We're all lost

di RubyChubb
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 4: *** 4 ***
Capitolo 5: *** 5 ***
Capitolo 6: *** 6 ***



Capitolo 1
*** 1 ***


1 Guardavo l’orologio. Lo guardavo di nuovo, e ancora, e ancora e ancora… mi sistemai di nuovo le cuffie dell’i-pod nelle orecchie, sperando che rimanessero per cinque secondi ferme al loro posto e premetti il pulsante ‘forward’ per ascoltare la canzone successiva.
La fila era lunga e ancora avevo una decina di persone davanti a me, con i loro carrelli pieni di valige, con i loro figli strepitanti e piangenti, con le loro discussioni inutili su come avrebbero passato quei pochi giorni di vacanza… alzai il volume e mi concentrai su un’altra canzone…
Mi stupii di quello che sentivo, non avevo mai pensato che mio fratello poteva conoscere gli Helloween. Cercando di ricordarmi le parole di ‘If I could fly’, trascinai il mio trolley in avanti, dato che la fila era scorsa senza che io me ne accorgessi.
Preparai biglietto e carta di identità per mostrarli alla hostess: odiavo il check-in con tutto il cuore, non vedevo mai l’ora che finisse.
“Buongiorno.”, mi disse la donna, apaticamente.
“Buongiorno a lei.”, risposi io, mentre mi sforzavo di mettere la mia valigia sul nastro scorrevole.
“Vediamo un po’… altri cento grammi e avrebbe dovuto pagare la tassa.”, disse lei, con una voce atonale.
“Meno male.”
“Ha qualche preferenza per il posto?”
“Il più lontano possibile dall’ala.” dissi io, prendendo il mio biglietto e il mio documento.
Mi sistemai la borsa a tracollo sulla spalla e andai verso la sala di attesa. Ancora un’ora e mezza alla partenza… già avevo le mani che sudavano freddo.


Non riuscivo mai a spiegarmi perché mi volevo convincere di non aver paura dell’aereo, quando poi facevo impazzire le hostess per tutta la durata del viaggio. Giocavo nervosamente con le mie dita, le accavallavo, toglievo le pellicine dalle unghie, mi mordevo il labbro… Andai diverse volte a lavarmi le mani nel bagno, sperando che il getto di acqua fredda bloccasse la mia tipica sudorazione da stress.
Tornai a sedere e vidi che il mio sportello era aperto e che qualche viaggiatore si era già messo in coda per montare sull’aereo.
“Ci siamo…”, dissi a me stessa. Infilai la borsa a tracolla e mi mossi verso la hostess che, con un sorriso a cinquanta denti, mi augurò un buon viaggio.
“Lo spero per lei.”, borbottai.
“Come?”, mi chiese lei, percependo qualcosa.
“Dicevo grazie mille.”
“Ah…”, fece l’altra, poco convinta.
Mentre camminavo sulla pista seguendo le indicazioni di un ragazzo che continuava a sbracciarsi come un dannato per farmi capire di sbrigarmi, un uomo, correndo, mi urtò la spalla da dietro, facendomi cadere in avanti.
“Ehi! Siamo Sidney, non a Indianapolis!”, gli imprecai contro, con un gesto molto eloquente.
Il ragazzo con la giacca arancione ed i catarifrangenti sui pantaloni mi aiutò ad alzarmi e si scusò per quell’uomo, così sgarbato che non si era nemmeno voltato per vedere se stavo bene. Era montato sull’aereo e via, era sparito nella prima classe.
Mi sistemai al mio posto. Dannazione! Ancora una volta accanto all’ala! Quell’hostess al check in non aveva capito un cazzo di quello che le avevo detto!
“Signorina! Signorina!”, sbraitai, già in preda al panico.
“Si? Un attimo!”, fece una delle hostess, interrompendo le sue mansioni per soccorrermi.
“La sua collega al check dovrebbe farsi visitare da un otorino perché non ha capito una mazza di quello che le ho detto. E’ possibile barattare il mio cavolo di posto accanto all’ala con un altro?”
“Non penso ci siano problemi, ma deve attendere che l’aereo sia decollato.”
“Perché? Io voglio cambiarlo adesso! Non voglio stare accanto all’ala!”, dissi, alzando molto il tono della voce.
“La prego, si calmi.”, mi disse lei, appoggiandomi le mani sulle spalle. “Potrà cambiare posto solo quando l’aereo avrà lasciato la terraferma.”
Mi sedetti sbuffando e più agitata di quanto già non fossi. I miei occhi non potevano staccarsi dall’ala… continuavo a pensare che del fumo uscisse dal motore…
Mi rovistai tra le tasche, in cerca delle pillole che il mio dottore mi prescriveva ogni volta che dovevo prendere l’aereo. Ne inghiottii una e attesi che facesse effetto.
Venti ore su quel cazzo di aereo… l’ala che fumava…


“AAAAAHHHHHH! AIUTO!”, gridai, con tutta l’aria che avevo nei polmoni.
Una hostess corse verso di me, mentre io continuavo a urlare come una pazza.
“Signorina! Signorina! Era solo un sogno! La prego! Smetta di urlare! Ci sono dei bambini!”, continuava a dirmi.
Quando alla fine mi resi conto di aver fatto l’incubo peggiore della mia vita, tirai un grosso sospiro e appoggiai la testa allo schienale.
“Vuole un po’ d’acqua?”
“Si… grazie…”, risposi. Mi asciugai la fronte con la manica della mia felpa e mi rilassai. Già avevo completamente dimenticato il sogno… poi, un brivido freddo mi corse lungo tutta la schiena, lentamente, facendomi trasalire. Mi voltai a destra e vidi l’ala… ancora intatta.
“Ecco.”, fece l’hostess, porgendomi un bicchiere d’acqua ed un tovagliolo.
Lo bevvi tutto di un fiato, poi mi alzai per andare verso il bagno a darmi una sistemata. Mi ero addormentata subito prima della partenza e ancora avevo indosso il piumino. Avevo un caldo terribile e, nella stretta cabina del bagno, cercai di togliermi almeno la felpa.
Quando tornai al mio posto, l’ala era sempre lì, a compiere il suo dovere in volo. Chiamai per l’ennesima volta la hostess e le rinnovai la richiesta di cambio di posto.
“Guardi… non si potrebbe ma, visto che la prima classe è quasi completamente vuota, può sedersi lì.”
La gente, invidiosa del privilegio a me riservato, mi guardava con un occhio un po’ storto.
“Allora voglio anche io andare in prima classe!”, protestò uno dei miei ex vicini di poltroncina.
La hostess si aspettava un ammutinamento ma, evidentemente, non sapeva con quale scusa zittire quel rompiscatole. Al che, mi feci avanti io.
“Vuole sentirmi ancora urlare mentre sogno che questo cavolo di aereo precipita?”, gli sbottai.
L’uomo tornò scocciato a leggere il suo giornale economico e io, soddisfatta, andai verso la prima classe, portandomi appresso la hostess che si era presa la briga di trasportare il mio bagaglio a mano. Questi cavolo di americani erano proprio degli insensibili, pensai ridendo…


