Invisible ties di JoJo (/viewuser.php?uid=4512)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Night after night ***
Capitolo 3: *** What I can see ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Il
mio nome è Mackenzie Brown e questa non è la vita
che dovrei avere.
In
realtà non mi aspettavo nemmeno che le cose per me
cambiassero così
velocemente eppure, da un giorno all'altro, con la stessa
facilità
con cui una persona si sbarazzerebbe di una macchina vecchia e
ammaccata in favore di una nuova appena uscita dal concessionario, il
mio mondo si è ribaltato.
Non
ricordo come sia potuto accadere, quello che so è che
ricordo
alla perfezione tutto quello che dovrei invece dimenticare.
Ricordo
le serate spensierate passate a girare per strade piene di gente
allegra e pronta a divertirsi.
Ricordo
le interminabili cene in famiglia, e di come quando, da ragazzina,
escogitassi piani di fuga sempre nuovi e rocamboleschi pur di evitare
di essere vezzeggiata dalle zie più anziane durante il giro
dei
saluti a fine serata. Quanto non darei, ora, perché quelle
mani
rugose dal profumo di sapone strizzino con affetto le mie guance.
Ricordo
ogni cosa, davvero, della vita che avevo e che dovrei avere ancora
oggi: i miei genitori, i miei fratelli, gli amici, quei pochi
ragazzi...Perfino il mio pesce rosso. Ed è proprio per il
fatto che
conservo queste memorie come cimeli preziosi nella mia mente che non
riesco proprio a capacitarmi di come io abbia dimenticato il giorno
in cui tutto questo mi è stato tolto.
Non
lo ricordo, quel giorno maledetto, ma nella mia mente sono ben
impresse tutte le emozioni che ho provato, come se me le avessero
marchiate a fuoco.
Ricordo
la sorpresa iniziale, che si è immediatamente trasformata in
confusione. E poi l'inquietudine, la paura, il terrore e il dolore.
Dio, il dolore. Dolore, dolore, dolore.
Se
non fossi certa del contrario mi verrebbe da dire che quella
è la
sensazione che conosco meglio al mondo.
Ma
non è così, anche se qualcuno ha voluto
convincermene.
Il
mio nome è Mackenzie Brown e questa non è la vita
che dovrei avere.
Sono
morta e voglio sapere il perché.
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Capitolo 2 *** Night after night ***
Mi
svegliai di soprassalto, per l'ennesima notte di fila, e come al
solito mi ritrovai seduto sul letto, i battiti accelerati del mio
cuore che mi pompavano un ritmo frenetico nelle orecchie.
Mi
passai una mano tremante sulla fronte, scostando così
malamente i
capelli che vi erano rimasti appiccicati a causa dello spesso strato
di sudore freddo che me la imperlava.
Gli
incubi stavano peggiorando.
O,
perlomeno, supponevo fossero incubi.
La
verità era che ogni volta, al mio risveglio, non riuscivo a
ricordare nulla di quello che turbava il mio sonno, notte dopo notte.
Tutto quello che mi rimaneva in mente era una sensazione di angoscia
quasi palpabile e le scie ormai secche di lacrime che nemmeno
ricordavo di avere versato.
Quindi,
a rigor di logica, dovevano
essere incubi.
Non
era raro averne con un lavoro come il mio.
Quando
mi ero confidato con Morgan a riguardo, il mio amico e collega aveva
riferito quello che all'epoca pensavo fosse un sordido segreto a
Gideon. Mi ero arrabbiato per quell'assoluta mancanza di rispetto per
la mia privacy, ma il consiglio che mi era stato dato da colui che
considero tutt'ora il mio mentore mi aveva aiutato parecchio.
Solo
che, gli incubi non se ne erano mai andati del tutto. Tornavano di
tanto in tanto, facendo capolino nel mio inconscio ad intervalli
irregolari come gli incontri con un conoscente con cui bevi una tazza
di caffè ogni tanto. Sapevo gestirli, quegli incubi. Ma
questi...
