I love you just the way you are.

di Human_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I'd make you coffee on a rainy morning. ***
Capitolo 2: *** Apple pies and tablecloths. ***
Capitolo 3: *** You are colorful. ***
Capitolo 4: *** Sing for me. ***
Capitolo 5: *** You're so beautiful to me. ***



Capitolo 1
*** I'd make you coffee on a rainy morning. ***


Nota pre-capitolo: Il nome della protagonista va letto all'inglese, Daiana.



I'd make you coffee on a rainy morning.


Diana aveva spesso quella strana sensazione, come d'essere osservata, ma in un modo diverso, e si sentiva nuda, dietro quello sguardo che percepiva solo, e la cosa, stranamente, a lei che si nascondeva nelle felpe di suo padre respirandone l'odore per nascondersi dagli sguardi della gente, faceva piacere. Si sentiva quasi lusingata, da quegli occhi spesso invisibili che la studiavano, occasionalmente, ed uno strano formicolio la prendeva lo stomaco le mani ed il naso (formicolava il naso, a Diana) ed in quei momenti lei era felice, e quindi splendida.
«So che mi stai guardando» mormorò, portandosi subito una mano sul collo nudo avendo sentito il leggero bruciore e sorridendo appena, ma senza aprire gli occhi.
Una risata lieve, appena accennata, e due dita che leggere le scostarono un ciuffo dalla fronte e raggiunsero il collo, accarezzandolo dolcemente. «Ti amo perché dormi con la bocca aperta e ogni mattina ti svegli con il mal di gola».
Mugugnò qualcosa, lei, e si strinse al corpo di Johnny, contatto di pelle nuda e calda, e di anime nude e pure, ed il braccio di Diana che scivolava lento sul fianco destro di lui per raggiungere la schiena ed accarezzarla, creandogli brividi che raggiunsero presto anche lei, portandola ad aprire gli occhi, e nel verde di quelli grandi di Johnny trovò un prato che profumava di qualcosa mai visto – terribile mancanza.
Fecero incontrare le loro labbra, ed altro non fu che l'ennesima fusione di due anime non affini ma complementari, e quell'incontro – senza fretta – di lingue ancora assonnate fu l'alba dei loro giorni, che finalmente iniziavano bene, con loro due nella stessa città, nella stessa casa, nello stesso letto, e magari il mondo fuori li avrebbe massacrati, ma loro sapevano d'essere insieme, sempre, e allora lo disse pure Walt Whitman che il resto del mondo non contava.
Johnny si staccò, lentamente, e le portò una mano sulla guancia ora accaldata, sorridendole, pieno di qualcosa che sfugge ai più, e restò un attimo così, mentre entrambi ascoltavano il suono della pioggia che colpiva piano le finestre, quasi a non volerli disturbare, perché loro due altro non erano che l'ennesima meraviglia di Londra, ed il cielo lo sapeva.
«Ti preparo il caffè» le disse, ed un bacio sulla fronte anticipò il suo viaggio verso la cucina.
E Diana sorrise, felice, davvero felice, e un piccolo sole spuntò su Londra quando l'odore della bevanda nera invase la casa, anche se non smise di piovere, perché Joh a lei l'aveva detto quando ancora tutto ciò che avevano era un amore senza particolare contesto: «Ti farei il caffè in una mattina di pioggia», e quel profumo di caffè misto a promesse mantenute entrò nelle narici di entrambi, cucendo definitivamente la ferita del mondo di cui parlava Baricco.
Johnny entrò in camera con le tazze in mano, ed un pacco di biscotti incastrato tra il braccio ed il busto, con un sorriso che Diana sperò non se ne andasse mai.
«È finito il succo» disse, dispiaciuto ma senza il minimo di colpevolezza, perché loro nelle colpe e nel peccato non ci credevano, avevano fede solo nei fatti, ed il suo dispiacere era per Diana che si faceva passare il malessere mattutino con l'acidognolo del succo di frutta.
Lei gli sorrise e sollevò le spalle, tirandosi su a sedere, afferrando la sua tazza bianca colma di caffè nero, senza latte e senza zucchero, lasciando a Johnny il suo the alla vaniglia, ché in loro due le convenzioni non esistevano, e a lui piaceva il dolce e a lei l'amaro, lui era quello paziente e lei quella dallo scatto facile, e entrambi s'amavano in pari misura, in una continua gara a chi venerava più l'altro, e questo era forse lo straordinario.
«Joh, ma te l'ho mai detto che hai degli occhi bellissimi?» gli chiese, con le labbra che già sapevano di caffè, e lui sapeva che se l'avesse baciata in quell'esatto istante avrebbe anche imparato ad amare la caffeina più d'ogni altra cosa al mondo, e invece le sorrise, portandosi il suo the alla bocca e ne prese un sorso, permeando la sua lingua di dolcezza, e Diana pensò che non c'era cosa più bella al mondo del suo Joh – suo, meravigliosa parola – che beveva the alla vaniglia in una mattina piovosa sotto al cielo di Forest Hill.
Johnny le sorrise, in quel modo che le faceva sempre perdere un battito, che chissà dove andava, e si portò una mano tra i riccioli scuri. «È che ti guardo tanto».




