How I wish it could be.

di Annabelle_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno. “When the sun goes down” ***
Capitolo 2: *** Capitolo due. “I need your sway” ***
Capitolo 3: *** Capitolo tre. “She moves in her own way” ***
Capitolo 4: *** Capitolo quattro. “Sofà Song” ***
Capitolo 5: *** Capitolo cinque. “No Longer” ***
Capitolo 6: *** Capitolo sei. “Take me to the riot” ***
Capitolo 7: *** Capitolo sette. “Rewind” ***
Capitolo 8: *** Capitolo otto. “Cute without the ‘e’” ***
Capitolo 9: *** Capitolo nove. “Falling In Love” ***
Capitolo 10: *** Capitolo dieci. “Enchanted” ***
Capitolo 11: *** Capitolo undici. “It Wont Be Long” ***
Capitolo 12: *** Capitolo dodici. “No Reply” ***



Capitolo 1
*** Capitolo uno. “When the sun goes down” ***


Ero nella folla che come me ripeteva le parole del cantante della band, della mia canzone preferita, della mia ideale performance, ero quel qualcosa di paragonabile al caos. Ero in delirio. Sono una ragazza con i piedi ben piantati a terra, una ragazza seria insomma, una di quelle di cui puoi fidarti. Una di quelle che alla fine, soffre per il troppo amore distribuito. Quasi l'amore fosse un volantino ed io una stupida sponsorizzatrice. Sono una di quelle ragazze che odiano parlare di se stesse con gli altri, ma amano guardarsi dentro, specchiarsi nei ricordi, ammettere di essere cambiate, cresciute, contestare il mondo e ripetersi che alla fine, un tizio con i loro stessi ideali le fermi per strada affermando di essere rimasto folgorato dalla loro lucente bellezza. Sono una di quelle ragazze illuse, con il cuore in frantumi. Sono una di quelle ragazze che amano la vita, amano i prati verdi, la buona musica, gli amici (quelli sinceri, ovviamente), i ragazzi che suonano e tutto quello che di colorato al mondo ci sia. Ah, io però, amo l'inglese. Non so quanto possa importare, ma credo che nella nostra società ci sia una fin troppo profonda deficienza di lingue. Dovremmo tutti sapere qualche lingua, così per hobby o per non essere sfottuti nelle grandi città straniere per un accento male messo o per aver scambiato il verbo "to live" con il sostantivo "life", che succede spesso. Da non credere!
Sì, ero a quella festa. Una festa, un po' diversa da quelle festicciole che ero abituata a vivere, che, in tutta sincerità, ho sempre detestato. Quella, quella stramaledettissima festa era tutto quello che avevo sempre desiderato. Un palco, figacci da paura, canzoni dei 'The Kooks', tutti gli amici possibili con cui dividere un pezzetto di vita ed un vestito (quello che indossavo) tremendamente anni '50, che fortunatamente ero riuscita a cucire. Cantavo a squarciagola quelle canzoni e mi spinsi lentamente, sgomitando tra la folla, a faccia a faccia con il cantante della cover band, Giulia ed io cantavamo, lo imitavamo, ci specchiavamo in lui. Eccolo arriva, l'assolo. Il bassista richiede attenzioni. Lui merita attenzioni, bellissimo, da paura. Con una favolosa camicia a quadri grigia che mi chiamava e mi supplicava di stare lì a tenerla d'occhio, a controllare che non si sporcasse, e che stesse bene, lì adagiata sul quel fisico stra-mozzafiato di quel bassista sedicenne. Amore mio, siamo coetanei, perfetto. Era perfetto, tutto era perfetto. Giulia mi passa la sua birra, la rifiuto. Non sono una che beve, cioè non sono una che ama bere cose di questo genere. Solo che, qualche eccezione si può sempre fare, e l'avrei fatta. Finisco la mezzo litro di Giulia, avevo molta sete, e mi prometto di non toccare altro alcol o cose del genere per tutta la serata. La canzone finisce. Giulia mi prende e mi porta via dagli altri che erano comodamente seduti sulle poltroncine a bere qualcosa, a parlare.
Mi avvicino a tutti loro e noto che la più sana di tutti in quel delirio, ero io. Mi accosto alla poltrona di Emanuele, il mio migliore amico, prendo il suo viso tra le mani e lo guardo dritto negli occhi. Non c'era, era assente. Troppe birre. Lui non beve è un bravo ragazzo, sarebbe stato male, ma davvero male. Quando non si è abituati, l'alcol accentua le conseguenze. Lo fa apposta, te la fa pagare. Prendo Giulia dal braccio e la porto in bagno con me, quella situazione cominciava ad infastidirmi. Sono fuori dalla porta del bagno e aspetto Giulia, quando vedo un puntino grigio farsi spazio nella mia direzione. Era il fenomenale bassista dei "Cookers". Mi sarei limitata a guardarlo e a pensarlo mio se non fosse piombato di fronte a me con un sorriso estasiante e la melodia delle sua dolci note ancora in testa. Ero la sola nell'arco di una cinquantina di metri, doveva avercela proprio con me. Mi saluta, lo saluto. Beh se avesse voluto attaccare bottone, la scelta del bagno era la meno indicata. Ma gli si poteva perdonare tutto.
Nessun ragazzo è mai venuto da me in quel modo, mai. Ho parecchi stimatori, ragazzi della mia stessa classe, o ragazzi che neanche conosco. Ma nessuno di questi riesce a farmi provare quello che vorrei e dovrei provare. Per questo, sono io: la mai stata fidanzata. Ho sedici anni e non ho mai avuto un "ragazzo" mai, quasi mi vergogno a dirvelo adesso, ma è proprio così.
Dico che è una mia scelta, perchè volendo potrei avere il mondo ai miei piedi. Odio peccare di presunzione. Non ho un carattere facile, è questo che allontana tutti gli speranzoni in cerca di coccole. Io odio le dannate coccole! FUCK.
Mi guardava, forse aveva bevuto anche lui e quindi quelle sarebbero state stupide parole. Eppure mi invita a bere con un timido "mi chiedevo se volessi prendere qualcosa da bere con me". Dico a Giulia di tornare al tavolo dagli altri e di tenere il telefono ben stretto, in caso di emergenza. Dico a lui di si, di morire di sete e di voler qualcosa da bere, con lui! Al bancone decide di prendere un Cola, che poi raddoppierà. Una anche per la sottoscritta. Paga lui. Diecimila punti a tuo favore. Sono anche una ragazza abbastanza tirchia, tra le tante cose.
Non beveva, non beveva neanche lui tutta quella robaccia. O magari, non lo faceva solo perché ne aveva bevuta troppa. Ma sapere di non avere accanto un appassionato di alcol puzzolente, beh, mi rincuorava.
Sorseggio quella gelida bevanda e penso che se quel tizio, di cui il nome ignoravo ancora, fosse venuto dritto da me, un motivo di sarebbe dovuto anche essere. Aspetto solo di saperlo.
“Le sai proprio tutte le nostre canzoni”. La prima frase che pronuncia, il primo verbo seguito da un complemento ben articolato. Io non so le loro canzoni, io conosco tutte le canzoni dei The Kooks, che lui si limita solo a strimpellare. Presuntuoso. Meno qualche punto a tuo favore.
“Conosco tutte le canzoni della mia band preferita, credo sia normale”. Rido, rido per mascherare la mia estrema timidezza, la mia paura incessante di sbagliare. Forse ho sbagliato a dire quello che ho detto. O forse no. Continuo a parlare che è meglio.
“Qual è invece la tua band preferita?”
“Forse i Led Zeppelin, li conosci?”. Sorseggia e mi sorride, sorseggia e mi sorride. Mi immobilizza e non capisce la mia assurda cultura musicale.
“Ovvio, Starway To Heaven, è la mia preferita”. 1 a 0 per me. Signorino so tutto io, quella che sa tutto qui, sono io! “Aspetta, forse ci siamo dimenticati di dirci i nostri nomi, solitamente è la prima cosa che chiedo o mi viene chiesta”. Credo che il nome di ognuno di noi ci spieghi una parte della nostra vita, del perché siamo stati creati.
“Solitamente, hai detto bene, solitamente”. Voleva sembrare simpatico, acuto ma stava per sembrare uno stupido spocchiosetto, finto anticonformista con quella meravigliosa camicetta grigia. “Piacere, Matteo”.
“Ecco, adesso ragioniamo. Piacere mio, Diana”. Si, come quella stupenda dea romana, sono anche io un’amante della caccia. Vado a caccia di felicità, da tutta una vita.
Il suo nome mi sa di “matto”. Spero tanto che lo sia, adoro le persone un po’ matte, un po’ strane, diverse insomma. “Dono Di Dio”. Precisamente questo, il suo nome vuole significare. Ecco, forse la mia prima preda è qui a meno di dieci centimetri da me.
“Suoni anche tu?”. Che bella domanda, ho una chitarra, delle bacchette per la batteria, una bella voce per cantare. Ma no, sono timida per questo genere di cose.
“Beh, ho un’acustica, amo cantare e per un lungo periodo mi cimentai con la batteria. Ma quella chitarra, non la so proprio toccare, accordare, strimpellare”. Volevo qualcuno che mi aiutasse, era uno dei miei tanti sogni imparare a suonare quel benedettissimo strumento, che i miei genitori si sono gentilmente degnati di regalarmi l’ultimo Natale.
“Fantastico. Ci vorrebbe qualcuno capace di insegnarti qualche accordo, qualche canzone semplice e potresti diventare la Janis Joplin del nuovo millennio”. Se voleva essere simpatico, non riusciva ad esserlo. Era un’autentica frana.
“Non sei simpatico. Voglio davvero imparare. Questo vuol dire che prima o poi, imparerò”. Non è simpatico eppure sono qui a ridere, come un’autentica scema.
Il telefono squilla, Giulia mi sta cercando. Guardo l’orologio e mi accorgo che la mezzanotte è passata da un pezzo. Suo padre è fuori, e quell’uomo odia aspettare.
Lo devo salutare ma non vorrei farlo. “Beh, scusami davvero ma devo scappare”. Non sapevo che altro fare, aspettavo una sua risposta, un suo ‘beh, lasciami il tuo numero così poi domani mattina ti chiamo’, ma mi accorgo del tremendo viaggio che stavo facendo, dopo un suo bacio. Sulla guancia ovviamente.
“Ciao, Diana. E’ stato un piacere”. Mi lascia con queste poche parole e scompare tra la folla.
Giovane misterioso bassista di una dannata band, come farò domani mattina quando vorrò cercarti ma non avrò i mezzi per farlo? Troverò un modo io, che ho sempre una soluzione per tutto.

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Capitolo 2
*** Capitolo due. “I need your sway” ***


Fredda domenica mattina come tante, già sveglia alle 8, pronta per la mia dietetica colazione e per la tempesta di compiti per il lunedì. Pronta per tutto questo, come tutti i giorni. Sono sempre pronta, pronta a tutto. Ho paura di una cosa, più di tutto, e questa cosa è l’amore. Fa stare bene, ma fa stare troppo male. Vedo le mie compagne di classe, ogni giorno, in preda a cambiamenti continui d’umore. ‘Mi fa stare, troppo bene, domani sono 3 mesi’, ‘Quando fa così non lo sopporto, ieri non si è fatto sentire per niente’, ‘oh, ma lui è il mio amorino. Oggi viene a prendermi fuori scuola’, ‘ieri mi ha dato buca, quel deficiente’, ‘lo amo’, ‘io non riesco più a vivere, mi ha lasciata ieri, davanti al portone di casa’. Tutte frasi sentite e risentite, ed io ormai non ce la faccio più. Vedono l’amore come qualcosa di passabile, di scambiabile, come le carte dei Pokemon o come le figurine dei calciatori Panini. Io credo invece che l’amore sia l’arma migliore per distruggere la monotonia e che sia una specie di tatuaggio, per tutta la vita. Altrimenti non può definirsi amore, non vale la parola ‘amo’ nella frase ‘ti amo’. Se abbia mai incontrato l’amore? No, neanche in cartolina. Non l’amore di una ragazzo, no. Ho paura di amare, per paura di non essere perfettamente in grado di farlo. Di essere una schiappa, altro che una cacciatrice. Diana, non farti troppi problemi, a tutto il suo tempo. Mangio, è l’una. Mia madre è a lavoro, mio padre cucina. Mio padre ama cucinare, lo fa bene, meglio di mia madre. Questa è la mia famiglia, una famiglia di gente che lavora, che si guadagna la pagnotta con il sudore della fronte, che si ama ma difficilmente lo dimostra. Siamo in tre, siamo pochi, ma riusciamo a sentirci in tanti, troppi ogni volta che qualche risata ci trascina via, ci diverte. Ho anche un cane, un cane piccolo piccolo. L’ho chiamato Pixel (date le sue nanoscopiche dimensioni) ed ha 5 anni. La domenica resto sempre a casa, rimango a casa a studiare, non esco mai. Amo il calore domenicale della mia casa e la domenica sento il bisogno fisico e psicologico di riposare, di staccare la spina con il mondo. Com’è che si chiamava? Ah, si Matteo, il tizio del sabato sera, questo il suo epiteto. Achille piè veloce e Matteo il tizio del sabato sera. Chissà se lo rincontrerò mai, per qualche viuzza o magari tra i suggerimenti di facebook. Mi piace, è bello, bellissimo e poi è arrivato insieme ad una battaglia ormonale. Caro Matteo, ho intenzione di cercarti su facebook. Eppure tu, mi hai già cercata, hai cercato Diana Migni, prima che io cercassi te. Hai richiesto la mia amicizia e magari sei li che l’aspetti con ansia. E magari hai aquistato altri 100 punti, Matteo Vair.
Avevo fatto colpo, si avevo fatto colpo. Non nego che lui abbia fatto colpo su di me, 10 volte di più di quanto io possa aver fatto su di lui.
La domenica scappa e scivola via tra le dita, ed anche quella domenica volava via. Ma poi il lunedi non è tanto male come tanti dicono, si riinizia la vita, quella di tutti i giorni ed io la preferisco all’ozio domenicale, troppo. Sveglia record alle 7:00, subito pronta, colazione gia nello stomaco e tracolla sulla spalla. Mio padre come tutte le mattine, mi avrebbe accompagnata a casa di Micaela e poi, da lì a piedi saremo andate a scuola. Micaela abita a pochi Kilometri da scuola, e qualche passo fa sempre bene, soprattutto di prima mattina. Micaela è mia da sempre. Dagli anni 2000, in prima elementare ad oggi. Il nostro, però, è un rapporto strano, non quello che tutti possono pensare, non il rapporto che due amiche di vecchia data hanno. Insieme ridiamo, anche troppo, viviamo ma tra noi c’è un muretto, un piccolo ostacolo di cemento che non siamo mai riuscite a superare, neanche crescendo. La mia scuola, la discarica (come di solito viene chiamata), è il punto di ritrovo delle disgrazie. Nella mia scuola però, l’unico liceo in città, non ci sono scale gerarchiche o cose del genere, siamo effettivamente tutti sullo stesso piano. Ogni mattina ogni singolo studente trasporta l’altro, nello sciame di persone, fino alla propria classe, puntualmente vuota. I professori, quelli, non mi hanno mai fatto tanta paura, sono una che va bene in quasi tutte le materie. Il motivo mi è ancora oscuro. Ok, la verità è che a me piace studiare, adoro la sensazione che si prova dopo esser riusciti a completare una versione di latino senza l’aiuto di siti internet, adoro la filosofia e i mille problemi che si pone, almeno non sono l’unica a porsi domande di quel genere e adoro la matematica, l’ho sempre amata come d’altronde ho sempre amato l’inglese. Sono una a cui è difficile tener testa, così tutti scappano impauriti come conigli e rimangono le persone che veramente tengono a me. Non so se vi ricordate Emanuele, quello della prima sera, il mio migliore amico. Io e lui insieme, ne abbiamo passate delle belle. Ci conosciamo da una decina d’anni, e nessuno dei due ha mai mostrato il desiderio di allontanarsi dall’altro. Neanche quello di avvicinarsi, di più. Tutti infatti, credono che tra noi due ci sia molto di più di una semplice amicizia. Così non è. Noi ci amiamo, come solo due amici riescono a fare. Interrogazione di matematica, otto. Sono soddisfazioni. Torno a casa, sempre scortata da una punto bianca, quella di mio padre. Oggi sul foglio della dieta c’è scritto: Pranzo, pasta al sugo, petto di pollo, insalata. Che felicità gente! Devo dimagrire, devo perdere quei chiletti in più, per la prova costume. Come ogni lunedi, ho il mio umile allenamento di pallavolo. Gioco a pallavolo da circa una vita. Avevo 6 anni quando mi venne la brillante idea di buttarmi in questo labirinto senza fine. Io amo questo sport, non tanto per lo scopo in se della pallavolo, ma per le grandiose persone che mi ha dato l’opportunità di conoscere. Anna, Marina, Alessandra, Marta e così via, tante altre. Sono loro, quelle che mi seguono sempre e se nei momenti di difficoltà non ho avuto il coraggio di lasciare ma solo quello per continuare è grazie a loro. Beh, ragazze, se mai leggerete queste poche righe, grazie. Marta, lei ha sedici anni. Io e Marta non ci conosciamo da tantissimo tempo, ma la pallavolo brucia le tappe e tre volte alla settimana ti da la possibilità di guardare dentro a chi gioca nella tua stessa squadra, difende, attacca, palleggia, recupera i tuoi errori, ti abbraccia se fai punto, ti sprona per fare di più. Io voglio bene a Marta, come una degna compagna di squadra può e deve fare. Fuori da quella dannata palestra, io e lei, non ci vediamo, ma ci sentiamo e con lei condivido le mie passioni più alte. Come scrivere, lei lo sta leggendo, lo ha letto prima di tutti voi questo disastro. Si deve essere complici in questa vita per sopravvivere, non ricordo chi lo diceva ma aveva ragione, ho i giusti complici per quest’omicidio di passioni che è la mia vita.

