Accursio e le vicende galliche

di ManuBach96
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Una innocenza punita ***
Capitolo 2: *** Il condottiero suebo ***
Capitolo 3: *** Un futuro incerto ***
Capitolo 4: *** Un nuovo inizio ***
Capitolo 5: *** I cavalieri misteriosi ***
Capitolo 6: *** Amore e coraggio ***



Capitolo 1
*** Una innocenza punita ***


Primo capitolo di un racconto che si prospetta molto avvincente. Siete pronti a tornare indietro nel tempo? Bene, allora si comincia! E quando tornerete nel ventunesimo secolo, ricordatevi di farmi sapere che cosa ne pensate con una recensione! Grazie e buona lettura a tutti quanti.


Prima Puntata. Una innocenza punita

Non erano un popolo bellicoso. Si dedicavano principalmente alla coltura, meno alla cacciagione e ben poco alla guerra. I loro figli crescevano sani e ben nutriti, mentre i boschi fornivano la legna necessaria per trascorrere l'inverno in un dolce tepore domestico. In quel villaggio gli Edui vivevano felici con le proprie famiglie. Correva l'anno 58 a.C. e, a parte qualche scaramuccia con gli Arverni e i Sequani, quello era stato un periodo abbastanza tranquillo. Un periodo ideale affinché il piccolo Accursio crescesse, si divertisse e apprendesse i mestieri. Si prostrava dunque davanti agli Edui una lunga epoca di pace e prosperità. O almeno, così erano convinti in molti.

Quella mattina Accursio era stato mandato dal padre Segeste a cogliere erbe per le medicine. All'interno della tribù egli era forse l'uomo più importante, siccome era il medico del villaggio ed era l'unico a conoscere un po' di latino. Secondo lui ciò era fondamentale: gli Edui erano da tempo alleati con Roma, e i Romani erano grandi politici e conquistatori che in quegli anni erano prosperi in tutto. Il latino poteva tornare molto utile in qualsiasi momento. Spendeva talmente tanto tempo nelle sue primarie occupazioni che molte volte doveva chiedere una mano di aiuto da parte di sua moglie e di suo figlio, il quale adesso stava ultimando la raccolta e presto si sarebbe accinto a tornare a casa. Il ragazzino, poco più che dodicenne, era cresciuto ben lungi dalle preoccupazioni e dalle tensioni che molti altri popoli avevano in quel periodo; amava le passeggiate, il sole e la musica, sebbene in tutto il villaggio non esistesse altro che qualche tamburo di legno e un carnyx, strumento a fiato esistente sin dal III secolo a.C., nel quale il soffio percorreva all'interno un lungo tubo metallico obliquo per poi uscirne da un'apertura superiore, con la figura di una testa di cavallo, che curvava fino a essere parallela al suolo. Il suono che ne fuoriusciva era gradevole ma monotono, dunque alla lunga stancava. Ma a ciò non badava il giovane Accursio, che, nei pochi momenti liberi del padre, si era fatto dare qualche rapida lezione e in breve tempo aveva imparato a suonarlo, tanto che qualche volta si recava in giro per il villaggio a dilettare qualche famiglia con la sua bravura. I giorni passavano e la tribù continuava a vivere con questa serenità di cui, per una volta, voleva approfittare, poiché sapeva bene che, come tutte le cose, anche questa se ne sarebbe prima o dopo andata. Ogni cosa si presenta e poi fugge via: la felicità, la prosperità, la vita stessa. Questi erano alcuni insegnamenti che il padre dava ad Accursio. Egli li ascoltava e li accettava quasi senza pensarvi, poiché era convinto del fatto che le parole dei genitori fossero la verità più pura, e la verità stessa una cosa rara. Faceva tesoro di ogni esperienza.