Solo tre persone erano sedute in prima classe e, tra queste, riconobbi quel bastardo che mi aveva fatto cadere. Scelsi un posto lontano dal finestrino e mi godetti la comodità di quelle poltroncine… anzi, divani, ci si poteva sedere in tre, tutti insieme, al solito posto.
Presi la mascherina che davano in dotazione e me la misi sugli occhi, premetti il pulsante e la mia poltrona divenne un comodo letto. Chiusi gli occhi e pregai di addormentarmi al più presto.
Il campanello di servizio suonò, era l’ora del pranzo. Sperai che in prima classe mi toccasse qualcosa di meglio della sbobba che davano in turistica. Invece niente, la solita solfa.
La mia specialità, in aereo, erano i panini imbottiti di burro: barattai cotoletta per il pane ed il burro del signore che mi aveva gentilmente sbattuta a terra e, mentre me li passava, sperai che tutto il cibo gli andasse di traverso, così, per vendicarmi.
Mentre preparavo i miei panini, sentii una conosciutissima imprecazione in inglese, provenire da qualche sedile più avanti. Divertita, continuai a spalmare il mio burro: qualcuno doveva aver trovato una brutta sorpresa nella sua cotoletta…
La hostess corse a soccorrere il viaggiatore scontento e tesi un orecchio per sentire che cosa si stavano per dire.
“Cosa cazzo ci date da mangiare? Volete avvelenarci?”, disse il passeggero
“Mi dispiace, signore… vuole qualcos’altro?”, rispose la donna, in perfetto inglese.
“No, grazie. Preferisco morire di fame.”, rispose lui, alzandosi per andare verso il bagno.
Mi passò accanto così velocemente che riuscì a spettinarmi. Pensai che, dopo tutto, anche lui aveva il diritto a mangiare qualcosa e lascia i miei due ultimi panini per lui. Ritornò al suo posto molto più tranquillo e mi lanciai verso di lui. Il mio inglese non era perfetto, ma avevo passato molte vacanze dai miei zii in Australia e me la cavavo piuttosto bene: adesso, che venivo via da Sidney dopo aver passato un mese nella nuova casa di mio cugino, non vedevo l’ora di tornare a casa, nella mia cara Italia. Ma non vi sarei rimasta per molto, perché avrei quasi subito rimboccato la strada verso l’Australia.
“Ciao.”, gli dissi, sedendomi accanto a lui e porgendogli il panino farcito di burro su un fazzoletto di carta.
“Ciao…”, rispose lui, molto disinteressato e scocciato.
“So che non mi hai mai visto in vita tua, ma questo panino non è avvelenato ed è la migliore cosa che si possa ricavare con quello che ci danno sugli aerei.”
“Grazie, non ho fame.”, fece lui, sistemandosi la mascherina sugli occhi.
“Eppure sono buoni…”, dissi io, dando un morso ad uno dei due panini, “Sai, sono quasi sicura che il burro che ci danno sia un ricavato del petrolio.”
Lui non rispose.
“Però è l’unica cosa che non mi fa star male una volta a terra…”
“Senti, ti dispiace lasciarmi in pace?”, sbottò il ragazzo, togliendosi la mascherina dagli occhi.
“Ma siete tutti psicopatici su questo aereo?”, protestai, tornandomene a posto.
A fare del bene…


Il comandante ci informò delle condizioni temporali al di fuori dell’abitacolo e ci augurò per l’ennesima volta un buon viaggio; per assicurarmi che lo divenatasse, presi una doppia razione di calmanti. Nel torpore chimico in cui mi trovavo, sentivo due persone che discutevano dicendosi parole che non riconoscevo…
Uno scossone improvviso mi fece aprire gli occhi ma le palpebre erano così pesanti che si richiusero subito: un senso di angoscia innaturale mi prese e iniziai a respirare affannosamente, il classico attacco di ansia che mi prendeva nei casi di panico pesante.
Una spia sonora intermittente mi entrò nelle orecchie ma io non avevo la forza di reagire. Ma che calmanti mi aveva prescritto quell’imbecille? Ah, già… adesso mi ricordavo… stavolta mi aveva dato dei veri e propri sonniferi… ecco perché prima mi ero addormentata prima.
Non riuscivo a vedere niente, ma sentivo qualcuno correre per il corridoio. Poi la voce del capitano: ci ordinava di allacciarci le cinture perché la turbolenza era molto forte. Presi con un grande sforzo i lati della cintura, ma le mie dita erano così molli che non riuscivo ad agganciare la chiusura.
Mentre cercavo con ogni volontà di non farmi sopraffare dal sonnifero, qualcuno mi agganciò la cintura e mi infilò qualcosa sulla faccia. Cos’era…. Forse una maschera?
La medicina fece il suo effetto e mi addormentai.


“Avanti! Svegliala! Svegliala!”
“Non ci riesco… Ma non è svenuta… sta dormendo…”
“Allora vedi di svegliarla, non è proprio il caso di dormire!”
“Signorina… signorina…”,
Sentivo una voce ovattata che entrava delicatamente nel mio cervello, ancora sotto l’effetto di quella droga legale. Non mi sentivo ancora le gambe e le braccia, come ogni volta che mi svegliavo quando ero ancora intontita dai sonniferi. Quando quella voce si fece più chiara, riconobbi in sottofondo dei rumori strani… mi sembrava di sentire un pianto, poi un rumore metallico raccapricciante, come quelli che si sentivano nei film horror che tanto mi piacevano.
Biascicai qualcosa che, evidentemente, risultò incomprensibile per quella persona che aveva tanto a cuore il fatto di svegliarmi.
“Signorina… si svegli… la prego!”, mi diceva. Mi resi conto che mi parlava in inglese e io, che mi ero espressa in italiano, lo stavo mettendo in difficoltà.
“Cosa… c’è…”, dissi, con un filo di voce, ma in inglese.
“Cerchi di svegliarsi… almeno di mettersi seduta…”
“Ci provo… ma ho preso… sonniferi…”
“Deve farcela. Adesso la lascio un attimo, non faccia brutti scherzi.”
E che cosa avrei dovuto fare? Feci uno sforzo immane solo per riuscire a ritrovare il controllo delle mani. Appena mi ripresi, mi accorsi subito di trovarmi distesa su qualcosa di umido e bagnaticcio. Quando collegai il cervello ai miei piedi, li sentii totalmente zuppi d’acqua. Un odore salmastro entrò prepotentemente nelle mie narici… ma come era possibile sentire l’odore e, soprattutto, il rumore del mare, in aereo?
Facendo leva sui gomiti, mi misi faticosamente seduta e, quando i miei occhi smisero di piangere per la forte luce, vidi una grande distesa di acqua e di onde.
Il sonnifero prese di nuovo il sopravvento su di me e mi accasciai di nuovo a terra.

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Capitolo 2
*** 2 ***


1 Mi svegliò un rumore particolare, uno crepito, uno scricchiolio, come quando il fuoco bruciava la legna secca e tutto iniziava a scoppiettare nel camino.
Mi voltai dall’altra parte, sperando di sognare quel bel ragazzo alto e biondo che avevo conosciuto qualche sera prima di partire via da Sidney per tornarmene a casa. Si chiamava Billy… o Bobby… non mi ricordavo molto bene.
Sbadigliai e mi risistemai la coperta addosso… ancora quella sensazione fredda di pericolo mi prese dal fondo della schiena e percorse tutta la spina fino al collo. Aprii gli occhi e vidi che mi trovavo su una spiaggia, in piena notte. Sattai seduta, alzando un cumulo di sabbia che mi entrò dritto negli occhi.
Un uomo mi disse qualcosa, scotendomi per le spalle.
“Non vedo niente, mi fanno male gli occhi!”
“Signorina, non la capisco. Parla inglese?…”, rispose lui.
“Maledetto sogno!”, esclamai, allora, in inglese.
“Questo… non è un sogno, è la realtà. Prenda quest’acqua e si sciacqui gli occhi. Si prepari, quello che vedrà non le piacerà affatto.”


Seduta sul bagnasciuga, guardavo la desolazione intorno a me. Una delle turbine emetteva ancora del fumo, le lamiere della carlinga erano sparse per tutta la spiaggia. Era notte fonda, ma la luna piena illuminava tutto a giorno.
Dove ero? In un isola del Pacifico? Sulla terraferma? Ma ero veramente viva?
Non lo sapevo, nessuno degli altri sopravvissuti sembrava avere le risposte. Mentre l’incidente era successo, io dormivo, non mi ricordavo proprio niente. Eppure, mi ero salvata. Forse perché ero in prima classe? Cercai tra le facce addormentate alcuni dei miei vicini di poltrona in turistica, ma non erano lì intorno a me. Forse erano morti.
“Allora, come ti chiami?”, mi disse qualcuno che si era seduto accanto a me.
“Mi chiamo…”, feci, esitando. Per qualche secondo rimasi in silenzio, non riuscivo a parlare.
“Ti hanno mangiato la lingua?”
“Mi chiamo Deidra.”, dissi, sforzandomi.
“Sei sicura?”
“Ho qualche dubbio.”, risposi, riprendendo un po’ di quella forza d’animo che era tipica di me, anche nei momenti più duri della mia vita. L’altro rise, ma fu una risata amara. “Tu come ti chiami?”
“Sayid.”
Lo guardai meglio: era di carnagione scura e aveva dei lunghi ricci che gli arrivavano quasi fino alle spalle.
“Vengo dall’Iraq.”, disse, vedendo la mia occhiata indagatoria.
“Adesso si spiega tutto.”
“Tutto cosa?”, sbottò lui, offeso per la mia irriverenza.
“Il tuo nome e il tuo strano accento.”, dissi io, sorridendogli, come se gli avessi lanciato una mano tesa per chiedergli perdono della mia ambigua frase.
“Scusa, pensavo che mi volessi accusare di aver causato tutto questo. Anche tu, però, non sei…”
“No, sono italiana.”
“Deidra… che bel nome…”, disse lui, alzandosi e andandosene.
Appoggiai le braccia conserte sulle ginocchia e tornai a fissare le onde del mare, aspettando che parlassero.


