Maria e la corda di violino

di SkyEventide
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Johann ***
Capitolo 2: *** Il Prezzo ***



Capitolo 1
*** Johann ***


Maria e la corda di violino

La galleria buia del Regensburger Theater è stipata di gente e Johann non riuscirebbe a vedere nulla al di là dal parapetto se il padre non lo tenesse in braccio. Il mondo al di sotto brilla e gli ricorda il carillon che vede ogni giorno nella vetrina del negozio di strumenti musicali frequentato dalla madre; le pareti sono decorate d’oro, le persone nei palchetti rifulgono di una bellezza luminosa e ricca, la platea con poltrone di velluto lo affascina.
Lui e i suoi genitori non ci possono andare, a detta di suo padre, perché per comprare il biglietto dovrebbero vendere la casa; in secondo luogo non avrebbero abiti adatti per presentarsi. Ma ancora più delle luci del teatro, sono le voci bianche sul palco che lo attirano. E gli tolgono il fiato. Tanti ragazzi vestiti di bianco, che da lassù vede piccoli piccoli, cantano un coro soave e angelico, dal golfo mistico - la mamma dice che il buco in cui si trovano i musicisti si chiama così - si espande un suono calmo.
E sul palcoscenico, di fronte agli angeli che cantano, di fronte al pubblico, c’è una dea. Veste un abito lungo, che scintilla di bianco, ha una corona sulla testa, e dopo una pausa di musica intona
Ave Maria, gratia plena
Johann trattiene il fiato. « Mamma » soffia « perché canta il tuo nome? »
« Shhh. » La madre avvicina le dita alla sua bocca. « E’ una preghiera, si tratta del nome della Vergine. E’ di Schubert. Adesso ascolta. » Il padre gli accarezza i capelli. Nella galleria c’è un maleducato brusio di fondo, che si abbassa alla seconda strofa.
Maria, gratia plena
La voce alta della dea brilla fino al soffitto affrescato ad angeli, fino al lampadario di cristallo, fin dentro al suo cuore, e gli scende nell’anima. E’ una fata e il suo fascino lo ha stregato.
Ave, Ave Dominus
« E’ bellissima » sussurra. E si aspetta di essere zittito ancora, ma la madre sorride, è un lieve arricciarsi della bocca che Johann ha modo di ammirare solo quando lei suona il violino in cucina, o nel parco.
« Sì, lo è. »
Benedicta tu in mulieribus
Un uomo acchiappa il braccio di suo padre e Johann è distratto dal suono soave del canto e dall’accompagnamento che i musicisti danno, assieme al coro di voci bianche; riconosce nel nuovo arrivato il signor Stressedt, il proprietario del negozio di strumenti, vorrebbe fargli notare che il teatro è dorato come il carillon nella sua vetrina.
« Klaus » saluta quello, rivolto a suo padre « non pensavo che avreste potuto prendere i biglietti. »
« Johann doveva vedere, quindi, sì, ci siamo riusciti… »
« Papà, non sento niente » sibila. Ha gli occhi sgranati e puntati sul padre e sul vecchio commerciante tarchiato. Forse dovrebbe farsi prendere in braccio per arrivare anche lui oltre la balaustra.
et benedictus fructus ventris
ventris tui, Iesus

La melodia lo attrae di nuovo, come una ninna nanna di bellezza, un fascino aureo e inafferrabile; un mondo che gli si schiude agli occhi e che conosceva solo attraverso le parole della madre. Solleva una mano e la allunga come se potesse afferrare il canto e la preghiera, oppure la dea sul palcoscenico, o l’intero luminoso teatro.
La magia che si libra nell’aria è riflessa nei suoi occhi.
Ave Maria.