Attraverso i boschi stava ultimando la raccolta di erbe per i decotti di suo padre, che gli aveva mostrato le differenze tra le varie piante. Cercava con cura, e quando trovava una bacca di quelle che il padre gli aveva mostrato al villaggio la infilava in una piccola cesta, quando invece si accorgeva di averne presa una che non conosceva non esitava a ripiantarla alla meno peggio. Non la rigettava a caso, perché rispettava la natura. Si chinò, ma dando una rapida occhiata alla posizione del sole notò che era quasi esattamente sopra di lui; da ciò evinse subito che era mezzogiorno, e che quindi sarebbe dovuto tornare a casa. Smise di cercare, si rialzò, si spolverò la veste e, dopo aver preso in mano la cesta, si avviò verso il suo villaggio, dal quale vedeva in lontananza ergersi un'alta colonna di fumo. Doveva essere certamente il fuoco con il quale veniva cucinata la carne, pensò il ragazzo, d'altronde in quelle ore tornavano di solito gli uomini che erano andati a caccia. Non dette troppo peso al fatto che un fuoco normale non avrebbe dovuto produrre una colonna così scura e così alta; probabilmente si trattava di qualcos'altro, per esempio un sacrificio immolato agli dèi. Del resto bisognava pur propiziare il raccolto dell'anno successivo, e non vi era modo migliore di questo. Comunque sia, Accursio affrettò il passo. Non voleva di certo fare impensierire la sua tribù, sempre indaffarata in varie faccende. Tuttavia più si avvicinava al villaggio più sentiva silenzio, e ciò al contrario gli sembrò molto strano; vi era sempre un allegro vociare che si sentiva anche da più lontano, ma quel giorno non si riusciva a sentire niente. Volle subito capirne il perché. In quel punto il sentiero creava una grossa duna, per questo motivo era impossibile vedere al di là, dunque Accurso si avvicinò e in poco tempo si portò sulla sommità. Alzò lo sguardo e le sue palpebre si spalancarono, le sopracciglia cedettero ai lati esterni e le labbra si discostarono l'una dall'altra, lasciando quasi intravedere la porzione inferiore dei denti da latte. Si guardò intorno, spaventato, e questa volta realizzò. Il fumo scuro che si vedeva in lontananza: pensò per un istante a esso. E capì. Si mise a correre, e lasciò cadere la cesta, il cui contenuto si riversò tra le pietruzze del terreno; la stessa cesta ruzzolò per la discesa del dosso. Accursio si muoveva il più velocemente possibile, con il cuore che batteva forte in gola, e giunse alla palizzata del suo villaggio, dove non trovò più la sua amata distesa di erba verde. Trovò il fabbro con una spada stretta nella mano destra. Il ragazzo gli si avvicinò, ma l'uomo non sembrava reagire. Era disteso per terra, coperto di sangue, morto. Accursio mosse la testa rapidamente in tutte le direzioni; il carpentiere, l'artigiano, un contadino... tutti morti. Timidamente fece qualche passo avanti, osservando quella strage, quando improvvisamente inciampò e cadde, urtando con il gomito sinistro sul terreno. Si guardò indietro. Inorridì. La testa mozzata di un vecchio lo fissava con i suoi occhi vitrei, pallidi, sbarrati, e la bocca era spalancata in una smorfia agghiacciante. Accursio levò un urlo straziato e si risollevò in piedi e corse ancora, tentando di volgere lo sguardo in una porzione di spazio ove non vi fossero cadaveri e sangue, ma tutto ciò gli fu impossibile. Finché i suoi occhi non caddero di sfuggita su una figura femminile con dei capelli neri. Si arrestò, e li guardò intensamente. Subito gli sovvenne con crudele amarezza che li conosceva bene. Pregò affinché non fosse ciò che sembrava e ciò che in verità era, ma non poteva sbagliarsi. Furono la prima cosa che vide nei dodici anni della sua esistenza. Il cuore gli esplose, gli occhi divennero lucidi e bagnati, le lacrime sgorgarono come mai prima d'ora. Subito il cielo si rannuvolò. Subito il tenero fanciullo fece un breve ma intenso respiro. Subito si mise a correre verso quei capelli neri. Subito gridò e pianse.
- No! Madre!
 

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Capitolo 2
*** Il condottiero suebo ***


Seconda Puntata. Il condottiero suebo

Piangeva, affranto, chino sul corpo esangue della madre amata, e le carezzava i capelli, come per coccolarla, come per fingere che ella potesse ancora rispondergli con un bacio, un sorriso, un abbraccio. Ma ciò non sarebbe avvenuto mai più.
- Madre, - gridava, straziato dal dolore - madre, chi ha voluto dilaniare il mio cuore?
Il cielo si era fatto grigio; grigio e turpe come il cuore di colui che aveva compiuto quel massacro. Accursio si era rassegnato al fatto che ormai fosse l'unico sopravvissuto. Quel ragazzo magro, biondo e dagli occhi castani era dunque il solo rimasto vivo? Si guardò attorno, voleva rispondersi a questa triste domanda, e osservava il tappeto di cadaveri che fioriva tra l'erba. Ma l'anima di tutti gli abitanti del villaggio era spirata, ne fu convinto. Osservò la sua capanna, ormai interamente bruciata, ma nonostante ciò, tentando invano di fermare le proprie lacrime, si alzò in piedi e si avvicinò lentamente. Per un attimo si fermò e la contemplò intensamente, finché non vide al suo interno un lungo tubo metallico, che a tratti era celato sotto la cenere, e tentò di spolverarlo con la manica della propria veste. Con l'altra mano, con la delicatezza di quando coglieva le erbe per suo padre, raccolse quel misterioso oggetto, e nel levarlo dalla sua ubicazione, portandolo più vicino al suo volto, si alzò un cumulo di cenere calda che emetteva ancora del fumo. Si commosse. Quello era il carnyx che suo padre gli aveva insegnato a suonare con tanto amore. In un gesto di solitudine e disperazione, Accursio sollevò lo strumento musicale e con un soffio emise un caldo suono, una lunga nota straziata come lui, nella speranza che qualche superstite potesse sentirlo e raggiungerlo. Se effettivamente qualche superstite fosse rimasto. Il ragazzo tuttavia suonò la medesima nota per un'altra volta, e poi per una terza volta ancora.
- Accursio?
Il ragazzo si spaventò e si voltò alle sue spalle, da dove aveva udito provenire quella voce. Si meravigliò, e quasi sembrò accentuare un sorriso.
- Figlio mio, sei vivo! Oh, mio caro, piccolo Accursio!
Il ragazzo corse ad abbracciare il padre, e in parte si consolò, ma nessuno avrebbe mai cancellato dalla sua giovane memoria quel momento, doloroso per un verso, felice per l'altro. Dopo mille dilemmi, finalmente una cosa era certa: non era rimasto solo come pensava.
- Padre mio adorato! Io credevo che anche tu...
Accursio strinse il padre ancora più forte, e il suo pianto, intenso e sonoro, interruppe le sue stesse parole.

