48:48

di BBambi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 48 Ore. Prima. ***
Capitolo 2: *** 28 Giorni. Dopo ***
Capitolo 3: *** 48 Ore. Verso la fine. (PARTE 1) ***
Capitolo 4: *** 48 Ore. Verso la fine. (PARTE 2) ***
Capitolo 5: *** 10 secondi. Roulette Russa. ***



Capitolo 1
*** 48 Ore. Prima. ***


48:48








Prologo
 

La neve cadeva copiosa. I cristalli di ghiaccio danzavano nell’aria, fragili ballerine dalla vita effimera.
La loro esistenza si protraeva nel lasso di tempo che le conduceva dal cielo alla terra, il tempo di una caduta libera insomma.
Ma quel balletto era così elegante, così delicato che più che pochi istanti sembrava durasse un’eternità.
Nel bianco più assoluto ogni rumore era dissolto, ogni movimento congelato, ogni emozione amplificata, come un’eco in quel vuoto niveo.
In quello statico ritaglio di realtà, solo il calore dei loro respiri che si condensava nell’aria punteggiata di bianchi fiocchi dava un senso di dinamicità.
La neve si adagiava su di loro, sui loro abiti, sui loro capelli.
A separarli solo il braccio teso di lei.
Gli occhi dell’uno si riflettevano in quelli dell’altra, mentre infondo a quel braccio si trovava una pistola che tremava nella mano incerta della donna.
La vita dell’uno dipendeva da quella dell’altro e non era solo quell’arma a fare la differenza.
Lui afferrò la canna della colt e se l’appoggiò sul petto.
«Spara Lisbon!».




  
48 Ore, Prima. 



48, il numero delle ore che Lisbon era scomparsa mentre effettuavano irruzione in una casa apparentemente abbandonata, alla ricerca di un possibile sospettato.
Indagavano sul caso del chirurgo da almeno un mese.
Il serial killer debuttò in dicembre, mentre l’aria si era fatta ormai più fresca anche in quel paradiso tropicale della California.
Le piste utili non avevano portato a nulla - se non a qualche sospettato ipotetico - e le vittime continuavano ad incrementare irrimediabilmente, senza poter porre un freno alla strage.
Il chirurgo, così ormai lo avevano ribattezzato i giornalisti, aveva ufficialmente fatto la sua entrée  con l’omicidio di Veronica Parker, una giovane donna caucasica, ritrovata nella propria abitazione, adagiata nuda sul tavolo di cucina.
L’assassino aveva praticato incisioni sul corpo mentre la vittima era ancora in vita - aveva constatato la scientifica - dopodiché aveva suturato le ferite con l’eleganza di un couturier d’alta moda.
Le cicatrici erano lievemente rialzate, mentre ogni eventuale traccia di sangue era stata ripulita dall’epidermide ormai livida del cadavere.
Quando la rinvennero nel suo appartamento di St. Alley Street, proprio dietro la The Old Spaghetti Factory, così deposta su quella superficie lignea, con il disegno delle cicatrici che le decorava le carni ormai esanimi, Veronica Parker sembrava l’elemento protagonista di una raccapricciante composizione artistica.
La prima ipotesi avvallata fu quella del contrabbando illegale di organi, ma lo stesso medico legale rimase attonito nel constatare che dal corpo, rattoppato come quello di una bambola di pezza, non era stato asportato alcunché.
Essendo l’omicidio avvenuto nella giurisdizione di Sacramento, il CBI venne coinvolto nelle indagini pressoché da subito e il caso venne affidato alla squadra del capo Lisbon.
Era gennaio, i giornalisti televisivi impazzivano tra presunti risvolti nel caso del chirurgo e l’imminente arrivo di Juanita.
La perturbazione Juanita, dal nome spagnoleggiante, arrivava dall’Oceano Pacifico e stava portando con sé una massa d’aria gelida che – annunciavano preoccupati i meteorologi - avrebbe causato un’anomala nevicata a partire dalle coste californiane assolate, piacevoli anche nelle giornate invernali, fino all’entroterra.
« Neve a Sacramento? Andiamo è assurdo!»
« Tu che non sei ancora stato sbattuto fuori dal CBI, questo sì che è assurdo, non trovi?» la voce piatta dell’agente Cho – chino sui documenti che stava esaminando - s’intromise velata di cinico sarcasmo.
« E’ un problema di correnti! » tentò di intervenire Van Pelt, cercando di dare un tono scientifico alla conversazione.
« E’ un problema di audience!» la rimbeccò vivacemente Jane, prima di portare il bordo di porcellana alle labbra, piegate in un’espressione dolcemente canzonatoria.
« Pensate che troverò delle catene da neve dal ferramenta?» farfugliò agitato Rigsby, toccandosi nervosamente il capo.
Nessuno riuscì a trattenere un sorriso.
Ma questo era prima, prima che lei sparisse.
Lisbon entrò in ufficio, rompendo l’atmosfera ilare con il precipitoso scalpiccio dei suoi passi.
« Abbiamo una pista!» esordì.
Si scostò i capelli dalla fronte e si posizionò al centro della stanza così da attirare l’attenzione di tutti i presenti.
Jane la osservò, si mordeva il labbro inferiore, faceva vagare gli occhi nella stanza senza mai posarli su qualcosa di preciso e continuava a scacciare la frangia lateralmente con la mano destra, mentre l’altra era adagiata sul fianco.
Era decisamente nervosa, diagnosticò, mandando giù l’ultimo sorso di tè.
« Che succede capo?» Cho si alzò dalla propria postazione e si appoggiò alla scrivania, le braccia conserte, l’espressione compassata.
« Ho appena saputo che anche l’FBI è sulle tracce del chirurgo…a Washinton gli danno la caccia da sei mesi ormai! »
Van Pelt sussultò « Sei mesi? Come mai noi non ne sapevamo niente? ».
« Parliamo dei federali…avranno fatto in modo di contenere la notizia ed evitare la fuoriuscita di informazioni per agire in modo più discreto!» ipotizzò pensieroso Rigsby, ancora realmente focalizzato sulla questione delle catene da neve.
« Quello che conta è che hanno deciso di condividere con noi alcune informazioni.» sentenziò Lisbon con un tono che non ammetteva repliche o eventuali interventi.
Jane la osservò, era da moltissimo che non vedeva la collega così coinvolta in un caso.
Sembrava quasi che il chirurgo fosse il Red John di Lisbon.
Sorrise amaramente del suo pensiero leggero e tristemente sarcastico.
« Abbiamo un indiziato in fuga da Washinton.» riprese la donna « Il potenziale assassino si chiama William Turn».
William Turn.
Jane aprì le porte del suo palazzo della memoria. Se avesse potuto prevedere i risvolti di quella vicenda, avrebbe relegato William Turn nell’appartamento più terrificante della sua mente e ce lo avrebbe lasciato marcire.
Non avrebbe mai dimenticato quel nome.
William Turn era gracile nella foto segnaletica fornita dall’FBI, un trentenne emaciato con una manciata di capelli pagliericci sparsi a caso sulla testa ovale. Nel viso affilato e pallido spuntavano come atolli aguzzi gli zigomi pronunciati, mentre i piccoli occhi di un azzurro slavato s’infossavano nelle cavità oculari.
Aveva le lentiggini e segni rossi sul naso causati dalla montatura degli occhiali.
Sembrava un pallido demone in quell’istantanea.
Aveva la faccia da assassino squilibrato.
Turn non aveva precedenti e non era schedato in alcun archivio legislativo. Era pulito.
Risultava residente a Santa Barbara da soli tre mesi , mentre non c’era alcuna traccia di precedenti recapiti.
William Turn non esisteva a Washington, perché William Turn non esisteva affatto.
« Avrà sicuramente falsificato i passaporti» sospirò Lisbon, non meno tesa di quando era entrata.
« Ma per aver effettuato un viaggio così lungo, braccato dall’FBI oltretutto, deve avere di sicuro qualche conoscenza ai piani alti!» asserì Grace picchiettando le lunghe dita sulla tastiera del pc « Voglio fare alcune ricerche capo».
« Abbiamo bisogno di tutto il materiale che riusciamo a trovare su questo Turn, o chiunque si celi sotto questa identità» concluse Lisbon posando entrambe le mani sui fianchi « Jane» lo chiamò e lo inchiodò con i suoi occhi smeraldini « Tu cosa ne pensi?».
Se avesse veramente potuto esprimere i suoi pensieri presenti avrebbe detto di trovarsi metaforicamente con una pistola alla tempia. Quegli occhi così determinati lo avevano appena spiazzato, per la prima volta, facendogli riscoprire la tenacia di quella piccola donna che per lui, a volte, sembrava indistruttibile.
Lisbon era forte, era coraggiosa e non solo perché aveva una fondina legata in vita con una colt pronta ad essere sfoderata. Lei gli aveva salvato la pellaccia più di una volta.
Lei lo stava salvando da una minaccia invisibile.
Un pericolo che nessun altro riusciva a vedere.
Se stesso.
« Credo che dovremmo fare una visitina a questo Turn…o quantomeno perlustrare la sua…casa? Laboratorio? ………………Tana?» alzò un sopracciglio dorato cercando di smorzare la tensione, cercando di uccidere ogni giovane germoglio sentimentale che cercava di attecchire nel suo arido petto.
I colleghi sospirarono.
« Ma l’avrà già fatto l’FBI» intervenne pacatamente Grace.
« No » le rispose Lisbon « Loro si sono mossi nella propria circoscrizione, quando ha smesso di colpire a Washington lo hanno perso di vista e solo da pochi giorni hanno designato questo Turn come possibile indiziato» si guardò attorno agitata «Mi procuro immediatamente un mandato per una perlustrazione alla residenza di Santa Barbara» si avviò all’uscita, indugiando con lo sguardo sul consulente prima di lasciare l’ufficio «chissà che non fai funzionare i tuoi super poteri da sensitivo là dentro!».
Jane sorrise e la stessa espressione si riflesse per un breve momento sul viso tirato di Lisbon.  

Juanita era ormai vicina, si sentiva nell’aria che da tiepida si era fatta improvvisamente pungente, dalla brina mattutina e dal sottile strato ghiacciato formatosi sulle pozzanghere che costellavano il vialetto della residenza di Turn.
Il grande fuoristrada nero dai vetri oscurati divorò la terra polverosa sotto gli pneumatici e si fermò presso la staccionata che delimitava la proprietà. Il recinto di assi di legno, verniciate di bianco e scolorite in più punti, racchiudeva pochi metri quadrati di prato avvizzito. L’erba rada e sofferente del cortiletto era tagliata a metà da un viottolo delimitato da simmetriche file di ciottoli tondeggianti.
La cura nella disposizione delle pietre, reciprocamente speculari sui due lati, stonava con la trascuratezza di quello che doveva essere un rigoglioso giardino, notò Jane scendendo dalla vettura.
Lisbon rimase ancora qualche secondo sul veicolo, dando a Cho disposizione di attenderli lì fuori fino a nuovo ordine.
« Se ci mettiamo troppo, chiama i rinforzi!» gli intimò, sperando tacitamente che quella situazione non si realizzasse.
La casa si sviluppava su un unico piano, il tetto di tegole ammuffite era spiovente e percorso perimetralmente da una grondaia arrugginita, in perfetto accordo col colore ramato dell’intonaco  scrostato.
La donna e il consulente giunsero al portico, fuori dalla casa nessun segno del proprietario.
Nessun oggetto che rivelasse la presenza di qualcuno che vi abitasse.
Suonarono ripetutamente il campanello e rimasero ad attendere senza successo sulla soglia.
Lisbon estrasse la pistola dalla fondina e la impugnò con entrambe le mani, portandola alla destra del suo viso, poi si voltò verso Jane e con la testa gli fece cenno di farsi da parte.
« Facciamo irruzione?» domandò sussultando l’uomo.
Ma la risposta che ricevette fu il piede di Lisbon che si abbatteva contro la porta, vincendo la resistenza della serratura.
« Facciamo irruzione.» si fece eco da solo, alzando le spalle rassegnato.
Si introdussero nel corridoio lungo e stretto, Lisbon davanti, le braccia protese a puntare la pistola contro eventuali attacchi e Jane alle sue spalle.
La casa era immersa nel silenzio e nella semioscurità.
Incontrarono solo due porte chiuse lungo il corridoio che si apriva in un grande salone.
Qualche raggio di luce filtrava timidamente dalle finestre velate da tende infeltrite, mentre alcune persiane erano state inchiodate dall’esterno.
Procedevano cautamente, percependo le sagome dei mobili e lo spesso strato di polvere dalla quale erano ricoperti.
« Non credo che Turn vivesse qui» mormorò l’agente.
Il silenzio di Jane la fece rabbrividire.
Si voltò di scatto, la pistola tremava nelle sue mani.
Jane era sparito.
« Jane» lasciò esplodere la sua voce e iniziò a correre in direzione contraria rispetto a quella in cui stavano procedendo, mentre i suoi passi risuonavano rumorosamente nella casa «Jane».
Quasi giunta al corridoio urtò un mobile e cadde a terra imprecando dal dolore.
Il ginocchio le doleva terribilmente.
A  terra, nel buio, respirando la polvere che velava anche il pavimento, per un attimo fu colta dal panico.
Costrinse i suoi polmoni a riempirsi d’aria e si issò facendo forza sulle braccia.
La gamba sinistra era lievemente contusa, ma non c’era sanguinamento, constatò tastando l’area interessata.
Il suo respiro, quasi asmatico, era fuori controllo.
Tremante, zoppicò in prossimità dell’andito  «Jane» gracchiò per l’ultima volta con voce ansante.
« Che c’è?»
Al suono di quella voce lei si arrestò su posto.
La testa del consulente fece capolino da una delle porte apparentemente chiuse a chiave « Stavo perlustrando!» disse mostrandole la forcina con cui aveva scassinato la serratura.
Abbozzò uno dei suoi sorrisi, pur essendo conscio del turbamento che aveva appena provocato nella donna.
Doveva stare attento con lei.
Doveva andarci più piano.
Forse stava iniziando ad esagerare, pensando che lei potesse reggere qualsiasi cosa, che fosse indistruttibile.
Ma forse era solo che voleva elegantemente ignorare quell’apprensione che lei provava nei suoi confronti.
Si riservava ancora il privilegio di definirla apprensione.
« Non farlo mai più» riuscì a minacciarlo lei, mentre la sua voce era smorzata dal fiatone e dall’adrenalina scatenata dalla paura.
« Ho trovato qualcosa di interessante…ma che hai fatto alla gamba?» le domandò notando l’andatura singhiozzante della collega.
« Ho sbattuto!» tagliò corto lei.
« Che significa “Ho sbattuto?”» le posò dolcemente  le mani sulle spalle, come a volerla trattenere.
Ma la lasciò subito andare.
Lui non doveva, non poteva permettersi certe debolezze.
Si era ripromesso che l’avrebbe aiutata sempre, che l’avrebbe salvata sempre.
Ma in realtà era lei che lo faceva.
Lo teneva inchiodato alla realtà.
Lui palloncino pieno d’elio, lei la mano che lo teneva stretto.
Lui sarebbe volato via, avrebbe sorvolato i confini della vita per dedicarsi alla sua vendetta.
Lei era la sua zavorra, il peso della sua coscienza.
La sua ancora di salvezza.
Ma niente più.
Le voltò le spalle, lasciandosi dietro verità scomode, difficili da accettare.
« Ho trovato una botola» disse Jane chinandosi ad afferrare l’anello di metallo incastonato nel pavimento.
Tirò e il chiusino si aprì.
Una scala di ferro scendeva per un paio di metri in una stanza immersa nelle luci blu di una doppia fila di neon.
« Andiamo» disse Lisbon impugnando la pistola con la destra e puntellandosi al muro con la spalla sinistra per avere più stabilità sulle gambe incerte.
Lui la seguì, confortato dall’ampiezza di quelle piccole forti spalle, che riuscivano a sorreggere anche le sue debolezze.
Rimasero ammutoliti quando giunsero infondo alla rampa.
Nel seminterrato di quella casa era stato allestito un vero e proprio laboratorio medico, con tanto di provette, ampolle contenenti densi liquidi colorati e lettino metallico.
L’aspetto asettico trasmesso dall’attrezzatura cozzava con il nudo cemento delle pareti e  con la sporcizia del pavimento.
Nel lavandino di acciaio erano abbandonati un paio di guanti ed un bisturi insanguinati.
« Dobbiamo avvertire il CBI» mormorò Lisbon lasciando vagare gli occhi sbarrati in quell’incredibile fabbrica di morte.
Non che non avesse mai visto niente di simile, ma era ancora scossa dalla sua corsa nel buio.
« Sì, direi che è l’ora di chiamare i rinforzi» aggiunse Jane.
Risalirono la scala e si immisero nel corridoio, ma proprio prima di giungere alla soglia, chiusa, Lisbon udì un rumore ovattato alle sue spalle.
Si voltò di scatto.
Jane era riverso a terra privo di conoscenza, una sagoma indefinita torreggiava su di lui e prima che potesse sparargli le era già addosso.
Qualcosa si abbatté violentemente sulla sua testa.
L’ultima cosa che vide fu un viso allampanato con due piccoli occhi blu.