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Capitolo 3
*** Capitolo tre. “She moves in her own way” ***


 Sono una ragazza fortunata. Ma che dico, fortunatissima!
Non mi sono mai resa conto di essere così fottutamente fortunata, così straordinariamente sensibile all'amore che nella mia vita c'è. Ho tutto quello di cui ho bisogno, motivi per cui essere felice ed una famiglia con cui esserlo, ho l'amore che mi serve e non devo pregare di tornare a casa, perchè questa casa è piena. Piena di tutto quello che serve. Forse non sarò mai un’ artista, non scriverò mai canzoni sulla mia vita, non farò mai della mia vita un'opera letteraria o una tragedia teatrale, forse un domani non saprò che raccontare ai miei nipotini accanto ad una cioccolata calda e ad un camino caldo. Una cosa però è certa: tutto l'amore che ho acquisito, che ho imparato a ricevere e a donare, lo trasmetterò a loro e a chiunque un domani cercherà di far parte di questa mia vita.
Sono tre giorni con oggi che non più notizie del mio “matto”. Potrete credere quello che volete ma inizia a nascere in me una voglia irrefrenabile di vederlo, di sentirlo e magari di realizzare che quello non era uno stupido sogno.
Dovrà pure esserci un posto che frequenta più di altri, dovranno esserci altre date per i suoi “concerti”, dovrà esserci tutto questo. Cosa so in fondo di lui? Un bel niente, non so niente, non so dove abita, se è del posto, se ha veramente 16 anni, se ha problemi in famiglia, se frequenta una scuola e se si quale e ancora di più perché, perché proprio io tra tutta quella folla?
Giulia mi chiama, sono le due di pomeriggio, mi dice di correre a casa sua perché c’è una sorpresa, una sorpresa per me. Lei è tutta una sorpresa, sempre una sorpresa. Non la conosco veramente ma l’adoro, l’adoro da impazzire. Sono circa otto mesi che usciamo insieme, ci siamo conosciute per sbaglio nel centro della città perché entrambe eravamo state adescate da giovani che distribuivano volantini, solo ed esclusivamente per cercare qualcuno che cascasse alle loro fandonie. Io e lei ci cascammo. Pagammo per un disegno, creato, presumibilmente, dai bambini della clinica pediatrica della mia città, circa sette euro. Truffatori, gli si leggeva in faccia. Da quel momento non ci siamo più lasciate, anche perché io e lei siamo fatte l’una per l’altra, abbiamo gli stessi gusti, la stessa passione per la moda e per la musica. Lei è mora, io bionda ma per il resto, non potremmo essere più simili.
Corro a casa sua, trovo un passaggio da mio nonno. Giulia vive con il padre ed il fratello diciottenne Andrea. La madre morì appena Giulia nacque, non fu facile ovviamente. La sua famiglia è diversa dalla mia, ma vedo in loro tre un amore pazzesco, assurdo, invidiabile. Andrea è un ragazzo perfetto, sarebbe potuto essere il mio ragazzo ideale se non fosse stato il fratello della mia migliore amica. È alto, magro, educato, castano con gli occhi verdi, gli stessi di Giulia, gentile, dolce, rispettoso e per quanto possa sembrare strano, sotto quell’aria da bravo ragazzo nasconde tutto quello che è riassumibile in una parola: trasgressione. Giulia mi parla spesso di suo fratello, mi racconta tutto quello che vede fare da lui e i suoi amici. Giulia è pazzamente innamorata del migliore amico del fratello. Furono fidanzati un periodo, ma non poteva funzionare ed i motivi credo siano abbastanza noti. Si chiama Stefano ed io, sinceramente, non lo sopporto molto.
Entro nel salottino, accogliente e profumato, mentre Giulia grida dal piano di sopra ad Andrea di farmi sedere sul divano e di aspettarla. 
“Ciao bellissima – si, mi chiama bellissima ma non penso che sia convinto di ciò che dice – vieni e siediti, quella stupida della tua amica sarà qui a momenti”.
“Gentile come al solito, grazie”. Gli sorrido, chiudo le labbra e Giulia si catapulta su di me, vestita di giallo.
“Adesso scappiamo da questo manicomio, spero che questo scellerato non ti abbia disturbata”. 
“Figurati, sai quanto io e tuo fratello ci possiamo intendere”. Ovviamente Andrea era già scappato, non poteva sentirmi.
“So che ti piace ma lo sai, bisogna rispettare i ruoli”. Rideva, io con lei non posso permettermi di avere segreti.
“No, non mi piace, lo stimo molto, tutto qui”. In effetti lo stimo, lo stimo solo.
Mi porta in garage mi da una bicicletta e andiamo al parco della città. Allestivano un palco enorme, ed un cartello affisso su un albero diceva: spettacolo di carnevale, concerto di beneficienza. Tutto il denaro raccolto sarà devoluto in favore dei bambini della clinica pediatrica della città.
Lessi nell’elenco una parola: Cookers. Avrebbero suonato, sabato sera alle nove e mezza. Sabato sera non devo avere impegni, no. Abbraccio Giulia, chissà perché le belle notizie me le porta sempre lei.
Ci fermiamo nel parco, lasciamo le bici attaccate ad un albero e ci sediamo su una panchina. The memories bench. La chiamiamo così, la panchina dei ricordi. Molti dei miei girano intorno a quella panchina, molti dei suoi sono su quella panchina. 
La sera a casa, mamma prepara la cena ed io sono nella mia cameretta. Sto scrivendo, girovago su Fb, sento un po’ di musica. Si, la musica. C’era qualcuno che diceva che la musica è una forma di religione e l’unico modo per pregare è alzare al massimo il volume. Io credo nella mia musica, è la mia religione. Credo sinceramente che non ci sia amore più sincero di quello per la musica, comunque vadano le cose lei non ti abbandona mai, rimane li e ti sorveglia.
Matteo mi scrive, mi dice che mi ha cercata a lungo ma che alla fine mi ha trovata. Mi invita ad uscire, in un pub giu in città. Non so che rispondere, ma con il permesso di mia madre gli dirò di si. Per quella sera il suo nome sarà Giulia. 
Non dico bugie ma io non sono mai uscita sola con un ragazzo sconosciuto, questa volta però volevo provare e so che mia madre non me l’avrebbe mai permesso. 
Non so che mettermi, non l’ho mai saputo. Ho un armadio enorme, che straripa ma non so mai cosa mettere. Credo che opterò per una bella camicia a quadri lunga con delle calze coprenti e le mie adorate converse. Voglio essere me stessa, quella ragazza che non esagera mai per paura di sbagliare. 
Mi sento bella, forse solo perché per qualcuno sono bella davvero, forse per lui sono bella davvero. Lui è bello davvero, con quegli occhi neri e quella carnagione olivastra. Mi aspetta seduto su una panchina e aspetto che mio padre torni nella via di casa per avvicinarmi a lui. Mi sorride, con un sorriso di diamanti, è bellissimo ed il mio stomaco inizia ad aver voglia di ballare, si agita, si muove, vuole un pezzetto di lui, ha fame.
Non so che dire, non so mai che dire.
“Ciao”. Sussurro un timido ‘ciao’ e lui si alza e mi bacia come la prima volta.
“Ciao, entriamo?” Salta subito alle conclusioni, mi prende per mano e mi porta dentro, come se fossi già la sua ragazza. Il pub è vuoto, non c’è nessuno, ci sono solo tre ragazzi su un palco a sistemare i propri strumenti ed il barrista che gioca con il pc. A ‘Solitario’, presumo.
“Non c’è nessuno, sarà presto”. Gli sorrido, lui però ride e non mi lascia la mano.
“Può non essere un caso”. Non è mai certo quello che vuole dire, quello che vuole trasmettere.
Mi porta fino ad un tavolino e mi fa sedere, la luce è opaca e l’aria è rilassante.
Inizia a parlare, del più e del meno, dice che mi trova molto bella con quella camicia, che adora il mio stile, che gli piace la mia voce, che studia lingue in un’altra città, che gioca a basket, che adora fare snowboard, che a diciotto anni spera di volare a Londra, che i suoi genitori sono separati in casa, che suo fratello è un impiegato in un ufficio vendite, che ha fame e ordina. Due hot-dog e due coche.
Io rispondo a tutto quello che chiede ma non faccio domande, gli dico che inevitabilmente quella sera ho notato la sua bellezza, che adoro anche io il suo stile, che studio in un liceo scientifico, che gioco a pallavolo, che quest’estate volerò a Londra con i miei genitori, che sono figlia unica e che ho un cane, che amo da morire.
“Quelli sono miei amici, hanno appena finito un ‘concerto’ qui dentro, il locale sta per chiudere ma il proprietario è mio zio, gli ho gentilmente chiesto di lasciarlo a me, per questa sera”. Mi sorride e mi fa pensare a tutto quello che aveva detto, saremmo rimasti soli e le mie gambe incominciano a tremare.
La gente inizia a fluire verso l’uscita, mi presenta ai suoi amici, a suo zio, lo saluta e si fa consegnare le chiavi.
“Vieni, ti faccio sentire una cosa”. Mi prende per mano e mi porta su quel palco.
“Non sono mai salita su un palco, se non alle recite di Natale”. Non sono mai salita su un palco, la cosa è deprimente.
“C’è sempre una prima volta, per tutto. Ecco siediti qui, avvicina l’asta e dimmi se riconosci questa canzone”. Prende la sua acustica, gia accordata, ed inizia a buttare fuori qualche nota. Quella canzone la conosco, è stupenda, è “She moves in her own way”. Ha un significato fantastico e la so a memoria, ho un microfono, la melodia ed una voce non cestinabile. Inizio a cantarla. Non ho mai cantato di fronte a qualcuno (tranne il giorno della mia prima comunione), però con lui sembrava che mi fossi trasformata in Janis Joplin, per davvero. 
‘Ed io la amo perché, lei si muove a modo suo’ questo più o meno cercava di significare l’intera canzone.
SI blocca a metà canzone e poggia la chitarra a terra. “Sei stupenda, hai una voce assurda”. Odio i complimenti, li ho sempre odiati, mi proibiscono di essere me stessa. 
“G..g..grazie sei troppo gentile, credo, però, sia stato merito tuo”. Era stato merito suo, ne ero convinta. 
“In che senso merito mio? Non ho fatto nulla”. Sapeva cosa aveva fatto, lui sapeva tutto.
“Hai cacciato la parte di me migliore, quella che canta e che è felice di farlo, quella che si emoziona, quella che arrossisce”. Gli tocco la mano, anzi gliela sfioro ma lui l’afferra, mi alza e si alza, mi bacia. Ma non lo fa come la prima volta, adesso mi bacia veramente e mi stringe i fianchi. 
“Scusa”. Mi chiede scusa, non devi chiedermi scusa, lo vedi? Non sono triste, sono felicissima.
“Ma di cosa? Non c’è nulla per cui scusarsi, anzi…”. Non mi lascia finire che subito mi riprende mi ribacia e sembra fregarsene delle conseguenze e degli aspetti formali della situazione, delle scuse e degli abbracci.
Tutta la sera cantiamo, suoniamo. Mi insegna gli accordi più comuni, mi confessa di non aver mai spiegato a qualcuno prima di quel momento come suonare una chitarra. Gli scrivo il mio numero su un fogliettino e scappo, come Cenerentola a mezzanotte, durante una delle sue più belle serate. L’amore rende tutto più bello e per me in quel momento lui era l’amore. Mi rendo conto in macchina del mio sorriso ebete e di avere il suo cardigan sulle spalle. Profumo di lui, della sua delicatezza, della sua anima indipendente, del suo tepore rassicurante. Quel momento sarebbe dovuto durare per sempre, o per tutta la vita.