La tristezza regnava. In questo stato d'animo e sotto una violenta pioggia fredda, Accursio, il padre e gli altri cinque sopravvissuti stavano seppellendo i loro morti.
- Padre, dimmi che cosa è accaduto. - singhiozzò il puro fanciullo. - Chi ha ucciso la nostra gente? Chi ha devastato le nostre capanne?
Il padre esitò, poiché il ricordo lo faceva star male, ma con amara sincerità rispose.
- Mentre tu, e siano benedetti gli dèi per questo, eri per i boschi a cogliere erbe, siamo stati attaccati.
- Da chi? Per quale motivo? Noi non abbiamo mai fatto del male a nessuno, perché allora questo massacro?
- Essere alleati con qualcuno che gli altri non sopportano è molto difficile, figliolo. In particolare un uomo non vuole capire. Egli è l'essere umano più crudele al mondo, Accursio, non dimenticarlo. Uccide, uccide, non ha pietà neppure per i bambini. Il suo nome è Ariovisto, comandante suebo a capo dei Germani, proclamatosi re della Gallia e nemico di Roma. Abbiamo combattuto i suoi uomini con coraggio, perfino tua madre ha preso le armi pur di salvare la nostra patria, ed è stata trafitta dallo stesso Ariovisto. Tua madre era una donna meravigliosa, io l'amavo più di me stesso, anche se avrei dovuto convincerla a non combattere, e in questo mi sento profondamente colpevole. Anzi, lo sono.
Segeste scosse la testa. Riprese a scavare la buca destinata a sua moglie, e sul suo volto scorrevano gocce di pioggia. O forse erano lacrime. Accursio abbassò lo sguardo e si lasciò andare ancora una volta ai suoi sentimenti, si accucciò e mise la testa tra le ginocchia. Il fango gli aveva sporcato tutta la veste.
- Che cosa faremo adesso? - chiese, con la rassegnazione di chi è convinto di essere destinato alla rovina. Ma non ottenne considerazione.
Accursio non ripeté ancora la sua domanda. Si alzò, incurante della sua veste infangata, e dopo essersi asciugato, per quanto potesse, il suo volto abbattuto dai fati, si accinse a salutare per l'ultima volta la genitrice.

Per altri due giorni i sopravvissuti scavarono tombe per i loro defunti, e nel loro cuore ardeva il desiderio di vendetta, ma per il momento sarebbe stato un desiderio destinato a rimanere lì, sepolto assieme ai morti, nei meandri di un animo tartassato e afflitto.

- Quale sarà il nostro destino, padre? - chiese quel giorno Accursio, seduto con suo padre Segeste sul prato del loro villaggio ormai fantasma.
- Solo gli dèi immortali possono sapere quel che tu chiedi a me, figlio mio. Cercheremo asilo in un'altra tribù, dove forse potremo ricominciare una nuova vita, integrarci e dimenticare.
- Io non riesco a dimenticare, padre, il sorriso di mia madre quando suonavo il tuo carnyx per lei. Non posso credere che adesso sia tutto finito.
- Devi essere forte, perché la vita continua. E tu hai tutta una vita davanti. Non lasciare che un mostro senza valori vanifichi la tua esistenza: tu un giorno sarai un grande uomo.
- Ricordo che quando ero piccolo amavo molto passeggiare per i sentieri di questi boschi. Ebbene, un giorno io e mia madre andammo a fare una di queste passeggiate. Mi parlò un intero pomeriggio del sole, della luna, delle stelle, della natura e delle stagioni. Io seguivo i suoi discorsi con ammirazione, e imparavo sempre qualcosa di nuovo.
Silenzio. Ma poi il sentimento ebbe ancora la meglio, e Accursio si accasciò sul padre, abbracciandolo con puro e sincero amore.
- Ecco, bravo, piangi e sfogati, figliolo. E ricorda per sempre questi bei momenti, perché quando avrai perso ogni traccia saranno l'unica cosa che avrai.
 

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Capitolo 3
*** Un futuro incerto ***


Terza Puntata. Un futuro incerto

Erano rimasti soltanto in sette, ed era giunta l'ora di provare a dimenticare. Non sarebbe stato facile, per niente, ma il loro villaggio ormai non esisteva più. Ariovisto aveva sterminato senza pietà vecchi, donne e bambini, seminando sangue e distruzione.

