Streghe di Zucchero e Segreti di Famiglia

di HamletRedDiablo
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Slytherin ***
Capitolo 2: *** Vita Scolastica ***
Capitolo 3: *** Bosco Notturno ***
Capitolo 4: *** Nemmeno ad Hogwarts ***
Capitolo 5: *** Lo studente giapponese ***
Capitolo 6: *** Cambiamenti ***
Capitolo 7: *** Magia Orientale ***
Capitolo 8: *** Natale ad Hogwarts ***
Capitolo 9: *** La cicatrice ***
Capitolo 10: *** Lutto ad Hogwarts ***
Capitolo 11: *** Nuovi Inizi ***



Capitolo 1
*** Slytherin ***


Prologo

 

 

 

   Non avrebbe mai pensato che il suo ultimo anno di lezioni sarebbe stato così movimentato.

   Certo, le sue preoccupazioni svanivano se paragonate a quelle che il suo eccelso padre aveva affrontato durante i suoi diciassette anni.

   Scrollò la testa, sospirando. Ormai era riuscito a far capire almeno agli incantatori di Hogwarts che lui era un individuo a se stante e non un’appendice della fama paterna. Ma, per il resto del mondo magico, lui non era che una ramificazione imperfetta del noto genitore, un innesto che ancora non aveva dato i suoi eroici frutti.

   Al contrario del padre, infatti, la sua vita scolastica era stata sorprendentemente vivace e pacifica – escludendo alcuni episodi – e pareva che buona parte dei maghi considerasse questa sua serenità una colpa: com’era possibile che la progenie del famoso Potter si rammollisse in uno stile di vita tranquillo anziché andare a caccia di maghi oscuri e fosche presenze?

   Contorse un angolo della bocca, contrariato. Non aveva alcuna intenzione di buttarsi tra le fauci del pericolo, se non era costretto. Gli eroi facevano sempre una fine tragica e prematura, mentre lui pianificava di andarsene solo dopo essere diventato un vecchietto rinsecchito coccolato dall’amore familiare. Suo padre era una delle eccezioni alla regola, ma nessuno gli garantiva che la dea bendata avrebbe concesso una seconda occasione alla famiglia Potter.

   Per cui, meglio rimanersene al sicuro nel dormitorio di Slytherin, a studiare come era suo dovere.

   Se solo fosse riuscito a studiare. Lanciò un’occhiata ai libri chiusi con rassegnazione.

   Ultimamente i suoi piani di tranquillità erano stati sconvolti da troppi avvenimenti.

   Non era lo studio a preoccuparlo: aveva ancora tempo di prepararsi per i MAGO, e si era sempre dimostrato uno studente brillante.

   Ciò che lo preoccupava, era cosa sarebbe successo una volta che la porta della sua camera si fosse aperta.

Sospirò di nuovo.

   Dovevano parlare. Il progetto che Haru aveva proposto era ambizioso, ma non impossibile, e abbastanza folle da solleticare la loro curiosità. Senza contare che gli ultimi avvenimenti avevano messo in luce come non si potesse attendere oltre: bisognava elaborare una risposta efficace prima possibile, o tutto il sistema magico ne sarebbe stato irrimediabilmente compromesso.

   Ma non era solo il futuro del mondo della magia a tormentarlo.

   Cosa avrebbe detto su quell’altra questione? O meglio, cosa avrebbe fatto?

   Si tirò le coperte fino al mento e poi più su, a coprire tutta la faccia.

   Non era necessario cercare nemici epocali per finire invischiati in un mare di guai. Bastava innamorarsi.

   Si irrigidì sotto le lenzuola quando sentì lo scricchiolio della porta che si apriva.

   Dalle coltri emersero solo i ciuffi scomposti della frangia e gli occhi verdi, che puntarono subito la persona appena entrata.

   Il materasso si inclinò sotto il peso di un secondo occupante.

   Albus fece uscire dalle coperte anche la bocca perché il nome del compagno di stanza non venisse smorzato dalle lenzuola.

   «Scorpius…»

 

 

 

 

 

Parte Uno – Primo Anno

 

1

Slytherin

 

 

 

   Gli sarebbero scoppiate le vene del collo.

   Gli sarebbero scoppiate tutte quante, e di lui sarebbe rimasta solo una macchia rossastra sul binario nove e tre quarti di King’s Cross.

   Fu con enorme sollievo che sentì il peso della valigia abbandonare le sue braccia per schiantarsi sul pavimento della carrozza numero tre dell’Hogwarts Express.

   Si aggrappò al corrimano e riuscì a raggiungere il suo gigantesco bagaglio.

   «Hai dei sassi in quella valigia, Albus?» chiese Rose, fissando con aria critica le guance paonazze dell’amico.

   «Mia madre ha voluto darmi cose… per ogni evenienza» sbuffò lui, affaticato.

   L’apprensione di Ginny per il figlio minore si era palesata nelle pile di vestiti, scarpe, libri e cibarie che aveva stipato a forza nella valigia.

   Sulle labbra di Rose si mescolarono divertimento e furbizia nel suo tipico sorriso da bravata.

   «Immagina cosa succederebbe se qualcuno dovesse disattivare l’incantesimo di riduzione che tua madre ha messo su tutta quella roba» scherzò, additando il bagaglio.

Albus non riuscì a trattenere un sorriso nel pensare ad un povero mago coinvolto nell’esplosione del suo baule sovraccarico.

    «Quel poveretto si troverebbe ricoperto di maglie e calze» rise.

   «Un bell’albero di Natale» rincarò lei «Solo che sarebbe decorato con le tue mutande e non con dei festoni!»

   «Rose!»

   «Perché, non le porti?»

   «Sì, ma…»

   «Se non c’è colpa, non c’è vergogna» sentenziò lei con un’alzata di spalle, per poi indicare la cabina più vicina. «Ho appoggiato le mie cose lì. Ti unisci a me per il viaggio?»

   «Volentieri…» l’entusiasmo uscì smorzato dalla gola di Albus: il peso del baule limitava notevolmente le sue capacità espressive.

   «Ti aiuto» offrì lei, afferrando una maniglia del mastodontico bagaglio.

   Albus poté muovere solo pochi passi prima che una risata di scherno lo freddasse alle spalle:

   «Ti fai aiutare da una donna

   Il bimbo alzò gli occhi per incrociare lo sguardo derisorio di James Sirius Potter.

Sarebbe arrivato il giorno in cui sarebbe cresciuto a sufficienza per ribattere guardando il fratello maggiore dritto negli occhiali. O, ancora meglio, il giorno in cui avrebbe imparato una magia di ingrandimento tale da poterlo guardare dall’alto con aria di sufficienza, come un elefante fa con una pulce.

Ma per il momento era ingabbiato nel metro e trenta tipico dei suoi undici anni, e non poteva che allungare il collo per miagolare le sue proteste.

   «Questa valigia spezzerebbe la schiena anche a te» replicò, tirando cocciuto il manico del bagaglio. La resistenza del baule fu così ferrea che per poco Albus non si rovesciò a terra, e la sua piroetta non troppo nascosta suscitò l’ilarità del fratello e della sua congrega.

    «Non ho mai detto che non sia pesante» gli ricordò James, mentre si aggiustava gli occhiali con insopportabile strafottenza. «Ho detto solo che hai meno forza di una donna.»

   «Almeno io ho solo due occhi sul naso.»

   Il sorriso di James si incrinò a quell’affermazione. Dopo tanti anni di guerriglie familiari, entrambi i fratelli avevano imparato quali fossero i punti deboli dell’avversario: Albus si irritava per i commenti indelicati sulla sua scarsa altezza e sulla sua debolezza, e James era particolarmente sensibile alle frecciatine sui suoi occhiali. Albus era convinto che, se si fosse accanito a dovere, sarebbe riuscito a radicare nel fratello un vero e proprio complesso per la miopia. Ma preferiva evitare di sfoderare l’artiglieria pesante con lui: non ci teneva a sperimentare quanto potesse essere perfido se adeguatamente stuzzicato.

   Un ghigno malizioso solcò le labbra di James quando questo controbatté:

   «Io gli occhiali posso toglierli. Tu, invece, come conti di aggiungere tutti i centimetri che ti mancano?»

   «Devo ancora crescere!» protestò Albus.

   «Ma crescerai al massimo di una spanna, se queste sono le premesse» constatò James, e rimarcò la differenza di altezza tra loro appoggiando un gomito sulla testa del fratello. Non contento, gli pizzicò un bicipite come la strega faceva con Hansel nella famosa fiaba per verificare quanto fosse ingrassato. «E non cambieranno nemmeno queste braccine flaccide.»

   «Vedremo se i miei muscoli ti sembreranno ancora un problema quando dovremo prenderti un cane guida. La miopia peggiora quando si invecchia» reiterò Albus.

   «Potrei scambiarti per il mio cane guida, allora, visto che non crescerai più di così» con scorno del fratello minore, James non sembrò accusare il colpo, anzi, un’aria leziosa si dipanò sul suo viso mentre restituiva l’insulto.

   «Scusatemi.»

   La sorpresa si diffuse come un fulmine sul volto dei presenti: troppo impegnati a seguire la disputa tra fratelli, nessuno si era accorto del nuovo arrivato, un ragazzetto pallido che osservava la scena a lato dei propri bagagli con distaccata curiosità.

   «Dovrei passare» sottolineò l’ovvio con un candore tale che nessuno riuscì ad afferrare il sottilissimo alone di sarcasmo di quelle parole. A parte Rose, il cui sopracciglio disegnò un arco dubbioso.

   «Da quello che ho capito, il problema è che sia una donna ad aiutarlo, giusto?» continuò serafico. Si avvicinò al baule e scostò educatamente la ragazza per poi chinarsi ad afferrare la maniglia libera. «Così la questione dovrebbe essere risolta, no?»

   Albus non fece in tempo a ringraziare lo sconosciuto che una mano sgraziata gli piombò sulla testa e prese a scompigliargli con furia i capelli.

   «Complimenti, Albus! L’ho sempre detto che saresti finito a Slytherin!» James, al contrario del nuovo arrivato, non aveva la delicatezza di mascherare la sua ironia. «Ci vediamo a Hogwarts!»

   Il minore dei Potter attese che il fratello e il suo stormo migrassero in un altro vagone, poi si rivolse finalmente al suo salvatore:

   «Ti ringrazio.»

   «Non ho fatto nulla di speciale» si schermì l’altro.

   «Era anche nel suo interesse aiutarti, altrimenti non sarebbe riuscito a passare» intervenne Rose, che fino a quel momento era rimasta barricata dietro un rovente silenzio: le risposte acide che aveva trattenuto tra i denti per non peggiorare la lite dei due fratelli le bruciavano tra le labbra e le arroventavano le gote. Se c’era una cosa che proprio non sopportava, era di essere costretta al silenzio quando mille idee le ribollivano nella gola.

   La battuta di Rose non intaccò l’aura compassata del ragazzo, che si informò con calma inglese:

   «Qual è la tua cabina?»

   «Nostra» specificò subitaneamente la cugina.

   Albus indicò con un cenno della testa la porta dello scompartimento limitrofo.

   «Quella» asserì. «Puoi unirti a noi, se non hai altri compagni» aggiunse, per non apparire scortese con chi si era appena mostrato gentile nei suoi confronti.

   Passò un secondo di silenzio prima che il ragazzo annuisse: lo aiutò a trascinare il bagaglio fino a destinazione, dopodiché uscì nuovamente per prelevare le sue valigie.

   Rose non permise ad Albus di seguirlo per restituire il favore ricevuto: costrinse l’amico a prendere posto sul sedile accanto al finestrino e bisbigliò cospiratoria:

   «Quel tipo non mi convince.»

   «Mi ha aiutato» obiettò Albus, senza comprendere l’ostilità della cugina.

   «E’… sfuggente» proseguì Rose, lanciando un’occhiata alle sue spalle per assicurarsi che l’interessato non la sentisse. «Come se portasse una maschera.»

   «Tu vedi doppi fini in ogni cosa» la smontò Albus con un sospiro.

   «E tu non ne vedi affatto. Il mondo non è una fabbrica di confetti» ribatté lei. Prese posizione di fianco all’amico con le braccia incrociate e il collo sprofondato nelle spalle come stendardi della sua testardaggine.

   Albus nutriva un profondo rispetto per la cugina: aveva una memoria proverbiale e un intuito affilato, ed aveva divorato in lettura l’equivalente di una biblioteca. Era certamente la persona più intelligente che conoscesse, dopo zia Hermione.

Ma proprio la sua astuzia la rendeva incredibilmente guardinga e sospettosa, come se la vita ricalcasse le intricate trame che la affascinavano, in cui tutti tradivano tutti. Forse le persone troppo intelligenti non sapevano godersi la vita con la stessa rilassatezza degli stupidi.

   «E, comunque, volevo difenderti mentre litigavi con tuo fratello» sbottò di colpo. «Ma avrei peggiorato la situazione. Ti stava già accusando di fare troppo affidamento su di me, ti avrei scavato la fossa se fossi intervenuta. Mi immagino i commenti: “Non solo hai meno muscoli, ma hai anche meno fegato di una donna”» si voltò a fissarlo irata, con occhi fiammeggianti: «Tuo fratello e i suoi amici hanno per caso una condivisione di neuroni? Ogni volta che aprivi bocca tu si zittivano, tutti seri come se tu avessi appena detto che Tu-Sai-Chi è morto di raffreddore, e ogni volta che apriva bocca lui erano tutti felici e sorridenti. Sembrano delle foche ammaestrate, sbattono le pinne se gli fai dondolare un pesce davanti al naso!» Rose rilassò la schiena contro l’imbottitura del sedile per riprendere fiato: aveva pronunciato quel rosario di improperi quasi senza respirare, e le guance avevano assunto la stessa tinta scarlatta dei capelli.

   «Rose, sei impareggiabile quando ti sfoghi in questo modo» sorrise Albus, divertito dal temperamento della cugina. Lei gli rispose con un brontolio greve poco prima che la porta si aprisse permettendo al ragazzo sconosciuto di entrare e posare i bagagli.

   Rose non staccò per un secondo gli occhi dal giovane mentre questo sistemava il baule, spazzava con la mano dal sedile alcune briciole invisibili e infine si accomodava di fronte a loro.

Albus pregò che il loro nuovo compagno non notasse il sospetto con cui lo esaminava la cugina. Fortunatamente lui fu troppo educato per farlo pesare e lei fu abbastanza furba da assumere nuovamente un contegno civile nel momento in cui il ragazzo si voltò nella loro direzione.

   «Non ci siamo ancora presentati» notò la cugina, porgendo la mano con simulata amicizia. «Mi chiamo Rose. Rose Weasley.»

   Gli occhi chiari del ragazzo si sgranarono lievemente per la sorpresa a quell’informazione e riacquistarono una dimensione normale quando si posarono sui riccioli rossi della ragazza.

   «Weasley» ripeté lui, con un accenno di sorriso. «Il tuo è un cognome abbastanza conosciuto.»

   «Lo so» rispose lei senza scomporsi.

   Albus le lanciò un’occhiata: i capelli cremisi del padre e gli occhi nocciola della madre sembravano gridare il nome dei suoi genitori, ma il ragazzo era stato abbastanza diplomatico da non farlo notare e fingersi sorpreso. Anche i vestiti della cugina, chiaramente passati sotto più mani prima di raggiungere le sue, erano un chiaro indice della famiglia di provenienza, ma perfino su questo aspetto lo sconosciuto aveva sorvolato.

   Le iridi fumose del ragazzo si focalizzarono su Albus, in attesa della sua presentazione.

   Il piccolo prese mentalmente un profondo respiro. Era il suo turno.

   «Mi chiamo Albus Severus Potter.»

   Le sopracciglia quasi albine del ragazzo si sollevarono fino a sfiorare la frangia.

   «Anche il tuo cognome è abbastanza famoso.»

   “Abbastanza famoso”. Apprezzava l’eufemismo.

   «Sì, all’incirca» Albus tentò maldestramente di sminuire. Non era una di quelle persone che si vantavano del lustro della famiglia: al contrario, avrebbe preferito nascere in una casa anonima, in modo da non dover sopportare la pressione costante del confronto con il padre. Di Harry Potter aveva ereditato il cognome, gli occhi verdi e i capelli corvini; per ora, le loro somiglianze si limitavano a quello.

   «E tu?» domandò, per deviare l’attenzione da se stesso.

   «Scorpius Malfoy.»

   La stima che il ragazzo nutriva per la sua famiglia gli fece scandire con orgogliosa calma ogni singola lettera.

   Rose appoggiò il viso contro una mano ma, sebbene la bocca fosse premuta contro il palmo, Albus poté udire ugualmente il commento della cugina:

   «Più che famoso, è famigerato.»

   «Volete qualche dolcetto, tesorini?»

   Albus provò per la prima volta in vita sua l’intenso desiderio di gettarsi in ginocchio e ringraziare ogni santo in ascolto: l’arrivo della signora dei dolci era stato provvidenziale nel coprire l’ultima parte dell’affermazione di Rose.

La cugina estrasse il portafoglio e ne esaminò il contenuto, facendo mille conti su cosa fosse più conveniente comprare. Albus si frugò nelle tasche, contò i soldi che aveva trovato e scelse. Scorpius studiò attentamente il contenuto del carrello, calcolò la portata del borsellino e decise a sua volta.

   «Io prendo una caramella TremilaGustiPiùUno e una Cioccorana» ordinò Rose.

   «Per me un Cioccorno e tre ZuccottiPlus» la donna gli allungò il cartoccio dei dolci, notando: «Hai gli stessi gusti di tuo padre, figliolo.»

   Albus si esibì in un sorriso gastritico nel prendere il sacchetto: dubitava fortemente che suo padre mangiasse le stesse cose. Innanzitutto, vent’anni prima le caramelle avevano solo mille gusti più uno, e come CioccoAnimali esistevano solo le CioccoRane. E poi, gli Zuccotti erano dolcetti gonfi di semplice crema di zucca: ora il ripieno frizzava e, in alcuni casi, danzava addirittura sulla lingua. Valentine, uno degli amici di suo fratello, sosteneva che una volta due omini di crema arancione avevano improvvisato un valzer nella sua bocca.

Certamente la signora intendeva fargli un complimento. Non poteva immaginare quanto fosse fastidioso avere un mito per genitore.

   «Per me una fetta di Torta della Strega» chiese Scorpius.

   Nessun commento sui suoi parenti: la consegna della busta avvenne in silenzio, la signora intascò il denaro e proseguì verso lo scompartimento successivo.

   «Hai preso un Cioccorno?» si stupì Scorpius, armeggiando con la confezione della sua fetta di torta.

   «Sì. Perché?» domandò di rimando Albus, mentre sistemava le sue compere sul sedile.

   «Sono molto più complicati da mangiare delle CioccoRane. Loro al massimo saltano. I Cioccorni…» si strinse nelle spalle. «Prova ad aprirla» lo invitò e, nel dirlo, poggiò il contenitore del suo dolce sulle gambe, come per prepararsi ad uno spettacolo.

   Albus fissò Rose, indeciso, la quale gli restituì uno sguardo vago: evidentemente, nemmeno lei aveva mai assaggiato un Cioccorno.

   Il ragazzo aprì con cautela la bustina, per richiuderla subito dopo con uno scatto: nel momento in cui i lembi di plastica si erano separati, un corno di cioccolato aveva cercato di pungergli il pollice con un nitrito rabbioso.

   «Era questo che intendevo» spiegò Scorpius. «Sarà un problema domarlo.»

   Albus riaprì la busta, questa volta completamente, e l’unicorno di cioccolato galoppò furioso sul suo braccio; il giovane fece appena in tempo ad afferrarlo per il dorso prima che la piccola belva gli conficcasse il corno in un occhio.

   «Aspetta che si addormenti» lo consigliò Scorpius.

   «Si addormenta?» gracidò Albus, tenendo lontano da sé la bestia scalciante.

   «Le industrie dolciarie hanno a cuore la verosimiglianza del prodotto, ma devono anche renderlo mangiabile. È ovvio che abbiano pensato ad un meccanismo per permetterti di gustarlo» brontolò Rose.

   La cugina non aveva quasi finito di parlare che l’unicorno si afflosciò tra le sue dita. Era quasi ridicolo con il grosso collo penzolante, le zampe ciondolanti e le labbra che si increspavano in una strana imitazione del russare umano. Albus lo addentò con circospezione, timoroso che quel mostriciattolo potesse risvegliarsi nel suo esofago e piantargli gli zoccoli nella trachea.

   «E’ buono» constatò, ingoiando e prendendone un altro morso.

   «Deve essere più che buono, altrimenti la gente comprerebbe solo le CioccoRane» replicò Rose.

   Masticando, Albus si trovò a fissare la sgargiante confezione sulle ginocchia di Scorpius: il cartone era stato piegato in modo da riprodurre le stamberghe delle streghe del tredicesimo secolo, le stesse che si vedevano raffigurate nei libri babbani di favole. Scorpius afferrò due angoli del tetto sgangherato e lo sollevò: all’interno riposava una fetta di torta alla crema spolverata di zucchero e pinoli e, a lato, sedeva una minuscola figurina umanoide.

   «Cos’è?» indagò Albus, allungando il collo.

   «La Torta della Strega ha una particolarità: trovi sempre una mini-strega dentro» spiegò Scorpius.

   «Davvero?» Albus si ricordò di essere in compagnia di un estraneo e non solo della cugina, quindi, anziché leccarle, cercò un fazzoletto su cui pulirsi le dita sporche di cioccolato.

   «E cosa fanno queste streghe?» domandò Rose, giocherellando con l’apertura della caramella.

   «Raccontano aneddoti poco conosciuti sul mondo della magia» per dare una prova pratica di quanto diceva, Scorpius avvicinò una mano all’interno della casetta, permettendo alla piccola fattucchiera di salirvi sopra.

Il vestitino aderente dell’incantatrice aveva uno spacco piuttosto marcato da cui si intravedeva il collant sottostante ma, nell’immensa ingenuità degli undici anni, nessuno dei tre la reputò una cosa maliziosa.

   «Avete mai sentito parlare dei Grandi Ceppi Magici? Si narra che, nei tempi antichi, essi si siano distinti nella massa dei maghi per la loro capacità di affinare gli incantamenti in maniera peculiare e sofisticata. Tali tecniche sarebbero state tramandate di generazione in generazione agli eredi di questi Grandi Ceppi, ed esisterebbero ancor oggi» raccontò la strega.

   «Non è così sconosciuta. L’ho letto in un libro qualche mese fa» minimizzò Rose, ficcandosi la caramella in bocca.

   «Non sempre sorprendono» ribatté Scorpius. La fattucchiera sul suo palmo cominciò a disfarsi lentamente in una voluta di fumo sottile, fino a lasciargli la mano libera di afferrare la torta.

   «Di cosa sa la tua caramella, Rose?» domandò Albus, sperando di prevenire ulteriori interventi della cugina.

   «Di serpe» rispose seccamente lei.

 

***

 

   «Quel tipo non mi piace.»

   «L’avevo intuito, Rose.»

   «Sto parlando seriamente, Albus. Non mi piace.»

   Erano riusciti a rimanere insieme fino a che non avevano raggiunto la stazione di Hogwarts. Poi avevano perso Scorpius nello sciame di gente che aveva affollato i corridoi del treno. Albus non era riuscito a scorgerlo sulle barche che li avevano portati fino a scuola e nemmeno ora lo distingueva nella marea di teste che li circondava.

   «Mio padre mi ha consigliato di non diventargli amica» rimbrottò Rose.

   «A Ron non è mai stato simpatico Draco Malfoy. E trasferisce quella vecchia antipatia su Scorpius» da quello che sapeva, zio Ron e Draco avevano rivaleggiato a lungo per zia Hermione, ma preferì non mettere al corrente la cugina di quel pettegolezzo che suo padre si era fatto sfuggire per una BurroBirra di troppo.

   «Mi fido più di mio padre che di un estraneo con cui ho conversato in treno» protestò Rose, scatenando una mezza sommossa tutt’attorno perché si era fermata nel bel mezzo della calca per ribattere.

«Comunque, non è solo per quello» Rose riprese a camminare per evitare di essere falciata. «Te l’ho detto, non mi piace che sia così sfuggente.»

   «A me non è sembrato tanto subdolo.»

   «Perché tu sei un sempliciotto, quindi è facile ingannarti.»

   «Grazie Rose» sbuffò offeso Albus. «Anche se fosse, potrebbe avere i suoi buoni motivi per non scoprirsi.»

   «Non mi interessano i motivi. Come posso fidarmi di chi non è sincero?» contestò Rose.

   La fila si arrestò di colpo, e Albus per poco non crollò addosso al tizio davanti a lui, che protestò rumorosamente rispedendolo al suo posto con uno spintone. L’improvvisa frenata fu dovuta non solo al raggiungimento dei cancelli di Hogwarts, ma anche dall’aspetto della professoressa che li attendeva.

   «Finalmente quest’anno hanno messo la Eeriemay ad accoglierci!» si felicitarono gli studenti più anziani.

   «Anche Slytherin produce qualcosa di buono, ogni tanto» fu il bisbiglio abrasivo di qualcuno.

   La strega del dolce di Scorpius non era riuscita a farli imbarazzare; la donna che li aspettava avrebbe fatto arrossire perfino un sasso. Senza l’uso della magia.

Era l’apoteosi della femminilità, con curve sode straripanti dai vestiti e una montagna di capelli rubino raccolti in una crocchia volutamente scomposta. Gli occhi erano evidenziati da un trucco sapiente che ne esaltava la grandezza e il verde delle iridi, e con altrettanta maestria erano state curate le labbra piene. La divisa da impiegata modello che indossava era il particolare veramente sconcio dell’insieme: un abito simile avrebbe dovuto evidenziare coprendo, ammiccare ma con pudore. C’era ben poco di coperto e pudico nell’abbigliamento della donna: la gonna era talmente corta da poter essere scambiata per un fazzoletto, e l’effetto malizioso era accresciuto dai tacchi alti che indossava. La blusa era stata alleggerita di alcuni bottoni, in modo che fosse più che visibile la prosperità dei seni, su cui si appoggiava un pesante ciondolo d’oro. Il mantello sanguigno non copriva in alcun modo tutta quell’abbondanza: era semplicemente appoggiato sulle spalle.

   La donna sorrise in uno sfavillio di denti perlacei nel dar loro il benvenuto:

   «Ragazzi, auguro a tutti voi un anno piacevole tra le mura di Hogwarts» detta da lei, ogni parola sembrava foriera di doppi sensi osé. «Io sono Rebecca Eeriemay, la responsabile di Slytherin. Fatemi la cortesia di seguirmi fino alla Sala Principale, dove i nuovi arrivati potranno essere assegnati alle varie Case. Prego» si voltò con una mossa da soubrette e cominciò ad ancheggiare nei corridoi, seguita a ruota dagli studenti. Nemmeno il pifferaio di Hamelin aveva riscosso tanto successo nel farsi tallonare da dei bambini.

   Albus procedette con gli occhi fissi a terra, troppo imbarazzato dalle forme che ondeggiavano davanti a lui. Rose fissò lo sguardo da un’altra parte, lievemente disgustata: che pessimo esempio dava alla categoria femminile.

Guardando ognuno da una parte diversa, raggiunsero finalmente la Sala Principale, sul cui soffitto si distendeva un sereno cielo notturno.

   Il Cappello Parlante venne portato dalla sensuale professoressa, e subito il copricapo cominciò a cantare.

   Albus quasi non sentì il testo della ballata, affogato nel suo rimuginare: forse era vero che lui era ingenuo rispetto alla cugina, ma non era giusto farlo passare per un credulone. E poi, Scorpius non gli sembrava un cattivo ragazzo. Forse appena un po’ ritroso, ma chi non lo sarebbe stato, sentendosi dare del traditore fin dalla culla?

   «Bradley Thomas!»

   Il primo nome lo riscosse istantaneamente dal suo stato meditativo.

Ad una velocità che non avrebbe creduto possibile la sua bocca si asciugò completamente e le mani cominciarono a grondare. Tra poco avrebbe saputo a quale Casa lo avrebbe ospitato per i successivi sette anni.

   «Ravenclaw!» gridò il Cappello.

   Albus attese, torcendosi le mani per l’ansia. I minuti parvero dilatarsi per dare più tempo al suo cuore di spaccargli il petto mentre i nuovi arrivati venivano chiamati uno per uno.

   «Malfoy Scorpius!»

   Il ragazzino trasalì e si sporse per riuscirlo a vedere. Scorpius avanzò senza la minima esitazione, con un’ombra di sorriso distesa sulle labbra. Si sedette e il Cappello quasi non si appoggiò sulla sua testa prima di annunciare:

   «Slytherin

   Sentì la cugina irrigidirsi al suo fianco, come se i suoi dubbi su quel ragazzo fossero stati confermati. Albus, al contrario, provò solo un enorme sollievo: se fosse finito a sua volta a Slytherin, almeno non sarebbe stato solo.

   Vennero smistate altre tre matricole prima che il suo nome venisse pronunciato:

   «Potter Albus Severus!» intonò Eeriemay.

   La professoressa non gli riservò un trattamento di favore, cosa che Albus apprezzò oltre ogni dire: gli sorrise incoraggiante come aveva fatto con tutti gli altri e gli posò con grazia il cappello sulla testa.

   Trascorse qualche istante di silenzio totale in cui Albus quasi dimenticò come si facesse a respirare. L’attenzione di tutti gli studenti presenti si era focalizzata di lui, in scalpitante attesa del verdetto; l’aria sembrava vibrare tanto era gravida di tensione.

Poi il cappello emise la sua sentenza:

   «Slytherin

   La notizia venne accolta da un mutismo glaciale. Gli Slytherin non si aspettavano quell’assegnazione e ancor meno i Griffindor, che lo guardavano come se li avesse appena pugnalati alle spalle. Soprattutto il fratello, con gli occhi sbarrati dalla meraviglia e dall’orrore.  

   Poi la signorina Eeriemay applaudì, felice che un nuovo pargolo si aggiungesse alla Casa di cui era responsabile, e, sul suo esempio, un’ovazione si sollevò dalla tavola degli Slytherin.

   Albus dovette fare attenzione a non inciamparsi nella tunica mentre si rialzava e si dirigeva al tavolo degli Slytherin. Suo padre gli aveva detto che poteva parlare con il Cappello e chiedergli di essere affidato ad una particolare Casa, ma non l’aveva fatto. In un certo senso, voleva sapere l’opinione del Cappello senza interferire con essa in alcun modo. E poi, non vedeva il senso di finire in una Casa su richiesta personale: doveva essere assegnato in base alle attitudini, non ai capricci.

   Cercò nel tavolo la chioma bionda di Scorpius e, individuata, vi si accostò.

   «Anche tu a Slytherin» si congratulò il ragazzo, facendogli spazio perché potesse sedersi.

Albus annuì, prendendo posto in silenzio.

«Conosci qualcun altro di questa Casa?» al cenno negativo del piccolo Potter, Scorpius si scostò appena perché fosse visibile il ragazzo che sedeva alla sua destra.

La buona creanza impedì ad Albus di esternare il proprio stupore: il giovane apparso a lato di Scorpius sembrava un elogio alla buona salute e un polo attrattivo per le malattie al contempo. Neppure uno dei lucidissimi capelli castani era sfuggito all’ira del pettine, che li aveva sistemati in una simmetria implacabile; allo stesso modo, la pelle levigata era priva di qualsiasi imperfezione. Il fisico del ragazzo, però, era quello di un sollevatore di stuzzicadenti, esile e delicato come una scultura di cristallo. Ad accentuare la fragilità del corpo contribuivano il colorito pallido tendente al verdognolo delle guance ed il fazzoletto ricamato che il giovane teneva vicino a bocca e naso, come se temesse un conato da un momento all’altro.

   «Lui è Macauley Nott» lo introdusse Scorpius.

   Lo sconosciuto roteò i suoi occhi castani su Albus, e il suo sguardo fu più intenso di una radiografia.

   «Non mi sembra sano. Ha gli occhi vitrei e suda troppo» fu l’analisi clinica di Macauley.

   Albus fissò il suo riflesso in una delle coppe lucidate presenti sulla tavola: non gli sembrava che il suo sguardo fosse così assente, e non stava sudando affatto. Decise di ignorare la diagnosi non richiesta e porse la mano in segno di cameratismo:

   «Piacere. Mi chiamo Albus…»

   Non riuscì a terminare la presentazione: Macauley trasalì come se gli avesse teso un Basilisco al posto della mano.

   «Pazzo! Lo sai quanti germi si trasmettono con il contatto fisico?» strepitò, attutito dal fazzoletto che si era premuto sul viso come una mascherina. «Esprimi quello che devi esprimere alzando il pollice.»

   Albus fissò sconcertato Scorpius, il quale sillabò muto: “È un po’ strano. Assecondalo”.

   Il piccolo tentò di nuovo: «Mi chiamo Albus Severus Potter» e alzò il pollice.

   «Più lontano» ordinò Macauley, nauseato. Albus fece retrocedere il dito verso il petto. «Più lontano di così!»

   «Nott, se lo allontana ancora si spezza il gomito» lo calmò Scorpius, quando le articolazioni di Albus minacciarono di sconfinare.

   «Piacere di conoscerti» sentenziò lo strano tipo, rilasciando la presa sul fazzoletto che tornò a sostare in prossimità di bocca e naso.

   «Non è cattivo. Devi solo imparare a conoscerlo» sdrammatizzò Scorpius. «Allora, sei contento di essere a Slytherin

   «Sì» Albus fu il più sorpreso di tutti nel sentire quella sillaba uscirgli dalle labbra.

   «Davvero? E la tua famiglia Griffindor approva?» discusse caustico Macauley.

   «All’inizio pensavo che non mi sarebbe piaciuto venire a Slytherin» ammise Albus, guadagnandosi un’occhiata sprezzante da Nott; Scorpius, al contrario, si mantenne indifferente. «Più che altro per i pregiudizi della gente. Però non mi sembra male come Casa. È solo malvista dagli esterni.»

   «Altroché se è malvista!» sbottò Macauley. «Non pensano mai che Tu-Sai-Chi poteva finire in una qualunque altra Casa. Non è stata Slytherin a crearlo, ma lui ha creato tutti gli stereotipi che la contraddistinguono! Stereotipi falsi» aggiunse, piccato.

   «Allora dobbiamo impegnarci per fare crollare queste credenze, no?» ribatté con ovvietà Albus.

   Nott lo fissò indagatorio, Scorpius interessato.

   «Gli Slytherin tentano da decenni di riabilitare il loro nome. Cosa ti fa credere che quest’anno possa cambiare qualcosa?» lo mise in dubbio Macauley.

   «Quest’anno ci siamo noi» rispose semplice Albus.

   Scorpius nascose un sorriso mascherandolo da colpo di tosse; Macauley scostò per la prima volta il fazzoletto dal viso per esclamare:

   «Sei più tenace del Morbillo dei Goblin!»

   «Grazie…?» traballò Albus, indeciso se quello fosse un complimento o meno.

   Il trillo gioioso della Eeriemay distolse l’attenzione del giovane Potter:

   «Weasley Rose!»

   Il Cappello non fece fatica a decidere. D’altronde, Albus stesso avrebbe scommesso la sua bacchetta sulla Casa della cugina.

   «Ravenclaw!» fu infatti la sentenza del Cappello.

   E, con lei, lo Smistamento terminò.

 

***

 

   Era stata una cena bizzarra.

   Aveva mangiato con un misto di felicità e agitazione: quando prevaleva la contentezza, il cibo gli sembrava squisito; quando prevaleva l’ansia, i piatti diventavano improvvisamente acidi.

Era contento che il suo discorso avesse riscosso l’approvazione di Macauley e Scorpius. Tuttavia, lui stesso non era convinto delle sue parole: non era ancora sicuro che Slytherin fosse la Casa che faceva per lui.

Da quanto sapeva dai racconti degli studenti più anziani, era normale portarsi simili dubbi anche al secondo anno: solo il tempo gli avrebbe fatto capire perché il Cappello avesse scelto quella strada per lui.

Ad ogni modo, la rete di preconcetti che imprigionava quella che era diventata la sua Casa non gli piaceva per nulla: che senso aveva giudicare intere generazioni di maghi per le nefandezze di un unico individuo?

Era sincero quando aveva dichiarato di voler scardinare quel substrato di malignità gratuite.

   Comunque, non erano state solo le sue riflessioni a rendere strampalato quel pasto.

   Macauley era uno spasso da guardare mentre mangiava: aveva studiato le posate alla ricerca di macchie e batteri, e aveva esaminato ogni singolo boccone prima di portarlo alle labbra.

Albus si girò sulla schiena e osservò il letto a castello dall’altro lato della stanza: nel giaciglio superiore, Macauley dormiva protetto da una mascherina ipoallergica.

Sorrise, scuotendo la testa. Se non altro, sua madre sarebbe stata felice di sapere che uno dei suoi compagni di stanza fosse così attento all’igiene.

   «Potter, dovresti dormire» bisbigliò Scorpius dal materasso sopra il suo.

   «Anche tu» replicò Albus. «E chiamami con il mio nome.»

   «Non ti piace “Potter”?»

   «Preferisco Albus».

   Gli piaceva il suo cognome. Ma era troppo generico. E poi, era sua padre il Potter per eccellenza.

   «D’accordo, Albus. Ma dovresti comunque dormire. Domani cominciano le lezioni» lo consigliò Scorpius.

   Il ragazzo si inabissò nelle coperte fino al naso, brontolando un assenso.

   «Scorpius?» tremulò nel buio.

   «Sì?»

   «Ti seccherebbe se domani mi sedessi vicino a te, a lezione?»

   Ci fu un movimento nel materasso di sopra che Albus non riuscì a decifrare, poi giunse risposta:

   «Albus, ho accettato di dividere il letto con te. Cosa ti fa pensare che ti caccerei se ti sedessi vicino a me?»

   Il piccolo si sorprese del tono di Scorpius. Aveva ipotizzato una risposta del tipo: “Ma certo, nessun problema”, il tutto condito da un sorriso che avrebbe falciato l’ombra della stanza. C’era un sottofondo ironico in disaccordo con l’immagine gentile e luminosa di Scorpius. Doveva essere davvero stanco, e lui lo stava tenendo sveglio.

   «D’accordo, grazie. Buonanotte, Scorpius» tagliò corto, per non infastidirlo ancora.

   «Sogni d’oro, Albus» si accomiatò a sua volta l’altro.

   Il bambino restò ancora qualche istante immobile nel letto, aspettando di addormentarsi.

   Quando finalmente si sentì abbracciare da Morfeo, gli tornarono in mente le parole della cugina.

   Come posso fidarmi di chi non è sincero?

   Poi scivolò nel sonno, e il variopinto mondo onirico ebbe il sopravvento.







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Grazie per essere arrivati fin qui, spero che anche i prossimi capitoli saranno di vostro gradimento<3

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Capitolo 2
*** Vita Scolastica ***


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2

Vita Scolastica

 

 

 

   Per diventare parte della propria Casa era necessario vivere il suo spirito in ogni istante della giornata.

Per questo, nel momento in cui il Cappello aveva decretato le rispettive appartenenze, i loro vestiti erano magicamente mutati: gli indumenti che erano stati esplicitamente richiesti bianchi – alcune sciarpe e cravatte – ora vantavano lucenti strisce verdi e argentee, e su tutto il resto del vestiario si era concretizzato il simbolo degli Slytherin.

Su tutto. Proprio tutto.

Queste furono le considerazioni di Albus quando, uscendo dalla doccia, gettò uno sguardo sulla sua biancheria. Poteva accettare l’emblema della Casa sulla canottiera, ma le mutande con il simbolo serpentino sfioravano l’eresia.

Avrebbe voluto sapere il nome del burlone che aveva ideato quello scherzetto. Non riusciva a conciliare l’idea della Mc Granitt, la loro integerrima condottiera, con quella di un buontempone dedito alla personalizzazione dell’intimo altrui.

   Finì di asciugarsi e cominciò a vestirsi, e lì ebbe inizio la seconda riflessione della mattina: la tunica che avevano indossato il primo giorno era stata rimpiazzata da una divisa scolastica più moderna. Lo sguardo di Nott non era stato dei più incoraggianti quando gli aveva chiesto perché dovessero sostituire la veste nera. «Ci fanno indossare quelle palandrane solo il primo giorno. È una specie di rito, visto che per secoli i maghi hanno vestito così. Un tributo, per meglio dire. Ma, finita la commemorazione, ci danno le vere divise» gli aveva spiegato.

Albus allacciò la fibbia dei pantaloni e procedette nell’abbottonatura della camicia. Secondo lui, comunque, la tunica tenebrosa aveva tutto un altro fascino rispetto al completo “contemporaneo”.

   Stava allacciando la cravatta quando Scorpius lo chiamò dalla stanza:

   «Albus, ti stanno…»

   «Spiega a questo stupido aggeggio che non sono il suo padrone, che Piton lo strafulmini!» starnazzò Macauley, vagamente isterico.

   Albus si gettò fuori dalla porta del bagno, incurante dei capelli ancora umidicci che cominciavano a formare un alone scuro sul colletto.

E finalmente capì quale fosse il motivo dell’agitazione di Nott.

Qualcuno lo stava chiamando al Cercapersone.

Nel mondo dei maghi, il Cercapersone non si limitava a squillare come un normale cellulare: quando riceveva un messaggio o una telefonata, il Cercapersone sguainava un paio di gambette metalliche e scorrazzava in giro alla ricerca del destinatario. Gli stregoni avevano adottato la tecnologia babbana per la sua indubbia praticità, ma avevano voluto aggiungere un tocco personale al tutto.

Albus si mordicchiò l’unghia dell’indice, imbarazzato: non aveva detto ai suoi genitori che il suo Cercapersone era rotolato giù per le scale. E caduto dal terrazzo. E finito in lavatrice. In realtà, era un miracolo che fosse sopravvissuto all’estate: forse gli oggetti incantati erano più tenaci di quelli comuni. Ma tutti quegli urti non lo avevano comunque lasciato illeso: ora il suo Cercapersone identificava come suo possessore la prima persona che vedeva, un po’ come le paperelle che etichettavano come mamma la prima cosa con le zampe rossicce che passava loro davanti, anche un umano in stivali da pioggia.

Quella mattina, la “mamma” del suo cercapersone era Macauley.

Era piuttosto buffo vedere un ragazzino di undici anni inerpicato su una sedia con la bacchetta spianata e gli occhi strabuzzati, attaccato da una temibile agendina elettronica che continuava a sbatacchiare sulle gambe della seggiola. Un elefante terrorizzato da un topo avrebbe fatto la stessa impressione.

   «Scusami Macauley» Albus corse in suo aiuto recuperando il Cercapersone, che continuò a zampettare a vuoto nell’aria. «Ti sei spaventato?»

   «Rispondi e porta quella diavoleria lontana da me!» sbottò lui, rinfoderando la bacchetta. «Non ti sei asciugato bene i capelli» lo rimproverò nello scendere dalla sedia.

   «Dovevo rispondere» replicò Albus. Si slanciò all’improvviso in avanti per tenere fermo il Cercapersone, ancora convinto di appartenere a Nott. Quella scatoletta aveva la forza di un Minotauro.

   «Se ti viene il raffreddore, dovrai starmi a dieci metri di distanza» lo ammonì Macauley, rifugiatosi dietro la sedia per sfuggire alla perseveranza del diabolico marchingegno.

   «Ma Macauley, siamo in stanza insieme…»

   «Dieci, ho detto!»

   L’Albus mentale roteò gli occhi con un sonoro sospiro mentre l’Albus reale annuì e si ritirò a sedere sul suo letto per rispondere alla chiamata.

   Scorpius si era mantenuto totalmente neutrale alla faccenda: aveva nascosto qualunque esternazione, fosse un sorriso o una smorfia, dietro lo scudo di un libro, e aveva continuato la lettura tranquillo come se nulla stesse accadendo.

   Il minore dei Potter osservò per un attimo il colore del suo Cercapersone. I maghi avevano voluto dare un ennesimo tocco stravagante alla loro rivisitazione della tecnologia; avevano riprodotto nel Cercapersone le funzioni di un telefono cellulare e l’estetica di un’agendina elettronica, con una sfiziosa novità: il coperchio metallico variava la propria tinta in base all’umore di chi stava chiamando. Dalla tonalità azzurra appena intaccata da un’ametista pallido Albus capì che il mittente era fondamentalmente sereno, ma con una punta di agitazione.

   Sollevò il coperchio e diede inizio alla comunicazione.

   «Albus! Come è andata la prima settimana di lezioni?»

   «Mamma, mi hai chiamato ieri sera. Lo sai come è andata» rispose serafico lui.

   L’apprensione di sua madre era da Torneo TreMaghi, ma la dolcezza con cui si preoccupava per lui era troppo genuina per inacidirlo: non era mai accaduto, nella storia della famiglia Potter, che la prole si fosse mostrata villana con Ginny.

   «Hai dormito bene?»

   «Sì.»

   «Oggi hai molte lezioni?»

   «Ho Trasfigurazione subito dopo mangiato. E poi abbiamo le “Scholzioni” nel pomeriggio» elencò Albus.

   «Le cosa?»

   «Difesa contro le Arti Oscure e Volo» si riprese lui.

   Dall’anno precedente, Hogwarts vantava due professori tedeschi tra le file dei propri docenti, i cosiddetti “fratelli teutonici”. Poiché di cognome facevano Scholz, gli studenti chiamavano “Scholzioni” le loro ore, nomignolo che si guardavano bene dall’usare in presenza dei due insegnanti, che non avrebbero gradito. Per meglio precisare, forse il minore si sarebbe messo a ridere e gli avrebbe perfino offerto una Burrobirra per la fantasia, ma il maggiore non avrebbe di certo apprezzato l’umorismo. Meglio essere cauti con quel mastino di Achill Scholz.

   «Non ti sei asciugato i capelli» notò lei.

   Nott estrasse la bacchetta e, facendo uscire dalla punta un filo di fumo, vergò una frase nell’aria: “tua madre è una santa”.

   «Stavo per farlo quando mi hai chiamato» si giustificò Albus.

   «Allora ti saluto. Non voglio che ti ammali.»

   Macauley picchiettò due parole perché si allontanassero tra di loro e fece un’aggiunta nello spazio appena liberato: “tua madre è davvero una santa”.

   Albus salutò Ginny e chiuse l’agenda, che venne poi riposta nel cassetto del comodino; ancora non capiva come facesse ad aprirlo da sola con quelle zampette microbiche.

   «Perché mia madre sarebbe una santa?» domandò, avviandosi verso il bagno.

   «Perché impedisce ai tuoi pericolosi germi di bivaccare in questa stanza» lo delucidò Nott.

   «Non mi sono ancora ammalato!» protestò l’altro.

   «E’ meglio se ti asciughi i capelli, Albus» intervenne Scorpius, accompagnato dallo sfogliare del libro.

   «E se i tuoi bacilli sono testardi come te, contagerai tutta Hogwarts» quantificò Macauley.

   «Non sono testardo» si oppose Albus.

   «Sì che lo sei.»

   «Non lo sono.»

   «Però ti ostini a negare di essere testardo.»

   «No, sono tenace nell’affermare di non esserlo.»

   «Non cambia molto.»

   «La tenacia è una virtù, la testardaggine un vizio.»

   «Macauley, ha vinto lui» sancì Scorpius, appoggiando finalmente il tomo e sporgendosi dal letto per fissare i due contendenti. «Rassegnati. E lascialo andare ad asciugarsi i capelli, se proprio temi l’epidemia.»

   Nello spartito dei discorsi di Scorpius ogni tanto apparivano delle note discordanti. In quei sette giorni di conoscenza, Albus si era ritagliato un’ideale del suo compagno di stanza: si sedeva sempre accanto a lui, a lezione e nella Sala Principale, non si era mai mostrato scortese con nessuno e studiava con particolare impegno, tanto da suscitare lo spirito competitivo di Rose. Eppure, alcune volte quell’immagine di studente modello vacillava, come un equilibrista che perde l’assetto per qualche secondo. Era un baluginio di un istante, un tentennamento appena intravisto, prima che lo Scorpius di sempre riprendesse il sopravvento.

   I suoi pensieri si dissiparono per un rumore di artigli contro la finestra. E ancor più dall’invettiva di Macauley:

   «Cos’è quel mostro

   «Il mio gufo» lo liquidò Scorpius.

   Albus fissò il rapace che attendeva al di là del vetro: era un esemplare piuttosto grosso, rispetto alla media, con un piumaggio bianchissimo appena macchiato da alcune ombre marroncine.

   «Non vorrai farlo entrare?» inorridì Nott.

   «Se è arrivato fin qui, vuol dire che ha qualcosa da consegnarmi» si difese Scorpius, avvicinandosi alla finestra.

   «Ma perché non fai come Albus e non ti prendi un Cercapersone? Non impazzito, possibilmente.» Albus arginò bruscamente l’onda di simpatia che aveva provato per Nott: era stato stupido pensare che Macauley fosse in grado di fare un complimento.

   «Perché dovrei?»

   «Perché un’agenda non perde le piume, non porta malattie e non caccia schifezze che gozzovigliano nel sottosuolo» sciorinò Macauley.

   «Il mio gufo è addestrato. Non fa niente di tutto questo» ribatté Scorpius. E aprì la finestra.

   Nott corse ai ripari infilandosi prontamente la mascherina, mentre Albus si allungò verso il letto del compagno per vedere meglio il rapace appollaiato docilmente sul suo braccio.

   «Di che razza è?» s’informò, incantato dalle piume immacolate.

   «E’ un gufo delle nevi» illustrò Scorpius, solleticando un’ala all’uccello perché l’aprisse. «Ha il piumaggio ancora un po’ scuro perché è un esemplare giovane» gli indicò le imperfezioni marroni. «Quando crescerà sarà completamente bianco.»

   «Almeno sei abbastanza civile da non far atterrare il tuo piccione in Sala Comune» rumoreggiò Macauley da un angolo della stanza.

   Albus strinse le labbra per soffocare un risolino: la faccia schifata di Nott quando gli uccelli di alcuni studenti planavano sulle tavole imbandite poteva essere paragonata a quella di un ogre che vede un tutù da danza classica. “Arma batteriologica di massa”, li aveva definiti. Probabilmente i nervi e le difese immunitarie dell’amico non avrebbero retto se le abitudini fossero rimaste immutate rispetto a venti anni prima: ormai erano sempre di più gli studenti che si affidavano all’elettronica e sempre meno i pennuti che sorvolavano le mense di Hogwarts.

   «E’ un gufo, non un piccione» si premurò di precisare Scorpius, tirando il nastro che legava un pacchetto alla zampa dell’uccello.

   «Come mai non lo fai atterrare con tutti gli altri?» considerò Albus.

   «Perché lui non è un troglodita» rispose in sua vece Nott. «Tuttavia, se fosse davvero evoluto, lo farebbe appollaiare da qualche altra parte.»

   «E dove?» replicò signorile Scorpius.

   Alcuni colpi sbarazzini alla porta interruppero la loro discussione.

   «Ragazzi? Siete pronti?» gorgheggiarono delle voci al di là del legno.

   Quell’anno a Slytherin erano stati assegnati tre maschi e ben sette femmine; per compensare, Ravenclaw contava due deliziose fanciulle e nove pargoli.

Le Slytherin si erano dimostrate molto socievoli nei loro confronti e, per cementare il legame tra le “matricole serpentine”, avevano proposto di scendere sempre tutti assieme per la colazione. Il rituale prevedeva anche il commiato della buonanotte e l’obbligo, per loro tre, di cedere il passo alle femmine nell’entrare in una stanza. Non era ben chiaro perché l’ultima regola dovesse saldare i rapporti personali, ma l’avevano accettata con un’alzata di spalle.

Per essere esatti, Scorpius e Albus avevano concordato con quel buffo galateo. Macauley si era dimostrato un poco recalcitrante.

   «Sono di nuovo qui, quegli untori in gonnella» si risentì infatti.

   «Macauley, non essere sgarbato» lo calmò Scorpius, aprendo la finestra per far uscire il gufo.

   «Sono obiettivo» si giustificò lui. «Ti ficcano quelle unghie smaltate ovunque per farti il solletico. E i baci, poi. Quello schioccare di saliva sulle guance» Nott buttò fuori la lingua come per un conato, per evidenziare la sua misoginia.

   «Non possiamo restare rintanati tutto il giorno» comunicò Scorpius. Scavalcò con le gambe il bordo del letto ed atterrò con un tonfo smorzato sul pavimento. «E siamo già in ritardo per la colazione.»

   Il sospiro snervato di Macauley uscì molto simile a “stormo di invasate”, ma si aggiunse comunque ai suoi compagni nell’apertura della porta.

   «Oh, finalmente!» li salutò Cenerentola.

   «Pensavamo non vi foste svegliati affatto» proseguì Lentiggine.

   Si sarebbero certamente infuriate se avessero saputo dei soprannomi che avevano loro affibbiato, ma non lo avevano fatto con cattiveria: una settimana non bastava per ricordarsi i nomi di tutto l’istituto. Scorpius era quello vagamente più fisionomista di loro tre, ed anche lui si trovava in difficoltà; Nott non si impegnava nemmeno: per lui erano tutte portatrici di germi.

I nomignoli erano opera di Albus: Cenerentola si era guadagnata il suo pseudonimo per la propensione a raccogliere i capelli biondi in un fiocco azzurro, e Lentiggine per le efelidi che le punteggiavano il nasino alla francese. Gli epiteti proposti da Nott erano stati scartati per ovvie ragioni.

   «Albus, non ti sei asciugato i capelli!» notò Fiamma, caratterizzata dai capelli rossi.

   L’interessato arricciò le labbra, scuotendo il capo. Possibile che il mondo dovesse focalizzarsi sullo stato della sua chioma?

   «Oh, che carino!» cinguettò Cenerentola, avvolgendolo in un abbraccio e guadagnandosi così lo sdegno di Nott: il contatto fisico era il primo veicolo di contagio.

   «Assomiglia a mio fratello minore» pigolò Fiamma, unendosi alla stretta, e Albus poté sperimentare l’emozione del prosciutto pressato tra due fette di sandwich. Per una qualche ragione a lui ignota, tutte le ragazze di Slytherin lo trovavano adorabile, e cercavano ogni scusa possibile per coccolarlo. Avrebbe preferito che non lo facessero: era imbarazzante sentirsi soffocare da un abbraccio perché la sua statura non raggiungeva quella della maggior parte delle femmine della sua Casa.

