Invisible ties

di JoJo
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Night after night ***
Capitolo 3: *** What I can see ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Il mio nome è Mackenzie Brown e questa non è la vita che dovrei avere.

In realtà non mi aspettavo nemmeno che le cose per me cambiassero così velocemente eppure, da un giorno all'altro, con la stessa facilità con cui una persona si sbarazzerebbe di una macchina vecchia e ammaccata in favore di una nuova appena uscita dal concessionario, il mio mondo si è ribaltato.

Non ricordo come sia potuto accadere, quello che so è che ricordo alla perfezione tutto quello che dovrei invece dimenticare.

Ricordo le serate spensierate passate a girare per strade piene di gente allegra e pronta a divertirsi.

Ricordo le interminabili cene in famiglia, e di come quando, da ragazzina, escogitassi piani di fuga sempre nuovi e rocamboleschi pur di evitare di essere vezzeggiata dalle zie più anziane durante il giro dei saluti a fine serata. Quanto non darei, ora, perché quelle mani rugose dal profumo di sapone strizzino con affetto le mie guance.

Ricordo ogni cosa, davvero, della vita che avevo e che dovrei avere ancora oggi: i miei genitori, i miei fratelli, gli amici, quei pochi ragazzi...Perfino il mio pesce rosso. Ed è proprio per il fatto che conservo queste memorie come cimeli preziosi nella mia mente che non riesco proprio a capacitarmi di come io abbia dimenticato il giorno in cui tutto questo mi è stato tolto.

Non lo ricordo, quel giorno maledetto, ma nella mia mente sono ben impresse tutte le emozioni che ho provato, come se me le avessero marchiate a fuoco.

Ricordo la sorpresa iniziale, che si è immediatamente trasformata in confusione. E poi l'inquietudine, la paura, il terrore e il dolore. Dio, il dolore. Dolore, dolore, dolore.

Se non fossi certa del contrario mi verrebbe da dire che quella è la sensazione che conosco meglio al mondo.

Ma non è così, anche se qualcuno ha voluto convincermene.

Il mio nome è Mackenzie Brown e questa non è la vita che dovrei avere.

Sono morta e voglio sapere il perché.

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Capitolo 2
*** Night after night ***


Mi svegliai di soprassalto, per l'ennesima notte di fila, e come al solito mi ritrovai seduto sul letto, i battiti accelerati del mio cuore che mi pompavano un ritmo frenetico nelle orecchie.
Mi passai una mano tremante sulla fronte, scostando così malamente i capelli che vi erano rimasti appiccicati a causa dello spesso strato di sudore freddo che me la imperlava.
Gli incubi stavano peggiorando.
O, perlomeno, supponevo fossero incubi.
La verità era che ogni volta, al mio risveglio, non riuscivo a ricordare nulla di quello che turbava il mio sonno, notte dopo notte. Tutto quello che mi rimaneva in mente era una sensazione di angoscia quasi palpabile e le scie ormai secche di lacrime che nemmeno ricordavo di avere versato.
Quindi, a rigor di logica, dovevano essere incubi.
Non era raro averne con un lavoro come il mio.
Quando mi ero confidato con Morgan a riguardo, il mio amico e collega aveva riferito quello che all'epoca pensavo fosse un sordido segreto a Gideon. Mi ero arrabbiato per quell'assoluta mancanza di rispetto per la mia privacy, ma il consiglio che mi era stato dato da colui che considero tutt'ora il mio mentore mi aveva aiutato parecchio.
Solo che, gli incubi non se ne erano mai andati del tutto. Tornavano di tanto in tanto, facendo capolino nel mio inconscio ad intervalli irregolari come gli incontri con un conoscente con cui bevi una tazza di caffè ogni tanto. Sapevo gestirli, quegli incubi. Ma questi...
Stava diventando sempre più difficile convincere JJ che i cerchi violacei sotto i miei occhi non erano affatto sintomo di niente di preoccupante, ma soltanto la somma di troppo lavoro e una carnagione eccessivamente chiara su occhi un po' infossati. Sfuggire al suo sguardo corrucciato, decisamente materno nella sua preoccupazione, era diventata la mia nuova missione quotidiana.
Così come rispondere evasivamente e senza sbilanciarmi troppo alle domande di Derek ed Emily. O come cercare di ignorare gli sguardi indagatori e carichi di sospetto di Rossi ed Hotch.
Esattamente come durante tutte le altre notti in cui quei demoni invisibili e maligni venivano a tormentarmi, abbandonai il mio letto e mi diressi in bagno. Non potei fare a meno si aggrapparmi alla fredda ceramica del lavabo con tutta la mia forza, quasi che quello fosse l'unico appiglio a tenermi in piedi a discapito della mia stanchezza. Ero esausto e, quando alzai gli occhi per scrutare la mia immagine riflessa, potevo capire perché i miei amici, la mia famiglia, fossero così preoccupati per me. I miei occhi scuri, infossati ed enormi, sembravano angosciati da qualcosa di terribile. E, mentre i giorni passavano e continuavo a non riuscire ad allontanare quella tremenda sensazione che mi torturava l'anima, capivo che non sarei riuscito ad andare avanti così.
Mi sciacquai il volto con dell'acqua ghiacciata e tornai a fissarmi negli occhi con determinazione: se riuscivo ad ingannare i miei colleghi, sarei stato in grado di farlo anche con me stesso.
Stavo bene, mi dissi in un sussurro, ripetendo quelle due parole come un mantra.
Stavo bene.