I superstiti si erano dunque messi in viaggio alla volta del più vicino villaggio eduo, più grande, più popoloso, più protetto. Era quasi una piccola città. Ma per arrivarvi bisognava attraversare ettari di boschi e pianure, e non vi sarebbe stato neppure un minimo di sicurezza attraverso il cammino; tra i sopravvissuti era dunque sempre presente una certa apprensione, una certa ansia di giungere il prima possibile, preferibilmente entro il tramonto, poiché di notte le selve erano buie e pericolose, mentre le pianure erano spazi aperti in cui chiunque passasse veniva immediatamente avvistato, e ben poche volte l'osservatore aveva buone intenzioni. Meglio arrivare presto che mai. E ciò i nostri intrepidi avventurieri lo avevano inteso più che bene; il loro passo era lesto e regolare, come d'altra parte il loro battito cardiaco. Si stavano dirigendo più a est, quasi nel cuore della Gallia, attraversando paesaggi naturali incantevoli e fermandosi ogni tanto a qualche ruscello per fare provvista d'acqua. Ma si trattava di una pausa molto breve, perché il tempo passava e la sera si avvicinava inesorabilmente. Segeste guidava quello sparuto gruppo di intrepidi avventurieri, e Accursio lo seguiva, con uno sguardo pensieroso fisso a terra, portando in mano il suo carnyx, l'unico oggetto che gli era rimasto oltre alla sua veste. Voleva alleviare il suo dolore suonando qualcosa, ma ciò era troppo rischioso, e il ragazzo avrebbe dovuto sopportare anche quel silenzio, quel maledetto silenzio che contribuiva a far riportare alla memoria quegli eventi, quei maledetti eventi che avevano segnato una svolta nella vita di tutti gli Edui.

Ecco apparire all'orizzonte del fumo. Non era come quello che tre giorni prima aveva visto Accursio, nero, denso e alto. Quello che adesso appariva ai loro occhi era invece più chiaro e più basso: doveva essere la tanto agognata meta. I volti del gruppo sembravano già quasi più sereni, ma ancora essi non sapevano se sarebbero stati accettati; forse avrebbero dovuto continuare a vagabondare, e forse avrebbero dovuto abbandonare il loro stile di vita sedentario. Ma in cuor loro sapevano di essere ancora nella loro patria: quelle persone laggiù erano Edui come loro, non avevano nulla da invidiare e anch'essi avevano avuto dei precedenti con Ariovisto. Accursio, Segeste e gli altri cinque non accelerarono il passo né lo rallentarono, ma ben presto furono molto vicini alla palizzata del nuovo villaggio. Un uomo di mezza età, seguito da decine di altri curiosi, si avvicinò loro.
- Chi siete voi? - chiese, forse più per avere una certezza di ciò che pensava che per smascherare qualche sospetto.
- Noi - parlò Segeste - eravamo gli abitanti di un villaggio di Edui a ovest da qui, ma le nostre capanne sono state date alle fiamme e i nostri familiari sono stati massacrati dagli uomini di Ariovisto. In nome degli dèi veniamo a chiedervi asilo.
L'uomo annuì, comprensivo. Aveva già capito tutto fin da subito. Quasi commosso si avvicinò a Segeste, come se fosse un vecchio amico che non rivedeva da anni, e lo abbracciò affettuosamente.
- Siate i benvenuti. - disse l'uomo, stringendo forte il padre di Accursio tra le sue braccia. - Sarete stanchi e affamati, lasciate che vi ospiti nella mia capanna e che vi offra del cibo e acqua fresca da bere.
La capanna di questo uomo era ampia e confortevole. Segimero, questo il suo nome, era infatti il capo della tribù, era considerato la persona più saggia del villaggio intero e godeva di fama e rispetto, nonché della compagnia di una deliziosa figlia di undici anni. I due si sedettero all'interno, e Segimero invitò Segeste, Accursio e gli altri a fare la medesima cosa.
- Avete sopportato momenti difficili, - disse l'uomo - ma non siete stati gli unici. Anche noi abbiamo passato delle situazioni dure, in famiglia: mia moglie, per esempio, è morta partorendo la mia adorata figliola, Thusnelda, la persona che amo più di tutte al mondo. E poi Ariovisto ha fatto il resto, distruggendo i nostri campi e seminandovi morte.
- Da anni questo mostro attacca i nostri villaggi e non sembra avere pietà. - commentò Segeste.
- Il nostro problema è l'alleanza con Roma. Noi abbiamo ricevuto il titolo di fratelli e consanguinei del popolo romano, e ciò sta causando le ire degli Arverni, che hanno chiesto aiuto ad Ariovisto stesso. Il nostro periodo di pace sta per essere controbilanciato, e la nostra tribù sta cercando di adattarsi alle circostanze.
- Che una nuova guerra sia alle porte? - domandò Segeste.
- Nessuno può dirlo con certezza, ma è evidente che Ariovisto continua ad agire sempre più di frequente. Dobbiamo pur difenderci da gente che ci attacca e ci uccide.
- E Roma? Che cosa sta facendo? Non sembra che per il momento ci stia aiutando, né che ne abbia l'intenzione. Mentre i Romani si battono tra di loro nel Senato per acquisire potere e denaro, gli Edui sfidano la morte per un pezzo di carne e magari per un giorno in più da vivere. Di quale alleanza si tratta, se non possiamo contare sui loro aiuti?
- Il tempo darà ragione. Stiamo a vedere ciò che succede, poi agiremo di conseguenza.
Mentre i due uomini discutevano vivacemente riguardo a questa antica alleanza con il popolo romano, Accursio e Thusnelda si scambiavano ogni tanto qualche sguardo, fingendo di stare ad ascoltare i due politicanti, e quando uno dei due si accorgeva di essere osservato, l'altro sorrideva con un po' di imbarazzo. All'ennesimo incrocio dei loro occhi, Thusnelda si decise a rompere il ghiaccio.
- Mio padre è sempre stato un uomo di politica. Dovrete abituarvi ai suoi discorsi. - disse, sperando in una risposta del ragazzo. Ma egli non sapeva proprio che cosa dire.
Dopo qualche minuto di silenzio, Thusnelda provò ancora una volta a trovare una scusa per aprire un dialogo.
- Hai già fatto visita al villaggio? - chiese.
Accursio la osservò per qualche istante e poi negò con un leggero cenno della testa.
- Se vuoi posso guidarti io! - sorrise la giovane.
Il ragazzo ricambiò, annuì e si alzò in piedi, seguendo la ragazza come se ella fosse dotata di una calamita; egli vedeva in lei qualcosa di diverso dagli altri, qualcosa che non aveva mai provato prima, e tutto ciò gli parve strano. Del resto, nemmeno la conosceva.
 