Maria deglutisce, stringe le labbra assieme e si torce nelle mani un fazzoletto bianco. Ha messo dei guanti, prestati dalla vicina del piano superiore, e il suo abito buono, con una mantella di lana per coprire le scuciture su una spalla. Klaus ha ripulito il miglior redingote che possiede, i gemelli sono del signor Stressedt, lo jabot aveva i bordi di pizzo così consumati che ha dovuto nasconderli sotto il colletto della giacca.
Di fronte a loro, il direttore del Conservatorio di Regensburg, con le mani incrociate sopra la scrivania di rovere, il collo largo chiuso da un foulard di seta incastrato nella giacca doppiopetto, che li fissa da sopra i minuscoli occhialetti in montatura dorata.
« Nostro figlio Johann è molto bravo. Lo abbiamo istruito sin da piccolo, sa suonare il violino, il violoncello e il pianoforte » riprende Klaus. Maria stringe il fazzoletto, poi un sussulto del petto glielo fa sollevare di scatto verso la bocca, prima che tossisca in faccia al direttore. La gola le stride così tanto che non riesce neppure ad aggiungere ciò che vorrebbe: « Gli sparti… » tossisce « digli de… »
Klaus le appoggia una mano sulla spalla. « E sa leggere gli spartiti, tutte le note, le chiavi e i tempi, sa distinguere l’andante, l’allegretto, oppure… »
Il direttore solleva le spalle e sospira, il suono sembra un sibilo e Maria ha la netta sensazione che l’uomo stia credendo di perdere il proprio tempo. « Signori Werner, vi credo, davvero. Me l’avete fatto sentire suonare, prima. »
Maria corruga la fronte, tossicchia e schiarisce la gola, deglutendo più volte nel tentativo di idratarla: non si farà guardare dall’alto in basso da quell’uomo perché ha un anello araldico al dito e abiti nuovi, non quando lei suona con uno Stradivari dagli anni della propria infanzia.
« Capisce il latino. Lo sa leggere e tradurre » gli fa presente, con una voce che suona più rauca di quanto avrebbe voluto.
« E come lo sa? » domanda il direttore, rivolgendole uno sguardo scettico, con la fronte corrugata e un segno tra le sopracciglia folte.
« Gliel’ho insegnato io. »
Una pausa in cui Maria sostiene lo sguardo che la scruta da dietro i piccoli occhialetti, fino a che non è l’uomo a sciogliere per un momento le mani incrociate e poi a ricongiungerle; Klaus ancora non ha tolto la mano dalla sua spalla, il tocco è tiepido e quasi la rassicura che usciranno da lì riuscendo a iscrivere Johann.
« Ovviamente » riprende suo marito « sa leggere e scrivere anche il tedesco. »
Il direttore schiocca le labbra e le piega in una linea storta: « Non è questo il punto, signori Werner.»
« E qual è. » Maria si sporge, gli occhi sgranati che un poco le bruciano. Esige sapere quale sia “il punto” per cui quell’uomo può negare al loro figlio di studiare al Conservatorio, con maestri competenti, con un diploma che gli permetterà, si augura, di entrare in un’orchestra, e non finire come lei a dare lezioni a borghesi che vogliono educare i figli come degli aristocratici, oppure a strimpellare ballate al pianoforte, nei pub.
« La retta. » Il direttore lo dice con una punta d’ovvio, come se fossero stupidi e non avessero considerato la questione del denaro sin dall’inizio. « Già sarebbe un evento che temo unico l’ammettere un ragazzo, come dire… basso borghese, ma a parte questo, se non pagate la retta, vostro figlio non può frequentare. »
E crede forse che con questo abbia detto a sufficienza per farli desistere. Maria si toglierebbe il sangue dalle vene per permettere a Johann di studiare al Conservatorio di Regensburg. Klaus fa un cenno lento con la testa. « Pagheremo, possiamo farlo. »
« Potete? »
Anche se quell’uomo sembra del tutto scettico di fronte alla prospettiva, sia lei che il marito annuiscono.
« Sì, abbiamo dei lavori come insegnanti privati. Sono sicuro che, accantonato il problema del denaro, non ci sia più nessun ostacolo per iscrivere nostro figlio. »
Maria solleva il fazzoletto e tossisce, ma nel farlo non stacca gli occhi dal direttore; li sta ponderando e ciò in cui lei spera è che il brano di Bach che Johann ha suonato al pianoforte l’abbia conquistato abbastanza. Quando piega la bocca in una smorfia ma stacca le mani dalla scrivania e si appoggia allo schienale imbottito della sua bella sedia, Klaus e lei trattengono il fiato.
Il direttore pesca un foglio di carta bianco avorio e spessa, alla propria destra, lo mette nel centro del ripiano tra un fermacarte di ottone e la boccetta d’inchiostro e lo spinge verso di loro.
« Dovete firmare, signori Werner. La quota di iscrizione è di trecento marchi. »