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Capitolo 4
*** Capitolo quattro. “Sofà Song” ***


 
Vi siete mai sentiti piccoli piccoli? Quasi insignificanti? A me capita spesso di sentirmi inutile ed una stupida perdita di tempo. Non ho ancora trovato una soluzione per questi momenti no, però cerco di farli capitare il più raramente possibile. Come faccio? Beh, con giornate come questa.
Andrea, il fratello di Giulia, mi invia un sms.
‘Ehi bellissima, ti va di pranzare a casa nostra oggi? Voglio fare una sorpresa a Giulia.’
Andrea che vuole rendere felice la sorella con una sorpresa? Assurdo, ma accetto.
Ho gia parlato di Andrea, ho gia detto che cosa penso di lui ma quel ragazzo credo non smetterà mai di sorprendermi. Dopo scuola, mi faccio lasciare da mamma a casa di Giulia. Entro in casa scortata da Andrea, lucente, illuminato dal sole con i suoi occhi verdi che cercano di brillare più dei miei, ma non ce la fanno.
Giulia non è ancora tornata ed Andrea mi porta in cucina dove una tavola tutta ben apparecchiata ci aspetta.
“Dovresti preparare la macedonia mentre io finisco di pulire l’insalata”. Mi sorride e mi indica le fragole e le banane. Voleva davvero bene a sua sorella, glielo si leggeva nel suo sguardo. 
“Allora che mi racconti di bello?” Non posso distrarmi, altrimenti mi taglio un dito ma cerco di rispondergli in maniera sensata.
“Che ho incontrato una persona fantastica, ma che dico di più”. Si vedeva che quando parlavo di lui mi si accendeva il viso.
“Ah? E chi è il fortunato?” Chi glielo dice che si tratta proprio di un ragazzo? Bah, vabè rispondiamo.
“Un ragazzo, Matteo. È il bassista della band che io e Giulia sabato siamo andate ad ascoltare”. Di nuovo, il viso si illuminava, lo sentivo.
“Matteo il bassista dei Cookers?” Sembra conoscerlo.
Si, lo conosce e mi dice cose molto carine sul suo conto. Matteo ha fatto volontariato per circa tre anni, quando sua madre lavorava in ospedale, gioca a basket da 5 anni ed è lì che si sono conosciuti, è praticamente madre lingua inglese dato che sua madre è canadese. Mio padre è canadese. Io ho sempre creduto nel destino.
Mettiamo l’insalata e la macedonia in frigo e aspettando Giulia ce ne andiamo in camera sua. Accende un po’ lo stereo e mette su qualcosa dei Thirty Seconds To Mars.
Io quando sto con Andrea sto bene, mi sento a mio agio. Sembra la parte mancante di me stessa. Sembra ricordare il mito dell’Androgino di Aristofane nel Simposio di Platone. Sembra che noi due siamo stati divisi alla nascita, che io abbia scelto di essere donna e lui uomo. 
“Grazie”. Mi scappa questo grazie, questo grazie inutile dalla bocca, questo grazie inspiegabile.
Si alza mi viene vicino e mi toglie i capelli dal viso.
“Sei arrossita. Sono contento per te, spero che Matteo sappia essere quello di cui hai bisogno te lo meriti, te lo meriti tutto”. Proprio in quel momento Giulia entra e si sorprende di vederci così vicini.
Andrea si alza di scatto prende Giulia e le copre gli occhi e a passo lento la porta fino alla cucina, io li seguo. Le scopre il viso e lei rimane folgorata, stupefatta e decisamente incredula. 
Dopo il pranzo Giulia mi porta in camera sua ed io sapevo quanta voglia avesse di sapere di me e Matteo ma quanto desiderasse sapere il perché dei miei soli 3 centimetri da suo fratello. Le racconto di Matteo, delle due ore più emozionanti della mia vita, di come avesse saputo cogliere nel segno e capirmi. Le racconto che il mio cuore iniziava a battere per Matteo, a battere veramente. Lei mi abbraccia con uno dei suoi più bei sorrisi e per qualche secondo sembra vivere con me i miei battiti.
“Tu ed Andrea, prima, cosa stavate facendo?” Questa domanda doveva esserci, lo sapevo la doveva fare.
Non le rispondo perché in fondo il motivo di tanta confidenza non lo sapevo neanche io. Lei si avvicina a me e come solo lei riesce a fare mi sussurra un tenero ‘grazie’ come quello che poco tempo prima ero riuscita a dire a suo fratello. Mi ringrazia della sorpresa, mi ringrazia di essere sempre li per lei e mi ringrazia di far sorridere suo fratello. Lo faccio sorridere, così dice lei. Andrea non sorride con le ragazze, Andrea sembra odiare il genere femminile, le odia tutte tranne me e probabilmente sua sorella. Sono le quattro di pomeriggio e mi arriva l’ennesimo sms. Marta mi sta cercando, mi chiede un passaggio per l’allenamento. Glielo concederò molto volentieri. Scappo da casa di Giulia e becco Andrea fuori in giardino con un libro di Goethe, forse per scuola, mi avvicino a lui e lo saluto.
“Ci vieni domani mattina con me e alcuni miei amici in spiaggia?” Domani quando? E Giulia? Doveva venire anche lei.
“Se viene Giulia si, ovviamente.” Gli sorrido.
“No, domani è impegnata lei. Allora mi devi un’uscita e convinci la tua amichetta ad uscire con suo fratello, anzi dille che porterò Stefano. Ne sarà felice.” Accetto, uscire con Giulia per renderla felice era una buona scusa per concedergli un pomeriggio insieme.
Marta è pronta è li fuori casa che mi aspetta. La Ford di mia madre accosta e la tiriamo su. Quell’allenamento sarà noioso, stranamente noioso. Marta mi chiede un parere: è possibile ‘amare’ una persona conoscendola da soli due mesi?
Se sapessi di aver ragione, Marta, ti risponderei subito di si. Ma non vorrei bruciare le tappe e darti uno di quei consigli inutili, nocivi. Io sto amando, e non stiamo parlando di mesi ma di una stupida settimana. Marta sono una bambina dentro, non puoi chiedermi certe cose. Mia madre mi tirerebbe le orecchie se le dicessi di amare uno sconosciuto perché forse non lo amo neppure, forse sono solo troppo felice per riuscire ad aprire gli occhi, come un grosso sole troppo luminoso. Io le dico di si, le dico di averlo provato, le dico di non preoccuparsi. Lei mi dice che Marco è fidanzato, mi dice che la sua è una posizione difficile. Le direi di lasciare stare se non la conoscessi fin troppo bene. Le dico di non preoccuparsi di aprire il suo cuore, tutto verrà da se.
“Sei sicura?” Mi chiede se sono sicura. Marta, io non sono mai sicura ma ti dico quello che sento, quello che provo e i sentimenti lo sai: non sono mai sicuri.
“Ci provo.” Le sorrido e saluto tutte, si torna a casa. Doccia, cena, Matteo.
Dopo cena Matteo c’è, per telefono o tra i miei pensieri. Lo immagino in un grande centro commerciale con le mie mille buste, lo immagino in un prato verde con il suo ipod, lo immagino in un asilo ad insegnare piccole parole a piccoli bambini, lo immagino accanto a me e comunque sia trova il modo di essere impeccabile.
Tutto quello che mi passa per la testa o sotto il naso ha un non so che di favoloso da quando nella mia vita è entrato lui. Non so chi o cosa intendere con lui, se Matteo o l’amore.
Prendo il pc, entro su facebook e lo cerco. Mi scrive, mi saluta e mi da la buonanotte. Domani passa a prendermi a scuola: si va dove il cuore ci porta. Dove mi avrebbe mai portato il cuore se non in una creeperia in centro?
Micaela oggi salta, ha la febbre. Emanuele non ha studiato allora bigia. Paolo e Antonella sono fuori scuola che mi aspettano. Paolo è un ragazzo straniero, la testa della classe. Antonella è la mia compagna di banco e di sventure. Entriamo in classe, prima ora: religione. Uno spasso micidiale. Religione passa, arriva latino, si presenta chimica e poi matematica. Anche per oggi Matteo cambierà nome. Oggi si chiamerà Antonella. Dico a mamma di restare a mangiare in centro con Antonella mentre Matteo passa con il suo cinquantino fuori scuola e mi strappa via da tutta quella noiosa gente. Perché confronto a lui anche Jerry Lewis diventa noioso. Impossibile per molti, straordinario per me.
Voliamo a circa 70 km\h per le vie della città, davanti a chiunque abbia voglia di guardarci. Cerco di coprirmi, cerco di non farmi vedere da tutti, devo riuscire a proteggermi. 
Una piada prosciutto e formaggio, una funghi e mozzarella e due mezzolitro di acqua naturale. 
Gli passo la mano tra i capelli, glieli scompiglio. Tutto quel suo perfetto ordine aveva bisogno di un ritocchino. Si avvicina e mi dedica un piccolo bacino, quasi volesse ringraziarmi.
“Vuoi sapere perché tra tutta quella gente ho visto proprio te?” Era questa la domanda a cui non riuscivo a trovare una dannata risposta, ora lui dice di averla.
“Me lo sto chiedendo da un po’ ma, lo sai, non sono brava a darmi delle risposte.”
“Perché quando ti ho vista le mie mani andavano da sole, producevano musica, andavano al ritmo delle tue labbra su quella benedetta canzone, ricordi che canzone? Sofà Song. Non centra molto ma è anche una delle mie canzoni preferite. Ho visto te perché più ti guardo e più capisco che splendi come pochi hanno il potere di fare, forse stai cercando di farmi impazzire o cosa. Poi perché in quelle poche parole che mi hai detto quella sera ho capito che sei perfetta, perfettamente diversa. Sei quella che mi serve. Magari hai sempre odiato il tuo essere una brava ragazza, devi sapere però, che a gente come me è quello che serve. Avevo bisogno della sicurezza che riesci a darmi.” Parlava guardando in giro, non so se si sia reso conto di quanto importanti siano state quelle parole. 
“Non so cosa si faccia di solito in momenti come questi, ma posso solo dirti che nessuno prima d’ora aveva mai apprezzato la mia serietà, forse qualcuno l’aveva anche denigrata, offesa, ritenuta inutile. Forse dovrei ringraziarti come fanno tutti, oppure potrei creare la mia situazione cinematografica, prenderti e portarti via da questo posto dove poi, nessuno potrà più trovarci ma ti rendo noto che fra mezzora devo essere a casa, prima che mia madre esca da lavoro.” Mi reputo corrosiva più che acida. Corrodo definitivamente e le mie vittime sono casuali. Lui è dolce, ma non troppo. Odio la dolcezza, quella gratuita. Ma con quelle parole credo di esser stata dolce, al massimo delle mie potenzialità.

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Capitolo 5
*** Capitolo cinque. “No Longer” ***