   «Non dovresti andare in giro così, ti prenderai un raffreddore» si impensierì Lentiggine.

   «E’ quello che gli ho detto anche io» si indignò Macauley.

   «Oh, Nott, se anche tu vuoi un po’ di attenzioni basta chiedere» vocalizzò Lentiggine, avvicinandosi a lui.

   «Prima che tu faccia un altro passo ricorda: ho una bacchetta» minacciò Macauley e, nel dirlo, infilò una mano nel mantello.

   «Nott, non vorrai lanciarmi uno Schiantesimo, vero?» si allibì lei.

   «Mantieni una distanza di sicurezza» le suggerì Macauley.

   «Siamo in ritardo per la colazione» ricordò Scorpius a tutti quanti, prima che Lentiggine facesse un altro passo e Nott… solo il cielo sapeva come avrebbe potuto reagire Nott alla vicinanza di una pericolosa fonte di agenti patogeni.

   «Andiamo» decretarono le ragazze, portandosi via il piccolo Potter come trofeo da viziare. Albus si voltò disperato e vide la riprovazione di Nott e l’enigmatico sorrisetto di Scorpius. E nessuna traccia di cameratismo o comprensione.

   Chissà come avrebbe reagito sua madre se gli avesse raccontato tutti i dettagli della vita ad Hogwarts.

 

***

 

   Aveva temuto seriamente di rivedere la sua colazione.

   La Eeriemay aveva svolto la sua lezione di Trasfigurazione ben fasciata da uno dei suoi vistosi completi, inadeguati all’insegnamento di giovani menti che si avviavano alla tempesta ormonale.

 Ma non era stato l’abbigliamento succinto della prof a sconvolgere il suo stomaco.

La donna aveva portato in classe un enorme sacco e aveva distribuito il contenuto tra gli alunni, raggiante come una bambina a Natale.

Albus non pensava che una femmina potesse toccare qualcosa di simile senza urlare. Lui non avrebbe mai toccato qualcosa di simile senza urlare.

Ragni. La Eeriemay aveva portato dei grossi, enormi, pelosi, schifosi ragni.

   «Cambiategli colore, ragazzi. E usate l’immaginazione» cantilenò zuccherosa, accavallando le gambe sulla scrivania; la parte maschile dell’aula fu distratta per la successiva mezz’ora, e i ragni cominciarono ad aggirarsi in libertà.

   Albus aveva allontanato istintivamente la sedia dal banco, finendo quasi in braccio Rose, seduta dietro di lui. La cugina aveva immobilizzato il suo aracnide con un colpo di bacchetta e una freddezza micidiale, dopodiché si era picchiettata la punta dell’asticella sulle labbra alla ricerca di un’idea innovativa. Scorpius aveva tracciato un cerchio con la verga sottile attorno al ragno, intrappolandolo in una circonferenza argentata, e aveva cominciato a ripetere tra sé la formula che la professoressa aveva appena spiegato per testare gli accenti corretti. Nott aveva stordito la sua bestia spruzzandole uno spray addosso, ed il ragno si era afflosciato in uno stato comatoso mentre il ragazzo si muniva di maschera e guanti di lattice prima di proseguire.

Albus aveva passato qualche interminabile minuto in un’imbarazzante rappresentazione in cui lui avvicinava le mani al ragno, quello sollevava le zampe, o le ganasce, o quello che erano per attaccare e lui che ritraeva le dita. Poi lui le avvicinava di nuovo e il copione si ripeteva.

Stava per schiacciarlo sotto il libro di Trasfigurazione in preda all’esasperazione e allo schifo, quando una bacchetta era saettata verso di lui e aveva rinchiuso l’aracnide in una circonferenza argentea.

   «Grazie Scorpius» aveva mormorato, con voce traballante per la nausea.

   Il compagno aveva mosso appena la mano per fargli capire di non sentirsi in debito, e aveva ricominciato a lavorare al suo ragno.

   Alla fine della lezione, ognuno aveva tentato di fare del suo meglio. Si potevano vedere ragni rossi, verdi, gialli, a strisce, a fiori, a pois. Ma restavano comunque disgustosi aracnidi ottozamputi.

I loro sforzi avevano fruttato una decina di punti per Ravenclaw e venti per Slytherin: la Eeriemay era rimasta favorevolmente impressionata dalla tinta omogenea che erano riusciti a stendere magicamente sui ragni, e aveva molto gradito la fantasia a farfalle adottata da Rose.

Ma Albus non era riuscito a rallegrarsi troppo per quella vittoria: le sue guance avevano lo stesso colore del suo maglione, e il suo stomaco si era arrampicato in una posizione imprecisata tra la gola e il cuore.

Non avrebbe mai più passato un solo secondo della sua vita in compagnia dello zio Ron quando era in vena di raccontargli storie dell’orrore sui ragni: era principalmente colpa sua se era diventato aracnofobo.

   «Forse Macauley ha un antiemetico…» valutò Scorpius quando il pallore di Albus si avvicinò a quello del primo stadio di rigor mortis.

   Albus fece perno sul mento e roteò la testa in cenno di diniego, per poi schiantare la fronte sul tavolo: era bastato quel semplice movimento per fargli sentire sul palato il sapore della bile.

   «Tu ascolti troppo le favole di mio padre» lo rimproverò Rose. «E poi, cosa può farti un ragno? E’ un animale stupido. Puoi bloccarlo con un colpo di bacchetta, o schiacciarlo con una scarpa.»

   Albus sollevò un palmo in segno di resa.

   «Rose, ti prego. Non vorrei sporcarti la divisa» rantolò Albus.

   «Sei senza speranza» si rabbonì la cugina, carezzandogli affettuosa i capelli corvini.

   «Forse staresti meglio se mangiassi qualcosa» si offrì Scorpius.

   Albus mandò un lamento incomprensibile, che il compagno interpretò come un assenso.

   «Fraternizzi ancora con lui?» ringhiò Rose, quando Scorpius sparì oltre lo stipite della porta.

   «Ancora non ti convince?» boccheggiò Albus.

   Pensava che la cugina si fosse finalmente ricreduta su Scorpius: era dall’inizio della scuola che si trovavano tutti insieme a studiare nelle aule di lettura di Hogwarts. Tutti a parte Nott, che preferiva ripassare le lezioni al sicuro nella loro camera. Inoltre, quel giorno Scorpius si era dimostrato particolarmente altruista, aiutandolo a non rovinare per terra nel tragitto dall’aula alla sala studio.

Ma, nonostante il comportamento di Scorpius fosse irreprensibile, il muro di diffidenza della cugina non era ancora crollato.

   «Sembra sempre che voglia nascondere qualcosa» inquisì infatti.

   «Rose, ognuno di noi ha qualcosa che non vuole rivelare. Magari ce ne parlerà lui stesso quando ci conosceremo meglio» agonizzò Albus.

   «Quel giorno mi ricrederò» pontificò lei.

   Albus riuscì ad appoggiare faticosamente la testa sulle braccia abbandonate sul tavolo.

   «Dovrei farti conoscere Nott. Sono certo che andreste d’accordo» stramazzò lui. Li immaginava già, Macauley che spargeva disinfettante tutto intorno e Rose che lo fissava con sospetto da dietro la costola di un libro.

   «Non pensavo che la Eeriemay fosse così brava con le trasfigurazioni» ponderò a voce alta Albus, per cambiare discorso.

   «Buon sangue non mente» chiarì Rose. «E’ la nipote della nostra preside, dopotutto.»

   La testa di Albus scattò verso l’alto, e si accasciò il secondo successivo: meglio non tentare manovre troppo avventate con l’apparato digerente in sciopero.

   «La Eeriemay… nipote della McGranitt?» tartagliò, annichilito.

   «Mi pare che la preside sia la sorella di sua madre» citò Rose, punzecchiandosi il mento con il tappo della penna.

Era impossibile che quelle due avessero del sangue in comune, assolutamente impossibile. Albus non le riusciva a pensare neppure come vicine di posto a mensa, figurarsi come parenti! Erano il diavolo e l’acqua santa, il nero e il bianco, il gatto e il cane, Lord Voldemort e suo padre!

Impiegò qualche minuto prima che il suo stomaco debilitato assorbisse la notizia. Se non altro aveva capito chi gli avesse apposto il simbolo della Casa anche sulle mutande.

   «Non è un caso se gli studenti più anziani dicono che la Eeriemay abbia avuto il posto grazie alle raccomandazioni» menzionò Rose.

   «A me ha fatto una buona impressione come insegnante» s’impermalì Albus.

   «Ha un abbigliamento sconveniente.»

   «E’ comunque un’ottima maga.»

   «Albus, non ragionare con organi lontani dal cervello.»

   «Che intendi dire?»

   Ogni possibile risposta aspra le appassì sulle labbra: quando il cugino la fissava con quegli occhioni verdi da cerbiatto spaurito le sue armi retoriche si arrugginivano.

   «Beata innocenza» sospirò, assestandogli alcune pacche sulla testa e smettendo nel momento in cui il verde sulle guance del consanguineo si fece più intenso. «Comunque, ha fatto solo due lezioni, e noi siamo dei principianti. E’ troppo presto per decidere se sia una buona insegnante o meno. Rimandiamo il giudizio a quando la conosceremo meglio.»

   «Lo farai anche con Scorpius?»

   La cugina ritrasse la mano: su alcuni argomenti, l’ipnotismo degli occhi da cucciolo non sortiva alcun effetto.

   «Lui è un discorso a parte. Non mi dà una bella sensazione» lo stroncò lei.

   Qualunque replica venne bloccata da un forte conato quando una mano si abbatté senza alcun riguardo sulla sua schiena.

   «Bravo! Hai fatto guadagnare dei punti a Slytherin» lo canzonò una voce ben nota.

   «James, sto per vomitare» lo avvisò, in procinto di svenire.

   Le sopracciglia del fratello disegnarono un arco sorpreso da sopra le lenti degli occhiali.

   «Cos’è successo?» si rivolse a Rose, poiché il consanguineo sembrava sul punto di ributtare anche l’anima.

   «Lezione con i ragni» telegrafò lei.

  «Ma sei un cretino! Perché non hai chiesto di saltarla?» lo riprese brusco James.

  «Prima o poi dovrò vincerlo questo… difetto» crollò Albus.

  «Devi cercare di arrivarci vivo al giorno in cui lo “vincerai”» s’incaponì il fratello, tastandogli con malagrazia la fronte. «Hai la febbre?»

  «Ho la nausea» si lamentò Albus.

  «Hai fatto lezione con dei ragni… non c’è proprio limite alla tua idiozia?» lo sgridò James. «Cerca di non morire, almeno!» sbuffò, mollandogli la testa di colpo: Rose si tuffò come un portiere di Quidditch per evitargli la collisione con lo spigolo del tavolo.

   «Tuo fratello è più umorale di un’elefantessa incinta» disapprovò lei, aiutandolo a rimettersi composto mentre James si allontanava dalla sala studio a grandi passi.

   «Forse è sotto pressione» biascicò Albus. «E’ responsabile anche per me, adesso.»

   «Comunque sia…»

   «Eccomi.»

   Rose si ammutinò in un silenzio offeso: detestava essere interrotta. Specie da Scorpius.

   «Ti servono un po’ di zuccheri per rimetterti in forze. Tra qualche ora abbiamo la prima Scholzione» annunciò Scorpius, mettendogli davanti al naso il frutto della sua ricerca.

   Albus sentì la nausea gonfiarsi fino a fargli quasi scoppiare l’esofago.

   «Scorpius, non credo che mi vada di mangiare una fetta di torta» esalò.

   «Non preoccuparti» lo tranquillizzò Scorpius, scoperchiando la casetta. «Le Torte della Strega comprendono una vasta gamma di dolciumi» estrasse un biscotto dalla scatola e glielo esibì davanti agli occhi: un semplicissimo disco di pastafrolla con qualche goccia di cioccolato ad insaporirlo. «Alcuni sono quasi spartani.»

   Albus afferrò il biscotto e cominciò a sgranocchiarlo come un castoro. Il rimedio di Scorpius, sorprendentemente, riscosse successo: lo stomaco riprese la sua posizione nel ventre, felice di tornare alle vecchie mansioni. Pian piano Albus recuperò la postura corretta sulla sedia, diventando più dritto mentre i biscotti calavano.

   «Come ti senti?» volle sapere Scorpius, quando anche l’ultimo dolcetto fu spazzolato.

   «Meglio» garantì Albus. Rose sollevò il libro per nascondervi lo scetticismo che dilagò sul suo viso.

   «Mangia anche la strega» lo consigliò Scorpius.

   «La strega si mangia?» si sorprese Albus.

   «E’ fatta di zucchero» affermò Scorpius. «Devi mangiarla prima che cominci a sparire. E, se apri la bocca subito dopo averla inghiottita, sentirai le ultime parole che vuole dirti.»

   Albus allungò la mano alla piccola fattucchiera, che vi saltò prontamente sopra.

   Quella volta fu una specie di druida grassoccia vestita di foglie a raccontargli la novella del giorno:

   «La magia orientale è più esoterica di quella occidentale: in Oriente il legame con gli spiriti è più forte, e le pratiche magiche assomigliano ai riti religiosi, con invocazioni delle divinità e controllo del loro potere.»

   Non appena l’incantatrice ebbe finito di parlare, Albus se la rovesciò in bocca.

   Attese che la strega si sciogliesse prima di inghiottire e socchiudere le labbra come gli aveva detto di fare Scorpius.

   «Questo ragazzino è un gran maleducato!» una voce così acuta da sfiorare gli ultrasuoni gli uscì dalla bocca, che Albus tappò immediatamente nell’udire quelle tonalità stridule e adirate.

   «Di solito sono contrariate, quando parlano» si scusò Scorpius. «Del resto, le hai appena mangiate.»

   La testa di Rose sobbalzò dal contorno del tomo che stava leggendo, in un contenimento assai povero di una risata fragorosa: sentire il cugino parlare con quella vocetta da gallina l’avrebbe rallegrata per i prossimi cento anni.

   «La prossima volta la faccio dissolvere» decise Albus, accartocciando la scatola per buttarla via.

 

***

 

   Il banco slittò all’indietro di un centimetro scarso prima che l’occhiataccia del professore lo freddasse sul posto.

Non era del tutto sicuro che Achill Scholz lo avesse effettivamente fissato con riprovazione, ma il cruccio solidificato sul viso del docente rendeva impossibile decifrarne le emozioni.

Achill Scholz sembrava nato per insegnare una materia inquietante come Difesa contro le Arti Oscure: era una delle persone più spaventose che avessero mai visto nella loro vita, un gigante nordico con il volto deturpato da spesse cicatrici e dal grugno immusonito, e un paio di mani che avrebbero ribaltato la scrivania di noce di quell’aula come uno stampo per budini. Marciava inamidato in un’uniforme marziale munita di pesanti stivali con la suola rinforzata, e gli occhi stessi sembravano pietrificati da una rigida disciplina; quasi non batteva le ciglia nel parlare.

   «Cosa voi sapere di “golem”?» la classe impiegò mezzo minuto per capire che aveva detto “golem” e non “kolam”.

   Rose ebbe modo di sfoggiare le sue conoscenze.

   «I golem sono un tipo di evocazione di livello medio-alto. I punti di forza e di debolezza della creatura variano in base all’elemento da cui il mago ha deciso di plasmarlo» esacerbò.

   «Ja, è questo che insegnano vostri libri di testo» annuì Scholz, con quel suo accento che storpiava “questo” in “kvesto” e “vostri” in “fostri”.

   Albus vide Nott schizzare verso il soffitto e lui stesso rischiò di saltare al collo della cugina quando Scholz abbatté i magli che aveva come pugni sulla cattedra.

   «Nein! In che era preistorica è fermo vostro sistema scolastico? Con nozioni così antiquate primo mago nero che vede voi vi trasforma in zerbino! E vi usa per lustrarsi stivali!»

   «Ora gli scoppia la carotide» previde Nott, allarmato dalla ragnatela di vene pulsanti sul collo teso del professore.

   «Tu, forza, in piedi!» sberciò Scholz in direzione di Albus.

   Per un attimo, il ragazzo ebbe l’impressione che il professore avrebbe messo in pratica quanto detto precedentemente sui maghi oscuri, e che lo avrebbe usato per lucidarsi gli anfibi.

   «Tu ti chiama Malfoy?» volle sapere il docente.

   «No signore» lo contraddisse titubante Albus, aggrappandosi alla sua bacchetta.

   Una “V” seccata si disegnò tra le sopracciglia del prof quando Scholz aggrottò la fronte e attaccò:

   «E come ti chiama, allora?»

   «Potter, signore. Albus Severus Potter» riferì in un bisbiglio atterrito.

   «Tuo nome troppo lungo! Se un alleato in difficoltà prova a chiamare tu, tempo di pronunciare tuo primo nome e lui già morto!» lo redarguì il professore.

   Albus morsicò le labbra, non sapendo bene cosa rispondere. Non poteva cambiare il suo nome in ASP solo per salvaguardare eventuali colleghi moribondi. Sua madre lo avrebbe portato dallo psichiatra se avesse avanzato una simile richiesta.

   «Dove è Malfoy?» abbaiò di colpo.

   «Sono qui, professore» Scorpius alzò anche la mano per rendersi più visibile.

   «Muove tue secche gambette e viene qui!» ordinò il docente, puntando il dito verso i suoi piedi.

   Scorpius, a dispetto del tono minaccioso di Scholz, obbedì tranquillo, sfilando quasi per raggiungere la cattedra.

La classe trattenne il respiro per timore di cosa sarebbe capitato a quei due poveretti, uno arpionato alla bacchetta e l’altro che spazzolava metodico la verga con i polpastrelli.

   «Cosa sapete voi di golem?» domandò di nuovo il professore. La prima fila sobbalzò nel vedere l’insegnante chinarsi ed estrarre l’asta magica dalla fondina dentro lo stivale.

   «Quello che ha detto Rose Weasley, signore.»

   Quella risposta ottenne il biasimo del professore, espresso in una bacchettata sulla testa.

   «Impara a pensare con tua zucca vuota, o presto vedrai fiori da parte di radici» s’inasprì Scholz mentre Albus si massaggiava il principio di bernoccolo.

   «Ma è così, professore, sul nostro libro non c’è scritto altro» Scorpius arretrò con il collo quando la bacchetta di Scholz gli si agitò davanti al naso.

   «Se non c’è scritto altro, allora tu deve cercare altra fonte! Non limitatevi a studio accademico, ragazzi: il mondo cambia, e i libri colgono cambiamenti solo fino a data di loro pubblicazione, poi più! Non basate vostre conoscenze solo su biblioteche: imparate da vita!»

   A giudicare dall’arricciamento del naso, Rose non condivideva quell’opinione: lei era una bibliofila, una di quelle ragazze che, oltre che leggere e memorizzare i libri, vi tuffava il naso per sentirne il profumo. Era scontato che non approvasse l’avversione del professore per la carta stampata.

   «Magia è cambiata. In bene e in male. Ora io vi insegna alcune formule di incantesimi elementali, e voi usa contro golem.»

   «Ma le magie elementali sono programma del terzo…»

   «E se enorme golem arriva per mangiare tu? Tu cosa dici? “Mi spiace, passi di nuovo tra due anni”? Mostro non aspetta, mostro mangia!» lo incalzò Scholz, puntandogli la bacchetta al petto. Albus non osò nemmeno respirare per paura di quale incantesimo si sarebbe inciso sul suo sterno al minimo fiato.

   «Ora voi fate attenzione» due possenti pacche sulle spalle li costrinsero ad avvicinarsi al professore, che si abbassò dall’alto dei suoi due metri per istruirli: «Queste sono formule…»

   Scholz passò loro gli incantesimi con il tono sottile della spia, e, per quanto la classe tendesse le orecchie, nessuno riuscì a carpire nemmeno una sillaba.

   «Ora voi fate vedere che avete imparato» la bacchetta del prof si mosse veloce: tracciò un otto dall’alto verso il basso e puntò esattamente a metà dello spazio vuoto tra i due studenti: «Golem!» invocò Scholz.

   Albus richiamò tutto il sangue evaporato dallo sgomento e raddrizzò la bacchetta per affrontare la bestia che si stava formando davanti a loro: un ammasso di roccia emerso dal nulla stava dando vita ad una creatura umanoide, e guizzanti lingue di fuoco ruggivano sulle sue braccia.

   «Magia moderna fa queste combinazioni: due elementi su uno stesso golem» Scholz si accomodò dietro la sua scrivania, e augurò: «Buona fortuna, ragazzi.»

   Albus fece schioccare la lingua contro il palato secco, cercando di sfruttare i secondi che ancora li separavano dalla nascita completa della creatura. Le sue braccia erano di fuoco, quindi l’elemento contrario era l’acqua. E la formula per l’incantesimo d’acqua…

   «Piscis Marinis!» recitò, puntando la bacchetta contro il mostro ormai formato. Dalla punta di legno si sprigionò un crepitio e, in un lampo bluastro, da essa scaturì…

   «Che diavolo è quella cosa?» esclamò Rose.

   Albus fissò il risultato della sua magia, trasecolato: un enorme pesce dalle squame verdognole annaspava sul pavimento dell’aula, sbatacchiando le pinne nella misera pozza d’acqua in cui si era materializzato.

   «Professore!» si allarmò Albus, i capelli quasi ritti dallo spavento.

   «Se tua magia non funziona, tu usa testa» il docente si picchiettò una tempia per rendere più chiaro il concetto.

   Ma… ma gli aveva detto lui che formula usare, non più di cinque minuti prima!

   Non ebbe tempo di maledire l’insegnante, poiché una lunga lingua di fiamme gli passò rombando sopra la testa, e Albus dovette gettarsi a terra per evitarla.

Con un muggito atroce, la bestia calò su di lui entrambi gli arti incendiari; Albus fece appena in tempo a rotolare di lato per evitarli: le fiamme gli lambirono appena il maglione, effondendo un odore di lana bruciata.

   «Così li ammazza!» strillò Rose.

   Albus non riuscì ad udire la replica del prof: il golem lo aveva preso in antipatia e continuava a mulinare le braccia nella sua direzione, mugghiando come il mare in tempesta.

Il ragazzo continuò ad arretrare, alla frenetica ricerca di una strategia da usare contro il mostro, finché il muro non sbarrò la sua ritirata.

   La bestia spalancò la bocca rocciosa in un boato assordante, e levò ambo le braccia come mannaie.

   Albus ebbe la certezza, in quel momento, che il golem ruggente sarebbe stata l’ultima cosa che avrebbe visto.

   Ma il secondogenito dei Potter non ebbe una fine così ingloriosa.

   «Disintegra Mineralia!»

   Il golem ebbe un guizzo e si bloccò come se qualcuno avesse spento il suo interruttore. Un piede pietroso slittò in avanti, e una minuscola frana gli fece crollare gli abbozzati lineamenti del viso. Una dopo l’altra, le pietre che lo componevano si sbriciolarono in sassi, che a loro volta si polverizzarono nel toccare il suolo.

   Il petto scosso dalla respirazione accelerata, accartocciato a terra poiché le ginocchia erano diventate burro fuso, Albus fissò con occhi spiritati la lenta disfatta del golem di cui non rimasero che alcune pietruzze annerite dal fuoco.

   «Molto bene, Malfoy!» si complimentò Scholz, rialzandosi dalla cattedra. «Anche se golem fatto di tanti elementi, basta mirare a quello centrale per distruggere lui! Venti punti a Slytherin» si rigirò di colpo e grugnì: «Ma ricordate che io vi ha fatti combattere con golem di basso livello. E molto più piccolo di veri golem. Un golem serio non entrerebbe in questa aula!»

   Scorpius accettò la stramba lode con un sorriso e un inchino appena accennato. Si diresse verso Albus e gli tese la mano.

   «Tutto bene?» si premurò, tirando per sollevarlo in piedi.

   Albus annuì, la bocca troppo riarsa per articolare parola.

   «Accidenti, Scorpius!» enfatizzò Macauley, quando i due si rimisero a sedere. «Meno male che il prof ti ha insegnato quella formula!»

   Albus aprì il libro e vi annegò con lo sguardo, imbarazzato.

Non se la sentiva di dire che, in realtà, il prof non aveva spiegato loro quell’incantesimo. Come faceva Scorpius a conoscerlo?

   Sfogliò una pagina, cercando di distrarsi, ma la voce della cugina gli risuonò nelle orecchie.

   Come posso fidarmi di chi non è sincero?

 

***

 

   Si portò le ginocchia al petto, raggomitolandosi sotto le coperte.

   Dopo la prima Scholzione, il resto della giornata era trascorso pacificamente: la lezione di volo con Barthold Scholz, il minore dei due, era giunta a termine senza incidenti, e la cena nella Sala Principale era stata piacevole e tranquilla.

   Albus sorrise contro il cuscino, accarezzando il piccolo tesoro che stringeva al petto. Tornando nella camera, aveva trovato sul letto una confezione di the e un braccialetto contro la nausea, poggiati su un foglio ripiegato. Aveva aperto il biglietto e l’immagine tridimensionale di un James assai scontento gli aveva fatto la paternale.

Ricordava ancora le parole esatte: “Visto che sei piccolo e sei uno Slytherin sei stupido, quindi hai bisogno che tuo fratello maggiore Gryffindor ti faccia da balia. Usa il braccialetto e fatti un the la prossima volta. Se muori, sarò io a dover raccogliere i tuoi resti con un cucchiaino e riportarli a casa!”. Il foglietto si era autodistrutto non appena James aveva finito di predicare, stracciandosi in un mucchietto di coriandoli che Albus aveva conservato nel cassetto: erano rare le occasioni in cui l’acido fratello gli dimostrava un minimo di interessamento, e quelle poche volte dovevano essere conservate con cura.

Sorrise ancora di più, appallottolandosi sul bottino che premeva sul cuore. Era bello sapere che qualcuno vigilava su di lui, anche se era quello scorbutico di James.

   «Albus?»

   Il ragazzo sollevò la testa dal guanciale, incerto.

   «Albus?» chiamarono ancora.

   Accertatosi quel bisbiglio non fosse frutto della sua immaginazione, il giovane rispose:

   «Sono qui.»

   «Sali un attimo.»

   «Salire? E come faccio?»

   «Metti i piedi sul materasso e aggrappati alle sbarre» lo istruì Scorpius.

   Perplesso, Albus emerse dalle coperte e vi appoggiò sopra le preziose reliquie. Seguendo le istruzioni dell’amico e cercando di non svegliare Nott con le sue manovre, riuscì ad inerpicarsi sul secondo piano del letto a castello.

   «Che c’è?» chiese, gattonando sulle coltri.

   Scorpius sollevò le lenzuola e lo invitò ad entrare. Impacciato, Albus zampettò sul letto fino a riuscire a stendersi sotto le coperte.

Scorpius afferrò le coltri e strattonò perché li coprissero fin sopra le orecchie e solo allora cominciò a parlare.

   «Cosa ne pensi della Scholzione?»

   Albus strizzò gli occhi, ma, anche così, il volto dell’amico rimase una sagoma fuligginosa, di cui distingueva appena i contorni su cui si appoggiavano le coperte.

   «E’ andata bene. Nessuno è caduto dalla scopa» vagliò.

   «No, dicevo la prima» specificò Scorpius.

   Albus rabbrividì. Sentiva che una nuova fobia si era aggiunta a quella per i ragni: la braccia-di-golem-infuriato-che-ti-passano-a-un-millimetro-dalla-testa-fobia.

   «Mi hai salvato» stabilì Albus.

   «Non ti è sembrato… strano, quell’incantesimo?» Scorpius tentennò appena un secondo prima di affibbiare un aggettivo alla sua magia. Ma Albus coniò una definizione migliore:

   «Più che strano, direi provvidenziale. Altrimenti, a quest’ora sarei un mucchietto di cenere. Con gli occhi verdi e i capelli scuri» completò.

   «Che orrore!» Scorpius si finse stomacato, ma nella sua voce c’era un eco di risata troppo distinguibile perché la farsa reggesse.

Ridacchiarono entrambi sull’idea di un mucchio di polvere semovente e parlante con un ciuffo di capelli corvini e due globi verdi per occhi, ma lo fecero a labbra strette per non svegliare Nott.

Scorpius passò un dito sotto l’occhio per asciugare una goccia di risata e respirò a fondo per riprendersi. Rimase qualche istante in silenzio, il sorriso che pian piano svaporava. Poi confessò a voce bassa

   «E’ stato il primo incantesimo che ho visto fare a mio padre.»

   «Davvero?» s’incuriosì Albus.

   Le coperte si tesero in sincrono con l’annuire di Scorpius.

   «Avevo… quattro o cinque anni all’epoca» conteggiò Scorpius. «E mi era sembrata una magia strabiliante. Così ho voluto provarla» si avvicinò, con una mano a lato della bocca, per sussurrare in direzione del suo orecchio: «Non c’era un singolo sasso nel giardino di casa Malfoy, perché li frantumavo tutti quanti.»

   «Usavi le bacchette MiniMago?» s’interessò Albus.

   Il Ministero della Magia, una decina di anni prima, aveva approvato il commercio di queste verghe per il settore dell’infanzia: erano riproduzioni in miniatura di una vera bacchetta, tarate in modo da non permettere l’afflusso di magia entro un certo limite. Era una misura necessaria per garantire la sicurezza del piccino e della sua famiglia, e per evitare che lattanti troppo dotati appiccassero il fuoco alle loro stesse abitazioni.

   «Proprio quelle» comprovò Scorpius. «Non avevo mai distrutto qualcosa di più grande di un sasso» ammise, sistemando dietro l’orecchio un ciuffo biondo troppo cresciuto. «Ma oggi… penso che lo spavento abbia fatto da carburante.»

Scese di nuovo un velo di silenzio imbarazzato, strappato per la seconda volta da Scorpius.

   «Grazie per non aver detto agli altri che il professore non ci aveva insegnato quella magia.»

   «Perché mi ringrazi?»

   Scorpius masticò il proprio labbro e gettò fuori, riluttante:

   «Sai quello che si dice della mia famiglia…»

   Sì, lo sapeva. Tutti lo sapevano. Se Harry Potter era il sole del mondo magico, Draco Malfoy era l’eclisse, nell’immaginario comune. “Tale padre tale figlio”, “un albero cattivo non può fare frutti buoni” e altri proverbi simili avevano fatto in modo che la fama del padre trasmigrasse nel figlio.

A casa Potter, però, si raccontava una storia diversa: durante le riunioni di famiglia, anche se zio Ron calcava la mano su “quanto era snob Draco Malfoy”, zia Hermione, da consumata avvocatessa che era stata, ne prendeva le difese: era vero che Malfoy era stato un Mangiamorte, ma solo perché si era trovato incastrato in un meccanismo più grande di lui, e non era riuscito ad uscirne.

Albus non se la sentiva di condannare del tutto l’operato di Draco: il padre era un seguace del Signore Oscuro, per cui lui stesso si era ritrovato in quelle schiere infernali. E, una volta lì, si era mosso per salvare la propria vita e quella della sua famiglia. Non lo vedeva come un personaggio negativo: diventato Mangiamorte per costrizione, aveva cercato di difendere quello che poteva.

Non lo accusava di vigliaccheria come molti facevano con leggerezza: doveva amare la sua vita più dell’idea di andare ad ingrossare la lista di caduti per mano di Voldemort. Come biasimarlo? Forse lui avrebbe fatto lo stesso.

   «Io penso che tuo padre non abbia agito male» dichiarò.

   Gli occhi grigi di Scorpius scintillarono nell’oscurità, alzandosi su di lui.

   «Davvero?»

   Albus annuì. A suo parere, Malfoy non era un traditore spietato, ma un eroe frainteso.

Il silenzio si gonfiò di nuovo tra di loro, e questa volta fu Albus a spezzarlo:

   «Comunque, se ripenso al prof Scholz, quel… quel terrorista! Voleva ammazzarci per caso?» sibilò irato: sarebbero passati eoni prima che riuscisse a perdonare il professore di averlo fatto quasi uccidere da una bestiaccia di fuoco e fango. «Giuro che non scenderò più a lezione di Difesa prima di essermi letto tutti i libri!»

   «Ma le biblioteche non ti insegnano nulla, non lo sai?» lo prese in giro Scorpus.

   «Tu no impara da libri, impara da vita!» sillabò Albus, scimmiottando il duro accento del prof. «Così io prossima volta ti fa evocare girino contro licantropo, ja!»

Affogarono entrambi nel cuscino per controllare l’accesso di riso che gli agitava le spalle e gli inumidiva gli occhi.

   «Hai talento per le imitazioni» annaspò Scorpius, sopravvissuto all’attacco di ilarità. Albus impiegò qualche secondo in più a sistemare la mascella in sede.

   «Voglio farti vedere una cosa» esordì di colpo Scorpius. Strisciò fuori dal tunnel di coperte, trafficò per un attimo sulla mensola accanto al letto e scivolò di nuovo nell’intrico di lenzuola con una scatola quadrata tra le dita.

   «Che cos’è?» chiese Albus.

   Con gesti da prestigiatore, Albus sciolse il nastro e scoperchiò la confezione. Una distesa fragrante di cioccolatini variegati si scoprì in un effluvio di aromi speziati.

   «Che tipo di cioccolata è?» investigò: non aveva dimenticato l’esperienza con l’unicorno.

   «Semplice cioccolata babbana» lo tranquillizzò Scorpius. «Non posso farla arrivare in Sala Principale. Sai le pernacchie se si scopre che un Malfoy è ghiotto di pasticceria comune

In effetti, nonno e papà Malfoy erano stati convinti assertori della necessità di mantenere il sangue magico puro. Chissà che shock quando avevano scoperto che al loro successore scintillavano gli occhi davanti ai negozi dolciari babbani.

   «Me ne spediscono solo una scatola all’anno» disse infatti Scorpius, mordendosi le guance per non ridere. Ricordava ancora la scena in cui, per la prima volta, aveva chiesto al padre di comprargli un po’ di cioccolato. Draco era diventato quasi viola mentre cercava di forzarsi ad entrare in un negozio gestito da babbani. Poi si era arreso e, con uno sbuffo, aveva chiesto alla moglie di assecondare il pupo. Non poteva dimenticare la contrizione del padre mentre attendeva con il figlio fuori dalla pasticceria: aveva scritto in faccia a chiare lettere “dove ho sbagliato nell’educarlo?”. E non poteva dimenticare nemmeno il baluginio di sorriso che gli aveva rilassato il volto quando aveva visto il suo erede assaggiare un cioccolatino tutto festante.

Non era facile capire suo padre, e suo padre non riusciva a capire del tutto il figlio. Ma entrambi compivano sforzi nella direzione dell’altro, e questo bastava.

   «Assaggiane uno» lo incitò, allungandogli la scatola.

   «Ma hai detto che te li spediscono solo una volta all’anno…» si sottrasse Albus. «E poi mi sono già lavato i denti…»

   «Non ti marciranno i denti per un cioccolatino. Coraggio» lo incalzò l’altro.

Di nuovo quel tono che discordava con l’aspetto da damerino di Scorpius.

Albus cedette all’amico, e si servì di un dolcetto cosparso di granella di nocciole. Capì subito perché a Scorpius piacessero tanto: la mano del pasticcere esperto era rintracciabile nella consistenza morbida del cioccolato e nel gusto ricco del ripieno che si spandeva sulla lingua.

   «Sono squisiti!» gioì, gustandosi gli ultimi echi della leccornia.

   «Sono i migliori» trionfò Scorpius, assaggiandone uno a sua volta.

   «Grazie» mormorò Albus. Attese che anche l’amico avesse finito di masticare e stabilì: «Dovrei tornare a letto, credo.»

   Scavarono entrambi per tornare in superficie, e Albus si districò dalle lenzuola mentre Scorpius riponeva il cofanetto.

   «Buonanotte, Scorpius» augurò Albus, scendendo nel suo giaciglio.

   «A domani» lo salutò l’altro.

   Si infilò sotto le sue coperte, soddisfatto della prelibatezza di cioccolato e del dialogo con l’amico.

La cugina aveva torto: Scorpius era un bravo ragazzo, come pensava lui.

Si accoccolò sul materasso e chiuse gli occhi in attesa del sonno.

Li riaprì quasi immediatamente: un tonfo sordo e un pesante fruscio, come di un corpo trascinato, lo destarono. Appoggiò i gomiti sul cuscino e protese il capo verso il soffitto, in attesa. L’indecifrabile rumore si ripeté e, sforzandosi al massimo, riuscì a captare uno spiaccichio sommesso di sottofondo e un raspare di gola, una specie di basso ringhio animalesco.

   «Scorpius?» lo chiamò, allarmato. «Scorpius, hai sentito?»

   Dal letto superiore non venne suono. Il piccolo Malfoy aveva meno problemi di lui a combattere l’insonnia.

   Restò ancora sollevato, in allerta, pronto a scattare al minimo rumore. Solo dopo un prolungato silenzio i suoi muscoli cominciarono a rilassarsi, e gli fu possibile tornare a stendersi sotto le coperte.

   Stese un braccio al di fuori delle coltri e afferrò la bacchetta, che nascose sotto il cuscino.

   Qualunque cosa avesse udito, non lo avrebbe trovato impreparato. Restò a lungo sotto le coperte, stringendo spasmodicamente la bacchetta, i nervi tremanti per l’agitazione. Dopo un lungo ed estenuante turno di vigilanza lo stress e la stanchezza ebbero il sopravvento, ed un sonno profondo lo avviluppò nelle sue spire.

   Albus avrebbe dormito sonni tranquilli.

   Per quella notte, almeno.

E dal prossimo capitol cominciano i guai xD

Il Cercapersone e Achill Scholz sono anche loro prodotti made in RedDiablo ^^

Grazie a tutti<3<3<3

Red

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Capitolo 3
*** Bosco Notturno ***


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3

Bosco Notturno

 

 

 

Qualcosa di sottile e duro gli si conficcò tra le costole, regalandogli un risveglio davvero poco piacevole.

   Si stropicciò gli occhi e, quando la caligine del sonno si fu dissipata, poté vedere Nott punzecchiarlo con la punta della bacchetta.

   «Svegliati» borbogliava, continuando a infilzarlo.

   «Sono -ouff!- sveglio!» Albus si alzò a sedere con uno scatto quando la punta della verga arrivò a trafiggergli un polmone.

   «Oh, meno male» Nott apparve non poco sollevato nel ritirare la bacchetta e strofinarla con dovizia sul fazzoletto. «Allora alzati.»

   «Non conosci un modo più delicato per svegliare la gente?» si risentì Albus, con una mano premuta sui piccoli lividi circolari. «Ad esempio, chiamare per nome o scuotere per una spalla delicatamente…»

   «Albus Severus Potter.»

Quando Macauley si indignava aveva un modo tutto particolare di riprendere le persone. Rallentava incredibilmente la pronuncia del nome: “Albus” sembrava composto da quattro “l” e cinque “b”, per non parlare di “Severus”, le cui “s” si allungavano fino a disperdersi nell’infinito e la rotondità della “r” veniva esasperata al limite. Per compensare, accelerava sul cognome tanto che “Potter” perdeva tutte le sue vocali.

   «Sì, Nott?» rispose fiacco, preparandosi mentalmente alla tiritera dell’amico.

   «Senza offesa, ma mi ripugna l’idea di raggiungere un contatto troppo intimo con un addormentato. Mi farebbe sentire un maniaco. Che schifo, al solo dirlo mi viene la pelle d’oca!» e lo dimostrò scoprendo il braccio orripilato.

   «Non ti sembra che sia un tantino più sospetto pungolarlo con la bacchetta?» lo contraddisse Albus.

   «Meno equivoco e meno fraintendibile. Senza contare che chi dorme sbava.»

   «Io non sbavo!»

   «Albus Severus Potter, è mia personale opinione che tu abbia la salivazione di un Cerbero.»

   L’Albus interiore segnò sul promemoria mentale di non chiedere mai più a Macauley di farlo alzare dal letto. E, per sicurezza, lo sottolineò tre volte.

Meglio farsi svegliare dai calcetti del Cercapersone o da Scorpius. Era l’unico che si preoccupava di avere un minimo di delicatezza nel destarlo dai suoi sogni.

E che si era dimostrato preoccupato quando aveva raccontato degli strani rumori uditi negli ultimi tempi. Nott aveva prognosticato l’ormai prossimo collasso dei suoi timpani, e Rose non si era dimostrata particolarmente impressionata. A volte pensava che, se Satana in persona fosse apparso alla cugina, lei gli avrebbe chiesto di dimostrargli empiricamente la sua presenza, o non si sarebbe lasciata spaventare.

   «Dov’è Scorpius?» domandò Albus, notando il materasso vuoto.

   «E’ sceso a dare una mano al professor Barthold. Il rimpiazzo è stato scelto da poco, e la squadra è ancora scombussolata» rispose Nott.

   Albus scese dal letto, e si infilò in bagno per lavarsi.

   Ricordava benissimo gli estenuanti provini cui li aveva sottoposti Barthold Scholz, alla ricerca del soggetto mancante della squadra. Aveva concesso anche ai ragazzi del primo anno di prendervi parte, visto il suo carattere permissivo e ottimista.

Una settimana prima aveva annunciato la nomina ufficiale del sostituto. Ma non aveva rivelato la sua identità.

E aveva ingaggiato Scorpius come suo aiutante personale. Forse i capelli biondi del piccolo Malfoy gli ricordavano le terre germaniche, e questo suscitava il suo istinto materno – Barthold Scholz era un metro e novanta di uomo ben piazzato, ma ciò non intaccava l’aria da chioccia del viso paffuto. Ad ogni modo, il corpulento professore tallonava costantemente Scorpius per assegnargli i compiti più disparati.

   Albus si sfregò con l’asciugamano e cominciò a vestirsi, meditabondo. Fortunatamente Barthold Scholz era riuscito a racimolare sette giocatori, o Slytherin sarebbe stata esclusa dal torneo di Quidditch per quell’anno. Sperava solo che Scorpius non fosse troppo impegnato nelle faccende che gli avrebbe assegnato l’insegnante, o non si sarebbe goduto per nulla la prima partita dell’anno, Slytherin contro Ravenclaw.

   Uscì dal bagno e notò che Macauley era ancora mezzo svestito: se ne stava seduto sul letto con aria indolente, in pantaloni e canottiera, senza alcuna intenzione apparente di proseguire nella vestizione.

   «Faremo tardi per la colazione» lo sollecitò Albus.

   Nott si fece cadere sul letto con un sospiro.

   «Non si apre la zip della felpa» si lagnò, sventagliando l’indumento citato.

   «Ti presto uno dei miei maglioni» patteggiò l’altro.

   A Hogwarts, da qualche anno, i regolamenti sulle divise si erano fatti più elastici: ogni studente era tenuto ad indossare i colori ed il simbolo della propria Casa, ma erano abbastanza liberi nel modello dell’abito. Albus, ad esempio, aveva optato per dei maglioni verdi rifiniti in argento, con il serpente attorcigliato a sinistra sul petto e la camicia che sbucava dal colletto tondeggiante; Nott prediligeva delle felpe aperte centralmente da una zip metallizzata che arrivava a foderarlo fino al collo, senza lasciare intravedere nulla della maglia sottostante. L’appartenenza alla Casa era esibita dal marchio sulla scapola destra, dal colore muschiato della stoffa e dall’argento della cerniera. Scorpius sembrava nato nei suoi vestiti: la camicia, sempre bianchissima e stirata, era coperta dal gilet smeraldo di ottima fattura, e sui polsini era stato ricamato il simbolo della Casa in argento, come dei preziosi gemelli.

Rose non aveva badato molto all’estetica: aveva scelto una normale felpa blu con il corvo distintivo stampato su un lato, in modo che il profilo dell’animale partisse dal petto, passasse per il braccio e terminasse sulla schiena. Alla gonna aveva preferito i pantaloni, molto più comodi per aggirarsi sulle interminabili scalinate di Hogwarts.

Nel complesso, ogni allievo era libero di personalizzare la propria divisa secondo il proprio gusto personale, a patto di rispettare la decenza.

C’era solo un particolare che Albus detestava del proprio completo: i pantaloni erano troppo lunghi, e aveva dovuto rigirare gli orli parecchie volte per non inciamparci mentre camminava.

   Nott sollevò la felpa, la osservò con perplessità mentre la faceva volteggiare sopra il viso dopodiché la lasciò cadere a lato.

   «Dobbiamo proprio andare a questa partita?» gorgogliò.

   «Non vorrai perderti il torneo di Quidditch!» esclamò Albus.

   «Sarà un carnaio. Pieno di gente pressata. Pieno di microbi in proliferazione» si schifò lui, rigirandosi sul letto in modo da dargli le spalle.

   «Non fare l’asociale» lo spronò Albus, avvicinandosi al suo letto. «Odi così tanto stare in mezzo alle persone?»

   «Al contrario!» punto sul vivo, Nott schizzò a sedere ad una velocità tale che per poco non fracassò il naso dell’amico con una testata. «Non sono un misantropo.»

   «Ma…»

   «Sono un grande estimatore del genere umano. Amo le persone. È la loro carica batterica ad impensierirmi» sciorinò Macauley.

   Le sopracciglia di Albus si inarcarono per il dubbio.

   «Allora dimostralo venendo alla partita» lo sfidò.

   Un occhio castano si aprì per fissarlo con astio.

   «Albus Severus Potter, non mi piace come tu stia cercando di fregarmi» lo avvertì.

   «Ti ho solo detto di venire alla partita» si discolpò Albus. «Sei libero di decidere cosa fare.»

   «Sai che verrò. E sai di avermi costretto a venire» s’inalberò Nott.

   Albus fece ciondolare le gambe dal bordo del letto con innocenza.

Sapeva benissimo che Macauley prendeva qualunque obiezione al suo modo di vivere come un affronto personale. E che era talmente orgoglioso da fare ogni cosa possibile pur di riscattare il proprio onore.

Ma Nott non avrebbe mai scoperto che Albus aveva sfruttato la sua peculiarità per i propri fini.

Il Potter minore fischiettò, per ostentare il suo candore.

Astuto e calcolatore.

Ormai stava diventando uno Slytherin a tutti gli effetti.

 

***

 

   «Albus Severus Potter, io ti odio

   «E’ la decima volta che me lo dici.»

   «Così non te lo dimenticherai. A proposito, ti odio!»

   «Non avevi detto di amare le persone?»

   «Ho anche detto di detestare i loro germi! Per Piton, gli esseri umani sarebbero creature così adorabili se solo capissero l’importanza di non diffondere il contagio

   Era un fenomeno bizzarro vedere uno studente arpionato ad un fazzoletto di bucato, le guance verde mela in tinta con il resto del vestiario, in mezzo ad una folla di tifosi agguerriti. Dava l’impressione di una Puffola Pigmea persa in uno sciame di goblin delle paludi.

Su insistenza di Albus aveva evitato di mettere la mascherina, ma aveva provveduto ad erigere altre barriere, a cominciare dalla sciarpa tirata fin sopra il naso, il fazzoletto premuto su di essa, i guanti a proteggere le mani -solo Albus sapeva che sotto quelli di lana se ne nascondeva un altro paio in lattice- e il cappello calato sopra gli occhi.

   «Nott, sei sicuro di riuscire a vedere qualcosa della partita?» indagò Albus, sistemando meglio il proprio berretto e la sciarpa con i colori della Casa.

   «Sentirò il commento. Sarà più che sufficiente» sentenziò Macauley.

   «Ne sei sicuro?»

   «Non ho alcuna intenzione di rischiare di essere infestato dai batteri altrui» ribatté secco Nott.

   «Signore e signori!» esplose a tradimento Valentine, facendo sobbalzare l’intera platea. «Oh, vi ho spaventato?» ghignò da dietro il microfono -altra adozione babbana per studenti che non avevano voglia di ampliare la voce con la magia-, palesemente compiaciuto della selva di volti stizziti girati nella sua direzione.

   «Non me» brontolò Achill, dal palco riservato ai professori. «Ci vuole ben altro per sorprendermi!»

   «Chiedo venia» scherzò Valentine, accennando ad un inchino sarcastico. «Coraggio, studenti, mostrate l’attaccamento alle vostre Case con una bella ovazione ai vostri docenti responsabili! Tutti i Ravenclaw in piedi per Luna Lovegood!»

   Albus vide Rose scattare come una molla per la svagata professoressa che li salutava con aria vacua dalla sua postazione. La cugina venerava la propria responsabile: la considerava uno spirito libero, un’anima colma di fantasia e un cuore aperto alle nuove conoscenze. Ma, soprattutto, un’infaticabile conoscitrice della biblioteca: sapeva esattamente che letture consigliarle, in ogni occasione.

   «E ora, tutti voi Gryffindor, su le mani per suo marito, Neville Paciock!»

   James si alzò in piedi con meno slancio rispetto a Rose. Rispettava il capo della loro Casa nonché insegnante di Erbologia, ma la sua stima era lontana anni luce dall’adorazione della cugina.

   «Professore, uno dei miei compagni di stanza soffre di fastidiose bolle sul ventre, non è che potrebbe consigliare…» sproloquiò il ragazzo, rivolgendosi ad un Neville disorientato da una consulenza così improvvisa.

   «Valentine Cross!» tuonò la McGranitt dal trono rialzato riservato alla preside.

   «Hufflepuff, dimostrate il vostro affetto a Zacharias Smith!» continuò imperturbabile il ragazzo, incitando con le mani una standing ovation.

   La curva giallo-nero dello stadio si sbracciò in direzione del professore, che ricambiò con un artritico movimento di dita. L’insegnante di Pozioni non era conosciuto per la sua calorosità e cordialità.

   «E infine, la Venere di Hogwarts, la signorina Rebecca Eeriemay!»

   L’applauso non deflagrò solo dalle scalinate di Slytherin: il grazioso inchino dell’insegnante -che mise ancor più in risalto la scollatura- aizzò metà dello stadio meglio di quanto un incantatore avrebbe fatto con un serpente.

   «A proposito, prof» Valentine finse di coprire il microfono con la propria sciarpa mentre proponeva: «Questo sabato sono libero. Non è che vorrebbe…»

   «Cross, vai avanti!» lo interruppe burbera la McGranitt.

   «Era un invito galante, zia Minnie» cinguettò la Eeriemay.

   Un sopracciglio argenteo pulsò. La McGranitt sellò il naso con gli occhiali nel proferire:

   «Sai quanto io aborrisca i diminutivi. E quanto disapprovi il tuo modo di…» fece un esame completo alla spregiudicata nipote prima di esalare tra i denti: «… scioglierti i capelli.»

   «Zia Minnie, sei sempre così formale!» gorgheggiò affettuosa la professoressa.

   «Niente diminutivi» ricordò la McGranitt, prima di barricarsi nel suo silenzioso ed impeccabile contegno.

   «Come dimenticarsi della nostra infaticabile, incorruttibile preside!» ostentò Valentine, rimuovendo la sciarpa dal microfono. «Coraggio, ragazzi, chi rimane seduto è un troll stercorario!»

   La preside non parve gradire la scurrile esortazione di Cross, ma apprezzò il trasporto con cui ogni singolo allievo caracollò in piedi per agitare le braccia nella sua direzione.

La McGranitt era sicuramente una dei presidi più benvoluti di tutta la storia di Hogwarts. Il tempo aveva sbiancato i capelli raccolti nella sempiterna crocchia e aveva indebolito i suoi occhi, costretti a sforzarsi dietro le lenti tonde degli occhiali. Alcune rughe avevano intaccato la fredda incorruttibilità dei lineamenti, e gli abiti creavano ampie pieghe di vuoto nel drappeggiarle attorno al corpo dimagrito. Ma tutti nutrivano l’infondata e commovente speranza che per la McGranitt il tempo si arrestasse, e potesse rimanere per sempre a proteggere la loro beneamata scuola.

   «Cross, procedi. I giocatori staranno morendo di impazienza» lo esortò la McGranitt, dissimulando il compiaciuto imbarazzo con un gesto svolazzante della mano: l’applauso degli studenti non accennava a diminuire.

   «Okay, ragazzi, ora basta. BASTA!» rombò nel microfono quando l’ovazione non si arrestò nonostante il primo richiamo. «Vi ringrazio» sussurrò lezioso. Il suo ruggito aveva provocato un accenno di sincope ad un terzo dello stadio, e ora tutti stavano riprendendo posto tenendo una mano sul cuore in fibrillazione.

   «Si dia inizio alle danze!» annunciò, con un movimento teatrale del braccio. «Che entrino le squadre!»

   «Macauley, vedi Scorpius?» si preoccupò Albus, allungando il collo in tutte le direzioni.

   «Sarà ancora a sfaccendare per lo Scholz-junior» bubbolò Nott da dietro la sciarpa. «E no, Albus» lo anticipò lui, puntandogli un indice ammonitore davanti al viso. «Non mi toglierò il berretto per aiutarti a cercare.»

   «Ma sta per perdersi la partita!» controbatté Albus.

   «Se il prof lo sta torchiando, la perderà comunque, indipendentemente da quanti centimetri ti si allungherà il collo o da quanti batteri inalerò» espose Nott.

   «Ma non avevi detto di amare le persone?» insistette Albus.

   «Troppa percentuale patogena in giro per dare prova della mia filantropia» si giustificò Macauley.

   Un lungo, scoraggiato sospiro venne emesso sia dall’Albus interiore che da quello esteriore: l’ipocondria del suo compagno di stanza era da record. Se non lo avesse conosciuto di persona, avrebbe pensato che si trattasse di una barzelletta.

   Osservò quasi con rassegnazione la sfilata delle squadre, finché un particolare non attirò la sua attenzione. La bocca e gli occhi estesero il loro diametro fino all’inverosimile, il busto si sporse dalla ringhiera degli spalti tanto che Nott fu costretto ad afferrarlo per il colletto prima che si sfracellasse sul campo.

   «Ma sei impazzito?» lo sgridò, sventagliando nell’aria la mano per ripulirla. «Volevi ammazzarti?»

   «Ho visto Scorpius!» tartagliò dall’emozione Albus, agitandosi come se la sua sedia fosse fatta di tizzoni ardenti.

