Il Profeta

di Bale
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sguardi ***
Capitolo 2: *** Incantesimo ***
Capitolo 3: *** Colazione ***
Capitolo 4: *** Ritorno ***
Capitolo 5: *** Vino ***
Capitolo 6: *** Il Cappello ***
Capitolo 7: *** Amica mia ***
Capitolo 8: *** Serata tra Donne ***
Capitolo 9: *** Una grande donna ***
Capitolo 10: *** Amore ***
Capitolo 11: *** Insubordinazione ***
Capitolo 12: *** Regole ***
Capitolo 13: *** La Scelta ***
Capitolo 14: *** Pioggia ***
Capitolo 15: *** Luce ***



Capitolo 1
*** Sguardi ***



Lo chiamavano Il Profeta.

Un sorriso storto, due occhi intensi e profondi.

Mi stava fissando, me ne accorsi dopo diversi minuti.

Sorseggiava la sua birra e mi scrutava spudoratamente. Non era uno sguardo curioso né indagatore.

Era come se stesse cercando di dirmi qualcosa.

Presi la mia birra e feci un cenno verso di lui, come per brindare.

Lui rispose sorridendo, poi bevemmo.

Continuava a fissarmi, mi faceva sentire un po’ a disagio.

Rossi e Reid, accanto a lui, discutevano animatamente sul penitenziario di San Quintino.

Lui, di tanto in tanto, partecipava alla conversazioni con frasi vaghe.

Continuava a fissarmi.

Decisi di andare verso di lui. Vidi i suoi occhi illuminarsi.

Si aspettava una mia parola, un mio gesto.

Decisi, invece, di fare la diva.

Gli passai accanto sfiorandogli un fianco.

Lasciai la mia bottiglia vuota sulla scrivania alle sue spalle e uscii dall’ufficio.

Lui finì con calma la sua birra, poi mi seguì.



Era un bell’uomo, il Profeta. Alto, atletico, prestante.

Nonostante la leggera stempiatura, era un uomo molto affascinante.

I suoi occhi erano come calamite, non potevi fare a meno di ricambiare ogni suo sguardo.

Il suo sorriso era dolce e piacevole come una brezza fresca in una mattina d’estate.



Non ci parlammo, non ce n’era bisogno.

Siamo dei profiler, riusciamo a captare anche le parole taciute.

Gli afferrai la mano con decisione e lo portai via con me.



Mi sentivo stranamente irrequieta.

Le mani mi tremavano, la bocca era asciutta, la gola secca.

Lui, seduto accanto a me nel SUV, sembrava invece del tutto tranquillo.

Teneva le mani salde sulle sue ginocchia e lo sguardo dritto davanti a sé.

Soltanto di tanto in tanto si voltava a guardarmi con i suoi occhi intriganti.

Sorrideva. Era un sorriso tranquillo, pacifico.



Io, invece, mi sentivo una scolaretta.

Il suo sguardo mi pesava addosso, ma allo stesso tempo mi faceva sentire al sicuro.

Sapevo che ciò che stavo facendo era giusto.

Sapevo che non avrei rimpianto nulla, sapevo che non mi sarei pentita di quella serata.



Parcheggiai poco lontano dall’entrata dell’albergo.

Gli presi ancora una volta la mano e lo condussi in camera mia.

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Capitolo 2
*** Incantesimo ***



Mi chiusi la porta alle spalle, poi gli lasciai la mano.

Volevo che fosse lui a condurre quel ballo tanto folle.

Mi sorrise. In realtà quel sorriso gentile non si era mai allontanato dal suo viso.

Si avvicinò lentamente, mi posò le mani sui fianchi.

Sentivo l’odore di birra del suo alito, sentivo il suo respiro sul volto.

Eravamo talmente vicini da sentire i nostri odori, da riscaldarci con le nostre emozioni.

Respirava tranquillamente, mi guardava con desiderio.

Sentii un brivido attraversarmi la schiena. Ero nervosa, agitata.

Lui, invece, continuava a guardarmi con quel sorriso storto stampato sul volto.

Riuscì a rassicurarmi senza dire una parola. All’improvviso mi sentii leggera, tranquilla.

Con un gesto lento e delicato mi sciolse i capelli.

La mia chioma bruna mi ricadde sulle spalle rilasciando un dolce profumo di miele.

Annusò i miei capelli avvicinandosi ancora e socchiudendo gli occhi; poi, finalmente, parlò.

-Sei così bella-

Il suo sguardo cambiò all’improvviso, diventò irresistibile.

Fu allora che lo baciai.

Il primo fu un bacio timido, delicato; poi, avvicinandoci al letto, ci scambiammo un bacio passionale, ardente.

Gli sfilai la camicia, poi la t-shirt.

Lui fece lo stesso con la mia camicetta.

Il suo petto era liscio e delicato, i suoi addominali parevano scolpiti nel marmo bianco.

Per un attimo tremò di freddo, poi si lanciò in un nuovo bacio.

Mi sfilò i jeans, poi sfilò i suoi.

In un attimo ci ritrovammo nudi, infreddoliti ed eccitati, stesi sul letto di quella sperduta camera d’albergo.

Facemmo l’amore come non l’avevo mai fatto prima.

Fu delicato e romantico, ma allo stesso tempo appassionato ed infuocato.

I desideri di entrambi si fusero in uno solo, i nostri corpi si unirono in un magico incantesimo.

Sentivo il suo respiro farsi più rapido, percepivo i suoi occhi scrutarmi nell’oscurità.

Le sue labbra erano morbide e delicate, le sue mani leggere e vellutate.

Assecondai i suoi movimenti, lasciai che il calore del suo corpo invadesse anche il mio, lasciai che il piacere affannasse il mio respiro.

Concludemmo quella danza con un gemito simultaneo.

Lui serrò gli occhi per un istante, io rimasi a guardarlo.

Scivolò lentamente al mio fianco e riprese a fissarmi.

Mi sentii al sicuro.

In quel momento non c’era niente che poteva farmi paura.

Sorrisi e gli posai una mano sul petto.

Ero felice.

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Capitolo 3
*** Colazione ***



Non furono i raggi del sole a svegliarmi.

Non fu neanche la sveglia.

Fu il suo sguardo.

Me lo sentivo addosso come una brezza leggera.

Aprii gli occhi e lo trovai lì accanto a me, nella stessa posizione della sera prima; con lo stesso sguardo, lo stesso sorriso.