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Capitolo 4
*** Un nuovo inizio ***


Quarta Puntata. Un nuovo inizio

Thusnelda guidò Accursio attraverso il suo villaggio, mostrandogli le abitazioni delle persone più importanti, persone che vi erano anche nella tribù di Accursio, ma che adesso non esistevano più.
- Ascoltavo, sai, quando tuo padre parlava al mio. - disse la ragazza. - Ho sentito tutto... mi dispiace molto per ciò che è accaduto ai tuoi amici... e a tua madre. Anche la mia è morta, molto tempo fa, mentre mi partoriva. Ma sono ferite che il tempo guarirà, non ti preoccupare.
Accursio le si avvicinò e la abbracciò con affetto.
- Sei molto gentile a rincuorarmi, - disse egli - ma credo che adesso sia solo necessario pensare ai vivi. Tuo padre Segimero ha detto che una guerra è ormai alle porte.
- Già. Anche se non vorrei fosse così.
Un momento di silenzio nel quale i due ragazzi si guardarono negli occhi. Sorrisero entrambi.
- Sai... io... credo di volerti bene. - disse Accursio, quasi senza rendersi conto di ciò che diceva. - Vorresti accettare la mia amicizia?

I giorni passarono in una serenità turbata da un cattivo presentimento, proprio quel cattivo presentimento che aveva Segimero. E più il tempo passava, più questo presentimento si faceva cupo e spaventoso.

I due ragazzi ormai si conoscevano, e avevano stretto una solida amicizia reciproca, cercando di non rivangare in alcun modo nel passato e di essere ottimisti per quanto riguardava l'avvenire. Accursio prendeva ogni tanto il suo carnyx e cominciava a suonarlo, ricevendo spesso molti complimenti da parte di tutti. Stimolato dalla curiosità di Thusnelda, un giorno egli la prese da parte per evitare la folla e la portò vicino a un laghetto con il suo strumento musicale. Per molte ore stettero lì, seduti su di un grande masso, a scambiarsi profondi sguardi.
- Ti ammiro molto, Accursio. - disse la ragazza. - Nonostante tutto ciò che ti è accaduto...
- Per favore, Thusnelda, - rispose egli - ci eravamo promessi di non parlarne più. Ma devo dire che anche io ti... ti... voglio bene, e non solo per lo stesso motivo. Tu sei... quando ti guardo io... non so... sei una ragazza molto carina e simpatica.
Un lungo e imbarazzante silenzio prese il sopravvento.
- Ah!, quanto è romantico questo tramonto. - disse a un tratto Thusnelda. - Il sole che lentamente annega nella gelida acqua di questo lago.
Quasi senza avvedersene, la ragazza chinò il suo capo e lo adagiò sulla spalla del suo vicino, con un sognante sorriso inciso su quel tenero volto. Accursio, a quel sorprendente gesto, rispose cingendo il collo di Thusnelda con un delicato e affettuoso abbraccio.
- Accursio, - lo nomò poco dopo - tu sai mantenere una promessa?
Egli non proferì parola: si limitò a un tenue accenno affermativo della sua testa. La giovane intese senza guardarlo.
- Allora promettimi che non ci separeremo mai, qualunque cosa dovesse accadere.
- Entrambi abbiamo già perso troppe persone amate, - rispose Accursio - e non voglio perdere anche te. Ti giuro su questo tramonto che non ti lascerò mai da sola, e ti difenderò sempre... qualunque cosa dovesse accadere.
- Davvero qualunque?
- Davvero qualunque. E... vorrei tanto che, un giorno, il mio cuore appartenesse a te, e il tuo a me. Quando questo improvviso momento buio e triste sarà terminato... ecco, io spero che le nostre due vite possano diventare una sola vita, e che da questa se ne possano generare molte altre. Sento di provare un affetto particolare nei tuoi confronti.
- Anche io. Che questo sia amore?
Accursio e Thusnelda si guardarono profondamente negli occhi. Così piccoli, così ingenui... così innamorati. Il ragazzo sorrise.
- Un giorno mi insegnerai a suonare il carnyx? - gli disse la fanciulla.
- Ne sarei felice. La musica mi aiuta a dimenticare il passato, mi aiuta ad affrontare il presente e mi aiuta a sperare un futuro, per me, per te, per le nostre famiglie, per il nostro popolo meraviglioso.
- Sei una persona affascinante, Accursio. I tuoi pensieri sono molto dolci e profondi.
Accursio non ribatté, anzi cambiò espressione. Sembrava essere quasi spaventato. Si guardò attorno e subito dopo si levò in piedi, scrutando tra gli alberi del bosco adiacente a quel romantico lago.
- Che cosa succede? - domandò la ragazza, inconsapevolmente contagiata dalle emozioni dell'altro.
- Zitta. Non senti anche tu questo rumore? - rispose.
Thusnelda si acquietò e si concentrò.
- Sì, hai ragione. - commentò. - Che cos'è?
Comparvero, in lontananza, delle sagome scure che celermente si avvicinavano. Anche la ragazza si alzò lentamente, tra lo stupore e lo spavento, osservando. Quell'immagine un poco sbiadita ora si faceva più nitida. I ragazzi distinsero dei cavalli al galoppo; erano una dozzina. Ma essi non erano cavalli liberi: a poco a poco distinsero la presenza di uomini che li cavalcavano. Per pochi secondi Accursio rimuginò tra sé e sé, poi, forse capendo, prese per mano Thusnelda e cominciò a guidarla di corsa al villaggio. Intanto quei misteriosi uomini al galoppo si muovevano rapidamente, e più si avvicinavano più davano l'impressione di non essere di fretta per compiere azioni diplomatiche. Primo fra tutti, alla testa di quello sparuto frammento di cavalleria, era un uomo terrificante, con una lunga barba nera e due occhi infuocati.
 