Ooookay, la spiegazione della raccolta è tutta nell'introduzione, quindi direi che è il caso di parlare un po' della prima shot, mh?
L'ho scritta a scuola durante l'ora di matematica, con la mia compagna di banco che ogni secondo m'interrompeva chiedendomi “Ma lì non ci va il valore assoluto?” o “Aspetta, ma qui è più o meno radice di tre?”.
Ha messo a dura prova il mio karma, ché le volevo rispondere “MACAZZONESOIOCHIEDIALLAPROF, faccia di merda”, ma mi son trattenuta. Come son brava.
Quindi niente, se vi fa schifo picchiate lei –poverina, neanche fosse realmente colpa sua.
Nient'altro di rilevante da dire, è una cosa molto sdolcinata ed inutile, però mi piaceva un sacco l'idea.
C'è un'altra raccolta, a cui sto lavorando da un po' e che credo di postare a breve, anche perché ho già due shot e mezzo pronte, ma insomma niente, non ve ne parlo, tanto sarà a presto qui su EFP.
Ora mi eclisso, in attesa di un po' di pareri, anche di un paio di pomodori, perché no?, mentre mi dedico ai miei compiti di matematica. Che giuoia.

Human_ (che ha un taglio sul labbro che le brucia come il culo d'un babbuino. –ai babbuini brucia il culo, vero?–).


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Capitolo 2
*** Apple pies and tablecloths. ***


Apple pies and tablecloths.