-Ho una gran fame!-

Non attese risposta.

Afferrò la cornetta del telefono ed ordinò la colazione, poi andò in bagno.

Lo guardai allontanarsi.

Era nudo.

Era bellissimo.

Tornò dopo pochi minuti in accappatoio.

Profumava di vaniglia.

-Ho usato il tuo bagnoschiuma-   annunciò.

Sorrisi e mi alzai a mia volta.

Lasciai che l’acqua della doccia scrosciasse sui miei pensieri, sulle mie emozioni.

Ero felice, ma inquieta. Avevo un brutto presentimento.

Le cose belle, per me, non erano mai durate a lungo.



Uscii dal bagno avvolta in un asciugamano e lo trovai seduto sul letto con una rivista tra le mani.

Sembrava un uomo come tanti in una sala d’attesa qualunque.

Attendeva me, attendeva la colazione.

Bevemmo caffè e divorammo toast.

Ci guardammo, ma non ci parlammo.

Era strano.

Ero sull’attenti.

Sapevo che ben presto sarebbe successo qualcosa che avrebbe rovinato tutto.

-Cos’hai?-  mi chiese, dopo una lunga sorsata di caffè.

-Sto bene-

-Ho fatto qualcosa di sbagliato?-

Mi sembrò incredibilmente tenero ed indifeso.

Mi avvicinai a lui e gli fasciai il volto con le mani.

-Sono stata benissimo-  sussurrai.

-Allora cosa c’è che non va?-

Chinai il capo e lo lasciai andare. Ero a disagio.

-Hai già una fidanzata, vero?-

Rimase del tutto stupito da quella domanda.

-O una moglie…-   continuai.

-No! Che cosa…?-

-Avevi un profilattico nel portafogli!-

-Mi stai facendo il profilo?-   mi chiese indignato.

Chinai lo sguardo. Tacqui.

-Da quando sono uscito di prigione non ho mai toccato una donna. Volevo farlo, lo desideravo con tutto me stesso.-

Chinò lo sguardo anche lui, il sorriso gli si spense in volto.

-Provai prima con una prostituta, ma proprio non ce la feci. So che sembra orribile, ma ne avevo bisogno. Dopo tutti quegli anni di solitudine, necessitavo di calore umano. Avevo bisogno di una donna, ma mi serviva una donna vera.-

Iniziai a capire di essere stata terribilmente ingiusta, ma non ebbi la forza di fermare il suo racconto.

Dovevo sapere.

-Iniziai, quindi, a frequentare dei locali notturni, quelli in cui si va per rimorchiare. Non ce l’ho fatta nemmeno così-

Alzò lo sguardo. I suoi occhi nei miei.

Mi sentii nuda, spogliata di ogni dignità. Avevo fatto un errore madornale.

-E’ per questo che ho un profilattico nel portafogli. Ho cercato disperatamente una donna, ma l’ho trovata solo ora. Non fraintendermi, io non volevo solo sesso. Tu mi piaci sul serio. Sei bella, sei…-

Mi avvicinai e, posandogli un dito sulle labbra, lo zittii.

-Mi dispiace-   riuscii soltanto a dire.

-Non devi-

Mi baciò.

Fu un bacio breve ma intenso ed io capii che quello era il mio momento e che non sarebbe finito finché non lo avessi deciso io.

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Capitolo 4
*** Ritorno ***



Il cielo era scuro, il vento soffiava forte.

Erano passate due settimane da quella splendida mattinata di sole.

Svegliarmi accanto a quell’uomo era stata una sorta di trionfo, un riscatto.

Ero riuscita a dimostrare a me stessa che la vita può essere bella anche per me.

Anzi, era stato lui a dimostrarmelo.

Dopo quasi quindici giorni, invece, mi sentivo di nuovo sprofondata nell’abisso.

Non una visita inaspettata, nemmeno una telefonata.

Forse aveva avuto da fare, forse era successo qualcosa.

O forse, semplicemente, non aveva nessuna voglia di rivedermi.

Ma com’era possibile?

Ero stata così bene, era stato tutto così perfetto. Forse anche troppo.

Probabilmente la mia prima sensazione era stata esatta: gli attimi piacevoli non duravano a lungo per Emily Prentiss.

-Sei ancora qui?-

Reid mi arrivò alle spalle facendomi sussultare.

-Ho appena finito il rapporto-   risposi semplicemente.

-Anch’io-   annunciò soddisfatto come uno scolaretto con il suo compito di scienze.

-Lascialo pure qui allora, li consegnerò io ad Hotch-

-Ok, grazie-

Sorrise e mi salutò con un cenno della mano.

Sparì nell’ascensore, lasciandomi definitivamente sola.

Ritornai sul mio lavoro per controllare che fosse tutto esatto e, mentre ero tutta intenta a correggere un errore, sentii la mano di qualcuno accarezzarmi una spalla.

Era un tocco caldo e deciso.

Mi voltai, sicura di ritrovarmi di nuovo Reid tra i piedi. Doveva sicuramente aver dimenticato qualcosa.

Mi sbagliavo.

Era lui, era Il Profeta.

Mi scrutava dall’alto con quei suoi occhi magnetici, mi sorrideva soddisfatto.

-Che ci fai qui?-

-Sono venuto a prenderti-

Lo guardai con espressione interrogativa.

Mi ero convinta che la nostra storia fosse giunta al termine prima ancora di cominciare, invece lui era tornato. Era lì, in piedi davanti a me, con quell’espressione irresistibile sul volto.

-Dove mi porti?-

-C’è una cosa che devi sapere di me!-

Nonostante la sua espressione calma e pacifica, iniziai a preoccuparmi.

Cosa doveva dirmi? Avevo avuto ragione? Quel bel momento stava per essere rovinato irrimediabilmente da qualche scioccante notizia sul suo conto?

Parve percepire la mia inquietudine ed allargò, per quanto possibile, quel sorriso tanto affascinante.

Attese che consegnassi ad Hotch i rapporti, poi mi accompagnò nel parcheggio.

Mi aprì lo sportello e lo richiuse dopo essersi assicurato che fossi salita a bordo.

In macchina rimanemmo in silenzio.

L’aria era pesante, o almeno lo era per me.

Lui sembrava tranquillo come al solito, ma a me non trasmise alcuna calma.

Cosa doveva dirmi?

Desideravo mangiarmi le unghie, ma resistetti.

Non dovevo sembrare preoccupata.