Quando Jane riprese conoscenza si trovava in un letto d’ospedale, l’odore pungente dei medicinali a stuzzicargli il naso e il fastidioso bip del suo cuore a scandire il tempo.
« Sveglia Jane » il viso sorridente di Lisbon sembrava galleggiare in un bagliore solare abbacinante.
« Ma io sono sveglio» disse con voce impastata.
« No, svegliati!» disse la voce ridente sempre più lontana, mentre il viso sbiadiva.
Aprì gli occhi di scatto.
L’odore pungente era ancora lì. E così anche il bip dei suoi battiti.
Ma lei no.
Non ricordava nulla. Il vuoto totale.
Avvisato del suo risveglio dall’infermiera di turno, fu Rigsby il primo ad entrare nella stanza.
Aveva il viso tirato, occhiaie scure e l’espressione di chi deve dire qualcosa di scomodo.
« Avanti, spara Rigsby, che succede?»
« Come ti senti?» lo dribblò impacciatamente.
« Come se avessi preso una botta in testa» disse tastandosi il capo ricciuto alla ricerca del bernoccolo « Eccoti qua!» sorrise carezzando l’escrescenza.
« Già…» l’agente abbassò lo sguardo sul pavimento candido della stanza.
« Ma che diavolo è successo?» domandò e come se la sua mente avesse obbedito a quella richiesta, i ricordi piombarono nella sua testa come un pianoforte in caduta libera « Dov’è Lisbon?».
Rigsby non rispose e continuò a guardare in basso.
« Che le è successo?»
« Jane» fece una pausa, deglutendo a fatica « Non riusciamo a trovarla….da 48 ore!».
Il bip elettronico cessò per un lungo istante.





Ispirazione notturna…=) non ero sicura di questa storia...per niente...ma Esperimentiamo...il mio ritorno a Fringe m sta traviando, aspettatevi di tutto XD
Una breve storia…teoricamente di soli due capitoli…per variare un po’ dalle solite One-shot =)
Imprevedibili risvolti….senza abbandonare la mia usuale vena tragica XD
Spero di avervi incuriosito =)
A presto
BB

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Capitolo 2
*** 28 Giorni. Dopo ***


28 Giorni. Dopo.
 



 

Si era risvegliato 48 ore dopo la scomparsa di Lisbon.
Mentre l’elettrocardiogramma perse un battito del suo povero cuore ormai sfilacciato, Rigsby estrasse una busta trasparente per gli indizi dalla tasca interna della sua giacca.
« Abbiamo trovato questo accanto al tuo corpo» mormorò l’agente, mentre il bisturi all’interno della plastica tintinnò sulla superficie del comodino accanto al letto.
Jane rimase in silenzio, riconoscendo l’utensile che aveva visto nel lavandino del seminterrato in casa di Turn.
Aveva una particolare scanalatura nel manico, come un difetto di fabbrica. La lama inoltre aveva una piccola sbeccatura nella parte inferiore che disegnava una minuscola v nella mezzaluna di metallo.
« Pensiamo che sia una firma…o un qualche messaggio...escludiamo che lo abbia lasciato distrattamente.»
Jane rabbrividì, sapeva cosa intendeva dire il collega.
Stava centellinando a piccole gocce l’amaro siero della verità, indizio per indizio, dato per dato, portando per mano la sua mente verso un’irreparabile realtà.
« Chiunque vi abbia aggredito»  riprese Rigsby « è stato furbo! Abbiamo trovato anche il cellulare di Lisbon…in una delle tue tasche!»
Il rapitore era davvero abile, pensò Jane.
Il chirurgo mutilava ogni sua vittima, senza lasciare tracce dietro di sé, nessun oggetto, nessun marchio, se non quella bizzarra geografia di fili da sutura sui corpi delle giovani donne che uccideva.
Se William Turn era davvero il chirurgo, o lo avevano preso di sorpresa o aveva iniziato ad agire secondo un nuovo schema teatrale.
Alla luce dei fatti, sembrava più probabile la seconda opzione.
La cosa davvero preoccupante era che Lisbon mancava già da 48 ore. Non era normale.
Sapeva benissimo cosa significava.
Patrick rammentò con un sussulto un dettaglio essenziale, ma esitò qualche istante.
Il serial killer aggrediva le vittime perlopiù nelle proprie abitazioni, lasciandole in bizzarre pose, adagiate su qualche elemento d’arredo della casa.
Deglutì.
« Avete perlustrato la casa di Lisbon? »
Rigsby si toccò la base della nuca.
Jane si sollevò dai cuscini che accoglievano il suo dorso teso e si posizionò dritto nel letto, con le dita ferocemente strette sui lembi del lenzuolo.
Non riuscì a decifrare l’espressione di Rigsby.
O forse semplicemente non desiderò farlo per paura di scoprire cosa aveva da dirgli.
« E’ il primo posto dove l’abbiamo cercata» confessò l’uomo dinanzi a lui, straziato da una visibile angoscia « Ma la casa era vuota, perfettamente in ordine, nessun segno di scasso.»
Jane tornò ad adagiarsi contro i guanciali soffici, senza rilassarsi.
Doveva mantenere calma e lucidità se voleva trovare l’aggressore.
Il fatto che fossero passate 48 ore senza notizie di Lisbon  non era comunque un buon segno.


Quando aprì gli occhi un’intensa luce artificiale colpì le sue retine più sensibili del solito.
Sbatté ripetutamente le palpebre per proteggere i suoi occhi doloranti.
Si chiese da quanto tempo avesse perso i sensi e non seppe darsi una risposta.
La vista era alterata dal riflettore circolare appeso proprio sopra la sua testa e puntato dritto sulla sua faccia.
Si sentiva stordita, probabilmente le era stato somministrato qualche sedativo.
Riusciva solo a vedere il lenzuolo bianco adagiato sopra di lei nel cono di luce artificiale.
Fuori dalla campana luminosa era tutto buio e silenzioso.
Tentò di sollevarsi, facendo leva sui gomiti, ma si trovò a rimbalzare sulla superficie metallica sulla quale era adagiata.
I  polsi erano costretti da resistente fibbie di cuoio e così anche le caviglie.
Il suo respiro divenne ansante, aprì la bocca per prendere più aria, avidamente.
Il suo petto si alzava e abbassava a ritmo frenetico.
Mentre cercava di ritrovare la calma, un rumore alle sue spalle la fece trasalire.
Una mano pallida si posò sulla sua bocca, mentre la faccia mefistofelica di William Turn compariva come una maschera galleggiante nella luce abbacinante.
Era ancora più pallido sotto quel faretto.
I suoi occhi erano cerchiati di rosso, risaltando l’azzurro spento di quelle iridi folli.
« Shhh» le intimò posandosi l’indice sulle labbra « Se non griderai potrò evitare di tapparti la bocca con nastro adesivo!».
Un nuovo rumore mise in allarme Lisbon, un ritmico ticchettio di passi si avvicinava al suo letto di acciaio.
Turn le levò la mano dalla bocca e con le braccia mollemente abbandonate lungo i fianchi assunse un’espressione servile « Ecco, le ho portato la donna che voleva signore» disse rivolto ad un ombra fuori dalla loro gabbia di luce alabastrina.
L’uomo avanzò nel cono luminoso e Lisbon lo vide, il camice bianco, la mascherina chirurgica indossata grazie agli elastici auricolari, la montatura scura degli occhiali che rimpiccioliva quegli occhi dal colore indefinibile.
Non poteva vedergli le labbra, ma era certa che sotto quel ritaglio di stoffa bianca c’era un sorriso compiaciuto e folle.
« Ottimo lavoro Greg» la voce dell’uomo col camice arrivò ovattata da dietro la protezione.
Lisbon lo guardò atterrita e non ebbe il tempo di realizzare quello che stava per consumarsi in quel tugurio sotterraneo.
Le ultime cose che percepì, prima di perdere i sensi, furono il bisturi che si conficcava in mezzo al suo petto e il suo stesso grido disumano.


Erano passate 4 settimane.
28 giorni.
672 ore.
40320 minuti.
2419200 secondi.
E di lei nessuna traccia.
Era tornato alla proprietà di Santa Barbara, perlustrandola da cima a fondo, forzando personalmente col piede di porco le persiane inchiodate e inondando di luce il salone centrale.
La polvere ricopriva tutto e si faceva silenziosa testimone dei loro movimenti.
Accanto ad un comodino rovesciato a terra, una lunga scia senza polvere nel pavimento disegnava il profilo di un corpo.
Ecco che voleva dire "ho sbattuto", pensò Jane sentendo una forte stretta all’altezza del petto.
Il pavimento era una mappa dei loro spostamenti, con le orme impresse come stampi sulla neve in quel tappeto di corpuscoli grigiastri.
Oltrepassò la sagoma del proprio corpo sul parquet impolverato e si introdusse nella stanza che lui stesso aveva aperto tre giorni prima.
Scese con la scientifica e col resto della squadra nel laboratorio sotterraneo.
Dei  guanti nessuna traccia, erano stati rimossi dal lavandino, mentre il bisturi, abbandonato nel corridoio e accuratamente ripulito dall’assassino, era già stato archiviato come prova.
Nessuna impronta digitale, solo un paio di orme in più rispetto a quelle sue e di Lisbon, calpestate dagli uomini del coroner.
Un uomo della scientifica le stava misurando e fotografando, nella speranza che potessero giovare alle indagini.
Non riusciva a capire, non riusciva a ragionare, la sua mente era chiusa in un barattolo e non poteva sentirne i pensieri con quel dolore  che lo faceva tremare fisicamente.
Era tutto così dannatamente perfetto, tutto così dannatamente ben escogitato che non era riuscito a trovare neanche uno straccio di indizio che lo avvicinasse alla collega e al suo rapitore.
In ufficio lavoravano giorno e notte, senza sosta, valutando tutte le possibili piste, ma William Turn si era dematerializzato dalla realtà.
Non esisteva.
Il decimo giorno la polizia di Santa Barbara rivenne un cadavere nel bacino di Laguna Bianca, proprio sulla sponda che lambiva i campi da golf del La Cumbre Country Club, a pochi chilometri da Hidden Valley.
Una coppia di giocatori aveva avvistato il corpo che galleggiava nei pressi dell’argine erboso e aveva subito allertato le forze dell’ordine.
Nel momento in cui la donna, tumefatta e irriconoscibile a causa della prolungata permanenza in acqua, si presentò di carnagione bianca e con lunghi capelli corvini il CBI venne subito coinvolto.
Il coroner richiese due membri della squadra per il riconoscimento,  prima di effettuare l’autopsia.
Non solo i colleghi, ma anche Wainwrigh cercò di dissuaderlo.
« Jane, non penso sia una buona idea, possiamo mandare qualcun altro!» gli aveva semplicemente detto e lui non si era di certo fatto intimidire dalla postura autoritaria del suo superiore.
Venne designato Cho  per accompagnarlo e ne Van Pelt, ne Rigsby obbiettarono.

Kimball fu irremovibile sulla questione dei trasporti, muoversi con la Citroën DS color carta da zucchero era fuori discussione.
La berlina dell’asiatico si arrestò nei parcheggi antistanti il complesso.
Fuori dall’obitorio c’era un gran via vai di uomini con la divisa da paramedici.
Mentre attraversavano  il cortile che conduceva all’ingresso, un’ambulanza tagliò loro la strada, andandosi a fermare davanti all’entrata dell’edificio.
Due giovani con una tuta ermetica uscirono dal retro del veicolo, trasportavano faticosamente una barella sulla quale era adagiato un lungo sacco nero.
Jane e Cho li seguirono silenziosamente negli asettici corridoi del fabbricato, fino a che non raggiunsero la porta con l’insegna rossa.
La situazione era ai limiti dell’assurdo, erano abituati a vedere cadaveri ogni giorno, ma lì, in quella sala d’attesa dell’obitorio, la tensione si tagliava col coltello.
Dopo una breve attesa, il dottor Fansworth accolse Jane e Cho nella stanza completamente dipinta di bianco.
La parete posta frontalmente all’ingresso era una lamiera metallica costellata di celle mortuarie.
« Siete pronti?».
Annuirono senza lasciar trapelare alcuna emozione.
Il medico legale si avvicinò a quello che sembrava un immenso schedario, contenete corpi esanimi, anziché documenti amministrativi.
La cella che aprì si trovava sul lato destro della parete, si sentì uno schiocco metallico quando il lettino di lamina lucida uscì dal loculo
Il corpo, ancora tumido, era livido e la pelle sembrava quasi trasparente.
Il viso era distorto dal gonfiore, mentre i capelli sudici erano stati ordinatamente raccolti a lato della testa.
Un panno bianco copriva le intimità della donna, le cui braccia lattee si allungavano elegantemente accanto ai fianchi stretti.
Alcun tatuaggio o cicatrice marchiava quella pelle diafana dilata.
Nessuno parlò.
Il corpo era irriconoscibile.
Cho scosse debolmente la testa.
« Non è lei?» domandò incerto Fansworth.
« Allo stato attuale» rispose l’uomo dai tratti asiatici « è addirittura difficile dire che si tratti di una donna».
Il dottore sospirò « Allora non resta che eseguire l’autopsia per esserne certi» fece una breve pausa, facendo loro cenno di seguirlo verso la porta « Prego, potete accomodarvi fuori, vi comunicherò….».
Proprio sulla soglia, Jane eluse l’imponente figura del medico legale, lo superò e si appressò alla barella metallica.
Fansworth allungò le braccia verso di lui come a dissuaderlo, agitando le mani guantate di lattice bianco « Signor Jane non la tocchi…»
« Jane…» sospirò Cho.
Ma il mentalista era già sopra quel viso, congelato dalla morte in un espressione neutra.
Le posò l’indice sulla palpebra destra e lentamente alzò il molle lembo di carne, scoprendo il bulbo oculare.
Gli bastò un secondo.
Lasciò andare la pelle e si voltò verso Fansworth e Cho, ormai immobili e rassegnati alle sue spalle.
« Non è lei, le iridi sono marroni» sentenziò con voce piatta.
Uscì dalla camera mortuaria, nessuno lo seguì.
Il bagno era vuoto quando vi entrò, si chiuse alle spalle la porta della toilette prima di inginocchiarsi davanti alla tavoletta smaltata del cesso in preda ai conati.
I succhi gastrici risalivano il suo esofago incendiandogli la gola.
Era davvero troppo da sopportare.
Si rialzò in piedi e andò a sciacquarsi il viso nell’antibagno.
Lo specchio rimandava l’immagine di un uomo pallido, i capelli d’oro spento, gli occhi svuotati di ogni qualsivoglia colore.
Affondò la mano nella tasca della giacca e le sue dita incontrarono immediatamente la plastica liscia del piccolo contenitore.
Lo estrasse e lo agitò facendo ticchettare le capsule bicolori al suo interno.
Aprì l’astuccio e lasciò cadere tre pillole sul palmo della mano.
Le buttò giù senz’acqua.
Era davvero troppo da sopportare.