Quando ero piccola avevo sogni più grandi di me, e adesso che son cresciuta loro sono triplicati. Sono diventati dei mostri grandi e virulenti, privi di qualsiasi forma ma ricchi di aspettative e colori. Credo che ognuno di noi debba vivere per qualcosa, io non vivo per un sogno in particolare, vivo per non smettere mai di sognare e sperare. Desiderare qualcosa non è poi così piacevole quanto sognare che quella cosa sia già nelle tue mani. Sogno in ogni momento della mia vita, forse esagero, ma perlomeno riesco a trasformarmi ogni volta in qualcosa di diverso. L'ultima volta ero li, seduta su quella panchina arrugginita in un parco a Nord di Londra, avevo tra le mie mani la lettera più bella del mondo. La lettera che mi spiegava che sognare è possibile, ed è possibile anche essere il sogno di qualcuno. Ecco io ero il suo. Vi consiglio di sognare ad ore alterne per non dimenticare la schifosa realtà che viviamo, per non illuderci, ma vi obbligherei, se solo potessi, a sognare e a non smettere mai di farlo. Quella lettera faceva più o meno così: 
‘Sei così diversa da tutto quello che fino ad ora ho sempre vissuto, sei così differente dall'inutile quotidianità a cui sono stato abituato. Ho bisogno di te, delle tue debolezze, quelle più profonde per crescere anche io, ho bisogno dei tuoi sogni per crearne uno adatto a me, ho bisogno della malinconia delle tue canzoni per conoscere qualcosa che non ho mai conosciuto. Sarai tutto quello che ho sempre sognato, ragazza, sarai la più bella sinfonia, sarai ogni singola rima in una poesia. Non so se sai che da quando sei tra i miei pensieri non ho smesso un secondo di cercare canzoni da dedicarti, fatte per te, non ho smesso un attimo di scrivere frasi, parole, poesie che potessero spiegare il mio amore per te. Tutto però, è troppo poco per te. Grazie, grazie di come mi stai insegnando ad amare, come mi stai aiutando a crescere, a sopravvivere e a pensare che tutto andrà bene.’
Però la mia realtà riusciva a soddisfarmi e a non aver bisogno di sogni, perché nell’ultima settimana sembra esser diventata migliore di uno sciocco sogno.
Quel pomeriggio avrei studiato per poi uscire con Giulia, suo fratello e Stefano. La filosofia andava da se, è una delle mie materie preferite e sinceramente ho sempre desiderato esser considerata una specie di filosofo.
Quel pomeriggio, a casa di Giulia, come ho gia detto avevo visto che Andrea leggeva, leggeva qualcosa a me noto. Le Affinità Elettive di Goethe e se potessi consigliarvi un libro, ora vi consiglierei questo. Tornata a casa quella sera, dopo l’allenamento lo rilessi subito, tutto d’un fiato e come sempre sottolineai i passaggi migliori.
‘Noi non conosciamo le persone, quando vengono da noi; dobbiamo andare noi da loro, per sapere quel che sono.’ Sono completamente convinta della veridicità di questa frase. Dobbiamo muoverci noi per capire qualcuno, per capire la luce nei suoi occhi, per capire i mille suoi difetti e i suoi pregi. Dobbiamo essere noi tanto capaci da scavargli dentro. Quel pomeriggio con Andrea è stato così.
Giulia passa sotto casa mia nella macchina della madre, al volante però c’è Andrea e a fianco a lui Stefano. Sapevo che la probabilità di rimanere sola con Andrea sarebbe stata altissima. Stefano e Giulia sarebbero andati chissà dove e chissà a fare cosa. Andrea ed io rimaniamo seduti su una dunetta nel bel mezzo della fredda spiaggia. Lui caccia un libro dal suo Eastpack, un altro libro. Che tu sia per me il coltello. Avevo letto un libro di Grossman: Qualcuno con cui correre. Stranamente sorprendente. Andrea si alza stende un telo a terra e mi invita a sedermi su questo per non inumidirmi i pantaloni. Io caccio il mio ipod ed mi stendo con la testa appoggiata sul suo stomaco, formavamo una specie di T.
Fisso le nuvole come fossero stelle e le guardo come se la risposta a quei continui capogiri fosse li in mezzo a loro. Andrea inizia ad accarezzarmi i capelli, non dico niente, quel momento mi faceva sentire a casa. Come poche volte ero riuscita a sentirmi fuori di casa mia. Si siede e lascia scivolare la mia testa sulle sue gambe.
“Senti un po’ che bella frase: Anche solo immaginare il tuo modo di parlare mi calma. E mi rende felice. Mi scorre nel corpo come una medicina, facendoti gorgogliare dentro di me. Non smettere. Non smettere mai.
Questo scrittore è favoloso, conosci qualcosa di suo?”
“Si, lessi Qualcuno con cui correre. Vuoi che ti risponda con una citazione?”
Muove la testa su e giu e mi fa cenno di si.
“E ricordava, sorpresa, di aver sempre creduto che le mancasse quella parte di anima, quel mattoncino di Lego, che le avrebbe permesso di unirsi ad un'altra persona.”
“E tu ti senti così?”
“Mi sono sempre sentita così, anche adesso che forse quella persona l’ho incontrata e alla quale sto dedicando la maggior parte dei miei pensieri.”
“Credo che il tuo sia un problema inutile, assurdo.”
“Nessun problema è così inutile e assurdo, ognuno di noi vede in se stesso la causa dei propri mali. E’ questo il più grave dei problemi.”
“Hai ragione, ma il fatto è che dovresti amarti, così come sei. Tu non sei ‘anomala’ tu sei semplicemente ‘rara’.”
Quelle parole mi fanno arrossire, io non sono anomala, io sono rara. Si, Diana, tu sei rara. Una pietra turchese preziosa, come quella che porti al collo con un simbolo della pace.
Mi sposta il ciuffo da davanti agli occhi. “Hai degli occhi stupendi. Meglio dei miei.”
Gli sorrido, sperando che da qualche parte fosse spuntata Giulia. Il mio evitare contatto con lui non ha un vero e proprio motivo. Non voglio lasciarmi andare, ho il cuore occupato e la mente intasata.
Mi addormento coccolata dalle sue mani sul mio viso, da quel sole puro e rassicurante e da quelle poche note rimaste sul mio ipod. Mi risveglio accanto a lui, in uno stato di dormiveglia. Sono le sei e di Giulia ancora nessuna traccia. Lo sveglio del tutto.
“Ma tua sorella?”
“Un momento che controllo il cellulare.”
Un messaggio lo avvisava che per le sei e mezza sarebbe tornata da noi.
“Bene, almeno sappiamo che non è scappata con quel mecenate del tuo amico.”
“Non lo sopporti proprio vero?”
“A dire il vero no. Non è il tipo di persona che può andare d’accordo con me.”
“Allora dimmi, qual è il tuo ideale di persona?”
“Un’anima pulita e dissociata, scombussolata, intelligente, verde come i tuoi occhi.”
“Verde? Cosa vorrebbe dire verde? Una persona verde?”
“Si, verde. Naturale, tranquilla, fonte di speranza, sincera, rispettosa e molto più umile.”
Rideva e si toccava quei capelli che al sole diventavano color miele.
“Ho almeno una di queste caratteristiche?”
“Te ne mancano poche.”
“Bene, allora sono fortunato.”
“Stanne certo, se non fossi una persona piacevole, anche tutto l’amore che provo verso Giulia non mi spingerebbe a passare un secondo di più con te.”
“Quindi sono una persone piacevole, la cosa mi rassicura.”
“Ne sono contenta, davvero.”
La mia mano per sbaglio sfiora la sua, la ritraggo subito.
Giulia e Stefano tornano, contenti con un sorriso fosforescente stampato sulla faccia. Giulia e Stefano erano tornati insieme.
‘Diana, devo dirti una cosa.’
La mattina seguente mi spiazza con un messaggio del genere.
Cosa vuol dire ‘devo dirti una cosa’, può voler dire di tutto, può voler significare di tutto e a me quest’ampiezza del tutto, ha sempre fatto paura.

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Capitolo 6
*** Capitolo sei. “Take me to the riot” ***


“Stefano ed io, insomma Stefano ed io ieri…” Non volevo che finisse quella frase, non volevo sentire quelle parole. Il mio primo bacio è stato qualche settimana fa e lei e Stefano avevano gia fatto ‘l’amore’. Che cosa potevo saperne io? Cosa le avrei dovuto dire?
Non ho fatto le solite domande del tipo ‘com’è stato?’, ‘fa male?’, ‘come è successo?’. No. La mia unica domanda, la mia unica preoccupazione, l’unico mio amore è la sua felicità.
“Eri felice, sei felice?”
“Come una pazza.”
A me basta questo, è sempre bastata la felicità delle persone care.
“Lo dirai ad Andrea?”
“No, non lo farà neanche lui. Non lo ha fatto neanche lui, io lo so che lui con quella Martina ha fatto quello che ho fatto io con Stefano ma lui non ha mai avuto il coraggio di dirmelo.” Aveva paura di chiamare le cose con il loro nome. Avevo paura che la felicità di Giulia non fosse poi così tanta. Andrea e chi? Andrea e Martina. Chi è questa? Lui odia tutti tranne me. Eppure ha amato lei, Martina.
Non posso sapere qualcosa in più di Andrea, lui sa tutto, è un libro aperto per me. 
“Piaci ad Andrea.” Dopo qualche minuto di silenzio queste tre parole escono dalla bocca di Giulia. Parole che non avrei mai voluto sentire. Mai. Non le rispondo ma lei continua a parlare. “Ieri Stefano mi ha detto di quanto tempo passi a parlargli di te, a disegnare il tuo viso in quel disordine del suo mondo, a leggere libri e a scrivere canzoni. Per te.”
“No, Stefano deve sbagliarsi.” Mi sarei allontanata da Andrea, subito.
“No, Stefano ha ragione. Insomma, svegliati. Quel pranzo, ieri al mare, domani e nei giorni successivi. Farà di tutto per averti al suo fianco. Conosco mio fratello e so quanto bisogno abbia di qualcuno che lo capisca. Hai il difetto di capirlo.”
“Ho il difetto di amare, Giulia.” Una frase senza senso potreste pensare. Invece, è più significativa di quanto possiate tutti pensare.
“Corri, va da Matteo. È di lui che hai bisogno.”
Corro e vado da Matteo, passiamo il pomeriggio insieme ma la mia mente è da un’altra parte. 
“Cos’hai?”
“Non sto molto bene, ho troppi pensieri per la testa.” Lui mi capiva ma ero io quella a non capirmi.
“Tranquilla, poggia la testa qui.” Appoggio la testa sulla sua spalla e mi abbandono a quei mille problemi che stavano per farmi diventare la loro preda.
Studiamo, ci amiamo, mangiamo, cantiamo e balliamo. Sarà ma io con lui dimentico il mondo, lo dimentico tutto, forse i suoi sono superpoteri. 
Andrea però non se ne va dalla testa, torna e bussa con insistenza, l’idea di non riuscire più a vedere in lui una persona amica, amica e basta mi disgusta e mi distrae. Insomma, ho bisogno della sua saggezza, della sua sfrontatezza, ho bisogno del suo essere fuori controllo e del suo andare contro la normalità, ma ho bisogno di tutto questo come un bambino ha bisogno di sua madre, come un passerotto del proprio nido. Sarebbe forse la persona perfetta per trascorrere una vita, sarebbe la persona che mia madre vedrebbe al mio fianco un domani, ma oggi è diverso, oggi voglio altro. Oggi ho paura di guardare al futuro, con lui guarderei al futuro, in ogni mio sguardo.
Perché Andrea torna nella mia testa ogni qual volta che mi fermo a pensare?
“Te ne devi andare, non voglio sentire.” Cercavo di ripetermelo, ma inutilmente. Mamma entra in camera, una madre sa sempre quando qualcosa non va, la mia credo abbia lasciato la scuola in terza media per specializzarsi proprio in questo.
“Che c’è che non va?” Mamma, che c’è che non va? Adesso come te lo spiego? Come ti spiego di Andrea, di Matteo, di Giulia e Stefano e del mio sentirmi inadeguata con loro?
“Ti sei mai sentita inutile? O forse è meglio dire: sbagliata? Hai mai visto mamma, cadere davanti a te legami vitali per un qualche stupido motivo? Hai mai ‘amato’ qualcuno prima di amare papà?”
Lei sorride, forse orgogliosa dei suoi superpoteri, forse in suggestione.
“No, quelli prima erano stupide comparsate. Tuo padre è stato il primo in tutto, il primo a farmi capire che la vita stessa è molto più di un bel sorriso e di una carezza a mano aperta, quelli li sanno fare tutti. Tuo padre mi ha insegnato che la vita è prima di tutto sacrificio, ma che quel sacrificio in due diventa armonia e con te, in tre diventa passione, vita stessa. Si, mi sono sentita inutile, inutile come un sassolino nella scarpa, fastidiosa. Ci sono volte in cui non sai che dire, volte nelle quali la tua esperienza è troppo poca per aiutare gli altri. E cara mia, i legami si spezzano, si spezzano di continuo.”
“Mamma, si ama quando il cuore batte e quando il cervello si chiude o si ama quando si pensa e quando è la tua pelle a chiedere la sua energia?”
“Si ama quando il cuore smette di battere, non lo fa più come prima, quando la mente stacca la spina, quando nelle vene scorre adrenalina. Non si ama ciò che è bello, ma ciò che ci fa star bene.”
Sono nata nella generazione che è abituata a vedere Cesare Cremonini con i capelli a colori uniformi, monocromatici e non a strisce verdi o rosse come nei periodi di gloria nei Lunapop, sono nata nella generazione che vede Jovanotti dedicare canzoni alla propria bambina, generazione nella quale l’ombelico del mondo è solo un ricordo, adesso ci sono i safari o le tasche piene di sassi. La mia età vede Morandi come presentatore di Sanremo non come il ragazzino a cui piacevano alla follia i Beatles e che tentava di imitarli, la mia età vede la nipote di Celentano in programmi televisivi e sa a stento chi sia il ragazzino di una certa via Gluck. 
Questa è una delle tante riflessioni che dopo ‘Vieni a vedere perché’ sputata fuori dallo stereo di casa mia mi è balenata in mente. Adoro questa canzone che a dire il vero fa un po’ paura. Ho paura di quanto sappia leggermi dentro, di quanto sappia parlare egregiamente al posto mio. Tutti abbiamo una canzone che sa leggerci dentro, anzi io credo di averne anche più di una, anche Andrea ne ha una, anche Matteo e anche Giulia.
Chiedo a Giulia quale canzone sentisse sua più di qualsiasi altra.
“Aspetta fammici pensare.” Prende il suo ipod e sfoglia negli ultimi brani.
Mi dice che si rispecchia nella diciottenne di ‘She will be loved’ dei Maroon 5. Si rispecchia in ‘Albachiara’. 
“Una canzone che sembra scritta per me.” Le dico, perché ho sempre pensato che Vasco si sia seduto, mi abbia pensata e abbia buttato giu quelle note.
Chiedo ad Andrea quale invece fosse la sua di canzone. Andrea si abbassa, mette le mani sotto i suo letto e tira fuori il suo mp3.
“Cerca di capire le parole, altrimenti poi te la spiego io.” Ho sempre avuto una buona capacità nel tradurre canzoni.
Untitled dei Simple Plan. Non l’avevo mai sentita, eppure adoro i SP. Per capirla, l’avevo capita però il senso e cosa trovasse di se stesso in quella canzone mi era nettamente sfuggito. 
“Ti senti dentro questa canzone, tu?”
“Si, che c’è di strano. È fin troppo intimo come pensiero, mi vergogno un pochetto di avertela fatta sentire, cerca di capirmi quindi.”
“Allora mettiti sotto a spiegarmela.”
“Ci sono io e c’è il mondo intorno a me. Io sono lontano anni luce da tutti gli altri, gli altri non riescono a capirmi, gli altri si limitano a giudicarmi. Credo quasi di aver sbagliato, sbagliato ad essermi messo in gioco così come sono, con tutti quei particolari che giocano solo contro di me. Io la interpreto così, forse tu la vedrai diversamente o forse no.”
È bellissimo vedere le sue guance rosse accendersi in quel barlume di timidezza che gli si leggeva in viso. Non era forte come è sempre voluto sembrare. Raccolgo le ultime parole che mi sono rimaste e formulo una frase che abbia un senso, che possa uguagliare la sua immensa fiducia nei miei confronti.
“Ma se non ci mettessimo in gioco che persone saremmo? A volte mi pento, io come te, di essere quella che sono. Però penso che senza me, magari qualcuno potrebbe essere triste e mi prendo il lusso di essere presuntuosa, di credere di essere importante. Magari per qualcuno lo sono davvero e magari anche tu, sicuramente, sarai importante per qualcuno. Vitale.” 
“Ti sei mai pentita di aver provato un sentimento per qualcuno?”
“Perché mai? Qualsiasi sia la natura di un sentimento, qualsiasi la forma di questo sentimento, vale la pena di viverlo senza rimpianti e rimorsi. Almeno io credo sia cosi.”
In effetti non ho mai capito quelle ragazze che guardandosi alle spalle vedono solo errori, amori sbagliati, ragazzi sbagliati. Perché mortificare i propri sentimenti? Non capisco, non ho mai capito e non ho mai criticato qualcosa che ho amato, mai.
“Un amore può rovinare una persona, bella mia.”
“Può benissimo migliorarla, non credi?”
“Nel mio caso logora dentro, e guarda porto ancora le cicatrici.”
“Giulia mi ha parlato di Martina, non le dire che te l’ho detto, però se vuoi parlare io sono qui.”
“Martina? Uno sciocco errore e non mi interessa quello è stato un errore, un errore e basta.”
“Ti va di parlarmene?” E pensare che tutti mi hanno sempre criticata per la mia freddezza e il mio non voler sentire. Era tutta gente che non mi conosceva, almeno non veramente.
“Avevo sedici anni, avevo la tua età ed ero stato invitato ad una festa, una festicciola in una villa in città. I genitori di Serena sarebbero stati via, alle Bahamas, per circa due settimane, aveva la casa libera ed organizzare una festa era il minimo. Lo sai, odio le feste però avevo voglia, voglia di quella cosa lì. A sedici anni sei più deficiente di quanto tu lo possa essere in tutta la tua vita, senza offesa. Stefano era, a quei tempi, il migliore amico di Serena ma io continuo a pensare che tra loro ci sia stato di più. Stefano è un testa calda, lo è sempre stato. Mi ritrovo solo, seduto su una panchina mezzo sbronzo e probabilmente fumato, non ricordo. Vedo che una sagoma si avvicina a me e si siede accanto a me. Mi chiede dove fosse Serena ed io la accompagno al piano di sopra. Martina, la migliore amica di Serena, era più ubriaca di me ed io lo sapevo quanto le potessi piacere, dalle elementari probabilmente. Mi prende e mi spinge dentro una camera che non ricordo quale fosse. Come proseguì il tutto credo sia deducibile. Mi sono svegliato quella notte, per le cinque sulle scale della villa con Martina tra le braccia ed una coperta tra le sue braccia.”
“Non l’hai amata, ti sei divertito. Bisogna divertirsi.” Ero delusa? No, sorpresa.
“No, io credevo di amarla, avevo bisogno di lei ma non come Romeo aveva bisogno di Giulietta. Come Silvestro ha bisogno di Titti, avevo una fottuta voglia di lei. Crescendo ho capito quanto stupido e sciatto sia un ragionamento del genere. Io non ho mai amato in vita mia, lei è stata un errore, però ogni qualvolta, sentivo le mie gambe tremare e le mie mani che cercavano il suo corpo.”
“Non hai mai amato? È impossibile. Ci sarà stata una ragazza in tutti questi anni che ti ha fatto battere il cuore!” 
“No, amare è un parolone. Non bisognerebbe giocarci. Bella mia, abbiamo sedici e diciotto anni, dovremmo crescere prima di amare o magari trovare un compromesso e decidere noi cos’è l’amore.”
“Dovremmo inventarlo?”
“Si, brava, proprio così.”

