef.

Morgan e Joy non avevano smesso un secondo di chiacchierare con gli invitati, ballando a turno con tutti i presenti, e concedendosi solo alcuni balli per loro stessi.

Era implicita, in entrambi, la remota possibilità che quella fosse l’ultima volta in cui incrociavano le vite di molti di loro.

Non potevano essere così folli da non pensare all’eventualità di perdere, per quanto questo fosse un pensiero sgradevole e, di sicuro, ben poco adatto a un’occasione così felice.

Nell’osservare il disco solare affondare placidamente nell’oceano, Joy sfiorò con la mano il vetro che la separava dalla spiaggia poco distante mentre Alex, alle sue spalle, sussurrò gentilmente: “Puoi mentire a tutti loro, ma non puoi mentire a me, Leen.”

Joy si volse a mezzo, sorridendo al cugino prima di appoggiarsi al suo corpo protettivo e caldo, mormorando melanconica: “Faccio di tutto, ma il pensiero c’è.”

“Anche Morgan ha gli occhi spenti, nonostante spari stupidaggini a raffica, e rida come un pazzo anche alle battute più idiote” ammiccò Alex, indirizzando uno sguardo comprensivo in direzione del giovane che, in quel momento, era impegnato in un braccio di ferro con Brian.

“Nessuno dei due è così stupido da approssimarsi a una battaglia, pensando di vincere a priori.”

Con dita esili, intrecciò una mano a quella del cugino, sfiorando debolmente la bruciatura lasciata da Rah alcuni anni prima.

“Se mi dovesse succedere qualcosa, lo percepirai. Ti farà un male cane, ti avverto.”

“Spererò fino all’ultimo di non sentire nulla” le sorrise Alex, deponendole un casto bacio sulla sua fronte. “Questo ninnolo che hai tra i capelli, da dove salta fuori?”

“E’ stato uno dei primi regali che mi fece Rah. L’ho trovato stamattina, sul comodino, assieme ai fiori di mirto” gli spiegò, mentre Alex sfiorava il falco sormontato dal disco solare con reverenziale timore.

“L’uccello sei tu?” mormorò Alex.

“E’ un falco. Rappresenta Horus. Il mio simbolo è l’ibis, invece.”

Avvolgendola tra le braccia, Alex le sussurrò all’orecchio: “Prometti di non fare l’eroina votata al martirio?”

“Ho molte persone da cui tornare. E un uomo da amare per il resto dell’esistenza che ci vedrà assieme” asserì lei con un sorriso sicuro.

“Niente più panico da ‘sono una Fenice e devo restare sola’, allora?” ammiccò il cugino.

“Accetterò con coraggio ciò che verrà dalla mia decisione, ma la scelta è stata fatta con coscienza, e non la rinnegherò. Io sono sua, come lui è mio. Siamo un’unica anima, un unico corpo. Siano gli dèi a decidere per me, ora” sentenziò Joy, sicura come mai prima era stata in vita sua.

In nessuna sua vita.

“Sono felice per te, allora” sussurrò Alex, prima di veder giungere a grandi passi Morgan, un mezzo sorriso stampato in viso e l’aria di chi ha tutta l’intenzione di fare uno scherzo a qualcuno.

Non appena fu abbastanza vicino per poter parlare senza farsi sentire dagli altri invitati – che stavano chiacchierando chiassosamente alle loro spalle – Morgan, avvolse un braccio attorno alle spalle di Alex e celiò: “Importuni la mia signora, Barrett?”

“Tutt’altro, Thomson” ridacchiò Alex.

“Sicuro di non essere geloso?” lo punzecchiò allora Morgan, ammiccando al suo indirizzo.

“Perché dovrei? Sono felice per Joy e te…”

“Pensavo ti avrebbe dato fastidio vedermi sposare qualcuno che non fossi tu” esalò Morgan, fingendosi dispiaciuto.

Alex avvampò in viso per un secondo prima di spingerlo via e, tra le risate, esclamare: “Ma piantala con questa storia!”

Morgan rise assieme a Joy che, letteralmente, aveva le lacrime agli occhi per il gran ridere.

Data una pacca sulla spalla ad Alex, Morgan esclamò: “Dio, ci caschi sempre! Barrett, per essere uno stimato avvocato di grido, ti perdi sempre in un bicchier d’acqua.”

“Sei tu che sei più malizioso di una … no, meglio se non lo dico” sghignazzò Alex, asciugandosi una lacrima di ilarità.

A sorpresa, Morgan lo abbracciò strettamente, puntando con forza i pugni chiusi contro la sua schiena e, con voce rotta dall’emozione, mormorò: “Grazie per avermi fatto da testimone.”

Alex perse del tutto la voglia di fare dell’ironia e, ricambiato l’abbraccio con altrettanta energia, poggiò la fronte contro la spalla del giovane, replicando: “Grazie a te per avermelo chiesto. E’ stato un onore.”

Joy dovette impiegare tutto il suo coraggio per non piangere come, poco prima, aveva riso e, sfiorate le spalle dei due uomini dinanzi a lei, sussurrò sentitamente: “Sapete, vero, quanto questo mi renda felice?”

I due giovani si sciolsero dall’abbraccio, guardandosi con un vago imbarazzo prima di annuire alla donna che tanto amavano, pur se in maniera così differente.

Strette le loro mani nelle sue, Joy sorrise tremula prima di aggiungere: “Voi rendete questo giorno speciale.”

“Solo perché ci sei tu” sussurrò Morgan. “Solo perché ci sei tu.”

Già sul punto di replicare alle parole del marito – dèi, che strano pensare a lui in questi termini! – il trio venne raggiunto da Aileen.

Avvolte le spalle dell’amica con un braccio, esclamò: “Siete troppo seri, per i miei gusti, qui! Vieni, bella! La tua testimone di nozze, che poi sono io, ti esige al tavolo dei rinfreschi! Dobbiamo brindare!”

Scoppiando a ridere, Joy la seguì, avvolgendole la vita con un braccio mentre Morgan e Alex la osservavano allontanarsi e scivolare tra la folla festante con la stessa grazia di un alito di vento.

“Proteggila. Anche se non te lo permettesse” mormorò Alex, gli occhi fissi sul profilo perfetto della cugina, intenta a bere dello champagne da una flûte di cristallo.

“Morirò per lei, se necessario” annuì Morgan, senza mostrare alcun cedimento nella voce.

Ad Alex non servì sentire altro, ma aggiunse: “Non arrivare a tanto. Mi mancheresti.”

Morgan gli diede di gomito e, nello strizzargli un occhio, celiò: “Lo sapevo che sei sempre stato pazzo di me!”

Alex scoppiò a ridere e, presolo sottobraccio, chiosò: “Dai, affoghiamo nell’alcol questa fesseria. Ne ho davvero bisogno.”

“A chi lo dici!”
 
***

Le stelle splendevano alte in cielo e la solitaria Sirio, ormai prossima a scomparire oltre la linea dell’orizzonte, scintillava come un diamante di sopraffina bellezza.

La luna, un esile spicchio argenteo, reclinava verso occidente, parzialmente velata da sottili cirri, illuminati dalla sua luce riflessa.

L’aria profumava di salsedine e di una tempesta lontana, dispersa sull’oceano.

Quando anche l’ultimo degli invitati prense la via del parcheggio, l’infallibile trio di amiche di Joy si avvicinò alla novella sposa con dolci sorrisi dipinti sui loro volti preoccupati.

Joy sapeva fin da quando aveva raccontato loro del matrimonio, che quel confronto sarebbe avvenuto.

Solo, non aveva idea di cosa dire per cancellare le paure che leggeva in quegli occhi a lei così cari.

Sistematasi un ricciolo ribelle dietro l’orecchio, Joy sorrise alle amiche, che la raggiunsero sull’uscita del ristorante.

Dopo averle detto due parole a bassa voce, si dileguarono per attenderla sulla spiaggia, dove nessuno le avrebbe disturbate.

Scusandosi un momento con Morgan, che stava stringendo mani e baciando guance – l’aria stanca non meno di lei – Joy scivolò fuori dal locale e si inerpicò lungo il sentiero che conduceva alla battigia.

Lì, immerse nella notte, intravide tre figure solitarie che ben conosceva.

Le scarpe trattenute in una mano, Margot si volse non appena sentì Joy avvicinarsi e, mentre le altre la imitavano, esordì dicendo: “Quale frottola ci racconterai, ora?”

Joy sorrise spontaneamente. La conoscevano davvero troppo bene.

“Non si tratta di raccontarvi una frottola, quanto di proteggervi da eventi che potrebbero mettervi in pericolo” scrollò le spalle Joy, con tutta l’onestà che riuscì a trovare.

“Pensi che un po’ di pericolo ci spaventi? Ehi, noi siamo come i moschettieri! Tutti per uno, uno per tutti!” sbottò Aileen, lanciando in aria un braccio nel tentativo di imitare i prodi spadaccini francesi decantati da Dumas.

“Il pericolo che io e Morgan affronteremo proviene dal mio passato, e nessuna di voi deve rimanerne invischiata. Neppure i miei genitori, o i miei cugini, potranno aiutarci” spiegò loro Joy, mortalmente seria in viso.

Le tre ragazze si guardarono alternativamente senza sapere bene cosa dire.

I volti che, fino a qualche ora prima, avevano brillato di gioia e serenità, ora erano offuscati dall’ansia e dal timore di non fare la cosa giusta.

Alla fine fu Kelly a parlare per tutte loro.

“Cosa vuoi che facciamo?”

“State lontane da L.C. almeno finché non ve lo dirò io… o Alex.”

Con un sospiro, infilò una mano nella tasca della giacca e aggiunse: “Ho qualcosa per voi, e vorrei lo indossaste.”

Sempre più confuse, le ragazze si videro consegnare una collanina dorata ciascuna, da cui pendeva un curioso nodo, molto simile a una croce ansata2.

“Si tratta di un nodo di Iside, e protegge le persone che lo indossano da ogni male” spiegò loro Joy, tenendo gli occhi bassi, rivolti verso la fine sabbia giallognola che, sollevata dalla brezza, le solleticava i piedi e le gambe. “Non dovete togliervelo mai. Per nessun motivo.”

Sgranando leggermente gli occhi, Aileen mormorò: “Susy e Lily ne hanno uno identico, vero? Mi sembra di averglielo visto addosso.”

Joy si limitò ad annuire.

“Per quello che vale, siete state delle amiche impareggiabili.”

“Buona, A.J.” sbottò Kelly, afferrandola a un braccio prima che la giovane si allontanasse da loro. “Non te ne andrai con questa specie di addio strappalacrime, senza prima avere preso il nostro regalo.”

“Ma me l’avete già fatto” esalò Joy, sorpresa.

“Era quello ufficiale” brontolò Aileen, facendo spallucce. “Per questo, ci siamo affidate a Haniya. Ci aveva chiamate per via del regalo da farti e, visto che già ti aveva donato una mano di Fatima, abbiamo pensato che…”

Nel vedere l’amica in difficoltà, Margot intervenne al suo posto.

“Quello che non vuole dirti è che, tutte e tre, abbiamo avuto un incubo spaventoso, in cui tu ardevi tra le fiamme prima di diventare una stella splendente e, quando abbiamo sentito Haniya, ci ha detto di aver visto in sogno la stessa cosa. Così, abbiamo pensato a un amuleto da regalarti perché ti proteggesse, e lei ci ha consigliato l’occhio di Allah. So che ti potrà sembrare da credulone, però siamo state tutte d’accordo nel fartelo.”

Kelly le allungò una collana in bronzo, da cui pendeva uno scarabeo sacro alato, sormontato dal disco solare.

Presolo tra le mani con lo stupore ben dipinto sul volto, Joy percepì una familiare scossa di potere e, non potendo evitarlo, lanciò un’occhiata al cielo.

“Osiri?”

“Un semplice portafortuna. Ho scommesso anch’io contro Anubi…”

“Come hai fatto a…”

“A condurle a me e al gioiello?”
ironizzò il dio, nella sua mente.

Joy si limitò a sorridere, sfiorando il gioiello prima di stringerlo nel palmo.
“Se fossi superstiziosa, non indosserei mai un gioiello inviatomi dal Signore dell’Oltretomba.”

“Non solo Rah ti ha a cuore, Benu, ricordalo… anche Isi sarebbe triste, se perissi e, se ciò avvenisse, chi la sopporterebbe più, nei millenni a venire?”

Quell’accenno alla moglie e sorella, fece sorridere maggiormente Joy, riportandole alla mente le miriade di volte in cui aveva placato le ire di Isi.

Così cara e, al tempo stesso, così alterabile! Era stata proprio Isi a suggerirle di usare il suo talismano, per proteggere le persone a lei care.

Tornò a volgere lo sguardo in direzione delle sue amiche, mormorò roca: “E’ un dono bellissimo e no, non vi reputo delle credulone. Lo apprezzo moltissimo.”

Aileen le sorrise mesta, confidandole: “Sai, vero, che mia nonna è di origine Giamaicana?”

Joy annuì e la ragazza, preso un gran respiro, continuò dicendo: “Quando ho avuto quell’incubo, gliene ho parlato perché me ne spiegasse il significato e lei mi ha detto che, con tutta probabilità, c’è un loa che ti perseguita per qualche motivo.”

Sorridendo senza allegria nel sentir parlare dei loa, o misteri, della religione vudù, Joy annuì lievemente, asserendo: “Diciamo che è qualcosa del genere. Tua nonna deve essere una sacerdotessa molto potente, per averlo compreso solo da un tuo sogno.”

Un pallore cereo tinse le gote scure di Aileen, facendola apparire emaciata agli occhi di tutte.

Con voce flebile come il vento che le accarezzava sulla battigia, la giovane esalò: “Ha… ha ragione?”

Joy le fissò tutte per qualche secondo, prima di dire loro: “Ci sono forze più grandi di me che mi spingono lontana da voi, per il momento, e non voglio che queste forze vi facciano del male. Se vi sapessi in pericolo, non starei tranquilla.”

Margot sbuffò, scacciando con il gesto rabbioso di una mano una lacrima ribelle e, fissando le sue iridi brillanti sul viso serioso di Joy, ringhiò: “Così, fai stare in ansia noi, ma faremo ciò che vuoi. Ce ne staremo buone e lontane da L.C. Tu, però, stai attenta, qualsiasi cosa sia quello che ti accingi ad affrontare.”

Joy annuì, mentre una stella cadente fendette il cielo con la sua scia bianca.

L’ultimo saluto di Osiri prima di tornare nel Duat.

Joy lasciò con un abbraccio e un bacio le amiche, prima di rientrare nel ristorante e raggiungere Morgan.

Ora solo e con il volto percorso da un’ansia quasi palpabile, sobbalzò nel sentire la mano di lei sul braccio.

Subito dopo, le sorrise e, strettala in un abbraccio, mormorò: “Hai parlato con le tue amiche?”

“Sì. Non ho spiegato loro che succede, ma sanno che devono stare alla larga da qui” asserì Joy, avvolgendogli la vita con un braccio.

Annuendo, Morgan le chiese: “Sei sicura che Manasa non deciderà di radere al suolo L.C. solo per farti un dispetto?”

“Andrebbe contro il suo stesso interesse. Nessuna di noi vuole attirare l’attenzione, e mettersi a fare Godzilla in mezzo a una città, non è esattamente il modo migliore per mantenere l’anonimato” gli spiegò Joy con un mezzo sorriso.

Sollevando un sopracciglio con evidente confusione, Morgan esalò: “Ma… non può fare come te con l’ospedale?”

“No. Lei ha bisogno della sua forma animale, per poter usare il potere della dea che alberga in lei. Il suo corpo è un involucro e un mezzo, non la forma primigenia di Manasa, perciò non può agire come me che, invece, sono nata con caratteristiche divine, e non necessito della mia forma animale per poter usare i miei doni” sussurrò Joy.

Nell’udire dei passi alle loro spalle, si volse e, sorridendo, si rivolse ai suoi genitori, mormorando: “Stanchi?”

“Un po’,  ma la festa è stata molto bella” sorrise Melinda, dando un bacio sia a Joy che a Morgan.

Carmen la imitò, prima di chiedere loro: “Quando pensate di partire?”

“Tra due giorni” spiegò loro Morgan. “Così, avremo il tempo di scandagliare i dintorni di Phoenix per trovare il luogo più adatto in cui dare fuoco alle micce.”

Joy ammiccò per la sua battutina, e gli sorrise complice.

“Sapete tutti quanti ciò che deve essere fatto, perciò non vi angustierò oltre con i particolari. Sappiate solo che, per ciò che mi è stato possibile, siete stati protetti dai poteri di Manasa. Abbiate cura di voi, per il tempo in cui rimarremo separati.”

Nessuno disse nulla.

Il tempo delle parole era terminato.

Ora, restava soltanto l’azione.

 



 
 
***





 
Quella notte, io e Morgan restammo a lungo stretti l’uno tra le braccia dell’altra, stesi sull’erba fresca dietro la baita, a contemplare il cielo notturno colmo di stelle.

Il profumo dei fiori era mescolato a quello della resina dei pini, e a quello più intenso della terra umida e fresca.

Circondai entrambi con il mio calore per non avvertire il pizzicore del vento gelido proveniente dal mare, e Morgan mi carezzò infinitamente i capelli, mormorando dolci parole al mio orecchio.

Non volevo rinchiudermi in casa, quella notte.

Sentivo il bisogno di stare a contatto con la terra, con quella terra che avevo giurato di proteggere, così come avevo giurato di proteggere le creature che vi vivevano.

Non intendevo fare del male a Manasa, pur non sopportandola, perché la mia indole non era violenta.

Ma neppure avrei permesso che lei mi facesse del male, o ne facesse a coloro che amavo.

Mi sarei difesa strenuamente e, se non vi fosse stata altra soluzione, l’avrei uccisa.

Sapevo bene cosa Aileen e le altre avevano visto in sogno, e la cosa mi spaventava.

Usare il mio potere fino a quel punto avrebbe voluto dire avvicinarsi, e di molto, alla stessa potenza del sole.

Avrebbe voluto dire rischiare di radere al suolo l’intera Phoenix, se non avessi trattenuto a sufficienza la potenza delle stelle stretta nel mio pugno.

“Saremo insieme, lo sai, vero?” sussurrò Morgan, strappandomi a quei pensieri.

Sì, saremmo stati insieme, sul campo di battaglia.

Sperai solo che questo potesse bastarmi per trattenere quel potere distruttivo e assoluto.

Volgendomi a mezzo, lo baciai sulle labbra prima di mormorare: “Nessuno potrà scalfire il tuo corpo, poiché hai la benedizione di Fenice. Nessuno potrà ledere la tua pelle, ferire la tua anima, arrecare a te danno in alcun modo. Fenice vuole questo per codesto mortale che io amo sopra a ogni cosa.”

Vagamente confuso, Morgan mi fissò senza capire, prima di venire avvolto per qualche attimo da una fiamma purpurea che, come era giunta, scomparve.

Sorridendogli, gli spiegai ciò che aveva visto e udito.

“Tu e Alex avete la medesima protezione, ora. Probabilmente, riceverò una bella punizione per averlo fatto, ma non mi importa. Nessuno potrà torcervi un capello, ora. Per lo meno, non con mani, piedi, denti, zanne e artigli. Di più, non potevo fare.”

Sempre più sorpreso, Morgan esalò: “Non potevi farlo, vero?”

“No. Per questo, non mi sono permessa di farlo con il resto della famiglia, perché avrei davvero rischiato grosso. Ma voi due, beh, forse per voi due in particolare, chiuderanno un occhio. Spero.”

Nel dirlo, scrollai le spalle.

“Chi chiuderà un occhio, Joy?”

“Non hanno un nome, e ne hanno mille e più. Gli scienziati la chiamerebbero la materia oscura, gli egizi li chiamavano Nun e Nunet, la parte maschile e femminile dell’oceano primordiale da cui nacquero gli dèi tutti. E’ energia allo stato primigenio, Morgan, non ha né corpo né sostanza, è il tutto e il nulla allo stesso tempo. Per così dire, io sono al servizio di questa energia primordiale e, in tuta onestà, non so quanto essa sia elastica di fronte agli strappi alle regole.”

“Non ne hai mai fatti, eh?”

Con un risolino, scossi il capo, esclamando: “Oh, no! Davvero no!”

“Beh, parlerò io in tuo favore, a questo brodo primordiale di energia” ammiccò Morgan, stringendomi in un abbraccio tutto muscoli. “Sai che ci so fare con la gente.”

Mi limitai a sorridere, apprezzando il suo tentativo di tranquillizzarmi.

In realtà, non avevo la più pallida idea di quanto avrei dovuto pagare, per tutte quelle eccezioni alle regole.

Ma, come per il matrimonio, anche per quel dono non mi importò delle conseguenze.

Lo avevo fatto sapendo quanto esso fosse necessario per il nostro futuro.

Navigavo a vista, e il mio istinto mi aveva detto di farlo.

Punto.








Note: Osiri è il dio egizio anche conosciuto come Osiride. La sua compagna e sorella è Isi, o Iside.

Il sogno di Aileen, Margot, Kelly e Haniya non vi tragga in inganno. Non vuol dire che sono Oracoli a loro volta. Solo, semplicemente, le persone possono essere così legate tra loro da poter percepire certe cose, almeno in sogno. A me e due miei amici è capitato e credetemi, è stata una cosa stranissima. Ma maledettamente reale.

 

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Capitolo 33
*** cap. 33 ***


 
33.
 


 
L’aria era già rovente, nonostante fosse solo maggio.

Sembrava quasi di aver aperto per sbaglio un forno acceso, e di avervi immerso il volto.

Il profumo, però, era quello di sempre. Se non davo peso allo smog, ovviamente.

L’odore del creosoto si mescolava a quello dei gas combusti ma, sotto quella miscellanea poco gradevole, potei comunque avvertire gli aromi a me cari.