Johann osserva la cancellata di ferro che divide la strada lastricata dal giardino verde del Conservatorio, con le poche aiuole non ancora fiorite e una magnolia; alla sua sinistra, l’ala sud dell’istituto nasconde ancora il sole e l’edificio lancia un’ombra lunga sull’erba. Il davanzale è freddo e la sua divisa troppo leggera, si stringe le braccia attorno al busto e spinge sul naso gli occhiali.
« Werner. »
Sentendosi apostrofare dalla voce flemmatica, che è certo essere di un suo compagno di classe di violoncello, drizza la testa e irrigidisce la schiena ancor prima di voltarsi. C’è una cosa in cui la madre è particolarmente ossessionata e gliela ricorda spesso: di darsi un contegno quando parla e di camminare con compostezza e classe.
Quindi si gira e fronteggia Zimmer, che ha le mani sui fianchi e lo squadra in un modo definibile solo fastidioso. E’ fastidioso che lo fissi di traverso sempre, quando passa, quando mangia nel refettorio, quando suona, soprattutto dal momento che lui neppure ricambia le occhiate bieche.
« Mi vuoi dire cosa fai qui, Werner? »
Johann solleva le sopracciglia. « Che vuol dire? »
Zimmer dilata gli occhi e dà la netta impressione di spazientirsi per una richiesta legittima. « Quello che ho detto. Non ti dovresti trovare al conservatorio. Werner, sei un poveraccio. » Si passa una mano nei capelli chiari con uno scatto nervoso.
Johann schiude la bocca e solleva il mento, quella che sente è un’accusa che sembra metterlo su un piano più basso. « Non lo sono » ribatte, in difesa di fronte alla critica.
« Come no? Hai una divisa che sembra tagliata da un altro abito e riadattata addosso a cinque o sei persone diverse. Non hai strumenti tuoi, vivi in una casupola e i tuoi genitori sono… cosa? Dei precettori privati, mi sbaglio? Mentre tua madre suona in un pub. Sei un poveraccio, e quindi, che ci stai a fare qui? » Zimmer si sporge e ha gli occhi dilatati, un po’ inclinati in uno scherno che a Johann brucia sulla pelle e nelle viscere.
Deglutisce, un paio di volte. Le risposte sono tante, ma ciò che l’altro gli dice è, alla fine, la verità. L’unica cosa che contesta è che ha un motivo per stare lì, a prescindere da tutto quello che gli rimprovera.
Zimmer, comunque, ora sorride, e lo fa soddisfatto di se stesso, un sorriso che gli marca l’orgoglio ed è come sale negli occhi. « Non importa, Werner, tanto te ne andrai. » Gira i tacchi, accelerando, e sfugge a qualunque genere di contestazione: Johann resta immobile qualche secondo, imbambolato nello stupore imbarazzato peggiore che abbia provato dal suo primo giorno al Conservatorio.
« Non direi » ribatte, con la voce più acuta e alta, ma Zimmer sta giusto in quel momento girando l’angolo.