Stava
diventando sempre più difficile convincere JJ che i cerchi
violacei
sotto i miei occhi non erano affatto sintomo di niente di
preoccupante, ma soltanto la somma di troppo lavoro e una carnagione
eccessivamente chiara su occhi un po' infossati. Sfuggire al suo
sguardo corrucciato, decisamente materno nella sua preoccupazione,
era diventata la mia nuova missione quotidiana.
Così
come rispondere evasivamente e senza sbilanciarmi troppo alle domande
di Derek ed Emily. O come cercare di ignorare gli sguardi indagatori
e carichi di sospetto di Rossi ed Hotch.
Esattamente
come durante tutte le altre notti in cui quei demoni invisibili e
maligni venivano a tormentarmi, abbandonai il mio letto e mi diressi
in bagno. Non potei fare a meno si aggrapparmi alla fredda ceramica
del lavabo con tutta la mia forza, quasi che quello fosse l'unico
appiglio a tenermi in piedi a discapito della mia stanchezza. Ero
esausto e, quando alzai gli occhi per scrutare la mia immagine
riflessa, potevo capire perché i miei amici, la
mia famiglia,
fossero così preoccupati per me. I miei occhi scuri,
infossati ed
enormi, sembravano angosciati da qualcosa di terribile. E, mentre i
giorni passavano e continuavo a non riuscire ad allontanare quella
tremenda sensazione che mi torturava l'anima, capivo che non sarei
riuscito ad andare avanti così.
Mi
sciacquai il volto con dell'acqua ghiacciata e tornai a fissarmi
negli occhi con determinazione: se riuscivo ad ingannare i miei
colleghi, sarei stato in grado di farlo anche con me stesso.
Stavo
bene, mi dissi in un sussurro, ripetendo quelle due parole come un
mantra.
Stavo
bene.
Era
solo un'allucinazione. Niente di più.
Avevo
dovuto far passare ben cinque minuti in cui la parte empatica del mio
cervello continuava a cercare di formulare spiegazioni logiche a
quello che avevo scorto con la coda dell'occhio poco prima.
Eravamo
atterrati da poco dopo il volo da Charleston e io avevo ancora la
tracolla sulle spalle quando vidi per la prima volta quella...cosa.
Non
ero certo che fosse una persona, anche se la sagoma, scura e
minacciosa, aveva di certo un che di antropomorfo.
La
mia prima reazione era stata quella di far cadere la mia borsa da
viaggio e di sbattere le palpebre ripetutamente, come se quel
semplice gesto potesse cancellare in un sol colpo un'immagine che
era, doveva essere, solo
nella mia testa.
A
discapito di ogni mio tentativo, però, l'ombra non se ne
andò.
Anzi, alla sua minaccia silenziosa si aggiunse una voce denigratoria,
all'interno della mia testa, che mi informava che i geni di mia madre
e la sua schizofrenia stavano iniziando a fare effetto.
Cercai
di ignorare in tutti i modi entrambe quelle presenze inquietanti e
se, dopo una dovuta opera di auto-rilassamento, le accuse che mi
stavo facendo inconsciamente da solo si affievolirono, quella
presenza non accennava ad andarsene.
Aspettai
quanto più tempo potei, davvero, ma alla fine dovetti alzare
lo
sguardo per accertarmi che la mia allucinazione fosse davvero
lì e,
soprattutto, che cosa potesse mai rappresentare.
Deglutii
rumorosamente, conscio di essere il solo ad essere ancora in ufficio,
e mi voltai di scatto.
Fu
in quel momento che la vidi per la prima volta.
Non
era un'ombra, era una donna. Una ragazza, forse.