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Capitolo 7
*** Capitolo sette. “Rewind” ***


Amare è davvero un parolone, Andrea forse ha ragione, ha capito che per amare c’è bisogno di una licenza.
Quindi dovrei aspettare per definire amore quello mio e di Matteo, in fondo il nostro è solo un mese. Forse uno di noi due potrebbe avere dei ripensamenti o forse potrebbe capire qual è veramente la propria via, magari senza dell’altro. Ho capito che quando una persone tiene a te, soffre con te, ama con te, sorride con te. Queste persone le devi contare e le devi tenere dentro di te perché sono loro che ti accettano così come sei, gli altri buttali via. Non vale la pena. Loro mi accettano così come sono, dovrei metterli sullo stesso piano? Probabilmente sì. Io in verità non ho mai creduto nell’amore in quanto tale, ho sempre sperato per esso perché tutti hanno un po’ di amore, non perché lo volessi davvero. L’ho trovato e posso essere paragonata ad un cubetto di carbone incandescente, o se volete di ghiaccio.
Mia madre e mio padre escono per fare un po’ di spesa, domenica mattina ed io resto a casa, devo studiare, devo pensare, devo evadere e riposare. Evadere, che vorrà mai dire? Io evado ogni volta che prendo il mio ipod dalla reltà, ogni volta che la musica bussa a suon di grancassa nella mia testa, ogni volta che il cantante di quella band mi dedica una canzone. Sapete cosa penso io? Che il migliore fidanzato che ognuna di noi potrebbe mai desiderare è il suo cantante preferito. Io segretamente sono ufficialmente fidanzata con Paul, Paul McCartney. Perché ogni volta che sento qualche sua canzone posso benissimo pensare che quelle parole siano per me, per me e nessun altro. Per questo amo la musica, amo l’amore per la musica e le apro sempre mente e cuore quando chiede di entrare e magari, un giorno, di non uscire più. Non canto perché come scrive Leo di Bianca come il latte, rossa come il sangue, avrei paura del giudizio degli altri, mi vergognerei. La mia timidezza è il peggior difetto. Ma non parliamo di difetti, sono quelli che ci rendono ciò che siamo e sinceramente sto imparando ad accettarmi così come sono sempre stata. Lo canta anche Gaga, “sono nata in questo modo”. Già sono nata così e devo capire che sono importante. Lo dobbiamo capire tutti, tutti coloro che credono di dover cambiare, doversi migliorare.
Mi sono seduta su una sedia, ho preso un blocco note ed una matita ed ho scritto quella che dovrebbe essere la mia prima “canzonetta”. Ho preso la mia acustica e con quei pochi accordi che ho imparato, ho creato una specie di melodia. Spero ti piaccia. Di cosa ho parlato? In realtà non lo so neanche io. Ci sono frasi come ‘lascia stare quello che verrà, la verità è che siamo qua’, ‘non ho paura di chiederti il perché, che la risposta è gia qua’, ‘dimmi se ci credi, che farò lo stesso’. Ho sputato le mie più represse emozioni, le mie più represse ragioni.
La farò leggere a chi mi chiederà di leggerla, chi mi vorrà sentire in tutta la mia inquetudine. Non sono più 
 
 
sicura dei miei sentimenti. Non c’è modo migliore di capirli se non attraverso una canzone. Una poesia, un dipinto. Noi, sognatori, ci esprimiamo così, siamo difficili da comprendere ma comunque sia non siamo poi così complessi. 
Se io andassi da Andrea con questo sorrisetto beffardo e gli chiedessi se son veri i suoi sentimenti nei miei confronti, cosa succederebbe? C’è chi dice che non importa se la nostra voce potrebbe tremare, l’importante è dire la verità. Io la voglio dire, la voglio ancor di più sentire questa benedetta verità. 
Mi vesto, prendo il mio cinquantino e scendo a casa di Giulia. Giulia è in chiesa, i genitori dai vicini, lui in casa con una ciotola di cereali e un litro di latte in un bicchiere alto circa 20 cm.
Busso e viene ad aprirmi. In pigiama, con una maglietta bianca enorme, un paio di pantaloni grigi extralarge e delle pantofole arancioni. Ha i suoi meravigliosi capelli tutti spettinati, ma cerco di non guardarli.
“Scusa l’orario, scusa tutto ma devo parlarti.” Sputo nuovamente queste parole alla velocità della luce.
“Vieni entra.” Non capisce, ovviamente.
Mi fa spazio sul divano, toglie il pail e i cuscini.
“Come ti ho detto, scusa.”
“Non preoccuparti, ho solo un po’ sonno, spero di riuscire a svegliarmi in tempo.” Sorride, con il viso ancora caldo e probabilmente morbido come il cuscino dove fino a poco fa era poggiato.
“Posso chiederti una cosa?”
“Aspetta, prima ti va un bicchiere di latte?”
“Si, grazie.”
Si alza e prende una ciotola di latte e cereali per se e un bicchiere algido per me.
“Allora, dimmi tutto.”
E da che parte comincio? Con cosa inizio? Perché ero andata li? Infondo se provava qualcosa per me erano solo fatti suoi. Io invece voglio entrarci, viverli con lui i suoi sentimenti, capirci qualcosa di più, riattaccare i cocci delle cose ormai distrutte.
“Che vedi in me?”
Ma che razza di domanda era quella? Senza senso, azzardata, inutile.
“In te? Non ho poteri di questo genere.” Scoppia a ridere e sorseggia dalla tazza.
“Non è facile esprimere concetti come questo.”
“Di le cose come stanno, chiamale con i loro nomi.”
“Cosa sono io per te? Provi qualcosa per me che va oltre alla semplice amicizia?”
Sono diventata rossa, non mi era mai capitato di essere così sincera, spudorata e egoista nello stesso momento.
“Non posso rispondere a domande di questo genere.”
“Ti capisco, ma non mi aiuti così.”
“Non è mia intenzione quella di aiutarti.”
“Allora ti dico le cose come stanno. Come ben sai ho il cuore impegnato, ma la mente no. Tu sei la mente, lui il cuore, la pelle. Mi spieghi cosa vuol dire? Mi spieghi perché penso sempre a te, senza alcuna ragione a parer mio.”
Avrebbe dovuto rispondere? Forse si, ma cosa avrebbe dovuto rispondere? Non so, in tutta sincerità, cosa avrei fatto io al suo posto.
“C’è una ragazza che in questo momento occupa le mie giornate, la mia mente, il mio cuore e la mia pelle. C’è questa ragazza che non sa di essere fondamentale. Questa ragazza che di più belle non ne ho mai viste. Questa ragazza che è la perfezione che ho sempre cercato, questa ragazza che non conosci abbastanza.”
Sospiro. Sono sollevata, sapere che non sono io potrebbe benissimo distogliere la mia attenzione da lui, una volta per tutte.
“Mi rendi felice. Sono felice per te, credo che tu abbia bisogno di un qualcuno disposto ad ascoltarti e capirti. Hai un immenso bisogno di sederti ad ascoltare qualcuno. Ti voglio bene ricordalo e per qualsiasi cosa, lo sai, sono qui vicino a te. Sono pronta a seguirti ovunque, sei una persona che vale la pena seguire.”
Chi dice di conoscermi mi definisce una pietra, fredda, insensibile. Chi mi conosce davvero sa quanto possa essere dolce e malleabile. 
“Vieni qui.”
Mi avvicina a lui e mi abbraccia, mi stringe bene bene. Io sento il suo cuore battere, il mio sorridere. Sento i nostri respiri aprire le danze a tutti gli altri che seguiranno nella nostra vita, uno per l’altra.
“Scusa, dovevo capire qual’era la situazione, avevo bisogno di chiarezza. Non è un periodo facile questo e le emozioni si prendono gioco di me.”
“Forse dovresti conoscerti bene, meglio. Forse non ti conosci abbastanza, forse dovresti avere più fiducia in te e credere nelle tue sensazioni e non andare a chiedere in giro. Nessuno ti conosce più di te stessa, così dovrebbe essere. Impara a capirti maggiormente.”
‘Questa ragazza che non conosci abbastanza’. Forse quella ragazza ero ancora io. Forse ha ragione e devo fidarmi di me stessa. La risposta non ce l’ho ancora ma credo che Andrea mi voglia bene, molto bene. Andrea mi vuole al suo fianco, Andrea rimarrà nei miei pensieri a lungo.
Vi è mai capitato di avere due vie davanti a voi, un bivio insomma, e non sapere quale via prendere? Quando il vostro cuore è persorso da due autostrade. Quando una ti parla di felicità, normalità e sicurezza e l’altra di mistero e ricerca? Quando tra il bene e il male non sai chi scegliere e non vuoi scegliere. Non so perché ma scegliere in questi casi sembra impossibile, sembra essere forse una delle cose più difficili sulla faccia della terra.
Matteo mi viene a trovare a casa nel pomeriggio. Mi porta una torta ai frutti di bosco deliziosa e la lascia in cucina dove mia mamma cucinava. Gia, perché ne frattempo ho deciso di dire a mia madre di Matteo così per essere più tranquilla e rilassata in sua presenza. 
“Che sorpresa, non badare a come sono vestita.” Indosso un pigiama di qualche taglia più grande della mia e due calzettoni a striscie colorate.
“Non è retorica, sei uno schianto anche così.”
“Si, faccio finta di crederci.”
“Tieni ho portato anche qualcosa per te.” Mi allunga un cd di cover, della sua band ed un lettore cd di quelli degli anni ’90 quelli con cui sono cresciuta in poche parole, con due cuffione grandi come il muso del mio cagnetto.
“Grazie mille, vedo che sai mantenere le promesse.”
“Si, ed infatti ho qui con me due biglietti per il prossimo concerto degli Arctic Monkeys a Bologna.”
Non posso crederci, c’era il sold out da un botto di tempo! Mi avrebbe mai mandata mia madre? Ecco questa è una di quelle domande che non vorresti che ci fosse la necessità di porti.
“No ma tu sei pazzo!” Gli salto al collo e forse con più ardore di un vampiro lo stringo forte a me.
“No, tranquilla sono a posto.” Sorride e mi bacia.

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Capitolo 8
*** Capitolo otto. “Cute without the ‘e’” ***