“Da quanto tempo sei sveglia?”
Quella voce mi svegliò dalla trance in cui ero caduta. Sentivo che gli altri si erano già messi in azione, alle mie spalle, ma non avevo trovato mai il coraggio di voltarmi di nuovo e rivedere il disastro in cui ci trovavamo tutti.
“Mi sono svegliata in piena notte.”, risposi io, alzandomi.
“Verresti a darci una mano? Abbiamo bisogno di tutte le medicine che si sono salvate.”
“Io ne ho una bella scorta… ne avevo… se la valigia è sempre qua, da qualche parte.”
“Molto bene. Io mi chiamo Jack e sono un dottore. Quando trovi qualcosa, vieni da me…”
“Deidra, mi chiamo Deidra.”
Mi misi subito in cerca delle mie cose: se il mio bagaglio a mano, dove tenevo tutte le medicine, si era salvato doveva pur trovarsi da qualche parte. Con mia cocente delusione, qualcuno aveva già rovistato tra le mie cose. Le magliette e il paio di pantaloni che tenevo di ricambio per le emergenze erano state gettare a terra senza alcun ritegno e le medicine erano già state prese. Raccolsi le mie poche cose e le risistemai dentro la borsa.
Girovagai tra gli altri sopravvissuti e li guardai: c’erano persone sulla quarantina, giovani, un padre e un figlio, individui normali insomma. Nessuno che poteva aver fatto schiantare di volontà sua il nostro aereo. Non mi passò nemmeno per l’anticamera del cervello di accusare quell’iracheno, che era guardato da tutti con sospetto. Secondo me era una persona onesta, non un terrorista…
Rovistai in qualche valigia: trovai un bel po’ di medicine e le infilai tutte in borsa. Mi ci vollero diversi minuti per convincere un signore alto e pelato che non stavo rubando niente, ma che stavo solo raccogliendo farmaci per il dottor Jack. Aveva anche alzato una mano per colpirmi, ma l’iracheno venne in mia difesa.
“Non ti permettere mai più.”, gli sibilò, guardandolo dritto negli occhi, “Sta lavorando per tutti noi. Abbiamo bisogno di medicine per curare i feriti.”
“Le stava rubando dalla mia scorta prima che me ne accorgessi.”, ringhiò l’altro.
“Non esistono scorte private ma una comune, gestita da Jack.”
“E chi cazzo è questo Jack? Quelle le ho comprate io.”
“Basta! Basta!”, dissi io, prima che si picchiassero.
Il pelato si ritirò, l’iracheno lasciò la presa e mi portò dritta dal dottore. Lasciai a lui quello che avevo trovato e chiesi se potevo tornare utile in qualche modo.
“Ho fatto la volontaria in ospedali e case di cura e so come trattare malati e feriti.”, dissi a Jack.
“Hai l’imbarazzo della scelta.”, disse, indicando con la mano la spiaggia, “Prendi quello che ti serve ma usalo con parsimonia.”
“Certo.”, dissi.
Raccolsi vestiti stracciati e qualche bottiglia di acqua. Se ce n’era di ossigenata, era meglio lasciarla a lui. Passai tutta la giornata a fasciare ferite e ad ascoltare persone distrutte dal dolore: mi sembrava di essere tornata indietro nel tempo.
Arrivata al tramonto, ero così esausta che non ce la feci nemmeno a mangiare. Caddi in un sonno profondo e nero e, in un attimo, mi risvegliai il giorno dopo.