Avrebbe dovuto rispondere subito, è ciò che pensa nel momento in cui si ritrova a fissare la parete stuccata del corridoio e la carta da parati con disegni floreali; ha il volto accaldato. Caldo come se fosse stato troppo tempo di fronte al camino. Avrebbe dovuto dirgli che il suo motivo per stare lì è che sa suonare e desidera migliorare e che se sua madre suona in un pub è perché può guadagnare bene solo così, per lo stesso motivo fanno da insegnanti privati a ragazzi incapaci e tardi come Zimmer.
« Perché non gli hai risposto? »
Johann volta la testa di scatto e, alla finestra accanto a quella da cui osservava il giardino, vede appoggiato con la spalla alla parete uno degli studenti della classe di violino, Von Alensmeier. Ha le braccia incrociate e gli pare sinceramente stupito, mentre si stacca dal muro e gli si avvicina.
Il freddo che entra da fuori gli punge la nuca. Ha ascoltato, di sicuro, tutto quanto.
« Davvero, Werner, perché non gli hai risposto? Dovevi farlo. Lo disturba che sei bravo, no? Certo, sei vestito un po’… male » lo squadra e scuote una mano per liquidare la questione « però suoni meglio di lui. E’ uno che ha i nervi sempre tesi, se gli rispondevi, vedevi poi come si arrabbiava. » E fa una risata.
Johann non lo capisce; non comprende in che misura lo prenda in giro, con quel suo prendere confidenza senza aspettare inviti, e in che misura faccia sul serio nell’essere amichevole. Le parole si smozzicano in bocca con una fretta scocciata: « Non avevo nulla in mente. »
« Oh, dai. E’ divertente controbattere. Come anche… come si chiama? Feuer, quando sbaglia le note, quello è un perfettino e se gli fai notare gli errori o contesti cosa dice, comincia a dare di matto. » Si tira indietro i capelli castani e mossi, mentre ridacchia. Secondo regolamento, dovrebbe legarli, eppure non lo ha mai visto essere davvero rimproverato se ogni tanto passeggia con la chioma sciolta.
Il padre di Alensmeier fa cospicue donazioni annuali al Conservatorio e Johann sospetta, non senza un fastidio intrinseco che gli fa corrugare le sopracciglia, che sarebbe permesso al compagno di presentarsi persino senza divisa.
Si accorge di essere scrutato con un sopracciglio inarcato.
« Fatti una risata, avanti. E la prossima volta rispondigli, senza che lo consideri più di tanto. »
Alensmeier lo affianca e gli picchietta la mano sulla spalla. Johann, davvero, non lo comprende; però lo conforta, passa sia il freddo eccessivo, che l’insicurezza che gli corrode piano la stima di se stesso, come anche la vergogna dalle guance. Non si era accorto di valutarsi così poco prima che quella quantità così esigua di parole lo riscuotesse.