Cho e Risgby lo riaccompagnarono al CBI, barcollante.
Forse aveva esagerato con quelle pilloline.
Probabilmente per farsi una bella dormita ne sarebbe bastata una.
« Jane, sei sicuro di voler restare qui? Ho un divano a casa mia…» propose timidamente il collega più alto.
« Rigsby» Jane- un sorriso ebbro appeso nel centro della faccia, aperto come una ferita sanguinante - lo prese per il bavero della giacca  e gli sussurrò allegramente all’orecchio  « Devo aspettare Lisbon!».
I due agenti si scambiarono uno sguardo rassegnato.
Lo lasciarono solo, all’ultimo piano della centrale, nella sua stanza improvvisata con un cuscino e un materasso.
Sprofondò in un sonno artificiale, senza sogni, senza pensieri.
Quando Si risvegliò stava ancora peggio.
Sentiva che la sua testa stava per esplodere.
La luce bianca filtrava dalla finestra sulla parete dinanzi a lui, disteso supino sul pavimento.
Portò una mano davanti agli occhi per proteggersi da quel bagliore soffuso e si alzò faticosamente dalla superficie di cemento freddo.
Massaggiandosi le tempie si accostò alla finestra e guardò fuori.
Juanita  stava arrivando, il cielo era bianco, una lastra marmorea senza confini, coperchio di madreperla compatto.
La neve sarebbe arrivata, per quanto assurdo potesse sembrare.
Avrebbe voluto che quel gelo gli entrasse dentro ibernando tutte quelle sensazioni, tutte quelle scomode verità a cui aveva tante volte voltato le spalle.
Nel cortile gli agenti brulicavano come insetti ammantati di soprabiti neri e calzati di scarpe lucide.
Si sentiva immobile in quel mondo in movimento.
Non sapeva veramente più che fare.
Si guardò: gli abiti stropicciati, la camicia che spuntava scompostamente dai pantaloni, la sensazione da dopo sbornia.
Nonostante le innegabili apparenze non riusciva ancora ad ammettere a se stesso il perché.
Era davvero un omuncolo  patetico.

Il ventottesimo giorno non era ancora riuscito a trovare alcun indizio che li conducesse a Turn e l’inchiesta stava lentamente passando in secondo piano.
Santa Barbara li aveva ormai abbandonati per dedicarsi al caso di una sedicenne scomparsa e lo stesso CBI, benché non avesse ancora ritirato alcuna risorsa dall’indagine, doveva fare i conti con una lunga lista di omicidi.
La squadra più brillante del distretto non risolveva casi da almeno ventotto giorni, erano tutti completamente assorbiti dalla ricerca del capo Lisbon.
Gli accertamenti sugli atti di proprietà dell’abitazione di Palomino Road non stavano portando da nessuna parte.
L’ex proprietario, un pensionato di settant’anni di nome Calton Fox, aveva descritto il signor Turn come un uomo maturo, sulla quarantina probabilmente, capelli neri ravviati ordinatamente e occhi scuri.
Dall’identikit fornito dal signor Fox, William Turn poteva essere un californiano qualunque, ma non era di certo l’uomo della foto segnaletica che avevano ricevuto.
L’anziano aggiunse che non avevano mai comunicato telefonicamente - ci aveva pensato un’agenzia immobiliare a stabilire i rapporti tra le parti - e che si erano incontrati un'unica volta, il giorno in cui avvennero il pagamento – rigorosamente in contanti - e la firma del contratto.
Era sempre meno chiaro chi si celasse dietro Mr. Turn, due persone o un abile trasformista?
Van Pelt si dedicò alla ricerca della Rich&Sons Agency, ma scoprì avvilita che il numero era stato disattivato mesi prima e che non risultava alcuna agenzia immobiliare registrata a quel nome.
Il chirurgo, intanto, sembrava aver interrotto la scia sanguinaria che si lasciava alle spalle, azzerando il conto delle proprie vittime.
Gennaio era quasi terminato.
Juanita era arrivata sul cuore pulsante della California, il suo entroterra, lasciando che un'impetuosa bufera di neve seppellisse le case di lusso sotto la coltre candida.
Era già buio.
« Jane» Grace gli toccò la spalla e lui sussultò, colto alla sprovvista come ormai gli capitava da tempo « C’è una bufera in corso, non puoi restare qui…accetta l’invito di Rigsby per favore».
In realtà l’invito erano gli inviti, dal momento che Wayne continuava a pregare Jane di lasciare quel dannato ufficio adibito a stanza nell’ala abbandonata del CBI.
« Almeno per stanotte» lo esortò la giovane.
Nessuno di loro lo aveva mai visto in quelle condizioni.
I capelli arruffati, una spruzzata di barba bionda sul mento sempre liscio e gli occhi profondamente esausti.
Il consulente si arrovellava giorno e notte il cervello, alla ricerca di un dettaglio, di un minuscolo elemento che lo portasse al colpevole.
Quello con cui non aveva fatto i conti era la sua incapacità di estraniarsi dalla vicenda, come faceva sempre.
Non riusciva ad ammettere a se stesso di esserci dentro fino al collo e di avere la mente offuscata dalle emozioni.
No, non lui.
Lui aveva ormai lasciato dietro di sé quelle sensazioni, si era ripromesso che avrebbe vissuto la sua vita distaccato dai legami, per  dedicarla solo alla sua vendetta.
Ma ormai neanche i sonniferi lo aiutavano più, lei si introduceva nei suoi sonni artefatti dai medicinali, morta, bianca e insanguinata, gli occhi aperti che lo inchiodavano, come una pistola alla tempia.
« Va bene» cedette e raccolse la giacca adagiata sul bracciolo del suo amato divano.
Scesero nel cortile, ormai tutte le vetture erano state rimosse, solo qualche dipendente si trovava ancora nell’edificio.
« Aspettami qui!» disse Rigsby correndo verso la propria vettura.
Jane rimase fuori dall’ingresso del CBI, Il vento sferzava sul suo viso, i fitti fiocchi ghiacciati sembravano graffiare la sua pelle.
Lasciò vagare gli occhi nell’oscurità e nel turbinio di bianchi cristalli la vide, una piccola ombra scura.
Fece un passo in avanti e il miraggio sparì nella nevicata, mentre i fari dell’auto di Wayne lo illuminarono improvvisamente.
Si passò una mano sul volto sciupato e salì in auto, silenziosamente.

Quando la vettura fu fuori dal cancello, la donna uscì dal suo nascondiglio nell’ombra.
Estrasse il cellulare dalla tasca e premette il tasto di chiamata rapida.
Dopo alcuni squilli il suo interlocutore rispose.
« L’ho trovato».




Più procedo nella mia idea...più si sta presentando l'impossibilità di racchiuderla in soli due capitoli :S opssssss......

Un grazie per aver letto la mia storia e aver speso un pò del vostro tempo.
Con la speranza di mantenere vivo il vostro interesse
un saluto

BB

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Capitolo 3
*** 48 Ore. Verso la fine. (PARTE 1) ***


48 Ore. Verso la fine.




«L’ho trovato!».
« Benissimo, sai come procedere…e sai quanto tempo hai» le rispose il suo interlocutore, mettendo in quell’ultima frase un tono cinicamente ironico.
Lei riattaccò e ripose il telefono nel cappotto nero.
Si avviò nella bufera di neve a piedi, trovando per miracolo un taxi disposto ad accompagnarla in albergo.
Al 728 di Sixteenth Street, lo Sheraton Grand Sacramento Hotel, con la sua facciata beige e nocciola, si affacciava sul proprio marciapiede innevato come un complesso dalle geometrie squadrate.
Quando entrò nella hall, ogni centimetro di stoffa che aveva indosso era madido, intriso di neve sciolta.
Le suole bagnate delle sue scarpe lasciarono una scia di orme scure sulla moquette bordeaux, che si snodava fino al banco della reception.
Si avvicinò al bureau, dove il receptionist la accolse con un caloroso « Buonasera, posso esserle utile?».
Era un ragazzo giovane, sulla ventina, aveva la carnagione mulatta, lineamenti marcati e denti bianchissi, disposti in una fila precisa, incorniciata dalle carnose labbra d’ebano.
La camicia bianca dal colletto alto metteva ancora più in risalto quella pelle scura e serica.
Lei ricambiò il saluto con un sorriso e gli chiese di potersi registrare.
« Ho prenotato un camera.»
« Nome?»
« Elisabeth Stone» disse lei, porgendogli il documento identificativo.
« Benissimo …signorina» aggiunse consultando il passaporto « Avrò bisogno di una firma qui e poi abbiamo finito».
La donna prese la penna e vergò il documento, mentre quel giovane uomo la scrutava affascinato e intimidito allo stesso tempo.
« Ecco qua» concluse lei con un sorriso « Vorrei poter usufruire del vostro servizio sveglia domani mattina, è possibile?».
« Ma certo, a che ora la faccio chiamare?».
« Alle sette in punto, grazie» confermò sorridente.
« Grazie a lei signorina Stone» ricambiò il sorriso e le porse la chiave magnetica « Le auguro di trascorrere una piacevole permanenza allo Sheraton Grand Sacramento Hotel‎».
Solo quando la vide in attesa dell’ascensore si accorse che non aveva bagagli.

Giunta davanti alla porta 225, passò la tessera magnetica nella serratura ed entrò nella stanza lasciandosi il corridoio alle spalle.
Studiò velocemente l’arredamento sobrio, dalle tinte perlopiù beige e dopo aver testato quanto fosse confortevole il materasso, decise di ordinare la cena in camera.
Si appisolò sul morbido guanciale, guardando la televisione e sbocconcellando dal carrello vivande che un cameriere impettito le aveva lasciato davanti all’ingresso.
Non si accorse neppure di aver chiuso gli occhi.

Si trovava prigioniera di un uomo malvagio.
Finché una luce chiara la avvolse e qualcuno la liberò gentilmente.
Quella persona le parlava con affettuosa apprensione, accarezzandole i capelli .
«Lui ti riconoscerà e negherà. Ti dirà che ti stai sbagliando. Ti racconterà delle cose della tua vita, solo per confonderti. Non credergli. È un uomo furbo, manipolatore, crudele, disposto a tutto»
«Come fai a saperlo?» gli domandò lei frastornata.
«Perché ha fatto del male anche a me».


Si svegliò di soprassalto dal suo sogno.
Erano già le undici passate.
I vestiti ancora umidi le si erano appicciati addosso, non se li era neppure tolti per la stanchezza e per la fame.
Scese controvoglia dalla soffice coltre, il profumo del copriletto si era mischiato delicatamente a quello della sua pelle.
Si spogliò degli indumenti lasciandoli cadere a terra, ai piedi del letto, e s’incamminò nuda verso il bagno.
Di fronte al lavandino, sormontato da un grande specchio rettangolare, c’era la cabina della doccia.
Aprì l’anta trasparente e avviò il getto d’acqua, lasciando che raggiungesse la temperatura desiderata.
Il vapore iniziò a riempire la sala da bagno, mentre lei fissava il suo riflesso nello specchio.
Non ricordava quanto tempo fosse passato dall’ultima volta.
Posò le mani sul bordo smaltato del lavabo e non poté fare a meno di soffermarsi a fissare gli ematomi che disegnavano scuri braccialetti sui suoi polsi. Gli stessi lividi abbracciavano anche le caviglie.
Solo per un attimo provò la sensazione di essere finalmente libera, ma immediatamente si ricordò che non era ancora così, c’era ancora una cosa che doveva fare.
Tornò a guardare quell’immagine rimandata dallo specchio come se fosse stata la prima volta che vedeva se stessa.
I capelli di un mogano scuro - tagliati maldestramente appena al di sotto del mento - incorniciavano il suo viso stanco, rimandando riflessi rossicci e facendola apparire ancora più pallida.
Si passò una mano al centro del petto, tra i piccoli seni inturgiditi dal freddo.
Una lunga cicatrice, più chiara rispetto al resto della pelle, serpeggiava a partire dal centro delle sue clavicole sin sotto lo sterno.
Le suture, sebben eseguite magistralmente, non avevano potuto evitare quel segno indelebile sul suo corpo.
Quel tatuaggio di carne in rilievo era allo stesso tempo la sua salvezza e la sua condanna.
Diede le spalle al proprio riflesso e si infilò nella doccia bollente.
Un segnale elettronico attirò la sua attenzione, mentre il getto bollente precipitava sulla sua testa dandole conforto.
L’orologio che aveva al polso s’illuminò un paio di volte emettendo una serie di acuti bip.
Il bracciale di metallo pesante - su cui era montato il quadrante digitale - aveva una piccola serratura che permetteva di asportarlo solo per mezzo della rispettiva chiave.
Quando la sarabanda di suoni e luci intermittenti cessò, sul display dell’orologio comparve una cifra.
48:00:00.
Il conto alla rovescia era iniziato, pensò mentre iniziava a massaggiare i capelli con lo shampoo.

Vestita solo di un asciugamano, che le arrivava a malapena alle ginocchia, tornò a stendersi sul morbido letto.
Aveva bisogno di una vera dormita.
Con i capelli ancora bagnati, adagiò la testa sul guanciale.
Chiuse gli occhi.
L’immagine di un uomo armato di bisturi lampeggiò nella sua mente come un flash fotografico.
Scattò a sedere, il respiro frenetico, le unghie conficcate nel copriletto.
Cercò di tranquillizzarsi, di controllare l’aria che entrava ed usciva dai suoi polmoni, ma sembrava inutile.
Come una polaroid, quel ricordo continuava a riemergere dal suo inconscio, fermo immagine di un incubo dal quale ancora non sapeva se si sarebbe mai risvegliata.
Si posò una mano sul petto, alla ricerca del battito ovattato di quel cuore ancora estraneo.
Aveva solo 48 ore.
Doveva riposare.
Scese dal materasso andando a cercare il cappotto che aveva abbandonato ai piedi del letto. In una delle tasche trovò la boccetta di vetro ambrato.
“Solo tre gocce” gli aveva intimato Brice prima di porgergliela.
La aprì esalando l’aroma dolciastro del medicinale, poi con l’aiuto del contagocce, stillò una lacrima dopo l’altra sotto la lingua.
Scivolò sotto le lenzuola.
Non le importava di essere nuda e sola in quel letto, percepiva il suo corpo come una semplice corazza, come un semplice involucro di carne.
Sentì rallentare il flusso dei suoi pensieri, in accordo con il suo respiro sempre più lungo e rilassato.
Non le importava più niente, quell’uomo malvagio dai capelli dorati che scuoteva la sua mente le aveva portato via ogni cosa, persino il sonno.
Inciampò nel buio del sonnifero, senza poter evitare il baratro dei suoi incubi.