Passa la solita settimana. Domenica mattina, ultima partita di campionato. Siamo arrivate seconde non so per quale razza di motivo. Io e la mia squadra non siamo mai state in grado di vincere un campionato, non ci saremo mai aspettate di riuscirci, arrivare seconde è ovviamente una meta, un obbiettivo più che raggiunto.
Nello spogliatoglio le migliori risate, le più grandi sciocchezze. Alessandra mi dice che finalmente Lorenzo ha deciso di chiederle di uscire. Marina invece ha il cuore in frantumi perché Gianmarco, il suo ex, ha trovato un’altra. Marta, invece, dice di non avere di questi problemi, l’unico suo problema è se stessa. Il doversi accettare, il volersi ritenere al di sopra delle sue aspettative. 
Prendo il cellulare e vedo un messaggio di Emanuele.
‘Ho bisogno di un tuo consiglio, ti prego. Ah, poi passami gli appunti di storia per cortesia. J’
Ema è un ragazzo troppo timido, impacciato e particolare. Io lo adoro però. Lo conosco da circa dieci anni e per tutto questo tempo ci siamo sopportati a vicenda, abbiamo lottato contro il mondo e le incomprensioni. E per quanto riguarda le relazioni amorose, beh è peggio di me. Nell’ultimo periodo Ema è preso da una ragazzina del primo anno. Alta, quanto lui, bionda, riccia con gli occhi verdi. Sinceramente, bellissima. Credo si chiami Cristina, non vorrei sbagliarmi. Il consiglio che vuole riguarda il ‘come fare il primo passo’. Credo che chiedere consigli di questo genere a me sia un po’ come chiedere ad un cane come fare per inseguire un gatto, quando si sa quanta paura possano avere i cani dei gatti. Gli dico chiaramente quello che piacerebbe ad una ragazza qualsiasi.
“Non potresti diventarle amica?” Dico io Ema, come fai a pensare certe cose, eh? Ed io lo so che se non riesco a diventarle amica entro due tre giorni si arrabbierà con me. Rispondo di si, non so come fare, non lo so ancora almeno. Nuova missione, per almeno la prossima settimana. Riesco, chissà perché, a risolvere sempre i problemi altrui ma ho sempre un’assurda paura di risolvere i miei. 
Passo a casa di mia zia e faccio due copie della lezione di storia di ieri.
Fuori scuola, stesse facce di sempre. Suona la penultima campanella ed il paffuto bidello precede la professoressa di latino, più agghindata che mai, con in mano un pacco.
“Per Diana Migni.”
“Sono io.”
Mi alzo e vado a prendere il pacco. Non c’è nome, non c’è traccia di possa averlo portato. Dentro solo un’agendina ricca di poesie e pensieri, dei quali sono io la protagonista. Nulla di sconvolgente, tranquilli. 
La scrittura arcaica a tratti delicata e a tratti evidentemente adolescenziale, i disegni a piè pagina, simboli della pace e note musicali, visi e frasi famose. 
‘Ma che posso farci se ogni volta che mi guarda sento un assurdo mal di testa, una cosa inspiegabile? Ogni volta che la porto lontana dal mondo mi sento la persona più felice del mondo, i suoi occhi brillano. Forse dovrei dirle queste parole invece di continuare a fare finta di nulla, ma è lei che ha sempre qualcosa che mi spiazza e mi distrae. Pensare che forse lei queste cose gia le immagina, pensare che se la vedi ti innamoreresti di lei anche tu, credo sia impossibile il contrario. So anche che ha un sogno fin troppo simile al mio: vivere a Londra e perché no, la porterei ovunque purchè si accorga di me, che per lei sarei disposto a tutto. Quanto mi sento stupido, non ho mai provato cose del genere per qualcuno, non ho mai neanche pensato di poterle provare, credevo fossero cose stupide e da stupidi. Mi sbagliavo.’
Non nego che qualche lacrima è scesa mentre leggevo queste parole. E’ un pensiero datato a circa due settimane fa, giovedì. La data non aiuta, non mi aiuta a capire, anche se infondo qualche idea ovviamente è venuta. L’unico mistero era perché quel regalo, se la persona che lo ha portato sia la stessa che ha scritto quelle parole. Non potevo immaginare che dall’altra parte della città, Giulia e Andrea stessero litigando nel preciso istante in cui io cercavo di capire.
Giulia mi racconta, il giorno dopo, che quella era stata una sua idea. Aveva frugato nelle cose di Andrea, aveva trovato il diario e me lo aveva portato a scuola, per passare inosservata. Andrea lo ha scoperto, è stata proprio lei a dirglielo, non riesce ad avere segreti con lui. Giulia mi consiglia vivamente di andare a parlare con suo fratello che, è da capire, non ha alcuna intenzione di venire a cercarmi, di parlare con me.
“Te lo chiedo perfavore, ho sbagliato ma so che così almeno un po’ potrei riuscire a farmi perdonare.”
“Si, non ci penserei due volte, cinque minuti e sono da lui. Dimmi però una cosa, perché lo hai fatto?”
“E me lo chiedi pure? La mia testa lo ha fatto per lui, perché forse volevo aiutarlo ma devo dirtela tutta l’ho fatto anche per te. Io lo vedo sai, quanto sei felice quando sei con lui, io non credo che la tua sia solo stima nei suoi confronti, non ci voglio credere.”
“Ci vediamo dopo.”
Mi alzo dal tavolino del bar accanto scuola, prendo il motorino e vado al liceo linguistico della città vicino la mia, circa tre quarti d’ora di tragitto. Andrea è lì fuori che chiacchera con una sigaretta in mano, con Stefano ed altri suoi compagni. Appena si accorge di me, getta a terra il mozzicone e cerca di coprirlo con una delle sue amate converse nere. Ero arrabbiata anche io con Giulia, in fondo il suo gesto ha peggiorato le cose, basta.
Mi avvicino sempre più con tutto il peso dei miei libri ed il casco in mano, non appena capisce che la mia direzione è la sua posizione, si alza, chiede scusa agli amici e viene verso di me. Stefano fa qualche battutina, forse simpatica su di me, mi saluta con un occhiolino mentra aspira dalla sua di sigaretta. La passa a qualche amico, così la convinzione che quella fosse una semplice sigaretta se ne va. Mentre finisco di fantasticare su quel drum passato da Stefano a quel tizio con i rasta, Andrea arriva e mi prende lo zaino, sempre gentile, come sempre. Poi mi abbraccia, chissà cosa gli passa per la testa.
“Ciao, speravo fossi venuta. Anzi, ad essere sincero mi ero illuso, non credevo fossi arrivata fin qui davvero.”
“Come vedi sono qui.” Gli sorrido ed egli mi prende da una spalla e mi accompagna vicino all’entrata della scuola, mi fa sedere sugli scalini.
“Hai un altro casco?”
“No. Ho solo questo, mi dispiace. Ah, comunque non è un problema per me che tu fumi. Anzi, i ragazzi che lo fanno mi hanno sempre attratta molto. Lo so, è un ragionamento da bambina, ma è la semplice verità.”
“Ok. Sai non è che lo faccio sempre, ma quando mi offrono qualcosa, non riesco a dire di no. Perfavore però, non dirlo a Giulia.”
“Tranquillo, acqua in bocca. Dimmi un po’, a che ti serviva un secondo casco?”
“Mi sarei impossessato della tua Vespa e ti avrei riaccompagnata a casa.”
“L’idea mi piace molto.”
“Chiederò a Stefano se ne ha uno in più, non ti preoccupare.”
“Perfetto. Comunque lo sai, se sono qui è per quello che è successo oggi.”
“Lo so, e sicuramente avrai letto qualcosa. Tienile per te quelle cose, in fondo sei l’unica a cui interessano.”
“Le terrò per me e con me, non perché interessino solo a me ma perché raramente ho letto qualcosa di più bello, davvero.” Apro l’eastpack e caccio l’agenda e gliela do.
“Grazie, mi prometti una cosa?”
“Certo, dimmi tutto.”
“Non cambierà niente tra di noi, vero?”
“Assolutamente.”
Il secondo abbraccio della giornata. Più lungo, più bello. Ancora una volta sento il suo respiro tra i miei capelli, sento le sue braccia magroline stringermi forte, sento che il bene che mi vuole non l’ho ancora capito del tutto.
E mentre si allontana mi accarezza il viso. So c.osa vorresti, Andrea, lo so. Lo sai, sai qual è il mio punto di vista, questa situazione è fin troppo scomoda. 
“Aspetta – mi allontano un secondo – mi dispiace tanto, tantissimo perché so che tra noi qualcosa cambierà. Ti prego davvero di non provare la mia fedeltà, te lo prego.”
“Ti rispetterò come ho sempre fatto, d’altronde mi hanno sempre insegnato a farlo.”
Non c’è due senza tre, sono io che adesso lo abbraccio e mi accorgo questa volta di avere più forza di lui, di avere il suo stesso colore di capelli e mi accorgo di come i suoi squallidi amici stiano sbirciando, ridacchiando con ancora quella tremenda sigaretta fumante in mano.
“Credo di non averti mai detto quanto ti voglio bene.”
“I gesti molte volte parlano di più di tutte le parole. Se tu non ti dovessi conoscere abbastanza, credo che qualcosa potrei suggerirtela io. Ah, aspetta un secondo – fruga nelle tasche e dopo un accendino, un pacchetto di fazzoletti esce un foglio stropicciato e ingiallito – queste sono le date degli esami in conservatorio e degli esami di stato, vorrei che tu ci fossi.”
“Non temere, ci sarò. Sicuramente. Adesso scappiamo da questo posto che ci ha trattenuti fin troppo, portami via da qui.”
Cerca questo casco, lo rimedia, sale sulla mia vespa dopo di me e torniamo a casa.
“Ecco, sei arrivato. Mi raccomando non pensare troppo che ti fa solo male.”
“Credo sia fin troppo complicato, ma ci proverò. Grazie ancora.”
Torno a casa, un messaggio sulla segreteria mi dice che una mia amica, Marina è stata ingiustamente tormentata ed ha subito ‘violenza verbale’ da un ragazzo durante una semplice passeggiata, era sola e stava tornando a casa da scuola. Marina è sconvolta, non si regge in piedi ed è distrutta. Non mi sono mai chiesta cosa si possa provare in situazioni del genere, pur sentendo fin troppe notizie del genere in tv. Ma mi sono sempre chiesta perché, nel 2011 una ragazza o donna che sia non possa passeggiare tranquillamente di giorno o di notte?
 In città ci sarà un corteo a giorni ed io con il mio spirito rivoluzionaro parteciperemo, il prima linea contro questa società malata. Si, è una società malata la nostra, una società dove se vuoi realizzarti devi venderti, una società nella quale chi sbaglia è premiato e l’innocente paga. Il cittadino paga, forse non ve ne renderete conto ma noi tutti stiamo semplicemente pagando al posto di qualcun altro. Odio dover far discorsi come questi in pubblico solitamente, per il semplice motivo che se a parlare è una ragazza per giunta sedicenne nessuno si ferma ad ascoltare, trovano solo il tempo per criticarti. Ma sono stufa marcia di continuare a guardare gente che cerca di rovinarmi il futuro, quando so benissimo di poter combattere e di poter difenderlo. Qualcuno, qualche giorno fa mi ha detto che bisogna lottare per i propri diritti, prima che siano gli altri a scegliere per noi.
Questo qualcuno ha proprio ragione e non resterò a guardare un secondo di più. E’ capitato a Marina, ma sarebbe potuto accadere a chiunque, anche alla sottoscritta e non possiamo permettercelo.

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Capitolo 9
*** Capitolo nove. “Falling In Love” ***


Vado con la mia famiglia in un’agenzia di viaggi per prenotare la vacanza della prossima estate. 
La tesina di Andrea sarà totalmente basata sul ‘sogno’ ed io ne realizzerò uno. Andrò in Inghilterra, finalmente. 
Appena dopo esser tornata a casa prendo quel foglietto ingiallito con le date degli esami e vedo che il giorno dell’esame orale di Andrea coincide con il mesiversario mio e di Matteo. Non so perché ma ho intenzione di andare da Andrea. Matteo nelle ultime settimane è il più distaccato possibile, da la colpa alle prove, al basket, agli impegni, alla scuola. Da la colpa persino a me, che infondo potrei definirmi innocente. Sono trascorsi sette mesi, e se in una coppia la crisi scoppia al settimo anno di matrimonio per noi era ora al settimo mese. La colpa era tutta di Andrea, dei problemi che ha sempre creato nel mio cervello, nel mio cuore. Una volta nella mia vita erano d’accordo: mente e cuore. Pensavano tutti e due la stessa cosa. Io Matteo non vorrei lasciarlo, forse è solo paura la mia ma io credo di volergli ancora bene.
Non avrei detto mai più di no ad Andrea, qualunque fosse stata la sua richiesta.
Il pomeriggio vado da lui a studiare, cioè ad aiutarlo.
“Non credevo avresti accettato.”
“Perché non avrei dovuto?”
“Giulia mi ha detto dei problemi con Matteo, mi dispiace.”
“Dai, ammettilo che non ti dispiace minimamente, non è un problema.”
“Ma no, mi dispiace per te non per voi due.”
“Ecco, adesso va meglio, però sbrighiamoci. Iniziamo dalla filosofia.”
Tre ore di intenso studio mentre Giulia è fuori casa con Stefano.
Tre ore nelle quali dimentico di avere un “ragazzo” e mi abbandono totalmente alla sua preparazione, ai suoi esami. Lo lascio ricurvo sulla sua scrivania e mi getto sul suo letto con la faccia pressata sul cuscino, pregno del suo odore. Andrea sa. Andrea sa di qualcosa che non so spiegare. I ferormoni sono sempre stati dalla mia parte, ma con Andrea giocavano a prendersi gioco di me.
“Non ti addormentare, devo ripeterti inglese.”
Bisbiglio qualcosa di simile ad un si, totalmente abbandonata in un ‘sogno’ ad occhi aperti, uno dei tanti ai quali sono abituata.
In tutto questo tempo mi sono sempre domandata come mai non riuscissi ad innamorarmi di qualcuno, ho sempre pregato per riuscire a farlo e adesso che credo di esserci riuscita ho più problemi di prima. Però a volte mi fermo, chiudo gli occhi e immagino la mia vita senza Andrea e senza i suoi sguardi, le sue parole spigolose, la sua voce ed il suo carisma e mi ritrovo persa, con in ballo una vita da ragionare e alla quale dare un senso. Se faccio la stessa cosa con Matteo, oltre ad un po’ di malinconia non viene nulla. Forse mi sono addormentata con la testa su quel cuscino e le mani calde di Andrea sui miei capelli mi fanno tornare con i piedi a terra, mi fanno ricordare che l’inglese è più importante di quelle fandonie e che il 100 di Andrea poteva dipendere anche da me.
“Non volevo svegliarti.”
“Dovevi svegliarmi, forza diamoci una mossa.”
Mi alzo e vado alla sua scrivania e lui mi segue, mi siedo su uno sgabello ed apro il suo libro di letteratura inglese. Ha deciso di portare Joyce e amando l’Irlanda non potrei che gioirne.
Cerco di tenere salda la mia concentrazione tra uno schema ed un altro, cercando di non confondere i vari letterati studiati quest’anno con Joyce, per il semplice fatto che di quest’ultimo so ben poco. Prendo una biro ed un foglio, inizio a scarabocchiare stelle, cuori, i soliti disegni stupidi ed ovvi che una biro è solita tracciare. Prendo un foglio con delle domande e incomincio a fargliele.
Risponde a tutte, o quasi. Quello che credo mi manchi sia la pronuncia. Dovrei chiedere ad Andrea dove abbia aquisito una pronuncia così inglese.
“Perfetto, credo che per oggi possa bastare.”
“Vai così che sicuramente farai un figurone.”
“Lo spero, c’è in gioco un’estate intera di relax a Malibù.”
“Malibù?”
“Si, andremo nella casa dei nonni di Stefano, circa due mesi.”
“Un rampollo come amico?”
“Diciamo di si. Ma ha anche i suoi lati positivi.”
“Non mi sono sfuggiti, tranquillo.”
I soliti capelli davanti al viso. Io che provo con un soffio a mandarli via ed Andre che mi aiuta, mi passa la mano tra i capelli con un riflesso rossiccio, mi fissa e si alza frettolosamente.
“Ti va una pizza qui sotto?”
“Una cena proletaria? Certamente.”
Avrei cenato in una pizzeria grande come il mio bagno, ma che problema poteva esserci? Le cose più piccole sono la sostanza della felicità.
Rigorosamente una focaccia con prosciutto crudo e scaglie di formaggio, cola light.
Mi siedo con le spalle verso l’ingresso, ho sempre odiato che qualcuno possa guardarmi mentre mangio, anche la presenza di Andrea mi spinge a controllare i miei modi, ma è diverso con lui.
Sento la porta aprirsi ed il campanellino suonare, una ventata d’aria dritta contro la mia schiena ed un profumo familiare. Andrea sussulta, mi prende la mano e alza il mento in direzione della porta. Alza anche la mano e saluta in quella direzione.
Mi volto e il mondo si ferma, cammina a rallentatore e sembra essere caduto.
Matteo e una bionda, viso conosciuto.
Le parole vanno in vacanza in momenti come questo. Cosa avrei dovuto fare? Stare zitta, prendere e andare via o, come il mio solito, andare da lui e mangiarlo vivo? Scelgo la seconda opzione, perché tormentata com’ero, stare zitta sarebbe stata solo una pessima idea.
Mi alzo mentre Andrea va a pagare. 
“Che ci fai qui?”
“Posso spiegarti.” Solita risposta, di chi, infondo, non ha nulla da spiegare.
“No, a meno che non sia tua cugina non credo ci sia molto da spiegare.”
“Potrei fare la stessa domanda a te, comunque.”
“Lo sapevi che sarei venuta ad aiutarlo per l’esame, lo sapevi. Almeno io ieri te l’ho detto. Forse eri occupato a fare altro per poter starmi a sentire.”
“Scusa.”
“Ma quale scusa, quale scusa. Adesso puoi sederti, insieme a questa qui e goderti la tua cena. Scordati di rivolgermi ancora la parola. Buona serata!”
Esco e sbatto la porta.
Mi appoggio con la testa al muro del palazzo e come un tormentone estivo le mie lacrime vanno, vanno, vanno e vanno ancora. La mia era rabbia. La rabbia dovuta al mio essermi limitata con Andrea, l’averlo rifiutato solo per Matteo e per la mia estrema fedeltà. Che come sempre non viene mai apprezzata. Mai.
Andrea esce dopo di me, mi prende e mi abbraccia.
Non credevo che tutto potesse diventare così difficile, così impossibile.
“Sono una stupida, sono una stupida.”
“Perché dici questo? Non è colpa tua. Non piangere più, perfavore.”
“Dico questo perché è vero, la colpa è mia. In tutto questo tempo non ho pensato a lui quanto ho pensato a te, la colpa è mia perché tutto l’amore che mi hai sempre dato non sono stata in grado di restituirtelo e perché adesso sono ancora qui ad annoiarti con le mie mille parole invece di starti vicino come avrei sin da subito dovuto fare.”
Si china su di me, ancora poggiata al muro, e prende il mio viso tra le sue mani, lo porta a se e mi regala un bacio, quello tanto atteso, quello tanto sperato e tanto combattuto, dannatamente salato, bagnato, ricco di lacrime che stavano perdendo la loro natura, gioia, tristezza, rabbia.
 