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Ebbene, c’è poco da dire su questo inizio se non che è un regalo per una brava figliola che spesso è la mia persona ispirazione nell’inventare roba.
Cercherò di aggiornare con più puntualità del solito e di scrivere con cura delle parti storiche e di quelle musicali, di cui va detto non sono così ferrata (viva la documentasciòn). Se ci sono cose che sbaglio... segnalatemele pure.
Mi auguro che vi piaccia e se lasciaste una recensione mi rendereste felice. =ç=

Kupò.

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Capitolo 2
*** Il Prezzo ***


Il Prezzo


Di fianco allo spartito brucia una lampada ad olio, il cui fumo riempie il soffitto del pub. Un gruppo di avventori a destra intona una canzone campagnola facendosi accompagnare dalla musica che Klaus suona sui tasti del pianoforte. E’ un veloce talmente semplice e che ha suonato tante di quelle volte che ormai non deve neppure più impegnarsi, è sufficiente premere i bianchi con il giusto ritmo. Alle ultime battute, gli avventori esultano ed alzano le birre, brindando.
« Ancora! » esclama uno. « Da capo, pianista! »
Klaus solleva una mano per segnare di aver sentito e l’uomo invoca un altro brindisi. C’è un odore di malto che non abbandona mai il pub e i suoi vestiti quando ne esce.
Gira la pagina dello spartito consumato, per abitudine, conta i primi quattro battiti col piede e parte: musica allegra e festaiola, il coro di avventori si accoda subito alle note. Sembra un canto di contadini che tornano dal lavoro. Klaus batte i tasti più forte per sovrastare le voci, fanno persino male i polpastrelli e non c’è differenza fa “piano” e “forte” nelle note. Nessuno, comunque, si accorgerebbe della differenza.
Forse neppure lui.
Sta perdendo la raffinatezza, sta disimparando a suonare, sta dimenticando la fascinazione delle melodie. Disconosce l’arte. Non c’è arte nel premere i bianchi come fossero ferri da percuotere su un’incudine.
Nella trance dello stornello, sbaglia una nota, e non se ne accorge nessuno.
Si sente degradato, in quel momento, quando comprende che la nausea allo stomaco non è per la fame, ma perché sta svendendo la musica e tutto il suo talento.

La custodia del violino ha una chiusura vecchia, la pioggia scende, le inzuppa la mantella e i capelli, ha già infradiciato l’orlo della gonna. La custodia ha una chiusura vecchia, che ora sbatacchia contro la gamba, e non regge.
Maria sente un suono secco, abbassa gli occhi e vede il violino precipitare fuori verso le travi del ponte; le manca il fiato, si china, l’afferra prima che cada e s’infranga a terra. Le dita stringono una delle corde, troppo tese dalle numerose accordature, non cambiate da anni.
Un suono acuto taglia l’aria, negli scrosci della pioggia.
Stringe tra le dita della mano la corda spezzata e arricciata dello Stradivari.
« No. »