«Che hai combinato lì?».
Il tono sorpreso di Charles le strappò un sorriso.
Elizabeth sorrise, voltandosi lentamente verso la porta d'ingresso, come se non avesse smania di rivederlo, dopo una lunga giornata come quella. «Ho comprato un nuovo quadro» rispose, la voce dolce, come sempre era stata, capace di restituire a Charles il sorriso anche quando avevano scoperto d'aver perso tutti i loro soldi in banca – ma cosa gliene fregava a Charles, dei soldi, se Elizabeth gli sorrideva così?
«Beh, questo lo vedo» borbottò, sfilandosi il cappotto ed appendendolo accanto alla porta in legno con il suo cappello nero, il tutto con lo sguardo fisso sulla moglie che si allontanava dal suo nuovo quadro impressionista sul muro del corridoio.
Lei gli si avvicinò lentamente, trascinando i piedi, osservandolo con i suoi occhietti chiari e gli angoli della bocca all'insù, e gli accarezzò una guancia. «Com'è andata al lavoro, tesoro?».
Fece un gesto con la mano, come a scacciare una mosca. Il solito gesto di sempre, di ogni sera, quando avrebbe tanto voluto dirle Amore, sono stato fin'ora in ufficio, parliamo di noi, adesso, ché non ti vedo da ventiquattro ore e non so se nel frattempo il tuo fiore preferito è ancora l'orchidea, e invece muoveva solo un po' la mano destra, a cacciar via la domanda, prima ancora che arrivasse alle sue orecchie.
Elizabeth ridacchiò. Sapeva che non avrebbe risposto, non l'aveva mai fatto, e il bacio impetuoso dei primi tempi, che terminava sempre in sudore e lenzuola, era stato sostituito da quel semplice gesto che profumava d'abitudine. «Ho preparato una torta di mele, oggi. Ne vuoi un po'?».
Charles annuì e la seguì in salotto, dove il profumo dolce svegliò le sue papille gustative. «La tua torta di mele è sempre la più buona».
«Grazie».
Gliene servì una porzione col sorriso – sorrideva sempre, Elizabeth – ed il primo boccone fu una goccia di pioggia in un giorno di primavera in cui si tenevano la mano a vicenda, perché loro amavano la pioggia, entrambi, e correrci sotto, insieme, anche se di fatto non avrebbero più potuto farlo, solo assaggiando una fetta di torta, fu meraviglia.
«Charles?».
«Mh?».
Avrebbe voluto dirle Dimmi tutto, Beth., ma aveva la bocca piena, ed Elizabeth teneva molto all'educazione, tanto che ogni volta che lui dimenticava qualche assurda regola del Bon Ton lei gli lanciava contro la prima cosa che gli capitava tra le mani, ma con rigida fermezza e precisione, composta come solo Elizabeth poteva essere.
Caso volle che l'oggetto più vicino alla moglie quel giorno fosse un vaso di porcellana cinese che, oltre a costare un patrimonio, gli avrebbe fatto parecchio male, perciò Charles si limitò ad un chiarissimo Mh?, con le labbra rigorosamente serrate.
«Cosa ti spinge, dopo tutti questi anni, a tornare a casa da me?», gli chiese, senza far trasparire alcuna curiosità, le parole permeate di tenerezza e amore – amore.
Charles scaraventò la torta giù per l'esofago. «Non si può spiegare» replicò, semplicemente, tono burbero e dolce.
Lei corrugò la fronte, spazientita. «Perché non si può, Charles? Ho quasi ottant'anni e ancora lo devo capire. Tu ne hai ottantadue, dimostra che essere più grandi serve ad imparare qualcosa in più».
Appoggiò il piatto sul tavolo con un sospiro, premurandosi di metterlo lontano dal bordo, così che non cadesse – chi la sentiva, poi, Elizabeth? – ed intrecciò le dita delle mani, sorridendo appena sotto i baffi bianchi. «Non si può spiegare il perché, Beth. È una cosa troppo grande persino per le parole. Io per esempio potrei dirti che ti amo perché la mattina ti svegli sempre cinque minuti prima, da quasi quarant'anni, solo per prepararmi il the con un po' di limone prima che io vada al lavoro, ma non sarebbe abbastanza».
Elizabeth aprì leggermente di più i suoi grandi occhi nocciola, facendo vibrare le ciglia candide, ed aprendosi in un sorriso circondato da piccole rughe. Era bellissima. «Trovo sia più che sufficiente» rispose semplicemente, gli si avvicinò, accarezzandogli il braccio destro e depositando un bacio sulla sua fronte stempiata, e prese il piatto, portandolo in cucina.
Sì sentì poco dopo la sua voce un po' più alta del solito dall'altra parte della porta in noce. «La cena è quasi pronta, apparecchi tu?».
Charles rise, alzandosi e dando un'occhiata alla casa che nonostante gli anni ancora resisteva, e pensò che Joan Crawford forse aveva un po' sbagliato, ché l'amore la casa mica te la brucia, al massimo te la fonde come si fa col ferro e poi te la rimodella, ma non è una cosa brutta. Sorrise e tese il collo verso la cucina «Che tovaglia devo mettere?».







Ommiozzeus, è tipo una vita che non pubblico 'na cippa.
Il mio profilo EFP ha le ragnatele, ormai.
*passa la famosa balla di fieno*
Niente, non ho tanto da dire. Qui il “Ti amo perché...” è un po' fasullo, me ne rendo conto, però ci son tanti modi per dire le cose, no?
Bòn, fatemi sapere qualcosa, mi va bene anche un invito a darmi all'ippica, io nel frattempo mi eclisso e cercherò di far passare meno tempo – come se gliene fregasse qualcosa a qualcuno, tra l'altro.

Ah, una cosetta: a giorni pubblicherò la seconda raccolta di cui parlavo nella prima shot -sì, quella che doveva essere “a giorni qui su EFP” e che invece sta ancora marcendo in 'sto netbook mezzo scassato che prima o poi mi manderà a farla da Paolo-, questa volta sul serio. Non mi faccio più prendere dal “soon” di Jared Leto, ggggiùro.
Un abbraccio, splendori.

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Capitolo 3
*** You are colorful. ***


You are colorful.