E il sole.

Lì, a picco su quella terra apparentemente arida e inospitale, sembrava più caldo, più vivo, più vicino, e io mi sentii rinvigorire.

Non che non apprezzassi L.C., ma l’Oregon era davvero troppo umido per una creatura di fuoco come me.

Ma tant’era, lì ero arsa e rinata, lì avevo trovato le persone a me più care e il mio unico amore.

Non mi sarei mai e poi mai lagnata di qualche nebbiolina di troppo, o di un acquazzone in più.

Bagagli alla mano e sguardo puntato verso l’uscita del terminal, lanciai un’occhiata in direzione di Morgan.

Stava fittamente parlando in spagnolo con quella che, apparentemente, sembrava essere la cugina.

Già, la cugina.

Quella che aveva scatenato inavvertitamente il mio furore, e che mi aveva spinta a schiaffeggiare l’incolpevole Morgan.

Sarebbe stato oltremodo imbarazzante incontrarla, pur se il disguido era stato chiarito anni e anni prima.

Quando Morgan spense il telefonino per guardarmi in viso, sorrise deliziato – non aveva smesso un attimo, da quando ci eravamo sposati – e mi disse: “Zio Eduardo e mia cugina Ines stanno arrivando. Ci aspettano fuori con l’auto per portarci a casa. I nonni da ambo le parti e la zia, invece, li troveremo là.”

Annuii, sentendomi stranamente a disagio all’idea di incontrare così tanti parenti di Morgan, e tutti in una volta sola.

Non avevo la minima idea di come ci si dovesse comportare in un’eventualità simile perché a conti fatti, in quel particolare frangente, non avevo esperienza alcuna.

Avvertire la sua calma e sì, la sua eccitazione però, mi tranquillizzò un poco.

Morgan non avrebbe potuto essere così pacifico, se i suoi parenti avessero avuto qualcosa da ridire sulla nostra unione, no?

Fenice che aveva più paura di qualche umano, piuttosto che di una Manasa con il dente avvelenato.

Era davvero il colmo.

Preso un gran respiro, afferrai la mano libera di Morgan e, con una convinzione che non sentivo mia, esclamai: “Si va!”

“Non convinceresti nessuno!” ridacchiò lui, stampandomi un bacio sulla fronte prima di avviarsi con me e i trolley verso l’uscita dell’aeroporto.

 




 
 
***





 
L’auto che si fermò nell’apposito parcheggio, destinato ai fruitori dell’aeroporto, era una Ford Taurus azzurro cielo con i vetri oscurati.

Questi, si abbassarono con un sordo ronzio, non appena le figure di Morgan e Joy fecero capolino nelle sue vicinanze.

Il viso abbronzato e circondato da riccioli bruni di Eduardo comparve come per magia, e si affacciò oltre la portiera assieme a un braccio robusto.

Salutati con allegria il nipote e la sua consorte, esclamò estasiato: “Hola, chico! Qué tal1?”

Ridendo spontaneamente – Eduardo aveva sempre preferito parlare spagnolo, in famiglia – Morgan rispose al saluto prima di afferrare la mano dello zio in una stretta forte e familiare.

“Ti sei rammollito, zio. Di solito mi stritolavi almeno due dita.”

Scoppiando in una grassa risata di gola, cui si unì quella più elegante della figlia, seduta sul sedile del passeggero, Eduardo scese dall’auto per abbracciare il nipote.

Con il suo pesante accento messicano, esclamò: “Niņo2, ne passerà ancora, di tempo, prima che tu possa battermi a braccio di ferro, credimi. Ma non stare lì impalato e presentami la tua esposa.”

Scostandosi perché la visuale dello zio fosse migliore, Morgan levò un braccio a indicare Joy, ferma a pochi passi da loro.

Con tono orgoglioso, Morgan asserì: “Zio, lei è Aileen Joy Patterson. Mia moglie.”

Eduardo annuì più volte, compiaciuto di ciò che vide, prima di allungare entrambe le mani, afferrare quelle della ragazza e baciarne i dorsi con eleganza.

“Benvenuta in famiglia, Joy. Morgan mi ha detto che preferisci usare il tuo secondo nome.”

“Grazie del benvenuto. Sì, abbiamo sempre usato Joy” annuì lei, sorridendogli più tranquilla. “E’ un vero piacere fare la vostra conoscenza.”

Nel dirlo, salutò con un sorriso e un cenno del capo la cugina di Morgan, in auto, che le sorrise di rimando.

Ridacchiando nel guardare entrambe le giovani, Eduardo le avvolse le spalle con un braccio per accompagnarla all’auto, mentre Morgan pensava ai bagagli.

Indirizzato un sorriso alla figlia, l’uomo osservò: “Ho saputo del vostro piccolo disguido. Ines ci è rimasta malissimo, al pensiero di averti ferita.”

Arrossendo suo malgrado, Joy salì in auto e replicò: “Mi sono sentita un’idiota, quando ho saputo che eri sua cugina. Inoltre, all’epoca non stavo con Morgan, perciò non avrei comunque dovuto reagire così.”

Allungata una mano verso di lei, Ines scosse il capo e ribatté: “Sono io la sciocca. Ho sempre salutato Morgan così, fin da piccoli, ma non ho mai pensato che, nel farlo, qualcuna avrebbe potuto rimanerci male, non conoscendomi.”

“Acqua passata, Ines” le sorrise Joy, stringendo la sua mano prima di veder comparire al suo fianco Morgan.

“Possiamo andare” dichiarò il giovane, ammiccando alla cugina e aggiungendo: “Allora, Ines, a quanti ragazzi hai spezzato il cuore, dall’ultima volta che ci siamo visti?”

La bellezza bruna si rimise a sedere correttamente, mentre il padre prendeva la via dell’uscita del parcheggio.

Dopo aver rimuginato per un minuto buono, sentenziò: “Dodici. Ma, giuro, non è colpa mia.”

Mentre Joy sgranava gli occhi per la sorpresa, Morgan scoppiò a ridere ed esclamò: “Sì, non è mai colpa tua!”

Eduardo ghignò a quel commento e, a favore della figlia, celiò: “Che ci può fare la mia chica, se è così bella?”

“Grazie papino” sorrise leziosa Ines, prima di scoppiare a ridere.

Avvolte le spalle della moglie con un braccio, Morgan chiosò: “La mia famiglia è tutta così. Delle boriose primedonne che mettono in mostra ciò che il Signore ha dato loro. Nonno e nonna Thomson sono un poco più riservati, ma non più di tanto.”

Joy rise a quel commento mentre Eduardo, attraverso lo specchietto centrale dell’auto, gli lanciava un’occhiataccia di avvertimento.

“Sentitelo, da che pulpito! Ha parlato Mister-Guardate-Che-Fisico-Che-Ho.”

Non potendo fare altro che ridere, Joy appoggiò il capo contro la spalla del marito e sentenziò: “Vi adoro già. Tutti quanti.”

“Ne sono lieto” le sorrise Morgan, dandole un bacio sul capo.
 
***

La villetta dei Thomson era strutturata su un solo piano, dalle pareti color sabbia e con un basso tetto ricoperto di coppi antichizzati color mattone.

Il corto vialetto che conduceva alla porta d’ingresso era in selciato scuro, al pari del camminamento che circondava la casa.

Nel giardino sassoso, alti cactus crescevano rigogliosi, puntando i loro bracci verso l’alto, in direzione del sole cocente.

Ammirando il modo sapiente con cui le piante grasse e le pietre erano state disposte, Joy esalò: “Chi ha fatto questo giardino è un genio. E’ davvero molto bello.”

“Nonno Michael sarà felice di saperlo. L’ha fatto per una vita” le rispose Morgan, prima di scorgere la porta aprirsi per lasciar fuoriuscire il resto della famiglia.

Mentre Eduardo e Ines portavano dentro i bagagli dei due novelli sposi, due coppie di anziani, e una donna statuaria dalla folta chioma corvina, si avvicinarono a loro.

Braccia aperte li accolsero, e  sorrisi solari si dipinsero sui loro volti.

Morgan, lieto di vederli, si avvicinò praticamente ballonzolando sul selciato e, una volta abbracciati i parenti con gioia, si scostò quel tanto per dire: “Lei è mia moglie. Joy.”

Muovendosi per primo, il fisico piegato dai tanti anni passati a lavorare nei giardini ma ancora forte e longilineo, Michael Thomson sorrise alla giovane e dichiarò: “E’ un vero piacere scoprire che mio nipote ha così buon gusto. Scusa se non siamo venuti al matrimonio, ma non abbiamo davvero avuto il tempo di organizzarci.”

“Capisco benissimo, signor Thomson. E’ stata una cosa un po’ frettolosa, ma faremo in modo di rimediare” gli sorrise Joy, già conquistata dagli occhi generosi dell’anziano.

“Chiamami Michael, oppure nonno, come fa il ragazzone che hai sposato” ridacchiò l’uomo, battendole affettuosamente una mano sulla spalla. “Lascia che ti presenti la mia adorata mogliettina.”

Una donna minuta e dal fisico asciutto avanzò nel suo chemisier fiorato, con la stessa classe di una diva degli anni Trenta.

Porgendo una mano dalle unghie laccate di rosso a Joy, disse con calore: “Benvenuta, carissima. Ci ha fatto davvero piacere sapere che sareste venuti.”

“Grazie, davvero” mormorò Joy, avvertendo attorno a sé un’atmosfera davvero piacevole e pacifica.

Arianna, la zia di Morgan, si avvicinò ai genitori, Bernardo e Cora e, dopo aver lasciato che loro si presentassero, si avvicinò per abbracciarla.

Scostandosi poi con un sorriso, la donna la fissò con i penetranti occhi scuri e le accarezzò una guancia, mormorando: “Hai davvero uno sguardo solare e generoso, Joy. Mi piace. E mi piace come ti guarda mio nipote. E’ davvero un ottimo matrimonio, il vostro.”

Morgan ammiccò all’indirizzo della moglie e le disse: “Discendiamo da una famiglia Anazazi, che vissero in queste zone un bel po’ di tempo fa. Il bisnonno di Arianna ed Eduardo era…” voltandosi in direzione della zia, il giovane le chiese: “… com’è che lo chiamate?”

Ridacchiando, Arianna strizzò l’occhio a Joy – che sorrise – e spiegò al nipote: “Un saggio, chico. Non vorrai davvero che mi metta a parlare in antica lingua navajo3, vero?”

“Ti risparmierò, giusto perché sei tu” le concesse Morgan, prima di abbracciarla strettamente e sussurrarle: “Sono felice di rivederti, zia. Davvero tanto.”

“E noi siamo felici di avere voi qui, tesoro.”

Le loro parole non erano solo di circostanza.

La sua presenza lì faceva davvero piacere alle famiglie Thomson e Sanchez, e di questo Joy non poté che esserne lieta.

Con Morgan non aveva voluto esporre i suoi dubbi ma, fin da quando aveva saputo che avrebbe incontrato i suoi nonni e i suoi zii, l’idea di non piacere loro le era serpeggiata nel corpo come un cancro.

Ora, tranquillizzata dalle loro parole e dai loro sorrisi, tutto le apparve sotto un’altra ottica.

Sperava solo che, a L.C., tutto stesse procedendo secondo i piani.
 
***

La pioggia picchiettava feroce contro i vetri di Starbuck.

Il profumo del caffè si espandeva nell’aria, assieme a quello dei pancakes caldi e della torta di mirtilli appena esposta nella vetrinetta del bar.

Oliver osservò pensieroso e ansioso insieme la sua tazza di cappuccino, chiedendosi quando Bharat avrebbe fatto la sua comparsa.

Due giorni prima, come da programma, Consuelo se n’era andata da L.C. in direzione di Portland.

In quel momento, stazionava stabilmente nell’hotel più vicino all’abitazione di Stephen Barrett e consorte,  che si erano presi l’impegno di tenere d’occhio zii, genitori e, per l’appunto, sua moglie.

Poche ore prima, nell’uscire di casa per schiarirsi un po’ le idee in vista dell’incontro con Bharat, Oliver aveva cercato la moglie al cellulare.

L’aveva trovata impegnata assieme a Melinda nella preparazione di una torta alle mandorle che, a quanto pareva, era la preferita di Richard.

Con il padre di Joy, Oliver non aveva ancora del tutto chiarito.

Contava comunque di porvi rimedio, una volta che tutto fosse stato risolto nel migliore dei modi.

Doveva davvero molto a Joy, non da ultimo la sua liberazione dalla tirannia del veleno dei Naga che tanti anni prima, e a sua insaputa, gli era stato inoculato per tenerlo al guinzaglio.

Far pace con Richard, sarebbe stato il primo dei tanti passi che avrebbe dovuto compiere per porre rimedio ai suoi tanti errori.

Per il momento, però, doveva superare questa prova e, pur se non esteriormente, dentro di sé tremava.

Il tintinnio dei campanelli, posti sopra la porta d’entrata dello Starbucks, lo fecero sobbalzare.

Quando i suoi occhi incontrarono un volto a lui familiare, anche se invecchiato, Oliver deglutì a fatica prima di fare segno a Bharat e alla sua accompagnatrice di avvicinarsi.

La donna, dall’aspetto maturo quanto raffinato, era abbigliata con un elegante tailleur rosso fuoco.

Al collo, un pesante collier in oro e smeraldi spiccava sulla sua pelle olivastra mentre i capelli scuri, stretti in un modesto chignon, incorniciavano un volto dai lineamenti duri ma affascinanti.

Gli occhi di gelida ossidiana, però, smentivano completamente l’aspetto idealmente fragile di quella statuaria creatura.

Era più che chiaro chi fosse, tra i due, a tirare le redini della situazione.

Di certo, non Chandra che, al suo fianco, appariva docile come un agnellino.

Levatosi in piedi e sistematosi l’orlo della giacca di tweed che indossava sopra un leggero dolcevita, Oliver allungò una mano in direzione di Bharat.

Cordiale quanto un temporale estivo, esordì: “Non posso certo dire che vederla mi riempia di gioia, specialmente dopo quello che ho saputo.”

Bharat si mostrò vagamente sorpreso di fronte alle sue parole ma, quando lo ebbe osservato per un minuto buono, sorrise sarcastico e celiò: “Vedo bene che il mio scudo è stato rimosso. Non le chiederò neppure da chi.”

“Mi sembra superfluo” ammise Oliver, gettando uno sguardo incuriosito in direzione della donna che, fino a quel momento, non aveva proferito parola.

Il suo sguardo venne ricambiato, un sorriso irritante salì alle labbra carnose della donna e una voce flautata scaturì da quella bocca crudele, proferendo a bassa voce: “Garuda avrà pure lasciato il suo tocco su di lei, professor Thomson, ma è stata sciocca a lasciarla venire qui senza alcuna protezione. Non appena avrò ottenuto ciò che desidero sapere, la massacrerò con sincero godimento, cosa che non potei fare anni addietro, quando minacciò me e la mia gente.”

Bharat apparve chiaramente disturbato dal suo dire.

Guardatosi intorno nervosamente, come per sincerarsi che nessuno dei presenti l’avesse udita – la musica e il chiacchiericcio generale erano tali da coprire qualsiasi cosa – l’uomo replicò mellifluo alla sua signora: “Le mie scuse, ma non è il luogo più adatto per intrattenere simili discorsi.”

Un’occhiataccia da parte di Manasa seguì le parole eleganti del suo servo che, rattrappendosi nelle spalle, mormorò: “Non volevo offendere, mia signora.”

Scrollando una mano con fare insofferente, Amrita Kapoor, Manasa di Nuova Delhi e dell’India tutta, si rivolse nuovamente al loro ospite e, con fare meno provocatorio, dichiarò: “Mi dica dove posso trovare Garuda, e vedrò di non divertirmi troppo, con lei e la sua famiglia.”

Oliver trovò la forza per deglutire, pur se gli costò uno sforzò immane e, con voce resa roca dall’ansia che provava, replicò: “Ho il compito di dirle che … beh, che Garuda la attende nella città di Phoenix.”

Le sopracciglia di Amrita si levarono feroci verso l’alto mentre, con una mano fresca di manicure, afferrava un braccio di Oliver per sibilargli contro: “Mi sta prendendo in giro?!”

“Affatto” ribatté Oliver, scuotendo il capo.

La fronte aggrottata per la rabbia, Amrita fece per stringere la mano sull’ avambraccio di Oliver quando, di colpo, dovette scostarsi pur contro la sua volontà.

Fu quasi sospinta via da una forza oscura e, accigliandosi nervosamente, ringhiò a denti stretti: “Ma bene… questo non me lo sarei mai aspettato. Un’anima legata al dio-demone Pitone. Davvero ironico.”

Anche Bharat parve sorpreso, e fissò con autentico sconcerto Oliver.

Vagamente sollevato dall’aver scoperto che le parole di Joy si erano rivelate esatte, quest’ultimo proruppe dicendo: “Sono al sicuro dal vostro tocco, esatto.”

“Una Pizia?” esalò Bharat, con occhi vagamente sollevati.

Oliver se ne stupì. Perché doveva essere rasserenato da quella notizia?

“Esatto” sibilò Amrita, adombrandosi in viso. “Non importa. Ho pur sempre la città e la famiglia umana di Garuda, su cui rivalermi.”

“Mia signora!” esalò Bharat. “Come potremmo mantenere l’anonimato, se scatenassimo la furia di cui Manasa è in grado su un abitato come Lincoln City? Inoltre, non è il nostro scopo.”

Un lento, esasperato sospiro scivolò fuori dalla bocca di Amrita, ruvido come carta vetrata.

Con occhi velati da un’ira a stento trattenuta, si volse a osservare il suo sottoposto, replicando stizzita: “Un’altra intemperanza da parte tua, Bharat, e potrei decidere di cambiare consigliere.”

“Mi interessa il bene dell’intera comunità, mia signora, per questo mi sono permesso di interferire” si inchinò leggermente Bharat, rispettoso e mellifluo.

“E sia” esalò Amrita, con lo stesso tono petulante che avrebbe usato un bambino. “Tratterrò la mia rabbia per Garuda. Ti sta bene, mio intransigente consigliere?”

“Saggia decisione, mia signora. Potrete sfogare sulla nostra nemica tutto il vostro rancore” annuì più e più volte Bharat.

Tornando a osservare Oliver, che aveva ascoltato il loro scambio di battute con il cuore in gola, Amrita sorrise sardonica e asserì con tranquilla sicurezza: “Naturalmente, quando avrò finito con lei, seguirò il suo odore in giro per tutti gli Stati Uniti, se necessario, e ucciderò uno a uno tutti coloro che le sono legati… lasciando solo lei in vita, mio caro dottor Thomson, così che le sue decisioni insensate si ripercuotano su di lei, fin quando avrà fiato nei polmoni.”

Oliver impallidì leggermente a quelle parole, ma Amrita proseguì prima che lui potesse lanciarsi in un’accorata difesa dei propri cari.

“La carta della salvezza è già stata usata per lei anni fa, mister Thomson, e io non do mai due volte questa possibilità, a un mio nemico. Vivrà, sapendo di averli condannati tutti a morte.”

Detto ciò, si levò con eleganza dal tavolo e, picchiettate le nocche di una mano sulla superficie di legno del tavolino, sorrise elegantemente e domandò: “L’indirizzo a cui dovremmo recarci, dottore?”

Oliver lo estrasse dalla tasca interna della giacca di tweed, e lo allungò a Bharat senza proferire alcuna parola.

Con un ultimo sorriso di commiato, Amrita si allontanò dal locale con il suo consigliere al seguito, lasciando dietro di sé solo una scia di profumo e il peso di una minaccia insormontabile.

Lasciandosi andare contro lo schienale della sedia, Oliver si passò una mano sulla fronte.

Premute due dita all’attaccatura del naso, scostò un poco gli occhiali per massaggiare la carne sotto di essi.

Un principio di mal di capo iniziò a premere sulle sopracciglia mentre il suo cuore, che batteva a un ritmo frenetico, sembrò volergli schizzare fuori dal petto.

Se Joy avesse fallito, Morgan sarebbe stato il primo a morire e, in seguito, Consuelo, i Patterson, i Barrett, tutti gli amici della ragazza.

Sarebbe stata una strage silenziosa, perpetrata senza troppa pubblicità.

E la causa di tutto sarebbe stata solo e unicamente sua, e del suo desiderio di portare avanti la sua crociata personale.

“Cosa ho fatto?” singhiozzò Oliver, stentando a non piangere.

Esalando un sospiro strozzato, estrasse dalla tasca il suo cellulare e, come d’accordo con Joy, mandò un messaggio a tutti coloro che erano coinvolti prima di terminare il suo cappuccino e uscire.

L’allegria al sapor di zucchero filato di quel luogo era davvero troppa, per lui, specialmente in quel momento.

Come un automa, salì in auto e puntò in direzione della casa del figlio per dare da mangiare a Monet.

Con un singulto straziato, si chiese se non fosse il caso di liberarlo nella foresta perché, almeno lui, si salvasse dalle ire di Manasa, qualora ella avesse avuto la meglio su Joy.

Che fare? Che fare?
 
***

Chiuso il cellulare che teneva sulla mano, Joy annuì a Morgan e disse: “E’ tutto fatto, allora.”

“Bene. Detesto aspettare che i problemi mi cadano addosso. Meglio così” sentenziò Morgan, prima di abbracciarla strettamente e sussurrarle tra i capelli: “Li distruggeremo.”

“Quanto meno, ci proveremo” ridacchiò lei, dandogli un bacio sul collo. “Iniziamo con i sopralluoghi?”

“Quando vuoi. Io, tanto, non soffro il caldo e, credo, neppure tu” ammiccò lui, avvolgendole la vita con un braccio e accompagnandola fuori di casa.

All’esterno, l’afa era opprimente e l’aria, leggermente tremolante, toccava con tutta tranquillità i trentacinque gradi Celsius.