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Capitolo 10
*** Capitolo dieci. “Enchanted” ***


Le mattine seguenti, tra la scuola ed il mondo sempre troppo veloce, per me erano praticamente invivibili. Tra una pagina di storia, inglese. Alla ricerca delle possibili tracce di italiano per l’esame di maturità. Imbottiti di felicità quasi fino a scoppiare. Giornata dell’arte, la mia foto esposta, il nostro dipinto apprezzato.
Ultima campanella, dall’ultimo banco. Il tuo nome risuona in quella dannata classe da troppo tempo. La professoressa, tutta agghindata, mi urla di leggere ‘Il nome della rosa’ quest’estate e di convincere tutti gli altri miei compagni di farlo. I ragazzi del quinto che gridano, finalmente sulla strada della libertà. Altri piangono, ma i legami se davvero solidi, durano. I novellini delle prime classi, sembrano spaesati, impauriti e qualche ragazza approfitta di quel caos per accendersi una sigaretta o magari sbirciare il tizio delle classi più in alto. Io me ne sto seduta su una panchina mentre tutto il resto della gente si getta palloncini stracolmi d’acqua, uova, buste di farina preparate a casa. Uomini focaccina si dirigono verso la fermata dell’auto, da dove dopo circa un’ora di attesa, scende Andrea. Anche lui bagnato, esaltato, terrorizzato dagli esami. Mi porta in spiaggia, una spiaggia lontana da scuola, piena di rocce. Mi prende in braccio, non so con quale forza, e mi getta pesantemente in acqua, completamente vestita.
Quando la sera, prima di addormentarmi prendo il mio ipod e sento un po’ di musica mi fermo a pensare, quasi come se fosse d’obbligo prima di dire addio ad un’altra devastante giornata. Non so, a volte mi capita di cedere, di prendere sonno prima che un pensiero di te sia saltato fuori altre volte invece, potrei fermare il tempo e lasciare che la musica ti trascini da una parte all’altra della mia mente, che ti prenda e ti faccia danzare, danzare fino allo sfinimento, fino a quando esausto tu non cadi. A quel punto ci sarei io, io a prenderti e a farti salire, tu a prendermi e a farmi trasalire. È un congegno abbastanza complicato, difficile da gestire, la mia testa. La nostra storia può sembrare il frutto di questo congegno, può sembrare la storia più inutile del mondo e vi dico che se doveste pensarla così, beh avete stranamente ragione. Quale storia, quale amore può essere così utile? Forse quelli delle ‘veline’ per le varie redazioni dei giornali di gossip, ma lì ho davvero tanti dubbi che si tratti d’amore vero e puro. 
Non prendetemi per pazza, il nostro non è amore, ma è una storia, la mia, la nostra di storia. Sono imbranata ed impreparata in questo campo, e lui con me. Non so come funzionano queste cose, però ad essere sincera adesso credo di sentirmi più ferita, delusa ma sicura, pronta a ripartire. E forse questa è la sensazione giusta, dopo una delusione. Com’è che dicevano? Dopo una salita c’è sempre una discesa e dopo una tempesta c’è sempre il sole, e quindi l’arcobaleno. Tutte queste cose così. 
Quel pomeriggio lo passiamo sdraiati su un manto dorato di sabbia bollente, con il sole che brucia lentamente i miei zigomi, sempre così sporgenti e invita le mie amate lentiggini a venire fuori, a farsi vedere, allontana le occhiaie e arrossisce gli occhi, così che il verde possa brillare ancora di più, di più ancora. 
Torniamo lentamente, stanchi a piedi a casa sua, dove Giulia mi stava aspettando. L’ho trascurata la poverina negli ultimi giorni, ma siamo rimasti in famiglia insomma. Rimango a cena da loro, il padre era fuori casa, due pizze margherita ci sarebbero bastate.
“Puoi andare in camera tua un momento?” Ordina Giulia al fratello, come sempre dopo vari botta e risposta è lei ad averla vinta.
Scende dal divano e viene giu, sul pavimento, accanto a me con un cuscino tra le braccia, lo sguardo sognante ed un pezzettino di pomodoro incastrato tra i denti.
“Tra tanti, proprio lui? Perché?” Si, era ironica.
“Lo hai sempre saputo, io e tuo fratello siamo due metà ricongiunte.”
“Questa dolcezza da parte tua, non me la sarei mai aspettata!” Ingoia l’ultimo pezzo di rossa e continua.
“Comunque, volevo invitarti ad una festa, Stefano la organizza a casa sua e credo che Andrea vada senza problemi e quindi ho preferito invitarti io, prima che fosse lui a farlo. Però ho bisogno di aiuto.”
“Aspetta, Giulia, aspetta. Dimmi che va tutto bene? Dimmi che hai ancora quel poco di sale in zucca che mi ricordo tu hai sempre avuto?”
“Tranquilla, va tutto alla grande ma ho bisogno di aiuto, un aiuto più semplice. Ho bisogno di un vestito nuovo e di un regalo per Stefano.”
“Niente di più semplice. Spero di essere libera domani pomeriggio.” Il nodo nello stomaco si scioglie.
“Grazie grazie, adesso credo di poterti lasciare in pace, fate i bravi che io sono in cameretta.”
Mi abbraccia forte e se ne va. A volte mi domando come sia possibile stare bene con se stessi e con gli altri, eppure basta poco per trasformare la tua vita in un qualcosa di perfetto e scorrevole. Basta l’amore di chi hai accanto. Un semplice gesto, una richiesta d’aiuto o che so, un abbraccio di quelli forti, di quelli che ti sussurrano ‘io non ti abbandono’ di quelli che, per quanto poco, riescono a farti stare tranquilla, tirare un sospiro di sollievo e sorridere, con tutti i denti curati e stracurati da quel maledetto apparecchio di ferro, tutti.
Entro in camera di Andrea, cuffie, un libro, piedi sulla scrivania, circolazione attiva insomma.
“Che leggi?”
“Hesse.”
“Non potresti staccare la spina, un secondo almeno?”
“Peccato che sia tutta roba d’esame, bella mia.”
“Oh, beh allora ti lascio fare. Quando vuoi chiamami, posso darti una mano e lo sai.”
“No, ma non voglio che tu te ne vada, fermati qui, un altro po’ almeno. Una mezzoretta.”
“Ma non di più, mamma fra poco sarà qui.”
“Non un minuto di più, mia bella.”
“Che fantasia, ‘bella mia’ prima, ‘mia bella’ ora.”
“Era per essere carino e romantico, ‘mia bella’ è di un dolce pazzesco.”
“Il cuor gentile di un giovincello innamorato lo spingerà mai ad accingersi con la sua bella in quel loco d’amore canuto ed insonne?”
“Diciamo che per esser stata buttata giù così su due piedi, è ammirevole.”
“Allora, questa benedetta risposta?” Io intanto ero stesa a pancia all’insù su sul ‘canuto ed insonne’ letto e guardavo quel soffitto azzurro, il poster di Che Guevara e gli angoli consumati dall’acqua della sua camera.
“Aggancierò la mia esistenza alla sua in men che non si dica mia bella.”
“Adesso si che si ragiona.”
Mi raggiunge e nella mia goffagine commetto il più tremendo degli errori, gli prometto un qualcosa che non sono ancora pronta e sicura di saper dare. Ci penso su un minuto, due e l’evidenza del mio errore è sin troppa.
“Scusa, non so cosa mi sia preso.”
“Ma tranquilla, lo sai che ti aspetterei anche in eterno, lo sai.”
Quelle parole mi davano quasi una vittoria in tasca, contro tutte quelle persone che mi etichettavano come quella che non avrebbe mai avuto un ragazzo, per la mia acidità, per il mio carattere così tranquillo e goffo. Lessi non ricordo dove che quando si trova l’altra metà, quella in grado di leggerci e capirci e quindi viverci, vale la pena aspettare ed è impossibile non accettare tutti i difetti di questa. Forse tutte quelle persone non si sono mai innamorate, forse non sapranno mai cosa vuol dire capire qualcuno, forse è l’amore che ci rende maturi. Io lo sto vivendo questo momento, per me stessa, per lasciare un qualcosa di me in lui e chissà lui partirà, studierà via a Roma ed io rimango qui con altri due anni d’attesa, lui conoscerà qualcosa di nuovo ed io no, io sopporterò l’abitudine ancora per 365 giorni e poi ancora per altri 365. Voglio però viverla questa estate che sembra essere scoppiata già, quando sappiamo bene che bisogna stringere i denti e superare quei benedetti esami per poi distenderci in un prato verde e puntare alle nuvole, scoprire mille forme e mille forse, mille se e mille ma, trovarci più immaturi di sempre ma più felici che mai.

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Capitolo 11
*** Capitolo undici. “It Wont Be Long” ***