Sara stava mangiando il suo cornetto seduta sull'altalena mentre il vento le muoveva i capelli come alla protagonista del film che guardava sempre la sua mamma – Sara però era più bella.
Luca osservò attentamente il suo disegno in un'ultima attenta analisi, cercando d'individuare linee troppo storte o cerchi non chiusi, poi, non trovandone, sorrise soddisfatto, iniziando a camminare sull'erba umida del cortile dell'asilo.
«Ciao Sara».
Lei alzò gli occhi e gli sorrise con la bocca chiusa, deglutendo in fretta. «Ciao testa di banana!».
Luca arricciò un po' il naso. Non gli piaceva quando lo prendevano in giro per la sua cresta, ma non disse niente: Sara poteva chiamarlo come voleva, anche perché da quando aveva perso il dentino davanti sembrava un po' Spongebob ed era bellissima. Tese il braccio rigido nella sua direzione, sicuro di sé. «Questo è per te».
La bambina s'illuminò, afferrando il foglio con una foga tale che per poco non lo strappò. Esaminò il disegno con la fronte corrugata e, quando si rivolse al bambino, lo fece con espressione offesa. «Ma è bianco!» protestò.
Lui sorrise soddisfatto: l'aveva notato! «Lo devi colorare tu» le spiegò, con tono ovvio.
Sara non capì: che razza di regalo era, se neanche s'era preso la briga di colorarlo? Magari era il giorno del disegno non colorato e lei non lo sapeva...
Glielo chiese, e lui si mise a ridere. «Ma no! È una cosa da innamorati!».

Lei un po' si spazientì. «Non parlarmi come a un'asina!», lo rimproverò, facendogli sparire quel ghigno. «E poi noi non siamo fidanzati, perché non mi hai fatto la diri-, dirichiu- dichia-... non mi hai detto né che mi ami né il perché in ginocchio!» disse in fretta. Com'è la parola? Dichiarificazione?
Luca si colpì la fronte con il palmo della mano destra. Ecco cosa s'era dimenticato!
S'inginocchiò come i principi nei cartoni animati e le prese una mano tra le sue. «Sara, io ti amo perché colori bene anche se hai quattro anni. Ora siamo fidanzati».
Sara sorrise felice e con un saltello gli baciò una guancia. «Adesso devi iniziare a regalarmi le margherite».




È una vita che questa shot è pronta, ma onestamente non avevo voglia di mettermi a sistemare html e roba varia. Sì, lo so, faccio schifo.
Tra l'altro, v'ho fatto aspettare una vita per una roba cortissima, quindi se volete offendermi in aramaico fate pure, però onestamente tengo molto a questa storiella, perché -giuro- è vera. Mia cugina -che no, non si chiama Sara- me l'ha raccontata qualche settimana fa, ed ho pensato che dovevo assolutamente scriverla perché, dai, non è ttènera? :3
Ah, ho due cosette da dire:
a) È una vita che devo comunicarvelo, ma mi dimenticavo. Nel mio profilo ho lasciato qualche link (profilo facebook, twitter, il mio blog e roba varia). Non v'interessa, lo so, ma non si sa mai.
b) La famosa raccolta che doveva essere su EFP ma non c'è ancora è andata a ramengo, perché il mio computer ha pensato bene di eliminare due terzi dei capitoli già pronti. Anche qui, voi siete lì che dite “Che me ne fotte a me?” e io ve lo dico lo stesso, alla faccia vostra, tiè.
Okay, bòn, ho finito.
Fatemi sapere qualcosa, se vi va, sennò non importa, però, ecco, se sprecaste qualche minuto anche per una frasetta breve breve giusto per farmi sapere se vi garba o no sarei contenta.

Un abbraccio,
Human_                   (che sta per dar fuoco al suo adorabile liceo scientifico).

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Capitolo 4
*** Sing for me. ***


Sing for me.