Eppure quel breve viaggio fu un’agonia per me.

Pochi minuti parvero durare secoli.

-Eccoci qua-   annunciò, parcheggiando davanti ad un maestoso portone di legno.

Lo guardai confusa.

-E’ casa mia!-   disse per rassicurarmi.

Mi tolsi la cintura e scesi dall’auto.

Lasciai che mi conducesse in quell’appartamento tanto ordinato.

-Quello che devi sapere di me è che sono un ottimo cuoco e che stasera mi diletterò a cucinare per te-

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Capitolo 5
*** Vino ***



Il profumo che riempiva la cucina era delizioso.

-Cucina italiana?-

Rispose con un sorriso, mentre chiudeva il forno.

Si tolse il guanto variopinto e mi versò del vino.

-Dobbiamo festeggiare-   disse porgendomi il calice.

-Cosa c’è da festeggiare?-   chiesi prendendo un sorso.

Non sono mai stata una grande esperta di vini.

Non ne bevevo quasi mai; quelle poche volte che lo avevo fatto era stato solo per darmi un tono.

Il vino è da persone di classe, un calice ben saldo tra le dita ti fa sembrare una donna sofisticata.

-Questo viene direttamente dall’Italia. Ho degli amici laggiù-

Prese un sorso anche lui.

-Ti piace?-   chiese poi.

Ci pensai su prima di rispondere.

Il vino era molto buono, mi faceva pensare a lui.

Era frizzante, ma allo stesso tempo dolce. Il sapore era delicato, ma le bollicine lo rendevano intenso.

Proprio come il Profeta: fine e delicato da un lato, forte e robusto dall’altro.

-Buono-

Un altro sorso per me, un altro anche per lui.

-Non hai risposto alla mia domanda-

-Vuoi sapere cosa festeggiamo?-

Annuii.

-Non sono più un Agente in prova. Hai davanti a te l’Agente Speciale Effettivo, Jonathan ‘Profeta’ Simms-

-Dici sul serio?-

-Già!-

Prese il calice e lo avvicinò al mio. Brindammo e bevemmo come se fosse Capodanno.

-Ci voleva lo champagne allora!-

-Magari dopo brindiamo anche con quello-

Mi fece l’occhiolino.

Era così bello il mio Agente Speciale Effettivo.



Mangiammo delle lasagne squisite, bevemmo quel vino tanto delizioso.

Fu una serata perfetta.

Dopo cena accese delle candele profumate, poi ci sedemmo sul divano.

Io mi accoccolai tra le sue braccia come una gatta che fa le fusa, lui mi accolse sul suo petto come un uomo bisognoso d’amore.

-Non è facile essere un detenuto-

-Ex!-

-Cosa…?-

-Sei un ex detenuto!-

-Già, è vero!-

-Non credevi che questo giorno sarebbe mai arrivato, non è così?-

-E’ proprio così!-

-Devi essere orgoglioso di te stesso. Hai dimostrato al mondo che ci si può riscattare per gli errori passati. Hai dimostrato che si può essere presi in considerazione solo e soltanto per quello che si è veramente, e non per gli sbagli commessi o per il passato che si ha alle spalle. Sono orgogliosa di te-

Mi sollevai leggermente e lo baciai.

-Sei tu che mi hai insegnato ad avere coraggio-

-Io…?-

-Sì, tu! Hai avuto fiducia in me fin da subito. Mi hai portato nella tua camera d’albergo e hai fatto l’amore con me nonostante sapessi ciò che ero stato-

-Hai detto bene: ciò che eri stato. Forse sono stata imprudente lo stesso ad andare a letto con un uomo di cui sapevo ben poco…-

-E quel poco che sapevi non era di certo rassicurante!-

Sorrise solo da un lato.

Quel suo sorriso storto fece sorridere anche me.

-Mi sono fidata del mio istinto-

-E te ne sei pentita?-

-Nemmeno per un secondo!-

Ci fu una lunga pausa, un silenzio denso d’emozione.



-Mi dispiace-   disse infine.

-Di cosa?-

Mi alzai definitivamente e mi spostai accanto a lui.

Volevo vederlo in viso, volevo che i miei occhi fossero catturati dai suoi.

-Non mi sono fatto vivo in queste due settimane e mi dispiace tanto. Volevo farlo, volevo chiamarti per sentire la tua voce o venire a casa tua per vedere il tuo viso, ma ho avuto paura-

-Paura di cosa?-

-Di me stesso! Sono un ex detenuto!-

Chinò lo sguardo e sospirò.

Presi il suo viso tra le mani e riportai i suoi occhi nei miei.

-Quando sono stato ammesso all’FBI come Agente Effettivo ho capito che per me c’era un’altra possibilità e soprattutto ho capito che tu te ne eri resa conto ancora prima di me. Se non lo avessi creduto non avresti fatto l’amore con me, non mi avresti dato quella fiducia-

-Te la sei meritata, tutto qui-

-Ma non ho fatto niente-

-Hai fatto tanto! A volte si fanno le cose senza volerlo, senza muovere un muscolo; ma ci sono persone in grado di comprenderle comunque-

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Capitolo 6
*** Il Cappello ***



-Cos’è quello?-

-Cosa?-

-Quello che hai in testa-

-Si chiama cappello-



Morgan iniziava ad insospettirsi.

In quei giorni mi aveva chiesto più volte il motivo della mia allegria.

Sospettava la presenza di un uomo nella mia vita ed era arrivato addirittura a chiedermene il nome.

Quel giorno avevo messo il suo cappello per provocarlo, per tormentarlo.

-Di solito vesti elegante-

-E allora?-

-E allora?! Oggi indossi un berretto da baseball!-

-Ed è anche da uomo!-    aggiunse Reid entrando.

-E allora?-   ribadii.

-C’è un uomo!-   affermò Reid con assoluta certezza.

-Questo lo avevamo già appurato da un po’, genio!-

-Volete smetterla di fare i bambini?-



-Io credo sia un tipo sportivo, a giudicare dal berretto-

Rossi fece il suo ingresso in Sala Riunioni e si unì subito alla conversazione.

-La smettete di farmi il profilo?-   chiesi divertita.

-Chi potrebbe essere?-   chiese Reid rivolto a Rossi.

-Non lo so, ma a San Francisco c’era qualcuno che non riusciva a staccarle gli occhi di dosso!-

Rossi stava imboccando la strada giusta. Temetti davvero di essere scoperta.