Era solo un'allucinazione. Niente di più.
Avevo dovuto far passare ben cinque minuti in cui la parte empatica del mio cervello continuava a cercare di formulare spiegazioni logiche a quello che avevo scorto con la coda dell'occhio poco prima.
Eravamo atterrati da poco dopo il volo da Charleston e io avevo ancora la tracolla sulle spalle quando vidi per la prima volta quella...cosa.
Non ero certo che fosse una persona, anche se la sagoma, scura e minacciosa, aveva di certo un che di antropomorfo.
La mia prima reazione era stata quella di far cadere la mia borsa da viaggio e di sbattere le palpebre ripetutamente, come se quel semplice gesto potesse cancellare in un sol colpo un'immagine che era, doveva essere, solo nella mia testa.
A discapito di ogni mio tentativo, però, l'ombra non se ne andò. Anzi, alla sua minaccia silenziosa si aggiunse una voce denigratoria, all'interno della mia testa, che mi informava che i geni di mia madre e la sua schizofrenia stavano iniziando a fare effetto.
Cercai di ignorare in tutti i modi entrambe quelle presenze inquietanti e se, dopo una dovuta opera di auto-rilassamento, le accuse che mi stavo facendo inconsciamente da solo si affievolirono, quella presenza non accennava ad andarsene.
Aspettai quanto più tempo potei, davvero, ma alla fine dovetti alzare lo sguardo per accertarmi che la mia allucinazione fosse davvero lì e, soprattutto, che cosa potesse mai rappresentare.
Deglutii rumorosamente, conscio di essere il solo ad essere ancora in ufficio, e mi voltai di scatto.
Fu in quel momento che la vidi per la prima volta.
Non era un'ombra, era una donna. Una ragazza, forse.
Non riuscivo a distinguerne i tratti del volto, troppo mascherati da una zazzera di arruffati capelli rosso fuoco che le ricadevano sulla fronte e sugli occhi e da uno spesso strato di una sostanza vermiglia che sembrava decisamente sangue, ma di certo doveva essere umana. La scrutai con occhi indagatori, ipnotizzato da quell'immagine terribile, e quando riuscii a scuotermi dallo stupore per quella visione capii perché di primo acchito mi era sembrata un'ombra.
Era scura. Sporca.
Non capii se fosse terra, fuliggine o che altro, ma sapevo che non avrebbe dovuto essere così sporca.
E poi, grondandogli addosso come l'acqua da un lavandino rotto, gocce vermiglie le si allargavano sui vestiti sudici, lungo le braccia mortalmente pallide, fin sotto i piedi nudi e feriti.
Me ne stavo lì, a bocca aperta, a cercare di dare un significato a quell'incubo divenuto realtà, quando la testa si alzò con un movimento secco.
Corsi via, più velocemente che potei, sperando di riuscire ad arrivare ai bagni maschili prima che il conato di vomito avesse la meglio su di me. Mi gettai nel primo cubicolo libero che trovai e, mentre dicevo addio per sempre al mio pranzo, la mia mente continuava a rievocare un paio di occhi lividi e iniettati di sangue.

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Capitolo 3
*** What I can see ***