Dean chiuse gli occhi per un istante, un solo minuscolo istante che bastò a regolarizzare il respiro e far sparire quel leggero tremolio della sua voce roca, voce che ogni volta faceva vibrare gli occhi di Gin, che si chiamava come un superalcolico, ed esattamente come un superalcolico faceva girare la testa a chiunque si soffermasse a guardarla, con quei capelli biondi e gli occhi color ghiaccio.
«Gin, non piangere».
Non piangere Gin, non piangere, non piangere, so che non piangerai ma io te lo dico lo stesso, perché non intendo “non piangere adesso”, non voglio che tu pianga neanche dopo, quando io sarò già (fin troppo) lontano e tu sarai da sola nel buio della tua stanza e sentirai l'odore del sesso di cui l'abbiamo impregnata; lascia che pianga solo io, nel vagone di questo treno che puzza di sudore e tabacco.
«Dean, non te ne andare» sussurrò, la voce flebile e le mani intrecciate appena sotto il petto, guardandolo negli occhi color cioccolata. «Dimmi che che non mi lasci».
Dimmi che non sono sola, Dean, dimmi che non te ne andrai per sempre anche tu, come tutti gli altri, come chiunque, dimmi che non è vero quel che penso, dimmi che non sono io a non andare bene, dimmi che su quel treno non ci sali più, dimmi che ad Amburgo ci andrai solo quando potrò venirci anch'io.
Chiudere gli occhi non bastò, questa volta, ed in effetti non bastò mai più, per il resto della loro vita, perché entrambi sapevano – sapere, questo è terribile, se sai non hai scampo, non c'è santo che tenga, non puoi neanche sperare il contrario, perché tu sai, e allora non c'è immaginazione, non c'è ottimismo, non c'è religione, non c'è speranza – che Dean e Gin, da quel momento, sarebbero solo stati due nomi in rima e non più due amanti, di quelli che tu ti fermi a guardarli ipnotizzato, e tutto quello che pensi è “Quanto cazzo sono belli?”.
«Amburgo non è poi così lontana» tentò Dean, incerto – si può dire con convinzione qualcosa di cui non si è, di fatto, convinti? – stringendo forte i fianchi morbidi di Gin, su cui sarebbero a breve nati i segni delle sue dita – fisico corrispondente di segni invisibili che invece non se ne sarebbero andati mai.
Sospirò, Gin. «Sono milleduecentosettantaquattro chilometri, ne abbiamo già parlato. Neanche posso permettermi il treno, e poi...».
Discorso che non finì mai, il suo, neanche nella sua mente, perché proprio non voleva pensarci, mentre Dean ci pensò fin troppo, tutto in quell'esatto momento in cui la voce della ragazza – sua ancora per qualche labile secondo – tremò appena.
È la stanchezza, Dean, non sono triste, davvero, non guardarmi così, non angosciarti per me, non tentare di captare ogni mio segnale di debolezza, pensa a baciarmi un'ultima volta, e fa che duri il tempo necessario perché tu perda il treno e decida di non aspettare l'altro.
«Senti, so che a te i discorsi troppo dolci fanno venire l'orticaria, ma io probabilmente prenderò il tifo su questo treno, devo sapere che tu sarai qui a grattarti le braccia per par condicio, quindi ascoltami, okay?» chiese, fissandola serio.
Lei mosse appena la testa, su e giù, e sollevò l'angolo destro della bocca, appena, con gli occhi lucidi e la mente annebbiata. «Credo di poter fare uno sforzo, per questa volta».
«Per me sei dappertutto, Gin, e sei l'unica al mondo capace di farmi sentire che non sono solo, e so che partendo adesso sarò solo per sempre, anche con centinaia di gente intorno, anche se un giorno dovessi tornare qui a Liverpool dalla mia famiglia, perché non sarebbe più la stessa cosa, e come già ti ho detto non posso esserti fedele per sempre...» si fermò, il tempo di una risata isterica ed appena udibile, il tempo di avvicinarsi di più ai suoi occhi, facendo sfiorare i loro nasi, incollando i loro corpi dal ventre in giù, accarezzando delicatamente il suo corpo fino ad arrivare ad intrecciare le dita a quelle di Gin. «Ma te lo giuro, amore, te lo giuro, non accarezzerò nessuna come ho accarezzato te, a questo farò attenzione, davvero, e a nessuna scriverò poesie sulla pelle, te lo prometto. Sarai per me infinita ed onnipresente, anche con questi fottuti milleduecento chilometri tra i coglioni, anche se non ti vedrò ma-».
«Zitto!» lo interruppe, posandogli i polpastrelli sulle labbra carnose. «Non lo dire, non lo dire mai, mai in mia presenza, non lo dire, non ti azzardare, non ci voglio pensare. Per me tu domattina sarai qui, e se non ci sarai penserò di star sognando, e che prima o poi mi sveglierò. Vivrò nell'incubo andando avanti, sposandomi magari, avrò figli che puzzeranno di vomito e mi preoccuperò di lavare, ma con la convinzione che prima o poi mi sveglierò con te accanto».
Dean chiuse gli occhi, frustrato. «Così non va, così proprio non va. Non aspettarmi, non tornerò. Non tornerò, maledizione, mettitelo in testa».
«Io ti aspetterò, e chi se ne importa se non tornerai. Io ti aspetterò, mettitelo in testa».
La attirò a sé, facendo rabbiosamente combaciare le loro labbra, impeto dolce ed iracondo – disperato.
«Non è poi la fine del mondo» sussurrò sulle sue labbra, senza allontanarsi troppo.
Chiamarono il suo treno e si staccò, controvoglia, afferrando le valigie con le braccia coperte dal suo pullover verde.
A Gin tremarono le ginocchia, e quasi quasi anche i polmoni. «Non te ne andare» pregò, voce rotta dalla presenza di lacrime invisibili sulle sue guance arrossate dal freddo.
«Chiudi gli occhi, amore. Non lo guardare il treno, non guardare me che ci salgo sopra. Cantami una canzone, cantamela, io sono qui e l'ascolto, tu tieni gli occhi chiusi finché non senti il silenzio. Canta, amore. E non lo dire addio, mi raccomando, perché io lo so ed è anche per questo che ti amo, ti amo perché a te gli addii fanno male alla gola. Tu “addio” non dirmelo, canta».
Prese un respiro profondo e chiuse gli occhi, concentrandosi sui lineamenti di Dean che sperava di non dimenticare mai, immaginando le sue braccia attorno al suo corpo, immaginando le sue labbra nell'incavo del suo collo, immaginando i suoi capelli in contatto con il suo volto – sarebbe dovuto essere reale ancora per un po', solo un po'.
Poi, semplicemente, cantò, e nel disperato fischio che il treno emise qualche istante prima di dilaniarle completamente l'anima trovò il perfetto compagno di un duetto che la colse completamente impreparata, così come entrambi sarebbero stati impreparati alla vita nei mesi a seguire, troppo abituati a contare sul suono del respiro dell'altro per regolarizzare il proprio.
Dean la osservava muovere le labbra chiare seduto al suo posto, le valigie sul sedile accanto, e con la tempia sinistra posata al finestrino strinse le labbra per non piangere, chiedendosi se fosse veramente giusto andare ad Amburgo, specie senza di lei, e come un mantra iniziò a ripetersi che sarebbe passata, passa sempre tutto, sarebbe passato anche il dolore causato dalla consapevolezza d'aver lasciato quell'anima su sei milioni a più di mille chilometri di distanza, del tutto consapevolmente.
«Non mi dimenticare» mormorò, pur sapendo che lei mai l'avrebbe sentito, nel preciso momento in cui Gin scoppiò a piangere, tremando sotto il peso di qualcosa troppo grande, e Dean sorrise appena.
Quanto sei bella, amore.