-Chi?-   chiese Morgan avido di sapere.

-Ma certo! Il cecchino!-   esclamò Reid trionfante.

-Il cecchino?-   Morgan era sempre più confuso.

-L’agente Rawson. L’inglese!-   precisò Reid esasperato.

Era incredibile. Ero stata a un passo dall’essere scoperta e invece l’avevo scampata.

Lavoravo con alcune delle menti più brillanti del mondo e non erano riuscite a capire chi fosse l’uomo misterioso che era entrato nella mia vita.

Sorrisi divertita e li lasciai alle loro assurde congetture.

Eppure a me sembrava così semplice.

Possibile che, quella sera a San Francisco, non si fossero accorti che ero andata via con l’agente Simms?

Eravamo spariti entrambi nel bel mezzo della serata, eppure i migliori profiler dell’FBI non lo avevano notato.

Chissà se i colleghi di Jonathan se ne erano accorti.

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Capitolo 7
*** Amica mia ***



Non ho mai avuto un’amica, una di quelle vere, una di quelle che ascoltano in silenzio ciò che hai da dire.

Eppure, in quel momento, sentivo il bisogno di parlare con qualcuno e soprattutto di ricevere quelle attenzioni e quelle premure che solo una vera amica sa darti.

Bussai alla porta mentre un brivido mi attraversava la schiena.

Iniziai a sentirmi agitata, inquieta. Le gambe tremavano, il cuore batteva forte.

Dall’interno ricevetti il permesso di entrare.

-Oh ciao-   mi salutò Garcia, lanciandomi un’occhiata distratta.

-Sei impegnata?-

-No no, entra pure-

Mi accomodai sulla poltrona girevole alle sue spalle e presi una caramella senza aspettare che fosse lei ad offrirmela.  E’ così che si fa tra amici, non è vero?

-Tutto bene? C’è un nuovo caso? Hai bisogno di qualcosa?-

-No no no-   mi affrettai a rispondere   -Sono solo venuta a fare due chiacchiere-

Sorrisi per nascondere la mia tensione.

-Oh, davvero? Che bello! Sai, in questo squallido e buio ufficio nelle viscere della terra, mi capita di rado di fare due chiacchiere con qualcuno-

Ridemmo entrambe.

-Sai, di solito questo posto lo frequentiamo soltanto io e Penelope Garcia-

Ridemmo di nuovo.

Cominciai a sentirmi a mio agio. Penelope era davvero una di quelle persone che riesce a farti sentire subito a posto. Era davvero difficile sentirsi in imbarazzo in sua presenza. Era capace di tranquillizzarti anche se c’era un maniaco omicida che ti inseguiva brandendo un coltello da macellaio.

-So che hai iniziato a collaborare con la squadra di Sam Cooper-

Interruppi le risate e decisi di andare dritta al punto.

-Già, ma la mia vera famiglia sarete sempre e solo voi!-

-Come va con loro?-

-Con la mia famiglia adottiva? Beh, sono molto carini. L’altra sera mi hanno anche offerto da bere-

-Ma…?-

-Non c’è un ma-

-Sembrava ci fosse…-

-Beh, diciamo solo che ancora non riconoscono la maestosità e la superiorità della loro imperatrice-

Ridemmo ancora, poi riprese:

-No, scherzi a parte, mi trovo molto bene con loro. Non c’è la confidenza e l’affetto che si è creato con voi, ma i presupposti ci sono-

Prese una caramella anche lei.

-Sono brave persone e sono anche degli agenti davvero in gamba-   aggiunsi, tanto per parlare.

-Gia. Voi li avete conosciuti a San Francisco, no? Ah, ho anche saputo che Mick ci ha provato spudoratamente con te!-

-Non è vero!-   risposi indignata, come una bambina di cinque anni.

-Io credo proprio di sì invece! E’ un vero playboy quello lì-

-In realtà…-

Dovevo farmi coraggio. Ero andata lì per parlare un po’ di me e della mia vita e non c’era altra persona al mondo in grado di potermi comprendere e ascoltare.

-Che ne pensi del Profeta?-

-Ti piace?-   chiese subito, in modo diretto e schietto.

-A dire il vero ho una storia con lui-

Penelope quasi trasalì. Rimase a bocca aperta per diversi istanti, poi riuscì a recuperare la parola.

-Davvero? Oh Mio Dio!-

-E’ un’esclamazione positiva o negativa?-   chiesi confusa.

-Positiva! Decisamente positiva! Quel tipo è tanto carino! Sai, Mi chiama P.-

-E’ carino sul serio-   risposi io con occhi sognanti.

In quel momento Hotch irruppe nell’ufficio.

-Abbiamo un caso-   comunicò con voce metallica.

-Ascolta-   mi disse Penelope abbassando la voce  -Voglio sapere tutto…e quando dico tutto, intendo proprio tutto! Non appena sarai di ritorno, mi prenoto per un drink con te-

-Molto volentieri- risposi alzandomi dalla poltrona.

Mi sentivo leggera e sollevata, quasi felice.

Avevo trovato un’amica.

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Capitolo 8
*** Serata tra Donne ***



Decisi di accontentare Penelope, ma soprattutto decisi di accontentare me stessa.

Le diedi appuntamento in un bel locale in centro.

La attesi seduta al bancone.

Arrivò in ritardo, tutta trafelata, blaterando mille scuse.

Mi faceva sorridere Penelope.

A volte mi sembrava un cartone animato, altre volte un dolce peluche.

Mi piaceva pensare che fosse entrata nella squadra per ricordare a tutti noi che il mondo può essere anche bello.

Era sempre lì, con i suoi colori, le sue battute, i suoi modi da bambina mai cresciuta; era sempre lì con una mano tesa verso chiunque volesse afferrarla, sempre pronta a donare un sorriso a chi ne aveva bisogno.

-Stai bene?-    le chiesi, più divertita che preoccupata.

-Un drink mi tirerà su-

Fece la sua ordinazione e si sfilò lentamente il cappotto beige.

Posò la borsa sullo sgabello accanto al suo, poi prese quello al mio fianco.

-Non trovavo parcheggio-    si giustificò ancora.

-Tranquilla-    la rassicurai sorridendo.

Attese il suo drink, prese un sorso e poi si voltò verso di me come in attesa di qualcosa.

-Cosa c’è?-

-Tu sai perché siamo qui, vero? Beh, allora parla!-

Le raccontai di Jonathan, del mio Jonathan.