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Capitolo 3
*** 3 ***


3 La tensione era alta, tutti litigavano tra loro. Alcuni erano sull’orlo di una crisi di nervi, altri si lasciavano a pianti isterici, altri si davano da fare per non pensare o perché era la loro vocazione naturale.
Io vagavo tra i corpi dei morti, chiudevo loro gli occhi e cercavo di raccomandare la loro anima a Dio, benché fossi sempre stata atea. Se veramente Dio esisteva, doveva averci riservato un destino migliore di questi povere persone, altrimenti saremmo morti come loro.
A qualche metro da me, sentivo l’iracheno parlare con il dottore ed una giovane donna.
“Dici che verranno a salvarci? Perché ritardano così tanto?”, domandò la ragazza.
“Ci stanno cercando… ma dalla parte sbagliata.”, disse l’iracheno.
“Come fai ad esserne sicuro?”
“Sono stato nell’esercito iracheno e ne so abbastanza.”
Notarono la mia presenza e si spostarono di qualche metro. Nel mio stato d’animo, nessuna notizia mi sarebbe stata di conforto, nemmeno la vista di un aereo che veniva a portarci via da questo posto sperduto.
Ogni volta che mi guardavo intorno, sentivo una sensazione strana dentro di me, che nasceva dalla bocca dello stomaco e che mi bloccava il respiro. Qualche volta mi veniva quasi da vomitare quando guardavo verso la foresta, perché la pancia incominciava a contorcersi e quasi dovevo piegarmi dal dolore.
I giorni successivi li campai come in trance: non mangiavo e bevevo con sforzo. Jack dovette ordinarmi di ingerire qualcosa, dicendomi che sarei morta. Ogni giorno mi svegliavo e vedevo sempre più lontano il mio ritorno a casa; ogni giorno la speranza scemava e mi sentivo cadere in un baratro nero.
Portai il mio misero panino a quel ragazzino di colore, forse aveva sui dieci anni, che cercava disperatamente il suo cane. All’improvviso, sentii un rumore assordante provenire dalla foresta; le persone accanto a me presero ad agitarsi e a correre verso l’acqua.
Il mio stomaco si chiuse e il dolore mi tolse il respiro: sorretta da un sopravvissuto, raggiunsi la riva del mare e guardai al di là degli alberi. In lontananza, li vidi piegarsi come fuscelli, schiacciati da qualcosa di invisibile, ma di cui tutti sentivano i passi rimbombare nelle proprie orecchie.
Mai il mio stomaco si era comportato in quella maniera e la cosa mi preoccupava: quando la calma tornò nel gruppo, e ce ne volle di tempo, andai dal dottore e gli chiesi il perché.
“Beh… così, a prima vista, non saprei proprio cosa sia. Ma forse è solo per lo stress e per il fatto che sei a digiuno… da quanto? Dovresti mangiare di più.”
“Le scorte finiranno presto e ci sono persone che si meritano più di me di mangiare.”
“Perché lo dici?”, mi disse, guardandomi negli occhi.
Io non risposi e me ne andai. Mi sedetti lontano da tutti, sul bagnasciuga, e attesi che la marea si alzasse e mi bagnasse le punte dei piedi. Non piangevo, ma le lacrime uscivano lo stesso dai miei occhi. Fissavo le onde, l’unica cosa che riusciva a rilassarmi in quel momento.
Una bottiglia d’acqua spunto davanti ai miei occhi.
“Ne vuoi un po’? E’ tanto che sei qui e mi chiedevo se avevi sete.”
“No, grazie.”
“Io sono Charlie e tu?”
“Deidra.”
“Che strano nome… non sei inglese vero?”, disse, sedendosi accanto a me.
“No, italiana.”
“Adoro l’Italia! Adoro gli spaghetti, il vino, la pizza…”, fece il ragazzo, decantando tutto quello che amava del mio paese e non rendendosi conto che la cosa poteva darmi fastidio.
“Ti prego, smettila.”, gli dissi, quando non ne potetti più.
“Mi dispiace… sono stato solo una volta in Italia.”
“E dove?”, gli chiesi, voltandomi per la prima volta a guardarlo. Era un ragazzo della mia età, più o meno, un tipo abbastanza bizzarro: aveva le unghie dipinte di nero e dell’adesivo messo a mo’ di anello sulle dita della mano sinistra. Sopra vi aveva scritto la parola ‘LATE’. Pensava di essere una rockstar?
“La città si chiamava… Bola.. Bolina, è possibile?”
Stetti qualche secondo a guardarlo come fosse un alieno, poi riflettei.
“Forse era Bologna?”
“Si! Quella! Ci sei mai stata?”
“Un paio di volte. Cosa ci sei andato a fare?”
“Un concerto… suonavo in una rockband.”
Mi misi a ridere.
“Beh? Cosa c’è di tanto divertente?”, chiese lui, risentito.
“L’avevo capito subito che eri in una rockband. Ma non montarti la testa.”
“Sono contento che la cosa ti faccia ridere.”, continuò lui, offeso.
“Se pensi che sono tre giorni che non lo faccio…. I miei amici si sarebbero già preoccupati se mi avessero visto seria per più di mezzo attimo. Ma non prendertela, non avevo certo intenzione di sminuirti. E’ che ti atteggi a rockstar e a volte sei un po’ ridicolo.”
“La gente mi riconosce quando cammino per strada.”, ripetè lui.
“Ti credo e non c’è bisogno che tu me lo dimostri arrabbiandoti. Comunque è stato un piacere conoscerti, Charlie.”
Pensavo di essere stata abbastanza eloquente con quella frase, volevo rimanere sola, ma lui era ancora lì.
“Senti… perché te ne stai qui, tutta sola?”
Lo guardai: come poteva essere così ingenuo? Ero distrutta per quello che ci era successo e sarei stata molto meglio se fossi morta come gli altri.
“Ti capisco, non ti capita tutti i giorni trovarsi in un isola deserta… insieme ai rottami dell’aereo su cui stavi.”, disse, giocando con un bastone infilato nella sabbia.
“Se quell’hostess mi avesse ascoltato, a quest’ora forse sarei in fondo al mare.”
“Che vuoi dire?”
“Avevo chiesto un posto lontano dall’ala ma, al check in, non mi hanno sentito bene. Così sull’aereo ho chiesto il cambio di posto e mi hanno spedita in prima classe. E’ per questo che sono viva.”
“E gli altri che erano con te?”
Riflettei un attimo: non avevo visto nessuno di loro, nemmeno quello che mi aveva fatto cadere.
“Ecco, ti sei risposta da sola. Ti sei salvata perché qualcuno ha voluto che tu continuassi a vivere.”
“In un modo o nell’altro.”
“Giusto… il modo migliore per riprendersi da questo shock è darsi da fare, credimi, così non hai un attimo per pensare.”
“In che gruppo suonavi?”
“I Drive Shaft, ero il bassista, la mente del gruppo.”
“No… non è possibile…”
“Te lo giuro su… sull’ultimo panino che abbiamo!”
“Vi ho visto per ben due volte! A Sidney e anche a Bologna! Come ho fatto a non riconoscerti!”
“Era tanto tempo fa…”, disse lui, abbuiandosi un po’.
Erano uno dei gruppi che, quando erano in pieno auge, si imponevano meglio nella scena rock. Erano stati davvero bravi quando li avevo visti a Bologna, un po’ meno a Sidney, la seconda volta. Infatti qualche tempo dopo seppi che si erano dati una pausa e questo poteva anche significare che non sarebbero mai più tornati insieme…
Ebbi di nuovo quello strano brivido lungo la schiena e la sensazione di soffocamento.
“Ti senti bene?”, mi chiese, vedendomi boccheggiare.
“Si… ho solo molta fame.”
“Non c’è molto, le scorte stanno finendo ma c’è un tipo, Locke, che si sta indaffarando per cacciarci qualcosa. Vedessi quanto è strano… più di me!”, fece, dandomi una leggere pacca sulla spalla.
In quel momento ebbi una strana certezza su di lui e, mentre cercavo di definirla, lui esclamò:
“Ma che bei tatuaggi che hai sulla schiena! Sono fantastici!”
“Cosa?”
“La maglietta si è strappata in diversi punti e si vedono benissimo. Posso dargli un’occhiata? Vorrei farmene uno quando torno a casa. Sembrano dei… simboli tribali… cosa significano?”
“E’ una lunga storia…”, dissi. Ero agitata, me ne andai lasciandolo lì, come un pesce lesso. 

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Capitolo 4
*** 4 ***


4
Jack si stava preparando per riposarsi ma dovevo parlargli.
“Jack…”, lo chiamai.
“Cosa c’è?”
“Ho un problema…”
“Dimmi tutto.”
Non trovando le parole giuste, mi voltai e mi tolsi la maglietta.
“Beh… quale sarebbe il problema?”
“Che cosa vedi?”
“Aspetta… avviciniamoci al fuoco, qui è buio.”
Accanto alla luce del fuoco, speravo che lui potesse sfatare le mie paure.
“Ti piacciono i tatuaggi?”, mi chiese.
“A me?”
“E a chi sennò?”
“Si… abbastanza.”
“Se ti piacessero solo abbastanza, non ne avresti fatti fare cinque… ma non c’è niente che non vada, sembrano ben fatti e non ci sono ferite o infezioni… sono strani, che cosa significano?”
M infilai velocemente la maglietta e biascicai una scusa incerta.
“Oh Oh! Non sapevo che in questa isola si proiettassero film a luci rosse!”, disse qualcuno con un tono molto odioso.
“Chiudi quella boccaccia, Sawyer.”, lo zittì Jack.
Nel frattempo io mi ero allontanata dai due, che stavano iniziando una discussione abbastanza animata. Charlie se ne stava seduto sulla sabbia e giocava di nuovo con un bastoncino.
“Perché ‘LATE’?”, gli chiesi, sedendomi accanto a lui.
“Eh? Ah… prima avevo scritto ‘FATE’, ma ‘LATE’ mi sembra più appropriato.”
“Posso chiederti una cosa? Me la contenteresti una tua canzone?”
“Mi devi pagare i diritti.”
“Tre conchiglie e due bacche ti vanno bene come acconto?”, gli dissi, mostrandogli il contenuto delle mie tasche.
Attaccò con un pezzo che non ricordavo e, quando ebbe quasi finito, gli chiesi quello che mi frullava in mente da un bel po’.
“Perché ti droghi?”
Lui rimase un attimo in silenzio, poi si riprese.
“Cosa te lo fa pensare?”
“Non lo so, è solo una sensazione. Non saprei spiegartelo ma ho questa certezza: ti fai, anche ora.”
Lui cercò di contenere la rabbia.
“Mi hai visto?”
“No ma…”
“Allora non puoi essere sicura di niente!”, gridò, “Stammi lontano.”
Se ne andò che quasi correva.
“Che cosa gli è preso?”, mi chiese l’iracheno che, quando lo aveva visto scappare, si era avvicinato a me per chiedermi spiegazioni.
“Ho detto qualcosa che lo ha fatto infuriare.”
“Dovresti chiedergli scusa.”
“Si… ma non credo che starà a sentirmi.”
“Tra un po’ gli  passa, vedrai.”
“Lo spero… come hai detto che ti chiami?”
“Sayid. E tu sei Deidra, vero?”
“Si… scusa ma, sai, ho un po’ di problema a ricordarmi tutti i vostri nomi.”
“Ne avrai di tempo per imparare.”
“Perché?”
Lui non rispose ma fu abbastanza eloquente. Nessuno ci stava venendo a salvare… almeno per adesso.
Di nuovo mi prese quella fitta allo stomaco: mi voltai verso la foresta e sentii quei passi spaventosi.
“Presto!”, esclamò Sayid, aiutandomi ad alzarmi da terra, “Andiamo verso il fuoco, lì saremo più al sicuro dalle bestie.”
“Chi ti dice… che siano animali?”, gli chiesi, tra una fitta e l’altra.
“Non lo so, ma lo spero vivamente.”
Il calore tiepido del fuoco mi fece dimenticare quei rimbombi infernali, che avevano svegliato tutti gli altri. Quello strano tipo di cui mi aveva parlato Charlie aveva cacciato un grosso cinghiale e qualche pezzo era stato lasciato al caldo: ne mangiai un po’, la fame mi stava tornando piano piano.