   «Ed è un’esperienza nuova, suppongo, visto che siamo compagni di stanza» replicò sprezzante Nott. Per il disappunto, si imbacuccò come una testuggine nella sua fortezza di lana. «Sinceramente, Albus, a volte penso che dovresti andare a farti visita…»

   «E’ sul campo!» incapace di contenersi, Albus sollevò il cappello del compagno e gli orientò la testa in modo che vedesse i giocatori sciamare nello stadio. «Scorpius è stato preso nella squadra!»

   Ad una prima occhiata aveva creduto di essersi ingannato. Anche se da quella distanza non poteva vedere gli occhi grigi dell’amico, aveva riconosciuto il taglio particolare della chioma bionda, e il viso che sembrava brillare di trionfo.

   Le divise del Quidditch non erano cambiate: sopra ad un comodo completo scuro andava indossata la casacca tipica della Casa di appartenenza, il tutto perfezionato dalle protezioni su ginocchia, gomiti e avambracci. Era stata introdotta solo una modifica nel campo della sicurezza: una specie di colletto nero bordato di verde e argento per gli Slytherin e di azzurro per i Ravenclaw, per difendere le vertebre da eventuali urti.

Scorpius portava la sua divisa come un re avrebbe sfoggiato la corona: era chiaramente raggiante della qualifica ottenuta, e non riusciva a contenere un sorriso soddisfatto nonostante gli sforzi di comprimerlo serrando le labbra.

   Il suo Cercapersone reclamò la sua attenzione assestandogli dei calcetti dalla tasca in cui l’aveva sprofondato. Lo pescò dalle profondità del pertugio di stoffa e lo aprì.

Un’unica parola apparve sullo schermo: “Cretino”.

   «Non so chi sia, ma concordo» rimbrottò Nott, offeso per la distruzione delle sue palizzate lanose.

   Albus sapeva più che bene chi fosse il mittente, per cui fu fulmineo nel rispondere: “Lasciami in pace, James”.

   Quasi non fece in tempo ad inviarlo che il Cercapersone gli conficcò una zampetta di metallo nel polso. Albus imprecò mentalmente, segnando: “comprare delle guarnizioni in gomma per le gambe del Cercapersone” tra le cose da fare.

   “Dovevi entrare tu in squadra”.

   “Tu sei entrato al secondo anno”.

   Questa volta fu rapido ad evitare l’attacco dell’agendina: la aprì nel momento stesso in cui arrivò il messaggio.

   “Io non ero in classe con un Malfoy”.

   Albus roteò gli occhi al cielo, ributtando il Cercapersone nel pozzo nero da cui era venuto.

   «Ma cosa vedo! Un giovane virgulto si è aggiunto alla squadra!» commentò Valentine.

   «Ja, giovane virka… virku… giovane uomo» confermò Barthold, la cui pronuncia presentava lacune assai più profonde di quelle del fratello maggiore. Il tedesco si arrampicò al suo posto, di fianco alla Eeriemay, con il viso tondeggiante aperto nel solito giubilo immotivato.

   «E a cosa dobbiamo questa sfiziosa novità?» chiese Valentine, sdraiandosi sul parapetto della cabina di regia come una sirena.

   «Cross, composto» lo riprese la McGranitt, subito ubbidita dal giovane.

   «Mancava uno componente. E Scar… Scorpias…»

   «Scorpius» lo soccorse Valentine.

   «Lui è nato per scopa!» gioì Barthold. Una sequela di battutine oscene sul doppio senso di quella frase partì dalle file dell’ultimo anno, ma lo Scholz minore vi passò sopra con baldanza: «Lui era scelta giusta!»

   «Complimenti, Scorpius, il professore stravede per te» si complimentò Valentine, fingendo di togliersi un inesistente cappello per omaggiarlo. «Guardalo, è felice come un tacchino all’ingrasso!»

   «Valentine Cross!» lo ripresero all’unisono la McGranitt e Achill Scholz.

   «Tacchino è buono» festeggiò Barthold, senza capire la ragione dello sdegno dei due colleghi.

   «Barthold, la tua spontaneità ti rende adorabile» rise la Eeriemay.

   «Noi deve fare qualcosa per tuo pessimo inglese» ringhiò Achill.

   «Due soli cavalieri e ben cinque dame…» contò Valentine, piegando le dita davanti agli occhi per formare un cannocchiale. «Godetevi questi momenti irripetibili, ragazzi! Ma procediamo, abbiamo perso abbastanza tempo» prevenne l’intimidazione della preside, ben visibile dalla tensione del collo e dall’irrigidimento degli occhi. «In che ruolo giocherà la nostra matricola?»

   «Lui Cercatore!» trionfò Barthold.

   Albus morse le labbra, mentre una processione di mormorii stupiti lievitava nella platea, specie dalla parte Gryffindor. Suo fratello lo avrebbe rimproverato a morte per “essersi fatto battere a quel modo da un Malfoy”.

   «Cercatore?» gli fece eco Valentine. «Una cosa simile non accadeva dai tempi di Harry Potter.»

   La folla rumoreggiò ulteriormente a quel paragone: com’era possibile mettere la progenie di Malfoy sullo stesso piano dell’eroe che aveva sconfitto Lord Voldemort?

   «Si preannuncia una partita molto interessante» li placò Valentine, esibendosi in un sorriso luminoso. «Squadre in posizione!»

   Una giocatrice Ravenclaw dal volto esotico si avvicinò a Scorpius per stringergli la mano ed augurargli buona fortuna.

   «E’ Daiyu Lee. Ha un anno più di noi» spiegò Rose all’interrogativo inespresso sul volto del cugino. Aveva scelto uno dei posti di confine tra le loro due Case, in modo da potersi sedere vicino a lui. «Tuo padre ti ha mai parlato di Cho Chang? E’ sua figlia.»

   Sì, suo padre gli aveva parlato della sua prima cotta. Lo aveva fatto con molta cautela davanti ad una Ginny contrariata e allo stesso tempo tronfia: non le piaceva che si ricordasse la ragazza che aveva avuto il primo bacio di suo marito, ma la fede all’anulare era la prova della sua vittoria finale. Era riuscita a sposare il suo innamorato, senza alcuna intromissione esterna.

   Il sangue orientale aveva dettato la forma allungata degli occhi e quella arrotondata del viso, nonché la tinta corvina della lunga chioma raccolta in due cicciuti chignon ai lati della testa. Le origini inglesi del padre avevano stemperato il castano scuro delle iridi con una spruzzata di verde muschio, anche se dagli spalti quel particolare era pressoché invisibile.

   «Sembra simpatica» approvò Albus di fronte all’assenza di ostilità della ragazza nell’incoraggiare Scorpius.

   «Non è solo simpatica» accrebbe Rose. «E’ veloce come un fulmine. Il vostro portiere non riuscirà nemmeno a vedere la Pluffa.»

   «Scorpius è il nostro Cercatore» reagì Albus. «Se prende il Boccino, la partita è nostra.»

   «Se» rimarcò la cugina. «Anche noi abbiamo un Cercatore.»

   «Tutti abbiamo un Cercatore, o le squadre non sarebbero scese in campo» reiterò Nott. «E, per la cronaca, sta cominciando la partita.»

   L’attenzione dei tre si focalizzò nuovamente sul campo, dove i giocatori stavano salendo sulle proprie scope.

   «Barthold» lo stuzzicò la Eeriemay, attorcigliando le dita attorno ad una ciocca carminio. «Forse mi sbaglio, ma… il professore di Volo non dovrebbe essere in campo a lanciare la Pluffa?»

   «Pluffa, fräulein Eeriemay?» ripeté Scholz.

   «Quella cosa tondeggiante a forma di palla che hai in mano, Barthold» chiarì lei.

   Il professore osservò la sfera tra le sue mani con sorpresa, come se il pallone gli si fosse materializzato tra le dita all’improvviso.

   «Oh, quanto io sbadato! Mille gra… danke, fräulein Eeriemay» ringraziò lui, scendendo dagli spalti per mettere in gioco la Pluffa.

   Lo scivolone di Barthold passò praticamente inosservato: nel momento in cui la palla si librò dalle mani del prof, un tornado azzurro si precipitò su di lei, la afferrò, la fece roteare e la scagliò con precisione in uno degli anelli di Slytherin. La curva Ravenclaw si scorticò l’ugola per inneggiare lodi alla saetta azzurra che si godeva il suo trionfo scagliando un pugno al cielo.

   «Daiyu è una forza!» esultò Rose, applaudendo fino a spellarsi le mani. Albus annuì con aria assente.

Il Portiere si riprese velocemente dalla sorpresa iniziale e non permise più ai Cacciatori che infuriavano sotto di lui di avvicinarsi troppo agli anelli; i Battitori sfrecciavano da una parte all’altra del campo, proteggendo i compagni dai pericolosi Bolidi.

Albus percepì tutto ciò come una marea indefinita ai margini della sua coscienza: la lotta tra i Cacciatori per il possesso della Pluffa, le acrobazie dei Portieri per difendere gli anelli, i colpi sferrati dai Battitori per deviare i Bolidi. Tutto quanto.

Esultava per inerzia insieme agli altri quando Slytherin segnava, ma i suoi occhi erano focalizzati su un’altra sfida: Scorpius e il Cercatore dei Ravenclaw che si incrociavano e si allontanavano in una specie di coreografia non scritta, alla frenetica ricerca del Boccino d’oro.

Tendevano la mano quando pensavano di averlo raggiunto, ed ecco che il Boccino scartava all’improvviso lasciandogli solo il ricordo di un battito d’ali tra le dita; frenavano bruscamente per non schiantarsi contro le gradinate e i pali degli anelli.  Scorpius diede prova del suo talento nel curvare all’improvviso, inclinandosi con tutto il busto per favorire la manovra fino a trovarsi pressoché orizzontale. Il Cercatore di Ravenclaw era quasi caduto dalla scopa per la sorpresa quando lo aveva fatto per la prima volta: un secondo prima vedeva la sua testa bionda davanti a sé, e quello dopo era sparita come se il Mantello dell’Invisibilità gli fosse piombato addosso.

   La sciarpa di Albus segnò l’aria di verde e argento quando il ragazzo la agitò incitando il compagno:

   «Forza Scorpius!»

   Il giovane giocatore gli regalò un sorrisetto soddisfatto come ringraziamento quando volò rasente alle gradinate per inseguire il Boccino.

   «Sembri una ragazzina esagitata» sprizzò acido Nott.

   «Dobbiamo incoraggiarlo, è la sua prima partita!» cercò di scuoterlo Albus.

   «No, passo» si arrese Macauley, mostrando i palmi. «Basti tu ad affossare la dignità di Slytherin.»

   Albus non perse tempo ad offendersi per l’acredine dell’amico: la lotta dei due Cercatori lo calamitò di nuovo, annebbiando tutto il resto.

Scorpius faceva del suo meglio per rivaleggiare degnamente con un avversario più esperto di lui, arrivando a compiere delle figure in volo che mozzarono il fiato a tutta la sezione Slytherin. La Eeriemay stessa si dimenticò di respirare quando Scorpius si lanciò in picchiata per afferrare il Boccino, e riprese quota ad una manciata di centimetri dal suolo.

   «Io avevo detto che lui nato con scopa!» gongolò Barthold.

   «Spero che non muoia con scopa» replicò la Eeriemay, seguendo i funambolismi di Scorpius con il cardiopalma.

   Macauley si ostinò a rimanere rintanato nel suo guscio disinfettato perfino quando le tribune tremarono per il boato dei Ravenclaw in risposta ad un numero particolarmente complicato di Daiyu, che la vide dribblare due giocatori avversari e mettere la Pluffa in rete con una semi capriola.

Rose esultò interiormente nel leggere lo sconforto tra le file degli Hufflepuff e dei Gryffindor: la ragazza si muoveva come in simbiosi con il vento stesso, tanta era la naturalezza con cui volava sulla scopa, e la sua spregiudicatezza nell’ignorare le leggi di gravità preoccupava quelli che sarebbero stati i successivi sfidanti.

   «Te l’avevo detto che Daiyu Lee è fortissima!» ricordò superba.

   «Eh?» boccheggiò Albus, deconcentrato.

   Rose roteò gli occhi al cielo: il cugino era praticamente ipnotizzato dall’inseguimento dei due Cercatori. Si decise anche lei a seguire il duello, lasciando perdere il resto della partita.

Scorpius non se la cavava male: non aveva ancora la scioltezza dei compagni più anziani, ma stava giocando in maniera eccellente per un novellino. Pochi sarebbero stati sufficientemente coraggiosi o scapestrati da rischiare il sacrificio del proprio collo per il bene della squadra: le manovre di Scorpius si facevano più azzardate man mano che il tempo scorreva e l’avversario si avvicinava al Boccino.

   Nott non vide nulla di quanto accadde, infagottato com’era nella sua trincea lanosa. Al contrario, Albus soffocò un grido e si schiaffò le mani sulla faccia, borbottando sui palmi qualche improperio. Rose si entusiasmò assieme al resto della sua Casa, pur provando una punta di amarezza per la delusione del cugino.

I due Cercatori si erano portati in parallelo, il Boccino che fendeva l’aria poco davanti a loro. Si erano entrambi allungati al massimo per raggiungerlo, ma Scorpius era stato svantaggiato dai centimetri in meno di altezza rispetto al contendente più anziano e dalla sfortuna che aveva fatto vacillare il suo equilibrio per una frazione di secondo. Il Cercatore Ravenclaw aveva approfittato dell’occasione, e, slanciandosi in avanti, aveva finalmente afferrato il Boccino e lo aveva portato in trionfo con il pugno alzato.

   «Vince Ravenclaw!» annunciò Valentine, inneggiando l’applauso. Che non si fece attendere: l’intera fila azzurra e nera festeggiò rumorosamente la propria squadra mentre questa atterrava gioiosa sull’erba.

   Gli Slytherin si unirono all’atmosfera frizzante per inerzia, ma nessuno riuscì a scacciare dal volto l’ombra della demoralizzazione. Anche se Scorpius era solo al primo anno, tutti loro avevano sperato in una sua prodigiosa vittoria. Aveva giocato bene, ma l’amarezza finale guastava la sua esibizione sportiva.

   Le squadre si incontrarono a centro campo per scambiarsi i convenevoli e i complimenti del dopo partita: Daiyu Lee fu particolarmente calorosa nel rinfrancare Scorpius, che parve impercettibilmente sollevato dopo il suo discorso.

   «Io vado giù» riferì Albus, cominciando a fendere la calca.

   «Giù dove?» volle sapere Rose.

   «Agli spogliatoi. Devo parlare con Scorpius» urlò lui sopra la folla agitata.

   «In quel postribolo di malattie veneree?» Nott contorse la faccia per la nausea.

  «Proprio lì» confermò Albus, un secondo prima di essere inghiottito dalla ressa.

   Sarebbe andato da solo: Macauley non lo avrebbe accompagnato per la sua mania igienista, e Rose, in quanto femmina, era interdetta all’entrare nello spogliatoio maschile.

Non importava, avrebbe chiesto a qualche studente più anziano la strada.

Il morale di Scorpius era ai minimi storici: lui più di tutti aveva confidato nella vittoria. Aveva bisogno di qualcuno che gli risollevasse lo spirito.

Non sarebbero bastate di certo le leggende metropolitane di una strega di zucchero, quella volta.

 

***

 

   «Albus?»

   Scorpius parve stupito di vedere l’amico, fumante nei suoi vestiti troppo pesanti, ruzzolare negli spogliatoi alla sua ricerca.

   «Scorpius!» ansò, barcollando pericolosamente sulle gambe instabili.

   «Sarà meglio che ti togli il cappotto» si premurò Scorpius. «Stai cuocendo, lì dentro.»

   Albus annuì, sedendosi in una delle panchine ed alleggerendosi di sciarpa e cappello.

   «Sei stato bravissimo!» si complimentò, prima ancora di finire di aprire il giubbotto.

   L’altro gli indirizzò uno sguardo perplesso.

   «Abbiamo perso» rilevò.

   «Non importa!» s’infervorò Albus. Il pugno destro si abbatté nel palmo sinistro mentre lo mitragliava: «Non pensavo fossi così bravo a volare! Hai lasciato lo stadio di stucco! Hai fatto delle virate che… scommetto che nemmeno Victor Krum era così bravo!»

   Le labbra di Scorpius retrocedettero man mano che i complimenti aumentavano, fino a sparire dentro la bocca per l’imbarazzo. Gli occhi non sostennero la vista dell’esultanza dell’amico e deragliarono verso il muro, più anonimo e tranquillo.

   «Non ho fatto niente di speciale» minimizzò.

   «Niente?» lo contraddisse con fervore Albus. «Scorpius, la metà dei presenti alla partita si sarebbe ammazzata se avesse provato ad imitarti in una sola delle tue manovre! E hai avuto solo una settimana per prepararti!»

   «Erano nove giorni.»

   «Cosa cambia? Sei un portento, credimi!»

   Daniel, l’unico altro maschio della squadra Slytherin, stava cercando Scorpius per rincuorarlo dopo la sconfitta, ma si arrestò in un angolo notando una scena che sicuramente non si sarebbe svolta un ventennio prima: Potter, sporto fino all’ernia dalla panchina su cui era seduto, che sviolinava lodi a Malfoy, in piedi ed in imbarazzo di fronte a lui.

Si strinse nelle spalle, ritirandosi: Potter sembrava avere le idee molto più chiare di lui su come si rassicurasse un Cercatore in erba.

   «La picchiata!» proseguì nella sua processione di glorificazioni. «Per un attimo ho temuto che ti saresti spiaccicato al suolo. Invece no! Hai fatto una ripresa sensazionale!»

   Scorpius non sapeva bene come ribattere ad una simile manifestazione di ammirazione incondizionata, per cui rimase in silenzio, a sorbire le magnificazioni di Albus con vergognoso compiacimento, intimamente felice della stima che sgorgava dall’amico.

   «Hai giocato benissimo!» concluse Albus, riprendendo fiato dopo la lunghissima apologia.

   La mano ancora stretta dal guanto protettivo scompigliò la chioma bionda, e Scorpius bisbigliò:

   «Grazie, Albus.»

   Il ragazzo annuì, lieto di vedere un colorito più sano sul volto dell’amico, prima sbiancato dal rammarico.

Perso com’era nel profondersi in un dettagliato encomio della partita, non aveva considerato che Scorpius era ancora vestito con la tunica da giocatore. Non si era tolto nemmeno le protezioni, e la scopa era ancora stretta tra le dita.

   «Scusami! Ti ho bloccato qui e non ti ho fatto cambiare» Albus schizzò in piedi e cominciò a radunare veloce le sue cose.

   «Non preoccuparti» lo tranquillizzò Scorpius. Strattonò lievemente l’ampio colletto della divisa verde e argento, e non gradì il profluvio olfattivo caratteristico del dopo partita. «Effettivamente, avrei bisogno di una rinfrescata» valutò, richiudendo tutto quanto. «Devo prendere alcune cose dall’armadietto. Vuoi accompagnarmi?»

   Albus accettò immediatamente la proposta, e seguì l’amico fino al contenitore metallico.

   Il primo a frenare fu Scorpius, e Albus lo imitò qualche secondo dopo.

   Qualcuno aveva sfregiato l’armadietto di Malfoy.

   I graffi, fatti con uno strumento metallico simile ad una chiave, andavano a comporre la scritta: “rifiuto”. L’insulto si propagava lungo tutta la diagonale dello sportello, dallo spigolo sinistro in basso a quello destro in alto. E non era il solo: imbrattature a pennarello, incisioni più modeste, lettere di giornale sminuzzate e riassemblate coprivano tutto l’armadietto con una colata di ignominia.

Albus restò inorridito di fronte a tanta cattiveria. La maggior parte delle cicatrici metalliche faceva riferimento alla reputazione della famiglia Malfoy: “traditori”, “vigliacchi” e simili erano i più gettonati. I biglietti smembrati oltraggiavano Scorpius con mille improperi diversi: “tale padre tale figlio”, “quando tradirai anche tu Hogwarts?”, “sei marcio dentro” erano solo alcuni esempi della meschinità che sanguinava da quelle lettere scoordinate.

Le scritte a pennarello, invece, criticavano la partita. Qualcuno doveva essere sgattaiolato dentro approfittando della distrazione offerta da Albus. “Il capitano di Ravenclaw avrebbe dovuto buttarti giù dalla scopa”, “gli Slytherin non vincono se non barano”, “con quanti galeoni ti sei comprato il posto in squadra?”. E decine di altre insolenze.

Quel carosello di malignità gli fece girare la testa come un profumo troppo concentrato: i sensi sembrarono svenire per un istante, offuscando ogni percezione del mondo, e lui stesso traballò sulle gambe. Sbatté gli occhi più volte per riprendersi, convinto di trovarsi in un brutto sogno: era impossibile che i ragazzi di Hogwarts potessero essere così crudeli con un loro compagno. La realtà lo schiaffeggiò quando, al termine dei suoi tentativi, le scritte non sparirono, anzi, sembrarono brillare di nuova linfa vitale nel pugnalargli gli occhi.

   «Scorpius…» tartagliò, annichilito. Se lui era rimasto sconvolto, Scorpius doveva essere distrutto. Essere bersaglio di tanta cattiveria…

Il ragazzo non rispose: la frangia aveva coperto gli occhi ed ogni emozione che turbasse le iridi di quarzo. Non sembrò nemmeno sentire il proprio nome: restò pietrificato nella sua posizione, muto e cereo come un morto.

   «Scorpius?» tentò di nuovo Albus, con garbo.

Non fu sufficiente ad evitare la reazione dell’amico.

«Ti ho sentito!» sbottò Scorpius. Fu quasi feroce nel rispondere, tanto che Albus arretrò di un passo.

L’atto di bullismo lo aveva stupefatto, ma lo scoppio dell’amico lo sconvolse: il tono usato da Scorpius era troppo asciutto e brutale per corrispondere al modello di ragazzo tranquillo e posato di sempre. Lo avrebbe shockato di meno sentire il pavimento prorompere ad una simile maniera.

Scorpius scostò la frangia con un gesto secco, liberando le iridi dardeggianti. Nonostante il colore freddo, gli occhi del ragazzo parevano di fiamma tanta era la rabbia che deflagrava dentro di essi.

Albus restò ammutolito dalla furia sorda che ribolliva nelle vene dell’amico: era quasi possibile udire il ringhio del sangue schiumante di collera.

Scorpius tremò da capo a piedi, e diede l’impressione di voler sradicare l’armadietto e gettarlo dalla finestra. Invece emise un sospiro simile ad un ringhio e gli diede bruscamente le spalle, divorando il corridoio a grandi passi.

   «Scorpius!» Albus si affrettò dietro di lui. «Mi… mi dispiace…»

   «Perché, hai contribuito a quell’opera d’arte?»

   «No, ma…»

   «Allora non scusarti.»

   Tecnicamente le parole non erano scortesi, ma l’inflessione con cui esplosero sulle labbra di Scorpius gli scorticò il cuore. Ancor più del fatto che fossero le spalle dell’amico a rivolgersi a lui: da quando si conoscevano, non era mai successo che Scorpius si rifiutasse di guardarlo in faccia.

   «Mi dispiace… perché so che stai male» provò di nuovo.

   «Lo sai?»

   Gli eventi si succedettero così rapidamente che Albus li distinse solo al loro termine: si ritrovò con la schiena addossata al muro, il cappello ancora in mano e la sciarpa sbilenca sul petto, ed un pugno di Scorpius ad un soffio dal suo orecchio. Il viso dell’amico era arroventato dall’ira, ed Albus rabbrividì di paura per la prima volta: temeva che quel rogo di furia riducesse in cenere il ragazzo che conosceva.

   «Cosa sai, esattamente?» sibilò Scorpius.

   «Immagino che… tu stia soffrendo» Albus calibrò le parole con la cura di un esperto nel disinnescare una mina. «Se dovesse succedere a me…»

La cautela non fu sufficiente: evidentemente aveva tagliato il filo sbagliato.

   «Oh, a te non succederebbe!» eruppe l’altro, scostandosi da lui con una spinta. «Tu sei il discendente del grande astro del firmamento magico! Ti basta esistere per essere elogiato!»

   «Scorpius…»

   «Ti è sembrato strano vedere una cosa del genere? A me no. Anzi, mi chiedevo quando avrebbero ricominciato» seguitò spietato Scorpius. «Ma forse per te, abituato ad essere viziato da tutti, sembra impossibile.»

   Albus torturò il cappello che teneva tra le dita, e morse le labbra fino a sentire il sapore ferrigno del sangue. Non doveva piangere. Di sicuro, le sue lacrime avrebbero fatto arrabbiare Scorpius ancora di più.

   «Forse dovresti unirti agli altri. Prima che certe voci vadano ad infangare il tuo stimato nome.»

   La stoccata finale lo colpì direttamente ai condotti lacrimali: una goccia di tristezza rotolò sulla guancia prima che la falla venisse risanata. Albus la estinse sul berretto, che fregò con forza sul volto.

   «Perché dovrei? Tu sei mio amico, molto più degli altri» arrancò, il peso delle lacrime non sfogate che si accumulava sulle sue corde vocali, impastando le parole in una fanghiglia piagnucolosa.

Un angolo della bocca di Scorpius scattò derisorio, come se il fatto non avesse alcuna importanza.

E quello lo ferì più di tutto.

Più delle parole dure dell’amico, più della sua irruenza incendiaria, più del sentirsi trattato come un pigro privilegiato.

Poteva sopportare tutto. Ma non che Scorpius classificasse la loro amicizia come qualcosa di inutile.

   «E se…» la voce scricchiolò in un estremo contenimento delle lacrime: ormai era al limite. «Se tu mi conoscessi un minimo, sapresti che non mi sono mai vantato del mio cognome!»

Il labbro inferiore quasi ballò, e Albus fu costretto a morderlo per mantenerlo fermo.

   «Ma non credo che ti importi…» biascicò, sollevando la sciarpa perché facesse da scudo alle lacrime che avevano travalicato gli argini.

Schivò l’amico e uscì di corsa dagli spogliatoi.

Davvero, poteva sopportare ogni cosa.

Che Scorpius fosse infastidito, arrabbiato, furioso; che non fosse quell’idolo di perfezione che aveva immaginato.

Ma non l’indifferenza. Non che tutti gli avvenimenti degli ultimi tempi che lui aveva serbato come tesori fossero ridotti ad un pugno di sabbia.

La sciarpa raccolse le sue lacrime e s’impregnò della sua amarezza mentre il piccolo correva fuori dalla stanza, fuori da Hogwarts, fuori da tutto.

 

***

 

   Il cuore perse tutte le tonnellate di preoccupazione con cui si era appesantito e librò felice nell’aria non appena distinse la sagoma del cugino.

   L’ipocondriaco era venuto a cercarla circa un’ora dopo la fine della partita, affannato per la cattiva notizia: Albus era sparito.

Si supponeva che avesse avuto un diverbio con Scorpius, e da allora era introvabile. Interrogato, Malfoy aveva confermato quella tesi: Albus era scappato dopo la loro discussione.

   Rose aveva giurato intimamente che, qualunque cosa fosse accaduta a suo cugino, l’avrebbe restituita a Scorpius moltiplicata per mille.

Con quello spirito guerriero aveva cominciato a cercare Albus in tutta la scuola, dalle torri fino ai sotterranei. Aveva fatto ricorso anche alla professoressa Eeriemay, che a sua volta aveva chiamato Achil Scholz che si era trascinato dietro il fratello, e tutti e tre si erano divisi alla ricerca dell’alunno, lasciando Rose da sola.

Rimaneva un solo luogo in cui non aveva controllato: la capanna di Hagrid.

Si era precipitata fuori da Hogwarts nel terrore che il cugino fosse sorpreso dalla notte mentre girovagava nel bosco limitrofo alla scuola: nonostante le cure del guardiacaccia, quella foresta non era mai del tutto tranquilla e, da quel che aveva capito dalle ipotesi sconnesse di Nott e dai monosillabi di Scorpius, Albus era scosso emotivamente. Non voleva che un Platano Picchiatore lo rivoltasse come un calzino, o che una bestia bavosa se lo sgranocchiasse mentre era incapace di intendere e di volere.

   Mentre correva, si ricordò del pessimo senso dell’orientamento del cugino, e di come le chiedesse sempre indicazioni stradali.

Deviò quindi dal sentiero principale e cominciò a vagabondare nella boscaglia chiamando a gran voce il consanguineo.

Si era quasi consumata le ginocchia per la corsa quando finalmente lo aveva intravisto, accucciato sotto un albero.

   «Eccoti qui» buttò fuori in un fiato debilitato, crollando di fianco a lui.

   Il cugino rimase immobile, rannicchiato sulle proprie gambe, la fronte contro le ginocchia e le braccia avvolte attorno alle tibie.

Rose gli passò delicata una mano sui capelli; Albus sussultò appena, come un cucciolo che si aspetta una sferzata anziché una carezza.

   «Volevi andare da Hagrid, vero?» mormorò, affettuosa.

   La testa di Albus sprofondò nelle ginocchia per assentire.

   «Ma ti sei perso lungo la strada.»

   Altro cenno positivo.

   Il palmo della cugina scese fino ad appoggiarsi sulla sua spalla, su cui si strofinò come per scaldarlo.

   «Vuoi dirmi cosa è successo?»

   La zazzera corvina venne scossa in segno di diniego.

   «Ho saputo che hai discusso con Scorpius» insistette dolcemente Rose.

   I muscoli di Albus si contrassero come se un dardo lo avesse colpito. Il viso sprofondò ancora di più tra le gambe e le braccia serrarono la stretta per soffocare gli uggiolii spezzettati nel pianto.

   «Scusa!» esclamò Rose, abbracciando il cugino di slancio e cullandolo come un bambino. «Scusa, non volevo…»

   Un altro cenno di diniego, poi Albus sciolse le braccia per circondare il busto della ragazza e sfogarsi sulla sua spalla.

Rose aspettò che le lacrime diventassero singhiozzi e che questi ultimi si indebolissero fino a interrompersi del tutto; quando le spalle smisero di sussultare anche la presa sulla sua schiena si fece meno angosciata, finché quello che era partito come appiglio disperato non divenne un abbraccio fraterno tra cugini.

   «Scusa…» bofonchiò Albus. Si allontanò per assicurarsi di non aver ridotto in condizioni pietose la spalla della cugina su cui aveva sbrodolato la sua infelicità. Rose approfittò del suo movimento per prendergli il volto tra le mani e osservarlo.

   «Hai pianto fino ad ora?» La domanda era del tutto superflua: gli occhi di Albus erano diventati una mistura rossa e acquosa: non sembravano quasi solidi tanto le lacrime li avevano imbevuti.

   «No… non sempre» sdrammatizzò Albus. «Ogni tanto mi calmavo…»

   I palmi di Rose lo guidarono ad accoccolarsi nuovamente contro di lei, e presero ad accarezzargli i capelli e la schiena come avrebbero fatto con un gattino abbandonato.

Aveva voglia di dirgli che lei lo aveva avvertito, che quel tizio non le era mai piaciuto. Tuttavia, non era così infame: non avrebbe mai infierito sul cugino. E poi, il dolore che stava provando avrebbe avuto più effetto di qualunque ramanzina.

   «Torniamo a scuola» propose quando lo sentì rilassarsi sotto le sue cure. «Sono tutti in ansia per te. E tra poco farà buio.»

   Albus lasciò che la cugina lo aiutasse a rialzarsi in piedi, opponendo la flaccida resistenza di un corpo inerte: era troppo esausto per compiere sforzi sulle sue gambe.

   «Andiamo» lo sollecitò lei. Si circondò le spalle con il suo braccio e gli cinse la vita con il proprio per sostenerlo nel cammino.

   «Rose, non sono paralitico.»

   «Non importa. Lasciati coccolare, ogni tanto» lo dissuase la cugina.

   Albus si accucciò nella stretta amorevole della consanguinea e si impose di non pensare a cose che avrebbero potuto renderlo triste. Ad esempio, cosa avrebbe potuto dire a Scorpius una volta tornato nel dormitorio.

Doveva scusarsi? No, in fondo si era solo difeso.

E Scorpius? Sperava che avesse la decenza di fare ammenda in qualche modo. Altrimenti non avrebbe saputo proprio come fare per esigere le sue scuse. E, senza di esse, non sarebbe riuscito ad avere con Scorpius lo stesso rapporto di prima.

Scrollò la testa, sfinito.

Ci avrebbe pensato con calma una volta che si fosse trovato davanti all’amico. Per ora era meglio concentrarsi sui suoi piedi e sulla loro sincronia.

   Fu un rumore alla loro destra a distrarre entrambi.

Il sottobosco frusciò sotto un peso mastodontico, e i rami secchi crocchiarono in un concerto di suoni spezzati.

Un suono a metà tra il ringhio e il sibilo si sollevò dalle cime degli alberi.

Poi tutto fu silenzioso.

   «Cos’è stato?» biascicò Albus, troppo stanco per rendersi conto del pericolo.

   Fortunatamente, Rose era abbastanza vigile per entrambi.

   «Andiamo via» si affrettò a velocizzare il passo come se i demoni d’Inferno le fossero alle calcagna: non sapeva che cosa ci fosse alle loro spalle, e non aveva intenzione di verificarlo. Albus stava male. E non sarebbe riuscito a reggere uno scontro.

   Rose quasi volò quando si rese conto che la cosa li stava seguendo: gli alberi stormivano e il suolo gemeva di fianco a loro, prove di un enorme corpo in movimento, e quel latrato trattenuto diventava sempre più forte e feroce.

   «Albus, corri!» strillò, spezzandogli quasi il polso per la forza con cui lo strattonava.

   Ma per quanto Rose galoppasse e Albus si sforzasse di tenere il passo, furono costretti entrambi ad arrestarsi quando la cosa sbarrò loro la strada: un tronco fu quasi divelto dalla forza con cui la bestia si fece largo per uscire allo scoperto, e due piccoli affossamenti si formarono sotto i suoi piedi per l’urto dell’atterraggio.

   Rose lasciò andare il cugino e gli si parò davanti, levando la bacchetta in direzione del mostro.

   Non aveva mai visto niente di simile, nemmeno nei suoi incubi.

   Ma Albus aveva bisogno di lei. Avrebbe fatto tutto ciò che era in suo potere per difenderlo.

   Serrò i denti, richiamò alla memoria le formule di attacco che conosceva.

   E si preparò allo scontro con la bestia.






Grazie a tutti<3<3<3
P.S. Il quarto capitolo arriverà quanto prima :D

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Capitolo 4
*** Nemmeno ad Hogwarts ***


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4

“Nemmeno ad Hogwarts”

 

 

 

   Un bagno solo non sarebbe stato sufficiente.

   Per Silente, non gli sarebbe bastato rimanere una settimana immerso nella vasca per togliersi di dosso tutte quelle porcherie!

Nott si assicurò la mascherina al viso e si accertò che i guanti fossero bene aderenti alla pelle prima di proseguire oltre in quel delirio di sottobosco insidioso. I rami gli graffiavano i capelli castani, e le radici tentavano continuamente di fargli lo sgambetto.

Stava procedendo a rilento per il timore di non accorgersi di qualche ostacolo vegetale e ritrovarsi impantanato in una fanghiglia patogena: avrebbe preferito affrontare un Dissennatore a mani nude piuttosto che tuffarsi in quella melma piena di schifezze.

Una persona normale avrebbe visto un normalissimo bosco, cosparso di pozzanghere per via della pioggia di qualche giorno prima. Ma Macauley non era una persona normale, e per lui la foresta ben curata di Hogwarts non era altro che un’incubatrice di pericolosi virus.

   Imprecò sonoramente contro un gatto fulvo che sbucò fuori da un cespuglio e gli sfrecciò fra le caviglie; per evitare il felino, Macauley quasi si ribaltò su un sasso alle sue spalle, e solo aggrappandosi alla corteccia dell’albero più vicino riuscì ad evitare il fatale impatto con i bacilli del suolo. La prossima volta avrebbe detto ad Albus di perdersi in un’infermeria, o, perlomeno, in un luogo civilizzato.

   Rose aveva cercato il cugino per tutta la scuola e non lo aveva trovato, così si era inoltrata nella foresta alla sua ricerca.

Macauley storse la bocca: Rose gli sembrava una persona in gamba, ma era comunque una ragazzina da sola nella selva. Se dovevano trovare Albus, meglio cercarlo in due.

Aveva impiegato qualche dozzina di minuti a convincersi che Albus valesse il rischio di essere infettato da un qualche germe sconosciuto, e altri venti per preparare il suo equipaggiamento sterilizzante. Senza contare la mezz’ora persa a cercare Scorpius per trascinarlo in quella missione di recupero; in fondo, era colpa sua se Albus era scappato nel cuore della giungla.

Non lo aveva trovato, né nel dormitorio né nelle aule che erano soliti frequentare. Così si era arreso all’idea che avrebbe compiuto quella ricerca in solitario, e si era spinto nel bosco.

   Al pensiero di Albus, magari ancora solo e sperduto, accelerò un po’ il passo

Si arrestò di colpo, avvertendo un suono in lontananza: dalle cime degli alberi si levò un ululato mischiato ad un ruggito, un rumore così gutturale che sembrava provenire dalla viscere della terra stessa.

Sperava vivamente che Albus non si trovasse in quella zona. Fece per allontanarsi, ma un dubbio atroce lo bloccò: e se invece quella cosa, qualunque fosse l’essere capace di mandare un simile barrito, stesse per attaccare Albus?

Morse il labbro e sguainò la bacchetta, inspirando a fondo da dietro la mascherina.

Non fece in tempo a muoversi.

Un’improvvisa folata di vento gli turbinò attorno, e qualcosa di molto pesante gli precipitò addosso, schiacciandogli i polmoni contro il terreno umido.

In quel momento, Nott sentì rimbombare nella testa le note di un requiem.

Sarebbe certamente morto. Se non per l’aggressione di quel mostro sconosciuto, per quella dei germi che lo stavano inesorabilmente infettando.

 

***

 

   Appena gli occhi annebbiati misero a fuoco la bestia, i muscoli ripresero improvvisamente vigore, al contrario della mente, che si svuotò di ogni nozione magica per riempirsi di un panico confusionario.

Mise a freno il tremito delle mani per estrarre la bacchetta e affiancarsi alla cugina. Per tutta risposta, Rose lo spinse di nuovo indietro, e Albus non poté fare altro che pensare ad una tattica soddisfacente protetto dalla schiena della consanguinea.

   Per quanto le sue meningi atterrite lavorassero, non riusciva a ricordare niente di simile al mostro che avevano davanti. E, se non riusciva ad identificarlo, non poteva nemmeno conoscere i punti deboli in cui attaccare.

Uno sguardo fugace alla cugina fu sufficiente per capire che nemmeno lei sapeva catalogare la creatura che avevano davanti.

   Il fetore emanato dalla bestia era tanto intenso da essere quasi materiale, un’onda mefitica che polverizzava le mucose nasali. Non era un tanfo assimilabile alla sporcizia; era il miasma di un corpo in decomposizione.

Rose portò una manica davanti al naso per schermarlo da quell’effluvio pestilenziale.

Le sembrava di avere davanti a sé un animale vivo e al contempo in putrefazione. Non solo per l’odore: il mostro pareva creato assemblando pezzi di vari esseri viventi, in alcuni punti saldati alla perfezione e in altri cedevoli. Il colore dell’incarnato non era uniforme e variava da un grigio malato ad un biancastro pallido; i confini tra le tinte dissimili sancivano i punti in cui i diversi pezzi erano stati assemblati, alcuni recanti ancora i punti di sutura. Inoltre, sul corpo dell’animale si aprivano una serie di squarci che lasciavano intravedere la carne sottostante, viva e purulenta come se la pelle grigiastra fosse scoppiata a causa di cisti troppo cresciute.

Rose deglutì a fondo quando analizzò il mostro nel suo complesso: nonostante la forma umanoide, le grosse gambe muscolose erano piegate come quelle di un fauno, e le braccia, decisamente sproporzionate, raggiungevano le ginocchia; la schiena era arcuata da una evidente gobba, e il muso del mostro scintillava di una furia ferina quasi folle nel protendersi in avanti per cercare il loro odore.

Dal modo in cui stringeva gli occhi dalle enormi pupille – la cornea non era che una sottilissima linea giallastra sul bordo – e da come annusava l’aria, Rose capì che quella bestia era probabilmente cieca, e che l’olfatto era il suo senso più sviluppato.

Arretrò di un passo, e subito l’animale ruotò la testa nella sua direzione. Rose era sicura di non aver mosso più di qualche foglia nel muoversi. Dunque il mostro compensava la scarsa capacità oculare con udito e olfatto estremamente fini.

Parò la bacchetta davanti a sé, mentre la bestia inspirava l’aria come un mantice, eccitata dalle particelle del loro profumo che era riuscita a rintracciare nell’aria.

Teneva la mascella penzolante come un cane affaticato, e i due maghi poterono così notare la chiostra di zanne da cui dondolavano sottili fili di bava.

Rose schiaffò una mano sulla bocca del cugino prima che questo si lasciasse sfuggire un verso disgustato. La bestia drizzò il capo, circospetta, udendo quel sottilissimo cambiamento nell’aria. Poi ricominciò ad annusare, alla ricerca sempre più frenetica e bramosa delle sue prede.

Rose serrò con calma le dita attorno alla bacchetta, una dopo l’altra.

Non potevano muoversi, altrimenti li avrebbe sentiti. Ma era solo questione di tempo prima che li scovasse con il fiuto.

Potevano tentare un'unica via di fuga.

Rose lanciò uno sguardo alle sue spalle e fece un cenno con il capo al cugino, mostrandogli la bacchetta con una impercettibile rotazione del polso. Gli occhi verdi le risposero con uno sguardo smarrito, ma il capo di Albus si chinò comunque in un assenso: si fidava della cugina e, se lei aveva intenzione di usare la magia, l’avrebbe spalleggiata.

Rose puntò la bacchetta davanti a sé, subito imitata da Albus. Passò la lingua sulle labbra secche, tesa fino allo spasmo. Aveva ragione Achill Scholz, la teoria e la pratica differivano anni luce l’una dall’altra.

   Inspirò un’ultima volta prima di passare all’azione.

   «Stupeficium!» recitò, muovendo la bacchetta con un colpo preciso in direzione della bestia.

   «Stupeficium!» le fece eco Albus; avanzò di un passo per evitare di colpire la cugina, e puntò la verga in direzione dell’essere.

I lampi rossi si intrecciarono crepitando e colpirono il mostro al ventre, ribaltandolo come un pupazzo e scagliandolo a diversi metri di distanza.

Il corpo della creatura non aveva ancora toccato terra che Albus si sentì strattonare con forza per la manica: gli alberi persero nitidezza e cominciarono a sfrecciare intorno a lui mentre la cugina lo trainava.

   «Richiama la tua scopa!» ansò lei, correndo a precipizio per la foresta.

   «Cosa?»

   «Chiama la tua scopa prima che quel coso si rialzi!» sibilò Rose. «Non credo proprio che possa volare: se riusciamo a salire sulla scopa siamo salvi!» Scavalcò con un salto un arbusto sulla loro strada, ma Albus non fu altrettanto agile: vi si schiantò contro, sradicandolo dal terreno, e non ebbe quasi tempo di accorgersene per la fretta con cui stavano scappando. Solo dopo qualche secondo registrò un vago bruciore alle gambe.

   «Non so come si fa!» le ricordò Albus.

   «La formula è “Accio”, e poi il nome della scopa» lo istruì Rose, dribblando un albero con precisione millimetrica. Albus quasi si arrotolò su se stesso per evitare il medesimo vegetale.

   «Ma è una formula avanzata! Non è del primo anno!» protestò il cugino, provato dalla corsa e dalle troppe emozioni tutte accatastate insieme.

   «Albus, stiamo rischiando la vita! Fai almeno un tentativo!» replicò esasperata lei, assestandogli uno scrollone più forte.

   Albus annuì, un nodo di panico che si ingrossava nella gola, e strinse più forte la bacchetta tra le dita sudate per l’agitazione.

   «Accio Firebolt!» strillò quasi. «Non ha funzionato!» esclamò terrorizzato, non vedendo alcun risultato tangibile.

   «Devi aspettare che arrivi!» lo rimproverò Rose, continuando a correre. «E spero che faccia in fretta!» La terra dietro di loro rombò, e il suolo tremò sotto i loro piedi; un verso raccapricciante stracciò l’aria intorno: la bestia aveva ricominciato la caccia.

  Rose si fermò davanti ad un grosso albero, si fletté sulle ginocchia tenendo le mani a barchetta davanti a sé e spronò il cugino: «Sali.»

   «Che vuoi fare?» squittì Albus, atterrito dal tuono dei passi, sempre più vicino.

   «Se sali sull’albero, sarai in una posizione di vantaggio rispetto a lui. E potrai scappare più velocemente con la scopa» espose velocemente Rose.

   «E tu?» pigolò Albus: non voleva che la cugina si sacrificasse per salvarlo.

   «Quando ti sarai arrampicato, mi darai una mano a salire. E ora muoviti!» lo esortò a denti stretti lei, per non essere troppo udibile. La bestia doveva averli quasi raggiunti: l’aria era satura dei suoi versi e del suo lezzo.

Fu rapido nel poggiare il piede sui palmi della cugina e ad issarsi sul ramo più robusto grazie alle spinte di Rose. Si posizionò a cavalcioni sulla frasca e, stesosi sulla pancia, allungò le braccia per aiutare la consanguinea nella scavalcata.

Non furono abbastanza veloci: il tronco sottile di un alberello ancora giovane venne tranciato a metà da una tremenda zampata. La creatura sbucò dal varco così aperto, le narici vibranti alla ricerca dei due maghi.

Albus sbarrò gli occhi per lo sgomento, e protese con più decisione le mani verso la cugina; Rose mosse appena il capo in cenno di diniego. Albus stese le dita a raggiera, supplicandola con gli occhi velati di pianto di ascoltarlo e salire. Rose ripeté l’esiguo movimento con sguardo fermo, per fargli capire che non lo avrebbe seguito: non aveva alcuna intenzione di metterlo in pericolo con i rumori che avrebbe fatto scalando la corteccia. E poi, la Firebolt sarebbe arrivata tra poco. Dovevano solo pazientare.

Rose si voltò con la massima cautela, per dare le spalle all’albero e non alla bestia, e serrò le dita sul legno della bacchetta. Si sarebbe difesa con la magia, se la scopa non fosse giunta in tempo.

La creatura si mosse, fiutando con le enormi narici umidicce: levò il capo verso l’alto poi, lentamente, lo abbassò fino a trovarsi all’altezza della testa di Rose. A quel punto mosse alcuni pesanti passi in avanti, avvicinandosi sempre più.

Albus seguì la scena raggelato nella sua postazione: vide il sudore imperlare la fronte di Rose, e la bestia parve individuare la sua paura con l’olfatto oltremodo sviluppato. Alcune ciocche di capelli rossicci ricaddero sul volto della cugina, ma lei non li spostò per non fornire al mostro ulteriori indizi sulla sua posizione.

Albus sentì il sangue congelarsi nelle vene quando l’abominio si arrestò a pochi metri di distanza dalla cugina: l’enorme testone ondeggiò davanti al volto di Rose, fissandola con gli occhi ciechi; la ragazza trattenne a stento un conato quando l’alito mefitico della creatura le avviluppò il volto.

Questa volta, la bestia non le lasciò il tempo di reagire: lanciando un mugghio spaventoso, inalberò una mano e la calò con violenza sul fianco della maga, scaraventandola a lato.

Rose sentì il suo corpo spezzarsi in due: la forza di quella zampata era tale che le parve di venire tagliata a metà dall’arto di ferro del mostro. I suoi piedi persero aderenza al terreno, e la vista venne invasa da un turbinio confuso di foglie, erba e cielo, mentre il suo corpo rotolava fino a sbattere di schiena contro una betulla. L’istinto di sopravvivenza la spinse a rialzarsi il più in fretta possibile, ma il dolore al fianco smorzò i suoi tentativi: cercò di muovere le gambe, e subito una fitta lancinante le mozzò il fiato, costringendola prona sulle foglie secche.

Riuscì a voltare la testa quel tanto che bastava a vedere la bestia, ebbra della vittoria, avanzare verso di lei con le fauci spalancate e sbavanti.

Tastò il terreno intorno a lei, stringendo i denti per il dolore che dalla vita si propagava in tutto il corpo, ma fu inutile: doveva aver perso la bacchetta nel punto in cui il mostro l’aveva aggredita. Non sarebbe riuscita a recuperarla. E, anche se fosse arrivata la Firebolt, Albus non avrebbe potuto salvarla: il mostro era troppo vicino, e troppo affamato.

Quello che avvenne in seguito, però, non lo avrebbe mai ipotizzato: la bestia si impennò improvvisamente, emettendo un verso di sorpresa. La grossa testa sbatacchiò in tutte le direzioni, infastidita, e le mani mulinarono nell’aria per liberarsi dell’impiccio aggrappato al suo collo.

Albus, dimentico della magia e del buon senso, si era lanciato sulla bestia e le stava stringendo il collo con tutte le sue forze. Non aveva meditato un piano di battaglia, non aveva pensato a niente: aveva visto sua cugina a terra, ferita, ed un mastodontico mostro incombere su di lei. Era bastato per farlo scattare, privo di ogni percezione che non fosse la consanguinea distesa inerte al suolo.

La bestia sgroppò come un toro infuriato, agitando le braccia contro quel minuscolo esserino arpionato alla sua trachea.

   «Albus, imbecille!» gracchiò Rose, la voce arrochita dal dolore. «Che diavolo fai?»

   Il ragazzo non rispose, impegnato anima e corpo nel restare attaccato al collo del mostro.

Ma la bestia fu più testarda di lui: portò le mani sulle vertebre e le palpò fino a trovare il corpo estraneo. Albus sentì le dita animalesche serrarsi intorno ai suoi fianchi, strattonarlo via e lanciarlo in aria con una forza inaudita.

Udì l’urlo di Rose, ma venne sovrastato dal grido del suo cuore impazzito di paura: il mostro lo aveva lanciato troppo in alto, si sarebbe sfracellato al suolo.

Qualcosa si frappose fra lui e il suo inevitabile destino: una stretta snella ma decisa lo prese in vita, ed il vento gli scompigliò i capelli mentre veniva portato lontano dalla bestia.

Alzò lo sguardo, stringendo gli occhi per difenderli dall’aria sferzante, ed un baluginio di riflessi dorati lo abbagliò.

   «Stai bene?»

   Albus stentò a riconoscere la voce. E non perché non l’avesse mai sentita prima, ma perché era davvero impossibile che lui fosse lì in quel momento.

Due occhi grigi e preoccupati si voltarono verso di lui. «Stai bene?» ripeté il ragazzo, aiutandolo con un braccio a sistemarsi sulla scopa.

   «Che ci fai qui?» Albus tentò con tutte le sue forze di mantenere ferma la voce, ma fallì con disonore: le lacrime che aveva versato quel pomeriggio tornarono a fiaccargli le corde vocali, facendolo quasi miagolare.

   «Ho saputo che eri scomparso» la scopa virò di lato, evitando un fendente della bestia ringhiante. «E ho immaginato che fosse per colpa mia» si alzarono di quota per sfuggire alla portata degli abnormi arti del mostro.

Lì Scorpius approfittò di un unico attimo di calma per mormorare:

«Mi dispiace.»

Non si era voltato nel dirlo, ma Albus riuscì ugualmente a carpire la sua onestà dalle spalle lievemente abbassate, come abbattute, e dalla lievissima titubanza di sottofondo, quasi temesse che le sue scuse non sarebbero state accettate.

   Le maniche della tunica di Albus si arrotolarono sui gomiti quando il piccolo fece strisciare le braccia a cingere il petto di Scorpius. Lo abbracciò forte, premendo la guancia contro la sua schiena piegata dalla colpa.

   «Se non mi reggo, cado» minimizzò. «Dobbiamo parlarne meglio.»

   Scorpius si dichiarò d’accordo con un cenno del capo e planò in picchiata verso il suolo, dove Rose li attendeva, sdraiata sofferente su un fianco. E non era sola.

   «Albus!» Nott, posto ad avanguardia della ragazza a bacchetta spianata, strillò come una donnetta nel vederlo. «Non azzardarti mai più a fare una cosa simile!»

   «Anche tu qui?» si stupì Albus, notando le vistose macchie di terriccio sulla tunica di Macauley, i fori sui guanti di lattice e la posizione sgangherata della mascherina. Stentava a credere che l’ipocondriaco amico si fosse esposto a un simile rischio di epidemie solo per lui.

   «E’ ovvio, cretino!» sberciò Nott, senza staccare gli occhi dalla bestia, confusa da quegli strilli e dalla raffica di vento che si era portata via il suo giocattolo.

   «E i batteri?» volle sapere Albus, ancora aggrappato a Scorpius.

   «Eri in pericolo!» starnazzò Macauley.

   Albus batté le palpebre, incredulo: erano tutti lì per lui. Rose, che lo aveva aiutato fino a farsi quasi spezzare la schiena; Macauley, che si era gettato a capofitto in un covo di germi; e Scorpius, che non aveva esitato a lanciarsi in volo contro un mostro per salvarlo.

Solo perché erano preoccupati per lui.

Albus nascose il viso tra le scapole di Scorpius per arginare il desiderio di piangere. Ma non per la tristezza, come aveva fatto in tutte le ore precedenti: per ringraziare con qualche goccia di emozione chi teneva così tanto a lui da mettere a repentaglio la propria incolumità pur di soccorrerlo.

   Il breve idillio venne frantumato dal ruggito collerico della bestia, decisa a stanare i nuovi intrusi.

   «Che facciamo?» bisbigliò Scorpius.

   «Ho lanciato un incantesimo di appello» rispose in un sussurro Albus. «La mia Firebolt dovrebbe arrivare» inarcò un sopracciglio e domandò: «Tu perché hai la scopa?»

   «Sono venuto a cercarti direttamente sulla scopa» rispose Scorpius, con un sorriso furbetto. «Era molto più semplice cercarti dall’alto. E’ così che ho visto Macauley.»

   «Idiota» sibilò Nott alla coppia fluttuante. «Mi hai fatto perdere dieci anni di vita con il tuo scherzetto.»

   «Non ti ho spaventato così tanto» si difese Scorpius.