Il demone dagli occhi blu la guardava sorridente, senza parlare e lei si accorse di non conoscere affatto quale fosse la sua voce.
Una lama stava precipitando su di lei, incatenata al suolo.
Sentì il ricordo di un dolore fortissimo, poi la dolcezza di una mano che le carezzava il capo.
«Con le mie cure ho potuto solo allungare il tuo tempo per adesso. Ma come ben sai niente è gratuito, benché io e te in un certo senso ci troviamo sulla stessa barca, ogni cosa ha il suo prezzo. Aiutami e io potrò ridarti la normalità. Devi fare una cosa per me…e per te. Portami l’uomo che ci ha rovinato, ci vendicheremo insieme e tu potrai riprenderti la tua vita. Allora che ne dici…Elisabeth?»
Si toccò il petto senza avvertire alcun suono.
«D’accordo!»


La suoneria del telefono dell’interno 225 ruppe violentemente il silenzio racchiuso tra le pallide pareti.
La donna emerse dalle coperte, i capelli arruffati, gli occhi ancora pieni di sogni distorti.
Alzò la cornetta senza parlare.
« Signorina Stone?».
Annuì con un mugolio incomprensibile.
« La chiamo dalla reception come da lei richiesto. Se desidera le faccio portare la colazione in camera tra una mezz’ora…».
Riconobbe la voce dell’affascinate custode che l’aveva accolta la sera precedente. Troppo giovane, pensò ubriaca di sonno e Lexotan.
« Sarebbe fantastico» rispose « Tra mezz’ora quindi…» riattaccò senza neppure attendere la replica dell’interlocutore all’altro capo dell’apparecchio.
Rotolò scompostamente su un fianco per guadagnare il bordo del materasso.
In bilico tra lo strapunto e il pavimento, lanciò uno sguardo all’orologio al suo polso.
40:57:49
Imprecò e si infilò nuovamente nella doccia, mente le cifre sul display precipitavano.

*


Brice Sheldon se ne stava comodamente stravaccato nella sua poltrona di pelle, contemplando la perfezione di quella tazza fumante piena di caffè adagiata sulla sua bella scrivania di mogano in uno degli uffici dell’FBI al 4500 di Orange Grove Avenue.
Distolse lo sguardo dalle leggiadre volute di calore che si levavano dalla bevanda, per guardare lo squarcio di panorama offertogli dalla sua ampia finestra.
Tutto fuori era bianco, ammantato da quella candida coperta di cristalli che sembravano congelare suoni e rumori di quel quartiere solitamente caotico.
La Orange Grove Avenue era poco trafficata, la neve aveva causato grandi disagi alla circolazione.
Benché avesse ottenuto il trasferimento da Washington da ormai un mese, le strade di Sacramento per lui erano ancora estranee, sotto quella coltre bianca poi gli sembrava appartenessero ad una città del tutto ignota.
Tornò a focalizzarsi sull’interno della stanza, stava andando tutto nel verso giusto, pensò allungando la mano verso la tazza con lo stemma bianco, rosso e blu dei Washington Nationals.
Gliel’avevano regalata i suoi colleghi di Washington qualche tempo prima della sua partenza, lo stesso giorno del rapimento di Wilson Ramos, il ricevitore della squadra.
Ramos venne sequestrato in Venezuela nel mese di novembre e rilasciato pochi giorni dopo. Da buon tifoso, Sheldon aveva seguito con apprensione la vicenda: insomma, senza Ramos potevano tranquillamente dire adieu al campionato.
Ma ora il giocatore era sano e salvo e lui aveva già acquistato i biglietti per la partita di marzo; è tutto perfetto, pensò continuando a divagare nelle sue fantasie.
Prima ancora che le sue dita toccassero il manico di porcellana colorata, la suoneria del cellulare impazzì dentro la tasca della sua giacca elegante, strappandolo alle sue idilliche prospettive.
Quando lesse il numero in chiaro sul display, Sheldon non lo riconobbe, quindi si limitò a rispondere.
« Sono Greg!» disse la voce affannata al telefono, facendolo sobbalzare sulla sua comoda poltrona imbottita.
« Ma che diavolo ti salta in testa?» domandò senza convenevoli al suo interlocutore « Ti avevo detto di non chiamarmi per nessuna ragione Greg!».
« Ma signore…» tentò di obbiettare l’altro.
« Ti ho dato quello che ti spettava. Fai la tua ultima parte e sarai fuori dalla faccenda…».
« Non posso…» piagnucolò.
« Come diavolo sarebbe a dire “non posso”, Greg?»
« Sono nei guai!» disse l’uomo all’altro capo dell’apparecchio.
« Da dove stai chiamando?» domandò a bassa voce, tenendo una mano davanti al ricevitore.
« Da una telefono pubblico in Richmond Street».
« Cristo, Greg! ma dico, ti sei bevuto il cervello? Un telefono pubblico? Lo sai che è una linea intercettabile… ».
«Ho perso il cellulare che mi hai dato e…»
« Greg» disse con perentorietà l’uomo « Sei fuori a partire da ora! Non mi chiamare più o…» fece una breve pausa, mentre l’altro deglutiva rumorosamente «..mi vedrò costretto a prendere provvedimenti…».
Stava per aggiungere altre spaventose minacce quando Molly, la sua adorabile segretaria sovrappeso, fece capolino sulla porta dell’ufficio.
« Sì Susan, se non ti decidi ad alzare la tua media scolastica sarò davvero costretto a prendere dei provvedimenti! Ti chiuderò in casa per il resto della tua vita Susan! Ora ho da fare, sono a lavoro, non disturbarmi ancora!» sputò una parola dopo l’altra nell’apparecchio, alzando un pochino la voce per farsi sentire.
Molly si portò una mano davanti alla bocca, mentre Brice chiudeva la comunicazione.
« Mi scusi signor Sheldon, forse sono capitata nel momento sbagliato…» la segretaria lasciò cadere la frase a metà, mentre lui la accoglieva con un sorriso.
« Ma no signora Dukey, era solo mia figlia…» ripose il telefono nel taschino «…adolescenti, pensano di poter fare sempre quello che vogliono, come vogliono, senza pagarne le conseguenze!» rispose, senza tradire il senso metaforico della sua spiegazione.
La donna, fasciata nel suo tailleur rosa confetto, sorrise impacciata, visibilmente ammaliata da quell’uomo, capace di una galanteria tanto retrò, quanto chic.
Brice Sheldon aveva la pelle abbronzata, segnata da rughe che gli conferivano un fascino maturo, sicuramente accentuato dai capelli brizzolati ravviati all’indietro.
Molly lo descriveva alla sua amica Rosario Gomez come il perfetto connubio tra George Cloney anno 2011 e Richard Gere a quarant’anni.
« Ma mi dica signora Dukey, doveva parlarmi?».
La segretaria trasalì dalla sua contemplazione adulatoria ed imbarazzata riferì la sua comunicazione « Mi hanno mandata a dirle che il suo permesso è stato accordato» sorrise come una quindicenne afflitta da cotta adolescenziale «Le auguro di passare delle buone ferie con la sua famiglia».
« La ringrazio…Molly» rispose cortesemente, chiamandola per nome e allo stesso tempo congedandola.
La signora Dukey trotterellò via estasiata, accompagnata dal suono dei tacchi delle sue decolté, mentre Sheldon appoggiato allo schienale della poltrona tornava a guardare fuori, completamente dimentico del suo caffè
Avrebbe dovuto sbrigarsela da solo.
Riprese il cellulare e selezionò un numero salvato in rubrica.
Dopo un paio di squilli gli rispose una voce femminile.
« Buongiorno Liz, hai ricevuto il mio regalo?»
« Giusto un attimo fa».
« Bene è tutto scritto nel biglietto» concluse « Da ora interrompiamo le comunicazioni, salvo imprevisti. Ma conto su di te Liz, so che non mi deluderai»
« Non lo farò».
Elisabeth chiuse la comunicazione e prese la tazza di caffè adagiata sul carrello della colazione.
Tra le vivande era stata deposta anche una busta gialla, con la sola intestazione.
“ A Mrs. Stone…”
Il cameriere che si era occupato della sua colazione gli aveva detto che era stata recapitata quella stessa mattina e lei senza obbiezioni l’aveva ritirata insieme a brioche e marmellate.
All’interno una chiave di automobile e un biglietto pieno di istruzioni che già conosceva, ma che rilesse comunque.
Aveva ancora un bel po’ di tempo prima di entrare in azione.
Poteva concedersi una colazione rilassante, nel caso in cui fosse stata l’ultima.

*


Si sentiva come Superman nel pieno di un dopo sbornia da cocktail alla Kriptonite. I suoi super poteri non funzionavano più.
Non che avesse mai avuto delle vere capacità paranormali, ma le sua mente intuitiva aveva sempre funzionato bene fino a quel momento.
Il cielo continuava ad essere pallidamente insano, ma quantomeno aveva smesso di nevicare.
Si preparò una tazza di te, prese un libro e si accomodò nel suo divano, alla ricerca di quella routine, di quell’equilibrio che con tanta fatica aveva riguadagnato e che nel giro di pochi istanti aveva nuovamente perduto.
Era finalmente giunto a fare i conti con sé stesso, non poteva più nascondersi e doveva cercare di accettare i fatti al più presto possibile.
Lui poteva andare avanti.
Doveva.
Aprì il libro ad una pagina casuale e vi puntò lo sguardo, senza realmente cogliere le parole ivi scritte.
Aveva accettato un mestiere che comportava di trovarsi quotidianamente ad avere a che fare con persone decedute di morte violenta.
Lui stesso ormai si era calato nel proprio ruolo e lo eseguiva con disinvoltura, annusando cadaveri e frugando con noncuranza nelle loro tasche.
Aveva sempre agito con freddezza.
Perché ora doveva essere diverso?
Non poteva forse continuare a nascondersi dietro i confortevoli muri di menzogne che si era costruito attorno?
Poteva eccome.
Come poteva far finta di esser coinvolto nel caso di una polizotta qualsiasi.
Una poliziotta scomparsa da ormai ventinove giorni.
Sapeva benissimo di essere alla ricerca di un cadavere: dopo un mese, non poteva essere altrimenti.
Aveva già pensato a tutti i possibili siti nel quale il corpo poteva essere stato occultato, ma sebbene fossero state mandate squadre di poliziotti a perlustrare le aree d’interesse non era stato trovato nulla.
I continui fallimenti, d’altro canto, alimentavano le sue illusioni di poterla ancora trovare in vita.
L’arrivo della neve non aveva di certo agevolato le indagini.
Se c’era qualche prova, adesso si trovava sotto quindici centimetri di acqua allo stato solido.
Voltò la pagina, senza averla neppure letta, passando alla successiva.
“Le emozioni sono fuori luogo in una società ben educata, sofisticata. Rappresentano i residui delle nostre origini animali, ma in quanto esseri umani dobbiamo imparare a porci al di sopra di esse. […] Stupidaggini! Le emozioni sono[…] una parte necessaria.”
¹
Scontento dell’incipit della pagina prese a sfogliare il libro distrattamente, percependo le frasi come righe nere nei fogli bianchi.
Le emozioni saranno pur state una parte necessaria, ma continuavano a rivelarsi una rovina nella sua esistenza.
Lui che aveva giocato con quelle altrui, servendosene per arricchirsi sembrava essere stato ripagato dalla vita con un’analoga moneta.
Aveva perso tutto e si era ripromesso di non possedere più niente per non vederselo portare via di nuovo.
Ma ecco che, giorno dopo giorno, era inciampato in quella gentilezza, in quella trasparenza, che piano piano aveva raccolto, se n’era appropriato silenziosamente, indebitamente, inconsciamente.
Raggranellava come briciole dal pavimento, quando tutti dormivano, le attenzioni speciali di quella donna che ora non trovava più.
Sapeva di non averne alcun di diritto, non ci sarebbe mai stato un momento per loro, perché la vita li aveva posti su due binari diversi, molto vicini, ma pur sempre paralleli.
E lui doveva continuare a percorrere la sua rotaia, buttando sempre un occhio indietro per rammentare a se stesso il proprio passato.
Ma gli andava bene così: averla accanto ed aiutarla, quando poteva.
Continuavano quindi a correre vicini, tacitamente aggradati l’uno dalla presenza dell’altro, ma senza mai sfiorarsi, senza mai convergere, ne collimare.
Quella distanza costante tra le due rette parallele preveniva lo schianto.
Quella distanza che era la misura del suo dolore quantificata in centimetri, metri, anni luce.
Infondo, non poteva che essere così per loro due.
Ma adesso nulla più poteva essere, e lui che non voleva possedere niente, aveva in realtà perso un altro prezioso pezzo di sé.
Chiuse il libro, insieme alle oneste conclusioni che ne aveva tratto, e bevve il tè d’un sorso, come se si fosse trattato di un bicchiere di whiskey.
Era già sera.
Van Pelt si alzò di scattò dalla sua postazione, additando il monitor del proprio computer « Abbiamo una segnalazione su William Turn…una fonte dell’FBI ci ha appena inviato il luogo dell’avvistamento».
Rigsby le si avvicinò « Dove?».
« In uno dei magazzini abbandonati dell’antica ferrovia, vicino al California State Railroad Museum » gli rispose, picchiettando veloce le dita sulla tastiera « Stabilimento E, ad ovest…Eccolo!» concluse visualizzando la cartina dell’intero complesso ed indicando con il dito l’edificio interessato.
Cho raccolse la propria giacca « Andiamo a controllare!»
Jane posò la tazzina colorata insieme al libro e si alzò dal suo divano, buttando un occhio alla cartina sull’ordinatore di Van Pelt prima di uscire dall’ufficio.

Nel giro di pochi minuti si trovarono tutti e quattro sul fuoristrada condotto da Van Pelt.
I fari del veicolo fendevano l’aria già buia.
Le strade sgombrate dalla neve si erano risvegliate, sciame furioso di automobili ronzati.
Timidi fiocchi di neve punteggiavano lo schermo nero del cielo, mentre i fari del SUV illuminavano il cortile antistante lo stabilimento abbandonato.
La ferrovia era composta da più edifici, cadenti e rugginosi.
Si diressero subito al cantiere indicato, dividendosi.
« Jane, tu resta in macchina» gli aveva intimato Cho.
Il consulente attese che i colleghi fossero inghiottiti dal buio per poter scendere dalla vettura.
Non gli avevano lasciato neppure una torcia e dovette farsi luce col proprio cellulare.
Proprio mentre arrancava nella semioscurità, l’apparecchio iniziò a squillare.
« Pronto?» rispose senza neanche controllare il numero sul display.
Un respiro ansante, crudele, folle, rimbombava nel ricevitore.
« Pronto?» ripeté il mentalista un po’ più forte, mentre le sue pupille si dilatavano.
« Patrick Jane…?».
« Sì, sono io».
« Ho un regalino per te…».
«Chi è lei? » domandò con voce calma, cercando di carpire i rumori di sottofondo all’altro capo della comunicazione.
«Stabile B» fu invece la risposta «C’è qualcuno che ti aspetta da ventinove giorni!».
« Che cos…?»
La comunicazione s’interruppe bruscamente, mentre Patrick Jane rievocava nella sua mente la mappa del comprensorio e schizzava verso l’edificio più ad est, indifferente al fatto che si potesse trattare di un brutto scherzo, come di un inganno.
In poche falcate si ritrovò all’ingresso e spingendo la pesante porta di ferro arrugginito s’inoltrò nel buio più totale, tagliato qua e là da qualche timido raggio di luce intrufolatosi dalle falle nell’altissimo soffitto.
Il suo cuore stava impazzendo sotto la camicia ed il gilet, mentre la respirazione era sfuggita al suo controllo.
Cercò il telefono nella tasca per farsi luce nuovamente.
Fece appena un passo in direzione del flebile bagliore prodotto dal proprio display, ma immediatamente una mano gli occluse le vie respiratorie con un fazzoletto umido.
Etere, pensò scivolando nell’incoscienza.