Non una mosca volava, né un’auto percorreva la strada.

Le due del pomeriggio erano davvero un orario insano in cui avventurarsi per Phoenix.

L’unica azione sensata sarebbe stata addentrarsi in un centro commerciale, dove l’aria condizionata avrebbe salvato le vite di chiunque vi si fosse infilato.

Loro, invece, inforcarono la via del deserto e si avventurarono lungo i sentieri che, nel corso di tante estati passate a casa dei nonni, Morgan aveva percorso alla ricerca di mille e più avventure.

Aveva rischiato più e più volte di finire sulle tane di serpenti a sonagli,  o di scorpioni, il tutto naturalmente all’oscuro della madre.

Morgan amava quei posti, pur se apparentemente inospitali e anche gli zii, dopo un lungo peregrinare, avevano deciso di stabilirvisi.

I Sanchez e i Thomson, dopo anni di separazione dovuta al lavoro e a diverse scelte di vita, si erano ritrovati nuovamente a essere vicini di casa.

Zio Eduardo si era preso la responsabilità di insegnargli il corretto approccio agli arroyos e ai canyon della zona.

Nonno Thomson, invece, si era sempre assicurato che, con lui, portasse sempre una buona scorta d’acqua e di barrette energiche.

Erano stati anni appassionanti in cui, però, la figura di suo padre era sempre stata distante, almeno dal punto di vista umano.

Pur se con loro fisicamente, non lo era mai stato con la mente, persa nella ricerca della sua chimera, del suo mito vivente da svelare al mondo intero.

Mito vivente che, in quel momento, camminava dinanzi a lui con una sicurezza e una leggiadria che lo fecero sorridere.

Qualunque cosa facesse, Joy era innegabilmente elegante e sì, sexy.

Era inutile che ci girasse intorno. La era eccome, ed era sua, per tutto il tempo che sarebbe stato concesso loro.

Raggiuntala sul sentiero, la prese per mano e, con un sorrisone, le stampò un bacio sulla fronte liscia, esclamando: “Ti amo da impazzire!”

Vagamente sorpresa, Joy rise e, ricambiando lo sguardo amorevole, replicò: “Anch’io, se è per questo.”

“Ottimo, allora. Ottimo” annuì lui, tutto contento.

A Joy non restò altro che fare spallucce e, assieme al marito, proseguì nella ricerca di un terreno idoneo allo scontro che, entro breve, avrebbe dovuto ingaggiare contro Manasa.

Da Brian aveva saputo che, già da diversi giorni, i satelliti presentavano problemi di ricezione e invio dati, a causa di una tempesta solare sempre più forte.

Secondo i resoconti della Nasa, l’apice di questa tempesta energetica si sarebbe abbattuto sulla Terra nel giro di quarant’otto ore al massimo.

Esattamente nei tempi previsti.

Ora, non rimaneva altro che far andare per il verso giusto anche il resto del piano.

Peccato fosse l’unico su cui, più o meno, non avevano alcun controllo.




 
 
***
 




Impiegammo più di un giorno, per trovare il luogo ideale per lo scontro.

Un’arena perfettamente circolare mi si aprì innanzi, circondata da pareti di roccia abbastanza elevate e tali da contenere ciò che si sarebbe scatenato.

Mi ritrovai a sorridere soddisfatta.

Morgan mi diede della pazza sanguinaria e, con un sorriso, mi baciò, dicendosi più che deliziato all’idea di avere come moglie una specie di amazzone senza pietà.

Sapevo, però, perfettamente che stava facendo dell’ironia per non pensare a quello che, entro poche ore, avremmo dovuto affrontare.

Passare quei brevi momenti con la sua famiglia, mi era servito a raccogliere in me le forze necessarie per venire a patti con il destino che ci stava aspettando al varco.

Più di ogni altra cosa, per accettare il fatto che non avrei potuto lasciare in un angolo Morgan.

Percepivo con chiarezza il flusso di energia che si dipanava dal suo corpo, simile a onde sempre più forti, per raggiungere il mio.

Sapevo che, grazie a quella forza, avrei potuto avere una possibilità di riuscita laddove, senza di essa, vi sarebbe stata la sicura sconfitta.

Non avevo ancora il pieno possesso dei miei poteri, e l’amore di Morgan sopperiva egregiamente a questa mancanza.

A onor del vero, me ne conferiva in quantità ben maggiore rispetto a quanto io stessa non avessi mai sperimentato in nessuna vita.

L’energia che sapeva sprigionare dal suo cuore era così forte, così potente, così pura da rassomigliare a quella del Nun, dove Rah era nato.

La mia speranza era che il mio unico amore non subisse ripercussioni di nessun tipo, dalla battaglia che mi apprestavo a combattere.

Desideravo con tutta me stessa essere all’altezza della sua forza.

 





Note: 
 
 
  1. Hola, chico. Que tal? (spagnolo) trad.: Ciao, ragazzo. Come va?
  2. Niņo (spagnolo) trad.: bambino.
  3. Navajo: antica lingua dei popoli della meso america e nome di una delle tante tribù di nativi americani.

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Capitolo 34
*** cap. 34 ***


 
34.
 
 
 
 
 
 
L’odore di Manasa mi arrivò alle nari nel momento stesso in cui ella posò il primo piede a Phoenix.

Non importava quanti altri aromi pervadessero l’aria, o quante miglia ci separassero.

Difficilmente non l’avrei percepita.

Forse, se ci fossimo trovate ai due capi opposti del continente…

A ogni modo, mi levai da letto senza nessuna fretta e Morgan, nel vedermi prendere la via del bagno, controllò la sveglia – segnava le sei e ventidue del mattino.

Biascicò, mezzo addormentato: “Che succede?”

“E’ qui.”

Non dissi altro, e non ve n’era bisogno. Sapeva esattamente chi stavamo aspettando.

Senza dire una parola, Morgan mi seguì in bagno e fece la doccia con me, lo sguardo torvo e l’aria di chi sta pensando a mille e più cose contemporaneamente.

Non mi toccò come suo solito, non fece l’amore con me sotto lo scroscio rovente dell’acqua che zampillava sopra le nostre teste.

Mi aiutò a lavarmi e lavò se stesso, sempre senza emettere parola e, quando entrambi terminammo le abluzioni del mattino, uscimmo insieme dal box doccia.

Ci asciugammo con pesanti panni spugna color Borgogna, il silenzio tranquillo a farci compagnia.

Lavai i denti mentre lui si faceva la barba, come se fosse stato un normalissimo giorno di vacanza.

Sapevamo però bene entrambi che, quel giorno, non avrebbe avuto nulla di normale, nulla di neanche lontanamente umano.

Mi sentivo in colpa, per averlo trascinato in quel mio personale Armageddon ma, come lui stesso mi aveva detto più di una volta… finché morte non ci separi.

Speravo con tutta me stessa di non dover arrivare a tanto.

Sempre in silenzio, indossai una comoda tenuta da trekking, con camiciola a maniche corte, pantaloncini al ginocchio e scarponcini.

Morgan mi imitò prendendo per sé un completo color cammello, e scarponi neri di tela con suole vibram.

La colazione fu tranquilla, intervallata dal chiacchiericcio allegro dell’addetta stampa della NBC, e dal tintinnare delle nostre posate contro le ciotole di porcellana.

Sparecchiai mentre Morgan spegneva la televisione e, quando ebbi chiuso lo sportello della lavastoviglie, mi diressi verso la porta d’ingresso, lanciando uno sguardo a mio marito.

Lui mi seguì annuendo e, aperto il battente, fissai la strada dinanzi a noi e il cancelletto chiuso, davanti al quale si trovavano due persone elegantemente vestite. “Ben arrivata, Manasa” mormorai.





 
 
***



 
 
Joy non aveva avuto bisogno di nessun genere di presentazione, per riconoscere l’anima della sua vecchia antagonista.

Mentre Morgan fissava i due nuovi venuti, cercando di capacitarsi del fatto che quella coppia di indiani altro non erano che i loro nemici, lei si avventurò lungo il vialetto.

“Hai fatto buon viaggio?”

Morgan si affrettò a seguire Joy, preferendo non lasciarla sola neppure un istante.

Amrita, scostando il cancelletto con il semplice gesto di un dito, si avvicinò a Joy con un sorriso beffardo, celiando: “E’ stato dannatamente noioso… specialmente considerando quello che mi hai lasciato a Lincoln City come regalo.”

“Chiedo scusa… immaginavo sapessi che Oliver era una Pizia” scrollò le spalle Joy, irrigidendosi leggermente quando la donna lanciò uno sguardo interessato a Morgan, che stazionava al suo fianco con espressione intelligibile.

“Lui sa tutto!” esclamò divertita Manasa, allungando una mano elegante e dalle unghie laccate perfettamente. “Io sono Amrita Kapoor, giovane umano.”

Morgan lanciò un’occhiata indagatrice all’indirizzo di Joy, prima di vederla annuire.

Con una scrollatina di spalle, il giovane accettò la mano protesa e la strinse senza particolare delicatezza, replicando: “Morgan Thomson, e di certo non è un piacere conoscerla.”

Amrita scoppiò in una risata gorgogliante, affascinante quanto la danza sinuosa di un cobra e altrettanto pericolosa.

Al suo fianco, ansioso e apparentemente indeciso sul da farsi, l’uomo che l’aveva accompagnata lanciò occhiate preoccupate sia alla sua dea che a Joy.

“Affascinante, davvero affascinante” gorgogliò querula la donna, recuperando il controllo di sé prima di guardare il suo lacchè con aria di sufficienza. “Perché non mostri alla nostra cara Garuda il nostro dono per il loro matrimonio?”

L’uomo parve imbarazzato, ma eseguì l’ordine della sua signora come se non potesse farne a meno.

Sollevò la piccola scatola di legno scuro che, fino a quel momento, era rimasta inerte nella sua mano e, porgendola a Joy, mormorò: “Per voi, Garuda.”

Joy prese tra le mani il piccolo oggetto, fissando contemporaneamente Bharat Chandra nel tentativo di comprendere il motivo della sua ansia.

Quando aprì la scatola, ogni altro pensiero venne meno, sostituito da un odio così puro che, solo a stento, riuscì a controllare.

Deposta in un letto di morbido velluto rosso, una piccola treccia di capelli neri era trattenuta da un drappo di seta blu.

Nell’avvertire il profumo emanato da quell’intreccio a lei molto familiare, Joy digrignò i denti mentre Amrita si lasciava andare a una nuova risata di gusto.

La scatola venne gettata a terra con malagrazia.

Il calore proveniente dal corpo di Joy andò via via elevandosi, facendosi più forte, più rovente, colmo di astio dilagante.

Morgan, fissandola basito e confuso assieme, esalò: “Joy, che succede?”

“E io che pensavo che rivedere uno dei cimeli della tua antica madre, ti avrebbe fatto piacere!” esalò Amrita, fingendosi sconvolta.

A Morgan non servì sapere altro.

Conosceva fin troppo bene la storia di Joy e della madre putativa della ragazza, che i Naga avevano barbaramente trucidato, scatenandone così l’ira funesta.

Tutto, però, avrebbe pensato, tranne che se ne uscissero con un gesto così becero, così insensibile.

Senza alcun preavviso, scattò in avanti con il chiaro intento di mettere le mani addosso ad Amrita.

Se ne infischiò totalmente del fatto che lei fosse l’incarnazione di una dea e che, in teoria, avrebbe potuto ridurlo a brandelli come se nulla fosse.

Il dolore che quella donna, con quel semplice gesto, aveva procurato alla moglie, era davvero troppo, inaccettabile.

Il suo attacco lasciò di stucco tutti i presenti che, però, reagirono in fretta per evitare che lo scontro si svolgesse dove troppi occhi indiscreti potevano vederlo.

Mentre Joy afferrava Morgan alla vita, trascinandolo di peso all’indietro, Bharat si parò innanzi alla sua signora, impedendole di fatto qualsiasi tipo di azione.

Amrita, sconvolta e divertita al tempo stesso, esclamò con un gran sorriso: “Ah, sarà divertente fare a pezzi entrambi! Un tale spirito, un tale fuoco! Sì, mi godrò la vostra morte come poche altre cose io abbia mai fatto!”

Dimenandosi nella stretta ferrea di Joy, che stava fissando con astio palpabile la sua nemica, Morgan ringhiò furioso, il volto percorso da un’ira senza limiti.

“Sarai tu quella che finirà in pezzi, maledetta strega!”

Gli occhi scuri di Amrita percorsero lascivamente il lungo corpo statuario di Morgan, ancora strettamente trattenuto da Joy.

La sua lingua scivolò languida sulle labbra carnose.

Per un momento, le pupille della donna si assottigliarono, mutando in quelle di un serpente, prima di tornare umane un attimo dopo.

Amrita aveva trattenuto l’animale che era in lei, forse pronto a scattare sulla preda per divorarla.

Mentre Chandra ne controllava le reazioni, spaventato all’idea che potesse trasformarsi nel bel mezzo di quel quartiere tranquillo, Amrita mugolò con voce roca: “Credo che farò di meglio, Garuda. Godrò del corpo del tuo uomo, mentre tu verrai fatta a pezzi… ma solo dopo che ti sarai goduta l’intero spettacolo.”

Fu il turno di Morgan di trattenere Joy che, disgustata dal suono stesso di quelle parole strascicate e melliflue, ringhiò ruvida: “Non toccherai Morgan neppure con un dito, Manasa, questa è una promessa!”

Intervenendo per la prima volta, Chandra dichiarò conciliante: “Signore, vi prego, rischiamo di attirare l’attenzione, rimanendo qui fuori. E nessuno di noi lo vuole.”

Scuotendo con nervosismo la chioma corvina, Amrita lanciò un’occhiataccia al suo sottoposto, prima di sospirare con i modi di una bambina capricciosa.

Muovendo una mano con fare scocciato, mugugnò: “Sì, lo so, Bharat. Non dobbiamo dare nell’occhio.”

Ritrovata a stento la calma, Joy si scostò da Morgan dopo aver annuito al suo indirizzo e, rivoltasi ai suoi indesiderati ospiti, sibilò senza troppa educazione: “Venite con noi. Conosciamo un posto dove non saremo disturbati.”

“E…” tentennò Bharat, indicando verso il cielo terso.

Un lento sogghigno si dipinse sul volto della ragazza che, strafottente, celiò: “Dispongo di amici abbastanza potenti che ci forniranno la copertura necessaria.”

Bharat, a sorpresa, le concesse un piccolo, modesto cenno del capo, come a ringraziarla per la cortesia, tanto che Joy ne rimase non poco sorpresa.

Il gesto, però, fece anche inviperire Amrita che, colpito l’uomo con forza a un braccio, ringhiò furiosa: “E smettila di essere così cortese! E’ una nostra nemica! Non siamo qui per fare salotto!”

“Ma mia signora…” tentennò Chandra, arcuando le spalle come se si aspettasse di essere battuto da un momento all’altro.

Disgustata, Amrita distolse lo sguardo dal suo suddito con fare davvero scocciato, prima di rivolgersi a Joy e dire imperiosa: “Andiamo pure nella nostra arena, mia cara e, nel frattempo, comincia pure a dire addio al tuo amante mortale, perché non lo rivedrai più.”

“Lui verrà con noi e credimi, non dovrò dirgli addio” replicò Joy, sopravanzandola e, nel frattempo, sbattendo con una certa forza la spalla contro quella della donna.

La sorpresa di Amrita, interdetta di fronte alla notizia che anche Morgan sarebbe stato presente allo scontro, diede il tempo necessario a Joy di concedersi quel piccolo sgarbo.

Chandra scrutò la sua signora con l’aria di chi si aspetta di veder esplodere una bomba da un momento all’altro, e Morgan rise di gusto.

Raggiunta la moglie raggiunse con poche, rapide falcate la sua consorte, dichiarò: “C’è un motivo, se ti ho sposata!”

“Già” sentenziò Joy, senza neppure voltarsi indietro.

Sapeva che Amrita e Bharat li avrebbero seguiti, come sapeva che non avrebbero fatto follie.

Nessuno di loro, come aveva detto giustamente Chandra, voleva attirare l’attenzione degli umani sulla loro disputa.
 
***

Dopo aver camminato per quasi un’ora a passo spedito, attraverso stretti arroyos e impervi sentieri montani, il quartetto raggiunse infine una spianata interamente circondata da alte pareti rocciose.

Era completamente deserta, e ben lontana dalla città che Joy voleva preservare assieme ai suoi ignari abitanti.

L’aria era già rovente e il sole, pur non essendo ancora a perpendicolo sulle loro teste, scaldava la pelle, facendola formicolare.

Morgan, il cappellino dei Red Sox ben piantato sulla testa, fissò con aria accigliata quella specie di arena di combattimento.

Formata da canali d’acqua rinsecchiti, cespugli ritorti e rocce rossastre dall’aspetto  inquietante, dava l’idea di essere perfetta per un duello all’ultimo sangue.

Era più che certo che, tra quegli anfratti, i crotali andassero a festa e che, nell’avvertire la presenza della loro regina, si sarebbero radunati lì attorno, impazienti.

Come a rispondere alla sua muta ipotesi, Joy mormorò: “Ben presto avremo compagnia, ma tu non dovrai preoccuparti. Il mio fuoco ti proteggerà.”

“Cosa devo fare?” gli chiese a quel punto Morgan, accigliandosi leggermente quando vide Amrita e Bharat raggiungerli all’interno della caldera.

La Manasa si guardò attorno con aria soddisfatta, annuendo più e più volte, mentre Bharat rimaneva in religioso silenzio al suo fianco, lo sguardo percorso dallo sconforto.

Joy lo aveva osservato fin dall’inizio con un certo interesse e, man mano che i minuti erano passati, l’idea che si era fatta di quell’uomo continuava a mutare come il corso delle maree.

Bharat Chandra era davvero una persona strana, e un Naga oltremodo singolare.

“Hai davvero scelto bene il luogo in cui perirai, Garuda!” esclamò elettrizzata Amrita, togliendosi con eleganza la giacca del gessato grigio che indossava.

Negligente, la gettò sul terreno riarso e color mattone.

“Continuo a pensare che tu abbia le idee confuse, Manasa” replicò Joy, afferrando una mano di Morgan prima di dirgli a bassa voce: “Rimani accanto alla montagna, non tentare di intervenire nella lotta. Amami come solo tu sei in grado di fare, e abbi fiducia in me.”

“Che intendi dire?” esalò Morgan, spaventato dal suo dire.

Volgendosi completamente verso di lui, dando pericolosamente le spalle ai suoi nemici, Joy gli sorrise, più sicura che mai.

Dopo essersi elevata in punta di piedi, lo baciò con delicatezza sulle labbra e mormorò: “Sei tu la mia forza, Morgan. Non l’ho mai capito, in tutte queste vite, ma ora so. Ora vedo. E’ l’amore che provo per te, e che tu provi per me, a darmi il coraggio di affrontare Manasa. Ciò che proviamo l’uno per l’altra è unico, così come Fenice è unica. Io ho vissuto tutte queste vite, ho portato luce nel mondo nel corso dei secoli solo per arrivare a te, solo per concedere a te un mondo su cui camminare, perché tu potessi unirti a me.”

“Joy, ma che stai dicendo?” sussurrò Morgan, avvolgendola in un abbraccio tremante.

La risata divertita di Amrita non scalfì in alcun modo la serenità d’animo di Joy che, senza paura, replicò al suo unico amore: “Ciò che ho sempre percepito in me, quando eravamo assieme, è ciò che vedrai oggi. Io oggi sarò la Stella del Mattino, sarò Benu in tutto il suo splendore. E questo solo grazie a te, al tuo amore per me.”

“Dovrò solo amarti?” singhiozzò Morgan, cercando di regalarle un sorriso speranzoso.

Lei annuì una sola volta, ripetendo: “Dovrai solo amarmi.”

“Niente di più facile” asserì lui con un alito di voce, mentre il suo corpo veniva ammantato dalle fiamme di Fenice.
Joy gli carezzò una guancia, lieta di sentire la calma prendere possesso del cuore del giovane che tanto amava.

Nel volgersi in direzione della sua nemica, sorrise trionfante ed esclamò: “Hai voluto sfidarmi, Manasa. Ora ne pagherai le conseguenze!”

Detto ciò, mutò forma.

Piume scarlatte le ricoprirono il corpo esile di donna, mentre lunghe remiganti si librarono dalle sue braccia, e ciuffi azzurri e rosa di lunghe penne spuntarono dalla sua chioma.

Le zanne scintillarono alla luce del sole, quando Joy sollevò rabbiosa il labbro superiore.

Ridendo di quella sua mutazione parziale, Amrita si strappò letteralmente di dosso la camicia e gridò: “Non mi fai paura, Garuda! In nessuna tua forma!”

Una lunga e sinuosa coda di serpente prese il posto delle gambe perfette di Amrita mentre Bharat, con molta meno enfasi, ricoprì il proprio corpo di squame lisce e color smeraldo.

Lentamente, le sue sembianze mutarono parzialmente in quelle di un rettile, al pari della sua signora che, ormai, era divenuta uno splendido esemplare di nagini.

Morgan, basito e sì, disgustato da quello spettacolo raccapricciante, indietreggiò fino a sfiorare con le spalle la parete del canyon in cui si trovavano.

A quel punto, si accomodò a terra a gambe incrociate e fissò lo sguardo unicamente su Joy, bellissima e fiera nel centro di quell’arena improvvisata.

I crotali che, nel frattempo, erano usciti dalle loro tane, tentarono invano di avvicinarsi all’umano che aveva invaso il loro territorio, ma vennero bloccati dalla barriera di fiamme che lo avvolgeva.

Morgan li degnò solo di un breve, disinteressato sguardo prima di tornare a puntare le iridi di pece sul suo unico amore.

Lei gli aveva chiesto solo una cosa; amarla.