Inclusi particolari che non avrei mai creduto di essere in grado di raccontare a qualcuno.

Le spiegai cosa significava per me fare l’amore con lui, le dissi che stavo vivendo sensazioni mai provate prima.

-E lui com’è?-   mi chiese.

Sembrava realmente interessata. Per la prima volta, nella mia vita, parlavo con piacere. Essere ascoltati è la cosa più bella del mondo, ma purtroppo è anche la più difficile da trovare.

-Lui è molto premuroso, amorevole. Cucina per me, mi manda i fiori-

-Oh mio Dio! Allora erano per te quelle favolose rose rosse che ho visto passare l’altro giorno in ufficio!-

-Me le ha mandate dopo una splendida notte di fuoco-

Presi un altro sorso, mi nascosi per un attimo dietro il mio drink.

-Allora non è soltanto premuroso, carino e pappamolle? Sa essere anche un vero macho?-

-Direi proprio di sì-

-Beh, dopotutto è stato in prigione e lì non ci finisci se sei soltanto carino e dolce-

Non era una critica né un avvertimento. Era solo una battuta ed io risi di gusto.

-A proposito, se non ti dispiace, gli ho chiesto di raggiungerci qui più tardi-

-Davvero?-

Sembrava emozionata come una bambina alla quale prometti di comprare un giocattolo se se ne starà zitta e buona.

-Sì-   risposi

Ero leggermente confusa da quell’entusiasmo apparentemente ingiustificato.

-Non vedo l’ora di vedervi insieme, l’uno affianco all’altra-

I suoi occhi erano sognanti, le sue mani giunte in un gesto estasiato.

Garcia era decisamente e perdutamente innamorata dell’amore.



Chiacchierammo del più e del meno, di Jonathan e di Morgan, di lavoro e di maglia.

Era così piacevole stare lì con lei.

Mi sentivo vera, mi sentivo viva, mi sentivo me stessa.

Con Jonathan, con Penelope e con il mio gattino Sergio accanto, non sarei stata mai più sola.

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Capitolo 9
*** Una grande donna ***



Jonathan ci raggiunse in tarda serata.

Arrivò di corsa, trafelato anche lui. Ci spiegò che era rientrato da poco dall’Arizona.

-E’ in momenti come questi che amo il mio lavoro sedentario!-   commentò Garcia divertita.

Mi baciò sulla fronte, poi si lasciò scivolare sullo sgabello accanto a me.

-Cosa ordino?-

-Io ti consiglio un bel caffè. Hai l’aria di uno che sta per addormentarsi-

Ridemmo insieme. Eravamo un bel trio.

-Sapete, quella da cui sono tornato non era proprio una gita di piacere-

-Ah davvero?-

Decise di ordinare uno scotch.

Non lo avrei mai detto.

Non sembrava un tipo da scotch come David Rossi, era più un tipo da noccioline e aperitivo analcolico come Spencer Reid, o al massimo da birra come Derek Morgan.

-Che si dice di bello in Arizona?-

-Dovresti saperlo, P-

-Ah già, gran bel caso. Divertente, direi-

Jonathan sorrise e si voltò a guardarmi.

Era visibilmente stanco, ma sembrava divertirsi.

I suoi occhi mi parlavano d’amore.

-E tu dove sei stata di bello?-

-Io? Oh, io ho deciso di concedermi una bella crociera-   scherzai.

Ridemmo e scherzammo ancora, fino a quando Jonathan non ebbe finito il suo scotch.

Pochi minuti dopo mezzanotte decidemmo di ritornarcene a casa.

-Abbiamo una certa età ormai, non siamo più i tipi da ore piccole-   scherzò Garcia.

-Tu vieni a casa con me?-   mi chiese Jonathan, senza attendere che Penelope si allontanasse.

Annuii. Non vedevo l’ora di addormentarmi accanto a lui, nel suo letto, tra le sue braccia.

Garcia mi diede una pacca sulla spalla.

-Oh, mi sa che voi due le ore piccole le farete eccome-

Ci fece l’occhiolino e sparì nella nebbia.

-E’ una grande donna-   commentò Jonathan, guardandola dissolversi nell’oscurità di quella fresca serata di settembre.

-E’ la mia migliore amica!-   conclusi con orgoglio.

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Capitolo 10
*** Amore ***



I nostri corpi nudi, l’uno sull’altro, l’uno dentro l’altro, nascosti nel buio.

Jonathan si muoveva su di me con delicatezza. Le sue mani sulla mia pelle, il suo viso affondato tra i miei seni, le labbra schiuse in un bacio anomalo.

Vedevo il suo corpo muoversi, sentivo il suo respiro accelerare.

Ad ogni affondo emettevo un gemito, ad ogni gemito il ritmo si faceva più intenso.

Il suo calore invase il mio corpo, il piacere si impadronì dei miei sensi.

Sentivo gemere anche lui, percepivo il suo godimento.

Il ritmo era sempre più rapido, i nostri corpi sempre più infuocati.

I respiri acceleravano, i gemiti aumentavano.

Sentii le sue labbra stringersi sui miei seni, mentre le sue mani risalivano i miei fianchi.

Un brivido mi attraversò la schiena, una dolce sensazione mi riempì lo stomaco.

Presi ad accarezzargli la nuca, mentre le mie cosce si stringevano attorno ai suoi fianchi.

Quello splendido momento stava per concludersi.

Sentivo il piacere avanzare, il calore farsi sempre più intenso.

Lasciai che un sospiro volasse via tra le mie labbra, mentre un fremito scuoteva i miei arti.

Anche lui sospirò e mi baciò dolcemente il collo.

Le sue labbra erano ancora di fuoco, il suo corpo era ancora affondato nel mio.

Avevamo fatto l’amore, ci eravamo amati sul serio quella notte.

Mi sentivo bene.

Nonostante l’oscurità, sentivo la luce riscaldare il mio cuore; nonostante il silenzio, percepivo la sua presenza e il suo calore.

Nessuno parlò, ma ci capimmo comunque.

Ci stavamo innamorando davvero.

Ero sicura che niente e nessuno avrebbe mai potuto rovinare quel momento, ignara che il giorno del giudizio sarebbe presto arrivato anche per noi.

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Capitolo 11
*** Insubordinazione ***



Era il 18 di settembre, me lo ricordo ancora.

La mia squadra e quella di Jonathan si ritrovarono a lavorare insieme per la seconda volta.