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Capitolo 5
*** I cavalieri misteriosi ***


Quinta Puntata. I cavalieri misteriosi

I due ragazzi correvano. Accursio stringeva forte la mano di Thusnelda. Ella aveva paura. Speravano che quei misteriosi cavalieri non li avessero visti, perché se avessero avuto cattive intenzioni non vi sarebbe stato scampo. Accursio si voltò, e man mano che scrutava il paesaggio correva sempre più lentamente, e poi ancora più piano, sino a fermarsi del tutto.
- Sono scomparsi. - affermò con una certa sicurezza il ragazzo.
- Ma chi erano? - domandò Thusnelda, visibilmente turbata e preoccupata.
- Non lo so, ma ci conviene rientrare al villaggio il prima possibile e dire tutto ai nostri genitori.
Entrambi ripresero dunque a correre, e poco dopo giunsero presso la tenda di Segimero, il padre della fanciulla. Il clima era quello che si respirava normalmente: persone che parlavano del più e del meno con chiunque passasse, persone che ponevano sul braciere la legna da ardere per fornire calore al villaggio e persone che erano momentaneamente all'interno della propria abitazione per godere di un po' di pace e tranquillità. Tra queste ultime vi erano anche Segeste e Segimero, seduti uno di fronte all'altro, intento quest'ultimo a lucidare la propria spada. Ma, non appena i due ragazzi entrarono per raccontare loro ciò che avevano visto, posò l'arma e lo straccio per terra. Notò subito che qualcosa non filava come avrebbe dovuto, che vi erano delle preoccupazioni nella mente dei fanciulli. Fu Accursio il primo ad aprire bocca, dopo avere posato per terra il proprio carnyx, che aveva portato con sé al lago.
- Scusateci se siamo entrati senza avvisare... ma avremmo una cosa da dirvi.
- Parlate pure, ragazzi miei. A quanto vedo non devono essere notizie del tutto rosee.
- No, infatti. - disse Thusnelda. - O almeno, siamo qui per questo motivo.
- Vicino al lago in cui siamo stati fino a pochi minuti fa - raccontò Accursio - abbiamo visto degli uomini a cavallo che galoppavano rapidamente. Erano lontani, ma ci sembrava che venissero proprio verso di noi. Allora abbiamo iniziato a correre verso il villaggio per rifugiarci, ma poi, voltandomi, non li ho più visti. Comunque volevamo avvisare voi e la tribù, perché non ci sembrava una cosa molto normale.
- Già, è vero. - disse Thusnelda. - Di cavalieri del genere non se ne sono quasi mai visti da queste parti.
- Erano armati? - domandò l'uomo.
- Come...? - balbettò Accursio.
- Dico, quegli uomini a cavallo che avete visto avevano qualche arma?
- Non saprei con esattezza... come ho detto erano molto lontani nel momento in cui li abbiamo avvistati... ma non pensiamo che stessero andando a cogliere fiori nel bosco.
- Adesso che ci penso, - intervenne Thusnelda - mi sembra di avere notato che quei cavalieri avevano delle specie di fodere addosso.
- Sei sicura, figliola? - chiese Segimero, contagiato in parte dalla preoccupazione dei ragazzi. - Non vi ricordate null'altro? Siete riusciti a distinguere i loro volti?
- Beh, - rispose Accursio, un pochino esitante - a me l'attenzione è caduta su un uomo in particolare. Galoppava su un cavallo marrone con la criniera di un colore scuro.
- E riguardo all'uomo, - disse Segeste, che aveva taciuto fino a quel momento - non ti ricordi come era fisicamente?
- Mi sembra che fosse abbastanza alto, con una lunga barba e dei capelli neri altrettanto lunghi.
- Non credo di averlo mai visto. - sentenziò Segimero, più rivolto a Segeste che non ai ragazzi.
- Diamine. - sussurrò il padre di Accursio. - Io sì, per tutti gli dèi, io l'ho visto in faccia. Accursio, anche tua madre lo ha visto in faccia. Prima che venisse trafitta.
Vi fu un momento di sgomento generale. Poi timidamente si fece avanti il fanciullo.
- Che cosa vuoi dire, padre? - chiese Accursio, spaventato dalle parole di Segeste.
Quest'ultimo era esitante; non avrebbe voluto allarmare tanto i ragazzi e la tribù.
- Ragazzi, per favore, - intervenne Segimero, capendo bene che vi era qualcosa da chiarire, un qualcosa che i due ragazzi non avrebbero dovuto ascoltare - potreste andare a prendere un poco di acqua al pozzo?
- Va bene. - rispose Thusnelda. - Vieni, Accursio. Andiamo.
Segeste, visibilmente preoccupato, aveva la fronte posata sulla mano sinistra, come solitamente si fa quando si ha un forte mal di testa. Segimero attese che i giovani uscissero, dopodiché si voltò verso il proprio vicino.
- Chi è dunque l'uomo che hanno visto i nostri figli?