E chi era, lui, per non esaudire quel piccolo desiderio?

Sorridendo con una tranquillità che non immaginava di poter provare in un momento simile, Morgan chiuse infine gli occhi per concentrarsi sui sentimenti che aveva nel cuore.

In un sussurro appena udibile, mormorò: “Io ti amo, mia Benu.”

Nel centro del canyon, già pronta a dar battaglia, Joy sorrise nell’avvertire dentro di sé l’energia di Morgan, sempre più sfolgorante, sempre più piena e forte.

Mai, nelle sue tante vite, il potere di Fenice era stato così dirompente, neppure nei momenti di massimo fulgore.
Aveva trovato chi la completava. Chi la rendeva davvero unica.

Quell’energia le avrebbe dato la vittoria, pur se ancora troppo giovane per sfruttare appieno i suoi doni.

Forse, una Fenice non doveva possedere un simile potere.

Forse, ciò che stava facendo andava contro ogni legge del Cosmo, non lo sapeva, ma il suo cuore le diceva che era nel giusto.

Rah le aveva detto; cerca nel tuo cuore.

E lei lo aveva fatto, trovando la risposta ai suoi dubbi e la risoluzione ai suoi problemi.

Se ciò che aveva trovato dentro di sé fosse stata la scelta giusta, lo avrebbe scoperto ben presto.

In un modo o nell’altro, lei avrebbe fatto ciò che aveva deciso.

Niente l’avrebbe fermata, neppure tutti i pantheon divini fin lì creati, e distrutti, nel corso dei millenni.

Gli occhi sempre serrati e la concentrazione portata al massimo, Morgan poté  percepire chiaramente quando la battaglia ebbe inizio.

Il terreno iniziò a tremare tutt’intorno a lui, portandolo a poggiare una mano sul terreno roccioso per non ruzzolare in malo modo.

Vicino a lui, un crotalo cercò di addentarlo, ma fu un’impresa vana.

Morgan lo sentì guizzare di lato, sibilare e muoversi nervosamente attorno alla barriera, ma null’altro.

Il potere di Joy lo teneva a distanza.

Finché lui avesse creduto in Fenice, nulla gli sarebbe successo pur se, intorno a lui, sembrava essersi scatenato l’inferno.

Pur sapendo di rischiare un infarto, Morgan socchiuse gli occhi per dare una sbirciata alla battaglia e, come aveva temuto, vedere Joy combattere come una fiera dai denti snudati, fu scioccante.

Manasa si muoveva con un’agilità di movimenti e una velocità impressionanti, tanto da rendere i suoi slanci e balzi quasi invisibili ai suoi occhi umani.

Chandra sembrava essere stato colpito, poiché riportava una profonda bruciatura al fianco, e si dimenava sul terreno sciabolando a destra e a manca la sua coda verdognola.

Il viso era contratto dal dolore che provava.

Joy, invece, appariva in tutto simile a una stella.

Rifulgeva da ogni poro della pelle e i suoi capelli, letteralmente, danzavano come fiamme libere, sfrigolando nell’aria come se percorse da una corrente a basso voltaggio.

Pari a velocità rispetto a Manasa, menava fendenti con gli artigli prominenti e si esibiva in balzi aggraziati, ogni qual volta la nemica tentava di atterrarla con dei colpi di coda.

“Coraggio, Joy” mormorò Morgan, incapace di distogliere lo sguardo, il cuore che gli martellava nel petto simile a un tamburo.

La luce della ragazza crebbe ancora di intensità, alle sue parole e Manasa, avvedendosene, sgranò un istante gli occhi prima di gridare inferocita: “Quale sortilegio hai ideato, maledetta!?”

“Nessun sortilegio, Manasa!” ghignò soddisfatta Joy, notando il risentimento della nemica crescere col passare dei minuti.

Tenendo sempre sott’occhio Chandra, che sembrava essere stato messo definitivamente fuori combattimento, Joy si concentrò principalmente su Manasa.

Pur trovando difficile ammetterlo, era veloce e agile nei movimenti e, di fatto, un bersaglio praticamente inafferrabile.

Pur con tutta la sua buona volontà, non riusciva ad afferrarla per strapparle quel maledetto cuore dal petto, unico modo per annullare la presenza di Manasa all’interno del suo involucro umano.

Non potendo usare le zanne, doveva affidarsi solo ai suoi artigli.

L’idea di morderla non le passava neppure per l’anticamera del cervello.

Se anche una sola goccia del suo sangue le fosse finita in gola, o uno dei suoi artigli l’avesse ferita, sarebbe morta dopo atroci sofferenze.

Manasa non aveva veleno solo nelle sue ghiandole velenifere, purtroppo.

“Puoi farcela, Joy!” urlò allora Morgan, incitandola a gran voce e sorridendole fiero, quando lei si volse per un istante a fissarlo.

Lui se ne stava lì a gambe incrociate, seduto sul terreno duro e inospitale, completamente circondando da non meno di una ventina di serpenti – del tutto intenzionati a morderlo – e le sorrideva fiducioso.

Era pieno del suo amore per lei, e ferocemente convinto che potesse farcela.

Joy non poté far altro che sorridergli di rimando, mentre una nuova sferzata di energia le invadeva le carni, facendola sfolgorare come una stella appena nata.

Coprendosi gli occhi con un braccio per non ustionarsi le retine, di fronte a un simile scintillio dorato, Manasa tornò con lo sguardo al compagno della sua nemica prima di ghignare soddisfatta.

“Non so come tu ci sia riuscita, ma non avresti dovuto portarlo qui, così vicino al mio veleno! Ora morirà, e tu lo seguirai!”

Detto ciò, emise un grido ad alta frequenza che passò del tutto inosservato a Morgan, ma che Joy percepì con estrema chiarezza.

Questo la portò a gridare spaventata in direzione del marito che, letteralmente, venne ricoperto da una marea di serpenti, spuntati da ogni dove e unitisi a quelli già presenti sul campo.

La fiamma che ricopriva Morgan sfrigolò e scomparve alla vista – ricoperta da quell’ondata di rettili.

Manasa rise sguaiata, di fronte all’ansia manifesta della sua nemica.

Joy mosse per diretta conseguenza i primi passi per raggiungere il suo compagno, esponendo quindi se stessa al pericolo.

Il colpo di Manasa non tardò ad arrivare.

Come un fulmine, giunse alle spalle della sua nemica e la colpì con la coda, scaraventandola a terra prima di gettarsi su di lei per azzannarla al collo.

Lesta, nonostante il dolore alle costole per il colpo ricevuto, Joy afferrò Manasa alle braccia per tenere le sue zanne prominenti a distanza di sicurezza dal suo collo.

Con lo sguardo, però, cercò di raggiungere il punto in cui sapeva trovarsi Morgan.

Una risata mefistofelica salì alla gola di Manasa che, eccitata nel sentire l’odore della paura risalire verso di lei dal corpo disteso a terra di Garuda, esclamò: “Non lo vedrai morire, mi spiace!”

“Neppure tu, megera dei miei stivali!” ringhiò dietro di loro, a sorpresa, Morgan.

Ritto in piedi e sfolgorante della fiamma di Fenice, che ancora ardeva intorno a lui, Morgan stringeva tra le mani uno dei tanti serpenti che Manasa gli aveva lanciato contro.

Il rettile, morto al pari degli altri – che si trovavano stesi sul terreno brullo, era pendulo e inoffensivo nella mano del giovane.

Gettando il serpente morto contro il volto di Manasa, Morgan si mise in posizione di attesa, i pugni levati e le gambe flesse e, determinato, le sputò contro con rabbia: “Non potrai mai batterci, finché avremo fiducia l’uno nell’altra!”

“Lo vedremo!” strillò Manasa, cercando di scostarsi da Garuda per attaccare il mortale che, spavaldo, se ne stava a poche decine di metri da lei, pronto a dar battaglia.

Joy ne approfittò per replicare al suo attacco e, sollevata una mano, le aprì uno squarcio nelle carni con gli artigli.

Un attimo dopo, si allontanò per non rimanere invischiata nel suo sangue venefico.

Manasa lanciò un grido di rabbia e dolore verso il cielo, dove il sole sempre più a picco splendeva su di loro con i suoi raggi implacabili.

Ansante ma soddisfatta del risultato, Joy si concesse un attimo per lanciare un sorriso sollevato a Morgan che, strizzandole un occhio, esclamò: “Combatti tranquilla! Io sono okay, qualsiasi cosa mi lanci contro la megera!”

Annuendo mentre Manasa si portava una mano al fianco dolorante, Joy le si rivolse con astio e sentenziò: “Come vedi, neppure i mortali hanno timore di te!”

“Ne avrai tu, quando il mio veleno entrerà in circolo, sciocca Garuda!” replicò Manasa, cominciando a ridere mentre stille di sangue uscivano dalla sua bocca.

Il colpo era andato a fondo, perforandole un polmone, ma Manasa non sembrava preoccupata per la propria ferita.

Era soddisfatta per il piccolo taglio che Garuda aveva sul braccio, retaggio del loro precedente scontro e punto in cui, finalmente, era riuscita a incidere la sua carne con uno dei suoi artigli.

Joy si affrettò ad abbassare lo sguardo sul suo braccio ricoperto di piume e, sgomenta, fissò il punto in cui alcune di esse avevano già iniziato a staccarsi, come morte.

Evidente sulla pelle libera da piumaggio, un piccolo taglio in corrispondenza dell’ulna stillava sangue rosso e scuro.

Crollando a terra, la coda ormai scomparsa e sostituita da gambe ricoperte di ecchimosi e tagli più o meno vistosi, Manasa ridacchiò soddisfatta ed esalò: “Io guarirò, seppur a fatica, dalle ferite che mi hai inflitto, ma tu perirai per colpa del veleno che ti sta scivolando lentamente nelle vene, e il tuo uomo ti seguirà non appena ti sarai trasformata in cenere! Non avrei potuto desiderare niente di meglio!”

Mordendosi un labbro mentre un lieve pizzicore iniziava a espandersi lungo il braccio, Joy lanciò uno sguardo preoccupato in direzione di Morgan.

Lesto, il giovane le si avvicinò, non appena la fiamma intorno a lui iniziò a scemare.

La risata di Manasa continuò ad ammorbare l’aria satura di calore e polvere mentre Joy, sempre più preoccupata, lanciava occhiate alterne alla sua nemica e al suo uomo.

Fu però Chandra ad attirare tutta la sua attenzione quando, a sorpresa, si rialzò da terra come se tutto il dolore per le ferite riportate fosse scemato di colpo.

Con una freddezza inaspettata, si avvoltolò attorno al corpo dolente della sua regina e ne bloccò qualsiasi movimento.

Manasa lo fissò senza capire, iniziando a divincolarsi per liberarsi, troppo debole per farlo ma ben intenzionata a non rimanere un attimo di più legata a lui.

Rivoltosi a Garuda, incurante delle intenzioni della sua regina, Chandra esclamò: “Non lasciarci nelle sue mani, ti prego! Liberaci!”

Sgomenta e sorpresa da quelle parole, Joy lo fissò senza capire per alcuni attimi prima di annuire e, afferrata la mano di Morgan, mormorò: “Sorreggimi e, mi raccomando, tieni gli occhi chiusi.”

Lui annuì, troppo sconvolto anche solo per parlare.

Manasa continuò a divincolarsi dalla presa del suo suddito che, imperterrito, la tratteneva a terra nonostante le sue invettive e le sue minacce.

Joy fissò astiosa la sua nemica, asserendo: “Persino i tuoi sudditi vogliono la tua morte! E io sarò ben felice di accontentarli, perché non meriti che io ti risparmi!”

Gli occhi sgranati per la follia che ormai sembrava averla presa, Manasa esplose in una risata isterica e replicò: “Risparmiarmi? Morirai nel tentativo, e io vi ucciderò tutti! Tutti!”

Joy non la ascoltò, pur sapendo che c’era della verità nelle sue parole e, in un sussurro dolcissimo, disse al marito: “Ricordati che ti ho amato sinceramente e che, solo grazie a te, abbiamo vinto.”

“Joy!” esclamò Morgan, voltandosi verso di lei con il terrore negli occhi d’ossidiana, prima di essere costretto a serrarli per la luce intensa che si sprigionò dalla moglie.

Il giovane si coprì il viso con il braccio sinistro, libero, mentre la mano destra era ancora serrata a quella di Joy.
Gridò il nome dell’amata, mentre una luce simile a quella di una stella invase l’intero canyon, dissolvendo i serpenti presenti e il corpo ferito di Manasa.

La dea, investita da quella tempesta di energia primigenia, non poté nulla per fermarla, o anche solo per difendersi.

Il suo corpo svaporò in mille e mille particelle infinitesimali mentre Bharat Chandra, risparmiato da quel bang sonico – che aveva ridotto in polvere il corpo umano della sua divinità – crollò a terra nuovamente uomo.

Tramortito, il naga iniziò a tossire e sputare sangue mentre tutt’intorno, poco alla volta, l’energia iniziò a scemare e perdere di intensità.

Morgan, ancora immobile accanto a Joy, percepì con non poco terrore il lento ma progressivo abbassamento della temperatura corporea dell’amata.

Quando fu abbastanza sicuro che, riaprendo gli occhi, non sarebbe rimasto accecato dalla luce, fissò lo sguardo sulla moglie prima di afferrarla lesto quando, di colpo, scivolò verso terra, del tutto priva di forze.

“Joy! Joy!” esclamò Morgan, tenendola contro di sé.

Il pulviscolo che un tempo era stato il corpo mortale di Manasa, iniziò a decadere a terra, assieme ai resti dei crotali divorati dalla luce della Stella del Mattino.

Calde lacrime scivolarono sul viso straziato dall’ansia di Morgan che, scrollando il corpo inerme di Joy, continuò a chiamarla invano, dondolando avanti e indietro con lei tra le braccia.

Ora tornata del tutto umana, era ricoperta da più lividi ed escoriazioni di quanti lui potesse sopportare di vedere.

“Parlami, ti prego…” singhiozzò Morgan, poggiando delicatamente un dito in corrispondenza della giugulare per cercarne il battito cardiaco.

Debole, niente più di un battito d’ali, ma era lì, presente.

Ma per quanto ancora?

Rialzatosi a fatica, lo stress di quella giornata epocale ora interamente riversato sulle sue spalle, Morgan la tenne tra le braccia, inconsolabile.

Ci vollero diversi attimi, prima che si rendesse conto della presenza di Bharat Chandra, a pochi metri da lui.

Il suo volto, emaciato e stanco, presentava diversi tagli sanguinanti e gli abiti, laceri e ricoperti di polvere, pendevano dal suo corpo martoriato come sacchi informi.

Sollevate le mani, quasi scarnificate dalla forza primigenia che aveva colpito la sua signora, l’uomo mormorò conciliante: “Non voglio farvi del male. Non io!”

Sospettoso, Morgan si guardò intorno per un istante, quasi a volersi accertare che Manasa fosse effettivamente scomparsa, prima di ringhiare: “Se ti ha risparmiato, c’è un motivo. Ma non farmi venire voglia di completare ciò che lei ha lasciato a metà.”

Bharat fu lesto a scuotere il capo, prima di dire, rivolgendo uno sguardo ansioso in direzione di Joy: “So come curare il veleno di Manasa, ma dobbiamo sbrigarci.”

Morgan annuì, non potendo fare altro che fidarsi di quell’uomo che, a sorpresa, aveva corso il rischio di venire falcidiato dal potere di Joy, pur di eliminare la sua regina.

“Se lei morirà, tu farai la sua stessa fine” gli promise Morgan, iniziando a risalire la parete del canyon con un unico scopo; portare in salvo Joy.
 
***

La luce della sera iniziò a scemare all’orizzonte, sostituita dal manto scuro della notte punteggiata di stelle.

Alla televisione, notizie sulla mirabile tempesta magnetica che aveva colpito la Terra si susseguivano su tutti i canali, assieme al terremoto che aveva colpito la zona di Phoenix.

I sismografi avevano registrato una Magnitudo Richter di 6.2, e gli scienziati più esperti in materia si erano dichiarati sorpresi da un simile evento.

Esso era scaturito dal nulla, e senza alcuna scossa di avvertimento a precedere l’evento.

Il fatto che non vi fossero state neppure delle scosse di assestamento, incuriosì la comunità scientifica ma questo, a Morgan, poco interessò.

Non avrebbero mai trovato la risposta ai loro quesiti perché, di quello che era successo in quel canyon, non rimaneva più traccia.

Tornando con lo sguardo alla flebo attaccata al braccio di Joy, Morgan sospirò nel sorseggiare l’ennesimo caffè nero che si era preparato.

Da quando Chandra le aveva infilato l’ago nella vena, promettendogli che quell’intruglio le avrebbe salvato la vita, non aveva fatto altro.

A onor del vero, quel liquido azzurrognolo e vagamente denso, sembrava averla davvero strappata dalle grinfie del nero baratro su cui si era sporta nel dare il colpo di grazia a Manasa.

I passi strascicati di Chandra lo portarono a voltarsi verso di lui e, subito, lo sguardo si fece guardingo.

Tolti gli abiti ormai distrutti, Chandra aveva accettato di buon grado quelli che Morgan gli aveva consegnato al loro arrivo a casa.

Dopo aver sistemato Joy a letto, e aver controllato che le sue funzioni vitali non fossero cambiate, aveva iniziato a seguire le istruzioni di Chandra.

Stando alle sue parole, quell’intruglio misterioso avrebbe salvato Garuda dalla morte.

Le mani ora avvolte in strette fasciature, lievemente macchiate di sangue e pronte ormai per essere cambiate, l’indiano si avvicinò al letto della ragazza, chiedendo: “Qualche cambiamento?”

Per ogni eventualità, ne tastò il polso. Era regolare.

Morgan scosse il capo e, fissandolo dubbioso, gli chiese sinteticamente: “Perché?”

Bharat Chandra gli rivolse un sorriso stanco, prima di afferrare l’altra sedia posta accanto al letto dove riposava Joy.

Accomodatosi pesantemente su di essa, asserì: “A quale ‘perché’ vuoi che io risponda?”

“A tutti, perché immagino siano diversi” scrollò le spalle Morgan, lo sguardo che, a momenti alterni, correva dal volto emaciato di Chandra a quello terreo di Joy.

Un sospiro tremulo scaturì dalle labbra spaccate e secche di Bharat che, scuotendo mestamente il capo, mormorò: “Niente di tutto ciò che è accaduto, avrebbe dovuto avvenire. Risparmiai la vita di tuo padre perché trovai stupido e inutile eliminarlo.”

Si passò una mano tra i capelli bruciacchiati, prima di proseguire.

“Lo resi inoffensivo tramite il mio veleno, impedendogli di fatto di nuocerci. Manasa avrebbe voluto ben altra sorte, per lui, ma la convinsi che la sua morte ci avrebbe portato troppa attenzione addosso, ed era l’ultima cosa che volevamo. Tutto mi sarei immaginato, però, che lui incontrasse Garuda!”

Nel dirlo, fissò lo sguardo sul viso inerme di Joy.

“Quando ricevetti la telefonata di tuo padre, un mese fa, compresi che evitare lo scontro era ormai impossibile. Manasa avrebbe voluto distruggere Garuda a ogni costo e, con essa, anche tuo padre che, per la seconda volta, minacciava la nostra sicurezza. Fu sconvolta dall’apprendere della presenza di una Pizia dentro di lui. Era infuriata.”

“Lo immagino” sogghignò Morgan, terminando il suo caffè.

Alla televisione, lo speaker stava dando i risultati delle partite di football.

“Il suo primo pensiero fu di distruggere tutto, di eliminare a piè pari Lincoln City, solo per fare un dispetto a Garuda. Anche in quel caso, le ricordai che, prima di tutto, dovevamo pensare alla segretezza della nostra missione. Scoperchiare una città nelle vesti di un mostro, non era esattamente il modo migliore per rimanere lontani dalla notorietà.”

Sorrise senza allegria, mentre le mani si intrecciavano tra loro, nervosamente.

“No di sicuro” asserì Morgan.

“La convinsi a convogliare la sua rabbia solo su Garuda e, senza attendere oltre, la caricai sul primo volo per Phoenix, con la speranza che Amrita si contenesse a sufficienza per giungere qui senza fare danno ad alcuno.”

“Parli di Amrita… non di Manasa” gli fece notare Morgan, accigliandosi.

“Manasa non è cattiva. Amrita, sì. Lo è sempre stata. Era crudele per diletto e per carattere. Lo spirito di Manasa non può plasmare i suoi involucri, così dovette concedere i suoi poteri alla bambina insofferente e capricciosa che era Amrita.”

Bharat sospirò, scuotendo il capo con espressione afflitta.

“Per quanto mi è stato possibile, in questi anni, ho cercato di contenere i danni che avrebbe potuto causare al mondo ma, con la notizia della comparsa di Garuda, non c’è stato più modo di fermarla. La voleva morta.”

“E ora, che succederà?” si informò Morgan.

“Manasa rinascerà nel corpo di una nuova Nagini e, fino a che ella non sarà abbastanza matura per prendere le redini del suo regno, governerà la sua sostituta. Indira sarà una brava regina ad interim, puoi credermi.”

I suoi occhi si illuminarono, al solo parlarne.

“Per questo, hai colto l’occasione al volo. Ti sei fatto ferire subito per uscire di scena e, quando hai visto la tua regina nei guai, ne hai approfittato per servirla su un piatto d’argento a Joy” mormorò Morgan, annuendo più volte.

“Esatto. Anche se non vado fiero di questo, era l’unico modo per salvare il mio popolo, e lei” assentì Bharat, lanciando uno sguardo sinceramente grato a Joy. “Non mi aspettavo mi avrebbe risparmiato. Ero pronto a perdere la vita, pur di liberare i Naga dalla presenza di Amrita, ma Garuda mi ha salvato dalla Stella del Mattino.”