Riuscivo a vederlo.
In un altro momento non mi avrebbe fatto alcun effetto incontrare un ragazzo allampanato, con delle occhiaie troppo pronunciate e occhi tanto grandi quanto inquieti. In un altro momento, un incontro del genere sarebbe stato insignificante nella sua casualità.
Ma allora, dopo essere rimasta sospesa in un mondo fatto di ombre, di spettri scuri talmente effimeri da non darmi nemmeno la possibilità di cercare di riconoscere facce e identità, quell'unico ragazzo dall'aria spaventata mi sembrava straordinario, meraviglioso.
Guardalo era diventata la mia attività preferita. Non capivo cosa facesse tutto il giorno, che tipo di lavoro facesse, chi fossero le altre ombre che erano insieme a lui, o quale fosse il vero significato dietro alle sue parole che mi arrivavano ovattate e veloci alle orecchie. Fissarlo, semplicemente, era diventata la mia attività preferita.
Ho cominciato a seguirlo.
Dovevo farlo. Ho capito immediatamente che lui sarebbe diventato il mio unico appiglio a quel mondo in cui anche io una volta, quanto tempo fa?, ero solita camminare, ridere, pensare. Vivere.
In poco tempo lui divenne il centro del mio mondo. Non lo lasciavo mai, non ne sarei stata in grado.
Che cosa sarebbe successo se, dopo aver cominciato a vagare di nuovo fra le ombre, non fossi più riuscita a trovarlo?
Sarebbe stato come morire. Di nuovo. E farlo per una volta era già stato più che sufficiente.
Così decisi di rimanere con lui sempre. Anche se non riuscivo a parlargli, anche se non era in grado di vedermi e non si rendeva nemmeno conto della mia presenza, la sua silenziosa compagnia era diventata la mia unica fonte di gioia.
Ne ero assuefatta: dove andava lui, andavo io.
Quando ero in vita sono sempre stata una persona indipendente. Nemmeno quando ero piccola cercavo rifugio fra le braccia accoglienti di mia madre, e quando sono stata abbastanza grande da frequentare l'asilo e le elementari le maestre per me non erano altro che degli aiuti esterni per compiti che, sapevo, con impegno sarei riuscita a compiere da sola.
Mio padre era sempre stato fiero della mia autonomia, soprattutto quando sono diventata più grande.
Per lui, il fatto che avessi sempre usato la mia testa, spesso andando anche contro al buon senso, era fonte di orgoglio, soprattutto quando si confrontava con altri padri alle prese invece con figlie che vivevano in simbiosi con amiche o fidanzati.
Ho sempre camminato da sola.
Finora.
Seguendo il giovane nella sua vita di tutti i giorni mi fece rendere conto che in lui c'era molto di più di quanto si potesse osservare dall'esterno.
Era speciale. E non soltanto perché era l'unica persona che fossi in grado di vedere in un mondo fatto di sagome sfuocate.
Aveva grandi occhi scuri, espressivi ed innocenti. Sarà stato forse a causa della sua magrezza, quasi eccessiva, che faceva risaltare così tanto le iridi scure sulla pelle color latte, ma per i primi tempi non riuscivo a far altro che osservare il suo sguardo.
Avevo imparato ogni sua espressione, ero capace di leggere ogni emozione che scintillava sul volto di quel ragazzo.
Fu così che iniziai a notare il cambiamento.
Dapprima era una lieve colorazione più scura sulle sue onnipresenti occhiaie.
Poi furono le sue guance ad essere più scavate e gli occhi più infossati.
Alla fine l'espressione inquieta e quasi disperata che mi preoccupava così tanto non lo abbandonò più.
Il tempo che prima passavo a studiarlo diventò il tempo che impiegavo a vegliare su di lui senza sosta. Lo vedevo mentre si svegliava tormentato dagli incubi, mentre sorrideva senza però farlo davvero, mentre si trascinava qua e là come un fantasma.
Un giorno poi, non seppi mai che ora della giornata fosse, mi ritrovai sola con lui. Immaginai che ci trovassimo al suo posto di lavoro, ma le ombre che di solito lo affollavano e si muovevano intorno a lui erano sparite.
Non so esattamente quando accadde, quando quella straordinaria rivelazione prese forma nella mia testa.
Quello che so è che un momento prima stavo in piedi davanti a lui, fissando per terra come se potessi trovare nel suolo una risposta di qualche tipo ai problemi della mia unica ragione di vita, e il momento dopo venni letteralmente invasa da una sensazione del tutto nuova, come uno strano formicolio, un campanello d'allarme che mi costrinse immediatamente a reagire, a cosa ancora non lo sapevo.
Alzai la testa di scatto e mi accorsi che lui, quel giovane dagli occhi gentili e inquieti, quel ragazzo da cui non riuscivo a separarmi, lui, senza ombra di dubbio, stava fissando me.
Rimasi impalata sul posto, incapace di reagire.
Lui. Mi. Vedeva.
La mia mente registrò diversi minuti dopo che se ne era andato via di corsa, così mi riscossi e lo seguii.
Lo trovai in un luogo, un luogo che per la prima volta non mi sembrava solo una stanza anonima avvolta dalla nebbia. Eravamo in un bagno.
Il ragazzo era di fronte al lavandino, le mani tanto strette sulla ceramica che le nocche erano bianchissime. E tremava. Dio, se tremava.
E i suoi occhi scuri, attraverso lo specchio, erano di nuovo su di me. Inquieti, allarmati, terrorizzati.

Ti prego- sussurrò con voce tremante, una voce che sentivo chiaramente per la prima volta- Ti prego, lasciami in pace.”
A quelle parole venni avvolta da un gelo che nemmeno credevo di essere più in grado di provare, una nuova consapevolezza mi colpì più forte di un pugno nello stomaco.
Ero io.
La fonte di incubi, di inquietudine, di paura e disperazione.
Ero io.
Spalancai la bocca, cercando di balbettare delle scuse che probabilmente nemmeno sarebbe stato in grado di sentire.
Ciò che stava divorando dall'interno l'unico mio appiglio con la vita, ero io.


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