   «Chi parla della paura? Parlo delle infezioni» replicò Nott.

   «Se avete finito di fare salotto, c’è una bestia assetata di sangue che ci sta ancora dando la caccia» ricordò loro Rose, infuriata. A giudicare dallo sguardo di fuoco con cui stava incenerendo Scorpius, non gli aveva perdonato il torto fatto al cugino, poco importava che lo avesse poi sottratto ad una cruenta morte.

Il mostro lanciò un barrito selvaggio, schiumando di rabbia mentre vorticava gli artigli tutto intorno.

Rose si sforzò per mettersi in ginocchio, la mano premuta sul fianco dolente; Macauley si risistemò la mascherina con la mano sinistra, la destra protesa a tenere sotto tiro di bacchetta la bestia; Scurpius voltò la scopa in modo da fronteggiare la creatura e schermare Albus, che sbucò dalle sue spalle armato di verga magica.

L’avrebbero affrontato insieme.

   Il cespuglio sotto di loro perse qualche foglia quando un gatto rossiccio balzò fuori dalla selva e saltellò in mezzo alla radura. Si sedette e si leccò una zampa, passandola poi sulla testolina pelosa, e per tutto il tempo fissò sereno il mostro ululante davanti a loro.

   «Di nuovo quel gattaccio!» inveì Nott. «Prima mi ha fatto quasi ammazzare!»

   Il micio lo fissò con aria sorniona, avvolgendosi la coda attorno al corpo flessuoso. Si rialzò sulle zampe e ondeggiò elegante verso Macauley, per strusciarsi contro le sue caviglie.

   «Vattene, schifosa palla di pelo!» lo insultò Nott, scrollandoselo di dosso.

   «Macauley, un gatto non ti ucciderà, quella bestia sì!» lo sgridò Rose, stringendo gli occhi per una fitta improvvisa.

Il gatto li guardò con gli occhi verdi e astuti, inspiegabilmente divertito; inalberò la coda con vezzosità e rivolse la sua attenzione al mostro, incrociando graziosamente le zampine anteriori.

Il pelo lucido e fulvo si allungò in una lussureggiante chioma sanguigna, gli occhi smeraldini si disegnarono con un trucco sapiente, il musetto peloso evolse in un ovale raffinato dalla pelle chiara; il corpo agile del felino si gonfiò nelle forme prorompenti di una giovane donna, e le zampette incrociate si allungarono in un paio di gambe tornite e sensuali.

Davanti alle espressioni allibite dei propri studenti, il gatto si tramutò nella loro professoressa di Trasfigurazione.

   «Hai un vocabolario piuttosto disinvolto per essere un undicenne, Nott» cinguettò la Eeriemay, togliendosi una foglia dai capelli sciolti sulle spalle.

   «Le chiedo scusa, prof…» articolò a stento Macauley, ricordando fin troppo bene gli insulti che aveva rivolto al micio.

   «Cerca solo di contenerti, in futuro» lo consigliò bonaria la Eeriemay, dedicando di nuovo la sua attenzione alla bestia.

Inclinò la testa di lato, facendo scorrere i lunghi capelli sulla giacchetta del completo. Con una disinvoltura sconcertante, inserì la punta delle dita nello scollo della camicia ed estrasse la bacchetta, custodita tra i seni.

Tutti e tre i maschi volsero la loro attenzione altrove, chi a terra, chi alle proprie mani, suscitando il divertimento beffardo della Eeriemay.

   «Non emozionatevi troppo, ragazzi» sorrise la prof, puntando la verga contro il mostro scatenato, che agitava le fauci bavose e gli artigli sporchi come un indemoniato.

«Immobilus» recitò la professoressa, con aria quasi annoiata.

Uno schiocco, e la creatura smise improvvisamente di muoversi, come pietrificata. La Eeriemay torse le labbra in un’espressione compiaciuta, e fece per riporre la bacchetta quando il mostro mandò un acuto latrato e riprese a dimenarsi all’interno della morsa magica: grosse gocce di sudore colarono dal mento sbeccato mentre l’essere tentava di muovere qualche passo in avanti, le vene gonfie fino a scoppiare e i tendini tesi come corde d’arco.

Un sopracciglio scarlatto si sollevò, confuso.

   «Le bestie umanoidi non dovrebbero avere resistenze particolari a questo incanto…» rifletté, spostandosi a lato come una gladiatrice per osservare gli sforzi del mostro.

   «Professoressa, andiamocene finché è immobilizzata» consigliò Macauley. Si chinò per aiutare Rose a rialzarsi, e così la risposta della donna lo colse mentre era chinato sulla giovane:

«Il nostro caro Hagrid non è più così in forma da fronteggiare un simile abominio, e suo figlio non è abbastanza esperto. Vedi anche tu come sta resistendo all’incantesimo, no?» la Eeriemay scostò una ciocca rubino dal viso e dichiarò: «Dobbiamo occuparcene noi.»

Prima che gli studenti potessero chiedere a chi si riferisse con quell’ipotetico “noi”, dal bosco venne un rumore di rami spezzati e di parolacce in tedesco, preludio del rocambolesco arrivo dei due Scholz.

   «Lei è saetta, fraulen Eeriemay» gorgogliò festoso Bartold, scrollandosi dai capelli l’equivalente di una collinetta di foglie.

   «Tu sei lento!» grugnì Achill, scuotendo il fango dagli stivali. «Noi dobbiamo fare qualcosa per tuo lardo, oltre che per tuo inglese!»

   «Lardo?» ripeté disorientato e ammirato Bartold. «Che termini difficili sai!»

   Un ruggito particolarmente forte della bestia li fece voltare all’unisono.

   «Dobbiamo eliminarlo» sentenziò Achill, armandosi di bacchetta.

   «Non possiamo» replicò la Eeriemay, tenendo la verga puntata al mostro ruggente. «Non abbiamo mai visto niente del genere, prima. Dobbiamo studiarlo.»

   «Non possiamo portare cosa del genere in Hogwarts! Sicurezza di studenti…» Bartold brancolò nella futile ricerca dei termini inglesi per finire la frase.

   «Capisco. Lasciate che io prenda un campione, allora. Poi potrete toglierlo di mezzo.»

   La donna ancheggiò verso la creatura che, vedendola avvicinarsi, le latrò contro a gola spiegata, spruzzando saliva tutt’attorno.

La Eeriemay si fece strada in quella pioggia di batteri con una fermezza che Nott trovò semplicemente eroica, si portò la bacchetta alle labbra e vi sussurrò qualcosa sopra. Poi la ficcò con forza nella massa rigonfia di un muscolo della creatura, che esacerbò un grido di dolore.

La Eeriemay fu rapida nell’estrarre la verga e spostarsi di lato, prima che il braccio del mostro, liberatosi dall’incantesimo, compisse un arco verso di lei: lo schivò con grazia, permettendo a quegli artigli di sfiorargli appena le punte dei capelli cremisi.

   I professori si disposero a formare un triangolo attorno al mostro che rumoreggiava selvaggio e agitava il braccio che era riuscito a svincolare dalla magia. Le bacchette si levarono con solennità in direzione della bestia, in sincrono; una serietà mortale colò sui volti dei docenti, indurendoli in una maschera di risolutezza.

   «Deflagra» recitarono all’unisono; tre serpenti di luce scarlatta e crepitante sfrecciarono dalle punte delle loro bacchette fino alla creatura, che raggiunsero in un orribile sfrigolio di carne bruciata.

Le spire sanguigne si avvolsero attorno al petto della bestia, e lo scoppiettio del fuoco di un camino si tramutò nel rombo di un incendio, effondendo tutto attorno l’odore rivoltante dei muscoli carbonizzati e le urla di agonia della bestia.

Macauley chiuse gli occhi e voltò la testa, Rose non riuscì a distogliere lo sguardo dilatato dall’orrore; trovò come unico sostegno le braccia dell’amico che ancora la sorreggevano, e affondò le dita nelle sue maniche per avere un contatto umano mentre la morte del mostro la ipnotizzava con il suo fascino macabro.

Albus avvertì un conato serrargli la bocca dello stomaco, e premette una mano sul viso per evitare di rigettare tutto quello che aveva mangiato nei mesi precedenti. Quando temette di aver raggiunto il limite, una maglia morbida premette contro il suo viso, e due braccia amichevoli lo strinsero per confortarlo. Scorpius, con il busto torto in una posizione davvero improponibile, lo stava abbracciando per confortarlo e confortarsi a sua volta, sconvolto dalle urla atroci dell’animale.

Albus si afferrò al gilet dell’amico e affondò il volto nei suoi vestiti con tutta la sua forza, aspirando a pieni polmoni il profumo di Scorpius per sfuggire all’odore di morte che permeava tutto il bosco.

Passarono alcuni minuti che parvero secoli, e, finalmente, l’agonia della bestia terminò. Un manto di silenzio spettrale scese nella foresta, ed una brezza serale si impegnò a spazzare via il tanfo incenerito.

Macauley aveva ancora gli occhi serrati quando la Eeriemay giunse ad appoggiargli una mano sulla spalla.

   «E’ tutto finito» modulò dolce. Non riusciva nemmeno ad immaginare quanto potesse essere terribile, per dei ragazzi così giovani, assistere alla morte di un essere vivente, per quanto mostruoso. Era la loro insegnante, aveva il dovere di aiutarli; era un essere umano, aveva la facoltà di comprenderli.

Accarezzò i lucidi e pulitissimi capelli di Nott per convincerlo a dischiudere le palpebre, e sfiorò le guance pallide e fredde di Rose, ancora irrigidita per lo spavento e il raccapriccio.

Bartold si avvicinò a loro trotterellando, e restituì alla ragazza la sua bacchetta.

   «Tu molto brava» si complimentò. «Tu ottima maga in futuro.»

   Scorpius e Albus, invece, ricevettero la visita dello Scholz maggiore.

   «Non state attaccati come femminucce, diavolo! Siete maschi, siete guerrieri!» abbaiò. Quando i due ragazzi si furono staccati, Achill schiaffò senza alcuna delicatezza un manico di scopa sullo stomaco di Albus: la sua Firebolt era finalmente giunta.

   «Tu devi ancora migliorare molto, io temo» lo rimproverò.

   Albus non riuscì nemmeno ad annuire, le mani tremanti strette attorno alla scopa.

   «Coraggio» mormorò la Eeriemay. «Torniamo a Hogwarts.»

 

***

 

   Albus fissò il materasso sopra di sé, assorto.

   Solo Rose era stata trattenuta in infermeria, per via del colpo subito al fianco.

Il loro controllo invece era stato veloce, ed erano stati presto spediti nelle loro camere.

Non gli avevano concesso di vedere la cugina poiché si era addormentata quasi subito dopo la visita, stremata. Avrebbe dovuto aspettare il giorno dopo per sincerarsi delle sue condizioni.

Nott aveva deciso di trascorrere un po’ di tempo in infermeria: aveva intenzione di fare impazzire la loro povera dottoressa per farsi controllare ogni minima escoriazione.

Albus sorrise, addolcito: era davvero incredibile che Macauley avesse compiuto una simile impresa per lui. Doveva volergli molto più bene di quanto pensasse.

   «Albus?»

   Il piccolo sollevò il capo, nell’oscurità.

   «Sì?»

   «Hai detto che dovevamo parlare» gli ricordò Scorpius. «Sali.»

   Albus si rigirò su un fianco, indeciso se rispondere o meno all’invito: desiderava e temeva quel momento, perché non sapeva come ne sarebbe uscita la loro amicizia.

Raccolse il coraggio necessario e sgusciò fuori dalle coperte, si puntellò sul materasso e si arrampicò sul giaciglio dell’amico. Scorpius lo attendeva seduto a gambe incrociate, con le coperte tirate fin sopra le cosce.

   «Come stai?» si preoccupò Albus, accucciandosi sulla trapunta.

   Scorpius si strinse nelle spalle. «Quella bestia non mi ha toccato. Tu, invece?»

   «Poteva andare peggio» Albus si grattò la nuca, sospirando. «Spero che Rose non abbia nulla di grave.»

   «Se la caverà» asserì deciso Scorpius. «E’ forte, non si farà piegare. Anche se ho l’impressione che mi odi.»

   «E’ perché… sono stato male per il nostro litigio» soffiò Albus.

   Le loro bocche si azzittirono nell’imbarazzo, poi Scorpius si decise ad affrontare l’argomento:

   «Sono stato troppo brusco con te» ammise, senza abbassare lo sguardo: tenne gli occhi fissi in quelli di Albus, come a voler evidenziare la sincerità delle sue parole. «Non era colpa tua.»

   «Volevo solo aiutarti» l’altro, al contrario, voltò il viso verso le coperte, le spalle abbassate come un cucciolo bastonato.

   Scorpius tamburellò le dita sulle lenzuola per il nervosismo a stento represso e confessò:

   «Non è una scena insolita, per me. Sono piuttosto… abituato ad essere additato come feccia» masticò il labbro inferiore, risentito: no, non era ancora abituato, altrimenti sarebbe riuscito a mantenersi distaccato da tutte quelle meschinità. Solo, simili trattamenti non erano una novità. «Però… non sempre riesco a controllarmi.»

   «L’avevo notato.»

   Scorpius sospirò rumorosamente prima di aggiungere: «Eri l’ultima persona a meritarsi tutti quegli insulti. Mi dispiace davvero, Albus.»

   Di nuovo silenzio.

   Quando Albus replicò, la sua voce era poco più di un pigolio:

   «Pensi davvero che io sia viziato?»

   «No» Scorpius poggiò una mano sulla testa reclinata dell’amico, e gli parve di accarezzare un animale ferito. «Non sei egoista, non pretendi che tutto ti sia dovuto. Non sei viziato.»

   «Credi che per me importi solo il mio cognome?»

   «No. Anzi, penso che per te sia quasi un peso.»

   Albus deglutì: l’amico ci aveva azzeccato. Era davvero gravoso dover affrontare ogni giorno il fantasma della fama paterna.

   «Allora perché mi hai detto quelle cose?» uggiolò.

   Sentì l’amico fare un profondo respiro prima di compiere l’ammissione più sofferta di tutta la sua vita: «Pensavo che il tuo cognome ti avesse portato una vita molto tranquilla. Invece, essere un Malfoy vuol dire essere considerato colpevole fino a prova contraria; non è bello quando tutte le persone che incontri ti guardano come se volessi attentare in qualche modo alla loro vita. E credevo che per te… fosse stato tutto molto più semplice. Si può dire che fossi…» rigirò la coperta tra le dita della mano libera prima di confessare: «… invidioso.»

   «Non hai nulla da invidiarmi» replicò Albus. «Tu devi combattere contro la tua cattiva reputazione, ma ti assicuro che… non è facile difendersi da chi pretende che tu sia un eroe.»

   Scorpius accentuò le carezze sulla testa di Albus: mai come in quel momento il suo amico gli era sembrato fragile.

   «Combattiamo insieme» propose Albus, sempre a testa china, porgendogli la mano. «Contro la fama, buona o cattiva che sia. E portiamo onore a Slytherin

   Scorpius accettò la mano che gli veniva offerta. A parole, era quasi uguale dal giuramento che si erano fatti il primo giorno, ma il significato era molto diverso: allora dovevano solo difendere la loro Casa, ora si impegnavano a lavare via i pregiudizi legati al loro cognome, infami o eroici che fossero. Si erano promessi di vivere a testa fiera non solo per gli Slytherin, ma soprattutto per se stessi.

   «Non dirmi mai più quelle cose cattive» bisbigliò Albus. Anche se la fronte era ostinatamente abbassata, non era difficile capire che l’amico era sul punto di piangere: le lacrime gli rallentavano le parole, incastrandole nel groppo che gli stringeva la gola. «Mi hai fatto stare male.»

   La mano di Scorpius scivolò dalla sua testa alla spalla e da lì proseguì verso la schiena, per poterlo attirare a sé e abbracciare. Annuì tra i suoi capelli e garantì:

   «Non lo farò. Avevo paura che saresti morto, in quel bosco.»

   «Sarei morto, se non fosse arrivata Rose.»

   «E se non fossi arrivato io.»

   «Lei ti ha preceduto.»

   Scorpius lasciò cadere la discussione: Albus era più rilassato, e le lacrime stavano pian piano retrocedendo dalla sua ugola.

   «Tra poco tornerà Nott» gli ricordò Scorpius, sciogliendo l’abbraccio. «E’ meglio che torni nel tuo letto.»

   Albus parve raggomitolarsi su se stesso quando chiese in un bisbiglio pieno di vergogna: «Posso dormire qui stanotte?»

   Scorpius lo fissò senza capire, e Albus specificò, arrossendo per l’imbarazzo di mostrarsi così debole: «Tutto quello che è avvenuto nel bosco… non riuscirei ad addormentarmi se rimanessi da solo con in miei pensieri. Vedrei sempre la bestia e la sua…» non riuscì a pronunciare la parola “morte”: temeva che quelle poche lettere potessero evocargli di nuovo gli ululati tremendi del mostro.

   L’espressione dell’amico si aprì nella comprensione. Capiva perfettamente: anche lui era rimasto impressionato da quella scena, e sicuramente avrebbe rivissuto in sogno la loro epopea nella foresta. Ma sarebbe stato meno traumatico passarci di nuovo attraverso con una presenza affettuosa al fianco.

   Scorpius si distese, sollevando alle coperte per invitarlo ad entrare. Albus salterellò come un coniglietto fino a raggiungere il suo posto sotto le coltri, vicino al tepore di Scorpius.

   «Achill ci ha dato delle donnette solo perché eravamo abbracciati» lo punzecchiò l’amico, scompigliandogli la frangia corvina. «Cosa direbbe di tutto questo?»

   «Che siete nauseanti» rispose caustica una voce dalla porta.

   Albus si affacciò dalle coperte, e un seccatissimo Nott ricambiò il suo sguardo.

   «Tenetemi fuori dal vostro cerchio dell’amore, io me ne vado a letto» annunciò, dirigendosi spedito verso la sua branda.

   Albus notò i cerotti e le sottili fasciature sulle mani dell’amico: nonostante la sua pignoleria, doveva essersi ferito sul serio durante la sua avventura boschiva, altrimenti la loro dottoressa si sarebbe rifiutata di medicarlo.

   «Grazie, Macauley» sorrise Albus: si illuminò come una stella per la gratitudine e l’affetto verso il patologico compagno di stanza, e Nott non poté rimanerne del tutto indifferente.

   «La prossima volta cerca di non scappare così lontano» lo ammonì, privo della solita acredine.

   Albus si infilò nuovamente sotto le coperte, soddisfatto: era davvero felice che Macauley stesse bene. Anche perché sarebbe stato un tormento assisterlo mentre era ferito.

   Si acciambellò nel suo lato di materasso e, al termine delle manovre, augurò: «Buonanotte, Scorpius.»

   «Buonanotte» ricambiò l’altro. «Se fai un incubo, svegliami» gli ricordò.

   Quella notte, contro ogni sua previsione, Albus dormì sereno.

   L’affetto dei suoi amici esorcizzò i pensieri negativi, e la colossale stanchezza accumulata impedì a qualunque incubo di presentarsi, facendolo sprofondare in un sonno pesante e senza sogni, ma pacifico.

La notte trascorse tranquilla, dopo quella giornata infernale.

 

***

 

   Scorpius aveva ragione: Rose non si era fatta piegare dagli eventi del giorno prima.

Ne ebbe la prova la mattina seguente, quando si ritrovarono davanti all’entrata della Sala Principale per la colazione: la forza con cui lo strinse in un abbraccio gli incrinò una vertebra del collo.

   «Meno male che stai bene!» si rallegrò lei, sprimacciandogli le guance soffici.

   «Mi fai male» si lamentò lui, i lineamenti scomposti dalle strane coccole della consanguinea.

   «Come ti senti?» le domandò Scorpius, mantenendosi ad una distanza sufficiente a non invadere il quadretto domestico.

   «Bene» sillabò Rose; il suo tono non mascherò per nulla il risentimento che nutriva nei confronti del giovane Malfoy. La dichiarazione del suo stato di salute assomigliò di più ad una maledizione.

   «Ti fa male il fianco?» si preoccupò Albus, squadrando la felpa azzurra della cugina come per guardarci attraverso.

   «Mi hanno fatto un impacco di erbe taumaturgiche. Sto più che bene» garantì Rose, battendogli una pacca sulla spalla.

   «La bestia deve averti colpito forte» notò Scorpius.

   «Albus, puoi precederci in Sala Principale?» Rose praticamente lo costrinse a seguire il suo consiglio, facendolo girare di spalle e sospingendolo verso l’ingresso del salone. Albus ubbidì, timoroso di quello che la cugina avrebbe potuto dire a Scorpius.

   «Dovrei ringraziarti per aver salvato Albus» considerò a voce alta la ragazza, scostando dietro le spalle la coda ramata.

   «E’ stata colpa mia se è fuggito nel bosco» si svilì lui.

   «Almeno non sei ipocrita. Egoista e impulsivo, ma non ipocrita» fu la sprezzante stima di Rose.

Scorpius gonfiò i polmoni, pronto a subire un’offensiva mortale. Sapeva bene quanto Rose fosse protettiva nei confronti di Albus e, alla luce dei fatti, la giovane era pronta a sguainare l’artiglieria pesante con lui.

   «Non penso che tu sia propriamente cattivo. Sei pieno di difetti, ma non sei malvagio» soppesò acre Rose, incrociando le braccia e tamburellando le dita su un gomito.

   «Dovrei ringraziarti?» ipotizzò Scorpius.

   «No» lo represse lei. «Non apprezzo chi si nasconde dietro ad una maschera. Non mi interessa il motivo, e non lo voglio sapere. Ma, se vuoi che io mi fidi di te, dovrai scoprirti per quello che sei» strinse i gomiti nelle mani e proseguì: «Credo che, con tutti i mesi che hai trascorso ad Hogwarts, solo ieri tu sia stato sincero.»

   «E vorresti che io facessi scappare Albus nel bosco ogni giorno?»

   Lo sguardo adamantino di Rose ebbe la stessa carica assassina dell’Avada Kedavra.

   «Se ci provi di nuovo, ti faccio sparire dalla faccia della Terra» comunicò glaciale. «Penso che, se tu non ti sforzassi tanto di essere un idolo di beatitudine, eviteresti simili scenate. E saremmo tutti più tranquilli, specie mio cugino.»

   «L’hai mandato via per farmi la paternale?»

   «Le mie sono considerazioni personali. Dico solo che, se vuoi andare d’accordo con me, devi rivelarti per quello che sei. Non voglio fare amicizia solo con il carattere che tu decidi di mostrarmi: se dobbiamo avere un legame, voglio stringerlo con tutto Scorpius, non con una sua metà. Decidi tu» terminò con un’alzata di spalle, dirigendosi nella Sala Principale.

   Scorpius la imitò dopo essersi assicurato che la ragazza avesse preso posto alla sua Tavola.

   Le donne che leggevano erano davvero tremende.

 

***

 

   Scorpius sembrava integro, perlomeno.

Albus non sapeva mai cosa aspettarsi da Rose, quando le nuvole del cattivo umore si assiepavano attorno alle sue tempie. Quel temperamento forte e deciso lo aveva preso dalla zia Hermione, senza dubbio: con una classe ammirevole, era in grado di smontare il suo interlocutore brano a brano. E stava lentamente passando quella sua peculiarità alla figlia.

   Albus slittò lungo la panca per permettere a Scorpius di sedersi vicino a lui.

Nott si lamentò al massimo delle sue possibilità per ogni singolo graffio sulle dita, tormentando i suoi compagni per tutta la colazione. Albus sopportò con un sorriso ed immensa pazienza, ricordandosi come, il giorno prima, Macauley si fosse rotolato nel fango per aiutarlo: ascoltare le sue lagne era il minimo che potesse fare per contraccambiare. Scorpius non aveva il medesimo buon cuore, ma seppe annegare ogni commento inappropriato nella tazza di the che teneva tra le mani.

   La colazione trascorse tranquilla, tra il chiacchiericcio frizzante e i profumi mattutini. La sua conclusione, però, non fu quella di tutti i giorni.

   La Eeriemay si erse in tutta la sua sinuosa figura, sorprendendo gli studenti per il suo vestiario insolitamente castigato: la scollatura arrivava appena a sfiorare le clavicole, la gonna copriva le ginocchia magre, e i capelli erano raccolti in un severo chignon. Nonostante il trucco, vistoso e curato come sempre, quello fu l’unico giorno in cui la procace professoressa assomigliò un minimo alla zia Minerva.

   «Spero che abbiate consumato una buona colazione» augurò la voce argentina della Eeriemay. «Ma vi pregherei di non alzarvi, ancora: la vostra preside vorrebbe tenere un piccolo discorso.»

   Si riportò a sedere e, anziché accavallare le gambe come di consueto, si sistemò in una posizione contenuta, i tacchi insolitamente bassi paralleli e ben poggiati per terra.

La morigeratezza della responsabile di Slytherin instillò una punta di sano terrore negli allievi, accresciuta dalla serietà con cui la McGranitt si alzò dal suo seggio.

Gli occhi sciupati dall’età si indurirono dietro gli occhiali e la voce stessa della preside suonò ferrea e inflessibile nel silenzio che si era creato:

   «Sono fiera della divisione in Case degli studenti di Hogwarts, perché permette ad ognuno di voi di sviluppare le proprie capacità seguendo il proprio istinto. Ogni Casa ha questo preciso scopo: deve sottolineare le vostre peculiarità, le vostre inclinazioni. Ma l’appartenenza ad una Casa non deve dare adito a discriminazioni. Mai. Lo Smistamento deve donarvi l’orgoglio, e non la vergogna, di assomigliare ad uno dei grandi fondatori di questa scuola» le labbra della donna si strinsero e gli occhi si chiusero per un istante, come per recuperare la forza necessaria a proseguire: «Ho sempre creduto che gli studenti di Hogwarts fossero coscienti di questa realtà. E che i loro contrasti fossero dovuti a momentanee incomprensioni.»

La McGranitt strinse le mani ossute, prese fiato e continuò, sferzante come una frusta:

«Sono amareggiata e profondamente delusa. Un vostro compagno di Slytherin è stato oggetto di un atto di puro vandalismo. Non avrei mai pensato che qualcuno di voi potesse essere capace di tanto. Immagino che il colpevole non voglia rivendicare la paternità della sua opera.»

Lasciò che tra le tavole scorressero sguardi perplessi e indagatori, alla ricerca del delinquente, e che i sospetti passassero di bocca in bocca.

«Sapete, con la magia si possono fare cose incredibili. Avrete modo di scoprirlo durante la vostra formazione» li istruì la McGranitt, statuaria. «Ma vi rivelerò una legge fondamentale degli incanti: nulla compare senza la precisa volontà di un mago. Nemmeno ad Hogwarts» il resto del discorso fu pronunciato con un sarcasmo elegantissimo, degno di una nobildonna che schiaffeggia un plebeo con il guanto immacolato: «Riteniamo dunque che l’armadietto in questione non si sia ricoperto di calunnie da solo. Qualcuno ha programmato quell’affronto e l’ha portato a termine. E, chiunque lui sia, ha tutta la mia disapprovazione: ritenevo che i miei studenti, oltre al talento per la magia, possedessero un’ineffabile qualità chiamata “tolleranza”. Evidentemente, su uno o più di loro, mi sbagliavo. Mi auguro di cuore che simili episodi non debbano ripetersi mai più tra le mura di questa scuola. Hogwarts deve garantire una serena permanenza ai suoi studenti, a tutti i suoi studenti, senza distinzioni. Mi auguro che abbiate capito.»

   La McGranitt si adagiò di nuovo sul suo trono con dignità principesca, sotto lo sguardo sfavillante e soddisfatto della nipote.

Pian piano, con timore e reverenza, gli alunni sciamarono fuori dalla sala, domandandosi cosa fosse avvenuto e chi fosse il responsabile.

   Il terzetto degli Slytherin venne raggiunto da Rose, ma non fecero in tempo a scambiarsi una sola parola: la Eeriemay e la svampita professoressa Lovegood, impegnata a fissare chissà cosa nell’etere, si materializzarono al loro fianco.

   «Stai bene adesso, Rose?» si premurò Luna, gli occhi puntati una ventina di centimetri sopra la testa dell’allieva.

   «Sì, mi sono ristabilita completamente» assicurò Rose, sprizzando ammirazione per la sua responsabile.

   «Avete avuto molto coraggio» li elogiò la Eeriemay. «Davvero audaci. Anche troppo. Vi ricordo che è vietato inoltrarsi nella foresta da soli.»

   «Oltretutto, vi siete quasi fatti ammazzare» rimarcò deconcentrata la Lovegood.

   «Per cui dobbiamo mettervi in punizione, per domare la vostra caparbietà» sciorinò la Eeriemay, che non sembrava troppo dispiaciuta per la notizia che stava dando.

   «E’ stata colpa mia» proclamò Albus, alzando la mano. «Sono stato io a scappare nella foresta. Gli altri non c’entrano.»

   La Eeriemay sorrise quasi materna, racchiudendo con una mano il mento dolce del ragazzino.

   «Questo è molto carino, da parte tua. Ma inutile» la seconda parte fu proferita con singolare sadismo. «Dovete essere puniti.»

   Scorpius attese con aria rassegnata, Macauley incrociò le braccia seccato, Albus tormentò le dita per l’imbarazzo, e Rose mostrò stoicismo nel prepararsi al castigo.

   «Rose Weasley dovrà aiutare la professoressa Lovegood a sistemare i tomi della biblioteca. Vero, Luna? Luna, zuccherino?» la richiamò la Eeriemay sbattendo le ciglia annerite dal mascara: la responsabile di Ravenclaw si era di nuovo persa a fissare l’infinito multiverso attorno a lei.

   «Sì, proprio così» confermò la donna, avviandosi ondeggiando verso l’uscita della Sala.

   Rose si impegnò a mostrare contrizione, nonostante la sua anima stesse spargendo coriandoli di felicità: interi pomeriggi in biblioteca in compagnia della sua professoressa preferita. Davvero una punizione intollerabile!

   «Scorpius Malfoy e Albus Severus Potter dovranno aiutare il professor Achill Scholz nei suoi esperimenti» seguitò la Eeriemay.

   «Che genere di esperimenti?» si impensierì Scorpius.

   «Vi ha già fatto evocare un pesce contro un golem?» al cenno affermativo, la docente flautò: «Allora siete preparati a ciò che vi attende.»

   Albus scoccò uno sguardo impaurito da sotto la frangia corvina, e due occhi grigi risposero con la medesima preoccupazione. Scholz li avrebbe portati in prossimità della tomba, o ce li avrebbe direttamente scagliati dentro; dipendeva da quanto si sentisse permissivo il professore.

   «Macauley Nott, invece, dovrà aiutare la nostra dottoressa a pulire e disinfettare l’infermeria. È la persona più adatta, direi» lo lodò la Eeriemay, con un sorrisetto lezioso. «E ora potete andare.»

   La professoressa osservò i ragazzi che si allontanavano chi perplesso, chi festante, chi angosciato: si erano impegnati a fondo per trovare dei “castighi” che si confacessero alle loro preferenze. In fondo, avevano dimostrato una coesione di gruppo notevole per dei ragazzi del primo anno, e dovevano essere premiati, sebbene avessero infranto le regole.

   La sua momentanea serenità venne interrotta da Achill Scholz, che le si avvicinò con il volto incupito da pensieri plumbei. La cicatrice che sfregiava il viso dell’uomo si incartapecorì per l’espressione corrucciata.

   «Abbiamo risultati di analisi» comunicò, ombroso.

   La donna si voltò, arricciando le labbra con cordoglio.

   «Non hanno identificato bestia» ringhiò con voce metallica.

   «Come è possibile?» boccheggiò la Eeriemay.

   «E’ come se lui fosse bestia nuova, mai vista.»

   «Ma questo è impossibile!»

   «Ja» l’affermazione di Scholz cadde pesante come una pietra dalle labbra dure dell’uomo. «Per questo noi pensa che sia… nuova creazione magica.»

   Il ribrezzo sgranò gli occhi della donna.

   «Chi mai concepirebbe una simile… mostruosità?»

   «Forse creazione riuscita male. O magia segreta usata senza conoscere tabù o rituali. Comunque… c’è qualcosa di molto strano in quella bestia.»

   I tacchi della Eeriemay echeggiarono discreti mentre la donna si accostava ad una maestosa finestra.

   «Ne parlerò con mia zia. Probabilmente dovremmo rafforzare la sorveglianza. Senza che gli studenti se ne accorgano, per non diffondere il panico. Qualunque cosa ci sia là fuori, non deve sapere che noi siamo al corrente della sua esistenza.»

   «Lei o lui sa già» ragliò Achill, con fare militare. «Noi abbiamo ucciso sua creatura. Lui sa.»

   «Sa solo che un mostro si è introdotto nel nostro territorio, e noi ci siamo difesi» lo contraddisse la donna.

   «In guerra è meglio eccedere in prudenza» replicò Achill.

   «Non siamo in guerra.»

   «Lei è sicura che no, signorina Eeriemay?»

   Il tono aspro e marziale dell’uomo la mise in agitazione. No, non era sicura. Ma era passato così poco da quando Voldemort se ne era andato, e pensare ad un nuovo conflitto…

   «Prenderemo le misure necessarie, Achill. Ne parleremo stasera» decretò infine.

   L’uomo marciò spedito fuori dalla stanza, lasciandola sola con i suoi pensieri.

   Le unghie ben curate della donna sfregarono appena contro il vetro.

Avrebbe protetto quel posto con tutte le sue energie. Era la scuola cui sua zia aveva dedicato tutta la propria vita, e non avrebbe vanificato i suoi sforzi.

Tuttavia non poteva fare a meno di augurarsi che i loro timori fossero infondati, e che quella bestia fosse semplicemente un’anomalia naturale e non un artificio da laboratorio.

Sospirò, abbandonando a sua volta l’atrio.

Le nubi si addensarono sul soffitto della Sala Principale; il loro colore mortuario riempì la stanza, e il cupo eco dei tuoni risuonò come tamburi di guerra.

Sì, qualcosa era in arrivo.

Ma non quel giorno, né quell’anno.

Hogwarts sarebbe rimasta un’oasi di pace.

Per qualche tempo ancora.

 

***

 

   L’odore del the si spandeva in tutta la cucina, annidandosi nelle sezioni in legno delle pareti.

Il ragazzo contò le foglioline che galleggiavano nell’infuso ambrato: avrebbe divinato sulla loro posizione una volta finito il the.

   La porta scorrevole si aprì, ed un uomo argentato dalla vecchiaia si sedette a gambe incrociate sul tatami di fronte al piccolo.

   «Nonno» lo salutò il giovane. Sistemò la ciotola finemente decorata sul tavolino basso, poggiò le mani sulla stuoia e vi avvicinò la fronte in segno di rispetto.

   «Il Consiglio ha deciso, Haru» annunciò benevolo l’anziano, invitandolo con la mano a rialzarsi.

Il piccolo rialzò la schiena con impeccabile compostezza, poggiando le dita sulla stoffa del kimono che gli fasciava le gambe inginocchiate.

   «Tra due anni, quando avrai completato i tuoi studi, frequenterai una scuola occidentale. I dettagli della missione ti verranno forniti al prossimo Consiglio.»

   «Avrò l’onore di partecipare al Consiglio?»

   L’uomo annuì con il capo, solenne.

   «Avete già deciso quale sarà la mia meta?» domandò il giovane, con profonda umiltà.

   L’anziano lisciò la lunga barba canuta, fingendo raccoglimento.

   «Sì, Haru, abbiamo deciso. E’ una scuola inglese. Si chiama Hogwarts.»

 

 

 

E dal prossimo capitolo... quarto anno<3<3<3

Grazie a tutti<3

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Capitolo 5
*** Lo studente giapponese ***


Parte Due – Quarto Anno

1

Lo studente giapponese

 

 

   L’acqua nel bollitore borbottò allegramente, e Ginny spense il fornello prima che debordasse

   «La colazione è pronta» avvisò, attendendo in risposta il rombo degli affamati in corsa.

James fu il primo ad occupare il proprio posto, seguito a ruota dal padre e dalla sorellina, Lily Luna.

Ginny osservò il quadretto familiare mentre metteva in infusione le foglie di the nell’acqua bollente.

Le sembrava passato un solo giorno da quando aveva accompagnato l’undicenne James al binario nove e tre quarti. E ora, invece, si trovava a fissare un mago agitato per gli esami del quinto anno e una frizzante tredicenne che non vedeva l’ora di ricongiungersi con le amiche di Griffindor.

   «Non hai chiamato tuo fratello?» domandò a James, porgendogli il piatto con i toast caldi.

   «L’ho fatto, ma non ha risposto» replicò il maggiore con un’alzata di spalle.

   Una nuvoletta di esasperazione fuoriuscì dalla labbra di Ginny. Non dubitava dell’affetto che James nutriva per i fratellini minori; tuttavia, sarebbe stato gradito che lo dimostrasse non solo in circostanze estreme.

   «Vado a chiamarlo» sentenziò, avviandosi sulle scale a chiocciola che portavano al piano superiore dove dormivano i figli.

Bussò tre volte alla porta di Albus e, pur non ottenendo risposta, entrò.

Il ragazzo stava seduto sul letto, perfettamente pulito e vestito, e osservava una scatola di metallo con aria sognante.

   «La colazione è pronta» notificò Ginny. Albus guizzò sul letto come un animale spaventato da uno sparo, e gli occhi tornarono ad una dimensione normale solo dopo aver riconosciuto la madre.

   «Mamma, mi hai fatto paura» protestò, richiudendo di scatto la scatola.

  «Ho bussato» replicò lei. Si avvicinò al letto e si mise a sedere accanto al figlio. «C’è qualcosa che non va?»

   «Perché me lo chiedi?» si difese Albus, nascondendo il forziere di metallo dietro la schiena.

   «Non so cosa tu tenga in quella scatola, ma ogni volta che la tiri fuori sei turbato, in qualche modo» picchiettò affettuosamente il naso del figlio quando questo la guardò come se si chiedesse quale stregoneria avesse utilizzato. «Una madre sa queste cose, anche senza la magia.»

   Albus camuffò comunque il contenitore metallizzato prima di borbottare:

   «Non so bene come prendere questa storia dello scambio culturale.»

   Ginny annuì, e attese che il figlio proseguisse. Alla fine del terzo anno, la McGranitt aveva annunciato agli studenti che, all’inizio del semestre seguente, Hogwarts avrebbe ospitato il primo progetto interculturale tra le varie correnti magiche. I nominativi degli studenti esteri che avrebbero popolato la scuola non erano ancora stati divulgati, ma si vociferava che tra di essi figurassero i figli del noto Victor Krum e un ragazzo proveniente addirittura dal Giappone.

   «E poi… quest’anno sono stato promosso a Cercatore, quindi Bartold Scholz pretenderà moltissimo…» continuò, girando le dita per il nervosismo.

   Ginny sorrise compiaciuta. Albus non aveva avuto un percorso sfavillante nel Quidditch come il padre, ma si era comunque distinto: era stato arruolato al secondo anno, e aveva partecipato come Giocatore fino al terzo, quando era giunta la notizia della sua promozione. Scorpius, il precedente Cercatore, aveva chiesto di diventare Battitore, ed era stato prontamente accontentato. L’altro suo amico, Nott, si era rifiutato di avere un qualunque ruolo nella squadra: troppi germi e troppa sporcizia.

«Hai paura di non essere all’altezza delle aspettative?» chiese gentilmente Ginny, sporgendosi per accarezzargli la testa: adorava passargli le mani nei capelli da quando aveva deciso di lasciarli crescere un pochino di più rispetto al solito. Le punte più lunghe arrivavano a sfiorargli il collo, e tutto il resto della capigliatura era scalato sulla nuca: Ginny si divertiva un mondo a scompigliargli i ciuffi più corti e lisciargli quelli più lunghi.

   «No, è che… mi sembrano troppe cose tutte insieme» bofonchiò, sottraendosi alle coccole materne: se permetteva a sua madre di gingillarsi troppo con i suoi capelli, si sarebbe ritrovato ad assomigliare ad un porcospino.

   «Allora cerca di affrontarle una alla volta. Oppure fatti aiutare dai tuoi amici» lo consigliò la donna, vendicandosi per l’interruzione delle moine con un abbraccio a tradimento. «Da Rose, da Macauley. E da Scorpius.»

Ginny represse a stento una risata: era stata una vera festa quando le famiglie Potter, Malfoy e Weasley si erano ritrovate per la prima volta sotto lo stesso tetto per scambiarsi gli auguri di Natale, due anni prima. James si era chiuso in un mutismo pressoché totale, Scorpius, Albus e Rose avevano chiacchierato tranquillamente, raggiunti da Lily, troppo piccola per percepire la tensione circostante. Le donne di casa si erano sedute ad un tavolo per discutere degli argomenti più disparati, mentre gli uomini avevano preso posto sul divano, scambiandosi convenevoli più o meno minacciosi.

Le famiglie erano uscite indenni da quell’esperienza e da tutti i ritrovi successivi per le varie festività e per le vacanze estive: gli ostacoli maggiori si trovavano sul fronte maschile adulto, nonostante tutti quanti avessero la maturità necessaria ad essere perlomeno civili. Le donne si erano presto ritrovate a fare salotto con serenità, e i ragazzi non avevano avuto grossi problemi a fraternizzare: perfino James, dopo molte resistenze, aveva concesso l’onore di risposte monosillabiche agli altri allievi di Hogwarts.

Era quasi ironico che il figlio di Malfoy fosse diventato il miglior amico del suo Albus. Forse era vero che, da qualche parte, esisteva una sorta di karma.

   «Non sei solo, Albus. E se Rose sapesse che ti stai mettendo tanti problemi, ti colpirebbe con un quaderno» lo mise in guardia Ginny.

Albus si lasciò sfuggire il gorgoglio di un ghigno. Sua madre era troppo legata all’immagine della Rose infante, piccola e indifesa: la cugina lo avrebbe seppellito con l’enciclopedia, se avesse saputo quali dubbi lo agitavano.

   «Grazie, mamma. Dammi un minuto e scendo per la colazione» la congedò Albus, sciogliendo l’abbraccio.

Ginny gli scoccò uno sguardo colmo di affetto, prima di alzarsi dal letto e uscire dalla stanza. Così il figlio poté estrarre nuovamente la scatola di metallo e accarezzarla con gli occhi.

Dunque sua madre aveva notato il suo forziere dei tesori. Ma non lo aveva aperto. E non avrebbe dovuto farlo mai.

Non avrebbe proprio saputo come spiegarle la quantità industriale di pezzetti di confezioni di Torte della Strega presenti lì dentro, tutte legate a ricordi con Scorpius, o l’involucro del Cioccorno, il primo dolce che avesse mangiato con quello che sarebbe diventato il suo migliore amico. O la cartina dei cioccolatini babbani che Scorpius gli aveva passato nelle serate in cui si intrufolava nel suo letto per chiacchierare dopo lo spegnimento delle luci.

Inarcò un sopracciglio, perplesso e accigliato. Possibile che tutti i suoi tesori fossero collegati a Scorpius e al cibo?

Nascose di nuovo il forziere nel comodino. Quell’anno si sarebbe impegnato a collezionarne altri per variare un pochino la sua raccolta.

Stirò i muscoli delle braccia e si osservò allo specchio. Un quattordicenne spettinato ricambiò la sua occhiata; la frangia si era allungata troppo, e quasi copriva il verde degli occhi. Soffiò su un ciuffo corvino per sollevarlo: avrebbe chiesto a sua madre di sfoltirla un po’. Con tutta la pratica che aveva fatto sforbiciando i capelli dei numerosi fratelli quando ancora non era sposata, Ginny Weasley era ormai una parrucchiera provetta.

Da quando era entrato nella squadra di Quidditch, il suo fisico si era vagamente irrobustito: le braccia non sembravano più due ramoscelli secchi e il torace si era distanziato dalle dimensioni di un tronchetto smilzo. Era comunque visibile la natura ineluttabilmente snella della sua muscolatura, ben diversa da quella più scolpita di Scorpius; il suo fisico erbaceo non sarebbe mai diventato roccioso.

Scompigliò ulteriormente i capelli nel goffo tentativo di pettinarli.

Con sua grande soddisfazione, era cresciuto in altezza: era sicuro che, entro i sedici anni, James avrebbe smesso di canzonarlo per la sua statura gnomica.

Sistemò meglio l’ampia camicia che portava aperta sulla maglia a maniche lunghe, e strinse di un buco la cintura dei jeans, che minacciavano di raggiungere le caviglie.

   Uscì dalla stanza e raggiunse in fretta la famiglia riunita al tavolo.

   Avrebbe aspettato di raggiungere il treno per parlare agli altri delle sue preoccupazioni.

Per il momento, voleva pensare solo al the caldo e ai biscotti che lo aspettavano.

 

***

 

   «Tua madre vuole ucciderti, ammettilo.»

   «Cosa te lo fa pensare?»

   «Il fatto che ogni anno cerchi di spezzarti la schiena con dei bauli alti il doppio di te e pesanti il quadruplo.»

   Albus scostò un ciuffo di frangia carbone per scoccare un’occhiata in tralice a Macauley.

   «Zia Ginny esprime il suo amore riempiendolo di cianfrusaglie indispensabili» lo corresse Rose, sbucando a lato della mastodontica valigia.

   «E zia Hermione?» controbatté Albus, fissando il pratico trolley della cugina.

   «Mia mamma possiede una ferrea razionalità che filtra l’affetto» si vantò lei, gonfiando il petto sotto la maglia.

   «Vuoi dire che mia madre non è razionale?» sbuffò. Per un attimo pensò di risolvere il problema del bagaglio spingendolo a spallate, ma preferì ricominciare a trainarlo per il manico: non voleva che gli studenti del primo anno lo scambiassero per un incrocio tra un umano e un minotauro.

   La porta dello scompartimento si aprì, e ne emerse Scorpius, che li aveva preceduti per cercare una cabina libera.

   «Ho trovato quattro posti» annunciò, non del tutto certo di aver riportato una vittoria.

   «E qual è il problema?» chiese Rose, cui non sfuggì la nota di incertezza in sottofondo.

   «Non saremo soli» li avvertì Scorpius, afferrando il secondo manico del baule malefico. «C’è lo studente giapponese.»

   Albus e Rose accettarono tranquillamente la novità; Nott, da regina melodrammatica qual era, roteò gli occhi al cielo e si lamentò vistosamente:

   «In Asia ci sono fin troppe malattie che la nostra medicina non può curare.»

   «Davvero?» si sorprese Abus.

   «No che non è vero!» replicò Rose, in coda al corteo.

   «Dovresti avere imparato a non dare ascolto a Macauley. Secondo lui, potrebbe ucciderti anche un pomello della porta mal lucidato» aggiunse Scorpius, indicando lo scompartimento poco più avanti.

   «Potrebbe, se prima di te l’ha toccata un Troll Pestilenziale» s’impermalì Nott, innalzando la mascherina a scudo. Aveva evitato di indossarla per tutta l’estate, fomentando la speranza che le sue manie stessero pian piano scemando; ma, finché nel mondo avessero proliferato i germi, Macauley Nott avrebbe innalzato i suoi scudi ipoallergenici. «Ballerò a debita distanza dai vostri cadaveri sconquassati dalla Febbre del Drago Giallo» profetizzò, catastrofico.

La cura con cui Macauley si schierava contro i batteri perfino nel parlare era ossessiva: bastava citare la sua rivisitazione del vecchio “ballerò sui vostri cadaveri” per averne conferma.

   «Esiste una malattia simile?» bisbigliò Albus.

   «Se esiste, non penso che sarà il ragazzo giapponese ad attaccartela» lo rassicurò Scorpius, aprendo lo sportello. Il baule di Albus decise di giocare uno scherzo malevolo al gruppo, e si incastrò con tutta la sua prepotente mole nel bel mezzo della porta, per cui il quartetto fu costretto ad uno strano percorso militare per entrare nell’abitacolo: Scorpius fu il primo ad allungarsi per superare il baule, e aiutò Albus a fare lo stesso, sostenendolo per le braccia mentre il traballante amico superava l’ostacolo. Furono entrambi costretti ad aiutare Nott, il quale aveva la pretesa di scavalcare il bagaglio senza toccare nulla del mondo circostante; Rose oltrepassò la valigia con un’eleganza vagamente derisoria nei confronti dei goffi approcci dei suoi tre compagni, ancora impegnati a disincastrare Nott dal pasticcio in cui si era infilato.

   Albus riuscì a riemergere dagli scarlatti abissi dell’imbarazzo solo dopo lunghi secondi di contemplazione del pavimento: il nuovo arrivato doveva averli scambiati per un gruppo di trafelati scriteriati con impedimenti motori.

   «Posso aiutarvi?»

   La proposta non era colorita di derisione, e nemmeno opacizzata dalla pietà, per questo lo sorprese al punto da non riuscire a rispondere subito. Chiunque, nell’assistere al teatrino di prima, sarebbe scoppiato a ridere a crepapelle o avrebbe commiserato la scarsa destrezza di Nott. Mise un foglietto di carta per segnare la pagina, chiuse il libro che stava leggendo e guardò nella loro direzione: queste furono le reazioni del nuovo studente, tutte compiute con una dignità e compostezza inconsuete in un ragazzo di quattordici anni.

   Il giovane non vacillò minimamente sotto lo sguardo di Albus, e si lasciò studiare con condiscendenza.

Quel ragazzo era l’incarnazione della guerra tra la cultura orientale e occidentale: i capelli ebano scendevano in una lunga coda tra le scapole e in una frangetta scalata sulla fronte liscia. Lo stesso colore intenso subissava le iridi riservate, protette dai sobri occhiali rettangolari. L’incarnato era una fusione tra il colorito giapponese e il tipico pallore inglese, una tinta particolare come i lineamenti che colorava: gli zigomi paffuti delle terre asiatiche dimagrivano in una guancia quasi ovale, che si concludeva con un mento morbido e un pallido sorriso di circostanza, né troppo sfacciato né troppo disinteressato.

I jeans e le scarpe da ginnastica erano uguali a quelle indossate da qualunque studente di Hogwarts, ma la maglia sovrastante lo faceva spiccare come un rubino in mezzo alla neve: era una reinvenzione del tradizionale kimono, e compensava l’esoticità lacunosa delle sue fattezze miste. A giudicare dalla lucentezza del tessuto, le maniche ampie e lo scollo sovrapposto dovevano essere stati realizzati con una seta porpora; i lembi incrociati della maglia erano tenuti fermi da una sottile cintura di stoffa nera, e i grossi grani di un braccialetto scuro deformavano il bordo della manica destra.

   «Mi sono espresso male?» domandò. Il giovane possedeva chiaramente una solida base grammaticale, vista la scioltezza con cui parlava un idioma straniero, nonostante la sua pronuncia ancora impastata di oriente. Per gli Scholz sarebbe stato un duro colpo vedere un simile ragazzino parlare l’inglese con una dizione migliore della loro.

   «Se riesci a smuovere quel brontosauro…» salmodiò Nott, indicando la voluminosa valigia. «… te ne saremo eternamente grati.»  

Il libro venne quietamente appoggiato sul sedile, e il giovane fluì verso di loro. Fu quella l’impressione che diedero i suoi movimenti, più simili a quelli di un fiume che a quelli di un essere umano per scioltezza. 

   Il ragazzo si chinò ad afferrare uno dei due manici. Macauley pensò che il peso esagerato del baule avrebbe staccato con ferocia quel braccino minuto che tentava di sollevarlo: invece l’asiatico e Scorpius riuscirono a rimorchiare la valigia all’interno dello scompartimento e a richiudere la porta.

   «Grazie» trillò Albus, aggirando il mastodonte per potersi sedere.

Il ragazzo si schermì con un velocissimo cenno del capo, riprese posto e si isolò nuovamente dietro il libro.

Seguirono alcuni secondi di silenzio indigesto, mentre tutti si chiedevano, chi con disagio e chi con irritazione, se fosse meglio lasciare il giapponese nel suo isolazionismo o se fosse preferibile un approccio diplomatico.

   Rose, che era capitata a sedere vicino al nuovo arrivato poiché i maschi avevano occupato in una frazione di secondo le poltroncine sul lato opposto, gettò un’occhiata agli strani caratteri che il giovane leggeva con aria assorta.

   «Sono ideogrammi, vero?» arrischiò una domanda retorica, per rompere il ghiaccio.

   «Kanji» telegrafò l’altro, calamitato dal racconto.

   «Come?»

   La seconda domanda riuscì a scollare occhi e occhiali del ragazzo dal volume.

   «Non sono ideogrammi generici. Sono kanji» spiegò il giovane, pacificamente vanesio. «Kanji, hiragana e katakana, per essere precisi.»

   «Non sono comunque ideogrammi?» ribatté Rose, che non gradiva essere ripresa.

Una folata di denigrazione spirò sotto l’inappuntabile compostezza, impercettibile come l’onda del mare sotto uno strato di ghiaccio.

   «I caratteri giapponesi si chiamano kanji, quelli cinesi hanzu» espose il giovane. «Ideogramma è un termine troppo generico. Potrebbe comprendere questi e mille altri alfabeti, come quello degli antichi egizi.»

   «Quelli erano geroglifici» lo sfidò lei.  

   «Che rientrano comunque nella categoria» e, prima che la ragazza potesse aggiungere altro, il giapponese la bruciò: «Con ideogramma si intende un segno grafico, o significante, che corrisponde ad un concetto, o significato: quindi, anche i geroglifici egiziani posso rientrare in questo insieme. Perfino i pittogrammi sumeri» il ragazzo riaprì il libro, molesto e tranquillo: «E nessuna di queste lingue assomiglia all’altra.»

   «Credevo che cinese e giapponese fossero la stessa cosa» meditò tra sé Nott. A voce non sufficientemente bassa da non essere udito dalle orecchie del giovane.

   «Sono due lingue completamente differenti» garantì il ragazzo, con il risentimento coagulato di chi ha fatto lo stesso sermone mille volte.

   «Ma hanno lo stesso alfabeto, no?»

   Il libro si chiuse con un colpo secco a quell’ennesima semplificazione così tipicamente colonialista.

   «L’inglese, l’italiano e il tedesco hanno lo stesso alfabeto. Pensi che bastino le stesse lettere per rendere uguali le lingue?»