“Sapevi che ne era in grado?” chiese allora Morgan, vagamente incuriosito.

Annuendo, Bharat si limitò a dire: “Conosci il tuo nemico.”

A Morgan sfuggì un risolino ironico, commentando: “Sun Tsu. L’arte della guerra.

“Esatto.”

Con un sospiro stanco, Morgan si passò le mani sul viso prima di alzarsi dalla sedia, avvicinarsi a Joy e deporle un bacio sulla fronte, ancora fredda e umida.

Sembrava così inerme, debole e indifesa quando, dodici ore prima, gli era parsa una stella splendente e ammantata di un potere quasi inspiegabile.

“Faccio una telefonata. La tieni d’occhio tu?” si arrischiò a dire Morgan, lanciando uno sguardo obliquo in direzione di Bharat.

L’uomo si illuminò in viso, annuendo grato, e mormorò: “Sì, mi prenderò cura di lei fino al tuo ritorno.”

“Bene” esalò Morgan, uscendo dalla stanza con passo fiacco.

Avrebbe dovuto farsi una doccia, cambiarsi, ma non voleva passare troppo tempo lontano da lei.

La sua igiene personale avrebbe dovuto aspettare.

Ora era tempo di avvisare chi di dovere. Anche se era ben poco, ciò che poteva dire.

Il capo poggiato contro il muro del corridoio, troppo stanco anche per reggersi in piedi, Morgan accostò il cellulare all’orecchio e, quando udì la voce ansiosa di Alex, mormorò: “Abbiamo vinto.”

“Morgan… sembra che ti abbia calpestato una mandria di bufali. Tu come stai? E Leen?” esclamò ansioso Alex.

“Io sto bene. Stanco morto, ma sano. Joy… beh… sta guarendo” sussurrò Morgan, strizzando gli occhi per non piangere.

Era vero? O si stava solo illudendo?

“In che senso, Morgan? Cos’è successo?” esalò Alex, la voce ridotta a un sussurro.

“La tua mano come sta?” chiese Morgan, eludendo la sua domanda.

“La sto massacrando da un bel po’ di ore. Ho un prurito assurdo, perché?” gli domandò nervosamente Alex, accigliandosi.

“Un po’ di veleno di quella megera le è entrato in circolo, ma la stiamo curando con un antidoto, e Chandra dice che dovrebbe riprendersi” sospirò Morgan, pronto alle inevitabili reprimende del giovane avvocato.

“Che diavolo c’entra lui, adesso?! E che ci fa accanto a Leen? Sei pazzo!?” sbottò Alex, alzando di parecchie ottave il tono di voce.

“Senti, avvocato, è stata Joy a risparmiarlo, ed è stato lui ad aiutarla a uccidere Manasa e, a quanto pare, quell’intruglio che le sta dando la mantiene in vita. Che altro potevo fare, spiegamelo?!”

A quel punto, la rabbia, la frustrazione e il dolore di Morgan esplosero in tutta la loro forza, investendo come un’onda di piena Alex.

“Sono qui, da solo, senza sapere un’acca di magia, o di quello che potrebbe aiutarla a farla stare meglio. L’unico che sa di queste cose era un mio nemico? Beh, non mi interessa un accidente! Basta che la salvi! Scusa se non sapevo più a che santo votarmi, quando ho preso Chandra in casa con me!”

Alex rimase in silenzio per un minuto buono, prima di sospirare e mormorare spiacente: “Scusami tu. Non avrei dovuto aggredirti a quel modo. Tu conosci la situazione meglio di me, e io non ho nessuna ragione di accusarti di non avere abbastanza cura di Leen. So quanto la ami, perciò… insomma, mi spiace. Sono stato un idiota.”

Morgan disse soltanto: “Torno da lei. Tu avvisa gli altri.”

“Morgan…” esalò Alex.

La comunicazione venne interrotta e, ad Alex, non restò altro che fissare impotente il suo cellulare.

Forse, aveva davvero esagerato, con Morgan.

Nel rientrare nella stanza da letto, il giovane pompiere si appoggiò stancamente contro la porta, prima di asciugarsi una lacrima ribelle e mormorare: “Niente?”

“Ha sussurrato il tuo nome, prima. E’ un buon segno. Significa che sta tornando” gli espose Bharat, con un sorriso speranzoso.

“Tornando da dove?” esalò Morgan, impallidendo leggermente.

“Dal luogo in cui le anime si riuniscono per ricevere il giudizio divino” gli spiegò Bharat. “Evidentemente, non era ancora il suo tempo.”


 

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Capitolo 35
*** cap. 35 ***


 
 
35.




 
 
Ricordavo quel profumo. E anche la piacevole frescura che mi circondava.

La penombra che mi avvolgeva mi era familiare, così come il peso morbido che percepivo nel palmo della mano.

Una risatina si levò intorno a me, rimbombando entro le pareti della stanza apparentemente interminabile in cui stavo procedendo con passo tranquillo.

Nel momento stesso in cui essa sfiorò i miei timpani, le immagini del libro dei morti si svelarono di fronte a me come i petali di un fiore colpito dai raggi solari.

Distese interminabili di geroglifici si allungarono sulle pareti perse nella penombra, mentre le immagini del giudizio degli dèi si intervallavano a visioni di antichi faraoni e nobili regine.

Mi fermai a metà di un passo, riconoscendo quelle danze di colori.

Calai confusa lo sguardo sulla mia mano, sgranando leggermente gli occhi prima di ansare spaventata.

Il mio cuore pulsava forte, caldo e ben deciso a non smettere di pompare sangue.

Una voce sottile e vagamente divertita si avvicinò a me, squarciando la barriera offerta dalle pareti della stanza dove mi trovavo.

Dinanzi ai miei occhi spalancati, il volto di uno sciacallo nero come la notte e il corpo statuario di un uomo.

Anubis si fece avanti con andatura dinoccolata, lo scettro shekem1 in una mano mentre, nell’altra, teneva  ben stretto il pesante libro dei morti.

“Anubis…” esalai, sgranando ancor più gli occhi nel vederlo.

“Benu…” mormorò lui, sorridendo con quel suo volto animale, il tono di voce reso esotico dalla conformazione allungata della sua bocca di sciacallo.

“Come mai tu qui, e non Thanatos, Kali, o chi per loro?”

“Ho vinto una scommessa. Osiri mi deve parecchio, visto che ha detto che non saresti arrivata a usare la Stella del Mattino” ridacchiò il dio, ammiccando con i suoi occhi guizzanti e scintillanti come stelle.

“Sono qui perché…” ansai spaventata, guardandomi intorno con espressione nervosa, non avendo neppure la forza di terminare la frase.

“Perché hai osato molto” mi rispose lui, scrollando le spalle come se nulla fosse.

“Quindi, stai per portarmi di fronte agli dèi per il giudizio finale?” esalai, deglutendo a fatica.

Avrei dunque perso Morgan, alla fine?

Lui rise, la stessa risatina che avevo udito in precedenza, prima di fissarmi con i suoi occhi di diamante e replicare: “Non hai combattuto per morire, vero?”

“No!” esclamai, sgomenta.

Anubis annuì, lasciando che il libro dei morti svaporasse nella sua mano.

Mano che andò poi a posarsi sulla mia guancia, calda e rassicurante nel tocco quando evanescente nella forma.

“Vuoi dunque vivere?”

“Sì. Ho chi mi aspetta, dall’altra parte” annuii, sorridendo.

“Hai dunque accettato ciò che provi per lui? Sei cosciente che il tuo amore per il giovane mortale è assoluto, e non altruistico?”

“Sì. Ma so che è giusto. E’ il mio cuore a dirmelo” annuii ancora, sicura del mio dire.

Anubis assentì a sua volta, dandomi un pizzicotto sulla guancia prima di ridacchiare nuovamente e commentare: “Avrei dovuto puntare di più, con Osiri, ma che ci vuoi fare. E dire che so che Osiri è un pessimo giocatore d’azzardo!”

Mi concessi il lusso di ridere come lui e, portando la mano che reggeva il mio cuore in direzione di Anubis, gli chiesi: “Posso riaverlo, allora?”

“Ovvio. O dovrei sorbirmi le imprecazioni di Rah per un tempo superiore alla mia capacità di sopportazione” sghignazzò Anubis, sfiorando il mio cuore con lo scettro shekem.

Presi un gran respiro a pieni polmoni, e gli occhi mi si chiusero.

La luce mi avvolse e io mi risvegliai. O almeno, così mi parve.

L’ambiente lo ricordavo perfettamente, come ricordavo perfettamente quanto lo avessi amato.

Le piante di sicomoro dondolavano al canto di un vento leggero mentre in lontananza, sospinto verso il mare, il Nilo scivolava placido.

Accompagnava le chiatte verso Alessandria d’Egitto e Pi-Ramses, conducendo spezie, ori e sete preziose.

Dabbasso, nella città, carri di mercanti portavano datteri e noci di cocco al mercato, e lettighe di importanti dignitari si facevano largo tra la folla con un gran sbracciarsi dei loro portantini.

Il profumo degli incensi, bruciati nei ricchi palazzi, si inframmezzava a quello delle pagnotte cotte sulle piastre di pietra scaldate da fuochi sfrigolanti.

Il tutto era accompagnato dall’aroma degli ibischi, della cannella e di altre spezie esotiche.

Sorrisi, ammirando Heliopolis come l’avevo conosciuta, in tempi in cui il mio nome era pronunciato con reverenziale timore e dove io ero venerata come dea vivente.

Una mano calda, familiare, si poggiò sulla mia spalla e io, volgendomi di scatto, sentii premere feroci lacrime di gioia, quando il mio sguardo si posò sul viso a me caro di Rah.

Inconsciamente, mi allungai per abbracciarlo e, quando potei stringere a me il suo corpo tonico, poggiare la guancia sul suo torace abbronzato, esplosi in una risatina isterica.

Alzai lo sguardo su di lui, lieta e felice, ed esclamai: “Sei realmente qui!”

“Sei tu a essere qui” replicò, carezzandomi la folta chioma ramata e rilasciata sulle spalle.

“Come ho potuto… Anubis mi ha detto che…” tentennai, scostandomi da lui con aria sempre più sgomenta.

Possibile che mi avesse mentito, e io mi trovassi nel Duat?

Chetandomi immediatamente con una carezza sul viso, Rah mi sorrise rassicurante, spiegandomi succintamente: “Era solo mio desiderio rivederti … per un ultima volta.”

Sobbalzando a quelle parole, esalai: “In che senso?”

“Le nostre strade si dividono qui, mia diletta Benu, per quanto io detesti anche solo il suono di queste mie parole” mormorò, fissandomi con profondi occhi dal colore mutevole.

Ora, erano di un blu oltremare, profondi, insondabili.

“Che intendi dire?!” esclamai, afferrando la mano che era poggiata sulla mia guancia e che, pian piano, stava divenendo più fredda, più distante.

“Fa parte della decisione che hai preso, mia Benu, e io sono felice che tu l’abbia presa, per quanto ciò significhi che dovrò perderti per sempre” sospirò Rah, chinandosi  a baciarmi mestamente sulla fronte. “Hai ottenuto, e voluto, ciò che io speravo ottenessi fin da quando ti tenni tra le braccia, il giorno in cui nascesti la prima volta.”

Tremai sotto il suo tocco, sconvolta da quelle parole, mentre lui proseguì dicendo: “Ti affidai a un mio fedele amico, una persona che ti avrebbe amata come figlia sua e ti avrebbe instradata nella giusta direzione, insegnandoti tutto ciò che Benu doveva sapere. Ti guardai crescere, immagazzinare dentro di te gli insegnamenti che, via via, ti vennero esposti e, quando fosti pronta per prendere il volo, tu giungesti da me, mia fiera Benu.”

Mi sorrise, e parve divenire ombra, dinanzi a me.

“Amarti fu facile come respirare, lasciarti andare per il mondo, perché altri ti amassero e accogliessero il bene che tu potevi fare loro, fu come morire. Ma sapevo fin dall’inizio che il tuo compito era quello. Come lo era stato quello del tuo predecessore.”

“Come?” ansai scioccata, impreparata a quelle parole.

“Benu è una, e una sola. Non due, non tre, ma una. Chiediti chi fosse il mio fedele amico, colui a cui ti affidai con il cuore sereno” mi disse Rah, sorridendomi con aria vagamente ironica.

La bocca mi si spalancò lentamente, come se la verità fosse troppo difficile da esporre solo a parole.

Con voce impastata dallo shock, esalai: “Era… mio fratello?”

“Sì, mia Benu. Ti allevò e ti fece crescere, tramandando a te i precetti cui doveva sottostare una creatura unica come te.”

“Ma… perché non ne ho memoria?!” esclamai, ora indispettita da tutti quei segreti.

Perché non avevo alcun ricordo di lui?!

“Se avessi saputo ogni cosa, il tuo cuore avrebbe potuto scegliere la via più facile, e ciò ti avrebbe resa debole.”

Poi, nel vedermi già sul punto di replicare, sollevò una mano per bloccarmi e proseguì dicendo: “Non voglio dire che sia giusto, mia Benu, ma pensaci. Se tu avessi saputo la verità fin dall’inizio, non avresti ceduto il tuo cuore a qualcun altro, e molto prima di conoscere il giovane Morgan?”

“Forse. E non avrei trovato il vero amore, lasciandomi andare a più menzogneri sentimenti, giusto?” mormorai, comprendendo mio malgrado le parole di Rah.

“Esatto, mia Benu. Avresti potuto donare il tuo cuore a me, e diventare una dea di primigenia stirpe, ma cosa avresti ottenuto? Il Duat, un’anima senza un corpo, un’eternità passata nel cosmo. Non è stato dunque meglio attenersi ai precetti, e attendere l’Unico in grado di portarti oltre i limiti di te stessa? Non sei dunque lieta di non aver saputo la verità fin dall’inizio?”

“Perché ho fatto questo passo, allora, se non sapevo di poterlo fare?” gli domandai, ancora vagamente irritata. “E perché tu non hai potuto dirmelo?”

“Ti dissi di cercare nel tuo cuore, perché lì risiedeva il ricordo delle parole di tuo fratello. Esso non era mai scomparso, solo celato ai tuoi occhi. Soltanto se avessi desiderato più di te stessa la persona a cui avevi indirizzato il tuo amore, questo segreto ti sarebbe stato svelato” mi spiegò Rah, camminando intorno a me per osservarmi con sguardo spiacente e dolente assieme.

“Ho passato dei momenti orribili, temendo di sbagliare, di condannarci tutti” mormorai, reclinando il capo.

“Era una prova, mia Benu. Non avrei mai potuto aiutarti. Mi capisci?”

“Capisco. Ma mi sento presa in giro” mi sentii in dovere di dire, prima di bloccare il suo pellegrinaggio, afferrandolo a un braccio. “Perdere te è la punizione per aver scelto Morgan?”

“Non è una punizione. Scegliere ti era possibile. Sono solo eventi collegati l’uno all’altro.”

Aggrottando leggermente la fronte, gli chiesi: “Neppure Apollo, o Vishnu, potranno più parlarmi, vero? Nessuna divinità, giusto?”

Rah si limitò a sorridermi e io, mordendomi un labbro, gli domandai ancora: “Dov’è mio fratello?”

“Ricordati, Benu. Non due, non tre, ma solo una.”

Detto ciò, la luce tornò ad avvolgermi e io, con un grido, allungai una mano per raggiungerlo, ma tutto fu vano.

Il nulla mi agguantò come una morsa e io caddi, caddi.

 



 
 
***




 
“Rah!” urlò stridula Joy, balzando a sedere sul letto, gli occhi sgranati, il volto terreo, la bocca riarsa e le labbra secche.

Morgan, semi disteso su una poltrona, si svegliò di soprassalto, spaventato dal suo grido.

La fissò sgomento e, solo dopo alcuni attimi, si permise di sospirare di sollievo nel vederla desta.

Ansante, le mani strette al petto come se il cuore le volesse balzare fuori dalla cassa toracica, Joy percepì le lacrime scivolare sul suo viso.

Morgan, a quel punto, si accomodò sul bordo del letto, le carezzò gentilmente il viso e le domandò dolcemente: “Ehi, piccola… come ti senti?”

Joy sobbalzò nel sentire il tocco della sua mano sulla guancia, così calda, leggermente ruvida al tatto e a lei così cara.

Mordendosi il labbro inferiore, scoppiò a piangere e lo strinse in un abbraccio soffocante, piagnucolando: “L’ho perso… l’ho perso…”

Dalla porta fece il suo ingresso Bharat che, lo sguardo trafelato e l’aria ansiosa, osservò i due giovani abbracciati prima di esalare: “Sta male?”

“Non saprei davvero” mormorò Morgan, cullando la moglie contro di sé. “La forza, però, ce l’ha tutta. Mi sta stritolando.”

Esalando un sospiro di sollievo, Bharat ristette a distanza di sicurezza mentre Joy riprendeva il controllo di sé.

Quando infine le lacrime furono scemate, e la giovane si rese finalmente conto di essere tornata, levò lo sguardo sul viso del marito e sussurrò: “Morgan. Tu stai bene?”

Morgan si concesse il lusso di ridere, infinitamente sollevato all’idea che Joy stesse nuovamente meglio – almeno all’apparenza – e che si preoccupasse, prima di tutto, della sua salute.

Era da lei pensare sempre e solo agli altri, il che era indice della sua buona condizione.

Carezzandole una guancia, il giovane le baciò con tenerezza la punta del naso e le disse: “Io sto bene, ma sei tu quella che ci ha fatto disperare.”

Ci?” esalò Joy, prima di volgere a mezzo lo sguardo e incontrare quello teso di Bharat Chandra.

Abbigliato con un comodo paio di pantaloni cachi e una camicia botton-down color cannella, l’uomo le sorrise sollevato prima di mormorare: “Bentornata, Garuda.”

Joy abbozzò un sorriso e, solo in quel momento, notò la flebo al polso e il liquido azzurrognolo che le stava scivolando nel braccio.

“Devo supporre che il siero sia opera sua” ipotizzò Joy, indicando la flebo.

Annuendo, Bharat infine si avvicinò per poi accomodarsi su una delle sedie poste accanto al letto e, intrecciate le mani in grembo, le spiegò: “Non so quanto tu ricordi della battaglia, ma ho ritenuto saggio provvedere a che tu non rimanessi vittima del veleno di Amrita, visto quanto avevi fatto per la mia gente.”

Joy ci pensò su un attimo, rammentando stralci di immagini in cui il suo corpo prendeva fuoco, illuminandosi come una stella.

Di ciò che era avvenuto dopo, ricordava ben poco e, per la maggior parte, aveva a che fare con Anubis e Rah.

E quelli, erano ricordi troppo dolorosi perché desiderasse sondarli proprio in quel momento.

Notando alcune cicatrici fresche sulle mani di Bharat, Joy gli chiese: “Residuo della Stella del Mattino?”

“Sì, ma sono già quasi guarite.”

Poi, sorridendo divertito a Morgan, aggiunse: “Tuo marito mi ha riempito di cibo come un’oca all’ingrasso.”

Con una smorfia, Morgan replicò imbarazzato: “Che ne sapevo io, di guarigioni miracolose? Eri l’unico a sapere cosa fare, con Joy. Dovevo tenerti in salute!”

“E io ti ringrazio” gli replicò Bharat, reclinando ossequioso il capo prima di farsi serio. “Ho comunicato alla mia signora, Miss Indira Darsha, delle tue condizioni, e lei è stata lieta di sapere che la tua salute andava migliorando. Mi ha pregato di rimanere fino a quando avrai bisogno dei miei servigi.”

Esalando un sospiro di stanchezza, Joy si appoggiò completamente a Morgan – che ancora la teneva tra le braccia – e ammise: “E’ una situazione strana, lo sa, vero?”

“Il mondo è strano” asserì Bharat. “Ma ho preferito comportarmi così, piuttosto che veder distrutto il mio popolo. Amrita ci avrebbe portati alla distruzione, e nessuno di noi aveva la forza per bloccarne le mire. Solo tu. Perciò, ho pensato che lo spirito di Manasa mi avrebbe perdonato questo momentaneo tradimento, comprendendo i motivi che mi hanno spinto ad allearmi con te.”

“Ha anche confidato che io capissi il suo piano, risparmiandola” gli fece notare Joy, un mezzo sorriso dipinto sul volto.

Annuendo, Bharat le confidò: “Ero disposto a sacrificare la mia vita, per permetterti di eliminare colei che stava mettendo a rischio il mio popolo, ma l’essere risparmiato dalla Stella del Mattino è stato un piacere insperato.”

“Lieta di aver risparmiato una vita” mormorò Joy, socchiudendo gli occhi per la stanchezza.

Bharat allora si levò dalla sedia e, guardato Morgan per un attimo, sentenziò: “Ha ancora bisogno di riposo.”

Morgan annuì, facendo distendere Joy prima di darle un bacio sulla fronte.

“Saremo in cucina, tesoro. Non hai che da chiamare, e noi accorreremo da te. Ora riposa, però.”

Joy si limitò ad annuire, chiudendo gli occhi subito dopo e lasciandosi andare a un pesante sospiro. Qualche attimo dopo, si era assopita.

In silenzio, Morgan e Bharat raggiunsero la cucina e lì il giovane, dopo essersi servito un po’ di caffè, ne consegnò una tazza ricolma anche a Chandra.

Appoggiarsi al ripiano di marmo della consolle, chiese al naga: “Quanto ci vorrà perché guarisca del tutto?”

“Garuda è forte, e le sue capacità rigenerative sono grandi. Il veleno di Manasa, però, è potente, perciò non so dire quanto tempo le occorrerà. Un mese, forse. Anche meno. Ma ora che è desta, nulla potrà accaderle di brutto. Il peggio se lo è ormai lasciato alle spalle.”