“Sai dove è l’acqua?”, mi chiese uno dei sopravvissuti che nemmeno conoscevo, mentre cercavo di togliere alcune macchie dalle mie maglie di ricambio.
“No, non ne ho. Prova a chiedere a Jack.”
“Non lo trovo. Pensi che forse è finita?”
“Prima o poi lo sarà, credimi, se non troviamo una fonte.”
“Io mi fido della pioggia.”
“Certo…”, sbottai.
L’uomo si offese per la mia scortesia e se ne andò. In lontananza vidi Jack correre verso la foresta e, di nuovo, lo stomaco si contorse. Stata per succedergli qualcosa. Mi misi in piedi a fatica e barcollai per qualche metro, finchè la ragazza, che vedevo sempre insieme a Jack, mi dette una mano a riprendermi.
“Cos’hai? Perché stai male?”
“Jack… ”
“Cosa? Che c’entra Jack? Vuoi che te lo chiami?”
“No… ”, dissi, cadendo a terra.
“Ti porto un po’ d’acqua.”
“Non c’è più acqua…”
“Vado a cercarla, stai certa che la trovo.”
“Jack… lui… l’acqua…”
“Cosa stai dicendo?”
“Jack… la troverà… nella caverna…”, dissi con l’ultimo filo d’aria, poi svenni.
Quando mi ripresi, mi trovavo sotto ad un tendaggio di fortuna, una specie di infermeria. Qualcuno prese la pezza che avevo sulla fronte , la immerse in acqua e me la ripose in testa.
“Tutto bene?”, mi chiese.
“Si… adesso si… tu chi sei?”
“Mi chiamo Kate e Jack…”
“Jack! Dov’è Jack?”, chiesi. Mi era tornato tutto in mente, come un lampo.
“E’ tornato e ha trovato l’acqua… proprio come avevi detto tu, nella caverna… tu lo sapevi?”
“Sapevo cosa?”
“Dell’acqua… c’eri già stata?”
“No… io…”
“Deidra, è così che ti chiami? Perché non ci hai detto subito dove era l’acqua? Claire ha rischiato di morire!”, gridò Kate con tutta la rabbia che aveva in corpo.
“Non lo sapevo! Credimi! Io… non lo so… se lo avessi saputo per quale motivo avrei dovuto tenervelo nascosto?”
Kate sospirò e abbassò la testa.
“Deidra, ti prego, dimmi la verità.”
Cercai di riorganizzare i ricordi e le risposi.
“L’ho visto correre verso la foresta, poi mi è presa una fitta allo stomaco. A quel punto sei arrivata tu e ti ho detto che… che lui avrebbe trovato l’acqua vicino alla caverna. Non so però perché l’ho detto e, credimi, non potrei essere più sincera di così!”
La ragazza mi guardò negli occhi e, in quel momento, capii che anche lei aveva un segreto come me. Avevamo molte cose in comune: i suoi occhi erano velati di tristezza ma aveva una grande forza d’animo come me.
“Kate, nemmeno io so spiegarmelo. Non farmi domande. Devo capire.”
E lei sembrò afferrare il senso. Mi lasciò sola e, dopo qualche minuto, riuscii a riacquistare tutte le forze. In quei minuti da sola, pensai a quello che mi stava succedendo: c’era un collegamento tra quelle fitte allo stomaco e le cose che mi balenavano improvvisamente in testa? Perché il mio stomaco si stringeva ogni volta che si sentivano quei rumori provenire dalla giungla? Perché ero sicura che Charlie si drogava e che Kate era una ricercata dalla polizia australiana?
Perché erano comparsi quei tatuaggi sulla mia schiena?
Non trovavo una risposta a queste domande, ma di una cosa ero certa: era tutta colpa dell’isola. Mentre uscivo dall’infermeria, incrociai Jack.
“Ho incontrato Kate e mi ha detto che cosa è successo.”
“Adesso sto bene. Ho ripreso a mangiare e a bere normalmente.”
“Bene… ho un piano…”
“Quando partiamo?”
Lui rimase un attimo interdetto.
“Quando partiamo? Per andare dove?…”
“Alle caverne. Lì c’è acqua e sarebbe meglio andarcene lì, non credi? Qui non siamo poi così tanto al sicuro.”
“Beh… in effetti avevo pensato a questo. Ma ancora non lo ho detto a nessuno. Come facevi a saperlo?”
“Fidati di me come io di te. Raduno le mie cose, ci troviamo alla caverna.”
“Come farai ad arrivarci?”
“Ho il mio sesto senso… diciamo che sono diventata un po’ rabdomante.”, dissi, allontanandomi.

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Capitolo 5
*** 5 ***


5
L’acqua sgorgava fresca dalla pietra e le mie mani si erano quasi congelate sotto il getto. Mi bagnai la testa e mi sentii come rinata. Forse non era impossibile vivere su questa isola, bastava abituarsi… i soccorsi non sarebbero mai arrivati, lo sapevo.
Sentii delle voci avvicinarsi e riconobbi quelle di Kate, Charlie e Jack, ma non del quarto uomo che era con loro. Tranne Jack, furono tutti sorpresi nel vedermi già lì, con la mia roba.
“Non fate quelle facce. Jack mi ha spiegato la strada per arrivare qui.”, dissi io, mentre sistemavo i miei ricambi su un ramo per farli asciugare. Andai verso lo sconosciuto, un signore sui cinquanta, più o meno, e mi presentai. Si chiamava Locke ed era il tipo strano che ci procurava i cinghiali, doveva essere un cacciatore provetto. Gli strinsi la mano cordialmente e compresi che anche a lui l’isola aveva donato qualcosa.
Erano venuti a prendere una scorta d’acqua per la spiaggia e mi offrii di dare loro una mano: per un attimo mi lasciarono sola, attirati da qualcosa lì vicino, così, quando ebbi riempito la mia borsa di bottiglie di acqua mi avviai verso la spiaggia, per rifornire gli altri con le prime bottiglie.
Avevo una ventina di bottigliette e ne distribuii a tutti, chiedendo il loro nome e cercando di memorizzarne il più possibile. Vidi una cosa un po’ preoccupante: c’era un signore ammanettato, un asiatico sempre distaccato dal gruppo e in compagnia della moglie, che in quel momento gli stava medicando il polso. Sembrava non cavarsela molto bene e mi avvicinai a lui con una bottiglia in mano. Lui, dopo aver detto qualche strana parola nella sua lingua, la prese con diffidenza.
“Che brutto carattere che ha quello lì.”, dissi all’uomo che incrociai dopo. Doveva essere il padre di quel ragazzino con il cane.
“Non dirlo a me, ha cercato di picchiarmi e ancora non so perché.”
Mi venne da ridere, poi gli porsi l’acqua. L’ultima bottiglia la detti ad una biondina, che mi disse di chiamarsi Shannon e di essere lì con il fratello Boone, un seccatore rompiballe.
“Stai attenta agli eritemi solari.”, le dissi, mentre le davo la sua parte di acqua.Lei non sembrò gradire affatto il mio suggerimento e tornò a prendere il sole.
Mi sedetti a qualche metro da lei, stremata dalla fatica e con una spalla dolorante per il peso della borsa. Mi asciugai il sudore con la mano e mi distesi a braccia aperte, cercando di calmare il fiatone che mi era venuto. Mi addormentai per un po’ al tepore del sole equatoriale e, quando mi risvegliai, gli altri stavano raccogliendo le loro cose: in diversi si erano decisi a lasciare la spiaggia ma altrettanti erano convinti che rimanere sulla spiaggia fosse meglio.
Io pesai le due cose e decisi ancora una volta di seguire gli altri nella foresta. Lì avrei scoperto più cose su quello che mi stava accadendo. Mentre camminavo con gli altri nella giungla, conobbi Hurley, un ragazzone da cuore d’oro, si vedeva da lontano.
“Dell’Italia adoro tutto, davvero, la pizza, la pasta…”, mi diceva .
“Non lo avrei detto.”, dissi io ironicamente.
“Dici?”, rispose lui, capendo che non avevo di certo voluto offenderlo con la mia battuta, “Che cosa ci facevi a Sidney?”
“Ero andata a trovare mio cugino che abita lì. Pensavo addirittura di trasferirmi da lui!”
“Mi è sempre piaciuta l’Australia… ecco, siamo arrivati. Che faticaccia!”
“Non dirlo a me.”, risposi.