La pioggia precipita nel Danubio e lo gonfia, le picchia sulla schiena e le sta ormai impregnando gli abiti, cade anche sul violino, dentro la cassa armonica, sulla sua mano. Maria vive di quel violino, è l’ultima vestigia della sua adolescenza agiata nella casa del padre, è l’ultima vera fonte di guadagno che ha. L’ultima cosa materiale tra quelle che possiede che davvero abbia un valore.
Lo copre, lo spinge al sicuro nella custodia e tira la corda, come potesse mettersi a posto.
« Dio mio, no. » Le si accartoccia il precario equilibrio che era riuscita a dare alla via sua, di Klaus e di Johann; l’ordine apparente che la sicurezza degli introiti fissi le infondeva nella mente, si sgretola. La reliquia di ricchezza si è rotta e non lo può credere; se solo non l’avesse afferrato in quel modo, se la custodia fosse stata più nuova.
Gli occhi le pizzicano mentre barcolla lungo il ponte e le spalle le si piegano sotto la consapevolezza: la corda rotta, il violino inutilizzabile, il suo lavoro, il suo guadagno distrutto. Si trascina verso casa con dei gemiti che salgono dalla gola, di un dolore intimo e incredulo, si lascia zuppare dalla pioggia. Corre sul selciato, passa la cattedrale e si infila nelle straducole della città.
La porta di casa non la consola, neppure quando le dita tremano nel cercare la pesante chiave di ferro nella tasca, neppure quando la spinge nella toppa e gira.
« Klaus. » Ha la gola chiusa dal pianto, tossisce e si piega nell’ingresso, spingendo la porta a chiudersi con un tonfo, il dolore al petto non è più solo spirituale. I polmoni grattano. « Klaus! »
Suo marito accorre, e lo fa con occhi sgranati, la preoccupazione per il richiamo che lei ha lanciato deve averlo spinto ad abbandonare qualunque cosa facesse; la raggiunge e le solleva il busto, il suo sguardo fruga nel suo volto.
« Maria. Che succede? »
« Klaus, lo… » Maria si sente crollare e sprofonda contro la sua spalla, annientata. « Lo Stradivari. Si è rotto, una corda » la tosse le mozza le parole « Una cor… una corda si è spezzata. E’ inutilizzabile, io adesso non so più… »
Aggrappa le dita alla camicia ruvida.
« Aspetta, calma, lasciala. » La voce del marito è urgente, ma non alterata, Maria cede senza opporsi la presa sulla custodia rotta del violino e lascia che lui si stacchi dall’abbraccio il tempo che serve per aprirla. Lei non ha la forza di guardare, non il legno bagnato né il filo arricciato, non la consapevolezza di sentirsi privati di ciò che assicurava alla famiglia almeno la decenza. Si copre il viso con una mano, è fradicia, con i capelli attaccati al viso, i brividi le scendono lungo la schiena e ai propri piedi vede una pozzanghera dell’acqua che gli abiti hanno raccolto.
« Klaus... » mormora.
E’ chinato sopra la custodia e solleva piano quel cadavere impregnato d’acqua.
« Non importa » lo sente mormorare. « Piuttosto, cambiati, sei fradicia. »
Maria chiude gli occhi e sente le lacrime scivolare fino alle labbra.