Annuendo pensieroso, Morgan sorseggiò un po’ di caffè nero prima di mormorare: “Ha detto di aver perso qualcosa… o qualcuno…”

“E’ sposata con te, giusto? E tu sei a conoscenza dei suoi segreti…” cominciò col dire Bharat, vedendo Morgan annuire più volte. “… perciò saprai anche a che precetti è sottoposta.”

“Mi ha detto di non poter amare in modo esclusivo e che, con me, ha commesso qualcosa di molto simile a un peccato capitale. Rah, però, l’ha spinta in questa decisione, da quel che ho capito. E, a ben vedere, il mondo non è esploso, né abbiamo danno l’innesco a nessun Giudizio Universale, mi pare” gli spiegò Morgan, scrollando le spalle.

“Tutto, nell’Universo, è bilanciato, giovane umano” replicò bonariamente Bharat. “La luce e l’ombra, la notte e il giorno, la vita e la morte. E’ possibile che, per avere te, Ella abbia dovuto cedere qualcos’altro, o qualcun altro, in cambio. Uno scambio equivalente. Più si è potenti, più questi scambi hanno un peso. A volte, enorme.”

Subito, Morgan lanciò uno sguardo in direzione della porta, chiedendosi cosa avesse perso di così importante in cambio di un’unione di pochi decenni con lui.

Quando rammentò la prima parola pronunciata da Joy al suo risveglio, impallidì.

Non lui. Non poteva davvero aver perso…

“Rah…” esalò Morgan, lasciando scivolare lentamente a terra la tazza del caffè, che finì con lo sparpagliarsi in un lago informe sulle piastrelle assieme ai cocci di ciò che, un tempo, l’aveva contenuto.

Bharat lo fissò senza capire mentre il giovane, afferrato il telefono in tutta fretta, compose il numero di Alex e attese trepidante che l’altro gli rispondesse.

Erano giorni che non si sentivano, dopo la loro litigata del tutto involontaria.

Morgan non se l’era sentita di scusarsi.

Alex, al tempo stesso, aveva preferito lasciarlo sbollire, sapendo bene quanto, quella situazione ai limiti dell’assurdo, potesse aver reso irritabile il marito della cugina.

Quando udì la voce di Susan all’altro capo del telefono, Morgan la salutò gentilmente prima di chiederle: “L’avvocato è a casa, per caso?”

“E’ sotto la doccia, ma credo uscirà fuori di corsa, non appena gli dirò che sei tu” ridacchiò Susan con voce tremante. “Lei come sta? Sta meglio?”

“Oggi si è svegliata. Il peggio è davvero passato. Ora, deve solo riacquistare le forze.”

“Bene” esalò un sospiro di sollievo Susan. “Bene. Allora posso chiamarlo senza temere che gli venga un collasso.”

“Sì, grazie” asserì Morgan, ascoltando i passi cadenzati della donna e il rumore dello scroscio dell’acqua in lontananza.

Quando il fruscio della doccia si fece più forte, sentì la voce di Susan spiegare ad Alex chi vi fosse al telefono.

In un attimo, il soffione venne chiuso, una porta venne aperta e la voce dell’avvocato sfiorò il padiglione auricolare di Morgan con un concitato: “Ehi, allora, come sta?”

“Si è svegliata” disse soltanto Morgan, chiedendogli subito dopo: “Puoi farmi un favore?”

“Tutto quello che vuoi” si affrettò a dire Alex, afferrando un salviettione per avvolgerselo alla vita.

Susan, nel frattempo, si accomodò contro il bordo del lavandino e attese di capire cosa stesse succedendo.

“Chiama Rah, so che puoi farlo… chiamalo, e chiedigli a cosa cazzo ha rinunciato Joy per stare con me!” sbottò Morgan, la voce resa nervosa dalla paura che stava montando in lui come marea.

Alex si sorprese non poco di fronte a quella richiesta e, dopo aver guardato la fidanzata con un sorriso di scuse, riempì il lavandino fino all’orlo con dell’acqua e disse: “Rah, ho bisogno di parlarti.”

Susan sbiancò in viso, aggrappandosi ad Alex e al bordo del lavandino.

L’acqua, trattenuta dal lavabo di ceramica bianca, sfrigolò come sospinta da un vento impetuoso, prima di lasciar intravedere un volto bruno e circondato da una chioma di capelli corvini.

Gli occhi, di un abbagliante caleidoscopio di colori, fissarono il volto serio e teso di Alex, mentre la sua bocca carnosa si mosse lentamente, lasciando che la sua voce stentorea riempisse la stanza.

“A che devo la tua chiamata, giovane Alexander?”

Susan divenne cerea, e gorgogliò sconvolta: “E’ davvero lui?”

“Scusa, piccola, non avevo tempo di spiegarti” si lagnò Alex, prima di tornare a fissare il volto del dio e chiedere gentilmente: “Morgan vuole sapere a cosa Joy abbia rinunciato, per stare con lui.”

“Di questo, il giovane Morgan non deve preoccuparsi. Non si è trattato di uno scambio. Benu non sapeva quali fossero i termini entro cui avrebbe potuto averlo, ha solo seguito il suo cuore. Cioè, l’unica cosa che le avrebbe permesso di ottenere la felicità che voleva per se stessa.”

Si lasciò andare a un sospiro, ma proseguì.

“Non poteva conoscere i termini entro cui le sarebbe stato concesso il suo desiderio, o tutto sarebbe stato vano. Come io non potrò dirvi i termini di tale concessione. Tutto verrà scoperto a tempo debito, ma non è questo il momento. Altre forze sono in atto, adesso. Il Cosmo sta recuperando equilibrio, e così anche Benu. Quando tutto sarà completo, la verità sarà rivelata.”

Storcendo il naso, Alex disse al telefono: “Hai sentito?”

“Anche troppo” brontolò Morgan.

“Hai altro da chiedere, giovane Alexander?” volle sapere Rah, lo sguardo ammantato di tristezza infinita.

“No, ti ringrazio. Credo di aver letto a sufficienza nel tuo sguardo” mormorò Alex, scuotendo il capo.

“E io spero che terrai per te ciò che vi hai visto” gli replicò bonariamente Rah, sorridendo appena.

“Come desideri.”

L’acqua sfrigolò ancora e il volto scomparve alla loro vista mentre Susan, ormai stremata, scivolò a terra con un ansito strozzato, esalando: “Oh, Signore Iddio!”

“Scusa, amore, scusa!” esclamò Alex, trattenendo con una spalla il telefono, mentre tratteneva Susan dal crollare lunga riversa sul pavimento.

“Occupati di Susan, Alex… ho sentito ciò che volevo. O meglio, non proprio, ma ho capito che, da quella campana, non sentirò altro” dichiarò Morgan, salutandolo.

“Ci sentiamo dopo, pompiere!” esalò Alex, prima di accucciarsi accanto alla compagna per controllarne le funzioni vitali.

Chiuso che ebbe la comunicazione, Morgan scosse mestamente il capo e Bharat, ben poco speranzoso, gli chiese: “Nessuna buona notizia, eh?”

“Gli dèi sono criptici” sentenziò Morgan, poggiando il telefono sul piano della cucina.

Osservando disgustato il pavimento sporco di caffè e cocci di porcellana, borbottò: “Che casino che ho combinato.”
 
***

“E’ davvero un peccato che tu ti sia ammalata proprio mentre eravate in vacanza!” esclamò Arianna, carezzandole il viso pallido, mentre Joy le sorrideva incoraggiante. “Meno male che non è nulla di grave. Morgan mi ha detto che ti stai riprendendo benissimo.”

Annuendo, Joy indicò il vassoio con i residui del suo pranzo e le disse: “Morgan mi sta rimettendo in forze davvero bene. Mi spiace soltanto non aver potuto passare molto tempo con voi.”

“Oh, quello! Avremo tutto il tempo, la prossima volta che verrete a trovarci, o quando noi verremo da voi a Natale” ridacchiò Arianna, scuotendo una mano con fare noncurante.

Joy lanciò un’occhiata al dream catcher che la donna le aveva portato quel giorno.

Sorridendo leggermente nel ripensare alla collana donatale dalle sue amiche, si chiese se quel portafortuna avesse contribuito a salvarle la vita.

Durante lo scontro, lo scarabeo si era sciolto sotto l’influsso di potere della Stella del Mattino.

Allo stesso modo, la Mano di Fatima dono di Haniya, si era liquefatta, finendo con il vaporizzare in milioni di atomi di metallo mentre la sua energia raggiungeva la stessa potenza del sole.

Le era spiaciuto immensamente ma, al tempo stesso, aveva percepito in quei monili l’amore delle sue amiche.

Per nulla al mondo, le avrebbe tenute lontane da sé, durante quella tremenda battaglia.

I messaggini che erano giunti sul suo cellulare nei giorni seguenti lo scontro – a cui Morgan aveva prontamente risposto – le avevano dimostrato una volta di più quanto forte fosse il loro legame.

I Quattro Moschettieri, si erano sempre chiamate, e Haniya si era unita a loro quando, all’università, avevano fatto conoscenza ed erano diventate amiche.

Cinque anime diverse, eppure così unite.

Ognuna di loro rappresentava un elemento e lei, nel mezzo del loro forte abbraccio, rappresentava la luce.

No, non era un caso se si erano conosciute.

Nulla lo era, lei per prima avrebbe dovuto saperlo, in fondo.

Arianna, intercettando il suo sguardo, sorrise a sua volta e dichiarò: “Ho pensato che avresti riposato più tranquilla, con quello a proteggerti. La malattia può condurre al proprio capezzale un sacco di spiriti molesti.”

“Grazie del pensiero. Sono sicura che avrà un effetto davvero benefico” assentì Joy, sorridendole.

Entrando praticamente di corsa, Morgan sorrise a entrambe le donne prima di avvicinarsi alla moglie, stamparle un bacio sulle labbra e dirle: “Ho una sorpresa enorme, qui fuori, che ti aspetta. Te la senti di uscire dal letto?”

Sbattendo le palpebre con aria confusa, Joy esalò un ‘sì’ appena accennato prima di vedersi letteralmente strappare via dal letto.

Fu presa in braccio e trascinata fuori, seguita a ruota da Arianna che, divertita, curiosò oltre l’arco delle spalle del nipote.

Trovò, però, solo la porta d’entrata chiusa e null’altro ad attenderli.

Sempre senza dire niente, Morgan procedette a grandi passi verso il battente e, dopo averlo spinto con la punta dello stivale da cowboy che indossava, esclamò: “Sorpresa!”

Joy sgranò gli occhi di fronte al nugolo di persone che, assiepate nel vialetto d’entrata, sollevarono le braccia e gridarono sorpresa! a loro volta.

Datole un bacio accanto all’orecchio, Morgan le sussurrò: “Non hanno resistito all’idea di aspettare ancora due giorni senza vederti, così hanno preso tutti l’aereo e sono venuti qui.”

Tutta la sua famiglia era lì per lei, tutti coloro che conoscevano i motivi del suo malessere erano lì.

Non riuscendo a trattenersi, Joy scese dalle braccia di Morgan e arrancò in direzione dei genitori, prima di venire avvolta dalle loro braccia cariche di affetto e calore.

“Papà! Mamma!” ansò lei, affondando il viso nel petto possente del padre.

La madre le accarezzò la chioma scarmigliata, dandole sonori baci sulla guancia bagnata di lacrime.

Mentre la famiglia di Joy si assiepava attorno a lei per darle un caldo abbraccio di gruppo, Oliver oltrepassò quella marea umana per stringere a sé il figlio.

Con voce rotta dall’ansia, mormorò: “Sono felice di vedere con i miei occhi che stai bene.”

Morgan inspirò con forza, stringendo i pugni contro la schiena del padre, prima di stritolarlo in un abbraccio soffocante e ringhiare contro la sua spalla: “Sei un idiota, papà. Dovresti avere un po’ più di fiducia in me.”

Oliver scoppiò a ridere, scostandosi da lui e annuendo più e più volte alle parole del figlio mentre Consuelo, sorridendo a entrambi, disse loro: “Era da tempo che aspettavo questo momento.”

Arianna raggiunse la sorella, stringendole un braccio attorno alla vita e, osservando l’intera scena, esalò: “Cielo! Sembra che non vi vediate da un secolo!”

“Siamo tutti molto emotivi” asserì Consuelo. “Tutto bene, querida2?”

“Sana come un pesce e forte come un toro” annuì Arianna. “Coraggio, signori, entriamo. Joy non è ancora al suo meglio, e ha bisogno di stare seduta.”

Fu Alex a rispondere per tutti.

Prese in braccio la cugina e, dirigendosi verso l’entrata della villetta, chiese ad Arianna: “Più che giusto. Dove posso depositare il pacco?”

“Da questa parte, giovanotto” dichiarò Arianna, strizzando l’occhio a Joy, che scoppiò a ridere.

Lasciando che Alex portasse dentro Joy, Morgan attese che tutti fossero scomparsi dal vialetto prima di dire al padre – rimasto accanto a lui: “Il professor Chandra ti aspetta nel giardino sul retro. Vorrebbe parlare con te.”

“D’accordo.”

Oliver diede una pacca sulla spalla al figlio e, senza dire altro, svanì dietro la villetta.

Non aveva idea di cosa avesse in mente Chandra, ma era giusto che quei due chiarissero una volta per tutte le tante incomprensioni che, negli anni, si erano venute a creare tra loro.

Forse, suo padre non avrebbe mai avuto i riconoscimenti che gli sarebbero spettati, ma Morgan era certo che questo, ormai, non gli interessasse più.

Suo padre era finalmente tornato.




 
 
***




 
Le parole di Alex mi parvero oscure come, al tempo, erano parse a lui e a Morgan.

Soprattutto, mi feriva sapere quante cose mi fossero state tenute nascoste in tutti quei millenni di solitudine, pur comprendendone le ragioni più che ovvie.

L’essermi battuta per l’amore di Morgan, non sapendo di poterlo effettivamente fare, mi aveva fatto comprendere quanto vi tenessi, quanto realmente fosse unico il sentimento che provavo per lui.

Se avessi saputo di poter amare qualcuno di amore sincero ed esclusivo, avrei atteso tanto?

Avrei ceduto prima all’abbraccio di un amante?

Forse sì. Non potevo saperlo.

Sentivo però un vuoto enorme, al pensiero di non ricordarmi nulla di mio fratello, di colui che mi aveva fatto da padre nella mia prima incarnazione.

Lui dov’era? Che fine aveva fatto?

Rah aveva parlato del vecchio detto: non due, non tre, ma una.

Che fosse morto per dare la vita a me?

Ma per quale motivo?

E quando era avvenuto?

Di quella mia prima esistenza rammentavo solo gli abbracci calorosi e l’amore, ma non il volto di alcuno.

Perché?

Quale tragedia era questa, che mi si negava il ricordo dell’unico vero consanguineo che avessi mai avuto?

E perché, dopo aver trovato un po’ di felicità per me stessa, venivo scarnificata a quel modo, mi venivano strappati gli amici di sempre, gli unici che avessi mai avuto al fianco in ogni mia vita?

Era questo, dunque, l’equilibrio?

Una continua, imperitura sofferenza?

Quando rientrammo infine a L.C., trovammo ad attenderci le mie amiche – invero, anche Haniya!

Fu a quel punto che compresi che l’equilibrio del Cosmo poteva chiedere in pegno grandi sofferenze, ma quante piccole gioie sapeva donare!



 
 


Note: 
1 Scettro shekem:
scettro con cui è solitamente raffigurato Anubis.
2 Querida (spagnolo): cara.

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Capitolo 36
*** cap. 36 ***


 
36.
 
 
 
 
 
“Post fata resurgo.”
 
 
 
Scoprire che Alex era ancora in grado di parlare con Rah, non servì assolutamente a niente.

Ogni qual volta tentò di mettersi in contatto con lui, con me presente, nulla valse allo scopo.

Eravamo di fatto separati.

Sorte non migliore spettò alle altre divinità solari con cui ero in contatto da sempre, o almeno da che avessi memoria.

Non Febo Apollo dalla bionda chioma dorata.

Non il pensieroso Vishnu dal volto perennemente torvo.

Non l’affascinante Sól1 e il suo carro dorato, come se Sköll2 lo avesse già divorato, anticipando di molti millenni il sopraggiungere del Ragnarök3.

Tutto parve inutile, nulla servì.

Ero isolata dal mondo ultraterreno, pur avendo mantenuto appieno il mio potere divino.

Bharat rimase con me per circa un mese, dal nostro rientro a L.C..

Quando ritenne saggio e sicuro tornare a Nuova Delhi, si accomiatò da noi con la promessa di sistemare una volta per tutte l’annosa questione con Oliver, protrattasi per davvero troppo tempo.

Cosa avesse intenzione di fare, mi era del tutto oscuro.

L’estate infine giunse.

Ripresi il lavoro e mi lasciai alle spalle i brutti pensieri legati a Manasa, e al terribile scontro che ci aveva viste protagoniste.

Iniziai così i preparativi per il matrimonio che si sarebbe svolto in chiesa, come richiesto a gran voce da entrambe le nostre famiglie.

Morgan aveva chiesto – e ottenuto – che il matrimonio si potesse svolgere la mattina della Vigilia di Natale.

Era incurante del fatto che, molto probabilmente, ci sarebbero stati due metri di neve e che, come minimo, avremmo dovuto farci largo fino al portone della chiesa con un mezzo spartineve.

Lui aveva voluto a tutti i costi quella data, ritenendomi un autentico dono del Signore, e non vedeva bene altro giorno per celebrare il nostro matrimonio.

Io, per parte mia, non ero proprio in animo di smentirlo.

Anche ai miei occhi, lui era un dono del Cielo.

Io e le mie amiche, supportate da mia madre, Consuelo, Lily e Susan, iniziammo perciò lo studio di tutti i possibili abiti invernali adatti al clima dell’Oregon.

Nel frattempo, studiammo i vestiti perfetti per le damigelle e per le matrone d’onore.

Trovai anche il tempo per mettermi d’accordo con Haniya, per quel che avrebbe riguardato il suo matrimonio, a cui io avrei partecipato come testimone di nozze.

Mi misi in pari con il lavoro in clinica senza, tra l’altro, dare uno straccio di risposta a Robert o a Cynthia sul perché, tra i miei capelli, fosse comparsa una misteriosa ciocca biondo platino.

Avevo liquidato l’intera faccenda dicendo loro di aver dato voce a un mio sfizio modaiolo, ma dubitavo grandemente mi avessero creduto.

Non potei, infatti, non notare con quanta assiduità tennero sotto controllo la ricrescita del mio tanto decantato ‘colpo di sole’.

A tutti gli effetti lo era, un colpo di sole, ma nel vero senso della parola.

Gli strascichi della Stella del Mattino avevano lasciato quel segno indelebile sulla mia chioma, comparso più o meno una settimana dopo il nostro ritorno a L.C.

L’enorme stress fisico subito, e il lento recupero fisiologico dal veleno di serpente, avevano prodotto quella specie di marchio indelebile.

A conti fatti, era anche carino a vedersi, ma mi dava un’idea più che chiara di quanto fossi andata vicina alla morte.

Quando infine settembre bussò alle porte di L.C., io e Morgan partimmo per l’East Coast in direzione della villa di Chad.

Lì, si sarebbe svolto il suo matrimonio con Haniya.

Con l’abito di organza blu notte di testimone di nozze ben sigillato in un busta porta abiti, ci involammo da Portland in direzione di Boston.

Durante tutta la celebrazione – decantata in gran parte in arabo – descrissi per sommi capi cosa stesse succedendo a un ammirato Morgan.

Pur non comprendendo nulla di quanto il celebrante stesse dicendo, rimase colpito dall’estrema sacralità dei suoi gesti, e dalla bellezza della cerimonia in sé.

Vi furono balli e festeggiamenti e, nel consegnare a Haniya il nostro regalo – una valigetta da medico completa di tutto il necessario per il suo nuovo lavoro sul campo – la abbracciammo con calore.

Augurammo a lei e Chad tutto l’amore e la fortuna possibili.

Restammo con loro per altri due giorni prima di rientrare a L.C..

Quando fummo di ritorno, scoprii che, ad attendermi in clinica, c’era una persona che mai mi sarei aspettata di vedere.

 



 
 
***




 
Accomodati nella sala d’aspetto della palestra del centro di riabilitazione del Samaritan, Joy trovò ad attenderla il professor Chandra.

Era abbigliato con un morbido gessato nero a righe bianche, in compagnia di una donna dall’aspetto tranquillo e gentile.

I lunghi capelli neri di lei erano trattenuti da una treccia, che portava poggiata su un seno.

Il suo corpo flessuoso, interamente avvolto da un sari rosso fuoco a fantasie fiorate, era ricamato con fili d’oro e d’argento.

Portava un anello dorato all’orecchio, collegato da una catenina sottile a una narice.

Alle dita delle mani, invece, indossava una serie di anelli raffiguranti i più grandi serpenti terrestri.

Miriadi di bracciali tintinnavano ai suoi polsi sottili e, quando ella si alzò dalla poltronca, Joy notò una cavigliera ricolma di campanelle, che tintinnò allegra a ogni suo passo.

Sempre più confusa, Joy scrutò con malcelato interesse Bharat prima di allungare una mano verso di lui ed esordire dicendo: “E’ da un secolo che non ci vediamo, professore. La trovo bene.”

“Splendidamente, dottoressa.”

Con un cenno del capo e un sorriso, incrociò lo sguardo con la donna al suo fianco e aggiunse: “Posso presentarti Indira Dharsha?”

Sgranando leggermente gli occhi nell’udire quel nome – la loro regina ad interim – Joy allungò la mano anche nella sua direzione e, più cauta, asserì: “Sono ancora più sorpresa di vedere lei.”

“Lo immagino” annuì Indira, stringendo la sua mano e sorridendole nel contempo. “Come ha detto Bharat, il suo tocco è caloroso.”