Non
riuscivo a distinguerne i tratti del volto, troppo mascherati da una
zazzera di arruffati capelli rosso fuoco che le ricadevano sulla
fronte e sugli occhi e da uno spesso strato di una sostanza vermiglia
che sembrava decisamente sangue, ma di certo doveva essere umana. La
scrutai con occhi indagatori, ipnotizzato da quell'immagine
terribile, e quando riuscii a scuotermi dallo stupore per quella
visione capii perché di primo acchito mi era sembrata
un'ombra.
Era
scura. Sporca.
Non
capii se fosse terra, fuliggine o che altro, ma sapevo che non
avrebbe dovuto essere così sporca.
E
poi, grondandogli addosso come l'acqua da un lavandino rotto,
gocce vermiglie le si allargavano sui vestiti sudici, lungo le
braccia mortalmente pallide, fin sotto i piedi nudi e feriti.
Me
ne stavo lì, a bocca aperta, a cercare di dare un
significato a
quell'incubo divenuto realtà, quando la testa si
alzò con un
movimento secco.
Corsi
via, più velocemente che potei, sperando di riuscire ad
arrivare ai
bagni maschili prima che il conato di vomito avesse la meglio su di
me. Mi gettai nel primo cubicolo libero che trovai e, mentre dicevo
addio per sempre al mio pranzo, la mia mente continuava a rievocare
un paio di occhi lividi e iniettati di sangue.
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Capitolo 3 *** What I can see ***
Riuscivo
a vederlo.
In
un altro momento non mi avrebbe fatto alcun effetto incontrare un
ragazzo allampanato, con delle occhiaie troppo pronunciate e occhi
tanto grandi quanto inquieti. In un altro momento, un incontro del
genere sarebbe stato insignificante nella sua casualità.
Ma
allora, dopo essere rimasta sospesa in un mondo fatto di ombre, di
spettri scuri talmente effimeri da non darmi nemmeno la
possibilità
di cercare di riconoscere facce e identità, quell'unico
ragazzo
dall'aria spaventata mi sembrava straordinario, meraviglioso.
Guardalo
era diventata la mia attività preferita. Non capivo cosa
facesse
tutto il giorno, che tipo di lavoro facesse, chi fossero le altre
ombre che erano insieme a lui, o quale fosse il vero significato
dietro alle sue parole che mi arrivavano ovattate e veloci alle
orecchie. Fissarlo, semplicemente, era diventata la mia
attività
preferita.
Ho
cominciato a seguirlo.
Dovevo
farlo. Ho capito immediatamente che lui sarebbe diventato il mio
unico appiglio a quel mondo in cui anche io una volta, quanto tempo
fa?, ero solita camminare, ridere, pensare. Vivere.
In
poco tempo lui divenne il centro del mio mondo. Non lo lasciavo mai,
non ne sarei stata in grado.
Che
cosa sarebbe successo se, dopo aver cominciato a vagare di nuovo fra
le ombre, non fossi più riuscita a trovarlo?
Sarebbe
stato come morire. Di nuovo. E farlo per una volta era già
stato più
che sufficiente.
Così
decisi di rimanere con lui sempre. Anche se non riuscivo a parlargli,
anche se non era in grado di vedermi e non si rendeva nemmeno conto
della mia presenza, la sua silenziosa compagnia era diventata la mia
unica fonte di gioia.
Ne
ero assuefatta: dove andava lui, andavo io.
Quando
ero in vita sono sempre stata una persona indipendente. Nemmeno
quando ero piccola cercavo rifugio fra le braccia accoglienti di mia
madre, e quando sono stata abbastanza grande da frequentare l'asilo e
le elementari le maestre per me non erano altro che degli aiuti
esterni per compiti che, sapevo, con impegno sarei riuscita a
compiere da sola.
Mio
padre era sempre stato fiero della mia autonomia, soprattutto quando
sono diventata più grande.