Si risvegliò nella fioca luce della sera.
Sentiva un dolce tepore confortarlo, mentre sobbalzava su quello che doveva essere un sedile.
I suoi occhi ancora annebbiati dall’etere iniziavano a mettere a fuoco l’abitacolo della macchina sulla quale stava viaggiando.
Un sottofondo di musica pop riempiva l’ambiente, mentre il naso era dolcemente solleticato dal profumatore alla vaniglia appeso allo specchietto retrovisore.
Cercò di mettersi a sedere più comodamente, ma si accorse di essere ammanettato alla maniglia sopra il finestrino.
Si trovava seduto sul sedile passeggero, accanto al conducente, constatò.
Per un istante venne soprafato dal timore di voltarsi e di scoprire chi fosse alla guida.
Forse era meglio continuare a fingere lo svenimento ancora per un po’, nel tentativo di raccogliere indizi utili.
« Ti sei svegliato allora…» mormorò una voce femminile dal timbro familiare.
Troppo familiare.
Forse era ancora sotto l’effetto dell’etere.
Sollevò il capo e si voltò, rimanendo sconvolto da quello che vide.
« Lisbon?»
La donna lo guardò inarcando un sopracciglio, poi tornò a concentrarsi sulla strada che veloce scorreva sotto la vettura.
« Lisbon…» balbettò l’uomo con la voce impastata dal sedativo « Io…Ti ho cercato ovunque, com’è possibile che tu sia ancora viva?».
« Davvero?» parlò finalmente lei «Allora significa che non mi hai cercata abbastanza…se desideravi così tanto uccidermi!»










Note:
¹ 2004. Donald, Norman. Emotional design. P.4



La parte mediana è quella che mi sta costando più fatica...ho avuto serie difficoltà a trovare un filo conduttore che legasse ogni avvenimento...e non sono del tutto convinta (come mio solito) del risultato...."un grazie sentito a Google Maps che mi sostiene nell'impresa di dare un'ambientazione più e meno veritiera" XD
Spero col prossimo capitolo di concludere l'impresa...insomma da due che dovevano essere originariamente, siamo passati a quattro...niente male :P
Grazie per aver dedicato un pò del vostro tempo alla lettura e alla recensione di questa storia,
Cordialmente
BB

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Capitolo 4
*** 48 Ore. Verso la fine. (PARTE 2) ***


NB: il testo in stile italico e racchiuso tra ** rappresenta i flash back.



48 Ore. Verso la fine.



Il perpetuo stillicidio d’acqua rimbombava in quella stanza claustrofobica. Le singole gocce restavano qualche secondo appese al bordo metallico della proboscide del lavandino, per poi schiantarsi con violenza nella piccola vasca, anch’essa d’acciaio. Insieme al ronzio delle luci artificiali, quei suoni da sala ospedaliera rimbalzavano sulle nude pareti di cemento.
Sentiva lacrime calde staccarsi dai suoi polsi e colare lungo tutta la lunghezza dell’avambraccio, disegnando reticoli di radici rosse. Sotto le cinture di cuoio che la costringevano sulla barella metallica la pelle era escoriata e sanguinante. Ma quel bruciore era nullo in confronto al fuoco che percepiva in mezzo al petto.
Sentiva qualcosa di pesante là, al centro della sua cassa toracica.
La luce del faro luminoso non le lasciava tregua, giorno e notte. Scivolava nell’incoscienza e riprendeva conoscenza per periodi di tempo che non riusciva a quantificare, in uno stato di confusione probabilmente alimentato dai sedativi che le venivano somministrati negli intervalli in cui la lucidità l’abbandonava.
Ogni volta che riapriva gli occhi si accorgeva di aver perso un nuovo pezzo di sé, un altro ricordo, un altro dettaglio.
Si ritrovava prigioniera, dimentica della propria identità e del modo in cui era giunta fin lì sotto.
In tutta quella luce che la stordiva e rendeva ogni cosa reale distorta, vedeva sempre più spesso galleggiare un viso bellissimo. Ma ad ogni apparizione la faccia le sembrava sempre più estranea e malvagia.
Il bel sorriso triste e lo sguardo sempre velato di malinconia si trasformavano in un ghigno crudele e divertito. I capelli d’oro prezioso si spegnevano, virando verso la tonalità malsana del bronzo, mentre l’azzurro pulito e sincero degli occhi sprofondava verso un blu oscuro, infinito, spaventoso.
Aveva dimenticato totalmente la voce che apparteneva a quella bocca, vedeva solo quelle labbra sottili arricciarsi e distendersi, sorridere malevole e beffarsi di lei, inchiodata a una lastra di ferro con un macigno sul petto.
Tentò per l’ennesima volta di liberarsi le mani, tirando con tutta la forza che le restava e lacerandosi le carni in profondità. Le parve che le manette di cuoio le fossero penetrate fino alle ossa e gridò con disperazione, ricevendo l’eco dei suoi lamenti come unica risposta.
«Liberami» singhiozzò senza neanche accorgersi che stava piangendo e implorando come una bambina impaurita.
La luce del riflettore sopra di lei si fece ancora più intensa, cancellando ogni cosa, accecandola con un bianco abbacinante. Come due fiammelle solforose, le iridi blu apparvero galleggiando nell’accecante bagliore, appuntandosi su di lei.
Eccoci, pensò, finalmente metterà fine alle mie sofferenze, uccidendomi.
Il viso scomparve e lei chiuse gli occhi, per accogliere il dolce ristoro del riposo eterno che l’avrebbe strappata al dolore.
Ma quello che sentì fu una forte scarica in mezzo al petto che la liberava da quel peso infernale. Il suono elettronico di un elettrocardiogramma eseguiva il ritmo del suo cuore impazzito con note digitali.
La donna tremò violentemente, la sua pelle percorsa da brividi gelidi s’imperlò di sudore, il suo respiro si fece affannoso.
« Respira lentamente» disse una voce nuova, gentile, calda. Lisbon chiuse gli occhi, non poteva sopportare altro, non poteva resistere ancora in quelle condizioni.
« Sono venuto a salvarti» disse ancora quell’uomo che non poteva vedere per la troppa luce « Io ti libererò».
Sentì un sorriso accendere quella voce rassicurante, che si stava allontanando da lei. Il riflettore si spense sulla sua testa e mentre il tugurio sprofondava nei bagliori soffusi dei soli neon, si accorse di quanto le dolessero e le lacrimassero gli occhi.
Le mani gentili del suo salvatore le liberarono i polsi e le caviglie.
« Non alzarti» le intimò l’uomo e lei obbedì, piccola creatura scossa dai brividi. Si posò una mano tremante e insanguinata sul collo iniziando a scendere, a esplorare il proprio corpo alla ricerca di quel fuoco che divampava con non meno ardore all’interno del suo petto.
Smise di respirare quando, con orrore, si accorse dello squarcio aperto tra le sue costole.

*

Era scioccante guardarla, rinnovata, rinata come una fenice dalle proprie ceneri ardenti. Il viso magro era ancora più affilato e severo, incorniciato dai soliti capelli scuri, che probabilmente si era tagliata da sola.
Le lunghe ciocche che le arrivavano alle spalle erano state accorciate fin sotto il mento con irregolarità, conferendole un aspetto randagio, selvatico. Gli occhi, i soliti occhi verdi, erano più stanchi e più distanti, privi di quella luce vitale che sempre li accendeva.
Ma ciò che era veramente scioccante erano le parole che quella donna aveva appena pronunciato.
«Allora significa che non mi hai cercata abbastanza…se desideravi così tanto uccidermi!»

*

« Non ti muovere» le ripeté carezzandole dolcemente i capelli « Adesso chiuderò questa brutta ferita e starai bene» prese una siringa contenente un liquido chiaro « Ti porterò via di qui, ora riposati».
Percepì il metallo freddo dell’ago penetrare nella sua pelle sottile, il liquido entrò in circolazione provocandole un leggero fastidio, ma non aveva neppure la forza di reagire. Non oppose resistenza al buio che calò sui suoi occhi.
Quando si risvegliò si trovava su un morbido materasso, coperta da un soffice piumone profumato. Si premette la coperta sul naso, riempiendosi i polmoni di quel profumo di ammorbidente.
Mentre la nebbia che avvolgeva la sua mente diradava balenò nei suoi occhi il ricordo di quello squarcio in mezzo ai suoi seni. Posò titubante una mano nel punto dolorante e trovò la fredda cicatrice che la divideva a metà come una bambola di pezza rattoppata.
Si sedette nel letto, aveva ancora indosso la tunica bianca insanguinata e maleodorante di sempre, ai polsi e alle caviglie braccialetti rossi di sangue, tatuaggi di pelle bruciata lasciati dalle costrizioni che l’avevano tenuta prigioniera.
I capelli sudici le incorniciavano il viso smunto, nel quale s’infossavano due occhi privi di qualsiasi luce. Quei riflessi di smeraldo si erano spenti, colorandosi dello stesso grigiore della sua faccia.
Lasciò vagare lo sguardo nella stanza, le spoglie pareti bianche accoglievano la luce tiepida del mattino, filtrata da sottili tendaggi candidi. Anche l’arredamento s’intonava alla tinta dell’intonaco, il grande armadio ed il comodino in legno erano laccati di bianco, con rifiniture dorate.
Il pavimento piastrellato di grandi mattonelle grigie aveva un aspetto freddo, in contrasto col dolce tepore di quel letto accogliente.
Mentre si perdeva ad esaminare tutti quei dettagli squisiti, iIl cigolio della porta la fece sobbalzare in quella stanza sconosciuta.
« Tranquilla» disse l’uomo portando con sé un vassoio carico di vivande « Ho pensato di portarti qualcosa da mangiare».
Il sorriso su quella faccia aveva un sfumatura compassionevole, s’impietosiva davanti a quell’animale tremante e impaurito che si appiattiva contro la testiera del letto.
Si sedette accanto a lei, offrendole diverse pietanze. La donna lo guardò come una bestia incerta e alla fine accettò il pasto, ingozzandosi avidamente, mandando giù il bolo senza neppure triturarlo, deglutendo interi bocconi.
Le lasciò tutto il tempo di rifocillarsi e tranquillizzarsi, poi le mostrò il bagno e gli asciugami che le aveva preparato.
« Lavati con calma, poi parleremo».
Fu la prima volta che si vide, davanti a quel grande specchio dalla cornice argentea. La cicatrice, gli ematomi, il corpo sfinito. E l’orologio di metallo. Guardò l’accessorio che abbracciava il suo polso martoriato, cercando la chiusura a scomparsa, invano.
Il cinturino era un anello metallico rigido continuo, interrotto dal piccolo foro di una serratura.
Rinunciò e s’infilò sotto la doccia, insaponandosi energicamente, lavando via quella sensazione di sporco che non era del tutto fisica. Quando tornò davanti allo specchio, avvolta nell’accappatoio di spugna iniziò a spazzolarsi. I capelli erano così intricati che i denti del pettine non riuscivano a sciogliere i mille nodi. Aprì un paio di cassetti e trovò le forbici metalliche.
Con decisione recise le lunghe ciocche annodate, che ricadevano volteggiando accanto ai suoi piedi nudi. Terminò di asciugarsi ed indossò gli abiti maschili che le erano stati lasciati sul marmo del lavandino.
« Ti stanno bene i capelli corti» tentò di sdrammatizzare l’uomo che l’attendeva nel salone, sprofondato in una poltrona rivestita di stoffa arancione «Vieni a sederti qui» la invitò indicandole il divano di fronte a lui. La donna tirò su i jeans che cadevano dai suoi fianchi stretti e si diresse verso il sofà.
« Immagino che avrai un’infinità di domande da fare…» cominciò l’uomo «Permetti che ti dia prima io qualche informazione».
La donna annuì senza parlare « Mi chiamo Brice Sheldon, sono medico e la cicatrice che ti ritrovi sul petto è stata eseguita da me » fece una breve pausa « Ho tentato di chiudere la ferita che si apriva sul tuo torace e ho cercato di sistemare come potevo quello che c’era sotto».
« Quello che c’era sotto?» balbettò la donna.
L’uomo di fronte a lei non parlò immediatamente, fissò prima il pavimento apparentemente alla ricerca delle parole giuste.
« Il tuo cuore…» iniziò la frase per poi lasciandola in sospeso.
« Il mio cuore?» lo incoraggiò a proseguire.
Sheldon prese fiato e iniziò a raccontare, a raccontarle di come l’aveva trovata con la cassa toracica in bella vista, i macchinari collegati al suo corpo, le flebo coi sedativi. Ma la cosa sbalorditiva era quella pesca di metallo adagiata tra i suoi organi vitali.
« Il tuo cuore è stato asportato e sostituito con un apparecchio artificiale a batteria…».
La donna si portò una mano al petto, sentendosi soffocare al pensiero di quella cosa di ferro dentro di lei. Le lacrime le inumidirono gli occhi e traboccarono senza freni.
L’uomo andò a sedersi accanto a lei, accogliendola fra le braccia.
« Calmati…respira…ora starai bene…» cercò di rassicurarla « Cosa ricordi?» le domandò carezzandole la testa dolcemente.
Lei si strinse nelle spalle e indugiò.
« Io voglio aiutarti…» la incoraggiò.
« Ricordo il letto di metallo, il dolore, le manette di cuoio. E quell’uomo…»
« Quale uomo?»
« Non so il suo nome…Conosco solo la sua faccia…»
« Puoi descrivermelo?».
« Capelli biondi…occhi blu…» scosse la testa, profondamente turbata.
« Se ti mostrassi una sua foto lo riconosceresti?»
« Sì…»
L’uomo si alzò e si avvicinò al tavolino sul quale era deposta una foto « E’ questo l’uomo che ti ha fatto del male?» disse mostrandole lo scatto di un primo piano.
« Sì .»
«Quest’individuo è un pericoloso psicopatico. Sono riuscito a trarti in salvo in tempo. Ma ti starà cercando…per ucciderti. Cercherà di avvicinarti e se tu lo accuserai lui negherà. Ti dirà che ti stai sbagliando. Ti racconterà delle cose della tua vita, solo per confonderti. Non credergli. È un uomo furbo, manipolatore, crudele, disposto a tutto»
« E tu come fai a saperlo?» gli domandò lei frastornata da tutte quelle informazioni.
«Perché ha fatto del male anche a me».
Alzò il viso per guardarlo negli occhi.
«Ha ucciso mia moglie e mia figlia» sussurrò tra i denti l’uomo, guardando un punto imprecisato nella stanza, mentre i suoi occhi si velavano di lacrime trattenute.
Si massaggiò subito le palpebre e tornò ad appuntare le iridi scure in quelle della donna.
«Con le mie cure ho potuto solo allungare il tuo tempo per adesso. L’orologio che hai al polso è un contattore. Il cuore che hai nel petto è in realtà una batteria. Quell’uomo ha fatto esperimenti su di te, innestandoti un cuore artificiale. Purtroppo l’autonomia non è illimitata, occorre ricaricarlo con sostanze particolari. Nel momento in cui l’orologio si attiverà inizierà un conto alla rovescia che ci dirà quanto tempo ti resta prima di doverlo ricaricare. Più tardi faremo una stima della carica residua in modo da avere un’idea di quanto tempo abbiamo».
Fece una pausa, guardandola nutrirsi di quelle parole cariche di speranza.
«Ma come ben sai niente è gratuito, benché io e te in un certo senso ci troviamo sulla stessa barca, ogni cosa ha il suo prezzo. Aiutami e io potrò ridarti la normalità. Devi fare una cosa per me…e per te. Portami l’uomo che ci ha rovinato, ci vendicheremo insieme e tu potrai riprenderti la tua vita. Allora che ne dici…Elisabeth?»
Si toccò il petto senza avvertire alcun suono.
«D’accordo!»
« Patrick Jane pagherà per i suoi crimini»

*

Il sole stava tramontando di nuovo, colorando di rosso gli uffici del CBI, ancora brulicanti di vita. Van Pelt era completamente assorbita dalle sue ricerche virtuali, mentre Cho e Rigsby, dopo un’ulteriore perlustrazione diurna al complesso nei pressi del museo ferroviario, erano chini su documenti, scartabellando prove su prove.
L’irruzione nel deposito ferroviario abbandonato della sera prima non solo li aveva condotti all’ennesimo punto morto, ma aveva comportato anche la perdita di un membro della squadra. Dopo aver perlustrato l’enorme stabile E, segnalato come sito dell’ultimo avvistamento di William Turn, Grace aveva fatto ritorno al fuoristrada ravvisando subito l’assenza del rumoroso consulente.
Il veicolo non riportava alcun danno e nella neve erano impresse tre paia di impronte che andavano verso il magazzino E – sue e dei due colleghi - mentre un altro paio solitario se ne staccava e si dirigeva verso ovest. Nessun segno di lotta.
Van Pelt aveva allora composto il numero di cellulare del collega. Il telefono aveva continuato a squillare a vuoto.
Dopo alcuni secondi Grace aveva richiamato i compagni e seguendo le orme delle suole di Jane sulla coltre erano giunti fino allo stabile B, dove il pavimento di cemento interrompeva le tracce.
Con le torce avevano illuminato ogni angolo, mentre la giovane tentava nuovamente di contattare il mentalista col cellulare.
La suoneria sobria di Patrick Jane era risuonata nel cantiere abbandonato, riempiendo il silenzio notturno.