Sì, sono viva.
No, evidentemente non sono morta.
Sì, siete autorizzati a picchiarmi e lanciarmi pomodori.
Sono imperdonabile, lo so, ma io e la scrittura abbiamo un po' litigato. Ora siamo tornate in buoni rapporti, comunque, quindi spero che il prossimo ritardo (perché sì, ci sarà un altro ritardo) sia un po' meno grave di questo.
Bòn, che dire? Questa shot è triste, forse fin troppo, ma dopo tre cose dolci e carine ci stava.
Detto ciuò, spero vi piaccia e che abbiate voglia di farmi sapere qualcosa.
E se non avete voglia pace, però insomma.

Un abbraccio, non sapete quanto mi siete mancate. Mancati. Mancate.
Siete tutte donnine? D:

Human_ (che pur vivendo a due minuti dal mare è ancora bianca come una mozzarella).

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Capitolo 5
*** You're so beautiful to me. ***


You are so beautiful to me.




Percorrevo con lo sguardo la sua schiena diafana cosparsa di nei, tracciando linee perfettamente geometriche in quella sua geometrica perfezione, triangoli, trapezi, rettangoli e spirali e cerchi e armonie, mentre con la punta delle dita accarezzavo il suo braccio morbido dalla spalla al polso, soffermandomi nell'incavo del gomito, permettendomi, di tanto in tanto, di sfiorare anche le dita lunghe e affusolate delle sue deliziose mani da pianista, intrecciandole per qualche istante con le mie, e poi via, di nuovo su, verso la spalla che dolce faceva da ponte tra il braccio e il collo candido, morbido, profumato, ancora segnato dai miei baci avidi.
Non riuscivo, non potevo dormire, rischiando così di perdere anche quel lato di lei, lei che, silenziosa, innocente, inconsapevole, mi era entrata dentro così profondamente da sconvolgere totalmente e definitivamente la mia anima, rendendola inevitabilmente sua.
Aveva preso il mio cuore e l'aveva sradicato, strappandomelo dal petto, ma mite, con dolcezza, senza forza; era stato un dolore dolce, accompagnato dal piacevole, gradito, amato torpore dei sensi che solo l'amore concede. Mi aveva svuotato così, provandomi di ogni egoismo, ma senza tuttavia lasciarmi effettivamente vuoto. Ero pieno di lei, così come lei era piena di me.
Mi venne da ridere, al pensiero che a ragionare così ero io, proprio io che sempre avevo manifestato il mio scetticismo nei confronti di quello stupido – come probabilmente io ero all'epoca – amore che tutti proclamavano, snobbando grandi autori, definendo addirittura stolti Giulietta e Romeo che per amore avevano rinunciato alla loro vita, in un atteggiamento tipico di chi ancora non è altro che un acerbo frutto dell'albero della vita che ancora ha da maturare, da capire, da sapere, da scoprire, da sperimentare, da imparare, da provare.
Sorrisi, quasi con pietà, biasimando l'infantile ignoranza di chi non è bambino perché pura innocente creatura capace di vedere tutto, di vedere oltre, di amare senza confini, ma perché ancora ha da crescere, ecco, crescere, ma crescere dentro, non fuori, ché fuori si cresce tutti, ma dentro è un'arte di pochi, quella di maturare ed amare come bambini, ma bambini davvero.
Mormorò qualcosa d'incomprensibile, voltandosi leggermente nella mia direzione, lasciandomi vedere il suo volto disteso e rilassato, tipico di quando, bambina imprigionata nel suo meraviglioso corpo di donna, si lasciava andare al sonno che tentatore la chiamava, invitandola e trattenendola nel suo fantastico mondo fatto di sogni e meraviglie e fantasia. Osservai incantato la sua bocca leggermente dischiusa, con il labbro inferiore un po' più pieno del superiore, gli occhi chiusi, il petto che, coperto dalle lenzuola azzurre, si alzava ed abbassava dolcemente, a intervalli regolari, donando anche a me un vago senso di pace, i capelli neri ad incorniciare quell'imperfetta perfezione di pelle candida, tinta di rosa sulle gote che, quando sveglia e colta dall'imbarazzo, s'imporporavano d'un dolce rossore che se possibile la rendeva ancor più bella ai miei occhi.
Avvicinai lentamente il mio viso al suo zigomo, mentre ancora tracciavo il profilo del suo arto con delicatezza, ed accarezzandola ancora con le dita percorsi con le mie labbra la sua mandibola dalla linea dolce, raggiungendo l'angolo della bocca dove indugiai per qualche istante.