La vita alle caverne era più facile: l’acqua era a portata di mano, il cibo pure e le piante ci coprivano dal sole cocente che batteva ventiquattro ore su ventiquattro. Quando pioveva, potevamo ripararci dentro le caverne e, benché l’umidità fosse molto alta, non si stava poi così male.
Mi piaceva esplorare la foresta intorno a me, anche se avevo paura di quella cosa invisibile… e del mio stomaco. Quando mi prendevano le fitte, non riuscivo più a muovermi. Andavo in cerca di frutta, legna da bruciare e di ogni qualcosa ci potesse tornare utile
Dovevo sistemare le cose con Charlie: mi ignorava ogni volta che gli passavo accanto e non mi rispondeva quando gli facevo qualche domanda. Alla fine, decisi che dovevo affrontarlo e chiedergli scusa.
Se ne stava seduto su un tronco, cercando di suonare la sua chitarra, ma quello che usciva non si poteva di certo definire una canzone.
“Come va?”, gli chiesi, sedendomi a terra di fronte a lui, che ovviamente non rispose.
“Senti… capisco di averti offeso, ma non puoi portarmi rancore per sempre.”
Ancora una volta, scena muta.
“Ho sbagliato e lo ammetto… ma ne uscirai. Credimi.”
Lui smise di suonare e mi parlò.
“La cosa che mi fa più incazzare… è che lo hai detto a Locke. Non vi fate mai gli affari vostri, vero?”
“Guarda che io non ne ho parlato con nessuno.”
“Ah no? Allora come faceva a saperlo lui? Gli ho dovuto dare la mia droga in cambio di questa!”, fece lui, sempre più alterato.
“Charlie, calmati, io non sono responsabile dei tuoi problemi!”
“Ma se avessi tenuto la bocca chiusa, non sarei in questo stato!”
“Prima o poi sarebbe finita! Te ne rendi conto? Sei in astinenza!”
“Vaffanculo!”, mi gridò in faccia. In quel momento provai una paura tremenda: il suo cervello era ossessionato dalla droga e avrebbe fatto qualsiasi cosa… mi allontanai velocemente e lo lasciai di nuovo solo. Tornai dagli altri e mi adoperai per dare una mano nel trasferimento. Dopo un po’ arrivò anche Charlie, ma questa volta fui io a ignorarlo, ancora scossa per la sua reazione.
Eravamo un bel gruppetto: nella giungla ci avevano raggiunto i due asiatici, Walt e suo padre insieme al cane, Boone il fratello della biondina e altre persone di cui non conoscevo il nome. Mentre ero tutta indaffarata per sistemare la nostra nuova casa, sentii Charlie urlare da dentro la caverna.
Lo stomaco si contorse e caddi a terra boccheggiando, mentre sentivo il rumore di una frana riempirmi il cervello. Annaspando tra la polvere riuscii ad alzarmi con molta fatica. Hurley, vedendomi in quello stato, venne a sorreggermi ma lo pregai di lasciarmi per andare a controllare la situazione.
 “Mettimi a sedere su quel tronco, ti prego.”, gli dissi, mentre la pancia continuava a darmi dolore.
“Certo, certo…”
“Jack è rimasto dentro, aiutate lui non me.”, gli dissi.
“Charlie era con lui, sono rimasti entrambi sotto i massi.”
“No, lui no. E’ Jack quello che va aiutato, Charlie sta bene.”, dissi, tra una fitta e un’altra.
Infatti, qualche secondo dopo lui sbucò dalla polvere. Hurley mi guardò con gli occhi spalancati.
“Come facevi a…”
“Saperlo? Non lo so. Forza, vai ad aiutare gli altri a togliere i massi. Io mio occupo di Charlie e che non combini altri guai.”
Hurley partì come un razzo verso la frana, dove già gli altri stavano scavando. Charlie barcollò verso di me e, per poco, non cadde a terra. Il dolore era sparito e mi alzai per aiutarlo
“Dobbiamo avvertire gli altri.”, disse.
“Ci penso io, tu cerca di riprenderti in fretta dallo shock.”
“Jack! Jack è rimasto chiuso nella caverna!”
“Sta bene, sta bene. Ne uscirà vivo.”
“E’ tutta colpa mia.”
“No, smetti di piangerti addosso e vieni con me. Dobbiamo andare da Locke e dagli altri sulla spiaggia, ci servirà il loro aiuto per scavare.”
“Sono di certo più veloce di te a correre. Ci penso io ad avvertire tutti gli altri. Tu pensa a dare una mano a loro.”
Non ci fu modo di distoglierlo da quell’idea, così mi dovetti rassegnare ad unirmi al gruppo. Dopo qualche tempo le mie braccia erano completamente andate, non le sentivo più ma non potevo tirarmi indietro. Mi riposai solo un attimo per bere e riprendere fiato, poi tornai agli scavi. Michael, il padre di Walt, sapeva dove e come farlo, così seguimmo tutti perfettamente le sue istruzioni, per evitare che la frana coinvolgesse anche noi.
Mentre scavavo, mi venne da pensare alla mia situazione: ogni volta che la pancia mi doleva, succedeva qualcosa: quei rumori nella foresta, Jack che trovava l’acqua, la frana… i dolori si accompagnavano con delle certezze: Jack era vivo, sotto alle macerie, e ne sarebbe uscito, ma non grazie a noi…
“Gente, non credo che arriveremo a qualcosa continuando a scavare.”, dissi, ma gli altri non mi ascoltavano, erano troppo concentrati.
“Jack è vivo, sta bene, ma non… verrà fuori in questo modo.”
“Invece di parlare dacci una mano. Come credi che uscirà da lì altrimenti?”, brontolò Hurley.
“Non lo so ma…”
“Ragazzi, si è aperto un cunicolo… ci serve qualcuno per infilarsi dentro.”, disse Michael.
“Non guardate me!”, disse sarcasticamente Hurley.
“Vado io…”, disse Charlie, che nel frattempo era apparso dietro di noi.


“Fai attenzione…”, continuava a ripetere Michael a Charlie, che si era infilato dentro al buco.
Il rumore di frana ci fece rabbrividire tutti, poi una nuova pioggia di polvere ci fece allontanare dal luogo dello scavo. Era tutto franato di nuovo.
Io mi sedetti stremata a terra e con la faccia rigata dalle lacrime. Ero sicura che Jack sarebbe uscito fuori, ma non in quel modo, non grazie a noi…
“Charlie…”
“Come hai detto, scusa?”, mi chiese Boone, seduto vicino a me.
“Oh no… niente… sono solo un po’ scossa.”
Mi alzai e mi addentrai nella giungla, in cerca di Locke. Lui poteva aiutarmi.
“Ciao.”, dissi, vedendolo alle prese con il suo cinghiale morto, la cena di questa sera.
“Salve. Sto operando, ma non mi dispiace ricevere visite ogni tanto.”, fece lui, facendomi sorridere.
“Alle caverne c’è stato un incidente, lo sai?”
“Si, è venuto Charlie.”, disse lui, continuando a lavorare la carne.
“Adesso anche lui è intrappolato lì dentro.”
Sospirò.
“Sei venuta a chiedermi di aiutarvi?”
“No… gli altri sono capaci da soli…”
“Allora che cosa vuoi?”
“Hai la droga di Charlie, vero?”
Lui rimase in silenzio, sempre indaffarato.
“Te l’ha anche chiesta già due volte. Alla terza gliela ridarai, non è vero?”
“Te ne ha parlato lui?”
“No… lo so e basta.”
“E basta?”
“Si… e basta.”
“Sorpavviverà.”
“Ne sono certa.”
“Sopravvivranno.”
“Non grazie a noi scavatori. Le falene…”
Lui, che non aveva mai alzato gli occhi dalla sua preda, lo fece per la prima volta.
“Sono insetti molto importanti nella catena animale della giungla.”, rispose.
“Soprattutto di questa giungla. Non credi che sia un posto speciale?”
“Si, lo è certamente.”
“Non ti fa paura sapere che prima o poi ci chiederà qualcosa in cambio per tutto questo?”
Lui non rispose.
“Adesso devo tornare dagli altri.”
Mi aveva aiutato più di quanto non pensasse.