« Ma che stai dicendo Lisbon?»
« Smettila di chiamarmi in quel modo!»
« In quale modo?» domandò lui inarcando confusamente il sopracciglio.
Lei scosse la testa, mentre un sorriso amaro le increspava le labbra « L’aveva detto che avresti fatto così».
Sempre più disorientato si appoggiò come meglio poteva allo schienale « Di che stai parlando?»
Lei non gli rispose e si limitò a fissare la strada, le dolci pianure costiere stavano lentamente lasciando spazio a un paesaggio montuoso, aspro e gelido, con quelle cime incappucciate di neve che si scorgevano tutt’attorno.
Il sole basso sull’orizzonte imporporava ogni cosa coi suoi raggi apparentemente caldi, la luce cremisi si scioglieva nell’aere e si disperdeva, mentre la parte più alta del cielo si vestiva di tenebre notturne e nuvole di neve, nascondendo le gemme stellari alla vista.
« Bene, come vuoi che ti chiami, allora?» riprese con voce più rilassata, cercando di stare a quel bizzarro gioco, del quale ancora non aveva compreso le regole.
« Preferirei tu tacessi e non mi rivolgessi la parola, ma posso sempre tapparti la bocca con dello scotch» terminò asciutta, facendo un cenno con la testa verso il retro della macchina.
Jane scrutò con la coda dell’occhio i sedili posteriori, alcuni rotoli di nastro adesivo facevano compagnia a un paio di cesoie e ad una fune.
Tornò a guardare la donna, era esausta ma allo stesso tempo la postura dritta lasciava trasparire la determinazione che la guidava. No, non stava mentendo. Ma questo non chiariva la situazione.


Un uomo vestito in giacca e cravatta fece capolino nell’ufficio « Agente Rigsby dovrebbe venire immediatamente, abbiamo un presunto assassino che dovrebbe interrogare!».
Prima di seguire il collega nel corridoio Wayne si fermò accanto a Grace.
« Tutto questo non ha senso» attaccò lei con gli occhi completamente assorbiti dal monitor dell’ordinatore che aveva davanti « Perché l’FBI avrebbe dovuto depistarci? E’ la seconda soffiata che ci arriva da loro e abbiamo perso un altro agente.. ma che diavolo succede?»
« Puoi rintracciare l’indirizzo IP del mittente?» domandò l’uomo portandosi alle sue spalle.
Lei si voltò sorpresa « indirizzo IP? Da quando sei diventato tu l’esperto informatico? » cercò di sdrammatizzare, ma la tensione era palpabile « Chiunque si sia messo in contatto con noi ha utilizzato un rigeneratore di indirizzi che mi crea difficoltà a rintracciarlo…ma vedo cosa posso fare…»
L’uomo in piedi sospirò e s’incamminò verso l’uscita.
Il telefono sulla scrivania dell’agente asiatico squillò un paio di volte prima che lui rispondesse « Cho» s’identificò ermetico.
L’uomo annuì un paio di volte, sotto lo sguardo incuriosito di Grace.
« Bene, può farmi avere immediatamente quei nastri? Inutile dire che si tratta di una situazione di emergenza». Scambiò formali saluti con l’interlocutore e riattaccò.
La donna lo fissava carica di aspettative « Abbiamo qualche pista?»
Cho tornò a guardare i documenti sulla sua scrivania « Le telecamere stradali hanno ripreso una macchina che si allontanava dall’area interessata» voltò pagina « Ci faranno avere i video entro un’ora, così potremo risalire al modello e alla targa» fece una breve pausa posando gli occhi su di lei « e se siamo fortunati vedremo anche la faccia del conducente».


Camminando verso la stanza per gli interrogatori, Wayne aveva preso a sfogliare il fascicolo relativo all’indiziato passatogli dal collega.
Nel verbale, stilato dagli ufficiali responsabili del fermo del sospettato, veniva esplicitamente riportato come l’uomo si fosse introdotto in casa di una giovane donna, provvisto di una sacca contenete vari strumenti chirurgici.
Purtroppo per lui la donna, che stava rincasando, si era immediatamente accorta dei segni di effrazione sulla porta e non aveva esitato a chiamare la polizia. L’uomo, nascosto in una delle stanze, era stato trovato e prelevato da alcuni agenti.
Grazie al materiale che portava con sé e al modus operandi era stato ricollegato alla figura fittizia del chirurgo e per questo assegnato alla squadra che fino a quel momento se n’era occupata.
Aveva confessato di chiamarsi William Turn, ma di più non aveva aggiunto.
Giunto davanti alle vetrate della stanza, oscurate da tapparelle metalliche, Rigsby richiuse il dossier e varcò la soglia.
L’uomo seduto al tavolo degli interrogatori teneva il capo chino, torturandosi nervosamente le dita.
« Signor Turn?» Rigsby richiamò la sua attenzione, gettando un ultimo sguardo alla foto segnaletica che avevano ricevuto il mese prima e che lui stesso aveva appena allegato alla documentazione.
Quando l’uomo alzò il viso, Wayne rimase sorpreso nel cogliere quella fisionomia ignota.

 

*

Un grido disperato si schiantò contro il muro del silenzio notturno, frantumandolo.
Una luce si accese nella casa, mentre un veloce scalpiccio rimbombava sul parquet. La porta della camera si spalancò e lei era lì, seduta su quel letto, lo sguardo fisso nel vuoto, le unghie infilzate nella coperta come coltelli.
« E’ venuto a prendermi…è venuto ad uccidermi…l’ho visto…» singhiozzò, voltandosi verso la fessura di luce che proveniva dalla soglia aperta.
Lui entrò nella camera e le sedette accanto.
«Va tutto bene, sei al sicuro, te l’ho detto, qui non può trovarti» le prese le mani, aveva bucato il piumone per la violenza con la quale vi si era aggrappata « Ti darò qualcosa per dormire»
« Grazie…Brice»
L’uomo uscì dalla stanza per tornare con un flacone di sonnifero. Gliene somministrò tre gocce sotto la lingua e lei riuscì ad affrontare la prima notte da donna liberata.
Tuttavia, se le medicine la facevano dormire, non le impedivano di sognare, la tenevano anzi prigioniera dei suoi incubi senza che potesse fuggirne, per rifugiarsi nell’insonnia.
Ogni volta che chiudeva gli occhi si ritrovava distesa sull’asfalto, imprigionata, incatenata al suolo, mentre quella faccia le precipitava addosso, maschera gigantesca senza corpo. Gli enormi occhi erano sferici oceani in tempesta, increspati da onde e schiuma salata. E ogni volta ci cadeva dentro e si sentiva annegare in quel turbinio di correnti. Quando la centrifuga iridea la risputava fuori si ritrovava a rotolare in una prateria di spighe dorate. Ma ben presto si accorgeva che il campo era in fiamme ed era accerchiata dal fuoco, mentre le lingue incandescenti si allungavano verso di lei per assaggiare la sua pelle, per divorarla e consumarla.
Quando l’effetto dei tranquillanti esauriva la sua efficacia si svegliava di soprassalto, madida di sudore, in crisi respiratoria, mentre quel cuore di piastre metalliche e circuiti elettrici rimandava un flebile battito ronzante, leggero, artificiale, disumano.
Passarono cinque giorni, Brice Sheldon si prendeva cura di lei e le raccontava pian piano ogni dettaglio della vicenda.
Le spiegò di come, dopo la morte della sua famiglia, avesse deciso di vendicarsi. Aveva deciso di mettersi al servizio della legge ed era riuscito ad entrare in collaborazione con l’FBI, grazie ai suoi studi di medicina.
Quel mostro a cui davano la caccia era davvero astuto, non lasciava tracce ed era praticamente impossibile da identificare, ma finalmente era riuscito a risalire alla sua identità e aveva scovato uno dei suoi laboratori, proprio quello dove lei era stata tenuta prigioniera.
«Collaboro al caso di quest’uomo da molti anni ormai, ma quando ho scoperto uno dei suoi nascondigli e ti ho trovata ho deciso di non denunciarlo alla poliziaà…ti ho curata e salvata….in più, a causa di quel macchinario che hai nel petto, la maggior parte degli scienziati vorrebbe studiarti come una cavia…» la guardò dritto in faccia « Io non voglio consegnarlo alle autorità, lo voglio morto…per mano mia…per mano nostra...Ti prego Elisabeth..aiutami…»
Leggeva una sincera disperazione negli occhi di quell’uomo che le aveva restituito la vita e che giorno dopo giorno le stava anche restituendo la sua identità, o almeno così lei credeva « Grazie al mio coinvolgimento nel caso ho avuto accesso a molte informazioni su di te. Tu eri sola al mondo, non hai più una famiglia, proprio per questo eri una preda perfetta…»
La donna si sentì profondamente triste e ancora più sola di quanto già non si sentisse a causa del totale buio sui suoi ricordi « Non ho un marito? Una mia famiglia?».
« No tu eri una donna in carriera…non avevi tempo per nessuno e hai finito con l’isolarti…persino i tuoi colleghi che abbiamo interrogato non sapevano quasi nulla di te…»
« E’ una cosa davvero molto triste…» concluse lei facendo una breve pausa « Io ti aiuterò Sheldon…»
Lui le prese le mani concitatamente « Faremo sparire quel mostro dalla faccia della terra…nessuno se ne accorgerà e noi potremo riprenderci le nostre vite….»
La donna annuì, mentre un timido sorriso colmo di speranze faceva capolino sulle sue labbra disidratate.

 

*

« Che diavolo ti è successo Lisbon?»
Quell’uomo pericoloso e fastidioso era anche logorroico, non era riuscito a farlo tacere neppure con le minacce.
« Che mi è successo?» ghignò amareggiata facendogli eco « Dovresti saperlo molto bene»
« So che ti hanno rapita mentre indagavamo su un caso e…»
Lei lo interruppe con violenza, gridando « Sta zitto!» e lui non ebbe la forza di parlare ancora, vedendo quegli occhi esausti velarsi di lacrime.
Qualsiasi cosa le avessero fatto, avevano incluso anche un bel lavaggio mentale. L’avevano tenuta prigioniera un mese, era un tempo sufficiente a confonderla ed a inculcarle in testa nuove convinzioni.
Dovevano aver usato una massiccia dose di medicinali e chissà quale terapia d’urto per ridurla così.
Forse avrebbe potuto cercare di ipnotizzarla, ma così legato e con il trattamento che lei doveva aver subito, non sarebbe stata una cosa facile.
« Non so cosa ti hanno fatto o cosa ti hanno detto ma, io voglio aiutarti!»
La donna sterzò bruscamente, la macchina fece qualche metro nello sterrato a lato della carreggiata e si arrestò sul ciglio della strada. Patrick Jane ebbe davvero paura.
Quella donna non era più la Lisbon che conosceva e non riusciva a leggerne la mente per capire quali fossero le sue intenzioni.
La osservò alzarsi dal sedile, fare il giro intorno al veicolo e aprire la portiera posteriore, proprio dietro di lui.
Nello specchietto retrovisore la vide impugnare le cesoie.
« Starò zitto! Starò zitto! Ma metti giù quelle forbicione per favore!» cinguettò dimenandosi e facendo tintinnare il metallo delle manette.
La donna non si fermò, tagliò un pezzo di scotch e gli si avvicinò, stampandoglielo sulla bocca.
« Oh sì, non ho dubbi che ora starai zitto!» disse sorridendo e sferrandogli un destro in pieno ventre « Maledetto bastardo! Ringrazia che mi servi vivo e che non ti uccida subito!».
Jane cercò di piegarsi su se stesso per ammortizzare il dolore ma, nonostante il male pulsante, riuscì ugualmente a comprendere ciò che la donna aveva ringhiato tra i denti dopo averlo colpito.
Per un secondo aveva sentito il suo stomaco balzare nell’esofago e poi rimpiombargli nel ventre.
Aveva veramente un destro formidabile.

 

*

« Come ti senti? Ti fa ancora male?»
« No, va tutto bene. Sei riuscito a capirci qualcosa?»
« Sì, Liz » disse sedendole accanto « La batteria è alimentata da diversi componenti chimici liquidi, alcuni facilmente reperibili, altri davvero rari…» fece una pausa, mentre lei metabolizzava con apprensione la notizia « Ma vedrò che posso fare per procurarmeli»
La donna chiuse brevemente gli occhi, inspirando più aria che poteva, gonfiandosene i polmoni e poi domandò d’un fiato, senza pensare per non perdere il coraggio « E quanto tempo ho?»
Lui la guardò intensamente prima di parlare, poi con rassegnazione confessò «Quattro giorni circa…a partire da oggi»
Quel cuore di ferro le sembrava diventato ancora più pesante, un macigno insostenibile.
« Liz» le circondò le spalle col braccio « Ce la faremo, ho già organizzato tutto! Una volta che l’avremo preso ci faremo dire la miscela che occorre al tuo cuore per funzionare…e poi lo uccideremo!»
« E se non volesse collaborare?»
« Collaborerà, ci dirà tutto!» si alzò dal divano « Ti illustrerò il piano, ma la cosa importante che tu ricordi è di non ascoltarlo e di non rispondere alle sue domande»
« E perché? Non posso subito chiedergli come preparare la miscela chimica per il mio cuore?»
« No Liz, devi portarlo dove ti dirò e devi portarmelo vivo! Se ti venisse voglia di ucciderlo… Ricordati che ne va della tua stessa sopravvivenza! Quando sarai nel luogo che ti indicherò potremo occuparci prima del tuo cuore e poi di lui.»
Lei annuì, non aveva altra scelta.
Doveva fidarsi di quell’uomo, non solo le aveva salvato la vita ma era anche l’unico che poteva garantire la sua futura sopravvivenza.
« Dimmi cosa devo fare!»