Ero tentato di baciarla, così, mentre ancora dormiva e in questo modo svegliarla, e finalmente essere in pace, con l'anima, col corpo, e non solo coi sensi, ma resistetti. Non la baciai. Continuai semplicemente a sfiorarla delicatamente, quasi cullandola con le mie carezze e speravo amore, amore mio, fai bei sogni, te ne prego, fai bei sogni, sogna, e sii felice, lì, e magari sognami, eh?, e amami anche in sogno, come fai da sveglia, e nel sogno stai tranquilla, che dalla realtà ti proteggo io, te lo giuro, te lo prometto, ti proteggo io.
Le mie dita, lievi, si spostarono e sfiorarono il suo fianco, il suo fianco di donna, diafano come tutto di lei, e giù, fino all'inizio delle gambe, e di nuovo su, alla spalla, e poi il collo, e la mandibola, e le guance, e giù, di nuovo, il braccio, il polso, le dita, il palmo, la spalla, il fianco, la schiena, l'incavo del collo, in una danza infinita e dolce e piacevole che accompagnava l'alba, cullava lei e il sole che spuntava, che insolente quasi quanto le mie mani fameliche s'infilava a forza tra le persiane, rischiarando la stanza, avvolgendo le nostre figure, illuminandola, ma non illuminando me che, per brillare, ma brillare davvero, avevo bisogno dei suoi occhi.
Sorrise nel sonno, o forse finalmente sveglia, ed io sorrisi di rimando, continuando a sfiorarla, a toccarla, ad accarezzarla, a farla mia in quell'intimo innocente gesto.
Si avvicinò a me, cercando rifugio nelle mie braccia che la strinsero dolcemente, ma smaniose, con sicurezza, proteggendola.
Lasciò un delicato bacio sul mio petto nudo, e poi su, respirando sul mio collo per un qualche infinito secondo, prima di posare anche lì le sue labbra calde, e mi ritrovai costretto a reprimere un brivido, seppur con scarsi risultati.
«Buongiorno» sussurrai.
«Vorrei poterlo augurare anche a te, ma ho come la sensazione che tu non abbia neanche preso in considerazione la mia buonanotte, quindi non ne vedo l'utilità» mormorò, con la voce ancora impastata dal sonno, ma già dolce, delicata.
Sorrisi. «Be', auguramelo lo stesso. Ne farò tesoro, te lo prometto».
«In questo caso..».
Fece leva sul gomito e si sollevò alla mia altezza, sorridendomi in quel modo solo suo, sollevando un solo angolo della bocca scoprendo una parte dei denti bianchi ed arricciando il piccolo naso.
«Buongiorno» soffiò sulla mia bocca.
La baciai, un dolce e continuo sfioramento di labbra, almeno finché non persi la cognizione del tempo e dello spazio. Mi feci largo nella sua bocca lentamente, senza fretta, ed intrecciai le nostre lingue che si riconobbero ed iniziarono a ballare una danza familiare, ma totalmente nuova.
Le sue mani vagavano sul mio petto, sulle mie spalle, sul mio collo, e finirono per intrecciarsi nei miei capelli, stringendoli. Le mie si fermarono finalmente sulla sua schiena, e lì restarono, stringendola, come per dirle amore, amore mio, te l'ho detto, stai tranquilla, ti tengo io, non ti spezzi, ti tengo io.
«Ho sognato una cosa bellissima» mormorò appena sulle mie labbra, sfiorandole ad ogni lettera, provocando una scarica elettrica che percorse la spina e dorsale su e giù, andata e ritorno, esplosione nucleare e infinito silenzio.
Sorrisi. «Racconta».
Si allontanò appena, coprendosi con il lenzuolo fino al collo. «Eravamo al mare, sulla spiaggia davanti alla casa dei tuoi genitori, e tu mi preparavi un panino buonissimo da mangiare sugli scogli, poi succedeva altro, ma me lo sono dimenticato».
«Si può fare» risposi, accarezzandole la guancia. «Cosa c'era nel panino?».
«Non ricordo» mugugnò, stiracchiandosi.
Ridacchiai. «Ti amo perché ricordi i sogni sempre e solo a metà».
Sbuffò divertita e portò il suo corpo a combaciare con il mio, pelle contro pelle, il suo seno contro il mio petto, risvegliando in me istinti mai realmente sopiti. La strinsi a me con irruenza, divorando le sue labbra, fino a portarla sopra di me.
Mi diede un ultimo bacio, poi si alzò e rise, scappando verso la porta. «L'ultimo che arriva in cucina prepara i pancakes».