   «No…»

   «Ti sei risposto da solo» concluse il ragazzo, aprendo per l’ennesima volta il tomo.

   «Cosa stai leggendo?» soccorse Albus, per tamponare il nervosismo sanguinante dalla cugina e dall’amico.

   Gli occhi scuri lo scrutarono da dietro le lenti, e solo dopo qualche istante le labbra si mossero per proferire:

   «Una raccolta di racconti tradizionali.»

   «Quello che stai leggendo ora di cosa parla?» continuò Albus, con la disperazione di un medico che pratica il massaggio cardiaco.

   «E’ la favola della gru» decise di rispondere il giovane, dopo essersi concesso il solito secondo di meditazione. «Una storia d’amore tra un ragazzo povero e una gru innamorata di lui.»

   «Finisce bene?» lo tampinò il minore dei Potter.

   «Lei lo aiuta a diventare ricco, ma lui infrange la promessa che si erano scambiati, e lei è costretta ad abbandonarlo» sintetizzò l’asiatico.

   «Che allegria. In Giappone vi ammazzate di risate» commentò caustico Nott, ancora offeso per l’attacco di prima.

   «Credo che Shakespeare sia nato in Inghilterra, giusto?» si difese con falsa modestia il ragazzo. «Le sue opere più famose sono tutte tragedie tra le più rovinose. Anche in Inghilterra vi date alla pazza gioia, presumo.»

   «Come ti chiami?» Albus si sbracciò davanti a Nott, che era pronto a partire con una coloritissima invettiva, a costo di diventare paonazzo e abbassare le sue difese immunitarie per quello.

   «Non mi sono ancora presentato?» si stupì il giovane. Il libro venne nuovamente messo da parte. «Perdonate la scortesia.»

Nott rimbrottò qualcosa di molto insolente a denti stretti, che venne arrestato in uno sbuffo quando Albus gli assestò una gomitata tra le costole.

   «Venduto al nemico» sibilò indispettito Macauley, sollevando la mascherina per disprezzo.

   «Oda Harunobu Kurisumasu» annunciò il giovane.

   «Haru-cosa?»

   «Kuri-cosa?» esclamarono all’unisono Scorpius e Albus.

   «Potete chiamarmi per cognome. Oda» semplificò il giapponese.

   «Io credo che ti chiamerò per nome. Harunobu» s’incaponì Rose.

   «Se vuoi chiamarmi per nome, preferisco Haru» le consigliò l’asiatico. Alla ragazza non sfuggì l’istantaneo tremito del sopracciglio del giovane nel sentir pronunciare il suo nome completo. Dunque non gli piaceva che gli altri lo chiamassero in quel modo.

   «Non mi convincerai, Harunobu» ribadì Rose, assaporando la vendetta nel vedere il sopracciglio sinistro scattare di nuovo.

   «Posso sapere il tuo nome?» chiese Haru, piazzando con forza gli occhiali sulla radice del naso.

   «Rose Weasley» comunicò la ragazza.

   «D’accordo Weasley-san…» Haru fece per passare agli altri, ma lei lo stoppò.

   «Mi chiamo Rose» rimarcò.

   «Ti chiami Rose Weasley, Weasley-san» si giustificò Haru, l’eco di un sorrisetto beffardo che evaporava sulle labbra.

Rose segnò mentalmente quel tipo nell’elenco dei suoi rivali.

Era un onore essere segnati sulla lista nera della ragazza, poiché davvero poche persone sul globo potevano garantirle una soddisfacente gara di cervelli. C’era stata la statua a forma di aquila che poneva i suoi indovinelli ai ragazzi di Ravenclaw. Ogni volta l’enigma cambiava, e i poveri studenti passavano interi minuti a lambiccarsi il cervello per entrare nel dormitorio: l’aquila di granito non permetteva il passaggio finché non si trovava la soluzione al suo quesito. Rose, per la mole industriale di libri che leggeva e per la sua innata intuizione, scioglieva i dilemmi in tempi assurdamente brevi tanto che la statua, ormai, la faceva passare senza nemmeno interrogarla. E così era stata depennata dalla lista dei rivali.

Ma Harunobu sembrava più tenace, più preparato e più subdolo. Per quanto si atteggiasse a bravo ragazzo, era chiaro che nascondeva qualcosa, proprio come Scorpius al primo anno. Era certa che, durante la loro permanenza ad Hogwarts, quelle non sarebbero state le uniche schermaglie. E non aveva intenzione di perdere.

   «Macauley Nott» ringhiò il ragazzo da dietro la mascherina.

   «Sei raffreddato?» domandò Haru.

   «No» sbottò Nott.

   Il giapponese alzò di nuovo il sopracciglio sinistro, ma non si espresse ulteriormente. Una ragazzina polemica con un incendio nei capelli e un tizio con la mascherina saldata al viso. E gli altri due sarebbero sembrati normali, se non li avesse visti sbuffare su una valigia più grande di loro.  Curioso paese, l’Inghilterra.

   «Piacere di conoscerti, Nott-san.»

   «Macauley» sillabò inviperito il giovane.

   «Non credo che riuscirei a chiamarti per nome, Nott-san. Va contro la mia educazione» si dispiacque Haru.

   «Allora non aspettarti risposta» starnazzò Macauley, schivando la seconda gomitata di Albus.

   Le seguenti presentazioni furono serene, senza scontri o risposte sferzanti.

   «Come mai sei venuto a Hogwarts?» chiese Rose. Fortunatamente, la ragazza era abbastanza matura da mettere da parte il malumore in nome del quieto vivere. Al contrario di Nott, fumante dietro la mascherina.

   «Sono stato invitato per lo scambio culturale» minimizzò Haru, tentando di riprendere in mano il tomo che stava leggendo.

   «Strano» Rose sollevò il mento esattamente come faceva zia Hermione un secondo prima di scagliare l’arringa finale in tribunale. «La professoressa Lovegood, l’anno scorso, mi aveva detto che uno studente sarebbe arrivato grazie ad una prestigiosa borsa di studio, che gli avrebbe permesso di rimanere oltre i tempi dello scambio.»

Gli occhi di Haru erano scuri come una notte senza stelle; eppure, per un attimo, nelle sue iridi Albus intravide lo scintillio del ghiaccio mentre si voltava in direzione della cugina.

   «Non è detto che questo studente sia io» insinuò il giapponese.

   «So che gli esami per quella borsa di studio sono durissimi. Ma tu sembri abbastanza istruito per farcela» il tono di Rose fu talmente duro che nessuno avrebbe potuto prendere quelle parole per un complimento. Tuttavia, l’asiatico sfoderò una classe impeccabile nel rispondere:

   «Ti ringrazio per la fiducia, Weasley-san.»

   «Non è fiducia. Solo una constatazione.»

   «Sono certo che i professori di Hogwarts sapranno spiegarvi la situazione meglio di me» asserì Haru.

   «Per fortuna siamo quasi arrivati» sbuffò Nott, imbufalito. «Il tempo vola quando ci si diverte.»

   Haru si ritirò di nuovo dietro le pagine del volume e, questa volta, nessuno cercò di dissuaderlo.

Le uniche parole che strisciarono fuori dalle labbra del giapponese, poco prima che il treno si arrestasse, furono:

   «Sarà divertente la vita ad Hufflepuff

 

***

 

   «Quel tipo non mi piace.»

   «Lo dicevi anche di Scorpius.»

   «Questo tipo mi piace ancora di meno.»

   Daiyu Lee annuì benevola, ascoltando le lamentele di Rose.

   «Voglio dire, è inquietante. Come poteva sapere di essere assegnato ad Hufflepuff?» s’impuntò la giovane.

   «Magari conosceva le caratteristiche della Casa e ha tratto la conclusione più logica…»

   «Quel tipo e le caratteristiche di Hufflepuff sono diversi come una Viverna e una Puffola Pigmea» la smontò Rose.

   «Magari ha avuto fortuna» tentò nuovamente Daiyu.

   «Si tratta di un chiaro caso di premeditazione. Anche se non capisco come abbia fatto» rimuginò l’altra.

   «Forse la stai prendendo un po’ troppo male…» cercò di calmarla la ragazza cinese.

   «Quando è andato verso la tavolata degli Hufflepuff mi ha detto: “come previsto, Weasley-san”» si arrabbiò Rose. «Odio quel nomignolo.»

   «E’ solo una forma di cortesia» sdrammatizzò la compagna.

   «Detta da lui, sembra sarcasmo.»

Daiyu desistette dall’intento di farle cambiare idea: Rose era una ragazza brillante, intelligente e accorta, ma quando si arrabbiava diventava più ostile e testarda di un mulo.

Lasciò quindi che l’amica sbollisse la rabbia sulla zuppa servita a cena, e cercò di godersi la prima serata a Hogwarts.

Avrebbero apprezzato molto di più quella serenità se avessero previsto l’arrivo ormai prossimo della tempesta.

Ma nessuno lo fece, e risate e allegria continuarono a divampare nella scoppiettante Sala Comune.

 

***

 

   «E’ quello, zia Minnie?»

   «E’ lui. E sai quanto aborro quel soprannome.»

   La Eeriemay non prestò attenzione al rimprovero della preside, e si concentrò sulla filiforme figuretta asiatica che sedeva al tavolo degli Hufflepuff.

   «Non sembra il genio che dicono» commentò, conscia di essere villana.

   «Le apparenze ingannano» la redarguì la McGranitt. «La voce non deve trapelare tra gli studenti. Rivolgetevi a lui come se fosse un normale alunno.»

   «E lui accetterà di recitare la parte del “normale alunno”?» contestò la Eeriemay, fissando la schiena del ragazzo sempre meno convinta. «Quando uno è un genio e sa di esserlo, di solito ha anche un ego smisurato.»

   «Non questo ragazzo. Anche se può dare quell’impressione, a prima vista» la McGranitt gustò un lungo sorso dal suo calice e terminò: «Più che vanità, le sue conoscenze gli sfuggono di bocca, e per questo può apparire superbo.»

   «Non mi piace molto» lamentò la Eeriemay.

   «Ti abituerai, Rebecca. Chiedi aiuto agli Scholz, se il ragazzo ti crea problemi.»

   La giovane donna annuì, continuando a fissare il giapponese.

No, quell’anno non sarebbe stato tranquillo.

Ma non vi era necessità che gli studenti lo sapessero.

 

***

 

   Albus mugolò come un cerbiatto ferito, massaggiandosi la fascia lombare.

Ogni anno, ogni trecentosessantacinque giorni la sua schiena veniva regolarmente spezzata dal peso della sua valigia. A costo di sembrare pazzo, l’indomani mattina sarebbe andato dal professore di Incantesimi per sapere se esistesse una magia in grado di annullare il peso degli oggetti.

Qualcosa di appuntito lo colpì direttamente sulla nuca, ed il ragazzo esacerbò un gridolino risentito.

   «Pomata» notificò Macauley, già arroccato al sicuro al secondo piano del letto a castello. «Se domani non vuoi svegliarti con la rigidità di un manico di scopa, ti consiglio di spalmartela.»

Albus mormorò un ringraziamento, non troppo sentito perché il lancio micidiale di Nott gli era costato un bernoccolo.

I cattivi pensieri nei confronti dell’amico si eclissarono non appena il medicinale venne a contatto con la sua spina dorsale infiammata: disciplina farmaceutica e magica avevano trovato una perfetta fusione in quella mistura. In pochi secondi, perfino il ricordo del precedente irrigidimento scomparve. Chissà cosa avrebbero detto i Babbani se avessero saputo che i maghi del settore medico utilizzavano le loro conoscenze per curare reumatismi ed ecchimosi, e non per sconfiggere draghi in duelli mozzafiato.

Sarebbero rimasti delusi, probabilmente.

Restituì il tubetto con un lancio a spiovente, abbastanza alto da evitare un disastroso impatto con la faccia di Nott, secondo i calcoli di Albus. Non fu così: un angolo metallico ferì Macauley sul naso, poco sopra la punta.

Nei pochi secondi che occorsero al minore dei Potter per accorgersi del danno arrecato e chiedere scusa, Macauley si armò di disinfettante e acqua ossigenata, e procedette allo sterminio dei batteri.

   «La prossima volta ti lascerò morire nell’inferno dell’acido lattico, Severus» ringhiò l’oltremodo irritata schiena di Nott.

Albus si sentì vagamente rincuorato: lo aveva chiamato solo con il secondo nome, non con il nome completo. L’odio di Macauley sarebbe stato spazzato via dal levar del sole.

Albus spense la luce e si stese sul letto, ma non chiuse gli occhi: sapeva che, di lì a poco, sarebbe giunto il segnale.

Ed infatti, qualche minuto più tardi, il ticchettio di un’unghia contro la sponda di metallo lo invitò a salire.

Sgusciò fuori dalle coperte e si arrampicò veloce al piano superiore, disinvolto nei movimenti come l’abitudine gli aveva insegnato ad essere. Scorpius aveva già alzato le coperte, e Albus si infilò sotto di esse come in una tana.

Gli occhi grigi del giovane scintillarono complici mente una mano si inabissava sotto il cuscino per rivelare il tesoro celato lì sotto.

   «Quest’anno papà mi ha permesso di entrare da solo» disse, per spiegare la scatola leggermente più grossa delle precedenti.

   «Sei proprio onesto» si complimentò Albus mentre l’amico apriva il coperchio scarlatto. «Chiunque altro avrebbe comprato una scatola grande almeno il doppio.»

   «Tu avresti comprato una scatola grande esattamente come quelle degli anni passati. Sei ancora più onesto di me» lo prese in giro Scorpius, porgendogli la confezione.

I due amici la alleggerirono festosamente di due cioccolatini. Le braccia di Albus grondarono sul cuscino: il giovane sembrava disossarsi quando si perdeva nell’estasi del cacao. Da quando aveva detto di preferire il fondente, due anni prima, nei forzieri annuali di Scorpius non erano mai venuti a mancare i bocconcini amari che tanto lo deliziavano.

   «Hai la faccia da oppio, quando mangi il cioccolato» notò l’altro, sorridendo dell’innocenza dell’amico.

Albus batté le palpebre annebbiate, disorientato.

   «La cosa?» masticò, impastando parole e residui di cacao.

   «Faccia da oppio» ripeté Scorpius. Richiuse il bottino e lo nascose nuovamente: lo avrebbero consumato con calma nelle sere a seguire. «E’ l’espressione che fanno i neonati dopo aver mangiato.»

   «Da quando ti sei specializzato in lattanti?» Albus si rigirò sulla schiena, intrecciando le mani sullo stomaco appagato e fissando l’amico.

   «Da quando mia madre ha saputo di aspettare un altro bambino» sospirò Scorpius. Quell’estate la madre aveva scoperto di essere incinta e alla notizia era seguito un pomeriggio di festeggiamenti dei tre Serpeverde più uno, come amavano definirsi per irritare Rose: i quattro si erano riuniti nel giardino di casa Potter, e avevano celebrato la novità con una sgangherata partita a Quidditch. «Legge libri su libri su come prendersi cura dei poppanti. E dire che dovrebbe essersi già allenata con me» considerò con un sogghigno, puntando il gomito sul cuscino. «Ti sembra che una cosa del genere si addica a mia madre?» Scorpius scrollò la testa. «Gli ormoni sono spaventosi.»

Albus commentò facendo sfrecciare gli occhi altrove. Preferiva non infierire confermando la stranezza della signora Malfoy: l’aveva conosciuta come una donna raffinata ed elegantemente distaccata dalle preoccupazioni mortali. Era una delle rare persone che riusciva ad essere quasi aristocratica evitando il peso della boria. Non riusciva proprio ad immaginarsi quella signora eterea sprofondata su una poltrona a divorare manuali per le puerpere.

   «Ma se li legge e basta…»

   «Li ripete» lo freddò Scorpius, la voce tremolante di un sospiro trattenuto. «Spesso

   I polpastrelli di Albus tamburellarono tra di loro, indecisi. «E ha bisogno di un pubblico per ripeterli?»

   «Insiste per spiegarmi le gioie della maternità» si dolse Scorpius. «Suppongo che prima il suo bersaglio preferito fosse mio padre.»

   «Davvero?» si stupì Albus. Aveva difficoltà ad immaginare Lady Malfoy perdersi nella lettura di tomi didattici, ma l’idea che Draco Malfoy subisse passivamente una mitragliata di nozioni materne era quantomeno surreale.

   «Lui non me l’ha confermato» ammise Scorpius. «Ma quando gli ho chiesto di sostituirmi nell’ascoltare la mamma, mi ha guardato. Ed era un’occhiata molto esplicativa.»

Albus annuì, comprensivo. L’amore di Malfoy per la sua famiglia doveva essere davvero smisurato per permettergli di superare prove così ardue.

   Un sorrisetto zampillò sulle labbra di Scorpius.

   «Sei proprio un bambino in tutto, quando mangi. Ti sei sporcato» notò, puntando il labbro inferiore.

   «Dove?» domandò Albus, sfregandosi la bocca con il dorso della mano.

   «No, più a destra… no, così è troppo… un po’ meno…» Scorpius si stancò presto di recitare la parte del navigatore in corto circuito. «Non muoverti» ordinò, fermo ma amichevole.

Sul letto piovve un silenzio impacciato quando le dita di Scorpius circondarono il polso dell’amico per scostargli la mano dalle labbra. Un imbarazzo immotivato gocciolò su Albus, acuendo ogni sua percezione nervosa: le coperte quasi gridarono anziché frusciare quando Scorpius si alzò sulle ginocchia per chinarsi su di lui, le dita ancora strette sul suo polso per tenere la mano lontana dal volto, e l’aria parve sfrigolare mentre l’amico si faceva più vicino. Si sentì doppiamente in imbarazzo per il fatto stesso di essere a disagio: avevano passato serate intere a chiacchierare su quello stesso letto, si spogliavano nello stesso spazio quando dovevano giocare a Quidditch e condividevano la stanza da anni. Ormai era abituato alla presenza di Scorpius come lo era a quella della sua stessa ombra. Non riusciva a capire perché tutto gli sembrasse in qualche modo fuori luogo, né se il combustibile che stava facendo marciare il suo cuore a velocità raddoppiata fosse la vergogna o un sentimento più insidioso che non voleva riconoscere.

Scorpius stese una mano nella sua direzione, e il pollice andò a premere sulle labbra di Albus, esattamente sopra la macchia. Albus resistette a stento all’impulso di retrocedere con uno scatto: i suoi sensi sovraccarichi lo tormentarono ad ogni minimo movimento del dito del giovane, e per il ragazzo fu davvero complicato resistere a quell’assalto nervoso.

La mano di Scorpius non lo abbandonò subito: il pollice scivolò lento dal labbro al mento, e le dita si allungarono a sfiorare la guancia liscia. Le iridi verdi di Albus non erano abbastanza affilate da fendere l’oscurità e raggiungere gli occhi dell’amico, così la sua espressione rimase un mistero avviluppato dalle ombre della notte.

   Scoprius si scostò di botto, come se un improvviso segnale fosse risuonato nella sua testa.

   «Ora sei pulito» lo tranquillizzò, ritirandosi nella sua parte di materasso.

Albus fece un cenno con il capo. Non osò parlare, insicuro com’era della stabilità della sua voce: il cuore non aveva ancora smesso di pulsare, e temeva che quei battiti tumultuosi potessero risuonare nelle sue parole.

   «Sono un po’ stanco» comunicò Scorpius. Si stese sul fianco e ricordò: «Domani le ragazze verranno a farci il “catturone di inizio anno”: dobbiamo essere freschi, se vogliamo ribellarci.»

La testa di Albus si mosse meccanicamente in un accenno, ma il resto dei muscoli rimasero immobili.

   «Se vuoi rimanere ancora un po’, per me non è un problema» lo rassicurò Scorpius.

   Entrambi i ragazzi si sistemarono sotto le coltri: il primogenito dei Malfoy si girò su un fianco per addormentarsi e Albus rimase fermo, in attesa che i suoi muscoli tornassero ad uno stadio solido.

Era stato uno sfioramento, e si era verificato solo perché lui non aveva la galanteria necessaria a non sporcarsi quando mangiava.

Non capiva perché una cosa così semplice potesse sconvolgerlo tanto.

Ci stava ancora ragionando quando il sonno lo rapì a tradimento.

 

***

 

   Ad Hufflepuff non vi erano delle camere multiple: ogni studente aveva la sua stanza, sebbene molto più piccola rispetto a quelle comuni di Slytherin.

La luna ricamò riflessi argentati sulla chioma corvina e sulla lama che Haru teneva tra le mani.

   Il giapponese ricalcava l’immobilità della notte, seduto a gambe incrociate sul suo letto, talmente statuario da sembrare privo di respiro.

Osservò i caratteri incisi sul pugnale che scintillava nella luce fredda. Li rilesse più volte, affinché il loro significato gli penetrasse nella pelle e nella mente.

Un sibilo d’acciaio serpeggiò nella stanza quando l’arma venne riposta nel suo fodero, a sua volta sprofondato nella veste da camera che il giovane indossava.

   Si lasciò cadere sul materasso, stanco.

   Per quel giorno aveva fatto una ricognizione generale.

   Dal mattino seguente si sarebbe concentrato sui suoi bersagli.








Grazie a tutti voi che continuate a leggere<3

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Capitolo 6
*** Cambiamenti ***


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2

Cambiamenti

 

 

 

   Il viso della ragazza era talmente cupo da rannuvolare persino il suo vestiario: la felpa zaffiro sembrava regredita in un blu scuro, e perfino il corvo argento aveva perso la voglia di scintillare nel suo ricamo.

Il nome “Harunobu” era ufficialmente segnato sulla sua lista nera e, quella mattina, era stato cerchiato e sottolineato più volte, guadagnandosi la promozione ad “acerrimo nemico”.

Non le aveva fatto nulla di propriamente sgarbato o palesemente villano, e proprio questo la irritava maggiormente: non poteva accusarlo di nulla, perché lui aveva la grazia malevola di umiliarla senza esporsi troppo.

Rose agitò le spalle come se una serpe le avesse accarezzato le scapole. C’era qualcosa che il ragazzo nascondeva, lo aveva avvertito a pelle come era successo con Scorpius al primo anno: il giapponese aveva sotterrato qualcosa dietro la mascherata dello studente modello.

La sua finzione, associata al suo carattere insopportabile, gettava Rose in uno stato di insoddisfazione corrosiva.

Chiuse gli occhi sospirando, mentre i ricordi della mattina le scrosciavano nella memoria.

 

***

 

   L’intransigenza di Zacharias Smith nei confronti degli insubordinati era leggendaria. Per questo Rose aveva sfoggiato un talento di dissimulazione insospettabile nel mascherare il proprio malcontento: perfino i quadri dei corridoi sapevano che, se avesse contraddetto il professore, non se la sarebbe cavata con una punizione leggera come quella che le avevano inflitto al primo anno dopo l’incidente del bosco.

Da qualche tempo, il programma scolastico prevedeva che gli alunni dello stesso anno partecipassero alle lezioni tutti assieme per favorire il rispetto tra le varie Case. Rose era ben felice di questa regola, che le permetteva di assistere alle lezioni in compagnia del cugino e dei suoi amici di Slytherin, e ad alcuni alunni di Gryffindor e Hufflepuff con cui era entrata in confidenza nell’ultimo periodo.

Per questo visse ciò che avvenne quella mattina come una sorta di maledizione divina: conosceva moltissime persone all’interno delle Case, alcune solo di fama, e con molte di esse aveva rapporti, se non amichevoli, perlomeno civili. Invece il destino beffardo manipolò la volontà di Zacharias Smith in modo che quest’ultimo pensasse che fosse davvero una grande idea associare alla più promettente studentessa di Ravenclaw il più talentuoso dei ragazzi stranieri: così Rose si ritrovò accoppiata alla sua nemesi nipponica.

Haru la scrutò da sopra gli occhiali con elegante ironia, e Rose contraccambiò con un sorriso talmente falso da sembrare dipinto.

   «Weasley-san, è un piacere collaborare con te» annunciò il giovane, accennando ad un inchino con il capo.

   «Il piacere è mio, Harunobu» replicò lei, accatastando gli ingredienti sul tavolo da lavoro il più rumorosamente possibile. Si concentrò sui contenitori e sulle provette per non inondare di invidia tutti gli altri studenti a cui fossero stati affidati i ragazzi dello scambio culturale: con tutti gli allievi esteri che erano arrivati, dovevano affibbiarle proprio lui. La fortuna era cieca, ma la sfortuna aveva la precisione di un cecchino.

   «Hai mai preparato delle pozioni prima d’ora?» Rose legò i voluminosi capelli rossi in una coda in attesa della risposta. Haru spostò gli occhiali rettangolari sul naso con un indecifrabile ghigno a piegargli le labbra e rispose, serafico:

   «Avevamo lezioni simili anche in Giappone.»

Rose annuì e aprì la busta che il professore aveva lasciato sul loro banco. Un’altra invenzione di Zacharias per quella lezione: ogni coppia si sarebbe cimentata in una pozione diversa, per dimostrare che l’interazione tra più culture poteva portare a risultati migliori.

Quello però che il docente richiedeva loro non era un risultato, ma un miracolo: Rose sentì la vita abbandonarla quando lesse il biglietto.

   «Il Distillato della Pace» la giovane trovò davvero ironico che ad una coppia male assortita come la loro fosse stato assegnato quell’infuso: sembrava quasi che il destino volesse distendere a forza i loro rapporti elettrici. Ma non fu il sarcasmo del fato a sconvolgerla: quello era un filtro usato di solito per i GUFO o i MAGO, quindi di livello nettamente superiore al loro. Per quanto lei e Haru potessero essere considerati geniali, dubitava che avrebbero mai superato quella prova. Inoltre, non sapeva nemmeno quale fosse il livello di preparazione del giapponese, o se avesse mai distillato una pozione simile prima di allora. Il professore aveva delle aspettative forse troppo alte nei loro confronti.

   «Che ingredienti servono?»

   Le parole dell’orientale le bussarono sulla spalla, facendola trasalire. Quando aveva abbassato gli occhi sul foglio, il ragazzo si trovava all’altro capo del tavolo: si era mosso più silenziosamente di un fantasma nello scivolarle alle spalle, quasi che l’aria si fosse zittita per farlo passare.

   «Essenza di elleboro, principalmente» replicò lei, scostandosi istantaneamente. «Bisogna fare molta attenzione, perché se esageriamo con le dosi chi la beve potrebbe cadere in un sonno irreversibile.»

   «Mentre lo scopo della pozione è acquietare lo spirito» concluse Haru. Assottigliò gli occhi per leggere la ricetta nel libro aperto sul leggio. «Dobbiamo preparare l’infuso di timo in cui versarla» notò.

Nonostante la prima impressione sul treno fosse stata una delle peggiori, il giapponese si rivelò un ottimo compagno di lezione: era rapido e preciso nel seguire le istruzioni, ed aveva una manualità sorprendentemente buona per una persona non avvezza ai sistemi di infusione occidentali.

Mentre l’asiatico si protendeva sullo scaffale per afferrare i fiori di gelsomino, altro elemento fondamentale per quella mistura, Rose poté scorgere un particolare che prima le era sfuggito: la maglia che indossava quel giorno era di un modello molto simile a quella che portava sul treno, ma sulla stoffa gialla della schiena era stampato un tasso nero, attraversato a metà dal codino corvino. A prima vista non lo aveva notato, celato dalla fantasia a foglie carbone che decorava la seta.

   «Pare che il tuo trasferimento sia ufficiale» commentò lei, quando il giovane fu di ritorno.

   «Si vocifera che uno studente sia arrivato ad Hogwarts in possesso di una borsa di studio molto prestigiosa» Haru appoggiò i fiori sul tavolo, in attesa che la mistura di timo ed elleboro terminasse di bollire.

   «Questo significa che è arrivato con gli studenti per lo scambio culturale, ma non ripartirà con loro» si spazientì Rose.

   Gli occhi di pece la fissarono con astuzia, subito sostituita da distaccata cortesia.

   «Hai un intuito eccezionale, Weasley-san» minimizzò lui, lisciando i petali dei fiori di gelsomino.

   La ragazza per un attimo fu tentata di gettarlo nel paiolo dove la pozione stava ribollendo, ma un’occhiata particolarmente torva del professore la convinse a desistere.

   «Anche tu hai un buon intuito» controbatté lei, scrollando la coda rossiccia. «Hai indovinato la tua Casa di appartenenza.»

   Il giapponese fece cadere i fiori nella spuma della pozione, poi si scostò di un passo per permettere alla compagna di girare l’intruglio.

   «Non è stato intuito» notificò Haru. «Ho imbrogliato il Cappello Parlante.»

   Rose rischiò di rovesciare il calderone e di perdere il conto dei giri di mestolo a quell’affermazione; il ferreo autocontrollo imparato dalla madre le impedì di provocare una mezza inondazione nell’aula. Sollevò lo sguardo nocciola su di lui, allucinata.

   «Hai… imbrogliato il cappello?» la giovane gli fece eco continuando a muovere meccanicamente le mani: non poteva permettere che un diverbio mandasse in fumo il loro lavoro su quella pozione.

   «Ho testato i sistemi di sicurezza di Hogwarts» Haru proferì quella risposta come la più gigantesca ovvietà del mondo.

   «Il Cappello non è un sistema di sicurezza.»

   «Oh. Hai ragione, non lo è.»

Il sorriso da volpe celato dietro l’aria dimessa da bravo ragazzo la pungolò nell’anima.  

Rose estrasse il mestolo dal pentolone e lo impugnò come un paladino avrebbe fatto con la sua spada; inalberò il collo e drizzò il mento con aria di sfida, pronta a distruggere il nemico.

   «Hogwarts è stata costruita dai quattro migliori maghi mai esistiti, e ancora oggi è difesa dagli incantatori più potenti al mondo. Cosa ti fa credere di poter screditare le loro protezioni, tu che sei solo un ragazzino di quattordici anni?»

Haru la fissò statuario, la solita espressione ghiacciata sul viso. Scostò un ciuffo di frangia e, con tono vagamente risentito, sospirò:

   «È impazzita.»

   Il mestolo gli sfiorò la punta del naso, minaccioso come la canna di un fucile.

   «Non provare a mettere in dubbio le mie facoltà mentali» lo avvisò lei.

   «Mi hai frainteso» si discolpò Haru. Gli indici rotearono verso il basso a puntare il paiolo, e il ragazzo annunciò, atono: «La pozione. È impazzita.»

Lo spettacolo offerto dal calderone fu sconfortante: sulla superficie dell’acqua si erano gonfiate delle piccole nuvole di bollicine e spuma come se dei Rospi di Palude stessero intorbidando l’acqua dal fondo del paiolo, e alcuni grumi di gelsomino si stavano incollando ai bordi del pentolone, formando un bizzarro tappeto di ciuffi biancastri.

   «Vado a prendere altro tiglio» decise placido, mentre Rose correva a rovesciare il disastro ribollente nello scolo in fondo all’aula.

Haru appoggiò le foglie aromatiche sul tavolo, e aiutò la compagna a pulire il calderone e a ricominciare il lavoro.

   «Sei arrogante» lo attaccò lei, per nulla intenzionata a lasciar cadere la discussione di poco prima.

   Gli occhi dell’orientale rimasero calamitati sulle foglie che pian piano cedevano il proprio colore all’acqua circostante, prima di risalire su di lei.

   «Potrei rivolgerti la stessa accusa, Weasley-san» restituì il colpo lui, carezzevole e inflessibile. «Hai detto che sono un ragazzino di quattordici anni come se tu fossi già nel mondo degli adulti» sorrise mellifluo, con la dolcezza acida di chi sa di avere l’avversario in pugno: «Mi hai trattato come un moccioso, dicendo che ho quattordici anni. Tu quanti anni hai, esattamente?»

Per tutta risposta, Rose gli indicò perentoria il paiolo.

   «Aggiungi il gelsomino» ordinò.

   Haru non proseguì oltre quella schermaglia e procedette ad aggiungere il fiore. La ragazza lo fissò meditando vendetta e, non appena l’asiatico si rialzò, era pronta a sferzarlo:

   «Parli sempre come se gli altri fossero un gradino sotto di te.»

   «Non ricordo di essere stato offensivo nei vostri confronti» obiettò pacato Haru.

   «Non parlo del tuo atteggiamento, ma di quello che ci sta dietro.»

Un filo di silenzio si srotolò dalle labbra dell’orientale, cucendogli le labbra. Gli occhiali abbandonarono la loro postazione, e Rose si sentì quasi schiaffeggiare dalla profondità delle iridi ebano.

   «Anche questo te lo suggerisce il tuo intuito, Weasley-san?» flautò Haru. Gli occhi di onice sembravano pulsare di una fonte magica sconosciuta e antica, paralizzante per la sua solennità, e Rose quasi esalò un sospiro di sollievo quando l’altro inforcò di nuovo le lenti.

   «Le tue analisi sono accurate, Weasley-san, ma sbagliano in un punto» un pizzico di spontaneità stemperò la formalità incolore nel sorriso che le rivolse. «Sono semplicemente cosciente di aver ricevuto nozioni diverse rispetto alle vostre.»

   «Hai frequentato una scuola di magia, nel tuo paese?» si incuriosì Rose.

Le mani del giapponese si stesero verso di lei, porgendole il mestolo come un samurai avrebbe offerto la katana al suo padrone.

   «Dobbiamo mescolare la pozione, Weasley-san» le ricordò con educazione.

Le sue labbra si ritrassero come se avessero assaggiato un limone particolarmente aspro, ma Rose afferrò comunque il mestolo con stoicismo e riprese il suo lavoro.

   Detestava l’abitudine nipponica di restare sul vago.

In particolar modo, odiava l’ambiguità di quel giapponese.

 

***

 

   «Rose!»

   Il flusso dei suoi ricordi venne sbarrato dall’apparizione di Dallas Dursley, che correva trafelato nella sua direzione.

Lo zio Harry non le aveva mai raccontato come avesse reagito Dudley nello scoprire che suo figlio era nato con una porzione di sangue magico. Zia Ginny, più incline alle confidenze, le aveva rivelato che al cugino di suo marito era quasi venuto un colpo apoplettico quando il pargolo aveva sollevato in volo il biberon che la madre stava cercando di fargli bere. Ma nemmeno lei era stata troppo descrittiva: Rose aveva capito vagamente che Dudley aveva stabilito un nuovo record per drammaticità e durata di una scenata isterica. Harry, a questo punto della storia, interveniva per riscattare l’onore del cugino: Dudley, nonostante il palese e altisonante rifiuto iniziale, aveva accettato le inclinazioni del figlio.

Ma non era riuscito ad accompagnare il fanciullo a fare compere nel mondo magico, così Harry aveva accettato di fargli da accompagnatore quando ce ne fosse stato bisogno, e il piccolo Dallas era stato ben felice di farsi scarrozzare in quel mondo strano e meraviglioso.

L’accettazione di Dudley era stata una sorpresa per la famiglia Potter al gran completo, specie per Harry, che aveva subito le angherie del cugino per anni. Dudley aveva messo sulla bilancia del suo cuore l’affetto per il figlio e la ripugnanza per i maghi, e l’ago era stato sbilanciato pesantemente in favore del pupo. Aveva strappato a Dallas la promessa di non praticare mai la magia nel mondo comune, salvo casi estremi di vita o di morte, e si era rassegnato a vedere suo figlio scomparire nella colonna di una stazione anziché salire sul treno come tutti.

Anche Vernon e Petunia, nonostante un cocente rinnegamento iniziale – con attacchi irosi del primo e crisi di pianto della seconda – avevano accettato quella piccola anomalia nella loro famiglia: era pur sempre il figlioletto del loro magnifico Dudley, e dovevano amarlo incondizionatamente.

   Dallas aveva ereditato dal padre i capelli biondicci e la corporatura robusta, che il costante allenamento a Quidditch aveva impedito di diventare adiposa come quella del genitore; la madre invece gli aveva regalato gli occhi chiari in cui si mescolavano il grigio e l’azzurro e il sorriso contagioso, che lo avevano reso il leader carismatico di Hufflepuff. Gli studenti più giovani lo chiamavano “GGG”, il “Grande Gigante Gentile”, per via della sua altezza vertiginosa, delle sue spalle taurine e del suo buonumore costante.

Il ragazzo trottò nella sua direzione come un bufalo, e si arrestò di fianco a lei ansando per la corsa.

   «Ti stavo cercando… c’è qualcosa che non va?» virò Dallas alla vista del viso incupito della giovane.

   «C’è un ragazzo straniero che mi infastidisce» tagliò secca lei.

Il giovane passò una mano muscolosa sui capelli corti e si informò, premuroso:

   «Stai parlando dello studente giapponese?»

   Rose fissò Dallas con stupore. Gli occhi sgranati di un ingenuo, le gote arrossate come mele per la corsa e l’espressione mortificata e bonacciona: non era esattamente il ritratto dell’investigatore sagace. Dallas aveva molti pregi, indubbiamente, ma l’astuzia non era tra questi; quindi l’asiatico doveva aver fatto qualcosa di così plateale da suscitare persino il sospetto di una persona pacifica come lui.

   «Come hai fatto a indovinare?» indagò perciò Rose.

Il giovane si fissò le dita nerborute, lacerato da un conflitto interiore: era giusto o meno rivelare segreti altrui in cui si era praticamente inciampati? Alla fine, decise che la ragazza fosse una persona sufficientemente affidabile e dichiarò:

   «È sempre molto… riservato. Guardingo, quasi» barcollò per la sua avversione naturale al parlare male degli assenti. «La seconda sera sono entrato in camera sua per dargli il benvenuto. Non ero riuscito a farlo il giorno del suo arrivo perché stavo aiutando a sistemare le matricole.»

Rose chinò il capo, comprensiva. I Prefetti avevano imparato che i nuovi arrivati ascoltavano molto volentieri il “Grande Gigante Gentile”, e lo avevano quasi schiavizzato per aiutarli a gestire gli alunni del primo anno. Dallas, da sempliciotto qual era, si era lasciato felicemente raggirare.

   «Insomma, sono entrato nella sua camera. Forse ho dimenticato di bussare, o forse non mi ha sentito. Si stava cambiando, mentre sono entrato» Dallas si dondolò sui piedi e si umettò le labbra, ostacolato nel racconto dalla sua coscienza. «È stato veloce a rimettersi la maglia, ma non abbastanza. Ho visto…»

   «Cosa hai visto?» lo spronò Rose, quando l’altro tentennò per l’ennesima volta.

   Dallas fece un vago cenno con la mano in direzione della spalla.

   «Aveva delle cicatrici. Qui» batté la mano sulla scapola sinistra. «E qui» appoggiò il palmo sul fianco destro. «E anche qui» Dallas si contorse come un orso che cerchi di recuperare del miele appiccicato sulla schiena quando tentò di toccare il centro della colonna vertebrale. «Erano delle gran brutte cicatrici. Sembravano fatte da armi da taglio.»

   Lo sconcerto fu chiaramente visibile sul volto di Rose. Perché mai uno studente avrebbe dovuto riportare simili escoriazioni sul corpo? Haru aveva detto di avere conoscenze diverse dalle loro… forse intendeva dire che era stato addestrato al combattimento e non alle arti magiche? In tal caso, però, non si spiegava la sua destrezza nelle lezioni di Hogwarts, impensabile per un alunno totalmente digiuno di incanti, né il conseguimento di quella difficile borsa di studio.

Quelle cicatrici erano forse dovute ad un incidente, o ad un allenamento estremo?

    «Ho riferito l’accaduto ai professori, ma mi hanno detto di non preoccuparmi e lasciare che se ne occupino loro» terminò Dallas, scuotendo scoraggiato le spalle massicce.

Rose annuì meccanicamente, ancora immersa nei pensieri. Si riscosse solo quando il vocione possente del giovane la riportò alla realtà.

   «Comunque, ero venuto a cercarti per via di Albus.»

La ragazza si concentrò istantaneamente sulle parole del rappresentante di Hufflepuff, preoccupata.

   «Cosa è successo? Si è fatto male durante un allenamento di Quidditch?» s’impensierì; da quando era diventato Cercatore, Albus aveva gettato anima e corpo nelle esercitazioni di Bartold Scholz, dimenticandosi la sua incolumità: aveva perso il conto delle volte in cui aveva ringraziato Scorpius per aver salvato il collo del suo consanguineo.

   «No, non credo che si sia fatto male. Ma sta seduto fuori in cortile con la faccia da “il mondo sta per finire”» riferì Dallas.

A Rose fu sufficiente intersecare due informazioni per ottenere la verità: Albus era depresso ed era solo. Questo significava che la colpa del suo cattivo umore era Scorpius.

   Si diresse nel giardino interno a passo di bersagliere, e non si fermò finché non scorse la figura abbattuta del cugino.

Dallas non aveva esagerato: Albus se ne stava seduto, le gambe che ciondolavano prive di forza, gli occhi abbassati e le spalle curvate come se qualcuno lo avesse bastonato.

Rose trattenne a forza tra i denti un sospiro bellicoso: la sua stima nei confronti di Scorpius era salita nel corso degli anni, ma sarebbe precipitata se il ragazzo fosse stato davvero la causa di quella depressione.

Si accostò dolcemente al cugino e gli avvolse le spalle con un braccio. Albus sollevò per un attimo gli occhi infelici su di lei, prima di abbassarli di nuovo con aria demolita.

   «Qual è il problema?» domandò carezzevole lei.

   Albus trasse un profondò respiro e uggiolò:

   «Scorpius ha la ragazza.»

   Rose batté le palpebre, incerta sulla solidità del suo udito.

   «Ha… la ragazza?»

Aveva pensato ad una miriade di possibilità differenti, mentre correva in soccorso del consanguineo: Scorpius lo aveva di nuovo insultato senza motivo come aveva fatto al primo anno, lo aveva fatto cadere dalla scopa durante gli allenamenti, era arrabbiato con lui e non voleva più parlargli, erano entrambi in lutto perché le Torte della Strega erano misteriosamente sparite dal mercato… il fidanzamento era l’unica ipotesi che non aveva vagliato.

Albus confermò, rattristato:

   «È Margaret Finnigan.»

Rose roteò gli occhi verso l’alto, scartabellando il suo elenco mnemonico degli studenti di Hogwarts: le sue meningi superallenate le proposero la figura di una ragazza normale, castana di occhi e di capelli, non troppo appariscente e motivata nello studio.

   «È una Gryffindor» ricordò, con uno schiocco di dita.

   «Una delle poche che non è razzista nei confronti degli Slytherin» confermò Albus.

Rose si rigirò le punte ondose di una ciocca ramata tra le dita, insicura su come continuare quel discorso.

   «Cosa ti rende triste? Il fatto che abbia una ragazza prima di te?»

   «No.»

   «Credi che lei lo allontanerà dal vostro gruppo?»

   «Spero di no.»

   «Ti senti in qualche modo tradito dal suo comportamento?»

   «Credo di no.»

Lo sguardo di Rose si appuntò sull’erba circostante: aveva esaurito le pallottole nella sua pistola di psicologia, e non sapeva quali altri motivazioni razionali fornire al comportamento del cugino.

   «Credo che una fase di rifiuto nei confronti delle situazioni nuove sia normale. In fondo, ci sentiamo a disagio ad affrontare qualcosa a cui non siamo abituati» patteggiò lei.

Albus rimase ad ascoltarla passivo, gli occhi di giada fissi sul prato.

   «Vedrai che passerà in un paio di giorni, giusto il tempo di abituarti» lo consolò, stringendo forte la presa sulle spalle. L’abbozzo di un sorriso nacque e morì sulle labbra di Albus, ancora incastrato nel suo mesto marasma.

Rose dovette quasi trascinarlo via di peso da quel posto per spintonarlo verso l’aula di Difesa contro le Arti Oscure: per quanto i drammi personali potessero essere profondi, non avrebbe permesso al cugino di perdersi una lezione proprio all’inizio dell’anno.

Inoltre, il suo malumore era del tutto ingiustificato, e sarebbe svanito nel giro di poco tempo.

Rose si convinse di questo, nonostante un piccolo tarlo nella sua mente continuasse a contraddirla.

 

***

 

 Durante lo studio, perfino un normalissimo Succo di Zucca poteva essere gustato come l’idromele degli dei.

Valentine si servì un generoso sorso prima di passare il cartoccio al ragazzino che sedeva di fronte a lui. Uno strano Slytherin in fondo alla biblioteca scattò in piedi e uscì di gran fretta, sistemandosi velocemente una bizzarra mascherina e rimbrottando qualcosa sulla bomba batteriologica che i due avevano appena creato mescolando la saliva sulla cannuccia.

Aveva sempre avuto il presentimento che gli Slytherin fossero gli svitati di Hogwarts, e quel ragazzo ne era la prova. Doveva essere Macauley Nott, l’amico ipocondriaco di Albus.

   «La tua bravura durante gli esami è davvero un mistero» commentò il piccoletto, dopo aver bevuto a sua volta ignorando l’allarmista di Slytherin. «Considerando quanto odi lo studio.»

   «Ma io non ho bisogno di studiare. Sono un genio innato» si vantò pomposo l’altro.

Il ragazzino gli lanciò un’occhiata interrogativa da sopra il libro su cui si chinò di nuovo da perfetto studente zelante.

   Valentine reclinò il capo all’indietro, e i riccioli scuri rimbalzarono nel vuoto. Se pensava al bizzarro destino che lo aveva portato a diventare l’insegnante privato di un moccioso del primo anno, avrebbe potuto pensare che un gremlin si fosse divertito a scambiare le tessere del mosaico della sua vita: Fleur Delacour era preoccupata che il figlio minore, Louis, si trovasse in difficoltà a Hogwarts, così aveva chiesto al marito di domandare ai suoi fratelli se qualcuno dei loro figli fosse disposto a fare da tutore al pargolo. Bill Weasley aveva passato in rassegna tutti i parenti fino a Ginny, che aveva consigliato James, che aveva scaricato il pupo sulle spalle dell’amico.

Louis era un alunno perfettamente normale, ma la madre desiderava che il suo bambino eccellesse, così lo aveva affidato alla supervisione dello scapestrato ma brillante amico di James. Che aveva accettato dopo essere stato insistentemente minacciato da quest’ultimo.

Valentine si stava dondolando annoiato, in attesa che il ragazzino risolvesse l’ultimo quesito che gli aveva posto, quando una figura al di là della porta della biblioteca attirò la sua attenzione.

   «Torno subito. Intanto finisci l’esercizio» si congedò sbrigativo prima di correre fuori dalla stanza.

Inseguì il giovane che aveva attirato la sua attenzione finché non riuscì ad afferrarlo per un polso. Fu costretto a rilasciare subito la presa con un guaito strozzato: una scarica elettrica gli aveva bruciato il palmo nel momento stesso in cui aveva stretto le dita sulla pelle del ragazzo.

   «Porti sempre quell’aggeggio infernale» ridacchiò Valentine tra le lacrime, scrollando la mano fumante.

Lo studente giapponese fece scivolare la manica del kimono in modo che scoprisse i grani del bracciale che indossava e sentenziò, neutro:

   «Sempre. È estremamente utile contro i contatti indesiderati.»

   «Non è un po’ pericoloso portarlo a scuola?» lo stuzzicò Valentine. «Potresti abbrustolire degli innocenti.»

   «Colpisce solo i miei nemici» confutò Haru, serafico, e accarezzò il monile al suo polso. «Questo significa che lavori ancora per l’altra parte

Valentine soffiò sul palmo arroventato, e la successiva frecciatina sembrò uscire spontaneamente insieme al respiro:

   «Dovresti aggiornare il tuo aggeggio. Io sono dalla vostra parte.»

   Gli occhiali inalberarono contro di lui uno sguardo indecifrabile, in accordo con la replica enigmatica:

   «Non sono sicuro di potermi fidare di te. Se non sbaglio, tre anni fa uno strano mostro si è infiltrato ad Hogwarts.»

Valentine non sembrò sorpreso da quella notizia; smise perfino di agitare la mano, che appoggiò con accennata strafottenza sulla tasca del pantaloni, e controbatté:

   «Mi stai accusando di aver aperto i cancelli di Hogwarts a quello schifo?»

   «Qualcuno l’ha fatto.»

   Gli occhi di Haru erano neri e freddi come il mare artico, e Valentine si difese con una risatina sprezzante da quel gelo.

   «Dovresti scegliere con più accuratezza i tuoi nemici, o ti troverai solo» profetizzò greve il ragazzo di Gryffindor.

   «Se sei solo, nessuno può tradirti» recitò composto Haru.

   «Può tradirti il tuo corpo. O la tua mente.»

   «Non se sono stati bene addestrati.»

Valentine fece spallucce, evidenziando il suo disinteresse per quel duello di dialettica.

Sfilò la mano dalla tasca e con quella salutò il ragazzo più giovane: il palmo svettò nella luce del corridoio, liscio e intonso come se nulla l’avesse mai sfregiato.

   «Buona fortuna, Haru. Cerca di non ostacolarmi troppo» augurò, dirigendosi nuovamente verso la biblioteca.

Il giapponese non lo fermò in alcun modo, e Valentine fece ritorno alla sua postazione di fronte al giovincello del primo anno.

   «Ho finito l’esercizio» annunciò Louis, allungandogli il libro.

Il giovane annuì, facendo ballare i riccioli lucidi, e controllò che la soluzione del piccoletto fosse quella corretta.

Hogwarts stava per essere scossa fino alle fondamenta.

Meglio godersi gli ultimi attimi di tranquillità.

 

***

 

   Scholz li aveva allenati durante l’estate del loro primo anno.

Si erano ritrovati ad affrontare serpenti di fuoco brandendo un ramoscello, a guerreggiare con pericolosi sirenidi armati di tridente con il solo ausilio di una lattina sbeccata, e ad acquietare irascibili api giganti muniti di bandierine. Avevano fatto più esperienza di battaglia in una sola estate di quanto avesse fatto la maggior parte dei maghi in tutta la loro vita.

Tuttavia, il disastro peggiore che si fosse mai trovato ad affrontare era quello che si parava di fronte a lui in quel momento.

Si stavano preparando per l’allenamento di Quidditch pomeridiano: la squadra al completo, riserve incluse, si stava cambiando negli spogliatoi immersa nel classico chiacchiericcio scoordinato che anticipava le esercitazioni.

Si era appena infilato la maglia da allenamento - ampia e ancora incrostata nonostante i suoi sforzi di rimuovere le macchie provocate dalle sue numerose cadute – quando Scorpius lo aveva raggiunto.

   «Ti senti bene?» gli aveva chiesto.

Quella domanda era il demone insormontabile con cui Albus non sapeva come confrontarsi.

Evitò di rispondere per qualche secondo, fingendosi estremamente concentrato nell’indossare i guanti.

   «Non ho niente» assicurò, poco convincente.

Doveva esserci un giradischi malefico nel suo cervello, inchiodato su un unico verso: “Scorpius ha la ragazza”. Non capiva perché quell’informazione l’avesse tanto sconvolto: era normale che uno come Scorpius avesse delle ammiratrici, ed era altrettanto normale che, tra le tante spasimanti, ce ne fosse una che corrispondesse ai suoi gusti.

Non era normale, invece, che lui si sentisse amareggiato dalla notizia, quasi ferito come se l’amico lo avesse oltraggiato; percepiva una punta di acredine in fondo allo stomaco che gridava: “tradimento!”.

Si bloccò per un secondo mentre prendeva la scopa dall’armadietto.

Tradimento? Lui non era la moglie di Scorpius, e nemmeno la sua fidanzata; era solo un suo amico. E la ragazza che Scorpius aveva scelto gli era del tutto indifferente, quindi non poteva addurre nemmeno un triangolo amoroso come origine di quella sgradevole sensazione.

Era il suo migliore amico, avrebbe dovuto gioire della primavera di Scorpius.

Invece continuava a rimuginare su rancori che non comprendeva e rimpianti che non identificava.

   Quasi saltò quando Scorpius gli appoggiò una mano sulla spalla.

   «Sicuro di stare bene?» lo mise in dubbio l’altro, osservandolo scettico.

Albus scosse freneticamente la testa in cenno di assenso, si caricò in spalla la scopa come un minatore avrebbe fatto con un piccone e sfrecciò verso il campo.

Aveva bisogno di schiarirsi le idee.

L’aria frizzante dei pomeriggi settembrini e l’adrenalina del gioco lo avrebbero aiutato.

Montò a cavalcioni della scopa e salì il più in alto possibile, distanziandosi al massimo delle sue capacità dai problemi sulla terraferma.

 

 

 

 

 

 

 

 

Grazie a tutti voi per la pazienza<3

Grazie davvero<3

A presto con il prossimo capitolo!

Red

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Capitolo 7
*** Magia Orientale ***


3

Magia Orientale

 

 

 

   «Tu e Albus avete litigato?»

   Scorpius interruppe i preparativi mattutini per fissare Macauley con fare interrogativo.

   «Non che io sappia» arginò.

   Nott si strinse nelle spalle, allacciando gli elastici della mascherina.

   «Di solito vi scambiate i microbi tutto il tempo…» Scorpius lo incenerì, tra il disgustato e l’offeso, e Macauley chiarì: «Siete sempre vicini, respirate la stessa aria, consumate lo stesso spazio: praticamente vivete in tandem

   Le dita di Scorpius terminarono di annodare la cravatta verde e argento, mentre le meningi lavoravano su quella nuova questione. Ciò che gli aveva appena fatto notare Nott non era sbagliato: ultimamente Albus sembrava imbarazzato in sua presenza, quasi temesse di disturbarlo semplicemente sbattendo le ciglia. Ed erano almeno tre settimane che non saliva nel suo letto per le loro chiacchierate notturne.

Si mise a sedere sul materasso e cominciò ad allacciare le scarpe. Che cosa era cambiato, in quel lasso di tempo?

La sua media scolastica non aveva subito grandi variazioni, e comunque dubitava che il malessere timido di Albus fosse collegato ad una questione di voti. Durante gli allentamenti di Quidditch non si erano registrati cambiamenti sostanziali: Albus era sempre il loro Cercatore, e Scorpius il Battitore. Non aveva litigato con Rose, quindi non era nemmeno un impaccio dovuto a guerre intestine al loro piccolo gruppo.

Le mani si congelarono sulle stringhe quando i suoi ragionamenti approdarono ad una conclusione: l’unico evento saliente delle ultime settimane era stata Margaret, la Gryffindor che ora era la sua ragazza.