Nel dirlo, mostrò il palmo della sua mano ingioiellata e Joy, mordendosi un labbro, se ne spiacque.

Si era del tutto dimenticata che le creature d’acqua mal sopportavano di essere toccate da una creatura di fuoco; la pelle era completamente screpolata e secca.

“Dovevo avere la testa da un’altra parte, per dimenticarlo. Scusate” sospirò Joy, scuotendo il capo. “Ho della pomata lenitiva nell’ufficio, se volete…”

Indira la interruppe, replicando: “Non è un problema. Sapevo già cosa sarebbe successo, ma non mi è importato. La mano andrà a posto tra poche ore ed è un prezzo ben misero da pagare, se paragonato a ciò che ci ha restituito.”

Guardandosi intorno, Joy ritenne che quell’atrio spoglio – in cui poteva arrivare chiunque, in qualsiasi momento – non fosse il luogo ideale per parlare di cose simili.

Invitati entrambi a seguirla nella saletta dei dottori, Joy aprì per loro la porta e, con un mezzo sorriso di scuse, spiegò loro: “Non è molto in ordine, mi spiace. Non aspettavo visite.”

La coppia entrò nella piccola stanza, dove una singola finestra illuminava le pareti ricoperte di diplomi, fotografie e cartelloni di anatomia umana.

Un tavolo era ricolmo di scatole da mangiare semi-aperte, bottigliette d’acqua e quotidiani.

Nei pressi della macchinetta del caffè, era stato sistemato un quadro in sughero su cui appendere inserzioni, richieste o quant’altro.

Sul davanzale, un vasetto colmo di violette stava divorando gli ultimi scampoli di sole, ormai pronta al riposo invernale.

Raccolte in fretta un paio di cartelle, che Joy tolse dal divano, li invitò cortesemente a sedersi prima di chiedere loro: “Gradite del caffè?”

“No, grazie. Possiamo rimanere per poco. Abbiamo un impegno molto importante con il professor Thomson, entro breve” le spiegò Bharat, afferrando una rivista dalla ventiquattrore che, in quel momento, riposava sulle sue ginocchia.

Oltremodo confusa, Joy prese in mano il giornale – una copia di Nature – e, sgranando lentamente gli occhi di fronte alla fotografia che capeggiava in copertina, esalò quasi senza fiato: “Ma… sbaglio o è un makara4? Ma non erano estinti?”

“E’ l’ultimo della sua specie e, ahimè, ormai non vi è più nessuno che prosegua la sua stirpe” sospirò melanconica Indira, sorridendo subito dopo quando aggiunse: “Non è dunque corretto che la sua morte definitiva serva a un giusto scopo?”

Aggrottando la fronte, Joy lesse i titoletti scritti in stampatello proprio sotto la fotografia e, deglutendo a fatica, mormorò come in trance: “I makara sono dunque esistiti! Il Professor Thomson e la sua prodigiosa scoperta nei pressi di Benares!”

Sapeva che Oliver era partito per un viaggio assieme a Bharat, lo scorso mese di luglio, ma non aveva mai saputo di cosa si fosse trattato.

Era dunque questo il loro modo di sdebitarsi con lui!

Bharat sorrise di fronte al suo stupore, chiosando: “Chiodo scaccia chiodo, no?”

“Direi… di sì” esalò Joy, poggiando delicatamente la rivista sulla scrivania. “Beh, non posso che dirvi grazie. Di tutto.”

“Anche nel nostro caso, chiodo scaccia chiodo” propose Indira, con un sorrisino. “Non sono in grado di garantire che la pace duri in eterno tra di noi ma, finché mi sarà possibile governare, da noi Naga non giungeranno più pericoli e, se potrò allevare la prossima Manasa con mano ferma, neppure dalla sua generazione verrà alcunché.”

“E io gliene sono grata perché, checché ne pensiate voi, non amo fare a fette i serpenti, anche se so che ai bambini insegnate che Garuda li mangia per dessert” ridacchiò Joy, notando l’imbarazzo sorgere sui volti dei suoi ospiti.

“Brutte abitudini dure a morire” commentò contrita Indira, prima di guardare con intenzione Bharat e aggiungere: “Il Professor Thomson ci ha detto che lei e suo marito convolerete a nozze anche in chiesa, perciò abbiamo pensato a un regalo adatto per l’occasione.”

Joy storse subito il naso ma Bharat rise sommessamente e, nel consegnarle una scatoletta oblunga, replicò tranquillamente al suo sguardo accigliato: “Nulla di preoccupante, davvero.”

Non del tutto convinta – i pregiudizi non potevano svanire in poche ore, no? – la giovane prese tra le mani la scatoletta portale dall’uomo.

Timorosa, ne sollevò il coperchio di legno di tek, intarsiato a fantasie fiorate, trovando però al suo interno solo un favoloso collier d’oro bianco e smeraldi.

Gli smeraldi, dal taglio a goccia, erano avvolti da una nuvola di diamanti dal taglio marquise, che formavano ali e coda di un ipotetico uccello.

Sollevato l’oggetto per meglio osservarlo, Joy sobbalzò leggermente quando i suoi occhi si posarono sul retro del gancetto.

Leggendo la scritta, nonostante fosse piccolissima, Joy sorrise divertita.

Post fata resurgo. Dopo la morte, risorgo. Adatto, direi.”

“Non è il motto di Fenice?” sorrise orgogliosa Indira, lieta che il dono fosse stato apprezzato.

Joy annuì, richiudendo la scatoletta prima di ringraziare la coppia e asserire: “Lo porterò al mio matrimonio. Si abbinerà perfettamente con ciò che intendo indossare.”

“Ci onori, Garuda.” Bharat reclinò modesto il capo.

“E voi onorate me” asserì Joy, reclinando allo stesso modo il viso.

Indira si levò in piedi con grazia, facendo tintinnare i suoi gioielli nel farlo e, dopo aver sorriso nuovamente a Joy, sorrise con ironia e celiò: “Non la prenda a male se non le stringo ancora la mano.”

“No, non si preoccupi” sorrise divertita Joy. “Grazie anche per quel che state facendo per Oliver. Lo apprezzo più di quanto riesca a dire con le semplici parole.”

Indira e Bharat annuirono compitamente prima di uscire dalla saletta e, quando Joy infine rimase sola entro le quattro mura del suo angolino di mondo, afferrò il cellulare e chiamò Morgan.

Con un gran sorrisone a illuminarle il volto, esclamò: “Non immaginerai mai chi è venuto a trovarmi!”

“E tu non immaginerai mai con chi si vedrà tra poco mio padre!” le ribatté lui, prima di scoppiare a ridere con la moglie.

Non occorse granché a nessuno dei due, per capire che stavano parlando della stessa persona.
 
***

“Dimmi che ha smesso di nevicare!” esalò Joy, lanciando un’occhiata ai riccioli che Susan le stava sistemando a crocchia, sulla parte alta del capo.

Kelly guardò fuori dalla finestra del suo appartamento e, disgustata, esclamò: “Neanche a parlarne. Viene giù che Dio la manda!”

Un’imprecazione neppure troppo elegante fiorì sulle labbra di tutte, all’unisono e Richard, dal salottino, scoppiò a ridere  di gran gusto.

“Signore, per l’amor di Dio, un po’ di contegno!”

“Tua figlia ha un mantello degno della regina delle fate, con uno strascico di due metri da tirarsi dietro, tesoro, se non lo ricordi! Non voglio che sembri un pulcino bagnato, alla sua entrata in chiesa!” sbottò Melinda, affacciandosi sulla porta della camera per urlare dietro al marito, spaparanzato sul divano.

“Forse ti sei scordata che, tra gli invitati, ci sono dei pompieri. Se non sono capaci loro di risolvere questo piccolo problema, chi vuoi che ci riesca?” ridacchiò Richard per contro, servendosi un po’ di champagne.

Quella mattina, quando le ragazze erano arrivate – furiose per la nevicata – avevano annegato il dispiacere in quel saporito liquido ambrato.

Dicembre era infine giunto e, come suo solito, aveva portato con sé un esuberante carico di neve, che aveva imbiancato L.C. facendola diventare un perfetto paesaggio da cartolina.

Questo, però, non aveva per nulla fatto piacere a Joy che, col passare dei giorni, si era fatta sempre più nervosa e, a tratti, quasi isterica.

Più e più volte aveva chiesto ad Alex di mettersi in contatto con Rah ma, da quel che aveva saputo dal cugino, il dio del sole non rispondeva più neppure alle sue accorate richieste.

Sembrava essere scomparso nel nulla.

Aspettarsi che lui intervenisse per donarle una giornata di sole, era praticamente impossibile.

Stando a quel che il cielo diceva, avrebbero avuto una normalissima, nevosissima Vigilia di Natale.

“A costo di volteggiare fino alla navata, ma io non mi bagnerò!” ringhiò Joy, prima di sorridere tutta eccitata, battere le mani come se fosse venuta a capo del più difficile problema del mondo, ed esclamare: “Posso benissimo asciugare tutto col mio potere!”

“Joy, tesoro, e gli invitati? Come glielo spiegheremo?” le fece notare bonariamente Mel, dandole un buffetto sulla guancia. “Ci sono più di duecento persone, tra parenti, amici, corpo dei Vigili del Fuoco e della Polizia. Non penso che tu possa schermare tutte le loro menti perché non vedano nulla.”

“Mpfh” mugugnò lei, guardando la propria faccia accigliata allo specchio.

Quella mattina non era apparso nessun dono, da parte di Rah e, visto il dolore che ancora provava, era stato meglio così.

Le mancava da morire, e pensare di non poter più parlare con lui era davvero difficile da digerire.

Passandosi una mano sul pizzo che ricopriva l’abito, indugiò un attimo sul collier d’oro bianco dono di Indira.

Era perfetto, per quell’abito senza spalle, ricoperto di pizzi fiorati, e dal sottabito in raso dalla linea a sirena.

Era stato un rischio, scegliere quell’abito, ma la commessa del negozio aveva sopperito mostrandole uno stupendo mantello, con applicazioni di ecopelliccia.

Lunghissimo, sostituiva a meraviglia la mancanza del velo, che Joy non aveva voluto per sé.

Visto il tempaccio di quel giorno, sarebbe stato un accessorio utilissimo, oltre che molto bello.

Tutto era stato calcolato ad arte. L’unica pecca enorme era il tempo.

Levatasi in piedi quando Susan ebbe terminato di acconciarle l’ultimo ricciolo, si avviò verso la finesta e, ringhiando all’indirizzo della neve, sibilò: “Non mi rovinerai il matrimonio! Te lo posso giurare!”

Aileen sorrise benevola all’amica e, assieme a Haniya, la riaccompagnò nei pressi della toeletta per poterle mettere gli orecchini.

Melinda e Consuelo, nel frattempo, sistemarono il mantello sul letto mentre, dalla porta d’ingresso, faceva la sua comparsa Alex.

A gran voce, il giovane esclamò: “Maschio affascinante in arrivo!”

Susan rise nell’aprire la porta della stanza di Joy e, lasciatolo entrare, gli chiese: “Hai portato la limo?”

“Ovvio” annuì Alex, sorridendo poi incoraggiante alla cugina che, ultimata la vestizione, si levò in piedi per infilarsi il mantello.

 “Ti avverto, Leen. Dovrai dare un bacio a tutti i pompieri di L.C.” le confidò il cugino.

“Oh? E perché?” si chiese lei, lasciando che la madre e la suocera le dessero una mano con il cappuccio e lo scaldamani in ecopelliccia.

Ridendo sommessamente, Alex si appoggiò alla parete e la scrutò con orgoglio malcelato.

Era davvero splendida, anche con quel cipiglio irritato stampato in  viso.

“Stanno dando una ripulita al piazzale della chiesa e, poco meno di un’ora fa, hanno montato una serie di gazebo perché tu potessi fare il tuo ingresso all’asciutto, senza pericolo che la neve ti desse fastidio.”

Joy sgranò gli occhi e spalancò la bocca per la sorpresa, prima di lanciare uno strillo eccitato che portò Alex a tapparsi le orecchie e sogghignare.

“Mi sa che la cosa ti è piaciuta.”

“Dispenserò baci a tutti, nessun problema!” rise lei, più che felice.

Ammiccando al suo indirizzo, Alex commentò: “Non credo incontrerai molte difficoltà.”

“Tu dici?” ridacchiò Joy, sogghignando.

Ammirandone la bellezza sopraffina e ultraterrena, Alex scosse il capo e, seriamente, le disse: “Sei splendida, Leen, un’autentica visione. Dubito esista un solo uomo, sulla terra, che potrebbe resisterti.”

“Grazie, Alex” mormorò la cugina, lanciando un’occhiata nervosa alla mano del cugino, prima di vederlo scuotere mestamente il capo.

Era dunque perso per sempre, a quanto pareva. Anche per Alex.

Melinda le diede un buffetto su un braccio, sorridendole comprensiva prima di dirle: “Coraggio, ragazza. Si fa tardi.”

“Quando Morgan mi vedrà, neppure si ricorderà dell’orario” sentenziò Joy, scoppiando a ridere con tutti loro.

“Mi terrò pronto con il kit di primo soccorso, non si sa mai che qualcuno svenga per la tua troppa avvenenza” ghignò Alex, uscendo dalla stanza prima di richiamare all’ordine lo zio, perché andasse ad accendere l’auto per le damigelle.

Consuelo e Melinda sarebbero andate con la limousine bianca della sposa, mentre le altre ragazze sarebbero salite sulla Escalade guidata da Richard.

Nell’afferrare con mano ferma la cascata di gigli che componevano il suo bouquet, Joy sorrise a tutta la sua famiglia allargata ed esclamò: “Sono pronta.”
 
***

“Ci sono già passato. Non dovrei sentirmi così agitato. Perché lo sono, invece? Eh? Spiegami!” sbottò Morgan, passeggiando nervosamente su e giù per gli scalini dell’altare, dove il prete lo stava osservando con quieta simpatia.

Suo padre, in piedi accanto a lui e ingabbiato in uno smoking di Gucci che ne delineava il fisico ancora slanciato, gli sorrise comprensivo. “Forse è solo il luogo, che ti rende nervoso.”

“Nervoso? Dopo tutto…” cominciò col dire Morgan prima di tapparsi la bocca, prendere da parte il padre e mormorargli all’orecchio: “Maledizione, papà, ho visto, e sentito, parlare più dèi io di tutti i prelati di Cristo fin qui nati e cresciuti. Non dovrei avere paura di niente!”

Oliver ridacchiò, dandogli di gomito e replicando: “Non si impreca in chiesa, figliolo.”

“Sì, okay, lasciamo perdere” brontolò Morgan, chiedendogli subito dopo: “Il libro come va? Ultimamente, non ti ho più chiesto lumi.”

“Tutto benissimo” sorrise lieto Oliver, ripensando alla prossima pubblicazione di uno studio sul suo ritrovamento di un makara, e sulle successive conferenze.

Di lì a un anno, lo avrebbero visto protagonista assieme a Bharat Chandra in giro per il mondo.

“Ma non ti distrarre. Oggi è il vostro giorno.”

“Non me lo ricordare!” esalò disperato Morgan, mettendosi le mani nei capelli cortissimi, dal taglio militare.

Vedendo giungere Stephen di corsa lungo la navata, in tutto simile a un agente della CIA in quel completo scuro e gli occhiali da sole a goccia, Morgan impallidì leggermente.

Quando lo ebbe a tiro, lo afferrò per le braccia e gli chiese, gracchiando: “Arriva?”

“Dio, Morgan. Sei uno straccio! Calmati! Dopo tutto quello che avete passato, ti spaventa una comune cerimonia in chiesa?” ridacchiò Stephen, liberandosi dalla sua stretta per poi togliere gli occhiali da sole. “Arriva. Sta entrando adesso nel cortile.”

Morgan cercò istintivamente la mano di suo padre, che si affrettò a stringergliela con forza mentre le campane iniziavano a suonare a festa.

Gli invitati, già accomodati al loro posto, si alzarono per osservare l’ingresso della sposa.

Brian e Alex giunsero al fianco di Morgan, mentre lo scampanio sopra le loro teste dava il tempo al corteo della sposa fuori dalla chiesa.

Sorridendo loro a stento, lo sposo tornò subito dopo a controllare l’enorme portone aperto sull’esterno da cui, entro breve, sarebbe apparsa Joy.

Bianchi petali di rosa erano stati sparsi sul tappeto della navata centrale, mentre fiocchi di raso color crema e rosa antico adornavano i banchi della chiesa.

L’Ave Maria  di Schubert venne intonata dalla voce melodiosa della figlia del dottor Meson, non appena Joy mise il primo piede all’interno della casa di Dio.

Ritta accanto al pianoforte a coda, posizionato a fianco dell’altare, la ragazza accompagnò l’ingresso nella chiesa della sposa.

La sua chioma scarlatta, libera da veli, era in netto contrasto con il candore dell’abito niveo, protetto in parte alla vista dal sontuoso mantello che indossava.

All’esterno, un pallido sole perforò nel nubi, illuminando la coltre nevosa.

Alle spalle di Joy, la luce si fece così intensa e abbagliante che Morgan dovette strizzare gli occhi, per poterla osservare.

Gli sembrò che fluttuasse in quella luce ultraterrena, pur se sapeva che nulla di magico aveva creato quell’effetto da fiaba.

La voce flautata della cantante divenne solo un rumor bianco per Morgan che, perso in contemplazione della sua sposa, sorrise teneramente in risposta all’occhiata adorante di Joy.

Ella camminò nel rispetto del ritmo dolce e melodioso dell’Ave Maria, iniziando a percorrere la navata e calpestando i soffici petali di rosa disposti dinanzi a lei.

Dietro di lei, Aileen e le altre seguivano la sposa, nei loro abiti a balze color smeraldo, anch’esse indossando mantelli simili a Joy.

I garçon d’honneur – composti da Alex, Brian, Stephen, Chad e Nathan – attendevano al pari dello sposo, e del testimone di nozze, l’arrivo della splendida sposa.

Quando l’ultima nota si spense tra le alte arcate della chiesa, caduta nel più perfetto silenzio all’arrivo di Joy, la giovane mise infine piede sul primo gradino dell’altare.

Lì, Richard, presa la sua mano, la porse a Morgan con un sorriso, mormorando: “Rendila felice.”

“Lo farò” annuì emozionato Morgan, stringendo finalmente nella sua la mano di Joy.

In perfetto ordine, le damigelle e le matrone d’onore si sistemarono a fianco della sposa mentre la testimone, Aileen, si accostò a Joy, sussurrandole all’orecchio: “Vai alla grande, tesorino.”

Joy le strizzò l’occhio con fare complice e, infine, incrociò lo sguardo del suo unico, grande amore.

“Non vedevo l’ora di incontrarti, sai?”

“Anch’io” sentenziò Morgan, stringendo entrambe le sue mani mentre il prete dava inizio alla cerimonia.

Il sole scelse quel momento per inondare il rosone della chiesa con i suoi raggi, e una cascata multicolore di luce inondò i due sposi.

Entrambi sorrisero spontaneamente in direzione dell’enorme cerchio di luminescente splendore, da cui proveniva quel bagliore, sussurrando all’unisono: “Grazie.”
 
***

La testa ciondoloni contro lo schienale del sedile del pick-up di Morgan, Joy sbadigliò sonoramente, quando infine giunsero di fronte alla baita.

Da quel giorno in poi, avrebbero vissuto lì, per lo meno, fino a che il destino glielo avesse permesso.

Quando il giovane aprì la portiera per far scendere la moglie, ridacchiò nel sentirla mugugnare malamente.

Allungate le braccia per accoglierla accanto a sé, Morgan la sollevò di peso cercando, al tempo stesso, di non far crollare il lungo mantello a terra.

Lagnandosi del mal di piedi e del troppo bere, Joy lo fissò  malissimo, ma il marito non vi fecce per nulla caso.

Sogghignando divertito, le rammentò: “Nessuno ti ha detto di fare a gara di shottini con Aileen.”

“Non mi aveva detto di averci messo dentro anche del rum. Non lo reggo, il rum” brontolò Joy, divincolandosi mollemente tra le sue braccia, mentre Morgan chiudeva la portiera dell’auto con un calcio.

“Stai buona, mia signora, o capitomboleremo a terra come due sacchi di patate” la rimproverò bonariamente Morgan, cercando di infilare le scale che portavano alla veranda.

Neppure lui si sentiva molto stabile sulle gambe, ma non voleva cominciare quella loro prima notte assieme – dopo i mille guai passati – finendo al pronto soccorso.

Era stato divertente vedere Joy, e le sue amiche, iniziare quella gara a chi avrebbe retto meglio l’alcool.

Mai, però, si sarebbe aspettato di vedere Aileen ingollare così tanto liquore senza crollare a terra in trance, o scoprire Joy allergica agli effetti del rum.

Lui e Alex non erano stati da meno e, alla fine di una lunga serie di tequile, Susan era dovuta intervenire per bloccarli, onde evitare che metà di loro finissero in gastroenterologia per una lavanda gastrica.

Nel complesso, tra i balli sui tavoli offerti da Kelly e Margot, e i canti sfrenati – quanto stonati – del gruppo di pompieri presenti alla festa, tutto si era svolto nella più completa ilarità.

Joy, come promesso, aveva dispensato baci all’intera compagnia di Vigili del Fuoco tanto che Morgan, alla fine, aveva dovuto minacciare verbalmente alcuni suoi colleghi perché non tentassero di fare il bis.

Poco dopo la mezzanotte, quando tutti si erano infine diretti verso le rispettive case, o alberghi, Joy era crollata mezza addormentata su un divano, un sorriso sciocco dipinto sul volto.

A Morgan era occorsa mezz’ora buona, per convincerla a lasciarsi caricare in auto.

Aveva pensato lui a salutare in genitori, visto che la moglie era scivolata in un sonno leggero quanto riposante.