Che ci volete fare? Mi piacciono i risvegli.
....
Okay, credo che un paio di scuse siano d'obbligo. Perdonatemi per il ritardo, ma, davvero, la costanza non è il mio forte. Io ci provo ad aggiornare più spesso, giuro, ma proprio non ce la faccio.
Niente, non credo ci siano molte spiegazioni da fare – o forse sì?
È la prima shot in prima persona della raccolta, e tra l'altro da un punto di vista maschile che non ho saputo rendere manco per il caz- ehm, manco per niente, ma tant'è, spero non sia troppo effeminato, anche se temo di sì.
Per il resto, fatemi sapere, soprattutto se vi fa schifo e vorreste prendermi a cocomerate (?) in faccia.
A presto – seh, non ci credo più neanche io.

Human_ (che ha una simpatica stalker che si chiama influenza, come al solito)


PS. Eh, sì, pure il post scriptum oggi. Niente di che, eh, ma... non lo so, quando, ad esempio, mi aggiungete su Facebook, o mi seguite su Tumblr/Twitter/Formspring/Qualsiasialtracosa, cosa che se non avete ancora fatto v'invito a fare (i link sono nel mio profilo), sarebbe molto carino – e non sono sarcastica, sarebbe carinissimo davvero – se mi faceste sapere che siete lettrici. Così, giusto se non avete di meglio da fare.
Okay, basta, vi saluto sul serio, e dal momento che non l'avevo ancora fatto, buon Natale, buon anno, buon San Valentino e già che ci siamo pure buona Pasqua. Adieu.

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