   «Macauley» sondò, perplesso. «Albus aveva una cotta per Margaret?»

   «Non che io sappia» lo scimmiottò Nott.

   Scorpius trattenne il respiro come se gli avessero passato un cubetto di ghiaccio sulla schiena e replicò in un sibilo:

   «Macauley, ti hanno mai detto che dovresti fare teatro? Hai un talento spiccato per il melodramma.»

I capelli di Nott, vaporosi per l’accurato lavaggio, scintillarono sotto la luce della lampada quando il ragazzo voltò la testa.

   «Ti darò tre ottimi motivi per evitare il teatro» un indice avvolto dal lattice svettò nell’aria: «Primo: quinte polverose. Secondo: spogliatoi in comune. Terzo: costumi di seconda mano, quindi dove degli estranei hanno sudato

   «Anche nel Quidditch abbiamo gli spogliatoi in comune» gli fece presente Scorpius.

   «Ed è esattamente per questo motivo che non mi avvicino a meno di due metri da voi finché non vi siete fatti una bella doccia bollente» flautò serafico e sarcastico Nott. «E rinnovo il mio invito ad usare un bagnoschiuma a base di acido muriatico, in quelle occasioni.»

   «Ci scioglierebbe la pelle.»

   «Ma le vostre ossa sarebbero splendenti e disinfettate.»

Scorpius scosse la chioma bionda, arrendendosi alla crociata igienista dell’amico.

Il Cercapersone di Nott lanciò il suo grido di battaglia – “ogni microbo risparmiato oggi diventerà un’epidemia domani!” – e si slanciò verso il padrone, che lo sollevò da terra con due sole dita, quasi fosse ricoperto di fango: ogni suo oggetto personale era perfettamente sterilizzato, ma quell’ordigno elettronico aveva appena corso una maratona sul pavimento, ed era quindi infetto. Scorpius approfittò di quella momentanea distrazione per guadagnare la porta.

   «Vado a cercare Albus» annunciò sbrigativo.

   «Credo che Albus stia cercando noi» lo mitragliò Nott.

Non fu tanto la replica dell’amico quanto il mezzo sisma del cassetto a farlo tornare sui suoi passi: Scorpius aveva dimenticato il suo Cercapersone dentro il comodino, e quella bestiola metallica stava ammattendo per riuscire ad aprire uno spiraglio da cui scappare. Il suo proprietario mise fine a quel  supplizio estraendola dal cassetto.

   «E credo che sia urgente» decorò Macauley, alzandosi per cercare il “kit di igiene istantanea”: dopo la lotta rocambolesca del primo anno, aveva preparato un piccolo marsupio per tutte le evenienze.

Scorpius non avrebbe usato le stesse parole dell’amico per descrivere la situazione, né il medesimo tono tra il pacifico e il rassegnato. Il messaggio che Albus gli aveva appena inviato si componeva di un’unica, terribile parola: aiuto!

   «Qual era la formula per rintracciare le persone?»

   «GPS.»

   Nott rispose con calma e freddezza alla sollecitazione dell’amico.

   «Come hai detto?» domandò Scorpius, disorientato.

   «GPS» scandì Macauley, indicando il Cercapersone. «Questi affari sono dotati di un dispositivo satellitare. In altre parole, puoi trovare chiunque, in qualunque momento» aggrottò la fronte, scontento dell’espressione smarrita del compagno: «L’ho sempre detto che vivi in una famiglia troppo antiquata.»

   «Siamo sostenitori della magia nella sua forma più alta» si difese Scorpius, lievemente inacidito.

   «Ma ogni tanto la tecnologia aiuta» minimizzò Nott, utilizzando lo stilo ipoallergenico per digitare una combinazione di tasti sul Cercapersone. «E ora andiamo a vedere in che guaio si è cacciato Albus.»

Scorpius cedette qualunque possibile reticenza, e seguì il collega fuori dalla stanza.

La Natura aveva creato uno dei suoi più grandi misteri con Macauley Nott: una persona che riusciva a gestire con freddezza un messaggio disperato da parte di un amico e che perdeva controllo e dignità alla vista di un germe solitario.

Decisamente inspiegabile.

 

***

 

   «Valentine?»

Louis fissò il suo tutore, sconcertato. Il Gryffindor non aveva mai addolcito l’aria scontenta con cui affrontava quelle ripetizioni: si sedeva con uno sbuffo, spiegava in modo chiaro ma incolore e lo scrutava svogliato mentre riempiva intere pagine di appunti ed esercizi. I suoi voti erano sensibilmente migliorati, ma avrebbe gradito una partecipazione maggiore da parte del suo personal trainer, come lo chiamavano i suoi compagni di corso.

Tuttavia, per quanto Valentine potesse essere abrasivo, non era mai arrivato ad una maleducazione simile: Louis gli stava ponendo una domanda, e all’improvviso il giovane aveva voltato il capo riccioluto e si era messo in ascolto dell’aria.

   «Valentine!» lo richiamò una seconda volta, spazientito.

   Il Gryffindor spostò lo sguardo assente su di lui, e gli occorsero alcuni secondi per rischiararlo dalla torbida vacuità che si era impossessata delle iridi scure.

Louis arricciò le labbra, una colorita ramanzina scalpitante sulla lingua: era solo un povero, piccolo studente del primo anno, ma meritava comunque un minimo di rispetto. Probabilmente Valentine non avrebbe capito una sola parola della sua invettiva, perché Louis, quando si infuriava, tendeva a strillare con tonalità eccessivamente acute e turbate dall’accento nasale ereditato dalla madre, ma gli avrebbe dato comunque soddisfazione sgridare il suo tutore.

Aveva appena preso fiato per cominciare quando Valentine ordinò:

   «Vai sotto il tavolo.»

   Louis batté le palpebre sugli occhi acquamarina, disorientato come una persona che ha appena visto una gelatina di palude esibirsi in un balletto classico. Non ebbe tempo di dissipare la sua confusione che essa crebbe a livelli esponenziali: Valentine ringhiò qualcosa di incomprensibile e si lanciò su di lui, ficcandolo a forza sotto il tavolo e avvolgendolo con il proprio corpo. Le labbra di Louis boccheggiarono di nuovo, inaridite dallo stordimento, e si spalancarono in un grido non appena un rombo sordo percosse tutte le mura dell’edificio, facendo tremare l’intera stanza. Louis ebbe l’impressione di trovarsi in un enorme scatolone scosso da un gigante, e si rifugiò istintivamente nella stretta del tutore.

Valentine gli coprì la testa con le mani quando le finestre della sala di lettura improvvisamente esplosero, scagliando ovunque pericolose schegge di vetro.

Nella biblioteca regnarono alcuni minuti di caos totale: sedie rovesciate, rumore di studenti gettatisi sotto i tavoli e urla strozzate, il sibilo dei frammenti delle finestre, libri che si schiantavano al suolo e quel costante rombato di sottofondo che scuoteva tutto il palazzo.

   Una formula recitata da una voce femminile pose fine a quel delirio: i vetri rotti si immobilizzarono e fluttuarono a terra con grazia, gli scaffali e le mura tornarono solidi e fermi, e dopo qualche secondo alcune teste esitanti spuntarono dai tavoli.

La signorina Eeriemay troneggiava al centro della stanza, la crocchia sulla nuca scomposta per via della corsa precipitosa con cui aveva raggiunto la biblioteca e le labbra schiuse per il fiato ingrossato dallo sforzo. Una mano reggeva le scarpe con il tacco, vezzosità femminile cui aveva rinunciato per soccorrere i suoi studenti più agevolmente, e l’altra sfoderava la bacchetta con cui aveva sedato quello sfacelo.

   «Avete degli ottimi riflessi, ragazzi» si complimentò in un ansito affaticato.

   «Cos’è stato?» soffiò a stento Louis, la bocca e le gambe semiparalizzate dallo spavento.

   «Niente di buono» mormorò Valentine, lasciando la presa su di lui.

   La Eeriemay incrociò il suo sguardo, ed entrambi annuirono impercettibilmente nel tempo di un battito di ciglia.

   «Valentine, ti affido questi studenti: porta i feriti in infermeria e chiama il custode per ripulire questo macello» comandò rapida la donna, uscendo senza infilare i tacchi: aveva ancora molte scale e molti corridoi da percorrere.

Il ragazzo fu lesto a rispondere all’appello della professoressa: aiutò gli allievi ad uscire dai loro rifugi improvvisati, analizzò velocemente le condizioni di ognuno e radunò un gruppetto da condurre in infermeria.

Louis, sebbene non si fosse ferito in alcun modo, seguì ugualmente Valentine lungo le scalinate che conducevano al reame di Madamina, come avevano soprannominato l’erede di Madama Chips. Valentine lo aveva mascherato con l’ampia giacca rosso mattone della sua Casa, ma Louis se ne era accorto ugualmente quando l’aveva abbracciato in preda al panico, e aveva sentito una sostanza viscosa bagnargli le mani: il giovane si era ferito alla schiena.

Assistere alle sue cure era il minimo che potesse fare per quello zotico che lo aveva appena salvato.

 

***

 

   «Senza offesa, ma non eccelli negli incantesimi.»

   «Non sono offeso, Weasley-san.»

   «Offenditi, invece. Ti sto insultando.»

   «Non sono comunque offeso, Weasley-san.»

  «Come studente sei assolutamente mediocre. Per me è un mistero come tu sia riuscito ad ottenere quella borsa di studio.»

   «Non dovevi prendere le mie parole un incoraggiamento ad aumentare la dose, Weasley-san.»

   «Per cui non credo che abbandonare a metà la lezione di Incantesimi sia stata una buona idea. Anzi, è stata una trovata del tutto idiota

   «Tu invece puoi permetterti di perdere delle lezioni perché sei un’ottima maga, Weasley-san.»

   «Perdo una lezione perché il mio compagno di Incantesimi mi ha piantata in asso a metà! E smetti di chiamarmi Weasley-san, Harunobu

   L’ultima stoccata fu quella decisiva per arrestare il giapponese.

Durante l’addestramento di sortilegi in coppia, Haru aveva improvvisamente sollevato il viso, come un segugio che fiuta la pista, dopodiché si era precipitato fuori dall’aula, non prima di aver porto le sue più sentite scuse all’insegnante con tanto di inchino. Rose, rimasta senza compagno, non aveva potuto fare altro che seguirlo nella sua assurda corsa, senza negarsi il piacere di ingiuriarlo in tutti i modi possibili.

Il sopracciglio sinistro di Haru si inalberò verso l’alto nell’appuntarsi sulla figura scomposta della giovane: i capelli increspati erano sfuggiti in buona parte all’elastico e ricadevano sul volto accaldato, da cui lo fissavano due infuriati occhi nocciola.

   «Non potevo rimanere in aula» terminò lui, dandole le spalle.

   «Perché?» insistette lei. «Non avevi un Diavolo della Lava alle calcagna.»

Rose si reputava una persona mediamente paziente: non faceva mistero delle proprie simpatie o antipatie, ma erano rari i casi in cui si dimostrasse realmente villana. Quella volta, però, non riuscì a trattenersi: afferrò lo studente nipponico per un braccio costringendolo a voltarsi. La manovra fu così brusca che il ragazzo batté la nuca contro la parete, ma Rose non vi badò e lo investì con le domande che le ribollivano nella testa da quando aveva conosciuto quell’indecifrabile straniero:

   «Sei qui da due mesi, e non sappiamo niente di te. Nessuno sa niente di te. Non sappiamo niente dei tuoi genitori, della tua famiglia, dei tuoi amici. Eri morto prima di arrivare qui, per caso?»

   «Sono una persona riservata…» si discolpò Haru, ma non servì a placare il fuoco della giovane:

   «No, tu sei ermeticamente sigillato in te stesso! Non ti è mai sfuggita una singola parola, e quando parli con gli altri non fai che rigirare i loro discorsi in modo da non rivelare niente di te. Di cosa hai così paura? Credi che saremmo pronti a pugnalarti alle spalle?»

Rose quasi si morse le labbra per quell’ultima invettiva: il lampo ferito che attraversò le iridi di onice del giovane la fece pentire dell’infelice scelta di vocaboli.

   «Succede molto più spesso di quanto si possa pensare» sorvolò Haru, la solita compostezza appena intaccata da un alone malinconico. «Vuoi conoscere qualcosa di me, Weasley-san? Allora seguimi.»

Il giapponese le negò di nuovo la sua attenzione e squadrò il soffitto, apparentemente assorto. Frugò con una mano nelle tasche e ne estrasse un finissimo rettangolo di quella che si rivelò essere carta di riso. Sussurrò qualcosa sulla punta della sua bacchetta, che si colorò di nero, e con quella vergò uno strano ideogramma sul foglio.

Rose osservò con meraviglia il foglietto che si scuoteva a mezz’aria e che cominciava a piegarsi da solo, frenetico ma preciso, fino ad assumere la forma di una piccola gru. L’uccello di carta batté un paio di volte le ali, poi partì spedito verso una destinazione nota solo a lui. I due giovani si affrettarono a seguirlo.

   «Cos’era quello?» sbuffò Rose, correndo al massimo delle sue forze.

   «Un origami cercatore» spiegò Haru. «È una delle magie di base orientali.»

   Un occhio di pece la fissò da sopra la spalla, mondato da qualunque ombra di derisione o superiorità.

   «Hai detto che non sono bravo con gli incantesimi occidentali, Weasley-san. Infatti, la mia specialità è un’altra. Tra poco la vedrai.»

 

***

 

   Albus inalberò la sciarpa contro il freddo dicembrino, e innalzò l’orlo del cappotto fino alle orecchie.

Quel pomeriggio si sarebbero congelati durante gli allenamenti di Quidditch; forse Bartold gli avrebbe concesso di finire prima, se il meteo si fosse rivelato troppo ostico.

Fece mentalmente l’inventario dei capi invernali presenti nel suo armadio mentre percorreva il sentiero che lo avrebbe riportato a scuola.

Hagrid non era più giovane come una volta, e nelle giornate umide come quella le sue vecchie ossa cigolavano. Albus aveva preso l’abitudine di recarsi a casa sua prima dell’inizio delle lezioni per aiutarlo a prepararsi un the bollente da bere a colazione e un altro da mettere in un thermos e che il gigantesco guardiacaccia avrebbe consumato nel corso della giornata.

Era molto affezionato ad Hagrid, che trattava alla stregua di uno zio, e quello era il suo modo per dimostrarglielo; il guardiacaccia aveva provato quanto tenesse a lui mascherando alcune marachelle del gruppo di Albus negli anni precedenti.

Alitò sui guanti di lana con i colori della sua Casa, sfregando i palmi tra di loro. Il profilo della scuola si stagliava indistinto nella bruma della mattina, e Albus soffiò una nuvoletta di fiato condensato.

L’inverno stava raggiungendo il proprio cuore: si stendevano davanti a lui almeno altri due mesi di freddo gelido, passati a tremare per gli spifferi e a cercare ristoro in un bagno bollente.

Si consolò pensando che Natale era vicino, e con esso le vacanze e i festeggiamenti per l’anno nuovo. Avrebbe dovuto scegliere un giorno per vagabondare per i negozi assieme ai suoi amici, e si sarebbe ripetuta la scena di tutti gli anni in cui ogni tanto qualcuno strillava a qualcun altro di voltarsi per comprare il regalo senza essere visto dal diretto interessato.

Si bloccò di colpo, folgorato da un altro pensiero. Forse Scorpius avrebbe portato anche Margaret.

Quella ragazza non suscitava la sua simpatia, e nemmeno il suo risentimento; era semplicemente un pezzo stonato nel puzzle formato dal loro gruppetto. Pensare che sarebbe stata presente anche lei al loro rituale natalizio – che probabilmente avrebbe tenuto Scorpius per mano tutto il tempo, e forse avrebbe fatto quei versetti scemi che aveva visto fare dalle ragazze in fase di corteggiamento – gli procurava la sensazione fastidiosa di una carezza contropelo.

Stava per emettere un sonoro sbuffo, ma una figura intravista nella caligine acquosa gli fece morire il respiro in gola.

   La foschia su cui si stagliavano le ombre degli alberi rendeva l’atmosfera simile ai boschi spettrali di alcune storie dell’orrore, e Albus attribuì a quell’ambientazione lugubre il primo brivido che gli percorse la schiena.

L’uomo sfocato di fronte a lui non sembrava risentire del gelo invernale: i suoi abiti parevano più leggeri della nebbia che lo attorniava, eppure non era scosso nemmeno dal più piccolo fremito. Le maniche ampie e lo scollo sovrapposto gli ricordarono i vestiti di Haru, ma quelli dello sconosciuto erano più scuri e funerei, lo stesso colore degli stracci dei Dissennatori. Inoltre, il loro compagno indossava sempre i jeans sotto le sue particolari maglie; l’abito di quell’uomo, invece, cadeva dritto fino a terra, lasciando scoperti un paio di sandali di corda del tutto inadatti a sopportare l’aria da neve di quel giorno.

Albus stava per riprendere la sua strada quando l’individuo sollevò un braccio. Fino a quel momento aveva tenuto le mani nascoste nelle larghe maniche del suo vestito, e il giovane desiderò che avesse continuato a farlo: le dita che ne emersero erano ossute e nodose come se una sanguisuga le avesse spolpate di tutta la carne, lasciando solo una patina di pelle sull’osso.

Mosse un passo all’indietro, ed un ramo scricchiolò sotto la suola dei suoi scarponi.

L’uomo ruotò la testa a scatti fino a comprendere il tremante Slytherin nel suo campo visivo. Albus impugnò istintivamente la bacchetta quando il ghigno dell’individuo fendette la nebbia. Il sinistro sconosciuto non smise di sorridere in quel modo perverso nemmeno quando chiuse la mano a pugno, in una strana malia che fece deflagrare i vetri della biblioteca.

Lo spavento piegò le ginocchia ad Albus e gli sbarrò gli occhi, ma non sortì alcun effetto sull’uomo, che infilò nuovamente il braccio nella manica come se nulla fosse successo.

Lo sconosciuto rialzò il viso su di lui, e Albus dovette ingoiare il suo stesso grido. Aveva capito cosa lo avesse agghiacciato di quell’essere, ancor prima di metterlo a fuoco: i suoi capelli assomigliavano a serpenti di catrame, divisi in corpose ciocche che scendevano fino al petto, e il loro colore tenebroso risaltava ancora di più la pelle, talmente diafana da apparire azzurra, e gli occhi in cui il bianco della cornea si era espanso fino a comprendere iride e pupilla, creando un orribile specchio cieco.

   «Tu… conosci… Harunobu?»

Albus non riuscì a rispondere, troppo traumatizzato dall’aver sentito parlare una creatura che aveva l’aspetto di un cadavere.

L’uomo si avvicinò di qualche passo, lasciando dietro di sé una scia di orme: qualunque cosa fosse, era reale.

La mano di Albus rintracciò febbrilmente il Cercapersone nella tasca del cappotto e premette il tasto laterale, quello delle emergenze: un messaggio di allarme rosso sarebbe stato immediatamente inviato ai suoi amici.

   «Tu… conosci… Harunobu?»

   Le labbra livide dell’uomo faticavano ad articolare le parole, quasi dovessero costruirle una ad una con enorme fatica. L’inglese non era la sua lingua madre, come era ovvio dai suoi vestiti.

Le sopracciglia dell’individuo si congiunsero per esprimere rincrescimento e, un secondo dopo, Albus poté vederle da una distanza molto ravvicinata: senza emettere un suono, senza spostare un filo d’aria, lo sconosciuto si era improvvisamente accostato a lui.

   «Tu… conosci Harunobu?» sillabò irritato.

   La gola si rifiutò di collaborare, e Albus non poté fare altro che annuire, augurandosi che quelle pupille morte lo vedessero. Così fu, e una delizia scellerata stese i lineamenti dell’uomo.

   «Dove… è… adesso?» scandì, dopo essersi umettato le labbra.

   «Non lo so…» esalò Albus, terrorizzato.

   «Tu… hai detto… di conoscerlo…» si sforzò di dire l’altro, gli occhi vuoti di nuovo ribollenti di collera.

   «Non so dove sia…»

   «Tu hai…»

   Albus nemmeno si accorse di quello che stava facendo; la sua mano sgusciò fuori dalla tasca, puntò la bacchetta dritta al petto dell’uomo e la sua bocca strillò:

   «Stupeficium

   Non aspettò nemmeno di vedere l’effetto del suo incantesimo; sentì il corpo dell’altro allontanarsi con uno schianto, e le sue gambe presero a correre più furiosamente che mai.

Il portone di Hogwarts non era lontano: sarebbero bastati pochi minuti per raggiungerlo.

Il respiro affannato si condensava in una scia di nuvolette dalla sua bocca, che all’improvviso si interruppero contro qualcosa di compatto e tiepido. Ancora prigioniero nella rete del panico, Albus si dibatté forsennatamente per liberarsi di quell’impiccio sul suo cammino: la creatura d’oltretomba poteva avventarsi su di lui da un momento all’altro.

   «Siamo noi!»

   Una voce ripeté quella frase per quattro volte prima che Albus riuscisse finalmente a recepirla. Il giovane batté le palpebre per liberarsi della paura che gli impediva di vedere con correttezza la realtà, e si accorse finalmente di aver sbattuto contro a Scorpius e Nott, giunti fin lì in risposta al suo messaggio.

Si sentì travolgere da un sollievo totale, che traboccò dal suo cuore e invase tutto lo spazio circostante, e avrebbe probabilmente abbracciato i suoi amici fino a spezzare le loro spine dorsali se il terrore di poc’anzi non fosse stato così radicato in lui.

   «Dobbiamo andarcene!» si agitò, spingendoli verso la scuola. «C’è un uomo…»

Macauley lanciò uno strillo convulso e puntò un indice tremante verso di lui tartagliando, allucinato:

   «Hai… hai un lombrico… sulla spalla…»

   Albus fece appena in tempo a guardare nel punto indicato da Nott che Scorpius notò in un sibilo atterrito:

   «Non sarà quello il tuo maggiore problema…»

Scorpius rimase freddato sul posto, e Albus era ormai troppo sconvolto per avere una qualsiasi reazione; Macauley invece si esibì in una sequela di squittii disgustati e di saltelli atletici per evitare lo schifo che si stava radunando attorno a loro.

Vermi e insetti di ogni specie, forma e colore avevano stretto un orribile cerchio semovente, intrappolandoli con i loro orridi corpi. Non erano normali artropodi: la loro sagoma ricordava quelli che anche i ragazzi conoscevano da una vita, ma vi era sempre un dettaglio sbagliato, che fosse la tonalità, la grandezza o la bellicosità dimostrata dalle loro tenaglie frementi.

   Albus non perse tempo e fece scattare la bacchetta davanti alle labbra: il terrore aveva raggiunto il punto di saturazione, lasciando dietro di sé una mente spaventosamente fredda e tremendamente bisognosa di una via di fuga.

   «Focaia» recitò, soffiando sulla punta. Quella era una delle tante magie che non avrebbero dovuto conoscere, e che loro avevano imparato durante la lotta per la sopravvivenza con Achill Scholz: un fungo di fuoco si gonfiò dall’apice della verga e investì una schiera di invertebrati, carbonizzandoli all’istante.

Non vi fu bisogno di parole: tutti e tre imboccarono quella strada di fortuna alla massima velocità, ma dovettero frenare poco dopo.

Muto come uno spettro, il misterioso uomo si era materializzato davanti a loro. Osservò la devastazione dell’esercito degli insetti, e il collo stridette come se le ossa e i muscoli fossero da tempo in disuso.

   «I miei… servi» barbugliò, in compianto per la sua truppa sacrificata. Il lutto lo abbandonò presto: rizzò il capo e ripeté, per l’ennesima volta: «Dove… è Harunobu?»

   «Io… io lo strozzo, quando lo vedo!» esacerbò isterico Macauley. Aveva una reazione di rigetto verso tutte le cose che riguardavano il giapponese, ma l’essere accerchiato da un esercito di artropodi e minacciato da un tizio fresco di tomba per causa sua gli fece odiare lo studente straniero con tutte le sue forze.

   «Non lo sappiamo» prese la parola Scorpius, seguendo l’esempio di Albus e stendendo la bacchetta davanti a sé.

   «Voi… siete… di Hogwarts» brancolò l’uomo.

   «Non siamo informati di tutti i suoi spostamenti» ribatté Scorpius.

L’individuo lanciò un grido così bestiale da annullare tutti i loro pensieri e le loro reazioni; per questo Scorpius non riuscì a muoversi quando l’uomo allungò una mano sepolcrale verso di lui e gli scagliò contro un’ondata di energia malefica. La forza oscura lo colpì al centro del petto, scagliandolo contro l’albero alle sue spalle come una bambola rotta; la testa assunse un’orribile angolazione nell’urto, e la schiena produsse un rumore così forte da scuotere perfino la corteccia del vegetale.

Lo sconosciuto non poté però infierire: gli altri due studenti si pararono di fronte al loro compagno ferito, tenendo l’uomo sotto il tiro della bacchetta.

   «Dove… è… Harunobu!» ululò quello, picchiandosi la testa cava con le mani ossute.

   «Stai offrendo uno spettacolo vergognoso.»

Il viso dell’uomo parve liquefarsi e solidificarsi di nuovo come cera in una maschera di gioia distorta che raggelò il cuore a tutti i presenti. Si voltò festoso, e ignorò completamente la ragazzina dalla chioma ramata che accompagnava il giovane tanto a lungo chiamato.

Haru si guadagnò il rispetto istantaneo di Albus per la freddezza altera con cui osservò lo spettro che si avvicinava a lui.

Scorpius, dietro le schiene dei suoi amici, si issò faticosamente in piedi, le orecchie ottenebrate dall’urto che risuonavano di un discorso aspro in uno strano idioma: l’individuo misterioso e lo studente straniero si stavano affrontando in una schermaglia dialettica nella loro lingua madre.

Più l’essere tombale si infiammava, più Haru raggelava lo sguardo e le parole: anche se il significato delle loro frasi era sconosciuto, i ragazzi di Hogwarts si sentirono quasi lacerare dal tono folle dello sconosciuto e pietrificare dalle repliche atone del giovane giapponese.

   Quel giorno, il quartetto sperimentò sulla propria pelle una teoria che avevano sentito rimbalzare in molti libri e in molti discorsi: gli eventi possono degenerare con la velocità di un fulmine.

Haru disse qualcosa di particolarmente offensivo nei confronti dell’essere immondo: i suoi occhi ciechi si sbarrarono per l’ira, e i suoi artigli repellenti svettarono contro il cielo di fumo.

Rose, sebbene fosse al fianco di Haru, non riuscì a cogliere né i suoi movimenti né quelli del suo avversario; vide solo l’effetto dei loro strani incanti: lo sconosciuto aveva sputato una strana parola, e, in risposta al suo comando, gli insetti attorno a lui si erano agglomerati con un orribile suono di antenne sfregate e carne molle incollata, tingendo di un bel verde nauseato le guance di Nott. In risposta, Haru aveva mormorato a labbra strette una breve litania, e aveva strattonato il bracciale a grani che portava al polso fino a stapparlo.

   Una belva raccapricciante, con la forma di uno scarafaggio, le chele di uno scorpione e la mandibola di un coleottero, si era avventata su di loro, e avrebbe probabilmente tagliato in due il ragazzo asiatico se un terzo elemento non si fosse frapposto tra di loro: un drago argenteo dal corpo flessuoso e dallo sguardo implacabile aveva serrato le fauci sul ventre scoperto della creatura, facendola frinire di dolore.

   Haru non riuscì a voltarsi nella loro direzione, troppo concentrato a mantenere vivo l’incantesimo che permetteva al drago di muoversi, ma il suo grido risultò comunque nitido:

   «Andatevene!»

Rose non si disturbò di replicare a parole: estrasse la bacchetta e accompagnò ad un elegante gesto una semplice formula:

   «Stupeficium!»

La belva inumana barcollò insieme al suo evocatore quando il raggio magico colpì le costole rachitiche dell’uomo.

«Non giocare a fare l’eroe, Harunobu» lo apostrofò lei, sollevando di nuovo la verga per una fattura difensiva.

«Solo se tu non mi tratterai come una principessa da salvare» in quel momento, il drago troncò con un morso una chela dell’abominio, ed essa cadde al suolo frantumandosi in una miriade di insetti che corsero a nascondersi nel sottosuolo. «Weasley-san» concluse Haru, scostando un ciuffo scuro dagli occhi.

   Le dita di Albus si chiusero attorno alla bacchetta come quelle di un naufrago attorno all’ultima ancora di salvezza. Suo padre gli aveva spiegato come usare quella magia: avevano fatto pratica nel giardino dietro casa tante volte per perfezionarla. Lo aveva indottrinato a dovere sui benefici di quell’incanto. Ma non aveva mai pensato che la prima volta in cui lo avrebbe messo in pratica sarebbe stata conto un morto formato da vermi e artropodi e un uomo pronto per la bara.

Inspirò a fondo, e l’aria invernale gli corroborò i polmoni e lo spirito; prese fiato dal centro del petto e gridò la formula che suo padre gli aveva insegnato con tanta cura:

   «Expecto Patronum!»

Per qualche istante, il mondo si resse su un’immobilità totale, che fece temere ad Albus di avere disastrosamente fallito. Poi, dagli alberi immoti si levò un ululato cristallino, e il minore dei Potter poté vedere per la prima volta il suo Patronum. Era talmente bello che il ragazzo non riuscì ad associare quel magnifico esemplare ad una sua opera: un lupo gigantesco lo fissava con i suoi occhi acuti, splendido nel suo manto argenteo e nella sua muscolatura massiccia.

Albus richiuse di scatto la bocca che non si era accorto di aver spalancato quando il lupo scattò verso l’abominio, trapassandolo: l’enorme insetto quasi si rovesciò per il contatto con l’energia dell’animale del bosco, e agitò penosamente da testa, infastidito dalla sua luce pura. Il mago serrò la presa sulla bacchetta e si concentrò per sincronizzare i movimenti del suo Patronum a quelli del drago, mentre altre due verghe si levarono nella battaglia: Scorpius e Macauley seguirono l’esempio di Rose, e bombardarono il mago mefistofelico con tutti gli incantesimi offensivi del loro repertorio.

Il bosco scintillò delle luci sanguigne delle magie, ed echeggiò per i rumori della battaglia tra le creature evocate; Macauley, Scorpius e Rose marciarono in avanti quando il mago cominciò a barcollare sotto i loro incanti, facendo perdere vigore anche alla sua creatura, stordita dal lupo e ferita dal drago.

La sorpresa che li fece sussultare, però, non fu legata ad un possente contrattacco dell’individuo lugubre, ma al suo improvviso accartocciarsi su se stesso. Non si limitò a rannicchiarsi: la sua pelle si spiegazzò come una vecchia pergamena, le mani si rattrappirono allo stesso modo di un foglio di carta gettato nel camino, perfino i vestiti si curvarono al centro, coprendosi di pieghe; il viso collassò sul kimono logoro, che a sua volta si compattò in un piccolo concentrato di rughe. La sfera di tessuto semovente e incartapecorito continuò a rimpicciolirsi fino ad implodere, e quella piccola deflagrazione causò la tragica sorte della belva: le chele tremarono per il tremendo stridio che la mostruosità emise mentre il suo capo si sfaldava in una ripugnante cascata di insetti e vermi. Scorpius sentì uno strillo da donnicciola alla sua sinistra, e l’istante successivo il suo corpo era appesantito da una cinquantina di chili in più, precisamente quelli di Macauley, che gli si era gettato addosso per sfuggire all’orda di artropodi che sciamava a nascondersi nel bosco.

   «Schifose bestiacce!» sibilò Nott, pestando per bene il terreno contaminato prima di poggiarvi di nuovo il piede sopra.

   «È svanito» commentò Rose, molto più pragmatica dell’amico Slytherin. «Come è possibile?»

   «Non era l’originale. Era un doppio.»

I cinque giovani scattarono istintivamente sull’attenti quando la voce della Eeriemay li colse alle spalle.

La donna era riuscita a materializzare un paio di mocassini ai suoi piedi, in modo da non arrivare sul luogo del combattimento con i geloni, e a far sparire le fastidiose scarpe con il tacco. Gli occhi smeraldini li fissarono uno dopo l’altro, indecifrabili, e si appuntarono sulle due creature di luce argentata.

   «Albus. Harunobu. Eccellente lavoro» si complimentò. «Ora congedateli.»

   Il giapponese si chinò a raccogliere le perle del rosario e reclinò il capo in segno di rispetto; il drago gli sfiorò la fronte con il muso squamoso, dopodiché sfrecciò verso il cielo e si dissolse tra le nuvole accecanti. Albus si accomiatò più goffamente dal suo Patronum, ma il lupo sopperì alla sua mancanza di stile lanciando un secondo ululato e sparendo nel bosco con la grazia di un animale fatato.

   «Professoressa, cosa è successo?» domandò Scorpius, la schiena addossata all’albero contro cui si era schiantato: ora che l’adrenalina della battaglia era scomparsa, poteva avvertire con chiarezza quanto la dura corteccia lo avesse scorticato.

   «Era pieno di insetti!» sberciò isterico Nott.

   «Come è possibile che sia scomparso in quel modo?» protestò Rose.

La professoressa utilizzò un gesto perentorio da direttore d’orchestra per imporre il silenzio ai suoi febbricitanti allievi.

   «Avrete le risposte che volete. Ma prima dovete andare in infermeria. Alcuni di voi sembrano averne bisogno» la Eeriemay condì il tutto con una vistosa occhiata a Scorpius. «Lasciate che Madamina vi curi. E dopo parleremo.»

I giovani annuirono e si affrettarono a seguire l’insegnante per il sentiero che portava a Hogwarts. Macauley e Albus aiutarono Scorpius a camminare, improvvisandosi stampelle umane, mentre Rose e Haru li precedettero in testa.

La Eeriemay fermò tutto l’eterogeneo gruppetto a metà strada per un importante annuncio.

   «Avete sconfitto un doppio da soli. Sono vostra responsabile e non dovrei dirlo…»

Il sorriso che le solcò le labbra meno truccate del solito fu il più genuino che le avessero mai visto esibire dall’inizio del primo anno.

   «Sono fiera di voi.»

 

***

 

   «Mi chiedo cosa intendesse dire.»

   «Forse che è orgogliosa del nostro operato.»

   «Mi chiedo se non ci sia qualche significato nascosto.»

   «Tu sei troppo cervellotica, Weasley-san. Forse, a volte, le persone intendono dire semplicemente ciò che dicono.»

   «Non accetterò una simile predica da te, Harunobu.»

   Il giapponese preferì iniziare una muta discussione con le sue dita intrecciate che proseguire quella con Rose. Madamina li aveva spediti fuori dall’infermeria quasi istantaneamente: non avevano riportato alcun danno, al contrario di Scorpius.

   «Non hai usato la bacchetta per evocare quella… cosa.»

   L’asserzione di Rose lo colse del tutto impreparato, per cui gli occorse qualche secondo in più del consueto per rispondere:

   «È uno shikigami. L’equivalente orientale dell’evocazione di tuo cugino. Basta il rosario per richiamarlo» il giapponese lanciò un’occhiata di rammarico al suo polso nudo. «Dovrò farne uno nuovo.»

   «Quindi è questa la tua specialità?»

   Haru la fissò in silenzio dietro gli occhiali, e Rose scelse con cura le parole per chiedere:

   «Gli incantesimi della tua terra.»

   La nostalgia assottigliò gli occhi a mandorla del ragazzo, e per un attimo la giovane poté cogliere il vero significato della malinconia nelle sue iridi offuscate.

   «Sì. Quelli sono la mia specialità» concluse lui.

   Entrambi fissarono il soffitto prima che uno dei due trovasse la frase giusta per interrompere quel silenzio.

   «Hai combattuto bene» si complimentò Haru.

   «Anche tu. Il drago è stato molto d’effetto» restituì Rose.

Il soffitto magnetizzò di nuovo gli sguardi di entrambi, e questa volta fu la ragazza a parlare.

   «Perché siamo rimasti qui ad aspettare, anche se Madamina ha detto che è tutto a posto?»

   Il motivo comparve in quel momento sulla porta dell’infermeria: Louis uscì con lo sguardo abbassato ed un sorriso sommesso, segnali che la diagnosi non era stata rosea come sperava ma nemmeno catastrofica come immaginava.

   «Louis-san» lo chiamò Haru. Il piccolo si voltò verso di lui, il visetto grazioso rannuvolato dal sospetto: non conosceva lo studente straniero, eppure lui lo aveva appena chiamato per nome. Provava un’istintiva diffidenza nei confronti degli sconosciuti che sembravano essere al corrente dei suoi dati personali.

   «Devo solo farti qualche domanda su quello che è successo in biblioteca» l’espressione ostile del più giovane non mutò, ma l’asiatico proseguì imperterrito: «Valentine ti ha salvato?»

Louis annuì, senza perdere il suo grugno poco minaccioso. Ancora non capiva come il giapponese avesse scoperto il suo nome o perché conoscesse gli avvenimenti della biblioteca.

   «Ed è intervenuto prima o dopo lo scoppio dei vetri?»

   «Mi ha buttato sotto il tavolo un secondo prima dell’attacco» rispose cauto il piccolo.

   «Come se avesse saputo in anticipo cosa sarebbe successo.»

Haru sussurrò a se stesso quella affermazione, ma non fu abbastanza sottile: anche Louis la udì, e si accorse anche dell’espressione investigativa dell’orientale. Tutto ciò ebbe su di lui l’effetto del morso di un serpente; scattò all’indietro e obiettò con rabbia:

   «Valentine non è coinvolto.»

   «Non ho mai detto questo.»

   «Ma lo stavi insinuando» Louis rizzò il capo biondo e dichiarò, con la voce bianca il più possibile stentorea: «Non mi importa cosa pensi: Valentine mi ha salvato. E questo non cambia.»

   La matricola non ascoltò una parola di più: girò su se stesso e scomparve nel corridoio il più velocemente possibile.

   «La prossima volta, prova con un approccio più gentile» consigliò Rose, divertita dal cipiglio con cui Louis aveva tenuto testa al giapponese.

   «Non avevo detto nulla» si difese Haru. «A quanto pare, non sei l’unica a vedere sottintesi ovunque, Weasley-san.»

L’asiatico sopportò la successiva ramanzina con la remissività di chi sa di avere la coscienza sporca.

Quella volta, era davvero presente un’insidia nelle sue parole, e il piccolo l’aveva colta.

Era convinto che Valentine fosse in qualche modo coinvolto, o che perlomeno fosse a conoscenza di quell’attacco.

In fondo, quel ragazzo li aveva già traditi una volta.

Non avrebbe esitato a farlo di nuovo, se gli si fosse presentata l’occasione giusta.

E loro avrebbero dovuto essere preparati per quel giorno.

 

***

 

   Scorpius toccò nervosamente il vistoso collare che Madamina gli aveva allacciato addosso a tradimento.

   «Ora capisco come si sentono i cani» brontolò, cercando la striscia adesiva che teneva quell’orrore attaccato al suo collo.

   «Madamina ha detto che era necessario» cercò di addolcirlo Albus.

   «Sai come si chiama questo?» Scorpius ticchettò le dita sul collare e proclamò: «Vendetta. Da quella volta che sono caduto a Quidditch e ho continuato a giocare anziché venire in infermeria.»

   «Non credo che Madamina sia così rancorosa.»

   «Io credo che la memoria di Madamina sia più ferrea di quanto immaginiamo.»

   La bocca di Albus si piegò in un sorriso sfumato quando i suoi occhi dirottarono sul proprio polso: Madamina era stata più clemente con lui, e gli aveva appiccicato un misero cerotto su una piccola escoriazione. Non si era invece risparmiata con Scorpius: lo aveva ficcato a forza nella branda ospedaliera e gli aveva avviluppato il collo con quell’infernale strumento medico, dicendo che il colpo era stato più forte del previsto e che avrebbe dovuto riposarsi.

   «Non vai a lezione?» s’informò Scorpius, godendosi l’unica cosa buona di quel soggiorno forzato: i morbidissimi cuscini dell’infermeria dietro le spalle.

   Albus scosse la zazzera corvina.

   «La Eeriemay ha detto che potevamo prenderci una giornata di libertà. In fondo, oggi abbiamo rischiato di morire.»

   «Per noi non è una grossa novità. Ti ricordi le Scholzioni extra che abbiamo dovuto fare?»

   «Intendi quella volta che ci ha buttato in una tana di Gorgoni nane?»

   «O quella in cui abbiamo dovuto cacciare un Orso Antropomorfo.»

   «O quando abbiamo affrontato una legione di Termiti Sanguinarie.»

   «Abbiamo il passato di un veterano di guerra» esalò Scorpius, passandosi una mano sugli occhi. «E abbiamo solo quattordici anni. Immagina cosa potrà succedere quando ne avremo trenta

   «Una cosa è certa» profetizzò Albus. «Avremo un sacco di aneddoti per i nostri nipotini.»

   Scorpius ebbe una proiezione mentale di loro due, vecchi e canuti, mentre intrattenevano un pubblico di mocciosetti con i racconti delle loro mirabolanti avventure: immaginò Albus salire sul bastone da passeggio come se fosse una scopa, e lui mulinare gli occhiali in giro per scimmiottare la bacchetta. Il quadro complessivo fu così comico che una risata zampillò spontanea.

   «Anche gli altri hanno il pomeriggio libero?» chiese Scorpius.

   «Non Rose e Haru» annunciò Albus, senza aggiungere il motivo: sarebbe stato innaturale che i due cervelloni del gruppo rinunciassero alle loro beneamate nozioni quotidiane. «Credo che Nott sia impegnato in un’opera di disinfestazione totale del suo corpo.»

   «E tu hai intenzione di sprecare il tuo pomeriggio in infermeria?»

   «Non fare il sarcastico. Sono infortunato anche io» contestò Albus, facendo svettare il microbico cerotto.

   Scorpius preferì affondare la schiena nel cuscino piuttosto che stuzzicare ancora il suo amico, e Albus ne approfittò per rendere più comoda la sua posizione: era piazzato su una sedia a lato del letto del compagno, e sfruttò una parte libera di materasso per appoggiarvi le braccia incrociate e usarle come cuscino.

Le emozioni della mattinata lo avevano talmente sfinito che trascorsero solo pochi minuti prima che il suo respiro si appesantisse in un sonno esausto.

Scorpius sollevò la testa, per quanto il collare rigido gli permettesse, e studiò l’amico. Del loro gruppo, Albus era quello che più di tutti manteneva ancora dei tratti infantili, visibili nelle guance tonde e negli occhi grandi, ora chiusi nel sonno. L’adolescenza si stava pian piano facendo strada nella linea della mascella, nelle spalle e nei centimetri di altezza guadagnati, ma non aveva ancora cancellato del tutto il bambino che Albus era stato.

Scorpius allungò una mano per accarezzare i capelli corvini del ragazzo, godendosi quella serenità: era tanto tempo che non parlavano con tranquillità, ed era assurdo che fossero riusciti a farlo solo dopo essere stati quasi uccisi da un mago scheletrico. Ed erano parecchi giorni che lui e Albus non si ritrovavano a chiacchierare nello stesso letto. Anche in quel caso, la branda di un’infermeria non era prevista nelle sue ipotesi di riconciliazione, ma era comunque gradita, se serviva a recuperare il loro vecchio legame.

Scorpius si rilassò in quella pace familiare, senza accorgersi di avere accarezzato i capelli dell’amico tutto il tempo.

Forse Madamina aveva ragione: avrebbero fatto meglio a riposarsi tutti e due.

 

***

 

   Margaret Finnigan arrivò in infermeria con le labbra spalancate dal fiatone.

Aveva saputo che Scorpius era stato ferito, e si era precipitata a verificare le sue condizioni.

Si fece dire da Madamina il numero della stanza e decelerò il passo solo in prossimità della porta, per evitare di disturbarlo in caso stesse riposando.

Girò la maniglia e fece ruotare piano i cardini per sbirciare all’interno. Rischiò di rovinare tutte le sue premure quando la sorpresa minacciò di farle scoppiare sulla bocca una rumorosa esclamazione.

   Scorpius era steso sul letto, la testa rialzata da due cuscini e un collare medico attorno alla gola. Gi occhi erano chiusi in una rilassatezza totale, e le labbra erano piegate in una curva dolce che sapeva di serenità. C’era però un dettaglio non previsto, in quell’idillio: accanto al suo ventre riposava Albus, la testa appoggiata sulle braccia conserte che ne nascondevano il viso, la cui unica parte visibile erano le ciglia che scurivano leggermente gli zigomi con la loro ombra.

La mano di Scorpius era appoggiata sui capelli di Albus, con le dita intrecciate alle ciocche di ebano, prova che il giovane non aveva solo posato il palmo sulla nuca del compagno, ma gli aveva accarezzato i capelli ripetutamente.

   Margaret sentì la necessità di deglutire, mentre richiudeva la porta. Da quando stavano insieme, Scorpius l’aveva toccata a malapena: era sempre lei a prendere l’iniziativa per tenergli la mano, e lui l’abbracciava solo quando lei glielo chiedeva.

Era una condizione abbastanza umiliante per cominciare una relazione, ma era convinta che presto Scorpius si sarebbe abituato a lei, e tutta quella timidezza si sarebbe dissolta. Fino a quel momento: non si era mai dimostrato altrettanto serafico in sua presenza, anzi, c’era sempre qualcosa di artificioso nei suoi movimenti, come se non sapesse esattamente come comportarsi e si stesse attenendo ad un copione scritto da altri.

Che senso aveva essere la sua ragazza, se aveva più intimità con i suoi amici che con lei?

Scrollò la testa e uscì dall’infermeria.

Era venuta per assistere Scorpius, ma era chiaro che non era della sua assistenza che aveva bisogno.

 

***

 

   Nott sobbalzò sul letto quando bussarono alla porta.

Erano passati quattro giorni dall’attacco del mago dei vermi, ma il terrore di quell’esperienza non era ancora svanito: da allora, i suoi incubi si erano popolati di insetti giganteschi e sporchi che piovevano da tutte le parti, attentando alla sua incorruttibilità igienica.

   Fortunatamente, fu qualcosa di più pulito e profumato ciò che si presentò dinanzi a lui quando aprì la porta: la Eeriemay lo scrutò dall’alto dei suoi tacchi laccati e domandò, senza nemmeno salutare:

   «Scorpius è stato dimesso dall’infermeria?»

   «Sì…»

   «Allora raduna il tuo squadrone, Macauley. Vi voglio davanti al pipistrello entro dieci minuti, d’accordo?» lo lisciò vezzosa, allungandogli un buffetto sulla guancia.

   Nott stava per replicare su quanto il contatto fisico non richiesto fosse socialmente, psicologicamente e batteriologicamente sbagliato, ma la professoressa si era già volatilizzata nel dedalo dei corridoi.

Sbuffò sonoramente, e afferrò il Cercapersone per facilitare la ricerca.

    All’orizzonte si prospettava un’altra megagalattica serata. E non era sicuro di essere felice di quella prospettiva.

 

 

 

 

 

 

 

Eccomi di nuovo qui<3

Alcune dichiarazioni da fare in merito al capitolo: gli origami sono animali, fiori o altro ottenuti mediante l’arte orientale di ripiegare un foglio di carte. Gli shikigami, invece, sono degli spiriti che possono essere evocati dagli onmyouji (specialisti di arti esoteriche e divinazione), esattamente come i famigli dei maghi occidentali.

Questo capitolo introduce un po’ il tema della magia orientale… che sarà spiegato e meglio analizzato nei capitoli a seguire, non temete<3

Ancora una volta, mi scuso profondamente per il ritardo .-. Per evitare un altro catastrofico allungamento dei tempi di pubblicazione, ho già cominciato a scrivere il capitolo successivo, e sono a metà… spero quindi di pubblicare in tempi più brevi XD

Come sempre, grazie a tutti per essere arrivati fin qui<3

A presto!

Red

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Capitolo 8
*** Natale ad Hogwarts ***


4

Natale ad Hogwarts

 

 

 

   La statua a forma di pipistrello sembrava sbarrare le fauci per la perplessità, quella sera.

Davanti a lei erano radunati un giapponese, un piccoletto dagli occhi verdi, un signorino altolocato, uno strano essere in mascherina e guanti di lattice e una ragazza che tentava di rimediare all’intrico di riccioli rossastri con le dita.

Era la prima volta nella sua vita marmorea che assisteva allo schieramento di uno squadrone così male assortito. Ed il ragazzo che temeva una guerra batteriologica stava guardando malissimo i suoi arti di pietra.

   «La prof avrebbe anche potuto dirci come si apre, questo affare» sbottò Macauley.

   «In realtà lo ha fatto» lo redarguì Haru, garbato.

   «E quando?»

   «All’inizio dell’anno. Io so come si accede a questa sezione del castello.»

Due occhi castani sgranati dall’irritazione gli incendiarono le guance.

   «E perché non l’hai detto prima

   «Perché tu non me l’hai chiesto.»

   «Respira, Nott» il consiglio di Scorpius lo raggiunse un secondo prima di mettere in atto i suoi loschi piani, e fu così che il collo del giapponese non venne ghermito dagli esasperati artigli di lattice.

   «Puoi aprirlo?» propose Albus, in attesa che la pressione di Nott scendesse di nuovo a livelli umani.

Haru si portò davanti alla statua, e tracciò uno strano segno sulla sua ala sinistra. Il pipistrello sbatté le palpebre di granito, conficcò le grinfie nel suo basamento e cominciò a sbattere furiosamente le ali, sollevando il pesante cilindro di marmo da terra.

   «Che significa?» si schifò Nott, osservando critico il buco oscuro che la statua aveva aperto.

   «Dobbiamo gettarci di sotto» spiegò Haru. «La professoressa ha incantato il pavimento in modo che il nostro atterraggio sia morbido.»

   «Non pretenderà che noi…» il resto della frase sfumò in uno squittio di raccapriccio: sprezzante del pericolo, Rose aveva stretto la coda che legava la sua chioma ramata e si era gettata nel precipizio ombroso. Punto nel suo orgoglio virile, Scorpius si lanciò subito dopo di lei: i Giganti delle Montagne sarebbero diventati educati come un principe prima che qualcuno potesse dire che un Malfoy aveva meno coraggio di una donna. Haru saltò subito dopo di loro e, di fronte alla statua ansante per la grande fatica, rimasero solo Albus e Nott. E in pochi secondi rimase solo Macauley, che spinse il compagno nell’abisso con grande galanteria.

Albus non riuscì nemmeno ad urlare: l’aria gli premette contro la faccia, bloccandogli le grida e storcendogli la bocca come quella dei cani che sporgono la testa dal finestrino in autostrada. Emise un rantolo agonizzante quando all’improvviso la gravità si invertì, facendogli compiere una capriola su se stesso: l’aria sembrò farsi più densa, rallentando la sua caduta, che terminò contro un pavimento soffice. In verità, non era tanto morbido quanto molle: il minore dei Potter ebbe l’impressione di essere finito in un enorme bacile di formaggio parzialmente cagliato, che si muoveva come un essere vivo sotto i suoi piedi, facendolo ruzzolare ad ogni nuovo tentativo di muovere un passo. Un tonfo sordo si afflosciò a pochi passi da lui, e capì che anche Nott li aveva raggiunti.

   «Lumos» sentì recitare dalla cugina nelle tenebre, e la luce accesa sulla punta della sua bacchetta rischiarò l’atmosfera circostante.

Haru non sembrava avere particolari problemi di equilibrio: seguiva i movimenti ondulatori del pavimento con enorme scioltezza, allo stesso modo di un domatore che asseconda una tigre. Scorpius aveva trovato un alleato nel muro, cui si era appoggiato per non essere rovesciato dalle strane mattonelle semoventi; Rose aveva rinunciato alla posizione eretta e procedeva strisciando come un militare tra le linee nemiche. Nott avanzava a passi alternati, passando dalla posizione carponi a quella sdraiata ad una vagamente dritta, mentre Albus decise di farsi strada stando il più acquattato possibile.

   «Un’esperienza… singolare» commentò Haru, una volta raggiunta una porzione di pavimento piacevolmente stabile.

I brontolii di Macauley furono ammortizzati dalla nausea feroce che gli serrava la bocca dello stomaco; Scorpius approdò sul suolo immobile e aiutò Albus a raggiungere a sua volta quel punto sicuro. Rose rifiutò ogni aiuto mascolino, e si drizzò in piedi con le sue sole forze, sentendosi portatrice della forza femminile come le suffragette francesi.

   «Da che parte dobbiamo andare?» s’informò Albus, accendendo a sua volta la bacchetta come aveva fatto la cugina poc’anzi.

Il giapponese indicò loro uno stretto corridoio che furono costretti a percorrere in fila indiana per evitare il “potenzialmente fatale contatto con quelle pareti sporche e marcescenti”, secondo le tragiche previsioni di Nott.

Raggiunsero una porta dopo un breve cammino, e Scorpius, che apriva la fila, bussò tre volte prima che il legno ruotasse spontaneamente sui propri cardini.

Al contrario dello strampalato atrio dal pavimento molliccio, l’interno fu molto gradito dagli studenti: entrarono in una stanza accogliente dal mobilio comodo e sobrio, ben riscaldata da un caminetto intagliato nella parete a nord e bene illuminata grazie all’ausilio di globi fluttuanti che spandevano una luce calda,.

   «Benvenuti» li accolse la Eeriemay, seduta su una poltrona al centro della stanza.

I suoi alunni furono quasi turbati nel vederla senza i suoi soliti completini mozzafiato: indossava una tuta bianca priva di fronzoli, e perfino il viso sembrava accordarsi con quell’aria di essenzialità, ripulito da qualsiasi traccia di trucco.

   «Professoressa…?» la fuggevole intonazione interrogativa venne captata dalle orecchie della donna, che minimizzò brevemente:

   «Ogni tanto è giusto sacrificare l’eleganza alla comodità. Prego, sedetevi.»

Ad un suo cenno, le poltrone asserragliate ai lati della stanza si appropinquarono goffamente verso gli ospiti, zampettando sulle gambe grassocce.

Macauley fu l’ultimo a sedersi, troppo impegnato a notare come la tuta della professoressa fosse perfettamente immacolata – impresa quasi titanica, visto il bianco splendente del tessuto - e come il suo viso, senza l’opera dei cosmetici, apparisse molto più pulito. La poltrona lo colpì sul retro delle ginocchia, rovesciandolo sulla propria imbottitura bordeaux.