Fu un caso molto difficile, quello su Michael Brandon.

Si trattava di un SI molto complesso, in grado di plagiare donne adulte fino a costringerle a massacrare il marito ed i figli.

Lavorando insieme, fummo capaci di elaborare un profilo molto preciso e grazie alle magie di Garcia riuscimmo ad ottenere subito un nome ed un indirizzo.

Michael Brandon non era in casa, ma diversi indizi ci portarono ad una donna: la sua ultima vittima.

La teneva in ostaggio in casa sua, la minacciava con un fucile da caccia.

Una volta sul posto, Hotch valutò attentamente la situazione.

Si guardò intorno e, senza dimenticare il profilo, impartì i suoi ordini:

-Prentiss dentro, Morgan e Rossi sul retro-

Non ci pensai due volte. Mi tolsi il giubbotto e lasciai la pistola.

-No!-

Hotch si voltò.

-Sta discutendo i miei ordini, agente Simms?-

-Non credo sia una buona idea mandare una donna sola a discutere con uno psicopatico armato!-

L’espressione di Hotch era severa e inflessibile.

Si avvicinò a Jonathan, guardandolo dall’alto in basso.

-Prentiss non è una donna sola, è un Agente Speciale dell’FBI e come tale, la mando a fare il suo lavoro-

-Con tutto il rispetto, credo che dovrebbe andarci qualcun altro-

Ero allibita.

Osservavo la scena dall’esterno, come se non mi riguardasse.

Era come se non stesse succedendo sul serio.

-Secondo il profilo che abbiamo elaborato insieme, quell’uomo è uno psicopatico misogino e l’unica persona in grado di fermarlo è una donna bruna di età compresa tra i trenta e i quarant’anni-

-Non siamo sicuri che non sparerà-

Hotch era esasperato. Desiderava chiudere quella discussione.

Si limitò, dunque, a ribadire i suoi ordini con fermezza e decisione.

-Prentiss dentro!-   disse, alzando leggermente la voce per affermare la sua superiorità.

Il suo sguardo rimase fermo su Jonathan anche mentre mi allontanavo, muta e disarmata, verso la casa degli orrori.



Andò tutto bene. Ne uscii sana e salva, così come la donna tenuta in ostaggio.

La mia lucidità, per un attimo aveva però vacillato.

Jonathan era stato molto carino a preoccuparsi per me in quel modo, ma il suo discutere gli ordini di Hotch e dubitare delle mie capacità mi aveva leggermente infastidita.

Quello che volevo era un uomo, non una babysitter.

Ne discutemmo a lungo durante il viaggio di ritorno e riuscimmo a trovare un punto di incontro.

Ne uscimmo più forti di prima e soprattutto più consapevoli dei nostri limiti e delle nostre capacità.

Eravamo fatti l’uno per l’altra, ma di certo non eravamo fatti per lavorare insieme.



Il peggio sembrava passato, ma in realtà la tempesta stava per scatenarsi.

Tornammo in ufficio e, mentre stavo per sedermi alla scrivania, sentii il tono autoritario e inflessibile di Aaron Hotchner pronunciare il nome.

Era appoggiato allo stipite della porta del suo ufficio. Non aveva neanche riposto la ventiquattrore.

Mi guardava severo, rabbioso.

Mi voltai a guardarlo con espressione interrogativa.

-Nel mio ufficio, immediatamente!-

I miei colleghi mi guardarono spaventati.

C’era profumo di licenziamento nell’aria.

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Capitolo 12
*** Regole ***



-C’è qualcosa che devo sapere?-

Era in piedi dietro la scrivania, i pugni stretti, le braccia lungo i fianchi.

Mi chiusi la porta alle spalle, feci un passo avanti e lo guardai incredula.

-A cosa ti riferisci?-

-Lo sai benissimo-

Era vero, lo sapevo. Era solo che non volevo crederci.

-Ti riferisci all’agente Simms?-

-Basta giochetti, voglio sapere la verità!-

-Ho una storia con lui-

Fui schietta, diretta e precisa. Era quello che voleva, no?

-Da quanto tempo va avanti?-

Era sempre più freddo, la tensione era palpabile.

-Che importanza ha?-

-Esistono delle regole!-

-Di che cosa stai parlando?-

-Sto parlando del divieto di familiarizzare con altri agenti dell’FBI-

Fu un botta e risposta rapido e secco; quasi ci impedì di provare emozioni tra una domanda e una risposta.

-Stai scherzando?-

-Devi interrompere questa relazione-

-Altrimenti?-

Lo sfidai apertamente. I suoi occhi nei miei, la rabbia di entrambi sempre più evidente.

-Interrompi questa relazione o sarò costretto a segnalare la faccenda alla Caposezione e sono sicuro che questo non gioverà ad un agente, ex detenuto, che ha dovuto sudarsi il suo bel distintivo-

-Stai scherzando?-   ribadii alzando il tono della voce.

Hotch non rispose, si limitò a guardarmi impassibile.

-Perché ce l’hai con me?-   chiesi come una bambina indignata.

La rabbia mi stava facendo sudare, le lacrime mi offuscavano la vista.

Le ricacciai indietro e attesi la sua risposta.

-Io non ce l’ho con te. Ci sono delle regole-

-Ah davvero? Sapevi che Reid si drogava, ma non hai segnalato un bel niente a nessuno. Sapevi che Garcia aveva una relazione con Kevin Lynch, ma non hai fatto nulla neanche contro di loro. Che significa questo?-

-Ti do qualche giorno per rifletterci su. Sono sicuro che prenderai la decisione giusta-

Uscii dall’ufficio sbattendo la porta.

Lasciai Quantico, lasciai Washington e mi rifugiai nella vecchia casa di campagna dei miei genitori.

Rimasi da sola e irraggiungibile per diverse ore, poi decisi di chiamare Jonathan.

Mi raggiunse in un lampo ed io non ebbi più paura.

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Capitolo 13
*** La Scelta ***



Era molto presto, ma sapevo di trovarlo lì.

Il cuore mi batteva forte, lacrime di rabbia annebbiavano la mia vista, ma non la mia mente.

Ero lucida, decisa, pronta a tutto.

Avevo preso la mia decisione la sera prima.

Ero arrivata a quella conclusione da sola, senza l’aiuto di nessuno.

Jonathan era soltanto rimasto al mio fianco, sia fisicamente che moralmente.