Ora, nel fare lentamente le scale, cercando di non caracollare all’indietro, Morgan sorrise nel vedere la neve cadere nuovamente dal cielo.

A quel punto, poteva nevicare fino alla fine dei tempi, per quanto gli importava.

Aveva Joy, il resto non contava.

Quando infine raggiunse la veranda, si sorprese non poco nel trovare della posta sullo zerbino di casa.

Era insolito, per non dire strano, che il postino gliela lasciasse proprio lì.

Inoltre, chi mai era al lavoro, la Vigilia di Natale, a parte medici e pompieri?

Lasciando scivolare la moglie con i piedi a terra, pur tenendola saldamente alla vita con un braccio, Morgan aprì la porta, recuperò le buste e infine si infilò in casa.

“Siamo arrivati, piccola.”

“Voglio spogliarmi e fare l’amore con te” borbottò lei, crollando con il capo contro la sua spalla.

Morgan scoppiò a ridere nel poggiare la posta sul tavolino d’ingresso e, dopo aver dato un giro di chiave al battente, riprese tra le braccia la moglie e commentò: “Non riuscirai a rimanere sveglia, dopo aver appoggiato la testa sul cuscino. Sai, non pensavo che una Fenice non reggesse l’alcool.”

“Lo reggo! Ma detesto il rum!” mugugnò la moglie, con la stessa lucidità che hanno gli ubriachi.

Salendo le scale che conducevano al piano superiore, Morgan depositò senza fretta la moglie sul letto, le tirò via con calma le scarpe e passò a slacciarle l’abito.

Dimenandosi senza forze sul copriletto colorato, Joy mormorò nel contempo imprecazioni a questa o a quella marca di produttori di rum.

Quando infine fu in sottoveste, Morgan scostò le coperte, ve la infilò sotto con gentilezza e, con un bacio, spense la luce dicendo: “Buonanotte, mia Benu.”

“’notte, Morgan” sussurrò lei, con un dolce sorriso.

Neppure un secondo dopo, dormiva già.

Con un risolino, Morgan si spogliò al buio e si infilò sotto le coperte a sua volta, avvolgendola con un braccio e baciandole l’incavo del collo.

Nessuno li avrebbe più separati, da quel momento in poi, e lui avrebbe passato la vita, l’intera sua vita a farle dimenticare il dolore per la perdita di Rah.

Fin quando avesse avuto aria nei polmoni, lui l’avrebbe amata.

Con tutto il suo cuore, poi, avrebbe pregato che, nei molti secoli in cui lei avrebbe dovuto vivere senza di lui, Joy ricordasse quanto l’aveva amata e desiderata.
 
***

Aveva lasciato le imposte aperte, per caso?

Stropicciandosi gli occhi con fare insonnolito, Morgan si tirò le coperte fino al mento, infreddolito.

Un attimo dopo, però, lanciò un urlo improvviso quanto angosciato quando, di colpo, il piede gelido di Joy andò a cozzare contro il suo polpaccio nudo.

Sobbalzando nel letto, Morgan la fissò terrorizzato per qualche secondo, temendo assurdamente di trovarla morta al suo fianco.

Lei brontolò subito per essere stata svegliata in malo modo e, fissandolo con occhi vagamente irritati, gli domandò con un mugugno: “Ma che succede?”

“Joy… sei… sei fredda!” esclamò Morgan, afferrandole in fretta una mano.

Era un blocchetto di ghiaccio.

“Cosa?!” esclamò a sua volta, sgranando gli occhi e balzando a sedere sul letto.

Allungando le braccia fuori dalla coltre di coperte, Joy rabbrividì istintivamente ma, quando tentò di riscaldarsi, nulla avvenne al riguardo.

Sempre più spaventata, scivolò fuori di corsa dalle lenzuola solo per crollare a terra, inciampando nei suoi stessi piedi.

Morgan fu lesto a raggiungerla e, aiutatala  a rialzarsi, afferrò il mantello del suo abito da sposa per drappeggiarglielo sulle spalle.

Con dita nervose, poi, aprì uno dei cassetti del comodino per trovarle un paio di calzettoni perché li indossasse.

Rabbrividendo per il freddo, Joy infilò di volata le braccia nelle maniche morbide del mantello, sentendosi subito meglio.

Dalle mani di Morgan afferrò le calze di lana, le mise con gesti febbrili delle dita e infine esalò sconvolta: “Ma cosa mi sta succedendo?”

“A me lo chiedi?!” gracchiò lui, gli occhi sgranati per la paura e l’ansia.

Un bruciore fulmineo la perforò sul fianco, prima di svanire come era venuto e Joy, sobbalzando per quel dolore inaspettato quanto assurdo, si affrettò a sollevare la sottoveste.

Lanciò subito dopo uno strillo disumano, quando si rese conto che la voglia a forma di disco solare era del tutto scomparsa.

Eclissata.

Morgan sbiancò a quella vista e, sempre più preoccupato, afferrò Joy alle spalle, solo per sentirla lamentarsi per il male che lui le stava facendo.

Allentando immediatamente la presa su di lei, Morgan le propose ansioso: “Prova a sollevarmi.”

Lei annuì, pur sentendosi alla stregua di un pulcino bagnato, in quel momento.

Quando tentò di fare forza sul corpo statuario del marito, nulla riuscì a fare, se non aumentare ancora di più la propria frustrazione, e quella di Morgan.

“Maledizione, che succede?!” ringhiò al cielo Joy, prima di sentire lo squillo del telefono, dabbasso.

Infilate le ciabatte, che teneva ai piedi del letto, Joy si riversò nel corridoio, solo per rendersi conto che il suo proverbiale equilibrio era andato a farsi benedire.

I residui di sonno, combinati con la sbronza della sera prima, le impedirono di mantenersi salda sui piedi.

Finì, così, con l’urtare contro la parete opposta a quella della porta della camera da letto, producendo un sordo tonfo, seguito subito dopo da una sua colorita imprecazione.

Morgan la strinse allora alla vita e, preoccupato, le disse: “Movimenti tranquilli, Joy. Proviamo a comportarci da umani, okay? Poi, vediamo che succede.”

“Va bene” mormorò lei, riprendendo a camminare normalmente.

In effetti, se non esagerava, la sua andatura non aveva pecche di alcun genere, l’importante era non esagerare.

Perché, però?

Quando infine raggiunse il cordless, Joy non fu del tutto sorpresa dal notare il numero del cellulare di Alex.

Fuori di sé dalla paura, il cugino esalò sconvolto: “Dio santo, Joy, meno male, sei tu! Avevo il terrore che ti fosse successo qualcosa!”

“Il tuo disco solare è scomparso, giusto?” gli domandò Joy, aggrottando la fronte.

“Come lo sai?” mormorò sorpreso il giovane.

“E’ svanito nel nulla anche il mio oltre, a quanto pare, ai miei poteri” riuscì ad ammettere Joy, sorprendendo non solo Alex, ma anche Morgan.

“CHE COSA?!” urlò Alex, cercando suo malgrado di recuperare una parvenza di calma.

In sottofondo, Joy udì la voce di Susan, che tentava di chetarne le paure.

“Ci sto lavorando ancora su, Alex. Ti farò sapere non appena avrò capito qualcosa di tutta questa faccenda” gli promise lei prima di riappendere, guardare spaventata il marito ed esalare: “Cosa mi succederà?”

“Se non cerchi di fare cose soprannaturali, come ti senti?” si informò subito lui, sedendosi sul bordo di una poltrona per scrutarla con attenzione.

Joy ci pensò su un momento, prima di dire: “Mi sento insonnolita, ho freddo e ho i piedi distrutti dal male.”

“Normale amministrazione, per un umano” scrollò le spalle Morgan. “Altro?”

“Mal di testa” sospirò lei, nervosa.

“Hai bevuto come una spugna, ieri.”

Nel dirlo, ridacchiò. “Anche questo è normale, per un essere umano.”

Sempre più preoccupata, Joy guardò Monet, accoccolato sul suo trespolo e con la testa nascosta sotto un’ala.

Non l’aveva salutata come suo solito, al solo apparire. Come mai?

Dubbiosa, lo chiamò.

“Monet?”

Sentendosi interpellare, il cacatua levò il capo dalla cresta giallo limone e gracchiò felice: “Mooor-gan! Joooo-y!”

Sgranando gli occhi al pari della moglie, Morgan corse dal suo cacatua e, dopo averlo estratto dalla gabbia, lo portò di fronte a Joy.

Con un sorriso teso quanto angosciato, gli domandò: “Andiamo, bello mio, chi è lei?”

“Jooo-y!” gracchiò tutto contento l’uccello, sbattendo le ali.

Joy e Morgan si fissarono vicendevolmente, il panico ben dipinto negli occhi.

Il giovane, allora, chiese a Monet se non vedesse Benu nella stanza.

Sobbalzarono entrambi sconvolti, quando il cacatua si involò in direzione di una delle imposte chiuse e gracchiò infelice: “Beee-nu! Beee-nu!”

“Oh, mio Dio” esalò Joy, accorrendo alla finestra e aprendola in gran fretta.

L’aria gelida del mattino la investì con tutta la sua forza, assieme a pallidi raggi di sole e al sentore della neve fresca… e di un prepotente profumo di cannella e spezie esotiche!

“Morgan!” gridò Joy, indirizzando un dito verso la vicina foresta. “Dimmi che lo senti anche tu!”

Morgan si affacciò a sua volta alla finestra, inspirando a pieni polmoni l’aria della mattina, prima di impallidire al pari della moglie e annuire nervosamente.

Non poteva sbagliarsi, eppure era del tutto assurdo che lui potesse sentire un profumo del genere, nel bel mezzo di una foresta dell’Oregon.

A meno che, ovviamente…

Affrettandosi ad allontanarsi dalla finestra, Joy corse in direzione del ripostiglio dove tenevano le scarpe.

Dopo aver afferrato i suoi stivali di gomma, li infilò frettolosamente subito imitata da Morgan che, accigliato, le chiese: “E’ chi penso io?”

“Non possono esserci altre spiegazioni. E questo mi darebbe le risposte che cercavo” ammise lei, correndo alla porta d’entrata e spalancandola di colpo.

“Che genere di risposte?” le domandò Morgan, scendendo le scale a due a due tenendola per mano.

Dirigendosi a grandi passi nel bosco, stringendosi addosso il mantello candido, Joy gli spiegò del sogno avuto durante la sua malattia, e delle parole di commiato di  Rah.

“Se quel che penso è vero, mio fratello divenne umano per amore, e si prese cura di me fino alla sua morte, insegnandomi tutto ciò che sapeva, e che io dovevo sapere sull’essere una Benu” terminò di dire Joy, sorridendo con aria quasi folle.

“Sicura di sentirti bene, piccola?” le chiese lui, preoccupato dalla sua reazione.

Bloccandosi un momento, Joy lo afferrò per le braccia e, con un sorriso che sapeva di soddisfazione assoluta e di gioia a stento trattenuta, la giovane esclamò: “Ma non capisci? Vivremo come due persone normali! Invecchieremo insieme! Non dovrò vivere per sempre con il ricordo del tuo amore per me, e del mio amore per te! Sarò per te come una qualsiasi moglie, non come un fenomeno da baraccone da tenere nascosto.”

“Questo non lo saresti mai stato, per me” replicò il marito, stringendola in un abbraccio. “Ma sei sicura che ti stia bene perdere… beh, la tua divinità?”

“Per te? Questo e altro!” sorrise lei, prima di riprendere la via del bosco e dire: “Dovrebbe essere da queste parti. Il profumo si fa più intenso.”

Morgan le strinse la mano e, sorridendole, le chiese: “Lo terremo con noi?”

“Se tu vorrai, sì” annuì lei, felice.

“Il nostro primo figlio” mormorò il giovane, stringendosela al fianco e baciandole la fronte con amore.

“Forse, l’unico. Non so se, con la perdita della mia divinità, ho acquisito la possibilità di procreare” sospirò tremula lei, fissandolo spiacente.

“Sarà quel che sarà. Ora, vediamo di trovare tua sorella, o tuo fratello. Non credo che gradirà trovarsi in mezzo a tutta questa neve” le strizzò l’occhio lui, cominciando a guardarsi intorno con attenzione.

“E’ una creatura di fuoco. Saprà come difendersi” gli replicò lei, divertita, prima di esclamare: “Laggiù, Morgan. Guarda!”

Avvolto in un baccello di rami intrecciati finemente, un piccolo bambino dalla pelle candida, e chiari ciuffi di capelli biondo ramati, sgambettò felice nel vederli.

Raccoltolo con attenzione, Joy lo avvolse strettamente tra le braccia, sentendo le lacrime bagnarle le gote rosse per il freddo.

Morgan li strinse entrambi nel suo caldo abbraccio e, con voce resa roca dall’emozione, sussurrò al bimbo dai lineamenti perfetti: “Benvenuto tra noi, piccolo Benu.”

Chinandosi a baciarlo sulla fronte calda e liscia come seta, Joy sussurrò straziata dal dolore e dalla gioia assieme: “Benvenuto, fratello mio.”

Il bambino trillò felice, mentre un nugolo di uccellini cinguettò in risposta, involandosi dagli alberi vicini per danzare nell’aria e, infine, scivolare verso il centro del bosco.

“Credo sia meglio portarlo al caldo, che dici?” sorrise Joy.

“Direi di sì” annuì il marito, prima di bloccarsi a metà di un passo, distruggere a suon di calci il nido del piccolo Benu e chiosare ironico: “Non si sa mai.”

Joy rise e, assieme a lui, rientrò lentamente verso casa, i passi tranquilli e pacifici.

Fu in vista della baita, che Morgan si bloccò, scoppiando a ridere.

Incuriosita, Joy gli domandò: “Beh, che c’è?”

“Pare sia una cosa di famiglia, trovare i figli nel bosco…” ironizzò Morgan, dandole un bacio sulla fronte.

“Già. Proprio una cosa di famiglia” annuì Joy, sollevando un momento il bambino che teneva tra le braccia, per ammirarlo in tutto il suo splendore. “Mi prenderò cura di te, fratello mio. Ti insegnerò tutto quello che c’è da sapere, e ti farò dono del tesoro più grande, che tu dovrai per sempre portare nel cuore. Il miracolo dell’amore.”

“Sono sicuro che sarai per lui una madre perfetta” sentenziò Morgan, lanciando uno sguardo verso la baita per poi asserire divertito: “Dovrò mettermi d’impegno per costruire la stanza del bambino. Spero solo di non schiacciarmi un dito con il martello, nel farlo.”

Joy, a quel punto, spalancò gli occhi e, senza alcuna spiegazione, tentò di dare un pizzicotto a Morgan. Nulla.

Subito sorpreso, il marito e la moglie si fissarono con un caldo sorriso a illuminare i loro volti e Joy, ammiccando, celiò: “Beh, se non altro, i doni sono rimasti.”

“Buono a sapersi” ridacchiò Morgan, avvolgendole le spalle. “Coraggio, signora mia, andiamo a metterci al lavoro!”

“Domani. Domani lo faremo insieme. Oggi, voglio godermi il piccolo Benu… e te. La mia famiglia” sussurrò Joy, lasciando che il sole li accogliesse alla loro uscita dal bosco.

 
 
 



N.d.A: Non scappate. Non è finita qui! ;-)
 
_______________________
1 Sol: (Divinità nordica) rappresenta il sole.
2 Sköll: (Divinità nordica) è uno dei lupi che darà il via al Crepuscolo degli dèi.
3 Ragnarök: Crepuscolo degli dèi. Apocalisse della mitologia nordica.
4 Makara: Creatura mitologica del pantheon induista. Si pensa fosse un incrocio tra un coccodrillo e un delfino di fiume.

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Capitolo 37
*** Epilogo. ***


 
 
 
Epilogo.
 
 
 
 
Settembre 2009.
 

“Perdonami per i lunghi silenzi, e per le bugie che, per tanto tempo, ho dovuto raccontarti, pur non volendo.

Il mio ruolo, il mio nome, me lo imponevano.

Ma mai, in tutte le esistenze di questo Cosmo senza tempo, io ti ho voluto ferire.

L’energia primigenia, da cui tutti noi siamo nati, mi è testimone, mia Benu.

Il mio amore per te è stato sincero, quanto incontaminato.

Solo, alcune cose dovevano rimanere segrete, anche a te.

Come avrebbe dovuto rimanere segreto il prezzo da pagare per le tue scelte.

Come penso avrai compreso, un’Araba Fenice perde i suoi poteri, scegliendo l’amore.

Consente la nascita di una nuova dinastia, ed ella dovrà farsi carico di allevare questo nuovo virgulto.

Questo accadde a tuo fratello.

Si innamorò di una donna di straordinario carattere, e decise di amare lei e lei sola.

Il Cosmo, allora, riequilibrò le sue forze e nascesti tu, mia dolce Benu.

Maschio e femmina. Femmina e maschio.

Da sempre, le rinascite si alternano, e così sarà fino alla fine dei tempi.

 Proteggi e ama tuo fratello, crescilo nella consapevolezza di essere ciò che è, una creatura di immane forza e di inestimabile valore.

Porta con te il mio amore, e riversalo su di lui.

Sarò il suo mentore e maestro, quando vorrà cercarmi, e così lo saranno le altre divinità legate al sole, di cui lui è e sarà il lungo braccio.

Saremo sempre qui per lui, se e quando lui avrà bisogno di noi.

E tu sarai per sempre nei miei pensieri, mia Benu, mia gioia.”

 
Reclinando il foglio che teneva tra le mani, Morgan sorrise dolcemente a Joy che, stanca e dolorante ma infinitamente soddisfatta, commentò con voce strascicata: “Beh, ci ha sempre saputo fare con le parole.”

“Niente da dire” ammise Morgan, rimettendo al suo posto la lettera che, per più di tre anni, Joy si era rifiutata di leggere.

Tornati a casa con il piccolo Benu, Morgan aveva dato un’occhiata alla posta che, tanto misteriosamente, era stata portata sull’entrata di casa, la notte prima.

Non appena il suo sguardo era caduto sulla busta vergata a mano, e indirizzata a Joy, lui gliel’aveva consegnata con una muta domanda nello sguardo.

Nel riconoscere la grafia del mittente, la giovane aveva pianto lacrime amare e si era rifiutata di scoprire cosa vi fosse contenuto al suo interno, lasciando che quella lettera finisse nel dimenticatoio per molto tempo.

Almeno, fino a quel giorno.

Benjamin Richard Thomson, seduto accanto alla madre sul grande letto dove ella stava riposando, fissò confusamente il padre e domandò con la sua vocina trillante: “Chi è che ccrive?”

“Un amico, Ben. Un grande amico di mamma” gli sorrise Morgan, scompigliandogli i morbidi riccioli biondo-ramati, la copia identica di quelli della madre adottiva.

E sorella.

Ben allora sorrise contento, illuminando i suoi occhi di smeraldo e, quando vide un’infermiera entrare con un fagotto tra le mani, rise felice ed esclamò: “Sorellina! Sorellina!”

“Esatto, piccolino. La tua sorellina è tornata, ed è tutta pulita e pronta per la poppata” rispose allegramente la donna, consegnando la piccola tra le braccia di Joy.

La pelle diafana e rosata come una pesca, Sunshine Consuelo Thomson emise quel che voleva essere uno sbadiglio.

Con i pugnetti ben stretti, picchiettò il visino grinzoso contro i seni della madre, prima di lanciare un grido inferocito che fece ridere tutti.

“Pare abbia fame” dichiarò Joy, scostando i lembi della camicia da notte per attaccare la figlia al seno.

Subito, la bimba iniziò a succhiare vorace e Ben, fissandola a occhi sgranati mentre mangiava avidamente, chiese alla mamma con il dubbio negli occhi: “Fa male?”

“No, piccolo mio. E’ come un pizzicore, nulla più” sorrise lei, mentre Morgan si accomodava sul lato libero del letto per osservarli con sguardo rapito.

Una lacrima ribelle gli scivolò sul viso, subito cancellata dal passaggio leggero di una mano e, con voce a stento controllata, mormorò: “E’ molto di più di quanto avrei potuto desiderare.”

“Sei triste, papà?” chiese allora Ben, inclinando il capo e fissando curiosamente gli occhi lucidi del padre.

“No, Ben. Tutt’altro. Nessun uomo al mondo potrebbe essere più felice di me, perché ho potuto strappare al firmamento una stella, e tenerla stretta a me per amarla ogni giorno della mia vita”  spiegò Morgan, sorridendogli generosamente.

Ben, a quelle parole, strinse in un abbraccio una delle braccia della madre ed esclamò: “La mamma è una stella!”

“Sì, la Stella del Mattino. Esattamente come te, mio piccolo Benu” sussurrò Morgan, levandosi in piedi per baciare il primogenito sulla fronte. “Le mie due stelle.”

“Anche Sunshine è una stella?” domandò Ben, sorridendo felice al padre.

“Sì, Ben, anche lei.”

Ben allora contò sulle dita di una mano, aggrottando la fronte nel concentrarsi, prima di sentenziare: “Hai tre stelle. Cosa vuol dire?”

“Che sono un uomo molto, molto fortunato” ridacchiò Morgan, tornando a sedersi.

“E felice?” chiese ancora Ben, tutto sorrisi e allegria.

In lontananza, la voce di Brian e dei fratelli si fece largo nel corridoio, annunciando il loro arrivo alla famigliola.

Morgan fissò la porta con un sorriso e, quando Alex fece il suo ingresso per primo, un enorme mazzo di fiori in una mano e la gioia dipinta sul suo volto solare, mormorò: “Sì. Fortunato e felice.”

 
 
 
FINE

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N.d.A.: spero che le vicende di Joy e Morgan vi abbiano appassionato e, soprattutto, spero di non avervi annoiati. Grazie a tutti per la vostra attenzione, i vostri commenti e il vostro sostegno. Sono stati importantissimi!

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