Per
lui, il fatto che avessi sempre usato la mia testa, spesso andando
anche contro al buon senso, era fonte di orgoglio, soprattutto quando
si confrontava con altri padri alle prese invece con figlie che
vivevano in simbiosi con amiche o fidanzati.
Ho
sempre camminato da sola.
Finora.
Seguendo
il giovane nella sua vita di tutti i giorni mi fece rendere conto che
in lui c'era molto di più di quanto si potesse osservare
dall'esterno.
Era
speciale. E non soltanto perché era l'unica persona che
fossi in
grado di vedere in un mondo fatto di sagome sfuocate.
Aveva
grandi occhi scuri, espressivi ed innocenti. Sarà stato
forse a
causa della sua magrezza, quasi eccessiva, che faceva risaltare
così
tanto le iridi scure sulla pelle color latte, ma per i primi tempi
non riuscivo a far altro che osservare il suo sguardo.
Avevo
imparato ogni sua espressione, ero capace di leggere ogni emozione
che scintillava sul volto di quel ragazzo.
Fu
così che iniziai a notare il cambiamento.
Dapprima
era una lieve colorazione più scura sulle sue onnipresenti
occhiaie.
Poi
furono le sue guance ad essere più scavate e gli occhi
più
infossati.
Alla
fine l'espressione inquieta e quasi disperata che mi preoccupava
così
tanto non lo abbandonò più.
Il
tempo che prima passavo a studiarlo diventò il tempo che
impiegavo a
vegliare su di lui senza sosta. Lo vedevo mentre si svegliava
tormentato dagli incubi, mentre sorrideva senza però farlo
davvero,
mentre si trascinava qua e là come un fantasma.
Un
giorno poi, non seppi mai che ora della giornata fosse, mi ritrovai
sola con lui. Immaginai che ci trovassimo al suo posto di lavoro, ma
le ombre che di solito lo affollavano e si muovevano intorno a lui
erano sparite.
Non
so esattamente quando accadde, quando quella straordinaria
rivelazione prese forma nella mia testa.
Quello
che so è che un momento prima stavo in piedi davanti a lui,
fissando
per terra come se potessi trovare nel suolo una risposta di qualche
tipo ai problemi della mia unica ragione di vita, e il momento dopo
venni letteralmente invasa da una sensazione del tutto nuova, come
uno strano formicolio, un campanello d'allarme che mi costrinse
immediatamente a reagire, a cosa ancora non lo sapevo.
Alzai
la testa di scatto e mi accorsi che lui, quel giovane dagli occhi
gentili e inquieti, quel ragazzo da cui non riuscivo a separarmi,
lui, senza ombra di dubbio, stava fissando me.
Rimasi
impalata sul posto, incapace di reagire.
Lui.
Mi. Vedeva.
La
mia mente registrò diversi minuti dopo che se ne era andato
via di
corsa, così mi riscossi e lo seguii.
Lo
trovai in un luogo, un luogo che per la prima volta non mi sembrava
solo una stanza anonima avvolta dalla nebbia. Eravamo in un bagno.
Il
ragazzo era di fronte al lavandino, le mani tanto strette sulla
ceramica che le nocche erano bianchissime. E tremava. Dio, se
tremava.
E
i suoi occhi scuri, attraverso lo specchio, erano di nuovo su di me.
Inquieti, allarmati, terrorizzati.
“Ti
prego- sussurrò con voce tremante, una voce che sentivo
chiaramente
per la prima volta- Ti prego, lasciami in pace.”
A
quelle parole venni avvolta da un gelo che nemmeno credevo di essere
più in grado di provare, una nuova consapevolezza mi
colpì più
forte di un pugno nello stomaco.
Ero
io.
La
fonte di incubi, di inquietudine, di paura e disperazione.
Ero
io.
Spalancai
la bocca, cercando di balbettare delle scuse che probabilmente
nemmeno sarebbe stato in grado di sentire.
Ciò
che stava divorando dall'interno l'unico mio appiglio con la vita,
ero io.
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