Accursio e Thusnelda giunsero in breve tempo presso il pozzo, che si trovava appena al di fuori del villaggio e discretamente vicino a un folto gruppo di alberi.
- Tuo padre mi sembrava molto preoccupato. - commentò il ragazzo.
- Dici - ribatté la fanciulla - che si potesse trattare di uomini pericolosi?
- Spero di no.
Ma, mentre attaccava il secchio per prendere l'acqua alla robusta corda con cui calarlo, gli tornarono alla mente le parole che suo padre gli aveva detto poco prima. Ripensò a esse. Stava quasi per risalire a chi fosse quell'uomo, quando vide improvvisamente Thusnelda accasciarsi a terra gemendo.
- Thusnelda! Che cosa è successo? Non ti senti bene? - chiese, agitandosi e chinandosi per sollevare quella testolina bionda, come a far capire alla ragazza che voleva aiutarla.
- Accursio... - balbettò la ragazza, con suoni che parevano più lamenti di dolore che non sillabe. - Ho... una fitta...
- Che? Dove ti fa male?
- Qui... ahia... la pancia...
Accursio mosse lo sguardo dove gli aveva indicato la sua dolce e preziosa amica. E subito vide. E subito capì.

 

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Capitolo 6
*** Amore e coraggio ***


Sesta Puntata. Amore e coraggio

- Aiuto! Aiuto! - gridava Accursio, ritornando al villaggio con Thusnelda tra le proprie braccia. - Per favore!
Si catapultò immediatamente nella tenda di Segimero, dove ancora era presente anche Segeste, e adagiò la ragazza a terra.
- Ha una freccia! - esclamò allarmato il fanciullo. - Ha una freccia conficcata nel ventre!
- Per tutti gli dèi della nostra Gallia... - imprecò Segimero.
A Segeste, quasi incredulo, si spalancarono gli occhi.
- Segeste! - lo nomò l'altro uomo. - Per piacere, recati alla tenda qui di fronte: troverai un anziano signore; fatti dare da lui una benda. Torna prima che puoi!
- Certo. - rispose, uscendo in fretta e furia.
Accursio osservava Segimero, che tentava di spezzare quella freccia.
- Non ti preoccupare, Thusnelda, - tentava di rassicurarla il ragazzo - vedrai che tra poco andrà tutto meglio. Scusami, - disse poi rivolgendosi verso l'uomo - avrei dovuto stare più attento, al pozzo.
- No. - rispose egli. - Sono io ad avere colpa. Non avrei mai dovuto mandarvi a prendere l'acqua. E per che cosa...?
In quel momento rientrò Segeste con le bende.
- Grazie. - disse Segimero, prendendone una e legandola alla meno peggio attorno al ventre della figlia, che ancora si lamentava, sebbene stesse tentando di nascondere la propria sofferenza.
- Sei riuscito a estirpare la freccia dal suo corpo? - chiese Segeste, preoccupato.
- Sì, fino a dove ho potuto. - rispose Segimero, ultimando il nodo che avrebbe consentito alla benda di rimanere ferma. - Ecco fatto. Così dovrebbe essere abbastanza stretta. Come ti senti, figliola?
- Grazie, - balbettò la fanciulla - un po' meglio.
Segimero sorrise, accarezzando la guancia di velluto della figlia adorata. Le voleva davvero molto bene. Ma pochi istanti dopo l'uomo aggrottò le sopracciglia, senza dare a intendere nulla agli altri tre presenti, che capirono tutto quanto poco dopo: una voce affannosa gridava il suo nome. Subito l'uscio della tenda si spalancò, ed entrò un uomo abbastanza giovane, probabilmente sulla ventina d'anni, ma che pareva agitato e allarmato, come lo era Accursio fino a pochi momenti prima.
- Segimero, - ripeté la voce - abbiamo bisogno di tutti. Ariovisto è qui.
Senza proferir parola, sia quell'uomo sia Segeste presero la propria spada e come fulmini uscirono dalla propria capanna.
- Voi rimanete qui, e se le cose dovessero volgere al peggio... scappate entrambi.
Accursio si gettò accanto a Thusnelda. I due, da dentro, ascoltavano ricolmi di terrore le grida che provenivano dal di fuori.
- Accursio... ho tanta paura... - pianse la bella fanciulla.