   La professoressa accavallò le gambe, azione che sembrò molto meno indecente del solito senza la classica minigonna, ed esordì:

   «Immagino che avrete delle domande da farmi.»

   Albus fece scorrere lo sguardo sui suoi colleghi: Rose non sembrava intenzionata a prendere la parola, Haru non pareva sentirne la necessità, Scorpius stava riordinando le idee e Macauley era perso in qualche altro pensiero. Non si sentì colpevole nel cominciare:

   «Perché succede sempre a noi?»

Ricordava bene i racconti di suo padre: in tutta Hogwarts, le avventure più fantasiose erano capitate a lui, a zio Ron e a zia Hermione poiché Voldemort aveva intenzione di terminare il lavoro lasciato incompiuto tanti anni prima. Se qualcuno di loro era entrato nel mirino di un pericoloso mago oscuro, i loro giorni di tranquillità potevano considerarsi finiti.

La Eeriemay scosse i capelli, lasciati liberi di scendere sulle spalle.

   «La prima volta è stato totalmente casuale, Potter. Questa volta, invece, il mago aveva uno scopo preciso.»

Rose notò Haru annuire gravemente, ma dovette distogliere subito l’attenzione perché la professoressa continuò:

    «Quello contro cui avete combattuto, però, non era il mago originale. Era una sua copia. Per questo è sparito in quel modo» le labbra si arricciarono, vezzose e polemiche, prima di aggiungere: «Ed è anche per questo che siete riusciti a sconfiggerlo. Altrimenti non ce l’avreste mai fatta.»

  «Ma se abbiamo sconfitto il suo doppio…» la protesta di Macauley si infranse contro la mesta replica di Haru:

   «Tu non sai quanto lui faccia paura.»

La Eeriemay schioccò le dita per ottenere di nuovo l’attenzione dei suoi studenti, deviata sul giapponese.

   «Questo attacco è stato una prova di forza. Quel mago voleva dimostrare di potersi infiltrare ad Hogwarts perfino con una piccola parte del suo potere» la bocca rosea della prof si chiuse su quel punto, stizzita. Avrebbe voluto dire che quell’incantatore era un arrogante e un ciarlatano, ma non poteva, perché aveva effettivamente eluso i sistemi difensivi di Hogwarts, e l’aveva fatto mentre la scuola era forte dei suoi insegnanti, votati alla sua protezione. Non era un folle qualunque da sottovalutare.

   «Il primo attacco non è stato molto elegante, come infiltrazione» si permise di far notare Scorpius.

   «Il primo non era un’infiltrazione; era un attacco frontale per provare la sua potenza» precisò la Eeriemay.

   «Con quella bestia bavosa?» inorridì Macauley, issando istintivamente la mascherina.

   «Perché ha cambiato rotta in questo modo?» obiettò Rose. «Il primo attacco era piuttosto sconclusionato. Questo invece sembrava progettato.»

La Eeriemay fissò Haru, spingendo così i suoi allievi a fare lo stesso. Non era lei a dover fornire delucidazioni a riguardo.

   «Perché ora ci sono io, a Hogwarts» asserì l’asiatico, con un filo di voce.

   Haru non era una persona famosa per la sua loquacità o per la sua esuberanza istrionica: parlava pacato, canzonava con eleganza e rideva mascherando il sorriso con la mano. Ma perfino su una persona così dimessa quel tono sembrò troppo flebile.

   «Tu sei il suo obiettivo?» al cenno affermativo di Haru, Rose insistette: «Per quale motivo ce l’ha con te?»

   «Perché gli sono subentrato nella successione al Clan.»

   L’unica faccia che non lo fissò con la confusione dipinta in volto fu quella della professoressa, già al corrente del passato dello studente straniero. Haru sospirò, tolse gli occhiali, li ripulì e li inforcò di nuovo, ma, nonostante le lenti fossero impeccabilmente linde, tenne gli occhi chiusi nel raccontare:

   «Ve lo spiegherò nel modo più semplice possibile: un Clan è un nucleo familiare, ed è guidato dal Capoclan, che è scelto tra i primogeniti maschi.»

Rose espresse il suo malcontento con un colpo di tosse in cui era possibile decifrare: “sessisti!”, che Haru sorvolò con un sorriso diplomatico.

   «Il Capoclan attuale è mio nonno. Io sono il suo erede.»

   «E perché questa cosa dovrebbe infastidire quello sciroccato?» sparò con assoluta mancanza di tatto Nott.

La vita sembrò defluire dal fisico del giapponese; per un attimo, tutti i ragazzi di Hogwarts ebbero l’impulso di correre in suo aiuto e sorreggerlo, perché il giovane parve afflosciarsi come un sacco di canapa svuotato. Drizzarono tutti la spina dorsale contro lo schienale in riflesso al guizzo con cui l’asiatico si riappropriò della sua compostezza, eccessiva per un quattordicenne.

   «Perché all’inizio era lui l’erede.»

La comprensione cedette il passo all’orrore quando Haru specificò, la mascella serrata dai ricordi dolorosi: «Era mio cugino.»

   «Era?» notò Scorpius.

Le orbite di Albus quasi spararono fuori gli occhi dalla violenza con cui si aprirono, e il giovane miagolò:

   «Vuoi dire che… è morto?»

   «Abbiamo combattuto contro un…» annaspò Macauley, più preoccupato dai morbi importati dal paese dei defunti che dall’effettiva probabilità di essersi scontrato con uno zombie.

   «No, non è morto. Non fisicamente, almeno» Haru riaprì gli occhi, e restituì uno sguardo fermo a quello spaesato degli altri ragazzi. «Ci sono delle prove da superare, per diventare Capoclan. Si affrontano per lo shicigosan

   «Il cosa?» brancolò Albus.

  «A tre, cinque e sette anni» chiarì Haru. «Mio cugino fallì durante la seconda prova, quella cui venne sottoposto a cinque anni» il giapponese sfoderò un’espressione adamantina per far capire che non sarebbe sceso in ulteriori dettagli sulle prove che i prescelti dovevano affrontare: il suo Clan era legato alle tradizioni, e queste volevano che alcune informazioni non uscissero dai confini della famiglia. «Ma non accettò mai il suo fallimento. E la sua rabbia crebbe quando vide che io, al contrario, ero riuscito a superarla.»

Il fuoco nel camino riempì il silenzio con il suo crepitio. Ad Haru occorsero tre profondi respiri prima di riuscire a rivelare:

   «Durante la terza prova, cercò di risolvere il problema alla radice.»

   «Ha a che fare con le cicatrici che hai sulla schiena?»

Se Rose avesse lanciato una bomba a mano, forse l’effetto sarebbe stato meno devastante: tutti i presenti saltarono sul posto, compresa la Eeriemay, che non si aspettava che la sua allieva fosse a conoscenza di quel dettaglio sul ragazzo straniero.

   «Dallas le ha viste per caso. E per caso lo ha raccontato a me» si discolpò Rose di fronte agli sguardi accusatori dei presenti.

Il sangue faticò a colorare di nuovo le guance mortalmente sbiancate di Haru, che articolò infine:

   «Sì, ha a che fare con quelle.»

Si alzò dalla poltrona e si girò in modo che il suo piccolo pubblico potesse vedere con chiarezza la sua schiena. Allentò i bordi della maglia, che scivolarono sulle spalle scoprendo il dorso.

Il respiro si bloccò a metà tra la gola e il naso, e tutti quanti si esibirono in strane smorfie per riuscire a riempire di nuovo i polmoni di ossigeno.

Nei film si vedevano spesso scene di quel genere, ma non erano paragonabili al raccapriccio della realtà: la cicatrice più visibile era quella sulla spalla sinistra, frastagliata laddove la carne si era incuneata sotto il pugnale, e collegata da un filo di pelle in rilievo alla seconda, di cui era visibile solo la sommità irregolare dal bordo obliquo della maglia. Raccontavano con estrema crudeltà la storia che le avevano portate ad increspare la pelle del giovane: Rose si sfregò le mani sulle braccia per contenere i brividi quando le parve di vedere l’arma ancora conficcata nei muscoli del ragazzo.

   «Il nonno mi ha salvato» riprese Haru, ruotando le spalle per infilarsi nuovamente la maglia a kimono e procedendo ad allacciare la fascia in vita. «Ha disconosciuto mio cugino nel modo più totale: l’ha cacciato dalla famiglia e gli ha assegnato un kaimyou. Un nome postumo, che si dà solo ai defunti» tradusse, accomodandosi di nuovo sulla poltrona. «In pratica, mio cugino è morto per qualunque mago orientale: non riceverà da loro alcun aiuto o conforto. È il prezzo da pagare per la sua scelleratezza, secondo il nonno.»

   «Quindi è tornato per ucciderti?» chiese senza peli sulla lingua Nott.

   «E per riprendere il posto di erede. Dice che sono un usurpatore» ridefinì Haru.

   «Perché hai deciso di venire ad Hogwarts?» chiese invece Rose.

Questa volta fu la professoressa a rispondere:

   «Si può dire che sia un effetto della globalizzazione. Da quando il mondo è diventato più piccolo, ci sono stati molti teorici a vedere con favore una possibile fusione tra la magia occidentale e quella orientale. Una cosa del genere è ancora un’utopia, e forse lo resterà: le differenze di base sono infinite, e molto profonde» Haru asserì in silenzio, e la Eeriemay si sentì autorizzata a proseguire: «Tuttavia è possibile arrivare ad una cooperazione tra incantatori; da qualche anno, alcuni maghi hanno dato vita a una specie di quartier generale della magia internazionale. È un luogo in cui si riuniscono incantatori di tutti i paesi, e si formano gruppi d’azione misti adibiti dalle più svariate mansioni» la Eeriemay sfoderò un sorriso smagliante nell’annunciare: «Il nostro Harunobu è uno dei membri di questa associazione.»

   «Lui?» scattò Macauley. «Ma non è ancora diplomato…»

   «Non lo sono ad Hogwarts, ma possiedo già un diploma» lo contraddisse tranquillo Haru.

   Le sopracciglia ramate di Rose si sollevarono per il dubbio.

   «Quanto dura la scuola di magia in Giappone?»

   «Esattamente quanto la vostra.»

   «Ma tu…»

   «Ho finito il percorso di studi con un poco di anticipo» si schermì, con un piccolo rossore di orgoglio per il suo talento innato.

I ragazzi di Slytherin lo fissarono come se si fosse improvvisamente trasformato in un’idra a tre teste: come era possibile che la Natura avesse creato un essere con più cervello di Rose? Era umanamente, biologicamente impossibile.

   «Non vi abbiamo ancora detto perché Harunobu è venuto fino a Hogwarts» la Eeriemay si riappropriò delle redini del discorso. «Pare che gli incantatori oscuri siano giunti alle nostre medesime conclusioni» la donna si dilungò in una pausa meditativa prima di asserire: «E alle nostre stesse soluzioni.»

   «Quindi esiste una lega internazionale anche per i maghi oscuri?» si sorprese Albus.

   «Non sappiamo se siano organizzati fino a quel punto» ammise la Eeriemay. «Ma alcuni gruppi stanno tentando degli… esperimenti.»

   «Esperimenti?» le fece eco Scorpius.

   Le unghie della Eeriemay piroettarono sulle ginocchia, e si fermarono solo quando la professoressa spiegò:

   «Ricordate il mostro del primo anno? Abbiamo analizzato con cura il campione che ho prelevato» perfino da dietro la mascherina fu visibile la smorfia nauseata di Nott. «Non è riconducibile a nessuna fattura già esistente.»

   «Quindi stanno cercando di creare un… nuovo tipo di magia?» azzardò Rose.

   «Precisamente» puntualizzò la Eeriemay. «E non possiamo permetterci di rimanere indietro: se davvero i maghi oscuri si stanno muovendo in questa direzione, anche noi dobbiamo elaborare incantesimi originali» sbatté le palpebre con superiorità in reazione alle espressioni sconcertate dei suoi studenti. «Non siate così sorpresi. La magia muta in continuazione: le belve stregate sviluppano una resistenza particolare agli incantesimi che le debellano, dopo un certo periodo, e per questo la magia deve essere costantemente rinnovata.»

   «Quindi Haru è venuto qui per trovare degli alleati?» incalzò Rose.

   «Colleghi di studio, per la precisione» sottolineò composto il giapponese. «Persone capaci, che siano interessate a cercare forme di magia alternativa, e a formare gruppi d’azione con incantatori di diverse nazionalità.»

   Albus fissò Scorpius, vedendo specchiata sul volto dell’amico la sua stessa perplessità: le capacità di Rose erano una leggenda in tutta Hogwarts, ma loro non si distinguevano per una media astronomicamente alta o per interventi particolarmente brillanti. Se non fossero stati figli dei loro famosi o famigerati padri, probabilmente sarebbero stati riconosciuti solo per via del Quidditch.

E la presenza di Nott in un simile progetto era ancora più anomala: era uno studente zelante, ma che contributo poteva dare alla ricerca chi disinfettava l’aria stessa prima di respirarla?

   Gli occhiali risalirono il naso dell’orientale, prima che questo parlasse:

   «Vi ho visto lottare contro il doppio di mio cugino: pochi studenti avrebbero avuto il vostro stesso sangue freddo.»

   «Non puoi giudicarci solo per un episodio» confutò Scorpius.

   Haru sorrise accondiscendente, reclinando appena la testa su una spalla.

   «Siete riusciti a fronteggiare una belva a soli undici anni.»

   «Ci hanno salvato i prof» ammise vergognoso Albus.

   «Siete stati allenati da Achil Scholz. Mi dicono che non sia facile sopravvivere ai suoi addestramenti» proseguì pacifico.

Nessun dei due interpellati osò replicare: avevano salvato la pelle per misericordia divina durante quegli infernali allenamenti.

   «Noi non siamo stati presi sotto l’ala protettrice di Achil Scholz» replicò aspro Macauley.

   «C’è chi riesce a superare le proprie paure per aiutare gli amici» elencò Haru, fissando prima Nott e poi Rose. «E chi spicca per l’eccellenza negli studi.»

Le parole di Haru seminarono una manciata di disorientamento imbarazzato sulle facce dei presenti, che non si aspettavano simili complimenti dal distaccato giapponese, né di essere selezionati per un progetto così importante a soli quattordici anni.

   «Ovviamente, non pretendiamo una risposta immediata» li rilassò la Eeriemay. «Avrete tutto il tempo di pensare. Ma dovevate sapere, era un vostro diritto. E l’abbiamo rispettato.»

   Nessuno ricordò con esattezza se quella stanza fu sede di altre discussioni: rimasero tutti invischiati nella densa palude della riflessione e del dubbio, e rimasero in quella sospensione plasmatica finché non risalirono lo strano corridoio assieme alla professoressa.

Solo Haru fu abbastanza lucido per bloccare un attimo Rose, una volta usciti dal basamento del pipistrello, e farle notare:

   «Non mi hai chiamato Harunobu come al solito, prima.»

   La ragazza si strinse nelle spalle con noncuranza e sdrammatizzò:

   «So che odi il tuo nome completo.»

   «Questo non ti ha impedito di chiamarmi così fino ad oggi pomeriggio» evidenziò Haru.

   «Non essere troppo pignolo» sibilò Rose, assottigliando gli occhi per apparire più intimidatoria.

   Il giapponese scosse appena la testa, un abbozzo di sorriso negli occhi neri.

      «È un nome da nonni. Per questo preferisco Haru.»

      «Cercherò di chiamarti così. Se non mi farai arrabbiare» concesse con simulato dispotismo lei.

   «Ti ringrazio per la cortesia» l’asiatico si inchinò brevemente, e incrociò le sue iridi onice con quelle nocciola della ragazza solo sul finire del commiato: «Rose-san.»

   Rose non era una ragazza che arrossiva per le galanterie; come la rimproverava affettuosamente sua madre, era “troppo intelligente per civettare”. Anche quella volta, infatti, le sue guance non mutarono colore, e rimasero solide nel loro incarnato chiaro.

Però non poté bloccare un sorriso spontaneo nel replicare all’asiatico che stava svanendo nei corridoi per il dormitorio di Hufflepuff:

   «Ricordati: solo se non mi farai arrabbiare.»

 

***

 

   «Salvare il mondo della magia da una nuova, potente minaccia.»

   La valutazione di Scorpius risuonò ammorbidita dalla coperta che gli nascondeva la bocca: il piccolo Malfoy soffriva terribilmente il freddo, e quello che per le persone comuni era un innocuo spiffero veniva percepito dalla sua pelle come una tormenta caucasica. Albus si rannicchiò vicino all’amico per aiutarlo a riscaldarsi, sebbene stesse soffocando sotto il triplo strato di coperte.

   «Pare che la tua famiglia non possa farne a meno» lo stuzzicò, e gli occhi grigi si curvarono in due mezzelune sornione.

   «Ma, se anche dovessi accettare, questa volta sarei solo uno dei tanti» chiarificò Albus, in un respiro soffocato dalla calura. «Haru ha parlato di “gruppi di azione”. Nessuno ricorderà precisamente il mio nome.»

   «Non ti sembra avvilente?»

   «No. Direi rilassante.»

 «Strano. Stavo pensando la stessa cosa» concordò Scorpius.

Chi proveniva da famiglie fin troppo nominate nel mondo magico, trovava confortante la prospettiva dell’anonimato. Una fuga dalle troppe lodi o dall’eccessiva infamia sarebbe stata accolta come un balsamo ristoratore.

   «Stavi pensando di accettare?» bofonchiò Albus.

   Scorpius sospirò a fondo, tirando i lembi della coperta.

   «Non lo so. È ancora tropo presto per decidere. Ma penso che la prospettiva di una magia fondata su basi del tutto nuove, e di una cooperazione tra maghi stranieri sia… eccezionale.»

La frangia di Albus si sparpagliò sul cuscino quando quest’ultimo annuì.

   «Hai visto cosa siamo riusciti a fare oggi?» sussurrò, emozionato. «Immagina cosa potremmo fare, se riuscissimo a coordinarci meglio…»

   «Qualcuno ha preso molto seriamente l’invito di Haru» lo prese in giro Scorpius.

   Albus gattonò goffamente per uscire dalla trappola delle coltri strettamente infilate sotto il materasso, e fu placcato da Scorpius, che lo abbrancò per il bacino.

   «Non fare il bullo con me» protestò Albus, gonfiando le guance.

   Scorpius rilasciò la presa, e l’altro atterrò di faccia sul cuscino brontolando un “prepotente”.

   «Per dire la verità, c’è qualcosa che mi preoccupa molto più di tutto il resto» commentò Scorpius, adagiandosi placidamente sul letto.

   «Quale?» domandò curioso Albus.

   «Tra poco sarà Natale. Questo significa che le nostre famiglie si incontreranno per festeggiare.»

   Un bubbolio morente annaspò sul cuscino.

   «Spero che quest’anno zio Ron sia meno minaccioso» si augurò gorgogliando Albus.

   «E che mio padre sia meno inquietante» aggiunse Scorpius.

   «E il mio meno silenzioso.»

Entrambi rotearono gli occhi al cielo, ed entrambi risero per la loro sincronia.

I loro parenti avrebbero formato un pessimo gruppo di azione.Quest

 

***

 

   Il suo cervello era come intorpidito, quella mattina.

Gli inglesi avevano un modo di gioire per l’arrivo del Natale molto più colorato e chiassoso di quello giapponese: Hogwarts si era ricoperta di lucine fluttuanti di varie tinte, carole tradizionali rimbalzavano per tutti i corridoi, e l’agrifoglio sembrava aver trovato sui muri il suo habitat ideale, a giudicare dalla foresta di foglie pungenti e bacche rosse che aveva invaso la scuola.

Si stropicciò gli occhi, inebetito: tutte quelle luci, quei colori sfavillanti e quelle melodie infantili gli rimbombavano nel cranio ad ogni ora.

Ma lo stordimento natalizio non ottenebrò del tutto i suoi sensi: avvertì un corpo estraneo strisciare nella stanza, a pochi centimetri dal suo letto. Haru scivolò silenziosamente al di fuori delle lenzuola, e rotolò vicino al bordo del materasso. Trattenne il respiro, visualizzò nella sua mente lo schema offensivo e agì.

La sua mano scattò oltre il bordo delle coperte, afferrando lo sconosciuto per la collottola e scaraventandolo sul letto; prima che quest’ultimo avesse il tempo di gridare, il giapponese calò sulla sua schiena e lo immobilizzò con una chiave articolare al braccio.

   «Haru! Fermo, fermo, fermo! Sono io, Albus!» gridò l’oscurità.

A quell’appello disperato, improvvisamente le luci si accesero, e il mistero della stanza venne svelato: Rose reggeva una scatola tra le mani e lo fissava inorridita, Macauley, incollato all’interruttore della luce, era completamente sbiancato; l’espressione di Scorpius era squisitamente indecifrabile.

   «Siete voi» si tranquillizzò Haru, lasciando andare il povero Albus, che fu lesto a saltare fuori dal letto. «Mi avete spaventato.»

   «Tu mi hai spaventato» si risentì il minore dei Potter, impegnato a massaggiarsi il braccio.

   «Da dove ti è uscito…» Macauley gesticolò a caso, ipotizzando le mosse con cui Haru poteva aver sottomesso Albus nel giro di un secondo. «… quello

   «Mi ha insegnato il nonno» spiegò Haru, infilandosi velocemente la vestaglia ai piedi del letto: era davvero sconveniente che degli ospiti, tra cui una femmina, lo vedessero in pigiama.

   «Tuo nonno deve avere delle ossa d’acciaio» fischiò Nott.

   «Ha un’ottima resistenza fisica» confermò Haru. Inforcò gli occhiali e domandò, sollevando il sopracciglio sinistro: «Come mai siete venuti qui?»

   Nonostante la sua spalla non fosse ancora del tutto sicura di stare bene, fu Albus a spiegare il motivo della loro incursione:

   «Abbiamo saputo da Dallas che saresti tornato in Giappone per le vacanze di Natale. Così siamo venuti per darti il regalo in anticipo. Volevamo farti una sorpresa.»

Raramente gli occhi di Haru si erano spalancati così tanto, o le sua guance avevano assunto una tonalità così vicina al rosso vivo. Per la prima volta in vita sua, l’orientale faticò ad esprimersi, e gli occorse qualche secondo per dire:

   «Vi ringrazio… per la vostra cortesia.»

   «La prossima volta elimineremo l’elemento sorpresa» decise Rose.

   «O tu eliminerai noi, probabilmente» aggiunse Macauley, ancora sconvolto per la reazione bellicosa dell’asiatico.

   «Sono profondamente dispiaciuto per l’inconveniente» la testa dell’orientale si inchinò fino a livelli quasi improponibili, e lì rimase finché un imbarazzatissimo Albus non lo sollecitò a sollevare il capo.

La lotta contro un mago oscuro e la condivisione di un complicatissimo progetto futuro avevano cementato uno strano legame di cameratismo e amicizia, che nessuno si spiegava ma che tutti accettavano. Avevano tempo e voglia di conoscersi e trovare basi più solide per quell’imprevista alchimia.

   Ognuno dei quattro ragazzi poggiò la mano sul pacchetto retto da Rose e lo avvicinarono all’unisono ad Haru, esclamando:

   «Buon Natale.»

Il giapponese fissò l’incarto come se non capisse bene in che modo approcciarsi ad esso; dopo una pausa che fu imbarazzante per il quartetto e necessaria per lui, l’orientale afferrò la confezione e l'aprì, svelandone il contenuto.

   «Biscotti?» notò Haru, lievemente interrogativo. Alcuni avevano indiscutibilmente l’aspetto di fragranti dolciumi, ma altri sembravano più adatti al camino che alla tavola.

   «Li abbiamo fatti insieme ieri sera» spiegò fiero Albus.

   «La cottura aiuta a bruciare i germi» spiegò Macauley, quando non poté più tollerare la perplessità del giapponese sulle sue creazioni culinarie. Haru annuì senza troppa convinzione, ma l’espressione smarrita si riscaldò ben presto in una di gratitudine.

   «È un pensiero molto gentile» li ringraziò, inchinandosi profondamente. «Siete stati molto premurosi nei miei confronti.»

   «È una sciocchezza» si schermì Albus, a disagio per la formalità degli omaggi. 

   «Mangiali pensando all’Inghilterra» gli suggerì Rose.

Ciascuno dei presenti si servì di un biscotto sotto invito di Haru: tutti dribblarono i frollini carbonizzati, perfino il loro creatore, ed uscirono dalla stanza con le labbra ancora sporche di briciole per permettere al ragazzo di cambiarsi.

Prima di cominciare la vestizione, il giapponese appoggiò il pacchetto di pasticcini sul letto, senza riuscire a distogliere lo sguardo.

La vita del genio era piuttosto solitaria: un bambino più dotato dei ragazzi più grandi riscontrava invidia e diffidenza. Aveva visto l’amicizia solo da lontano, osservando estranei che si scambiavano gesti affettuosi o leggendola sui libri.

Haru terminò di stringere il nodo della maglia e si sedette sul letto, a poca distanza dal suo regalo.

Non aveva mai sentito la mancanza di un amico. Il nonno era stato il suo punto di riferimento fin dalla più tenera età e non gli aveva mai fatto mancare nulla, specialmente il tempo da trascorrere insieme. Era stato severo con lui molte volte, perfino burbero, ma Haru non aveva mai dubitato dell’affetto sincero che nutriva nei suoi confronti. Forse, era stata proprio quella loro connessione particolare a scatenare il risentimento del cugino, nove anni prima.

Afferrò il fagotto e lo appoggiò sulle ginocchia.

Era venuto ad Hogwarts per cercare degli alleati, e aveva trovato degli amici, per quanto bizzarri. Persone che avevano perso una serata per preparargli dei biscotti. Poteva quasi vederli, mentre Macauley polemizzava sui tempi di cottura, Scorpius e Albus tentavano di staccarsi l’impasto colloso dalle dita e Rose li riprendeva per la loro totale inettitudine ai fornelli.

Amici. Che buffo mondo.

   Si rialzò per andare di fronte allo specchio e pettinarsi.

Ma non prima di aver appoggiato il pacchetto sul comodino, di fianco alla foto del nonno e alla lettera che sua madre gli aveva lasciato prima di partire.

Quella pasticceria più o meno riuscita meritava un posto sul suo personale altare dei tesori.

 

***

 

   Quando Haru uscì dal dormitorio, si ritrovò di fronte ad una curiosa scena di folklore occidentale.

Nell’aria fluttuavano piccoli rametti di vischio, decorati da nastri rossi, e Nott era disgraziatamente finito sotto uno di essi.

   «Non ti infetterò, Macauley» la ragazza di Slytherin che era capitata sotto la pianta galleggiante assieme a Nott aveva l’aria esasperata di chi spiega le tabelline ad un Troll Troglodita.

   «Ti dico che non è vischio!» Macauley, al contrario, esibiva la stessa espressione terrorizzata di un vampiro di fronte ad un paletto di frassino.

   «È vischio. Siamo sotto Natale, è ovvio che sia vischio.»

   «No che non è vischio!»

All’improvviso, la piantina scintillò, e le sue bacche biancastre si gonfiarono e si arrossarono, finché un rametto di agrifoglio solitario non si ritrovò a svolazzare nella selva dei più compromettenti fratelli.

   «Hai visto? Non è vischio!» trionfò Macauley, per poi svanire lungo il corridoio alla velocità della luce.

Haru si diresse verso il punto da cui aveva visto provenire la magia mutaforma e bisbigliò:

   «Hai salvato la situazione, Rose-san.»

   La giovane emerse dalla sua postazione rinfoderando la bacchetta.

   «Macauley stava per uccidere i nervi di quella ragazza» si giustificò lei.

Haru spostò la coda corvina su una spalla, gli occhi socchiusi come quelli di uno studioso.

   «Spiegami questa vostra usanza: cosa succede di così tremendo, se si finisce sotto il vischio?»

   «Bisogna baciarsi» fu la brutale risposta di Rose.

Le sembrò di vedere le vertebre del timido giapponese appiattirsi di colpo una sull’altra per lo shock della scoperta.

   «Capisco le riserve di Macauley-san» dichiarò infine.

   «Non è obbligatorio baciarsi sulla bocca» lo confortò Rose. «Sulla guancia è più che sufficiente.»

L’asiatico non sembrò particolarmente rincuorato dalla precisazione. La sua preoccupazione aumentò esponenzialmente quando una di quelle malvagie piantine decise di fare il nido sopra le loro teste.

Rose la fissò seccata, Haru spaesato, e nessuno dei due mosse un singolo muscolo per una quantità di tempo irragionevole, nella speranza che il vischio si stancasse di loro e andasse ad infastidire qualcun altro.

Quando fu chiaro che la piantina non avrebbe desistito, Rose appuntò i suoi occhi su Haru e contrattò, stendendo il braccio verso di lui:

   «Una calorosa stretta di mano sarà più che sufficiente.»

L’asiatico accettò prontamente l’invito, afferrando le dita che gli venivano offerte.

   «Sei una persona molto ragionevole, Rose-san» si complimentò compiuto, quando finalmente il vischio decise di volare su altre teste.

La piantina ne adocchiò una bionda e una corvina, e prese a ronzare su quelle zazzere, arrivando perfino a schiaffeggiare quella più alta per non essere ignorata.

   «Credo che ce l’abbia con noi» notò Scorpius, toccando il punto in cui le foglie lo avevano sferzato.

A volte, il periodo natalizio diventava simile ad una bolgia infernale: non era nemmeno possibile recarsi a lezione pacificamente senza essere infastiditi da strani vegetali pettegoli.

   Il rossore salì fino alle orecchie, rendendo il viso di Albus una maschera scarlatta quando squittì:

   «Ma… ma è vischio

   Scorpius annuì, incapace di aggiungere qualcosa di intelligente o innovativo all’osservazione dell’amico.

   «Questa piantina non se ne andrà finché non sarà soddisfatta. E la cosa comincia a diventare fastidiosa» ringhiò Scorpius, dopo la quarta volta in cui il vischio gli frustò l’orecchio per spronarlo.

La memoria di Albus tornò all’inizio di quell’anno scolastico, quando il suo cuore era praticamente impazzito al tocco di Scorpius; rivisse quello sconvolgimento quando l’amico gli appoggiò le mani sulle spalle, ed il sangue sembrò scoppiettargli nelle vene e nelle orecchie quando il giovane si chinò sbrigativo ad appoggiargli un bacio sulla guancia. Di nuovo, non capì la ragione di quel turbinio: avevano vissuto insieme per quattro anni, condividendo anche il respiro, e non aveva mai sperimentato prima una sensazione così irragionevole.

   «Se ne è andata, finalmente» commentò sollevato Scorpius quando la piantina fluttuò ad importunare altre coppie.

Albus quasi saltò sul posto quando la voce di Margaret Finnigan lo sorprese alle spalle. Per un qualche motivo, avvampò come se fosse colpevole di qualcosa, e provò il violento desiderio di sparire tra le mattonelle del pavimento.

La coppietta lo abbandonò prima ancora che lui potesse rendersene conto; Margaret aveva chiesto a Scorpius in modo piuttosto perentorio di parlare un attimo da soli, e Scorpius l’aveva assecondata, salutando velocemente l’amico.

Rimase così, confuso, arrossito e con il sistema circolatorio in subbuglio finché la figura di Nott non interruppe la sua agitazione silenziosa.

Un particolare dell’amico catturò la sua attenzione e causò il suo sconcerto.

   «Quello è… rossetto?» chiese; un marchio cremisi a forma di labbra svettava sulla fronte pallida del compagno, che cercava in tutti i modi di pulirlo con una salvietta umida.

   «La Eeriemay mi ha beccato sotto uno di quei cosi satanici!» sbraitò Macauley.

Le sopracciglia di Albus ballarono una danza di stupore e perplessità, e il giovane indagò:

   «Vuoi dire che sei finito sotto lo stesso vischio con una persona… e non ti sei allontanato correndo?»

   «Quella donna è un demonio!» sbottò Nott.

   «Ma di solito tu…»

   «Albus Severus, se vuoi aiutarmi a togliermi questo schifo dalla fronte sei bene accetto, in caso contrario taci» s’inviperì Macauley.

Albus si arrese, e si issò sulle punte dei piedi per aiutare l’amico a ripulire il disastro.

Haru gli aveva quasi rotto un braccio, Scorpius gli aveva rivoluzionato il sistema circolatorio e Macauley si era sottoposto ad un contatto fisico per la prima volta nella sua ipoallergenica vita.

Quel Natale stava portando con sé fin troppe sorprese.

 

***

 

   I Weasley adoravano le feste che potessero accordarsi con il loro stile di vita allegro e rintronante.

Per questo avevano una particolare predilezione per il Natale che, con le sue luci e le sue canzoni, ben rispecchiava lo spirito della famiglia.

Hermione si era occupata delle decorazioni assieme a Ginny, ma qua e là spuntavano le sporadiche “migliorie” di George: poteva capitare che alcune delle piantine di agrifoglio messe ad addobbare il camino emettessero una sonora pernacchia nei confronti di chiunque passasse loro davanti, o che l’abete luccicante pizzicasse le guance a chi sostava di fronte a lui. Le palle colorate, poi, erano una novità dei Tiri Vispi, per cui sarebbero state testate quella sera sui malcapitati: le sfere kamikaze si lanciavano sulle teste dei passanti, sprigionando gavettoni di arcobaleno. “Tingete le vostre feste di allegria!”, recitava lo slogan.

Molly, che aveva conservato la sua esuberanza a dispetto dell’età, aveva sommerso la cucina con una quantità quasi imbarazzante di cibo, e a Ron era stato assegnato l’ingrato compito di apparecchiare l’opulenta tavola.

Albus scese le scale quasi intontito da quel mondo sfolgorante e caotico: in tutta la casa era fiorita una strana vegetazione a base di pungitopo, nastri colorati e luci intermittenti, ed in un angolo l’abete troppo carico si sforzava di non crollare sui regali sottostanti. La tavola era apparecchiata con lo sgargiante servizio delle feste, tutto oro, rosso e bianco, e un nugolo di piccole candele profumate veleggiava nell’aria.

La famiglia Malfoy, che sedeva sul sofà nella propria consueta eleganza, sembrava l’unico stralcio di mondo normale in quella stanza sommersa dallo spirito natalizio.

Molly fu ben felice di mettere tutti a tavola e di riempire ogni piatto vuoto con i più svariati manicaretti, con particolare cura verso la signora Malfoy, perché doveva “mangiare per due”. La pancia cominciava a vedersi, nonostante il tentativo della donna di dissimulare con un abito in stile impero, ed era stata perciò tempestata di attenzioni e premure dalla parte femminile della famiglia, nonché di domande sul nome del nascituro.

James non perse il vizio di tormentare il fratello, stuzzicandolo per tutta la durata del pranzo nonostante i rimproveri della madre.

Al termine dell’infinito banchetto, gli adulti, satolli di cibo, si sedettero a chiacchierare, e Rose offrì aiuto alla nonna per sparecchiare. Albus e Scorpius ignorarono il richiamo del dovere e si accucciarono in posizione strategica, vicino alle fiamme del camino.

    «Non ho ancora capito come sia possibile che tua nonna metta in tavola ogni anno un pranzo più pomposo di quello precedente» gorgogliò, rigonfio di manicaretti.

   «Non preoccuparti. Ci sarà un limite al numero di portate che un umano può cucinare» bofonchiò Albus, gli occhi appesantiti dall’abbuffata. «Prima o poi lo raggiungerà.»

   «Io credo di aver raggiunto il limite massimo che un essere umano può ingerire» notificò Scorpius.

   «Io sto provando quello che prova un pitone dopo aver mangiato una pecora.»

   «I pitoni non mangiano le pecore. Gli scoppierebbe lo stomaco, o qualunque cosa abbiano per digerire.»

   «Hai centrato il punto» boccheggiò Albus.

   Scorpius batté un paio di pacche sulla testa reclinata dell’amico in segno di incoraggiamento. Albus rialzò gli occhi acquosi per scrutare il ragazzo al suo fianco e gli pose la domanda che gli ronzava in testa da qualche giorno:

   «Non hai portato Margaret. Né oggi né a fare le spese di Natale.»

Le labbra di Scorpius si ritirarono per essere mordicchiate e una mano salì a pettinare i capelli all’indietro.

   «Ci siamo lasciati il giorno del vischio nella scuola» confessò, appoggiandosi con la nuca al muro.

Due occhi verdi lo fissarono, sgranati e increduli: lui era convinto che, quella volta, Margaret lo avesse allontanato da lui per poter approfittare della leggenda del vischio con il suo ragazzo.

   «Vi siete lasciati?» riuscì solo a ripetere.

   Scorpius annuì e sospirò al contempo.

   «Credo che sia meglio così» affermò. Durante la loro breve relazione, Margaret era stata quasi sempre in agitazione, e lui non ne aveva mai compreso il motivo fino al giorno della loro definitiva rottura: anche se con parole gentili, lei si era lamentata di non essere nemmeno al livello dei suoi amici per lui, e di non ottenere mai niente dal suo ragazzo se non dopo una precisa richiesta, come se lui non facesse nemmeno lo sforzo di pensare a lei. Se la loro storia doveva procedere in quel modo, in una continua mortificazione, era meglio concludere tutto prima di finire per odiarsi.

   «Non eravamo fatti per stare insieme» concluse, sbrigativo.

   Albus tamburellò le dita sulle ginocchia, alla ricerca di qualcosa da dire. Sarebbe stato decisamente di cattivo gusto erompere in un grido di gioia, ma era l’unica reazione spontanea a quella ammissione. Margaret non sarebbe più stata una presenza incollata a Scorpius, e non avrebbe più minacciato l’equilibrio del loro gruppo. Erano pensieri abominevoli, se ne rendeva conto, ma non riusciva a scacciarli dalla propria mente.

   «Mi… dispiace» abbozzò alla fine, fissando il soffitto per paura che l’amico potesse leggergli in faccia qualcosa di compromettente.

Scorpius si strinse nelle spalle.

   «Arriverà la persona giusta. Non c’è fretta» profetizzò. Sperava solo di non aver fatto soffrire troppo Margaret: era una brava ragazza e meritava di essere trattata con cura. Anche per questo motivo, era meglio che si fossero lasciati: probabilmente, lui non sarebbe riuscito a fornirle tutte le attenzioni che lei desiderava.

Albus annuì, un’improvvisa e insensata voglia di prenderlo per mano. Si trattenne conficcandosi le unghie nel palmo.

   «Albus! Scorpius! Venite! È ora di aprire i regali!» chiocciò felice Molly, che aveva già radunato tutti i presenti sotto l’albero.

George aveva fatto del suo meglio per brevettare le sue nuove invenzioni con i regali di Natale. Il più divertente di tutti fu quello assegnato a Harry: una strana polverina fuoriuscì dal pacchetto e si depositò sui suoi occhiali, facendogli vedere tutti i presenti in mutande.

«È per combattere l’ansia durante gli esami» si giustificò George, mentre Harry cercava disperatamente di rimuovere quella cosa dalle lenti.

Ginny ed Hermione avevano scelto dei regali utili, e i Malfoy avevano optato per dei doni raffinati; grazie a ciò, il resto dei pacchetti fu scartato senza timore e senza sorprese.

Scorpius passò il proprio regalo ad Albus di soppiatto: era troppo personale per essere visto da tutti.

Il resto del pomeriggio passò tranquillo, e terminò con l’accomiatarsi degli invitati e un ultimo scambio di auguri di Natale.

Quella sera, dopo la visita notturna della madre per portargli un the digestivo e il bacio della buonanotte, Albus si rannicchiò sotto le coperte ed estrasse di nuovo il regalo di Scorpius.

Il portachiavi d’argento a forma di lupo scintillò sotto la luce della luna.

 

 

 

 

 

Volevo pubblicare questo capitolo la vigilia di Natale<3

Dal prossimo, si passa al sesto anno<3

Grazie a tutti voi che siete arrivati fin qui<3

E buon Natale a tutti<3

Red

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Capitolo 9
*** La cicatrice ***


Le gambe gli dolevano e il cuore sembrava essersi stancato di pulsare; i polmoni erano un incendio doloroso, e gli occhi vedevano il mondo come una massa acquosa.

Ma non smise di correre.

Doveva trovare Haru. Era l’unico in grado di spiegargli cosa stesse succedendo.

   Il giapponese lo fissò perplesso, una punta di spavento nelle iridi scure.

   «Va… tutto bene?» tentennò. Il colorito paonazzo, gli occhi allucinati e l’espressione terrorizzata dell’altro ridicolizzavano la sua domanda, ma Haru la pose comunque per correttezza.

   «Ho un problema» ansò il ragazzo. E scoprì la spalla.

   Haru non si lasciava mai andare a manifestazioni plateali di sentimenti; per questo sentì le vene raggelarsi quando gli occhi del giapponese si spalancarono per la sgradita sorpresa.

   «Hai un problema» convalidò Haru. Si alzò ed esaminò la spalla dell’amico, premendovi sopra le dita fresche.

   «Che… che cos’è?» domandò l’altro, deglutendo a fatica.

   L’asiatico morse il labbro inferiore, impensierito. E la sua diagnosi non fu per nulla rassicurante.

   «Una cosa molto spiacevole, probabilmente.»

 

 

Parte Tre – Sesto Anno

1

La cicatrice

 

 

 

   «Wunderbar!» gioì Bartold, subito rimesso a sedere dal più rigido fratello.

   «Cerca di contenerti, almeno un po’» abbaiò Achill, con l’unico effetto di incrementare le urla dell’esagitato consanguineo.

Il maggiore degli Scholz si afferrò le tempie con le dita di acciaio, premendo forte. Era la seconda partita della stagione, e lo stadio sembrava impazzito. Durante la precedente – Gryffindor contro Ravenclaw – il pubblico si era scatenato, ma non in quel modo: i palchi che sorreggevano gli studenti sarebbero crollati, se non avessero abbassato il volume degli strepiti.

Al primo anno, non avrebbe immaginato che i due studentelli che aveva preso come assistenti per punizione sarebbero diventato così popolari. I loro genitori erano conosciuti in tutto il mondo magico, per merito o per infamia, e i figli si stavano dimostrando degni successori, anche se il consenso che riscuotevano tra i compagni era dovuto ad altri fattori. Le ragazze trovavano adorabile il “faccino da cerbiatto” di Albus, e Malfoy, a detta loro, costituiva la sua perfetta controparte oscura, il “bel tenebroso”. Achill ringhiò un sospiro esasperato: avrebbero dovuto vederli durante le prove che aveva loro assegnato, per rivoluzionare completamente la loro visione del “cerbiatto” e del “tenebroso”.

Poi, come tocco finale, l’elemento a sorpresa, emerso durante il quinto anno, quando Hufflepuff aveva dovuto cambiare portiere. Lo studente giapponese si era proposto alle selezioni spinto più dal suo Prefetto, Dallas Dudley, che da convinzione personale. L’asiatico aveva sbaragliato gli altri aspiranti, e le sue parate feline erano diventate un mito ad Hogwarts e una piaga per i suoi avversari.

Era stata una sorpresa per Haru stesso: non avrebbe mai immaginato che i suoi allenamenti nelle arti marziali sarebbero serviti a giocare una partita a cavallo di una scopa.

Era così giunto il giorno dell’attesissima partita Hufflepuff contro Slytherin, “cerbiatto” Cercatore e “tenebroso” Battitore contro il portiere orientale. Schiaffò la faccia nelle mani ruvide, sperando che tutta quella confusione cessasse presto.

   Come ogni anno, Rose si era seduta nei posti limitrofi alla sezione Slytherin, in modo da poter parlare con Nott.

   «Non hai partecipato nemmeno quest’anno alle selezioni?» strillò lei, per sovrastare la folla.

   «Se mai dovessi decidere di morire, lo farei in un modo rapido e pulito. Tipo il veleno» la mascherina onnipresente non cancellò il disprezzo nella sua voce. «Quel campo maledetto non avrà nemmeno una goccia del mio sangue. Mai

Vedere Nott immutato nonostante il passare degli anni donava uno strano senso di rilassatezza: la sua fobia per i germi non si era attenuata da quando lo avevano conosciuto, così come il suo brutto carattere non si era minimamente ammorbidito. Gli unici cambiamenti visibili erano nelle guance e nella mascella, che avevano abbandonato le forme morbide dell’infanzia in favore di lineamenti più spigolosi e asciutti, e nel tono di voce, scuritosi con il tempo.

   Rose si tappò le orecchie con le mani: la folla intorno a lei impazzì quando Albus sfiorò le transenne. Si concentrò anche lei sul cugino, seguendo il suo folle inseguimento del Boccino, tallonato dal Cercatore di Hufflepuff. Trattenne il fiato quando un Bolide sfrecciò dritto nella loro direzione, e lo rilasciò in un sospiro sollevato poco dopo: il pronto intervento di Scorpius aveva salvato il collo di Albus, e aizzato la curva Slytherin ad un tifo ancora più concitato.

Rose fu tentata di fasciarsi la testa con la sciarpa azzurro e bronzo della sua Casa per arginare le grida che la circondavano. Aveva pescato alcuni commenti nella folla: apprezzamenti sui capelli chiari di Scorpius, tenuti abbastanza lunghi da ricadere sul collo, e sul viso che si era affilato con la crescita. Altre si complimentavano di come Albus, il nanerottolo di Slytherin, avesse guadagnato dei centimetri durante l’estate, raggiungendo quasi la statura dell’inseparabile amico. Rose sogghignò a quelle considerazioni: aveva trascorso quasi ogni giorno insieme ad Albus e Scorpius, e non aveva quasi notato i loro cambiamenti. Se ne era accorta quando, quell’estate, aveva riesumato delle vecchie foto del primo anno, e delle facce paffute e dei corpi puerili l’avevano salutata dalle istantanee.

Erano ormai entrati a pieno titolo nell’adolescenza, nelle sue forme angolose e nei suoi mutamenti graduali ma costanti.

Tra di loro, quello che aveva subito variazioni meno sostanziali era Haru: ad eccezione dei capelli, lasciati liberi di crescere fino a metà della schiena nel sempiterno codino, il giapponese non era praticamente cambiato, e non solo nel fisico: i suoi atteggiamenti erano quelli di sempre, come se fosse nato già adulto.

L’asiatico, dalla sua posizione fluttuante vicino ai cerchi, si voltò per un attimo ed incrociò il suo sguardo: nel vedere le iridi nere che la fissavano con un interrogativo divertito, Rose si accorse di essersi soffermata ad osservarlo. Rispose con un’occhiata carica di ostilità, dopodiché voltò il capo, facendo nascere un risolino sulle labbra pallide dell’orientale.

   «Gente, vi invito a notare la sorprendente parata di Harunobu» proclamò Valentine al microfono. Le spalle del giapponese si contrassero nel sentire il suo nome pronunciato per intero: era così antiquato.

   «Io non sarei mai riuscito a fare una cosa del genere» proseguì Valentine, scomponendosi come di consueto sulla tribuna del commentatore: in quel momento era completamente addossato alla balaustra. «Non senza spezzarmi un braccio. O lussarmi un gomito. Voglio dire, questo ragazzo deve avere delle articolazioni d’acciaio per riuscire a…»

   «Valentine Cross!» gli anni avevano accentuato le rughe sul volto della preside e infiacchito le sue membra, ma aveva ancora voce e autorità sufficienti per zittire quel prolisso commentatore.

   «Attenzione, la Pluffa torna in gioco» ricominciò il giovane, cinguettando nel microfono. «E Potter tallona il Boccino. E… oh, ciao Louis!» il ragazzo si sporse pericolosamente dalla tribuna per sbracciarsi in direzione del piccoletto del terzo anno. «Louis, non fare finta di non conoscermi! Sto salutando proprio te!»

   «Vai avanti, Cross!» tuonò la McGranitt.

   Louis ringraziò intimamente la preside, innalzando la sciarpa rossa e oro a difesa del volto. Che vergogna essere della stessa Casa di quel degenerato. E che vergogna averlo come tutore.

   «Oh, si nasconde. Non è carino? Cioè, guardatelo bene, è davvero carino!» insistette Valentine, godendosi lo spettacolo delle guance della sua vittima che perdevano ogni colorito umano. «È…»

   «In nome di cielo, Cross! Se tu vuole tubare, fallo quando tu non ha microfono in mano!» esplose Achill.

   «Grazie» approvò solennemente la McGranitt, sollevata dal disturbo di dover intervenire ancora.

   «Concentriamoci sulla partita, gente. Non facciamo arrabbiare il buon vecchio Achill» riprese Valentine. Diede una scrollata sbarazzina ai riccioli scuri e riprese a commentare.

Haru si lanciò a parare un ennesimo attacco, e la Pluffa tornò in campo, rimbalzando fino agli anelli di Slytherin. I Bolidi si scontrarono più volte con la mazza di Scorpius, deciso a difendere i suoi compagni. Albus sfrecciava a pochi centimetri da terra, proteso in avanti per afferrare il Boccino.

La Pluffa disegnava rapidi archi nel cielo, mentre i giocatori la passavano ai compagni o la rubavano alla squadra avversaria; i Portieri galleggiavano davanti agli anelli, pronti a scattare nel momento in cui la palla fosse arrivata troppo vicina; i Battitori segnavano l’aria di lampi colorati, saettando da una parte all’altra del campo per deviare i Bolidi.

Fu in quel momento che accadde.

Le dita di Albus stavano per serrarsi attorno al Boccino, quando all’improvviso tutto il corpo del ragazzo si accartocciò su se stesso, facendogli perdere l’assetto di volo. Il Cercatore venne disarcionato dalla propria scopa, e rotolò a terra sollevando un coro di sorpresa.

Rose si protese dalla tribuna, preoccupata: il cugino non si mosse per alcuni istanti, completamente ritorto su se stesso. Anche se gli era visibile solo la schiena, infagottata nella divisa della sua Casa, poteva immaginare l’espressione sofferente di Albus e quell’idea le diede una stretta al cuore.

Inoltre, non capiva perché il cugino sembrasse patire tanto per quella caduta: stava volando rasoterra, quando aveva perso l’equilibrio, quindi non poteva essersi fatto troppo male. Aveva sopportato ruzzoloni peggiori, durante le partite di Quidditch – Rose si era sentita morire quella volta che, al quinto anno, lo aveva visto sgambettare nel vuoto, appeso alla sua scopa solo con una mano, sbalzato di sella dalla scorrettezza del Cercatore rivale.

Perfino i professori parevano spiazzati dallo Slytherin che ancora non si alzava: l’espressione statuaria della McGranitt tremava, Achill non era mai stato umano come in quel momento; Bartold aveva afferrato la scopa, pronto ad intervenire direttamente sul campo per aiutare il suo allievo, e il colorito della Eeriemay era mortalmente illividito, mettendo ancora più in risalto il rossetto scarlatto.

   La curva Slytherin scoppiò in un ruggito di incoraggiamento quando Albus cominciò faticosamente a rialzarsi in piedi.

Scorpius non poteva abbandonare il suo ruolo di Battitore, o i suoi compagni sarebbero stati gettati a terra dai Bolidi, ma ciò non gli impedì di controllare con la coda dell’occhio l’eroica risalita dell’amico: Albus si issò a carponi, e utilizzò la scopa come bastone per sollevarsi in posizione eretta. Restò qualche istante fermo, in attesa che le gambe si stabilizzassero, poi riposizionò il manico in assetto di volo e vi saltò sopra spavaldo, partendo immediatamente alla ricerca del Boccino.

L’aria si tinse di verde e argento quando gli Slytherin fecero roteare le loro sciarpe come incitamento per il loro Cercatore coraggioso.

Le iridi verdi scoccarono da una parte all’altra del campo alla ricerca del Boccino, e lo individuarono poco dopo: le ali dorate battevano ad una velocità da capogiro, cercando di sfuggire al Cercatore di Hufflepuff.

Lo stadio si zittì improvvisamente quando Albus mise in atto il suo piano di azione: si gettò a capofitto verso il Boccino, ma in direzione opposta rispetto all’altro giocatore. Se non fossero stati più che attenti, si sarebbero violentemente scontrati.

Il cervello iper-allenato di Rose calcolò velocemente che, se effettivamente il cugino avesse tentato di raggiungere il Boccino seguendo lo stesso percorso del Cercatore avversario, sarebbe arrivato con un disastroso ritardo, e i cento punti sarebbero andati ad Hufflepuff. Ma era comunque una follia buttarsi in un’operazione così rischiosa: il timido Albus di tre anni prima non avrebbe mai azzardato un’azione simile. Non che Albus avesse perso la sua dolcezza o la sua ingenuità in quegli anni, ma era subentrata una vena di fermezza e caparbietà che rendeva finalmente chiaro perché il Cappello Parlante lo avesse assegnato a Slytherin.

Rose si aggrappò al braccio di Macauley; Nott era così assorto nell’osservare la partita che non protestò per i batteri del contatto fisico. Perfino Valentine aveva smesso di sbrodolare stupidaggini al microfono.

I due Cercatori si avvicinarono sempre più, le dita di entrambi tese fino allo spasmo per recuperare il prezioso Boccino. Albus avvertì le ali dorate solleticargli i polpastrelli prima di scontrarsi rovinosamente contro l’altro giocatore.

I colori delle due squadre si mescolarono in un groviglio di gambe e braccia, le scope che roteavano nell’aria prive di bagaglio umano, e l’aggrovigliamento di Slytherin e Hufflepuff si abbatté al suolo con un tonfo secco.

Achill scavalcò lo spalto degli insegnanti con un salto da mastino, e accorse a districare i suoi allievi, seguito da una preoccupatissima Eeriemay e da un boccheggiante Bartold.

   «Albus Sever… Albus Sebaru…» Achill ringhiò quasi, estraendo il suo vecchio apprendista da quell’intrico di stoffa. «Io ti ha sempre detto che tuo nome è troppo lungo!»

Bartold aiutò il Cercatore di Hufflepuff, stordito dalla caduta, a rialzarsi a sedere; la Eeriemay si inginocchiò di fianco ad Albus, e lo sollevò gentilmente avvolgendogli le spalle con un braccio.

   «Va tutto bene?» si premurò.