*


Era dentro la sala interrogatori da circa dieci minuti, la stessa identica quantità di tempo che l’uomo che si faceva chiamare William Turn aveva tenuto la bocca ermeticamente serrata.
« Signor Turn, se lei collaborasse sarebbe molto più semplice!» Wayne aprì il fascicolo e glielo sottopose « Se non si decide a parlare verrà accusato per gli omicidi di sei donne!»
Gli occhi azzurri, piccoli e frenetici di Turn schizzavano dall’una alle altre foto sottopostegli dall’agente.
« Non avete prove!» esordì poi l’omuncolo con voce tremante.
« Oh sì invece» prese un ulteriore scatto da sotto i fogli del dossier e lo pose sopra gli altri « E la accuseremo anche per il rapimento di uno dei nostri agenti».
Rigsby non aveva le doti deduttive di Jane, non era un mago, non un mentalista, ne un prestigiatore, ma colse senza difficoltà l’indiscutibile scintilla negli occhi di Turn quando gli venne presentato il ritratto di Teresa Lisbon.
« Conosce questa donna?»
« No io non..»
« Non menta signor Turn! Se lei sa qualcosa di questa persona e me lo dirà, le garantisco che troveremo un accordo!»
« Un accordo?» mormorò Turn prendendo la foto tra le mani.

 

*

« Ti diverte vero, Greg? Il vederle soffrire, il loro chiederti pietà, implorarti di risparmiarle. Quanto ti piace quella sensazione Greg?»
« Come sa il mio nome?…» balbettò il giovane dalla pelle diafana e gli occhi di ghiaccio.
Lo sconosciuto ignorò la sua domanda « Io posso darti questa sensazione di potere! Posso farti sentire invincibile…se tu mi aiuterai!»
« Non ti conosco e non ho idea di che diavolo stai parlando! Per quale motivo dovrei aiutarti?»
L’uomo dinanzi a lui tirò fuori un rettangolo di carta dalla tasca « Sto per consegnare la tua foto segnaletica alla polizia Gregory!!»
Il giovane sussultò, deglutendo rumorosamente « Cosa vuoi che faccia?»
Per Brice Sheldon era stato facile adescare quel delinquentello squilibrato di Gregory Hayes: infastidiva le ragazze, cercava di approcciarle nei luoghi bui e la polizia aveva già ricevuto diverse denunce.
Ci avrebbero messo poco a scovarlo e a sbatterlo dentro; Brice Sheldon però lo aveva trovato prima, lo aveva osservato e aveva riconosciuto in lui la mente insana della quale aveva bisogno per ordire il suo dedalo perfetto.
Sheldon ci sapeva fare con le persone, sapeva come convincerle, anche contro la loro volontà.
« Quando avrai finito il tuo lavoro per me io ti darò una faccia nuova, mio caro amico» gli porse una mano guantata per suggellare l’accordo « Avrai una nuova identità e sarai libero di ricominciare da zero come vorrai!»
« D’accordo» Gregory strinse quella mano, come stesse stingendo la sua unica ancora di salvezza.

 

*

Quando Rigsby tornò in ufficio, Kimball e Grace erano intenti a visionare i nastri ricevuti dall’Agenzia di Sicurezza.
« Abbiamo una confessione!» esultò Wayne raggiungendoli davanti al monitor.
Rapidamente li aggiornò sulle informazioni raccolte dall’interrogatorio: l’uomo che gli avevano segnalato come William Turn si chiamava in realtà Gregory Hayes, motivo per cui non risultava in alcun database.
Hayes era stato convinto con il ricatto a prendere parte ad alcuni omicidi, del quale peraltro non si prendeva la responsabilità.
« Che significa che non le ha uccise?» domandò Cho scettico.
« Lui le spaventava e…»
« Qualcun altro le uccideva» concluse la frase Grace.
« Ecco spiegato perché appena ha agito da solo è stato colto in fragrante» constatò l’orientale, incrociando le braccia.
« Quell’uomo è solo un pazzo, ma non è abbastanza in gamba per aver commesso tutti quegli omicidi in maniera così pulita..»
Rigsby spiegò che lo stesso uomo che aveva coinvolto Gregory negli assassinii era anche lo stesso che lo aveva costretto a rapire l’agente Lisbon.
« Solo In cambio di quell’ultimo favore il signor Hayes avrebbe ottenuto la sua operazione chirurgica facciale e la sua libertà»
«Abbiamo trovato il nostro chirurgo dunque!» cinguettò trionfalmente Grace.
« Non proprio» Rigsby moderò subito gli entusiasmi « Hayes ci ha dato una descrizione, ma non abbiamo nessun nome».
« Allora continuiamo coi nastri, magari troviamo qualcosa!» sospirò stancamente Kimball.
« Io torno agli indirizzi IP ed eventualmente farò una ricerca incrociata sui database con la descrizione ottenuta da Hayes» propose Grace.
Rigsby si unì a Cho nella visualizzazione, ancora sconcertato dall’ultima frase del sospettato. Non aveva il coraggio di riportarla ai due colleghi.
“ Non so che fine hanno fatto fare alla vostra amica, l’ultima volta che l’ho vista aveva un bisturi piantato in mezzo al petto!”.


Il cielo era già imbrunito da un pezzo, il paesaggio sprofondato nel buio si rifletteva sui finestrini e sul parabrezza dell’auto, lanciata a tutta velocità sulla strada semideserta.
Una manciata di case sparse qua e la si scorgevano lontano dalla carreggiata, le luci delle finestre galleggiavano nell’oscurità e infondevano un breve senso di rassicurazione.
Avevano fatto una rapida sosta di un paio d’ore, lontano dalla strada e da occhi indiscreti, poi avevano ripreso il viaggio e non si erano più fermati.
Durante quella fuggevole tappa , Lisbon aveva dormito con la pistola saldamente impugnata nella mano destra, svegliandosi di tanto in tanto, in preda a forti tremiti.
Se non fosse che esteticamente appariva come la collega di sempre, avrebbe potuto dire di avere davanti un’altra persona.
Quella donna lo guardava con un odio che non riusciva a concepire, un odio intenso, palpabile, un odio vero. Un odio che per un istante lo fece soffrire.
Quegli occhi, seppur talvolta severi, erano sempre stati pieni di una luce speciale, che solo lui riusciva a cogliere. Se fino a quel momento Lisbon per lui era stata un libro aperto, adesso doveva fare i conti con quella nuova creatura risorta e seduta accanto a lui.
Aveva perso il conto delle ore di quel viaggio interminabile, quando la macchina finalmente si arrestò.
Il casolare era immerso nel buio più totale e a giudicare dall’andatura incerta di Lisbon, doveva essere anche per lei la prima visita al piccolo podere.
Gli aveva ammanettato le mani dietro la schiena e, per essere completamente sicura, lo seguiva tenendogli una pistola puntata alla schiena. Jane incespicava sul viottolo sterrato ricoperto di neve, cercando di seguire come meglio poteva il fascio di luce proiettato dalla torcia della donna. Aveva ancora la bocca sigillata dal nastro adesivo e faceva fatica a respirare.
Quando furono dentro, Jane ebbe una disorientante sensazione di dejà vu. L’oscurità della casa, il corridoio dalle tante porte chiuse e la polvere ovunque che si rivelava nel cerchio luminoso della torcia.
Come nella proprietà di Paladino Road, camminavano vicini e silenziosi in quella casa sconosciuta.
La donna sembrava incerta su quale delle porte aprire, tentò con scetticismo una prima maniglia sulla destra, che si rivelò chiusa a chiave. Al secondo tentativo fu più fortunata e trovata la porta aperta – con tanto di chiave sulla toppa - si introdussero nella stanza. Una scala nel pavimento conduceva a un piccolo seminterrato privo di arredamento, fatta eccezione per un pesante banco da lavoro in acciaio, una vetrina - custode di alcune fiale e barattoli - e una sedia da ufficio sgualcita.
« Ora te ne stai buono qui» lo scatto metallico delle manette rimbombò nella stanza semivuota, riempiendola con la sua eco musicale. Il consulente era stato perfettamente ancorato ai piedi del bancone, in modo che non potesse muoversi o nuocerle.
Là seduto su quel sudicio pavimento aveva un aspetto ancora più miserabile, sembrava un animale sottomesso.
Si chinò su di lui, dapprima sfiorandogli il volto con gentilezza e suscitando un’immensa sorpresa in quei profondi occhi cerulei.
Ma poi le dita sottili corsero al cerotto adesivo e lo strapparono via con forza, in una sola volta. L’uomo si lamentò contrariato e allo stesso tempo riempì i polmoni d’aria.
« So che stavolta starai zitto…senza che te lo dica due volte…» sorrise pericolosamente e Jane annuì senza obbiettare.
La donna si levò in piedi e guardandolo dall’alto estrasse il telefono dalla sua tasca, premendo un tasto di chiamata rapida.
« Dannazione » imprecò alzando il telefono verso l’alto e orientandolo prima ad est e poi ad ovest « Non c’è campo!».
Si avviò verso la scala e fece qualche scalino, poi si arrestò gettando uno sguardo al prigioniero « Gridare è inutile, come hai potuto vedere non ci sono case! Stai buono qui, torno subito!» e sparì al piano superiore, lasciandolo solo coi suoi pensieri .
Non c’era via di scampo da quella situazione, constatò seriamente allarmato.


« Ragazzi» la voce di Grace arrivò alle loro spalle « Ho tracciato l’indirizzo IP e sono risalita al contatto…ma…» si ammutolì davanti allo schermo che i suoi colleghi stavano utilizzando per visionando i nastri.
Il fermo immagine di una delle registrazioni mostrava una berlina nera e grazie allo zoom era stato possibile focalizzare il viso del conducente.
« Non può essere…» balbettò Van Pelt.
« Eppure quella è proprio Lisbon…» mormorò Cho, tra l’incredulo e il trasognato.
La giovane agente si riebbe dallo stupore e riprese il discorso dove lo aveva lasciato « Ho un nome e due indirizzi! So dove potrebbero essere!»


« Ma dove diavolo sei finito?» domandò con voce alterata dall’ansia « Dovevi già essere qui da un pezzo, Brice!» gettò un’occhiata all’orologio. I numeri sul display continuavano a crollare, a farsi e disfarsi, a diminuire irreversibilmente.
00:22:27
« Ho avuto un contrattempo Liz, ma non temere sto arrivando! Come sta andando?»
« Avevi ragione…ha cercato di confondermi, ma gli ho tappato la bocca!»
« Bene, prenditi cura del nostro ospite finché non arrivo! E’ questione di momenti» disse riattaccando, senza congedarsi.
La donna ripose il telefonò per nulla distesa. Il suo respiro si condensava in dense nuvole bianche, salendo verso il cielo.
La piccola proprietà era completamente isolata, la prima casa abitata si trovava a più di due chilometri e l’oscurità abbracciava ogni cosa. Un tremito di freddo, o di paura – non seppe definirlo – la percorse e decise di rientrare nell’abitazione a sorvegliare il suo ostaggio.
Scese velocemente le scale, accompagnata dal suono dei propri passi. Si bloccò a metà della rampa, sentendosi gelare.
La scena che si presentava ai suoi occhi era raccapricciante: l’uomo, ancora ammanettato al mobile, era riverso scompostamente in avanti, col capo ciondoloni e le braccia abbandonate mollemente che toccavano il pavimento. La cosa preoccupante era la chiazza rossa che si allargava a partire dal bavero della camicia. Scese gli scalini due a due e raggiunse il corpo apparentemente esanime.
« Che fottuto bastardo!» sibilò tra i denti, mentre i suoi occhi si velavano impercettibilmente « Si è ammazzato!»
Tirò un calcio al banco metallico, facendolo risuonare, mentre il conto alla rovescia stava ora scandendo il tempo che la separava dalla sua imminente morte.
Ancora impossibilitata ad accettare la realtà dei fatti si chinò nuovamente sull’uomo per controllargli battito direttamente al livello della giugulare, dove era più facile sentirlo.
Posò le dita su quel collo caldo, ma fu troppo tardi quando percepì il tamburellio ritmico di quel cuore ancora pulsante.
Lui le aveva già sfilato la pistola e gliela stava puntando dritto in mezzo agli occhi.
« Non voglio farti del male» disse alzandosi in piedi e tenendola sotto tiro.
« Come diavolo hai fatto a liberarti?» gli domandò con le mani alzate in segno di resa.
« Vedi Lisbon, se non ti avessero sottoposta ad un lavaggio del cervello sapresti benissimo che sono un mago con le serrature» espose in bella vista la forcina che gli aveva permesso di liberarsi dalle manette, con non poca fatica.
« E il sangue? »
« Merito dei barattoli che ho notato nella credenza appena siamo scesi» concluse lui « Ora dammi il tuo telefono!» glielo chiese gentilmente, senza però abbassare l’arma. Non si poteva fidare di quella donna.
Lei prese l’apparecchio, si chinò e lo posò a terra, facendolo poi scivolare fino all’uomo che la teneva sotto tiro.
« Molto bene!» disse recuperandolo da terra, senza perdere il contatto visivo « Ora siedi accanto a quel banco e non ti muovere».
Percorse le scale al contrario e quando ebbe un sufficiente vantaggio si avventò sulla porta, guadagnando il corridoio e richiudendosela alle spalle.
Girò più volte la chiave nella serratura e poi se la mise nel taschino.
Poteva sentire i passi della donna rimbombare su per le scale, mentre, dopo aver acceso le luci, si affrettava ad uscire all’aria aperta, per chiamare rinforzi.
Beffardo il destino, aveva usato il solito trucchetto della simulazione di morte in un seminterrato, proprio insieme a Lisbon. Quella volta però non gli era andata così bene e avevano rischiato di morire insieme. Come molte altre volte.
Si erano salvati più e più volte la pelle a vicenda, avevano trascorso giorni e giorni l’uno accanto all’altra dandosi vicendevolmente per scontati. E ora che l’aveva persa capiva il valore inconscio di quella presenza al suo fianco.
Iniziò a comporre il numero sulla tastiera, ma si interruppe, quando un rumore dinanzi a lui lo fece trasalire.
« Finalmente ci incontriamo signor Jane…»


Continuava a colpire la porta di legno con la spalla e il risultato fu solo un terribile dolore alle ossa.
00:13:45
Si sentì spossata, priva di energie, sintomo che il suo nuovo cuore artificiale stava esaurendo la propria carica.
Doveva sbrigarsi e trovare un modo per uscire da lì. Con o senza Brice avrebbe riacchiappato quell’uomo e lo avrebbe costretto a curarla. Ormai non aveva più niente da perdere e non poteva neanche arrendersi.
Tornò ad affacciarsi sulla scala. Il suo sguardo si posò con interesse sulla vecchia sedia sgangherata.