Johann siede nei posti della classe di esercitazione per il concerto del Conservatorio, di fronte a sé il leggio con le graffette tiene aperto lo spartito sul passo più complicato. E’ disposto volentieri ad attardarsi al Conservatorio fino al pomeriggio inoltrato, per provare più volte il trio in re maggiore di Beethoven da presentare al concerto.
Con il violoncello puntellato a terra e nella destra l’archetto, osserva Von Alensmeier che ripete il passaggio d’apertura. All’inizio delle audizioni, quel mattino, per decidere chi dovesse occupare il posto del violinista, chi del violoncellista e chi del pianista, il compagno gli ha chiesto di essere chiamato per nome e si è preso la libertà di fare altrettanto.
Johann non credeva che Alensmeier, ovvero Marcus, potesse dimostrare sufficiente serietà da guadagnarsi il diritto di esibizione, ma con lo spartito di fronte, il sottofondo del pianoforte del professore, e il violino appoggiato alla spalla, si è trasformato: ha socchiuso gli occhi, ha inspirato mosso l’archetto sulle corde. L’aria ha vibrato della musica frizzante e raffinata tesa dalle sue dita e cantata dai movimenti e lui ha acquistato una dignità nobile e incantevole. Non gli è sfuggito lo sguardo di Hans Heidrich; sembrava bruciare, era chiaro e incandescente. Johann crede che sia invidioso della gentilezza con cui Marcus suona, con cui modula le note e pizzica le corde. Neppure gli è sfuggito come quegli occhi azzurri e infiammati si siano ammorbiditi guardando lui, ma è stato veloce nel distogliere lo sguardo.
« Kolm? »
Il loro pianista alza gli occhi dallo spartito, su Marcus che lo chiama.
« Riproviamo il terzo movimento dall’inizio. Johann, ci sei? »
Non ha capito con quale autorità si sia eletto coordinatore del trio, ma tanto meglio, è bene che sfoghi la sua parlantina e smuova un po’ l’indecisione di Kolm su che cosa provare.
Johann annuisce, gira le pagine dello spartito al punto preciso, sistema il violoncello e prepara l’archetto.
Vede Marcus fermare il violino col mento e la gamba di Kolm allungarsi sul pedale del pianoforte. Alensmeier batte i tempi col tacco. Cominciano.
I primi arpeggi del pianoforte danno l’attacco in un Presto che si preannuncia frizzante per tutto il movimento; il violino si inserisce senza sbavature; Johann fissa il triplo pentagramma, preme le corde e risponde all’armonia incalzante. La musica si diffonde nella stanza dall’ottima acustica, con il soffitto a cassettoni che evita loro l’eco. I tre strumenti si confondono e si incalzano, finché Marcus si zittisce e Johann subito dietro, con gli occhi sulle pause da due tempi. Un brevissimo trillo del pianoforte, note sparse per violino e violoncello. E poi veloci si rincorrono ancora e destano gli animi, e…
La porta si apre con uno schiocco. « Prego, Herr Alensmeier. »
Johann si interrompe con la fronte corrugata, che, da che mondo è mondo, si bussa prima di entrare e non si interrompono delle prove con tale maleducazione. Vede la figura del professore di pianoforte mentre si piega appena e tiene aperta la porta, lasciando il passaggio a un uomo di media statura, con dei folti baffi castani definiti e curati e abiti dei migliori che abbia visto, tra cui uno jabot di pizzo fissato da un cameo dorato.
Nonostante il portamento da padrone di casa, Johann stringe le labbra e corruga la fronte: non si interrompono le prove.
Per questo lo disturba che Marcus appoggi subito il prezioso violino sulla propria sedia e sorrida. « Padre. » Si allontana dalla postazione e va incontro all’uomo, che ormai è identificato come il Marchese von Alensmeier.
« Sono passato a prenderti. Ti sei scordato gli impegni? Devi prepararti. »
Il Marchese ha una voce profonda inflessibile; ma Marcus trova lo stesso il modo per voltarsi appena verso di loro e fare una smorfia con naso e bocca, non si capisce se di scuse o fastidio.
« Portate con voi Georg e lasciatemi provare » si lamenta.
Johann non crede che disubbidirebbe in modo così sfacciato al proprio genitore, se fosse di fronte ai compagni del conservatorio e ad un professore, ma forse il marchese ha un’autorità tale in quel luogo, tale da immobilizzare Kolm rigido di fronte alla tastiera, da potersi permettere di perdere la faccia per via del proprio figlio. Si limita ad inspirare e scandire: « Marcus. »
Il figlio sospira e si volta, le palpebre abbassate in una linea rassegnata. « Johann, Kolm, continuiamo domani, va bene? Qui dopo pranzo, avanti. Vi aspetto. » Ora che è vicino alla sedia e recupera il proprio violino e l’archetto, aggiunge con un sussurro: « Mi attende una cena d’affari, ditemi buona fortuna. »
Kolm è bianco come una statua di quelle neoclassiche che adornano l’ingresso del Conservatorio e il suo movimento facciale per Johann non è distinguibile anche mentre mormora: « Buona fortuna…? »
Lui non dice niente e gli dedica solo un cenno col mento, indispettito soprattutto dal fatto che Marcus abbia la poca delicatezza di salutare sventolando l’archetto. Il marchese è già sulla porta, che viene chiusa alle spalle del compagno con un leggero tonfo.
Girando gli occhi su Kolm, si accorge che probabilmente hanno lo stesso sguardo ancora sorpreso dalla dipartita così veloce del violinista, in mancanza del quale non possono neppure provare. Johann sospira e si prepara ad alzarsi e riporre lo strumento nella stanza silenziosa.