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Capitolo 6
*** 6 ***


6 Mentre il fuoco cuoceva la carne, me ne stavo lì in trepidante attesa che fosse cotta. Dalle mie parti, in Italia, era una carne abbastanza conosciuta e prelibata, una specialità per alcune massaie. Lì, la gente non sembrava apprezzarla e la mangiava spesso di controvoglia. D’altra parte, o questo o niente.
Quando ebbi finito di riempirmi la pancia, mi allontanai dal gruppo per finire di sistemare la roba: la frana aveva alzato tanta di quella polvere che i miei vestiti dovevano essere lavati di nuovo. L’acqua era molto fredda e tutte le mie magliette furono sciacquate e strizzate in tempo record. Le stesi per l’ennesima volta su un ramo e sperai che, almeno per la mattina successiva, si fossero asciugate.
Le cose erano andate come sapevo: grazie ad una falena, Charlie aveva trovato una via di uscita dalla caverna, ma anche dalla sua dipendenza. Ero soddisfatta… forse non tutto il male veniva per nuocere. Vidi Locke venire verso di me, sembrava volermi parlare.
“Come sapevi della falena?”
“L’isola chiede e da. Lo hai detto anche a Charlie.”
Lui sorrise, aveva capito il senso della mia frase.
“A te ha dato molto, vero?”, gli chiesi
“Più di quanto mi aspettavo. E a te?”
“Mi ha dato tante domande a cui non so dare una risposta.”
“Non è sempre detto che ci sia una risposta a tutto.”
“Infatti ho imparato a prendere senza discutere troppo.”
“Vuoi ancora del cinghiale?”
“No, sono già alla frutta.”, dissi, mostrandogli fiera la mia banana.
“Allora buona frutta.”
“E buonanotte!”
Lui se ne andò ed io mi misi in cerca di una penna e di un foglio. Avevo in mente un modo per scusarmi con Charlie del mio comportamento. Lo trovai seduto a suonare di nuovo la sua chitarra. Non sembrava avermi sentito arrivare, così gli porti la biro e il blocco che avevo trovato, senza dire niente.
“Cosa dovrei farci con quello?”, disse lui, sempre un po’ risentito.
“Come te la cavi con i disegni?”
“Non male… perché?”
“Voglio che tu disegni i miei tatuaggi su questo foglio.”
“Ok… ma per quale motivo?”
“Qualche giorno fa mi dicesti che avevi dei progetti… potrebbero essere delle idee, non credi?”
Posò la chitarra e prese il blocco. Mi sedetti di fronte a lui, mi tolsi la maglia e gli mostrai la schiena. Lui prese a disegnare.
“Devo darti delle spiegazioni.”, disse, dopo un po’.
“Non importa.”, gli risposi.
“Adesso, se ne sono fuori, è anche grazie a te.”
“Accetto le tue scuse e ti porgo le mie. Non avrei mai dovuto sbatterti in faccia il tuo segreto.”
“Ancora mi chiedo come hai fatto a saperlo… mi hai visto?”
“No…”, dissi, sospirando. Era meglio tenerlo per me o dirglielo?
“Allora?”
“Senti, Charlie, non so come spiegarlo nemmeno a me stessa. Mi succede che nella mia testa… Non trovo nemmeno le parole giuste per dirlo… e poi, quei mal di pancia sono micidiali.”
“Ne hai parlato con Jack?”
“Si ma… non credo che sia qualcosa che lui possa risolvere…”
“In che senso?”
“Ogni volta che mi prendono è perché… sta per capitare qualcosa.”
“Qualcosa di brutto?”
“Non sempre… ma sentimi! Non senti le cazzate che sto dicendo? Sto diventando pazza.”
“Non sei pazza.”, disse lui, porgendomi il blocco con i disegni, “Allora, che ne dici? Sono bravo?”
Guardai a bocca aperta… i tatuaggi non nascevano da soli. Erano come dei tribali, fatti intersecando delle linee curve; erano cinque, sparsi sulla schiena, grandi circa sei centimetri.
“Posso dirti una cosa?”
“Certo…”, risposi.
“Non allarmarti ma… ce n’è uno che mi sembra diverso da come me lo ricordavo… ma sicuramente mi sbaglio. E’ impossibile che succeda una cosa del genere!”
“Se è possibile svegliarsi da un giorno all’altro con dei tatuaggi del genere, allora è anche possibile che questi cambino forma da soli…”, dissi.
“Cosa intendi dire?”
“Che prima dell’incidente aereo non ce li avevo.”
“Dai! Stai scherzando! Smettila!”, fece lui, ridendo.
“Non sto scherzando. Appena vedo un ago mi vengono le convulsioni dalla paura.”