Si era limitato ad annuire e a sostenermi con dolci carezze e intensi sguardi.

Non poteva esserci altra soluzione.

Sarebbe stata dura, sarebbe stato triste, ma di sicuro non avrei avuto alcun rimpianto.




Entrai nel suo ufficio senza bussare, senza un fiato.

Andai dritta alla scrivania, aspettai che il mio capo alzasse lo sguardo.

Esitai qualche istante per trovare la forza, poi lo feci.



Posai pistola e distintivo sulla scrivania di Hotch, tra le scartoffie.

Dopo quel gesto, anche lui esitò.

Mi guardò in viso, interdetto.

Era chiaro che non si sarebbe mai aspettato una simile decisione da parte mia.

Prese fiato, mi guardò ancora.

-E’ così importante per te questa storia?-    disse infine.

-Questa è la differenza tra noi due, Hotch. Tu avresti senza dubbio scelto la carriera, ma io non sono così-

-Non stiamo parlando di me-   si difese.

-Sai, ci ho pensato a lungo.
La carriera non ti aiuta a dormire, ti toglie il sonno.
La carriera non ti consola quando piangi per gli orrori che essa stessa ti porta ad affrontare.
La carriera non ti comprende quando sbagli, sa solo rimproverarti.
Io ho scelto una strada diversa-

-Che cosa ti sta succedendo?-

-Ho solo fatto la mia scelta-

Sospirai, in attesa della sua risposta.

Hotch, dalla sua poltrona, mi guardava incredulo.

-E’ così importante questa storia?-   ripeté.

-C’è in gioco qualcosa di più grosso-   confidai.

Chinai lo sguardo e, meccanicamente, mi portai le mani in grembo.

-Sono incinta-

Le parole mi uscirono fuori in un soffio, attraversarono la stanza e riempirono l’aria.

Hotch si alzò in piedi e portò istintivamente lo sguardo sulle mie mani, sul mio ventre.

Una piccola vita era nata lì dentro e non avrei permesso a niente e nessuno di portarmela via.

-L’ho scoperto qualche sera fa-   spiegai.

Lui era immobile, interdetto.

-Tu, più di ogni altro, dovresti sapere cosa vuol dire crescere un figlio da soli. Io non voglio che questo lavoro porti via il padre a mio figlio, io non voglio che questo lavoro mi impedisca di avere una famiglia. Non posso farci niente, mi sono innamorata dell’agente sbagliato, ma sono sicura che sia l’uomo giusto-

Hotch era pallido e incredulo. Era come se la mia notizia lo avesse colpito in pieno volto, era come se quella novità gli avesse svuotato lo stomaco.

Il mio cuore accelerava i battiti.

Sentivo Jonathan al mio fianco, percepivo il suo sostegno.

-Mi dispiace-   dissi infine.

Era vero.

Quel lavoro mi era sempre piaciuto, nonostante togliesse il sonno e la fame.

I miei colleghi mi erano piaciuti.

Avevo persino trovato un’amica vera in quell’ambiente così anomalo e inadeguato per instaurare qualsiasi tipo di rapporto umano.

Anche il rapporto con Jonathan, dopotutto, aveva avuto inizio grazie al mio lavoro.

Mi sarebbero mancati tutti, compreso Hotch, compreso il suo sorriso inesistente e i suoi sentimenti interrati chissà dove.

-Tornerò a prendere le mie cose e a salutare il resto della squadra. Nel frattempo puoi essere tu a raccontare loro il motivo delle mie dimissioni-

La mia ultima frase fu peggio di un ceffone.

Non avevo mai visto quell’espressione sul viso impassibile dell’agente Hotchner.

-Mi mancherai-

Lasciai l’ufficio, lasciai Quantico, lasciai Hotch da solo con i suoi pensieri e le sue colpe, immobile in mezzo a quel gelo creato dalla solitudine.

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Capitolo 14
*** Pioggia ***



Pioveva.

Un lampo illuminò la cucina, facendomi trasalire.

Mi accarezzai il ventre. Fu un gesto spontaneo, istintivo.

Stavo preparando la cena.

Jonathan sarebbe arrivato a momenti.



Due sere prima mi ero presentata a casa sua.

Ero arrivata all’improvviso, senza avvisare.

Ero disperata per la scelta di fronte alla quale Hotch mi aveva messa.

Non ero abituata ad essere felice. Era successo tutto così rapidamente da non essermene neanche resa conto.

Per una volta che ero riuscita a toccare il cielo con un dito, qualcuno aveva subito provveduto a farmi scendere, facendomi toccare bruscamente il suolo.

Mi ero fatta male, è vero; ma mi sarei rialzata più forte di prima.

Avevo bussato senza esitare.

Jonathan aveva aperto la porta con un sorriso, aveva atteso ciò che avevo da dire.

Non aveva avuto una reazione convenzionale, una di quelle che si vedono nei film; ma dopotutto Il Profeta non era per niente un tipo convenzionale.

Gli avevo dato la notizia senza preamboli, ero stata diretta.

Non volevo girarci intorno, doveva saperlo e basta.

“Aspettiamo un bambino”, gli avevo detto.

Avevo usato il plurale per fargli capire che per quel bambino non ancora nato, la presenza del padre era importante tanto quanto quella della madre che lo portava in grembo.

Aveva sorriso, un sorriso diverso dal solito.

Non aveva fiatato.

Era rimasto lì a contemplarmi, con lo sguardo fisso nel mio e la mano sul mio ventre.

Mi aveva un po’ insospettito quella improvvisa perdita della parola, ma dopotutto ognuno reagisce a suo modo e, di fronte ad una notizia come quella, non ci si può certo aspettare la comprensione immediata di ciò che la maternità e la paternità comportano.

Con un bambino arrivano gioie e dolori, arrivano le responsabilità.

Quella mano sul ventre, per me, significava già tanto.

Mi trasmetteva calore, amore, felicità.

Quella sera mi disse che mi amava.

Fu schietto, autentico, semplice.

Mi rese felice.



A distanza di due sere, invece, ascoltando la pioggia che batteva sui vetri, provai un leggero senso di inquietudine.

Era come se qualcosa di brutto stesse per succedere, anche se non riuscivo proprio ad immaginare cosa poteva rovinarsi ancora.



Jonathan arrivò in ritardo.

Era fradicio, era triste.

-Cos’hai?-   gli chiesi, mentre lo aiutavo a togliersi il giubbotto.