« Ci conosciamo?» disse continuando a impugnare la pistola in una mano e il cellulare nell’altra.
« Oh, no, non direi. Diciamo che abbiamo un amico in comune…» Jane rabbrividì a quelle parole, mentre la luce della casa alle sue spalle illuminava i tratti dello sconosciuto « John ti manda i suoi saluti, caro Patrick Jane!».
« Quindi c’è lui dietro tutto questo?» abbassò la mano con cui impugnava il telefono.
Brice Sheldon sorrideva compiaciuto « Diciamo che gli dovevo un favore, ma l’idea è tutta mia » rispose con aria tronfia « John si sta stancando dei tuoi giochetti e ha deciso che è ora di finirla!»
Il biondo scosse la testa « E Lisbon? Che diavolo le hai fatto?»
« Ah, già, la tua amica…beh, con lei è stato un tocco di classe! Il lavaggio mentale…il cuore artificiale…è stata un’ottima cavia per i miei esperimenti chirurgici…»
« Cuore artificiale?» anche la mano che stringeva la pistola si abbassò, mentre ogni cosa perdeva senso e razionalità.
« Sì, ho sostituito il suo cuore con una batteria alimentata da agenti chimici che interagendo tra loro creano un’innovativa fonte energetica…ovviamente quando la reazione si sarà consumata totalmente i reagenti diventeranno passivi e s’interromperà il processo di alimentazione… »
« Stai dicendo che…?»
« Sì, quel cuore presto smetterà di battere » guardò l’orologio al proprio polso « Diciamo tra una manciata di minuti…»
Il consulente era sconvolto dalla rivelazione di quell’uomo sconosciuto, ma era sicuro che non si trattasse di uno scherzo, ne di una trappola. Lui conosceva bene le persone e quel tipo faceva sul serio.
« Però » riprese Sheldon « Io posso salvarla. Lascia che io ti uccida» estrasse la pistola dal soprabito scuro « e la tua cara Lisbon sarà al sicuro».
Patrick Jane abbassò lo sguardo e tacque, sempre più sconcertato e sopraffatto da quella situazione che lo faceva sentire impotente come non mai.
Brice sghignazzò mentre lo teneva sotto tiro « Sai qual è la parte più divertente?»
Jane alzò gli occhi su quel viso alterato dalla follia « Crede che sia tutta opera tua! Ho manipolato la sua mente mostrandole una tua foto e abbinandola a sensazioni spiacevoli.. le ho fatto credere che hai sterminato la mia famiglia» concluse con sadica ironia.
Mentre Jane assimilava l’informazione ed ogni tassello del puzzle tornava al proprio posto, qualcosa gli piombò addosso facendolo capitombolare nella neve. Nell’impatto la pistola e il telefono erano volati nella coltre fresca.
La donna che lo teneva schiacciato a terra allungò una mano verso l’arma, raccogliendola.
Sheldon guardava la scena compiaciuto, mentre i due contendenti si rialzavano dal manto nevoso.
La donna aveva una spalla leggermente più bassa dell’altra, segno che doveva essersela lussata nel tentativo di sfondare la porta. Per fortuna le era venuta in soccorso un’improbabile aiutante: la poltroncina sgualcita da ufficio.
Con le poche forze rimastele, l’aveva usata per abbattere la barriera costituita dalla porta.
Ora i principali attori di quel macabro teatrino erano lì, statue di carne impiantate nel terreno innevato.
La neve cadeva copiosa. I cristalli di ghiaccio danzavano nell’aria, fragili ballerine dalla vita effimera.
La loro esistenza si protraeva nel lasso di tempo che le conduceva dal cielo alla terra, il tempo di una caduta libera insomma.
Ma quel balletto era così elegante, così delicato che più che pochi istanti sembrava durasse un’eternità.
Nel bianco più assoluto ogni rumore era dissolto, ogni movimento congelato, ogni emozione amplificata, come un’eco in quel vuoto niveo.
Jane era precisamente nel punto mediano, la stessa distanza lo separava da Lisbon, davanti a lui, e da Sheldon, alle sue spalle.
Il foro della colt era un occhio che si apriva dritto sul suo petto, poteva sentire il freddo metallo attraverso la stoffa, come se lo avesse avuto a contatto diretto con la pelle.
« Liz, sono riuscito a farlo parlare!» intervenne Sheldon trasfigurando il suo viso in una maschera angosciata « Conosco la composizione della miscela!» lei lo guardò rigenerata dalla speranza « Uccidilo adesso e potrò salvarti!»
In quello statico ritaglio di realtà, solo il calore dei loro respiri che si condensava nell’aria punteggiata di bianchi fiocchi dava un senso di dinamicità.
La neve si adagiava su di loro, sui loro abiti, sui loro capelli.
A separarli solo il braccio teso lei.
Gli occhi dell’uno si riflettevano in quelli dell’altra, mentre infondo a quel braccio si trovava la pistola che tremava nella mano incerta della donna.
La vita dell’uno dipendeva da quella dell’altro e non era solo quell’arma a fare la differenza.
00:00:59
Lui afferrò la canna della colt e se la premette energicamente sul petto.
«Spara Lisbon!».



 



Ed ecco che il cerchio si chiude…è stato un vero parto…rimettere insieme i tasselli, dar loro un senso “quasi” possibile…ma spero vi abbia soddisfatto e che questo capitolo non si sia rivelato banale o scontato…questa storia mi ha veramente tenuta impegnata…ho cercato di darle un’ambientazione, nuovi personaggi, situazioni…insomma mi ci sono dedicata seriamente….senza grandi pretese letterarie, poiché questo è un hobby ed io sono una semplice dilettante…ma è scritta con passione e spero che almeno quest’ultima cosa sia arrivata fino a coloro che hanno dedicato un po’ del loro tempo a leggere.
Il prossimo capitolo è praticamente quasi pronto e sarà il più breve dopo questo papiro…che alla fine ho deciso di non spezzare perché mi pareva mantenesse meglio una continuità narrativa…
Bene tra capitolo e note finali mi sono dilungata anche troppo.
Un saluto e un ringraziamento a tutti coloro che finora hanno letto e recensito.
Grazie di cuore.
Con affetto.
BBambi.


 

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Capitolo 5
*** 10 secondi. Roulette Russa. ***


 

10 Secondi. Roulette Russa.


 

“C’è la neve nei miei ricordi
c’è sempre la neve
e mi diventa bianco il cervello
se non la smetto di ricordare
tanto qui sotto, nulla è peccato.”¹

~

 

“[…]but you’ll always be my hero
even though you’ve lost your mind.”²

~




Era tutto così surreale.
Quel Patrick Jane stringeva la canna della sua pistola e la teneva premuta contro il proprio petto, esortandola a sparare: c’era decisamente qualcosa che non quadrava.
« Avanti, cosa stai aspettando?» le intimò Sheldon, visibilmente spazientito.
« Dagli retta…» disse l’uomo sul quale stava per fare fuoco.
Lo disse con una gentilezza che le fece tremare i polsi, l’arrendevolezza di quell’uomo la spiazzò del tutto.
Stava davvero per farsi uccidere senza opporre resistenza.
Come riusciva ad accettare l’idea di morire così serenamente? Lei, in lotta contro il tempo che inesorabilmente stava per portarsela via, non riusciva davvero a comprenderlo.
Pensò a sé stessa, avrebbe dato la propria vita solo per qualcuno che amava.
Disorientata guardò il countdown sull’orologio, le rimaneva poco meno di un minuto.

Doveva ragionare.

Strappò indietro la pistola e la puntò dritta alla testa dell’uomo davanti a sé.
« Finiamola con questa farsa» tuonò cercando di darsi un contegno, ma senza metterci abbastanza convinzione.
Il mentalista non fece una piega.
Sheldon, dietro di loro, sorrise compiaciuto, deliziato da quel dramma senza via d’uscita, roulette russa sfortunata.
Lisbon era sempre più confusa, perché quell’uomo era disposto a farsi uccidere? Poteva una persona così malvagia da torturarla voler rinunciare alla propria esistenza per lasciarla sopravvivere?
E perché non ricordava nulla di Patrick Jane se non il suo viso distorto?
Troppe domande senza risposte.

Doveva sbrigarsi.

Il suo cuore aveva ancora poco tempo.
Lanciò un ulteriore sguardo al display, i secondi si consumavano sempre più rapidamente e doveva decidere cosa fare.
A quale dei due uomini iniziare a credere.
Perché era chiaro, uno dei due le stava mentendo.

00:00:10

Lisbon appuntò i suoi occhi glauchi su quelli del consulente, la canna della pistola puntata precisamente nel centro di quella fronte corrugata, il dito pronto a premere il grilletto.
« Che stai aspettando ancora? » le domandò con voce sicura « Te l’ho già detto una volta, proverò sempre a salvarti, Lisbon, che ti piaccia o no! ³»
Le sorrise, uno di quei suoi sorrisi tristi che per anni le avevano tormento l’anima e che non le avevano dato pace.
E finalmente lo ritrovò.

00:00:09

Là, in quella piccola stanza della sua mente torturata, riaffiorò quel sorriso malinconico, e insieme ad esso gli occhi d’acqua limpida, onesti e truffaldini allo stesso tempo, la voce calda e gentile, i suoi gilet grigi, le tazze da te fumanti, il palazzo della memoria, lo smile rosso sangue, il divano di pelle.
Proverò sempre a salvarti, Lisbon, che ti piaccia o no”.

 00:00:08

Sparò.

00:00:07

La detonazione flagellò il silenzio notturno, echeggiando a lungo, sospesa nel cielo.
La pallottola passò a pochi centimetri della guancia del consulente, andandosi a conficcare in mezzo agli occhi di Sheldon, che stramazzò a terra esanime.

00:00:06

« Che diavolo hai fatto?» gridò Jane, così scosso da prenderla per le spalle e strattonarla.
Lisbon lesse un’espressione completamente nuova su quel volto.
Un’espressione che lui non le aveva ancora mai riservato.

Disperazione.

00:00:05

« Lisbon, che diavolo hai fatto?» mormorò di nuovo, continuando a tenere le mani sulle sue spalle e rivolgendo il viso verso la neve ai loro piedi.
Lei lasciò cadere la pistola, vacillando impercettibilmente.
« Ti ho salvato un’altra volta il culo, Patrick Jane» sdrammatizzò, abbozzando un sorriso « Sheldon mi avrebbe fatta fuori comunque, non trovi?».

00:00:04

« Almeno uno di noi si è salvato » mormorò lei, gli occhi coinvolti in un timido sorriso.
Guardò dritto in quei pozzi verdi.
E la vide.
Era tornata.
La sua Lisbon.

00:00:03

La donna crollò sulle ginocchia.
« Lisbon…» balbettò, senza saper che altro dire.
« Ci siamo» sorrise cercando di nascondere l’isteria nella sua voce.
Lui si chinò e la accolse tra le sue braccia.
Non gli rimaneva molto tempo per tenerla con sé.

00:00:02

Disperato la guardò dritto negli occhi, abbattendo tutti quei muri che separavano Patrick Jane dai suoi sentimenti repressi, dalle scomode verità alle quali non voleva dare voce, dai perché che non aveva mai voluto ammettere.
Ogni difesa crollò e lei, attraverso quegli sferici oceani in tempesta, poté finalmente entrare nella sua anima. Stava finalmente nuotando e non annegando in quella centrifuga iridea, comprendendo cosa le stavano sussurrando quegli occhi chiari, dalla piega triste.
E poté finalmente vedersi raffigurata dentro e riflessa fuori da quelle iridi cerulee.

00:00:01

Patrick Jane non le aveva mai detto tanto, neppure con le parole.
« Anche io» mormorò lei in un soffio, rispondendo a quello sguardo e a quel silenzio pieni di tutte quelle cose che non le aveva mai confessato.

00:00:00

L’orologio digitale produsse un unico acuto suono, spettrale requiem di morte in quello squarcio di tempo ritagliato dalla realtà dove esistevano solo loro due.
La donna emise un ultimo sospiro e chiuse gli occhi.
Il viso di Lisbon, addormentato dalla morte, era disteso in un’espressione serena.
La strinse più forte contro il suo corpo, come a volerle infondere quel calore vitale che l’aveva appena abbandonata.
Il cielo continuava a scaricare generose gemme di neve, impietoso davanti al suo dolore pulsante.
Quanto si sbagliava Lisbon.
Alla fine nessuno si era salvato.
Con quell’esile corpo tra le braccia sentiva che Sheldon aveva vinto.
Aveva pagato un prezzo altissimo, ma aveva vinto.
Brice Sheldon era riuscito a distruggerlo.
Red John era riuscito a distruggerlo.
Era riuscito ad annientarlo senza bisogno di armi.
Lo aveva ucciso nell’unico modo in cui poteva essere ucciso Patrick Jane: quell’uomo che era rimasto aggrappato alla vita in nome della sua vendetta, non poteva semplicemente essere liquidato con un colpo di pistola.
Sheldon gli aveva inferto una ferita molto più profonda, portandogli via l’unica cosa che gli era rimasta.
Sotto quel cielo disintegrato in mille cristalli di ghiaccio, Patrick Jane era un’insignificante cosa scompostamente accasciata nella neve.
Più cadavere lui di Lisbon e Sheldon.
La faccia distorta dallo strazio, rigata da lacrime silenziose.
Finalmente, dopo tanti anni, i suoi sentimenti anestetizzati esplosero nel suo petto, senza argini, come acque in tempesta.
Mentre qualcosa dentro di lui moriva irrimediabilmente, si sentì un po’ più umano.

“Non ho bisogno di essere salvata, sapevo che sarebbe finita male il giorno che ho accettato di assumerti” ³.

Quanto aveva avuto ragione.
Gli venne voglia di ridere istericamente al ricordo di quelle parole confessate all’interno di un container.
Lei lo sapeva da sempre, sapeva molto più di lui, uomo vanesio e saccente.
Lo sapeva e nonostante tutto gli era rimasta accanto, sempre, fino all’ultimo.
Si era introdotta a piccoli passi nel suo cuore, tanto silenziosamente, tanto rispettosamente che lui aveva fatto finta di  niente, lasciandogli una dopo l’altra le porte del suo io semichiuse, per permetterle di arrivare sempre più vicino.
Ma si riservava un’ultima porta chiusa, una dietro la quale nascondersi, cosicché lei non lo vedesse del tutto, perché là infondo lui era diventato davvero un essere mostruosamente delicato, così fragile da doversi celare dietro maschere di indifferenza e cinismo.
Eppure lei doveva aver sbirciato anche attraverso quella serratura, scorgendolo per come era.
Come nella favola della Bella e la Bestia lei era riuscita a vedere oltre le apparenze, e questo lo aveva sempre spaventato, lo aveva indotto a lasciare quell’ultimo ostacolo  tra loro.
Tuttavia quella piccola donna non si era tirata indietro, davanti a quel l’essere che era diventato con gli anni.
E proprio per come era lo accettava, per tutto ciò che era il suo meglio ed il suo peggio.
L’aveva seguito nel baratro, nella sua personale caduta senza fine, lasciandosi trascinare in quella discesa negli inferi.
L’aveva seguito fino in fondo, fino alla morte.
La strinse ancora più forte a sè, conficcando le dita in quella pelle fredda, senza riuscire ad accettare che ormai era scivolata via e le sue mani ormai non potevano più nulla.
Le luci lampeggianti delle volanti inviate da Van Pelt, accompagnate dalle irrispettose sirene, si muovevano verso quel palcoscenico di morte, mentre il cielo bianco crollava su di loro come un sipario in quell’ultima notte al mondo.⁴




*FIN

 



Note:
¹ cit. Manuale d’Amore 2 (2007)
² Rihanna ft. Eminem. I love the way you Lie Part II (2010)
³ The Mentalist. Episodio 2x19 (2010)
⁴ Tiziano Ferro. L’ultima notte al Mondo (2011)




Grazie a chi ha letto, recensito e seguito questa folle narrazione.
Non c’è molto da dire, tranne che nella mia testa questo è stato l’inizio della storia: lo sviluppo - che mi ha davvero fatto faticare - è stato creato in funzione di questo finale “Fringioniano!”.
Purtroppo ho una concezione della coppia Jane/Lisbon molto tragica… lo riconosco! In realtà io li adoro e li adorerei insieme.. ma nelle mie shot non riesco mai a farceli stare… mi sembra sempre di rovinare questi due personaggi così interessanti, che riescono a tenere viva la mia passione nei loro confronti proprio grazie al particolare “equilibrio a distanza” che hanno creato fra loro…. Questo flirt silenzioso, questa sorta di sentimento che non ha bisogno di essere ne espresso ne ricambiato.…Non so, credo che le storie d’amore troppo consumate non accendano altrettanto il mio interesse…anche se infondo spero sempre che Bruno, prima o poi, anche in una quinta serie - perché no? – ci dia un po’ di soddisfazioni.
Io non posso che ringraziarvi ulteriormente per essere arrivati fino a qui.

Affettuosamente
BBambi.

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