Forse facevo bene a parlarne con Jack… d’altronde lui era il capo…
Oppure con Locke, sembrava conoscesse i segreti di quest’isola.
Charlie era rimasto un po’ spaventato quando gli avevo parlato del mio segreto, ma aveva promesso che mi avrebbe aiutato a capire quello che mi stava succedendo. Anche secondo lui quest’isola aveva qualcosa di strano.
L’asma di Shannon, la biondina, distolse l’attenzione di tutti sugli avvenimenti dei giorni prima: la ragazza era in condizioni pessime e non c’era modo di trovare un rimedio. Suo fratello si era preso anche delle sonore bastonate da un certo Sawyer, di cui tutti sapevano solo che era uno sciacallo rompiscatole, perchè lo aveva beccato a frugare tra le sue cose in cerca degli inalatori di riserva.
Rividi con piacere anche l’iracheno, Sayid, che era tornato da una specie di spedizione con la testa sanguinante. Avevo saputo così che qualche giorno prima era stato captato con la radio un segnale preoccupante, in cui una donna francese diceva che qualcosa o qualcuno aveva ucciso i suoi compagni… al di là di questo, la cosa che faceva rabbrividire tutti quanti era che questo messaggio veniva trasmesso ininterrottamente da sedici anni.
Così Sayid, che doveva essere un mago della tecnologia o giù di lì, era riuscito a costruire delle antenne di fortuna per riuscire a captare e individuare la fonte del segnale, ma era stato colpito alla testa durante la spedizione. Io ero estranea a tutte quelle faccende, ma mi interessavano.
“Mi dispiace per la tua… cos’era, una radio, quello che avevi costruito?”, gli dissi, porgendogli una tazza di tè, quando oramai anche la sua storia era diventata passato e tutti lo avevano lasciato solo per dedicarsi alla ricerca degli inalatori per Shannon.
“Erano dei ricevitori, delle antenne per captare il segnale in francese. Potevamo saperne di più su questo dannato posto.”
“Pensi che sia stato Sawyer?”
“No, sarebbe facile incolparlo ma era a due chilometri da me, più o meno, con un’antenna in mano. Non saprei proprio chi può essere stato… ma presto lo scoprirò.”
“Vuoi una mano?”
“No, grazie. Ma è gentile da parte tua.”
“Odio stare con le mani in mano.”, gli dissi sorridendogli, “Ma potrei tornarti molto utile!”
“Buono questo the.”, fece lui, dopo averne bevuto un sorso.
“Se c’è una cosa che non sai fare è mentire!”
“Hai ragione.”
“Deidra! Deidra!”, mi sentii chiamare. Era Kate e dal tono di voce sembrava abbastanza agitata.
“Cosa c’è?”, le chiesi.
“La situazione si sta facendo abbastanza tesa. Ti dispiacerebbe cercare insieme a noi gli inalatori per Shannon prima che quei due si picchino ancora?”, fece, indicando verso Jack e Sawyer.
Guardai un attimo Sawyer, che ricambiò il mio sguardo con un gesto poco ambiguo: dovevo imparare a guardare altrove e non lui.
“Non ce l’ha lui gli inalatori.”, dissi sottovoce.
“Come dici?”
“Dico di cercare altrove e di lasciar stare Sawyer.”
“Ha sciacallato i nostri bagagli per una settimana intera. Avrà pure trovato qualcosa?”
“Fa’ come vuoi. Lui non ce l’ha.”, le dissi.
Non avevo proprio idea di dove potevano essere questi inalatori ma, quando vedevo Shannon affogare mentre respirava, non potevo smettere di cercare, dovevo aiutarla in tutti i modi. Una volta, ad una colonia per bambini, avevo conosciuto una ragazza nelle sue stesse situazioni e, quando non riusciva a trovare le sue medicine, bisognava massaggiarle la testa e il collo. Non guariva, ma si calmava per un po’.
“Boone! E’ così che ti chiami?”, feci a suo fratello.
“Si… cosa ti serve?”
“So come far calmare tua sorella per un po’. Posso provare?”
“Certo! Certo!”, disse lui, che oramai non poteva fare altro che starle accanto e parlarle di ogni cosa, per cercare di distrarla.
Mi accomodai seduta dietro di lei e iniziai a toccarle i capelli, a passarle la punta delle dita sulla cute. La ragazza sembrò un po’ perplessa all’inizio, ma poi si accorse che il massaggio la aiutava a rilassarsi e, anche se non poteva respirare normalmente, incominciava a sentirsi meglio.
Mentre tutti gli altri erano agitati nel cercare quelle dannate bombolette, vidi l’asiatica, con cui non avevo ancora parlato prima, preparare qualcosa in una ciotola di plastica. Dopo qualche minuto, arrivò con un miscuglio di acqua ed erbe, lo spalmò sul petto della ragazza che, dopo qualche secondo, tornò a respirare normalmente. Tutti esultarono dalla gioia e Boone abbracciò la sorella con tutto l’amore che poteva provare per lei. La donna asiatica, Sun, le aveva fatto respirare dell’eucalipto. Ottima idea, pensai.
Tornai al mio giaciglio e ripresi in mano il disegno che mi aveva fatto Charlie. Dovevo ammetterlo, era bravo! Poco prima di vederlo sparire verso la spiaggia, mi aveva chiesto se avevo delle arachidi, per farne del burro.
“Devo pensare che sei impazzito?”, gli chiesi, “Ammesso che abbia le noccioline, mi dici come farai a ricavarne del burro?”
“Beh… non lo so…”
“Cosa ci devi fare? Se me lo dici, forse ti posso aiutare.”
“E’… è una cosa stupida ma… hai presente Claire, la ragazza incinta?”
“Non la conosco ma… si, ho capito chi è.”
“Ecco… in cambio di burro di arachidi, lei mi ha promesso che sarebbe venuta a vivere qui con noi. Al suo bambino non fa di certo bene tutto quel caldo e il sale.”
“Ti sta a cuore la sua salute… eh?”, gli dissi, con occhi ammiccanti.
“Dai, smettila! E’ solo perché sono preoccupato per il suo bambino.”
“Tieni questo.”, gli dissi, lanciandogli delicatamente un barattolo vuoto, “L’immaginazione ha un potere che va oltre alla realtà.”
Mi ringraziò di cuore e lasciò l’accampamento. Che scemo che era!
Mi resi conto che Sayid era sparito da un bel po’… mi guardai intorno e chiesi di lui: in diversi mi dissero che aveva qualcosa da fare insieme a Jack. Avevo una strana sensazione, come se il suo impegno con Jack fosse legato in qualche modo a Sawyer. Quando incrociai Hurley nella giungla, indaffarato a cercare legna da ardere, mi disse che lo aveva visto andare con Jack verso la spiaggia.
Il brivido freddo mi arrivò fin dentro al cervello. Aumentai l’andatura e arrivai in spiaggia prima di quanto mi aspettassi. Vidi Kate in riva al mare e andai verso di lei.
“Kate! Kate! Hai visto Sayid?”
“Si… ha appena lasciato il gruppo.”, rispose lei, con aria mesta.
“Dove è andato?”
“Di là… ha deciso di esplorare l’isola.”
“Da solo?!? Ma è pazzo!”
“E’ stata una sua decisione… non possiamo far altro che rispettarla. Ha detto che disegnerà una mappa dell’isola e che…”
A metà del suo discorso mi piegai in due, portandomi le mani allo stomaco.
“Oh mio Dio! Deidra! Deidra!”
Cercai di parlare ma riuscivo solo ad aprire e chiudere la bocca come un pesce. Kate cercò di farmi stendere ma i miei muscoli erano così tirati che era impossibile. Appena il dolore si fu calmato, ripresi fiato e le parlai.
“E’ in pericolo…”
“Chi? Sayid?”
“Si…”
“Tornerà sano e salvo?”, mi chiese, sapendo che io le avrei detto la risposta giusta.
“Si… ma avrà brutte notizie per tutti noi.”
“In che senso?”
“Kate… tieni la bocca chiusa.”



Locke camminava trascinando diverse valige, recuperate durante una spedizione di caccia. Mi fiondai da lui in cerca del mio bagaglio e lo trovai. Ero così contenta di aver ritrovato la mia roba! La aprii e tirai fuori tutti i miei vestiti, trovai anche una busta con parte del mio rifornimento di medicine.
Quando Jack mi vide arrivare con i farmaci, mi chiese se fossi un’altra degli ipocondriaci che lo assillavano giorno e notte.
“Sì, devo ammetterlo, sono terrorizzata dalle malattie, ma solo quando viaggio.”
“Sei il nostro angelo. Stavamo per finire le aspirine e tu ne hai a sufficienza per curare un’epidemia di influenza!”
“E’ bello ogni tanto sentirsi utili alla società!”, risposi ridendo. Poi mi feci seria e lui subito lo notò.
“Cosa c’è?”, mi domandò.
“Devo parlarti un attimo in privato.”
Ci spostammo leggermente fuori dal gruppo e, quando fui sicura di non essere ascoltata da orecchio indiscreto, gli parlai di quello che mi era successo. Jack fu molto scettico all’inizio, dicendo che i miei erano solo attacchi di ansia e che forse il mio inconscio era venuto spesso in superficie.
“Jack, non sto scherzando… mi verrebbe quasi da dire che ho delle premonizioni su quello che sta per accadere… ma forse tu pensi solo che sia pazza o esaurita…”
“No, è solo che mi resta difficile credere a quello che dici.”
“Hai presente i miei tatuaggi?”
“Si, certo.”
“Non li ho mai avuti. Sono apparsi quando mi sono svegliata su quest’isola.”
“E’ impossibile.”
“Guarda.”, gli dissi, mostrandogli il disegno di Charlie.
“E cosa dovrei vedere?”
Mi voltai e mi alzai la maglietta. Lui confrontò il disegno e poi disse che Charlie aveva fatto un errore, uno dei disegno che aveva fatto era leggermente diverso.
“Si sarà sbagliato.”, fece.
“Potrebbe anche essere, ma pure Charlie ha avuto la sensazione che non fossero i soliti che aveva visto la prima volta.”
“Beh… non so cosa dirti.”
“Nemmeno io. Comunque non farne parola con nessuno, non vorrei diventare l’emarginata di quest’isola.”


NdA: per adesso sono costretta a non scrivere altro, in quanto voglio cercare di essere il più fedele possibile agli episodi del telefilm. Riprenderò la storia solo quando avrò visto la seconda stagione quindi... per adesso aspettate! (e recensite!)

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