Dopo gli ottimi risultati agli esami di conservatorio, Andrea punta al 100 pieno con tanto di bacio accademico per gli esami di maturità. La prova di italiano non lo spaventa, non spaventerebbe neanche me. Tra le più disparate traccie sceglie la fama, sceglie la citazione dell’uomo artista, fotografo, si, Warhol. Dopo le sei ore più stressanti nella vita di un ragazzo neo patentato, si torna a casa. La seconda prova potrebbe terrorizzarlo, ma per uno che l’inglese lo parla meglio dell’italiano e che lo spagnolo lo preferisce a qualsiasi altra cosa dovrebbe essere una passeggiata. In effetti riesce persino a svolgere il compito di Elisabetta, una delle sue migliori amiche. Sceglie il testo letterario in lingua Inglese. La terza prova, forse la più difficile tra le tre prove per il suo indirizzo risulta facile. Non c’erano dubbi sui 45 punti di Andrea, l’orale lo spaventa però. Beh, Andrea è uno di poche parole, uno che si spaventa della semplicità delle sue risposte che se potesse non risponderebbe più, neanche una parola. Restare un’ora fermo, sotto le grinfie di chi ha in mano il suo futuro lo spaventa, però mi sorprende il suo volermi dentro, il suo volere il mio supporto. Lo starò ad ascoltare con Giulia e la convinzione che di ragazzi come lui ce ne sono ancora pochi, la mia fortuna, una volta almeno, si è fatta sentire. “Posso congratularmi con te ragazzo?” E’ il presidente che si alza e gli stringe la mano. “Grazie mille a tutti voi.” Fa per andarsene ma qualcuno, credo fosse la professoressa di filosofia lo trattiene e gli fa un’ultima domanda. “Campili mi tolga una curiosità, con le sue capacità perché non mi ha portato un qualcosa di più astruso e complesso?” “Perché professoressa, ho capito una cosa in questi cinque anni: non sempre si viene premiati per quello che si fa, ma per come lo si fa. Importa come lo fai, se c’è passione o meno. Ed io ho scelto il sogno perché ne ho sempre avuti tanti di sogni, ed è da questa sedia che inizierò a realizzarli, uno dopo l’altro. Professoressa, mi scusi, sono tre anni che le dimostro quanto valgo, adesso ho voluto mostrarle la passione con cui un semplice studente può vivere la scuola, non siamo tutti così lontani dal mondo scolastico, non siamo tutti uguali. Le dico un’ultima cosa, ho scelto il sogno perché vorrei ricordare a tutti, un giorno, che non c’è niente di più bello del vivere un sogno e ci si allotana dalla vita di tutti i giorni solo volendolo. Ho la fortuna di essere accompagnato in questo viaggio. Non avrei potuto scegliere argomento migliore, professoressa.” “Lei mi lascia sempre senza parole Campili. Viva il suo sogno che le farà solo bene.” Il bacio accademico non ci fu. Si accontenta del mio, le parole di quella risposta, l’ultima mi avevano lasciata di stucco. Quando vuole sa che dire, lasciare tutti a bocca aperta, sa sorprendere ed io lo so molto bene. Stefano abbraccia Andrea e tra un ‘grande fratè’ e l’altro gli ricorda del viaggio. Tutto quel tempo senza lui, senza vederlo. Si dice che ciò che non uccide fortifica, lo proverò. Dovevamo prepararci per quella strana festa a casa di Stefano. Giulia viene da me e mi aiuta a scegliere un qualcosa di carino, un qualcosa che lasci suo fratello a bocca aperta. Prendo un vestito, con un top turchese ed una gonna a vita alta di jeans, il solito vintage che mi fa impazzire. Sono un po’ agitata, sarà l’ultima sera d’estate per me ed Andrea, per Stefano e Giulia, voglio solo bei ricordi. Tutta la sicurezza del mondo si concentra in me. Ho il cuore a mille e non vedo l’ora di rivederlo per ribadirgli ancora una volta, il bene che gli voglio. Mia mamma ci scorrazza fino casa di Stefano. Non era propensa a mandarmi a quella festa, l’ho diciamo “costretta”, “supplicata” ma è stato difficile, troppo. Mia madre non sa di Andrea e per adesso voglio che siano in pochi a saperlo, perché azzardare una parola di troppo potrebbe rovinare il nostro equilibrio. Scendo dalla ford nera, saluto mia madre e mi avvio verso l’ingresso della veranda. Andrea mi vede da lontano e si alza di scatto, quasi fulmineo mentre Giulia scappa da Stefano. È lui che si è superato, ha un sorriso che non mi ricordo di aver visto più bello o forse è semplicemente l’adrenalina a farmelo parere così. I suoi jeans chiari sotto una tshirt ed una camicietta si muovono verso di me, il tramonto un po’ caldo lo illumina e lascia ai suoi capelli l’ultimo quarto d’ora per brillare. Gli sorrido, un po’ di gesso, lui mi prende e mi bacia. Deve salutare circa 300 persone prima di partire ma sembra aver messo a fuoco solo me e per quelle successive 3 ore mi regala la sua vita. Voglio regalargli la mia, fargli capire che sarei disposta a tutto per lui, ma non sono mai stata brava nel dimostrare quelcosa a qualcuno, mai. Non credevo fosse così difficile lasciare andare qualcuno, forse perché non c’è mai stato nessuno da lasciare andare o forse perché non ho mai tenuto a qualcuno come tengo ora a lui. Non voglio essere la ‘sdolcinata’ della situazione, anche perché è una parte che mi va un po’ stretta, ma credo mi mancherà nello stesso modo che ad un bambino può mancare il suo cagnolino, il suo amico immaginario, il suo peluche preferito, insomma è una questione di sicurezza, morbidezza. È precisamente la voglia di volare e la sicurezza che come va, va, non potrai mai cadere. Solo questo, mi mancherà solo il suo essere tanto mio da confondersi con la vera me. I suoi capelli morbidi potranno sentire la mancanza delle mie mani tra di loro ma credo potranno aspettare. Quella che non sa come si fa ad aspettare sono io, il mio cuore, la mia fragilità. La mattina seguente vado a casa sua molto presto, dovevamo farle insieme quelle valigie e magari disfarle per poi rifarle ancora, per stare insieme sempre un minuto, un secondo, un qualcosa di più. Era impaziente di partire, di lasciare questo paese ma lo vedevo, la malinconia nei suoi occhi non mancava. Eravamo padroni del mondo, eravamo padroni del nulla. “Promettimi che vivrai la tua estate nel migliore dei modi, che ti divertirai e che un minimo mi penserai, ma non troppo altrimenti poi diventerebbe un pensiero pesante il mio e lo sai che odio esserlo.” Non sapeva che lo era gia, era gia un pensiero pesante. “Mi divertirò, stanne certo. Tu pensami e non mi interessa, se ti va fammi diventare pure un pensiero pesante. Ci vedremo qui, quando torni, sto gia facendo il conto alla rovescia, ma non voglio sembrare una pazza, quindi direi sarebbe meglio salutarci ora se non vuoi che ti insegua fino all’aereoporto. Odio salutare qualcuno che parte in aereoporto, lo detesto.” Lui sarebbe tornato ed io sarei partita senza vederlo, sapere che Londra era li per me, alleviava un po’ il dispiacere. “Vieni qui.” Mi abbraccia e ormai ha imparato a farlo, le sue braccia sono diventate più grandi ed accoglienti e le sue spalle meno spigolose, l’amore ti ammorbidisce. Forse sono cambiata anche io ma non riesco ad accorgemene. “Scherzavo prima, pensa a divertirti e non troppo a me. E divertiti si, ma…lo sai no?” Cerco anche di essere gelosa, ma cavolo, quando non impari ad esserlo sin da piccolina non sai proprio da che parte cominciare. Esce e porta con se due trolley, li carica in macchina e con la madre va via. Io rimango con Giulia che mi ricorda vagamente il fratello e che mi terrà compagnia perché insomma, anche Stefano è partito ed ora lei sta peggio di me. Il loro è un rapporto morboso, asfissiante. Usciamo e con la vespa rossa di Giulia andiamo in centro, due crepes e maxi coppa al cioccolato. Giusto per affogare i pensieri e per iniziare alla grande un’estate di pance piatte e pelli bronzee, che sfortunatamente non sono mai le mie. “È un po’ che non mi racconti più come vanno le cose con Andrea, se Matteo si è fatto o meno risentire.” “Di Matteo non ho voglia di parlare, sto cercando di cancellarlo, anche se a volte mi arriva una qualche sua chiamata, qualche suo messaggio ma cerco di ignorarli. Di Andrea potrei parlare per ore però magari potrebbe essere fastidioso sentirti dire certe cose, su tuo fratello, dalla tua migliore amica e quindi a volte mi chiudo e non ne parlo.” “Forse hai ragione, che Andrea avesse un cuore ha spaventato anche me. Non importa comunque, puoi parlarmene quando e quanto vuoi, anche adesso.” “Tuo fratello è cambiato tantissimo, dimmi che l’hai notato anche tu.” “Una metamorfosi, ma credo sia normale. Anche tu sei cambiata, ti vedo diversa e assolutamente più felice. Posso chiederti una cosa Dia?” “Qualunque cosa.” “Tu e Andrea avete insomma, trattato quell’argomento? Scusami la domanda ma devi vedere il suo atteggiamento quando in casa esce il discorso!” “Diciamo di si. Ma io Giulia cara non mi sento pronta, pur vedendo in lui la persona giusta ho una paura dannata e sono felice che lui sia come è, senza fretta e contratti da vantare in giro.” “È proprio questo. Ogni volta che intavoliamo con papà una conversazione del genere lui diventa rosso, e spaventa un po’ tutti con frasi come ‘Non c’è niente di più bello dell’aspettare.’, ‘L’attesa aumenta il desiderio.’ e ‘Non rompete voi due, cosa ne volete sapere.’.” “Ma è una cosa bellissima Giu!” “Certo, ma non si era mai espresso a riguardo e anche se continua ad essere sulla difensiva, lo vedo molto più aperto e ti devo fare i miei complimenti, sta diventando leggermente più normale, il che non guasta.” “Se normale coincide con me beh, mi dispiace per voi.” “Stai parlando con una che di normale non ha neanche la foto sulla carta d’identità!”

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Capitolo 12
*** Capitolo dodici. “No Reply” ***


 
Non nego a nessuno che nei giorni seguenti sono stata giu di morale, però credo che sia da persone mature ed intelligenti riuscire anche a sopravvivere a cose come questa, qualche moralista la definiribbe una cavolata e magari sarebbe il primo a starne male. Io credo che ogni cosa possa farci gioire o soffrire e non è assolutamente detto che se quel qualcosa è meno duro di una scomparsa, di una malattia non dovremmo soffrirne. È da moralisti ed io non sopporto i moralisti. Quelli che ti fanno la morale e che poi alla fine, sono i primi a fare quello che ti raccomandano di non fare. 
Odio l’estate, no cioè odio il caldo ed il dovermi mettere a nudo, con le mie imperfezioni, i chiletti di troppo e la mia pelle bianca. Non sopporto chi ti giudica solo per quello che sei fuori e non si accinge a guardarti dentro. Odio il caldo afoso ed i vestiti striminziti, odio le serate in giro per la mia città, nelle quali memorizzi i volti che vedrai poi tutte le sere fino alla fine. Non capisco, per finire, quelle persone che non fanno altro che spalmarsi addosso quintali di grasso per friggere al sole e rovinarsi la pelle, solo per sembrare quello che non sono. Ho la pelle chiara e la detesto, ma preferisco la mia pelle lattea ad una pelle scoscesa e piena di rughe.
Ho un brutto vizio, quello di guardare le persone, di fissarle ma non perché io veda in loro un qualcosa di strano ma semplicemente perché adoro pensare, attraverso il loro modo di vestire, parlare, a come sia la loro vita, cosa l’abbia segnati e cose del genere. Giulia dice che dovrei prendermi leggermente più sul serio e io continuo a dire che mi sta bene essere così come sono, perennemente impegnata con il ridere di me stessa. 
Emanuele e quella ragazza vanno alla grande, sono riuscita a trovarla su facebook, a spacciarmi per quello che non sono ed ad organizzare un appuntamento a sorpresa per i due. Ripeto, so tanto aiutare gli altri e quasi per niente me stessa.
Nei giorni a seguire cerco di tenermi impegnata, tra il mare, Giulia, lo shopping, lo spagnolo e così fugge via una settimana. 
Giovedì mattina, testa ancora sul cuscino e sveglia brontolona. Sono le dieci e mezza, odio dormire e perdere tempo. Mi sveglio di colpo ed in casa non c’è nessuno, solo Pixel che salta sul letto e mi da il buongiorno. Dopo alcuni minuti di smancerie con il cucciolo scendo e mi preparo una grossa colazione estiva, frutta, fette biscottate e cereali. Sono uno zombie in cerca di carne umana della quale saziarmi.
Vedo nel corridoio d’entrata, una busta da lettera azzurra e a meno che le bollette più care cambino colore, sarebbe dovuta essere una lettere scritta, una comunicazione.
È per me, da parte di Andrea, deve averla scritta appena arrivato a Malibù, ma si sa come siano lente le cose come questa. Non ho mai ricevuto una lettera, non una scritta per me, non di quelle romantiche stile anni ’30.
 
Per Diana,
 
Hi my dear! Si, voglio farmi il figo perché sono disteso su un lettino in vimini con una bevanda strana ma buonissima alla mia destra ed un’entusiasmante distesa azzurra che richiama la mia attenzione, tutto questo silenzio, i gabbiani e le urla stridule di bambini che giocano a fare i castelli di sabbia, mi fa pensare a te.
Non ho mai scritto una lettera per poi spedirla davvero a qualcuno, quindi non so cosa si debba scrivere sulla busta, se sia o meno come le cartoline ma almeno ci provo e spero ti arrivi, altrimenti…boh altrimenti boh.
Gli altri non hanno aspettato un secondo, hanno buttato le loro valigie per aria e sono scesi in spiaggia a fare surf, ma lo sai sono un po’ goffo, un po’ maldestro e non riuscirei neanche ad imparare a stare in equilibrio su quella tavola e poi preferisco starmene qui a pensare, con i Nirvana e Goethe e molto più con te.
Sono solo ventiquattro ore che non ci vediamo, sono abituato a questo, ma quello che mi spaventa è l’ampiezza dei giorni che mi mancano per tornare, però voglio divertirmi come un matto, magari iniziando da stasera, un falò in spiaggia e della buona musica.
Sai cosa ho visto nel tragitto aereoporto-casa dei nonni di Stefano? Una cosa che ti avrebbe fatto impazzire. Il museo dei sixties. Pensa a tutto quello che avremmo potuto vedere, magari insieme se fossimo nati in quel periodo li, magari avremmo potuto fare anche io e te la rivoluzione, io il tuo Lennon e tu la mia Ono.
Preparati perché quando torno ti farò scontare tutto questo tempo lontana da me, preparati perché questo cielo estivo mi porta tantissimi pensieri e perché ho una voglia matta di te, dei tuoi mille sorrisi.
Ti devo lasciare perché quei quattro stanno tornando dalla spiaggia e non voglio che mi facciano troppe domande, cercherò di fingere di stare dormendo, almeno proverò. Aspetto una tua risposta.
Avrei preferito dirtelo a quattr’occhi, dirti per la prima volta che ti amo, che sei davvero vitale per me.
To lo scrivo, così resta.
Questa è sempre di Goethe, è tua adesso.
 
Da dove siamo nati?
Dall'amore.
Come saremmo perduti?
Senza amore.
Cosa ci aiuta a superarci?
L'amore.
Si può trovare anche l'amore?
Con amore.
Cosa abbrevia il pianto?
L'amore.
Cosa deve unirci sempre?
L'amore.
 
Con amore,
Andrea.
 
Non trovo le parole ma forse la mia innata passione per la scrittura riuscirà a trovare per me le parole.
 
Per Andrea.
 
È passata una settimana precisa da quando mi hai scritto quella lettera, e quindi chissà quante cose in più avrai fatto, se hai o meno conosciuto qualche ragazza di quelle che ti fanno venire i capogiri, qualcuno che mi somiglia un po’ o magari qualcuna della quale avremmo riso a crepapelle.
Io adesso sono qui seduta in cucina e alla mia destra non ho nessuna bevanda ma una bella pesca noce che aspetta di essere addentata, ho la musica a tutto volume, mi aiuta a pensare e a trovare belle parole, voglio che questa mia di lettera riesca ad eguagliare la tua. 
Sai che penso? Che questa mattina mia madre abbia visto la lettera e che mi chiederà, appena tornerà a casa, perché e chi mi abbia inviato quella lettera e quindi penso di doverle parlare di noi. Anche se credo sia bello il nostro segreto, un segreto di quelli buoni che non fanno male a nessuno, voglio gridare al mondo che io il mio Romeo l’ho trovato e che non mi interessa se non sono bella come Giulietta, elegante come Giulietta perché tutto quello che Giulietta sentiva era un amore incontrollabile ed è quello che provo anche io. 
Sto controllando tua sorella, mangia poco e non la capisco. Io invece mangio e anche troppo, ma non ti preoccupare cercherò di non farmi trovare ingrassata. Vado a correre quasi tutte le mattine e mi sono iscritta ad un corso di spagnolo con Antonella. Sto organizzando una festa per i diciassette di tua sorella, magari riuscirò a farla distrarre. Odio quel tuo amico, ormai per lei esiste solo lui e la sua mancanza la sta lacerando. Io invece mi consolo, come ho detto, con una fetta di pane e nutella e con il tuo pensiero, è diventato pesante, mi dispiace. 
Mi ti immagino già, quando tutti sono in spiaggia a fare i deficienti con qualche californiana bella, bionda, abbronzata, barbie insomma, disteso per cercare di scurirti il viso e cancellarti le occhiaie, ma tranquillo per me rimani lo stesso panda di sempre. Adesso vado e ti lascio al tuo divertimento, ti aspetto qui.
Penso ti arriverà quando ormai la tua vacanza sarà agli sgoccioli, ma leggila e pensa a quando l’ho scritta immaginami con una biro in mano ed una pesca noce sulla destra.
Io che ti amo non te lo dico qui, te lo dico con una canzone, la numero 125 del tuo ipod, quando mi vorrai un po’ più vicina ascoltala.
 
‘baby i'm yours - arctic monkeys’
 
Baby, I'm yours 
And I'll be yours until two and two is three,
Yours until the mountains crumble to the sea
In other words, until eternity.
 
Con tanto tanto tanto amore,
Diana.
 
 
Non sono una tipa romantica ed effettivamente NON VOGLIO ESSERLO, però succede che a volte cambi il modo di vedere le cose e cambi il metro di giudizio e ti vedi diversa, persino più romantica e non c’avresti mai creduto se qualcuno te l’avesse detto. Io vedo il romanticismo dove non c’è, e lo formo a modo mio. 
Cucino qualcosa e mi butto sul letto, voglio riposare e poi voglio uscire, distrarmi e lasciarmi magari coccolare da un bel venticello caldo giu nel parco.

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