- Vedrai che tutto quanto finirà presto. - la tranquillizzò egli.
- Dimmi che è solo un brutto sogno... dimmelo... Accursio...
- Sì, sì, certo che è un sogno... tutto ciò non può essere vero.
Cadde il silenzio. Dentro. E fuori urla di donne e bambini. Grida di battaglia. Sangue. Morte. Distruzione. Passavano le ore. E ancora sangue, morte e distruzione. E poi vennero le nuvole. Nel cielo e nel cuore. E poi piovve. Tutti gli Edui presenti lottavano con ardore e con coraggio sotto le gocce d'acqua che fendevano l'aria e che rendevano il terreno molto pesante e inadatto per combattere al meglio. Finché non comparve all'orizzonte una colonna. Non era una colonna di fumo, come quelle che fin troppe volte ormai aveva visto Accursio. Era una colonna di uomini. Uomini che venivano verso il villaggio, marciando compatti.

Accursio non avvertiva più alcun rumore. Thusnelda era sveglia, ma stanca. La sua ferita al ventre stava lentamente cessando di farle così tanto male. Dalla sua bocca, un sussurro, parole appena udibili da un orecchio accorto.
- Suonami il tuo carnyx. - disse con flebile voce.
Il ragazzo non esitò: prese il proprio strumento musicale e suonò con tutto il proprio cuore, mentre Thusnelda chiudeva gli occhi, abbandonata al sonno.

Ariovisto nel frattempo abbandonava il villaggio, ordinando ai propri uomini la ritirata. Subito l'uomo, distinto per la sua barba lunga e nera, e i capelli anch'essi lunghi e neri, montò sul proprio cavallo, un cavallo marrone, con la criniera di un colore scuro; egli aveva visto quella colonna, e aveva capito che per lui sarebbe potuta essere molto pericolosa.
- Siano lodati gli dèi! - cominciarono a gridare alcuni membri del villaggio, sollevando le spade in segno di vittoria e di gioia.
Accursio si accorse immediatamente di ciò che stava succedendo e decise di uscire dalla capanna. Anch'egli notò la lunga colonna di uomini, che mano a mano si avvicinava; erano soldati, il cui rumore delle armature echeggiava in tutto il territorio.
- Padre, - chiese Accursio a Segeste - chi sono tutti questi uomini?
- La nostra salvezza, figlio mio. La nostra salvezza.

Quella salvezza era il generale romano Caio Giulio Cesare, impegnato in quegli anni nella conquista della Gallia. Tuttavia il popolo eduo aveva sempre giurato fedeltà a quella repubblica che, solo qualche decennio più tardi, sarebbe divenuta un vero e proprio impero. E comunque essere alleati di Roma non portava soltanto a cattive situazioni: si poteva contare sull'ausilio di truppe molto forti e ben organizzate in caso di bisogno. Fu così che Cesare e gli Edui cominciarono a setacciare quasi tutta la Gallia centrale per trovare Ariovisto e coloro che erano al suo fianco, mentre Accursio rimaneva al villaggio con parecchi membri della tribù - in gran parte anziani, donne e bambini - per tenere compagnia alla giovane Thusnelda, le cui condizioni stavano con il passare del tempo migliorando. I due parlavano, si incoraggiavano a vicenda e immaginavano che cosa stessero facendo in determinati momenti i loro rispettivi padri, che con i Romani stavano pian piano facendo uscire allo scoperto il nemico, soprattutto per mezzo di ambascerie alle quali il condottiero suebo rispondeva in tono sprezzante. La tattica funzionò a meraviglia: stanco di fuggire e nascondersi da mesi, Ariovisto decise finalmente di affrontare il proprio destino. La battaglia avvenne presso i monti Vosgi, in Alsazia. Ariovisto e i propri uomini combatterono duramente, ma alla fine la loro disfatta fu più che totale; a migliaia perirono tra i barbari in quello scontro, e lo stesso Ariovisto riuscì a salvarsi per miracolo, fuggendo e attraversando a nuoto il Reno. La madre di Accursio era stata vendicata, e con lei centinaia di Edui. Ma la guerra continua.

 

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