Maria solleva gli occhi dalla propria gonna e li alza sulla custodia posata sopra al bancone. Ciò che vorrebbe fare è riprendersi il suo violino, l’anima della sua musica e il ricordo della sua adolescenza, e tornare a casa, chiuderlo nell’armadio e lasciarlo intoccato.
« E’ uno Stradivari. »
Herr Erkel, si sporge dalla sua sedia e la diffidenza nel suo sguardo diventa palese scetticismo; Maria non lo sopporta. « Uno originale o sub disciplina? »
Alle sue spalle, un pianoforte a coda di Erard fa bella mostra delle proprie qualità e del livello del negozio, assieme a due viole in esposizione.
« Originale. » « Posso vederlo? » « Certo. » Maria afferra la chiusura rotta della custodia, scioglie lo spago; la sua voce è punta da un’indignazione orgogliosa, intanto che solleva la parte superiore e mostra il tesoro distrutto. « Ha soltanto una corda rotta, ma voi siete esperto, potrete capire che è vero. »
Il proprietario è allungato sul bancone, il ventre gonfio tira i bottoni del panciotto damascato in oro e Maria pensa che ad avere uno solo di quei capi, potrebbe non avere problemi nel comprare primo e secondo piatto sia per pranzo che per cena, almeno per cinque o sei giorni. Lo sguardo negli occhi piccoli e brillanti di Herr Erkel la rincuora, livella in parte l’angoscia delle proprie azioni e la rassegnazione di fronte alla sorte.
« Come l’ha avuto? »
La fissa con una punta di accusa nelle iridi e in come gli si corrugano le sopracciglia folte.
Maria inspira e gonfia il petto, congestionato dalla tosse, col respiro che raschia. « Non insinuerete che non mi appartenga » sussurra. « E’ la mia dote. Ero di famiglia ricca. » Lo ha soltanto portato con sé nel momento in cui ha lasciato la propria casa per Klaus, nient’altro che un insegnante, che l’ha attesa fuori dal duomo di Monaco e le ha sussurrato “sposami”.
« Lo sapete suonare? » Herr Erkel sposta gli occhi dal violino a lei.
Maria alza la mano di fronte al viso, tappando col fazzoletto la bocca, il fiato si incrina per la tosse e la trachea graffia. « Sì. E’ lo Stradivari Kreutzer » soffia. Lo ha sempre suonato.
« E allora perché lo vendete? Ha un valore eccelso, nonostante la corda rotta. E’ sufficiente sostituirla. »
Maria avverte il dolore della privazione ed è come se d’improvviso si spogliasse della dignità, pronta a cedere il suo strumento. La voce gratta. « Perché non ho soldi per farlo. » Il denaro le serve, per il cibo, per la casa, per Johann. « Quanto me lo pagherebbe, Herr Erkel? »
Il negoziante allunga una mano rugosa, con i tendini in rilievo, sfiora con le dita l’angolo della cassa armonica e si piega un po’ di più, strizzando gli occhietti; sta leggendo il cartiglio d’oro: Antonius Stradivarius Cremonensis Faciebat Anno 1727.
« Abete rosso, ed è del miglior quinquennio » mormora, e Maria avverte un brivido. Un pezzo unico, il suo tesoro dalla musica potente e indimenticabile. Herr Erkel inspira, stacca le dita dal legno: « Ve lo pagherò settemila marchi. »
Maria stringe assieme le mani in grembo, le sue dita rosse dolgono dal freddo. E’ una cifra onesta ed è forse la più alta quantità di denaro che vede da anni. Annuisce, in silenzio, ed è in silenzio che il miglior venditore di strumenti di Regensburg recupera una scatola di legno intarsiato e lucidato, la apre e ne estrae fuori il denaro.
Lo conta, moneta per moneta, sul bancone. In silenzio, Maria guarda un po’ della sua anima mentre viene comprata.






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Bene. Ritardo di mesi, soltanto io. XD La storia purtroppo rifiutava di farsi scrivere come si deve, anche se ero a un buon punto, complici anche dei fatti successi nel mezzo. Ora forse riuscirò a trovare il tempo necessario a proseguire.
Cerco di non scrivere vaccate sulla musica e gli strumenti, ma se qualche esperto ne sa più di me i consigli sono benvenuti.
Also, mica c'è qualcuno che sappia come venivano chiamati i nobili in Germania? Perchè so come vanno attribuiti i titoli in inglese, ma chiamare Lord un Marchese quando è tedesco mi sembra senza senso. XD
Spero veramente che vi piaccia, i commenti sono graditissimi. **

Kupò.

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