Evitò il mio sguardo e non rispose. Iniziai seriamente a preoccuparmi.

-Io non lo voglio questo bambino-

Lasciai andare il giubbotto, spalancai la bocca. Ero certa d’aver inteso male.

Mi guardò trasalire senza fiatare.

Si limitò a raccogliere il giubbotto e ad appenderlo all’attaccapanni.

-Che cosa hai detto?-   chiesi incredula.

Pensai che doveva essere un brutto sogno.

-Tu sai perché sono stato in galera, vero?-

-Hai ammazzato un molestatore di bambini-   risposi quasi meccanicamente.

-Già-   confermò lui.

-E questo che cosa c’entra con il nostro bambino?-

-C’entra-

Andò in salotto e si versò del vino.

Si lasciò cadere sul divano e con lo sguardo mi invitò a fare lo stesso.

Lo raggiunsi inebetita, con la bocca ancora spalancata.

-Non posso permetterlo, non posso lasciare che un bambino indifeso viva in un mondo così crudele.
Nel nostro lavoro vediamo cose orribili. A quanti genitori abbiamo dovuto comunicare la morte del figlio?
Quanti bambini stuprati e ammazzati abbiamo visto? Quanti cadaveri minuscoli e inermi abbiamo visto negli obitori?-

-Io…io non posso darti torto-

Jonathan sollevò lo sguardo.

Un sinistro scintillio animava i suoi occhi.

Sembrava quasi felice di sentire che gli dessi ragione.

-Mi stai chiedendo di abortire?-

Ancora una domanda schietta. Non c’era affatto bisogno di mezzi termini.

La sua risposta fu inghiottita dal suono del campanello.

Qualcuno bussava, qualcuno mi separava da quel parere che ero tanto curiosa di sentire.



Andai ad aprire, rigida come un automa, fredda come il ghiaccio.

Era Hotch.

Era bagnato anche lui, ma era stranamente tranquillo. Sembrava quasi sereno.

Gli feci cenno di entrare. Presi la sua giacca e lo condussi in salotto.

-Salve-   lo salutò Jonathan, con voce roca.

Hotch rispose con un cenno.

-Vorrei parlarti-   disse rivolto a me.

-Io vado di sopra-

Rimanemmo da soli, io e quell’uomo che, da qualche ora, non era più il mio capo.

Mi guardò dritto negli occhi, riuscì a trasmettermi uno strano senso di calma.

Si mise una mano in tasca e ne estrasse il mio vecchio distintivo.

-Sono stato un idiota-   disse.

Mi porse i documenti, ma io non li afferrai.

Mi limitai a fissarlo incredula.

-Vivi la tua storia d’amore, cresci il tuo bambino. Nessuno te lo impedirà. Non permetterò a nessuno di farlo-

Quasi mi commossi. Afferrai i documenti e, con un gesto inaspettato persino per me stessa, abbracciai Aaron Hotchner.

Riuscii a sussurrare un misero ringraziamento.

Lui mi carezzò il volto e sparì nell’ingresso.

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Capitolo 15
*** Luce ***



Salii al piano di sopra.

Trovai Jonathan in camera da letto.

Era in piedi e guardava fuori dalla finestra.

La pioggia picchiettava sui vetri, fulmini squarciavano il cielo.

Non si voltò, ma percepì la mia presenza.

Entrai nella stanza e mi adagiai sull’angolo sinistro del mio letto.

Non parlai, non lo fece neanche lui.

Rimanemmo così per diversi istanti: lui a fissare il vuoto, io a contemplare il suo profilo perso nell’ombra.

All’improvviso presi la parola e iniziai a raccontare senza fermarmi, senza neanche prendere fiato.

-A quindici anni ho abortito, ho dovuto farlo. E’ inutile dire che non mi è piaciuto per niente. Non mi sono affatto sentita sollevata come credevo. L’aborto non ha risolto i miei problemi. Mi sono sentita stupida, mi sono sentita più debole di prima. Ho passato dei momenti orribili, in totale solitudine. Ho ucciso una persona, e non una persona qualunque. Ho ucciso il mio bambino. A volte però, quando rischio la vita nel mio lavoro e riesco a farcela, mi piace pensare che sia tutto merito suo. E’ merito suo se sono quella che sono, è merito suo se oggi sono qui a dirti che non ho la minima intenzione di uccidere, per la seconda volta, mio figlio. Io questo bambino lo terrò con me e farò di tutto per proteggerlo dal male che c’è nel mondo. Dopotutto è per questo che ho iniziato a fare questo lavoro, l’ho fatto per lui. E’ per lui che stasera, quando Hotch mi ha restituito il distintivo, ho messo da parte l’orgoglio e l’ho accettato. Continuerò a dare la caccia ai criminali per rendere questo mondo un po’ migliore, sia per mio figlio che per i figli degli altri. Non so se ce la farò da sola, un bambino ha sempre bisogno del suo papà. Tu saresti un papà meraviglioso. Potresti insegnare un sacco di cose belle al tuo bambino. Basta solo volerlo. Tuttavia, non posso costringerti a fare qualcosa che non ti senti di fare. Non c’è niente di peggio di chi cerca a tutti i costi di comportarsi da genitore. Fare il papà o la mamma è una cosa che viene dal cuore, non può essere diversamente. Ho avuto una madre che voleva a tutti i costi comportarsi come tale, senza successo. Mi sono sentita sempre sola, incompresa e non voglio riservare a mio figlio questo stesso destino-

Mi alzai dal letto e tornai in salotto, in attesa.

Non dovetti attendere molto.

Jonathan, con gli occhi rossi dal pianto, mi raggiunse ben presto.

Mi strinse forte tra le braccia, mi baciò e mi sussurrò che il nostro sarebbe stato il bambino più fortunato del mondo.

Rimanemmo abbracciati e muti, immobili nell’ombra, avvolti dal nostro amore.

-Sposami-   mi sussurrò infine.

A quel punto non riuscii più a trattenere le lacrime.

Lo strinsi ancora più forte, in preda alla commozione.

Ero stata felice, poi avevo rischiato di affondare.

Ora, grazie a Jonathan, a Hotch e al mio bambino, ero ritornata alla vita, quella vera.

Seppi, per un istante, che per la mia famiglia non ci sarebbero stati mai più momenti bui.

Ci sarebbe sempre stato qualcuno che mi avrebbe ricordato che si può sempre accendere la luce.




Grazie a Lisbeth17

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