   Gli occhi verdi che si posarono su di lei erano un po’ troppo vacui per appartenere ad una persona in perfetta salute, ma il suo studente diede prova di avere ancora un minimo di forze e di lucidità: sollevò nell’aria il pugno, vittorioso. Le ali trasparenti del Boccino palpitavano tra le sue dita chiuse.

   «Vince Slytherin!» l’annunciò di Valentine quasi sparì, sommerso dalle grida trionfanti della Casa in questione.

La fine della partita li aveva sollevati dai propri incarichi, per cui Scorpius e Haru atterrarono quasi istantaneamente accanto ai professori. Il giapponese restituì la scopa al suo compagno di squadra, mentre Scorpius si avvicinò reggendo tra le mani quella di Albus.

   «Come sta?» domandò, fallendo miseramente nel tentativo di mascherare la propria ansia.

   La Eeriemay cercò di tranquillizzarlo con un sorriso incerto.

   «Credo che stia bene. Ma è meglio portarlo da Madamina» decise la professoressa.

La mano di Albus ricadde al suolo, e il Boccino ruzzolò sull’erba. Gli occhi smeraldini cercarono quelli grigi e rannuvolati di preoccupazione, e le labbra si curvarono in un sorrisetto tenue.

   «Abbiamo vinto» gioì Albus, prima di perdere i sensi.

 

***

 

   Il carattere giocoso di Hufflepuff permetteva alla Casa di non rammaricarsi troppo per le sconfitte: utilizzarono le vivande comprate in previsione della vittoria per organizzare invece un piccolo rinfresco per la squadra e per qualunque Hufflepuff che avvertisse un languore nello stomaco.

   «Sei stato fantastico, Haru!» ruggì felice Dallas, battendo una ciclopica pacca sulle spalle esili del giapponese. «Ti muovi come un felino!»

   «Non è niente di speciale» minimizzò l’asiatico, ma la sua replica si perse nel roboante applauso che riempì tutta la sala principale.

   «Voi di Hufflepuff siete molto… energici» notò Rose. Era stata invitata da Dallas a prendere parte alla festicciola – nonostante la sconfitta, avevano giocato indiscutibilmente bene, per cui la squadra meritava di essere acclamata – e lei aveva accettato volentieri: qualunque cosa potesse evitarle il pensiero di suo cugino in infermeria era bene accetta.

   «È abbastanza divertente, quando ti abitui a questo stile di vita» affermò Haru, sorbendo un sorso del suo succo di zucca.

   «Non mi sembra che tu sia rumoroso come Dallas» confutò Rose.

   «Ho detto “abituarsi”, non “adattarsi”» replicò serafico l’asiatico.

   «Sei troppo attaccato al significato delle parole» brontolò la ragazza.

Nemmeno il carattere di Rose aveva subito sostanziali cambiamenti con il tempo. Al contrario del corpo: anche se tentava di nasconderlo con le felpe larghe, sul suo fisico stavano pian piano maturando le forme di una giovane donna. Haru lo aveva notato quando una volta, in biblioteca, la ragazza gli si era rovesciata addosso, e il suo petto si era premuto contro quello della giovane.

Haru affogò quei pensieri in un sorso più lungo di succo: indugiare su quei dettagli lo faceva sentire un vecchio maniaco.

   «Come sta Albus?» domandò, facendo cambiare strada alla propria mente. Finita la partita, era stato trascinato da Dallas nella Sala di Hufflepuff, e non aveva avuto modo di raggiungere l’amico. Rose, al contrario, era riuscita ad evitare il delirio dilagante almeno il tempo sufficiente per fare visita al cugino.

   «Era ancora svenuto, quando sono andata in infermeria. Ma Madamina mi ha garantito che sta bene» rimbrottò la ragazza.

Scorpius era riuscito a restare al capezzale di Albus: le Slytherin avevano ridacchiato e gorgheggiato un “resta pure, lui ha bisogno di te” con fare allusivo, e non avevano fatto pressioni affinché i protagonisti della giornata fossero presenti alla baraonda che si sarebbe scatenata poco dopo nella loro Casa. I ragazzi di Slytherin si erano limitati a stringersi nelle spalle e lasciarli soli.

Rose tirò distrattamente la propria treccia rossiccia, allungatasi negli ultimi anni. Aveva un sospetto, da molto tempo. Ma aveva bisogno di un parere imparziale.

   «Haru» chiese a bruciapelo. «Tu cosa pensi di Albus e Scorpius?»

   Gli occhi scuri la fissarono dal bordo dorato del bicchiere senza capire.

   «Sono entrambi due ottimi giocatori e maghi capaci» stimò, calmo.

   Rose lo invitò a proseguire con un gesto della mano.

   «Scorpius è forte con l’orgoglio, e Albus con la dolcezza» aggiunse Haru.

   «Ma cosa pensi di loro?» insistette Rose.

   Qualcosa nel tono impaziente della ragazza gli fece finalmente cogliere il fine sottinteso della frase.

   «Di… loro?» Haru le fece eco nelle parole e nel timbro. Rose annuì, e il giapponese si trovò ad annaspare per ricamare una risposta soddisfacente. «Non ho mai pensato a loro, sinceramente… ma è plausibile, suppongo.»

   «Quindi?» si ostinò Rose.

   «Quindi credo che la scelta spetti a loro» concluse Haru, annegando le labbra nel succo.

Un assordante “la prossima volta li sconfiggeremo!” rimbombò nella Sala, impedendo la comunicazione tra i due. La Casa continuò a brindare e a formulare ipotesi su una futura rivincita ad un volume piuttosto sostenuto, così le parole di Haru furono udibili solo alla ragazza di Ravenclaw:

    «E tu cosa pensi di me, Rose-san?»

La giovane ebbe un guizzo stupito, e lo fissò incredula.

   «Perché questa domanda?» pretese di sapere.

   «Semplice curiosità» ridimensionò Haru. «Puoi evitare di rispondere, se lo ritieni opportuno.»

 Rose inalberò il capo fiammeggiante: il silenzio era lo scudo dei codardi o dei colpevoli.

   «Penso che tu sia fondamentalmente un bravo ragazzo» lo lodò, per smontarlo subito dopo: «Ma credo anche che tu abbia una tremenda paura di aprirti agli altri.»

   «Non posso darti torto» assodò l’asiatico.

   «Ci conosciamo dal quarto anno, eppure sappiamo pochissime cose di te» seguitò Rose. «Ancora non ti fidi di noi?»

   Per tutta risposta, Haru le indicò una ragazzina del primo anno. Era piuttosto graziosa, con i codini castani, gli occhi verdognoli e il sorriso vivace.

   «Vedi quella bambina?» si assicurò lui. «Aspettavo con ansia il suo arrivo ad Hogwarts.»

   «Conosci Elizabeth?» si meravigliò Rose. Non era la discendente di una famiglia magica particolarmente prestigiosa, e la giovane Weasley sapeva il suo nome solo perché la piccoletta si era presentata dopo che si erano incontrate sull’Hogwarts Express. Allora non vi aveva prestato troppa attenzione, ma Haru aveva sollevato entrambe le sopracciglia nel vedere la bambina, e, per l’indole impassibile del giapponese, era come aver urlato a squarciagola.

   «No. Ma vorrei. È la mia sorellastra.»

La notizia le piovve come una doccia gelata sul collo, e Rose sussultò, voltandosi di scatto verso l’amico.

   «La tua sorellastra?» ripeté. «E non la conosci?»

Haru annuì, un’espressione serena e addolorata sul viso.

  «Non è che non mi fido di voi» mormorò l’orientale. «Ma il mio passato non è un argomento di conversazione felice, nella maggior parte dei casi.»

Fu il turno dell’asiatico per trasalire, quando Rose gli circondò le spalle con un braccio.

   «È per questo che servono gli amici: per affrontare le cose che ci hanno fatto soffrire e risolverle» sentenziò gentile. «Ce ne parlerai, quando ti sentirai pronto?»

Il sorriso del giapponese fu uno dei più sinceri che avesse mai usato in sua presenza.

   «Ve ne parlerò» promise. Rose annuì soddisfatta e si staccò da lui, per poi rivoltargli contro la sua stessa domanda:

   «E tu cosa pensi di me?»

L’asiatico non fu rapido come lei nel rispondere. Giocò pigramente con il bordo del bicchiere, percorrendolo più volte con il dito, prima di affermare, sincero:

   «Sono molto felice di averti conosciuta, Rose-san.»

E fu con enorme soddisfazione che vide le guance della ragazza tingersi di un rosso appena percepibile.

 

***

 

   Gli occhi di Louis possedevano un invidiabile colore azzurro slavato, paragonabile ad un cielo estivo. Quel giorno, però, il cielo era in tempesta.

   «Non farlo mai più.»

   «Cos’è che non devo fare?»

   «Coinvolgermi nelle tue idiozie durante le partite di Quidditch.»

   Valentine ruotò gli occhi al cielo. Ben due Case stavano festeggiando, chi per la vittoria e chi per consolazione, e loro erano in biblioteca a studiare. Davvero grama, la vita del tutore. Specie durante l’ultimo anno, da quando il temperamento di Louis si era diretto con decisione verso l’intrattabilità.

   «Così non ti scorderai di me» minimizzò Valentine, scrollando le spalle.

   «Non potrei mai scordarmi di te» sibilò l’altro, calcando con troppa forza il pennino sulla pergamena: la punta si spezzò, spandendo un’orribile macchia nera.

   «Davvero?» chiese Valentine, mentre il più piccolo armeggiava per rimuovere quello sbafo ignominioso.

   «È dal primo anno che sono costretto a sopportarti» rimuginò Louis. «Non potrei scordarti nemmeno se volessi.»

Si aspettava una frecciatina, oppure una pagliacciata, ma gli rispose solo il silenzio. Rialzò lo sguardo, e quasi si spaventò nel notare l’altro che lo fissava con un’espressione di angelica beatitudine.

   «Grazie» si compiacque Valentine.

   «Non era un complimento» gli rese noto Louis.

   «Invece lo era. È rassicurante sapere che qualcuno non si scorderà di me, nemmeno se dovessi sparire» fu la criptica replica del più grande.

Le iridi cerulee si tinsero di incomprensione.

   «Sparire?» ripeté Louis.

L’indice di Valentine picchiettò sul libro di testo.

   «Manca l’ultimo esercizio» gli ricordò, ammutolendo subito dopo.

Louis lo fissò ancora qualche istante, indeciso, poi riportò sguardo e attenzione sulle esercitazioni.

C’erano giorni in cui davvero non capiva cosa passasse  per la testa a soqquadro di Valentine.

 

***

 

   «Ma siete sposati, per caso?»

   Scorpius non rispose subito: la sua concentrazione era assorbita dal volto pallido e immobile dell’amico, e gli occorse qualche istante per capire che Madamina stava parlando con lui.

   «Ogni volta che uno si fa male, l’altro resta al suo capezzale fino all’alba» chiarì la dottoressa. «Ho visto coppie sposate resistere molto meno.»

   C’era una chiara contraddizione nel discorso di Madamina: non vedeva come, curando adolescenti dai quattordici ai diciassette anni, potesse mai avere avuto a che fare con coppie sposate. Ma non si azzardò a domandare: non voleva che l’infermiera prendesse il suo dubbio come un aggancio per narrargli delle sue passate avventure. Non che i racconti di Madamina fossero noiosi, anzi, la maggior parte delle sue vicissitudini avrebbe trovato un’ottima collocazione in un’antologia di genere avventuroso. Ma non aveva voglia di ascoltare le sue favole mentre Albus era ancora privo di sensi.

La dottoressa controllò i valori del ragazzo, cambiò la flebo ed uscì, lasciandolo solo con il compagno.

     «Hai sentito?» domandò, rivolto al giovane addormentato. «Fanno insinuazioni mentre tu non puoi rispondere.»

Avrebbero dovuto essere nella loro Casa a festeggiare, invece erano di nuovo nel regno di Madamina.

Erano finiti spesso in infermeria a causa del Quidditch: dita insaccate, ginocchia sbucciate, caviglie provate erano all’ordine del giorno. Per non parlare del periodo in cui avevano fatto da apprendisti ad Achill: Madamina aveva quasi pensato di creare una tessera di fedeltà solo per loro.

Ma non era mai stato inquieto come quel giorno. Aveva notato la prima fase della caduta di Albus, anche se era stato deconcentrato dalla partita: l’amico era scivolato dalla scopa come se avesse avuto un malore, e i secondi in cui era rimasto a terra, appallottolato su se stesso, non avevano fatto che rafforzare quell’impressione.

Il volto di Albus appariva diafano nella luce rarefatta dell’infermeria, e Scorpius sollevò una mano per sfiorare la guancia dell’amico. Era tiepida e immobile, e non reagì al suo tocco imporporandosi come sempre.

Allungandosi su di lui, però, Scorpius poté notare un dettaglio che prima gli era sfuggito: una sottile linea scura spuntava dallo scollo rotondo della maglietta del giovane. Avrebbe pensato ad un capello incastrato nel colletto se il nero di quella riga non fosse stato così innaturale.

Sperò che Madamina non rientrasse in quel momento, o avrebbe dovuto sopportare le sue battutine per un bel pezzo: si sporse sull’amico svenuto e abbassò lo scollo della maglia in modo da denudare la spalla.

Sentì il sangue ritrarsi nelle vene quando, sulla pelle liscia di Albus, fu visibile un’orribile stigmate scura. Aveva le dimensioni di un insetto, ed il colore tenebroso che la costituiva non era fermo, ma formato da strani caratteri orientali in continuo mutamento all’interno del confine dell’innaturale cicatrice.

   «Non dovevi scoprirlo così.»

Scorpius non si sorprese troppo nel voltarsi e riconoscere Haru, in piedi sulla porta della camera. Aveva sospettato un suo coinvolgimento nel momento stesso in cui aveva visto quegli ideogrammi agitarsi all’interno della ferita.

   «E come dovevo scoprirlo?» rivestì la spalla dell’amico, mentre poneva quella domanda. Ad Albus non avrebbe fatto piacere rimanere scoperto troppo a lungo.

   «Te ne avrebbe parlato lui» rispose Haru. Rose aveva fatto ritorno al dormitorio della sua Casa, e lui era riuscito a strisciare fuori dalla Sala per andare a visitare l’amico. Si era aspettato la presenza di Scorpius, ma non che avesse scoperto il segreto di Albus.

   «E da quando ne ha parlato con te?» lo interrogò Scorpius.

   «Da quando mio cugino ci ha attaccati.»

Il grigio freddo delle iridi avvampò di irritazione, visibile nonostante gli sforzi di Scorpius di contenersi.

   «Quindi sono passati due anni.»

   «Sono davvero spiacente» si scusò Haru.

Scorpius ritrasse le labbra, per evitare di lasciarsi sfuggire qualcosa di molto antipatico. Tutti loro si erano abituati alla riservatezza dell’asiatico, ma l’idea che Albus gli avesse tenuto nascosto qualcosa per tutto quel tempo lo irritava terribilmente.

   «Era sparito» lo difese Haru. «Una settimana dopo, quel graffio era sparito senza lasciare traccia. Probabilmente pensava che si trattasse di una ferita passeggera, e per questo non ve ne ha parlato. L’ho creduto anche io, fino ad oggi.»

Il suo animo fu lievemente ammansito da quella seconda informazione. Almeno, Albus aveva taciuto su una cosa che credeva volatilizzata. Lo avrebbe perdonato più facilmente, sapendo che non aveva mantenuto un segreto in malafede.

   «Come è successo?» chiese Scorpius, passandosi una mano sul viso.

   «Deve essere stato colpito da uno dei famigli di mio cugino» ponderò Haru. «A giudicare dalla forma della cicatrice, direi un verme.»

Quell’ultima considerazione aprì uno squarcio nella memoria di Scorpius: Macauley che puntava un dito tremante sulla spalla di Albus, tartagliando qualcosa su un lombrico. E lui lo aveva rimproverato, dicendogli che un invertebrato non avrebbe rappresentato il peggiore dei loro problemi. Ironia del destino, proprio quel lombrico era stato il veicolo della ferita nera sulla spalla di Albus.

   «Era sparita» rimarcò Haru. «Senza lasciare la minima traccia. Oggi è ricomparsa per la prima volta in due anni.»

   «Cosa potrebbe essere?» indagò Scorpius, ipnotizzato dalla spalla dell’amico: anche se la maglia era stata rimessa al suo posto, gli pareva di vedere ancora il graffio nero allungarsi sulla pelle lattea.

   Haru mostrò le mani in segno di resa, sconsolato.

   «Ho cercato sui miei testi di magia, ho consultato mio nonno, ne ho parlato anche con Eeriemay-sama e il corpo docente. Nessuno conosce questa particolare fattura.»

   «Quindi non avete idea dei danni che potrebbe provocare» concluse gelido Scorpius.

   «No» ammise amaramente Haru. «Alla luce di quanto avvenuto oggi, Eeriemay-sama ha supposto che sia qualcosa di simile alla cicatrice che il padre di Albus-kun aveva sulla fronte. Anche Harry-san soffriva di terribili dolori per…» Haru si sfiorò la fronte, allusivo.

   «Ma tuo cugino non ha tentato di uccidere Albus» ricordò Scorpius.

   «No. Infatti dubito che sia in qualche modo riconducibile alla tipologia di suo padre» confermò l’orientale.

   «Il problema centrale resta» controbatté l’altro. «Non sappiamo cosa sia e cosa potrebbe comportare.»

Haru annuì gravemente, incrociando le braccia.

I pugni del ragazzo di Slytherin si strinsero sulle ginocchia. Non poteva accettare che Albus affrontasse quel pericolo da solo, senza che lui potesse fare nulla.

Di nuovo, fu la memoria a soccorrerlo.

   «Potrebbe trattarsi di una di quelle nuove magie oscure di cui ci avevi parlato al quarto anno?» sondò.

   «È possibile» asserì Haru.

   «Quindi la soluzione potrebbe risiedere non nella magia conosciuta ma in un nuovo incantesimo» teorizzò Scorpius. Il giapponese annuì di nuovo e l’altro domandò: «È possibile entrare a far parte di quel centro di ricerca di cui ci avevi parlato?»

Le spalle dell’asiatico si raddrizzarono con serietà, e il suo sguardo si incupì.

    «Scorpius-kun, il motivo per cui ti stai proponendo è nobile, ma ti invito a riflettere con serietà. Se deciderai di aderire, non potrai andartene dopo aver trovato una cura per Albus-kun: abbiamo bisogno di maghi che possano garantire un impegno assiduo e costante. Sei pronto ad impegnarti con il nostro gruppo per i prossimi anni, se necessario?»

Scorpius trovò la sua decisione nel viso scolorito dell’amico: chi lo avrebbe aiutato, se lui si fosse tirato indietro?

   «Sono pronto» dichiarò sicuro.

Il giapponese lo scrutò con mortale serietà, alla ricerca di un minimo tentennamento nella sua persona. Non ne trovò nemmeno l’ombra, per cui lo accolse formalmente:

   «Benvenuto tra noi, Scorpius-kun. Domani parleremo meglio del tuo inserimento in uno dei gruppi di ricerca.»

Haru sparì dalla stanza dopo essersi inchinato velocemente, e Scorpius gli fu grato per la sua discrezione.

Le sue dita scivolarono sulle coperte, andando a raggiungere la mano di Albus, abbandonata lungo il fianco, e si strinsero attorno alle compagne.

Non avrebbe lasciato andare quella mano.

Non proprio ora che l’amico aveva bisogno di lui più che mai.

 

***

 

   C’era qualcosa di oscuro e strisciante, tutto intorno a lui.

Lo sentiva arrotolarsi vicino alle sue caviglie come un serpente.

Rimase immobile, sperando che quella bestia lo sorpassasse velocemente. Invece la presenza viscosa rimase attaccata ai suoi piedi, e gli parve di avvertire il suo ghigno sadico contro la tibia.

Poi, all’improvviso, dall’oscurità cadde qualcosa. Una pesante goccia gli piovve sul viso, seguita da un’altra sulle mani, e un’altra ancora sul petto, finché quel liquido pastoso non diventò un incessante scroscio intorno a lui.

Lo riconobbe.

Rosso, salato, caldo.

Era sangue.

L’ombra pioveva sangue.

 

   Si risvegliò con il cuore in gola e la fronte madida di sudore, le labbra spalancate in un rantolo inconsulto.

Riuscì a calmarsi solo quando riconobbe le pareti chiare e l’odore asettico dell’infermeria. Trascorse un secondo e si agitò di nuovo, ma per un motivo molto più piacevole: la sua mano era intrappolata nella presa gentile di quella di Scorpius.

   «Sei rimasto qui tutta la notte?» esclamò, prima di riuscire a controllare la sorpresa.

Scorpius si rialzò mollemente dal materasso, battendo più volte le palpebre incollate dal sonno. Anche lui impiegò qualche istante per mettere a fuoco il posto in cui si trovava.

Albus sentì il cuore martellargli nella testa quando l’altro non lasciò la presa sulla sua mano, nemmeno quando fu del tutto sveglio e lucido. Al contrario, Scorpius avvicinò le dita dell’amico al proprio petto quando esordì, la voce ancora arrochita dal sonno:

   «Albus, devo parlarti di una cosa…»

La conversazione venne troncata sul nascere da un urlo raccapricciante, che fendette l’aria insonnolita della mattina.

   «Valentine!» strillò una voce femminile, scheggiata di panico e orrore.

Albus rabbrividì da capo a piedi, mentre l’incubo prendeva forma nel mondo reale.

L’ombra pioveva sangue.

 

 

 

 

 

 

Finalmente al sesto anno, dove i giochi si complicano<3

Di nuovo, mi inchino e chiedo il vostro perdono per il ritardo ç___ç Ma gli esami universitari incalzano e, se non si passano, non si parte per il Giappone a marzo .-.

Anyway<3

Eccoci finalmente al sesto anno e i nostri eroi entreranno in tempesta ormonale, cribbio!  <3

Una piccola nota sui suffissi usati da Haru:

San: suffisso onorifico piuttosto generico, usato per le femmine e per i maschi.

Kun: si utilizza tra coetanei, amici di sesso maschile o ragazzi più piccoli; non si usa con le ragazze (sarebbe come dare loro degli uomini XD)

Sama: onorifico più formale di –san, utilizzato verso persone superiori in gerarchia.

Ciò detto… mi metto subito a scrivere il prossimo capitolo, non voglio farvi aspettare ogni volta quasi un mese ç_ç

A presto<3

Red

 

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Capitolo 10
*** Lutto ad Hogwarts ***


2

Lutto a Hogwarts

 

 

 

Dalla camera non provenne alcun suono, ma Rose aprì comunque la porta.

Il piccolo stava infossato nel letto, spandendo una nube di depressione tutto intorno.

«Louis?» lo chiamò Rose, accostandosi al giaciglio. Le spalle incurvate ebbero un fremito, ma non una parola uscì dalle labbra pallide.

La ragazza si inginocchiò ai piedi del materasso e lo consigliò, con fare materno:

«Louis, se non mangi nulla ti deperirai.»

Il piccolo si rattrappì su se stesso, incarcerando gli occhi tra le ginocchia ossute.

«Sono due giorni che rifiuti il cibo. Per favore, mangia qualcosa.»

«Non mi va» la voce di Louis arrivò flebile e distorta dall’abisso in cui era stritolata. «Il mio stomaco è imploso.»

Rose inspirò profondamente, alzando gli occhi al cielo. Erano dunque giunti alla parte più spinosa del discorso.

«Quello che è successo a Valentine…» cominciò, scandendo lentamente in modo che Louis potesse assorbire ogni parola. «È qualcosa di atroce. È comprensibile che tu sia sconvolto; tutta Hogwarts sta vivendo il lutto, e ognuno lo affronta a modo suo. Ma…»

«Lui lo sapeva.»

Rose non si aspettava di essere interrotta, per cui lo stupore per l’intervento del parente la paralizzò momentaneamente.

«Chi sapeva cosa?» domandò, con cautela.

«Valentine. Sapeva che gli sarebbe successo qualcosa» Louis sollevò dalle ginocchia un paio di occhi gonfi e rossi in un modo tale da far stringere il cuore per la compassione. «Per questo mi ha chiesto di non dimenticarlo.»

Il piccolo infossò di nuovo il viso nelle gambe incrociate, e singhiozzò:

«Avrebbe dovuto cercare di evitare quella cosa, se sapeva che sarebbe arrivata, anziché fare il malinconico con me. Ma è sempre stato uno stupido!»

Sull’ultima sillaba la sua voce divenne irriconoscibile, affilata dalla rabbia e frantumata dal pianto. Rose accorse al suo fianco, e lo cullò fino a che i suoi singhiozzi non si placarono in lacrime silenziose.

Reclinò la testa all’indietro per ricacciare le lacrime che minacciavano di sfondare gli argini: Louis era sufficientemente scosso, non necessitava certo di una parente piagnona al suo fianco. Aveva bisogno di qualcuno che gli infondesse scurezza, non che aggiungesse il proprio pianto al suo.

La morte di Valentine aveva sconvolto tutti loro.

Era stata una Hufflepuff del terzo anno a scoprire il corpo. Amareggiata per il risultato della partita di Quidditch, aveva deciso di rilassarsi con una passeggiata lungo i corridoi della scuola. La sua tranquillità era stata brutalmente fatta a pezzi dal pungente odore ferrigno e dal liquido viscoso che si era appiccicato alla sua scarpa. Era bastata un’occhiata per accorgersi che quella in cui aveva inavvertitamente infilato il piede era una pozza di sangue, e che lo stagno scarlatto era riversato dal corpo squarciato di quello che era stato Valentine Cross.

Rose non aveva visto il corpo: faceva parte della seconda ondata di studenti, quelli arrivati quando i professori erano già accorsi a rimuovere il cadavere con la magia, e a cercare di tranquillizzare gli allievi che avevano visto quello scempio abominevole. Madamina non era mai stata tanto impegnata nella somministrazione di tranquillanti e sedativi.

Louis, Albus e Scorpius facevano invece parte della prima ondata: l’infermeria in cui i due Slytherin avevano passato la notte era tragicamente vicina al luogo del delitto, e il Fato aveva deciso che Louis scegliesse proprio quel momento per fare visita al parente infortunato.

Rose non avrebbe mai dimenticato lo stravolgimento che aveva letto sul volto del cugino e di Scorpius, ma ciò che l’aveva angosciata di più era stata la reazione di Louis: fermo e impallidito come se la morte si fosse appropriata anche del suo sangue, era rimasto in quello stato catatonico perfino quando la Eeriemay lo aveva gentilmente sospinto verso Madamina, gli occhi calamitati sul corpo martoriato che quel pomeriggio gli aveva spiegato gli esercizi di magia.

I professori non avevano divulgato dettagli riguardo alle loro indagini su quel delitto: avevano solo incoraggiato gli studenti a mantenere la calma, e a fidarsi di loro.

Louis non era riuscito a seguire il loro consiglio: era rimasto in camera, chiuso nel silenzio e nel digiuno, e aveva permesso solo a Rose di interrompere il suo isolamento.

«I professori non hanno detto nulla? Su chi o cosa sia stato a ridurlo così?»

Rose scosse la testa, e gli accarezzò i capelli morbidi.

«No. Nulla.»

«Sembrava che fosse stato sbranato da un drago» commentò, la voce ingolfata dalle lacrime e dallo shock. «Era tutto aperto… era…»

«Louis» lo richiamò gentilmente Rose, abbracciandolo più stretto. «Non devi torturarti così.»

Il piccolo si agitò debolmente tra le sue braccia, poi si accoccolò contro di lei e rimase fermo, in silenzio. Quando la crisi sembrò essersi acquietata, Rose gli sollevò il viso arrossato dal pianto e sillabò con lentezza:

«Te la senti di scendere in Sala Comune o preferisci che ti porti qualcosa da mangiare? Non puoi continuare a digiunare per sempre» aggiunse, per prevenire qualunque protesta.

Louis inclinò il capo in avanti e lo fece ciondolare debolmente a destra e sinistra.

«Non me la sento di scendere» borbogliò, tornando a stendersi.

«Allora ti porto qualcosa» sancì Rose, avviandosi verso la porta. Louis non la ringraziò, ma nemmeno protestò per quell’intrusione nel suo lutto.

Haru la attendeva al di fuori della porta: consapevole dell’astio che il piccolo Griffyndor nutriva nei suoi confronti, aveva preferito lasciare che la giovane entrasse da sola.

«Come sta?» si informò, seguendola mentre scendeva verso le cucine.

«Si riprenderà. Con il suo tempo» sospirò Rose. «È stato un duro colpo per lui. Era molto affezionato a Valentine.»

«Lo insultava sempre.»

«Proprio per questo so che era affezionato a lui. Louis non spreca tempo per infamare persone che gli sono indifferenti o antipatiche: le ignora semplicemente.»

Rose si voltò verso l’orientale e bisbigliò cospiratoria:

«L’incidente di Valentine… ha qualcosa a che fare con le nuove magie di cui ci avevi parlato al quarto anno?»

Haru sistemò gli occhiali sul naso, soppesando la possibilità.

«Non lo escludo. Dovrei recarmi al Quartier Generale per potermene accertare» poi propose, riprendendo a camminare: «Puoi venire con noi, questa sera. Io e Scorpius abbiamo intenzione di raggiungere gli altri.»

«Che c’entra Scorpius?»

«Si è aggiunto al nostro gruppo qualche giorno fa.»

«Per quale motivo?»

Haru frenò così bruscamente che Rose quasi gli finì addosso. L’asiatico le lanciò uno sguardo vagamente pettegolo da sopra gli occhiali e flautò:

«Per Albus.»

Le sopracciglia fulve di Rose si sollevarono in un rimprovero canzonatorio.

«Non credevo fossi così malizioso» lo provocò.

«Ci sono molte cose che ancora non sai» minimizzò Haru. «Ma potresti scoprirle venendo insieme a noi, questa sera.»

«È un ricatto?»

«Un invito ad ampliare i tuoi orizzonti intellettuali.»

Rose lo lasciò a cuocere nell’attesa per almeno cinque minuti prima di degnarlo di una risposta.

«Verrò.»

 

***

 

Albus sfregò la mano contro la cicatrice rovente. La rivelazione dell’amico sembrava averla incendiata.

«Puoi ripetere?» domandò, incredulo.

«Ho deciso di aggiungermi al gruppo di ricerca di Haru» reiterò statuario Scoprius.

«Perché hai preso questa decisione?» chiese Albus, sempre più confuso.

Il progetto proposto dal giapponese era allettante, ma da tempo quell’argomento non rientrava più nelle loro conversazioni. Era una decisione molto importante, che avrebbe inevitabilmente cambiato il loro futuro; non pensava che Scorpius sarebbe riuscito a scegliere senza farne parola con nessuno, e in modo così improvviso. Non riusciva a capire cosa avesse potuto fargli cambiare idea a quel modo.

Scorpius si prese qualche istante per riordinare le idee e stilare un discorso logico.

«Al primo anno siamo stati attaccati da una bestia, e al quarto da un mago sconosciuto. Valentine è stato ucciso. Non voglio farmi trovare impreparato» spiegò, con calma.

«Ma puoi difenderti anche con la magia normale» protestò Albus.

L’altro arricciò le labbra: sperava che l’amico non si accorgesse della piccola breccia nella sua esposizione. Con il passare degli anni, era sempre più chiaro perché il piccolo Potter fosse stato assegnato a Slytherin.

Scorpius prese fiato, e finalmente ammise quello che voleva confessare qualche sera prima.

«La tua cicatrice non appartiene alla magia canonica. È un nuovo tipo di maledizione. E ho intenzione di trovare una cura.»

Gli occhi di smeraldo si spalancarono per l’incredulità.

«Lo stai facendo per me?»

Scorpius fece un vago cenno con la mano, per confermare senza essere costretto a rendere la situazione ancora più imbarazzante.  

«Non sto andando in guerra contro un nuovo Signore Oscuro. Devo solo assistere un gruppo di ricerca» si ribellò con eleganza Scorpius.

«Ma è un impegno a lungo termine! Haru è stato chiaro su questo punto: non possiamo aggiungerci se abbiamo intenzione di mollare dopo qualche anno. Condizionerà tutto il tuo futuro! E poi…» Albus conficcò una mano nella tasca, dove il lupo d’argento gli trasmise una rassicurante frescura. «E poi, il gruppo di Haru è l’antagonista dei nuovi maghi oscuri: verranno loro a cercarvi, in ogni modo. E tu dovrai affrontarli.»

«Non sono riusciti a uccidermi due anni fa, non ci riusciranno nemmeno adesso» dichiarò Scorpius, con la sicurezza strappata a un eroe delle epopee di Avalon.

«Ma è diverso! Questa volta non saranno ologrammi, o ectoplasmi o robe simili: saranno maghi in carne e ossa!»

«E noi studieremo per sconfiggerli.»

«Scorpius, è un impegno troppo grande!»

«Non voglio che quella cicatrice ti divori mentre io me ne sto a contare le nuvole, Albus!»

Fino ad allora Scorpius aveva ribattuto conciso e calmo, ma in quel momento un’emozione nuova gli infiammò la voce. L’aveva contenuta nelle mani tremanti, arroccate all’interno delle tasche dei pantaloni, e l’aveva morsicata sulle labbra mentre l’amico cercava di convincerlo a desistere. Ma non era riuscito a trattenerla fino alla fine.

Albus lo fissò, spiazzato dal suo tono e dalla sicurezza con cui l’amico era pronto a gettarsi tra mille potenziali pericoli solo per il suo bene. Il minore dei Potter deglutì lentamente, senza staccare gli occhi dalle iridi grigie e fredde dell’altro.

«Non posso impedirti di aggiungerti al gruppo» meditò ad alta voce; raddrizzò le spalle e la voce nel proferire: «Ma tu non puoi impedirmi di accompagnarti.»

Scorpius saltò su se stesso come se fosse stato punto da una tarantola.

«Voglio esserti di sostegno mentre affronterai… qualunque cosa dovrai affrontare. Non voglio che i maghi oscuri ti uccidano mentre io me ne sto a contare le nuvole.»

Anche quel modo lievemente sadico di ritorcere contro l’interlocutore le sue stesse parole segnava il definitivo slancio di Albus nella cerchia degli Slytherin.

Scorpius fu sul punto di ribattere, ma le parole gli si essiccarono in gola. Il ricordo del sangue di Valentine sparso ovunque correva tra di loro, silenzioso e putrido come un fiume di melma, ed entrambi stavano cercando disperatamente di evitare che anche l’altro diventasse un rigagnolo di quel macabro ruscello.

Non vi era vischio, quel giorno, ma Scorpius non si fece intimidire dalla mancanza dei fiorellini spauriti. Si accostò ad Albus con un unico passo e, veloce come un fulmine, si chinò su di lui e gli sfiorò le labbra con le proprie.

«Haru ci farà strada, stasera» disse solamente, prima di lasciare l’amico, confuso e purpureo, in mezzo al giardino.

 

***

 

«Mi stai chiedendo di buttarmi in mezzo a una selva di germi sconosciuti e potenzialmente letali?»

«Dal tuo punto di vista, immagino si possa definire così.»

«Perché dovrei farlo? Tu non mi piaci molto, Harunobu, e i batteri mi piacciono ancora meno.»

«Ma Rose, Albus e Scorpius ti piacciono, vero? Hai intenzione di lasciarli da soli in questa avventura?»

Nott fissò il giapponese con astio, da sopra il muro della mascherina. Sistemò gli elastici attorno alle orecchie e ringhiò, visibilmente contrariato:

«Sei un vile ricattatore, Harunobu. E sono costretto ad accettare.»

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Scusate l’atroce ritardo ç_ç

I preparativi e la partenza per il Giappone mi hanno tenuta lontana dal pc ç_ç Scusate *bows*

Ora sono nel paese del Sol Levante, quindi è probabile che aggiornerò ad orari potenzialmente strani xD

D’ora in poi (come avrete notato da questo ç_ç) i capitoli saranno più corti, perché il tempo per stare al pc è poco e scaglionato, e, per evitare altri mastodontici ritardi, cercherò di aggiornare più spesso, anche se con capitoli più corti.

Anyway… finalmente si sono baciati *w* (autrice che fanshippa la coppia della sua stessa fanfic XD). Forse vi sarà sembrato un po’ improvviso, ma… attendete il prossimo capitolo<3 Che cercherò di postare il prima possibile<3

Grazie, come sempre, per la pazienza e per seguire questa storia<3

A presto!

Red

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Capitolo 11
*** Nuovi Inizi ***


3

Nuovi Inizi

 

«Sto per morire.»

«Coraggio, Macauley. So che ce la puoi fare.»

«Scorpius Malfoy, abbiamo passato sei anni a Hogwarts insieme, incollati ogni santo giorno. Esattamente, cosa nel nostro passato comune ti fa pensare che io possa sopportarlo

Scoprius si esibì nel suo migliore sorriso di circostanza per mascherare gli squittii isterici del suo amico e le sue repliche fredde.

«Macauley, se non collabori, finirai ammazzato da un mago oscuro. E sarà mia premura farti finire nel loculo più dimenticato e sporco di tutto il cimitero» sibilò.

«Esiste un girone all’inferno per quelli come te, Scorpius Malfoy» ringhiò Macauley.

Haru non aveva perso tempo: li aveva portati in una delle sedi della sua misteriosa associazione. Avevano infranto il coprifuoco, ma la Eeriemay aveva assicurato protezione: nessuno, nemmeno il vecchio guardiano rompiscatole, avrebbe notato la loro piccola fuga.

Haru li aveva scortati nel bosco, fino a fermarsi di fronte a un’enorme quercia. Si stavano chiedendo quale fosse lo scopo nell’averli condotti fino a lì quando le radici della quercia si appallottolarono, formando una graziosa porticina di legno, da cui erano entrarono.

L’interno dell’albero ricordava la taverna di un cacciatore di montagna: pesanti tappeti erano appoggiati sullo spesso parquet di faggio, un rustico caminetto scoppiettava a lato e una credenza piena di bottiglie che non dovevano contenere succo di zucca torreggiava in fondo alla stanza. Quattro persone li attendevano, impegnate nelle attività più disparate: due gemelli dai cappelli rossi stavano completando un disegno, una riga a testa in rapida successione come se i loro cervelli fossero collegati; Dallas, il cugino di Albus, li salutò festante mentre preparava un vassoio colmo di bicchieri; un veterano con la polvere di mille battaglie arpionata alla pelle e ai vestiti sgracchiò sonoramente per accoglierli.

«Benvenuti ad Avalon» annunciò Dallas, facendo passare il vassoio.

«Avalon?» gli fece eco Rose.

«È il nome della nostra società» confermò il ragazzo. Bevve un sorso dal suo bicchiere e continuò: «Almeno, di questo ramo della società.»

«Ce ne sono altri?» esacerbò Macauley, la voce acuita da una punta di isteria. I suoi occhi non avevano abbandonato per un solo istante la camicia lercia del veterano.

«Una cinquantina, sparsi in tutto il mondo» la voce dell’uomo suonò grezza e sporca come il tabacco masticato. «Cerchiamo di darci da fare per tenere i maghi oscuri sotto controllo.»

«Vorrei che vi deste da fare a un milione di pulitissimi chilometri da qui-ahia!» protestò Macauley, quando la bacchetta di Scorpius lo pungolò in mezzo alle costole.

Il veterano sollevò le sopracciglia cespugliose, e si avvicinò allo Slytherin sull’orlo dell’iperventilazione. Panico allo stato puro salì negli occhi di Mascauley a ogni nuovo passo dell’uomo.

«Tu sei una specie di maniaco dell’igiene, non è vero?» notò quello.

«”Psicopatico igienista” è il termine corretto» puntualizzò Scorpius.

«Lascia che ti insegni una cosa amico: quella mascherina e quei guanti di lattice non ti salveranno in battaglia. Un buon compagno sì.»

«Un buon compagno pulito, possibilmente.»

«I batteri non sono il male peggiore di questo mondo.»

«Ha mai letto le statistiche sui deceduti per malattie infettive ogni anno?»

«Sto dicendo che ci sono cose più importanti della tua fobia.»

Macauley inalberò la mascherina e mitragliò:

«Lei rimanga ancorato alla sua religione antigienica, sotto la benedizione della divinità “polvere”, e io continuerò a pregare i santi protettori dei disinfettanti e battericidi.»

Il veterano tirò su con il naso in un modo che per poco le narici non gli rientrarono nel cervello; Macauley trasalì sulla sedia, agghiacciato.

«Novellini» masticò l’uomo. «Non cambiano mai.»

«Sei troppo…»

«… drastico Angelo.»

La frase la iniziò uno dei due gemelli, ma la terminò il secondo.

Rose avvertì una fitta allo stomaco nel sentirli parlare. Ricordava quando suo padre parlava dei suoi fratelli e dello zio che non aveva mai conosciuto. E ricordava ancora meglio quando zio George parlava di zio Fred.

Forse anche loro erano stati come quei due gemelli, un tempo.

«E hai l’aspetto di un vecchio lupo di montagna spelacchiato.»

«Per forza la gente è impaurita da te.»

«Come sarebbe impaurita dalla peste.»

«O dal vaiolo.»

I gemelli continuarono a palleggiarsi il discorso, per poi stringersi la mano al termine.

«È un piacere sapere che sei sempre d’accordo con me» gorgheggiarono in coro.

«Ragazzi, ordine» li sollecitò Haru. «E presentazioni.»

Il veterano si pulì il naso sulla manica della camicia, e Macauley brandì il suo spray disinfettante.

«Angelo Della Morte» l’uomo torse le labbra in un sorriso risentito. «Già, i miei genitori avevano un pessimo senso dell’umorismo. E, sfortunatamente, facevano “Della Morte” di cognome.»

«Affascinante» Macauley indietreggiò, lo spray pronto in pugno.

«Esperto di magia italiana» continuò, con un portentoso sbadiglio. «E rientro oggi da una missione di sei mesi oltreoceano. Non ho avuto tempo di farmi una doccia, prima di venire qui.»

Macauley emise uno strano verso dal naso e dalle labbra strette, come se una risata isterica gli fosse ruzzolata sulla lingua per poi tuffarsi nuovamente nella sua gola. Non aveva avuto tempo per farsi una doccia. Allora avrebbe dovuto isolarsi sotto una tenda isolante che isolasse i suoi germi dal resto del mondo.

«Drew.»

«E Glenn.»

«Esperti di magia irlandese.»

«Da diciotto anni.»

«Praticamente dalla nascita.»

«Proprio così.»

Rose rinunciò a seguire con lo sguardo i due gemelli, mentre parlavano: i primi tentativi le avevano dato il mal di testa. Si limitò a fissare un punto indefinito in mezzo ai due, ascoltando la loro presentazione frammentata.

«Dallas Dursley» terminò il prefetto di Hufflepuff. «Esperto di magia vodoo.»

Tre teste scattarono simultaneamente nella sua direzione.

«Esperto di cosa?» esalò Rose, annichilita.

«Vodoo» ripeté placido Dallas.

Il volto rubicondo e il carattere festaiolo del ragazzo erano quanto di più distante esistesse dall’idea tetra dei riti vodoo.

Il sorriso del giovane inciampò sulle labbra, insicuro.

«Il vodoo non è solo nelle arti oscure; esiste il vodoo bianco.»

«Bianco?»

Se non avessero smesso di traumatizzarlo, la voce di Macauley sarebbe salita ai livelli degli ultrasuoni entro fine serata.

«E come sei diventato esperto di vodoo?» esclamò Rose.

«Ricordi la mia vacanza di tre settimane, di cui mio padre non vuole mai parlare? Ecco, avevo preso una Passaporta ed ero andato in Nuova Zelanda.»

«E tuo padre te l’ha permesso?» trasecolò Rose.

«Poche porte Babbane sono in grado di trattenere un mago. Papà lo sa, e ha preferito lasciarmi andare. Ha detto che se devo essere un mago, che almeno sia un mago specializzato.»

Dallas. Vodoo.

Era come dire che Voldemort era diventato famoso per i suoi ricami all’uncinetto, o che lo zio Harry amava l’ippica sopra il Quidditch. Qualcosa di talmente anomalo che la mente umana faticava ad associare i due concetti nella stessa linea di pensiero.

Rose chiuse gli occhi, e scosse la testa. Gradualmente. Si sarebbe abituata gradualmente.

Terminarono le presentazioni, e Haru procedette con il punto successivo:

«Ora dobbiamo dividerci in squadre operative. Siamo cinque veterani e quattro matricole, giusto?»

«Noi andiamo contati come uno» trillarono i gemelli.

«Allora siamo pari» sgracchiò Angelo.

«Un momento» il panico era quasi palpabile, nella voce di Macauley. «Cosa intendi per squadre

«Siete dei novizi nell’organizzazione» spiegò Haru. «È normale che veniate affidati ai colleghi più anziani.»

«Io prendo l’isterico» si prenotò l’italiano.

«Stai lontano da me!» lo spruzzino disinfettante svettò minaccioso nell’aria, mentre Macauley si distanziava dalla fonte di batteri salendo su una sedia.

«Macauley-kun, è logico che siano i compagni anziani a scegliere» cercò di calmarlo Haru. «Anche a Hogwarts, è il Cappello a decidere in quale Casa assegnare gli studenti…»

«Il Cappello può sbagliare! Infatti ti ha messo in Hufflepuff e non nelle segrete, come avresti meritato!» gridò Macauley. Poteva perdonare chi lo raggirava, avrebbe potuto perdonare perfino un tentato omicidio ma non avrebbe mai perdonato Harunobu per averlo messo in diretto contatto con quel cumulo di sporcizia ambulante.

«Noi vogliamo lavorare con Rose.»

«Sembra una ragazza intelligente.»

«È sicuramente portata per la magia irlandese.»

«Tutte le persone intelligenti lo sono.»

Rose si trovò affiancata dai gemelli irlandesi, uno per braccio, con due paia di occhi azzurri che la fissavano sfavillanti.

«Io mi occupo di mio cugino» asserì Dallas, gettando un braccio attorno alle spalle di Albus.

«Rimaniamo noi due, Scorpius» notò Haru.

«Che tu possa affogare in una discarica, Harunobu» ringhiò a denti stretti Macauley.

«Non vi abbiamo ancora spiegato come intendiamo procedere» il giapponese ignorò con un’eleganza quasi sfacciata l’invettiva di Macauley.

«In effetti, “riscrivere le regole della magia” è un concetto un po’ troppo vasto» confermò Rose.

«Oh, dovrete aspettare, prima di arrivare a “riscrivere le regole della magia”» la riprese bonario Angelo. «Prima di tutto, dovete imparare a uscire dagli schemi; solo in seguito potrete maneggiare la magia secondo i vostri desideri.»

«Una cosa del genere è possibile?» si sorprese Scorpius.

«Non del tutto.»

«Le regole fondamentali vanno rispettate.»

«Noi non siamo maghi oscuri.»

«Riscriviamo solo il contorno» intonarono i gemelli.

Haru mosse un passo verso il centro della stanza, quando gli fu chiaro che gli altri non avrebbero capito senza un esempio pratico.

«Avete tutti presente l’incantesimo protettivo Expecto Patronum, giusto?» premise velocemente, prima di infilare una mano in tasca ed estrarne un foglio di carta, piegato a guisa di falco. «Questo è uno shikigami, l’equivalente orientale della vostra magia: crea un animale protettore in grado di allontanare bestie come i Dissennatori.»

I ragazzi annuirono; avevano visto Haru utilizzare quella magia al quarto anno. Tuttavia, Rose notò immediatamente un particolare.

«Aspetta un attimo: quella volta, hai usato il rosario, non un pezzo di carta.»

«Acuta come sempre, Rose-san» si complimentò Haru. Come due anni prima, mormorò una breve litania e strattonò il rosario fino a strapparlo. Prima che l’ultimo grano avesse smesso di rimbalzare al suolo, il drago argenteo fece la sua apparizione.

«Lui non è un ordinario shikigami» l’animale di luce si avviluppò flessuoso alle spalle del suo creatore, poggiando il capo sulla mano protesa del giapponese. «Ho riscritto l’incantesimo in modo che nessun mago nero possa contrastarlo con una comune magia.»

«Se non è uno shikigami né un patronum, allora cos’è?»

Harunobu non rispose subito, impegnato a cucire e rifinire le parole per tessere un discorso il meno sconvolgente possibile.

«È un pezzo della mia anima» sospirò alla fine.

Angelo quasi rise dell’espressione a metà tra lo stupore e l’orrore sui volti dei quattro ragazzi nuovi. Novellini: amava le loro facce caricaturali.

«Cosa hai detto che è?» esacerbò Rose.

«Ognuno di noi deve trovare una nuova fonte, per le sue nuove magie. Almeno per quelle più potenti. Non crederete di poter fare nuova magia con le vecchie fonti, vero?» lo soccorse malamente l’italiano. «Haru ha scelto la sua, ed è stata una scelta molto intelligente: in qualunque situazione, può attingere alla fonte e creare i suoi incantesimi. Sarebbe stato più stupido scegliere qualcosa di esterno, come il fuoco: basta un secchio d’acqua per spegnere ogni possibile incanto.»

«Inoltre, non ho legato tutta la mia anima alla mia magia» sottolineò Haru. «Solo il mio spirito combattivo.»

«E se un mago dovesse eliminare il tuo drago, cosa succederebbe?» insistette Rose.

«Lo spirito appartiene a me, quindi tornerebbe nel mio corpo.»

«Ne sei certo?»

«Teoricamente. Non è mai successo che il mio drago sia stato sconfitto.»

«Ehi» cercò di calmarli Angelo. «Le nuove magie sono sempre un rischio. Se non siete disposti a correrlo, è meglio che usciate subito.»

Nessuno si mosse: per quanto spaventati da quella nuova situazione, nessuno aveva intenzione di abbandonare i propri compagni al loro destino.

I novellini avevano fegato, almeno un po’. Angelo decise che quel gruppetto di poppanti non gli dispiaceva.

«Ma come facciamo a decidere la nuova fonte della nostra magia?» s’incaponì Rose.

«Non penserete di imparare tutto questa sera, vero?»

«È un percorso lungo.»

«Lungo e faticoso.»

«Ma noi siamo qui per questo.»

«Per guidarvi.»

«Finché non avrete trovato le vostre risposte» cinguettarono i gemelli.

Angelo annuì alle parole dei marmocchi.

Sarebbe stato un lungo percorso, ma quei pivelli potevano farcela.

Perfino il maniaco della pulizia, sarebbe riuscito a diventare un eccellente mago; Angelo avrebbe scommesso su di lui. E l’italiano non perdeva mai una scommessa.

 

***

 

«Non hai aperto bocca.»

Albus si riscosse a quelle parole.

Avevano fatto ritorno alla loro stanza, ed erano stati seminati da Macauley nel giro di pochi secondi – doveva correre a rimuovere qualunque possibile germe che la sola presenza dell’italiano poteva avergli appiccicato addosso. Non avevano idea di dove fosse l’amico, in quel momento: in camera erano rimasti solo loro due, a fissare i lati opposti della stanza.

Albus prese fiato, e, per la prima volta in tutta la sera, parlò.

«Sto cercando di capire perché il mio migliore amico mi abbia baciato» affermò senza giri di parole. «Non è esattamente una cosa comune tra…»

«Non ci sono molti motivi per cui una persona desidera baciare qualcun altro. Prova a pensarci» lo mitragliò Scorpius.

Gli occhi verdi di Albus si spalancarono, mentre un acceso rossore gli abbrustolì le guance. Poteva anche essere uno Slytherin, ma non si era ancora scrollato di dosso del tutto il suo primordiale candore.

Scorpius appoggiò la schiena alla parete, incrociando le braccia al petto.

Alcune cose cambiavano la propria prospettiva di vita. O meglio, infuocavano sentimenti che per anni avevano covato sotto la cenere.

Vedere il proprio amico essere quasi ammazzato durante un incontro di Quidditch e scoprire che portava su di sé una maledizione che avrebbe anche potuto portarlo alla tomba erano tra queste.

Non si passa una notte in infermeria tra le pene dell’Inferno e non si decide di buttarsi a capofitto in una lotta all’ultimo sangue contro le arti oscure senza realizzare di provare più di semplice amicizia, per la persona responsabile di queste scelte.

Anche se doveva ammettere che era stato azzardato baciarlo senza preavviso: non sapeva nemmeno cosa provasse Albus per lui. Ma non era riuscito a trattenersi, quando l’amico si era offerto di seguirlo in quella loro crociata impossibile. In fondo, era anche lui un adolescente con il sangue che gli ribolliva nelle vene.

«Credevo che ti piacessero le ragazze» riuscì a boccheggiare Albus alla fine.

«Ma tu non sei l’emblema della virilità» dovette chinarsi per evitare il cuscino che gli fischiò sopra la testa.

«Sono molto suscettibile, in questo momento» lo avvertì l’altro.

Scorpius si raddrizzò nella sua posa dinoccolata, imperturbabile.

«Anche io. Sto aspettando una risposta.»

Gli occhi verdi di Albus fissarono il pavimento, il letto, il muro, qualunque punto della camera che non fosse il proprio amico. Le labbra si accartocciarono una, due, tre volte, e le dita tamburellarono sulle ginocchia.

Scorpius avrebbe tanto voluto lanciare un incantesimo di lettura del pensiero e vedere cosa vorticasse nella testa dell’amico in quel momento, ma si trattenne: Albus non lo avrebbe mai perdonato, e non avrebbe potuto dargli torto.

Alla fine, il ragazzo esalò un profondo sospiro.

«Non è facile» cominciò, con tono grave. «Non mi aspettavo di piacerti. Non in quel senso, perlomeno.»

Albus fece di nuovo una pausa, e Scorpius fu tentato, questa volta, di lanciare un incantesimo per accelerare il tempo. Si sentiva come se lo avessero buttato sui carboni ardenti, e non riusciva a capire se Albus lo stesse facendo di proposito o meno: quel suo visetto angelico poteva ingannare tutti, ma non lui.

Il giovane passò una mano tra i capelli corvini, e lì si fermò, stringendo alcune ciocche tra i pugni.

«Normalmente, non avrei saputo cosa risponderti» riprese. «Però… immagino che non ci si offra di buttarsi nelle fauci di mille maghi oscuri per il proprio amico senza realizzare di essere più che amici, no?»

Questa volta fu il turno di Scorpius per guardare l’altro senza parole. Proprio quello che aveva pensato lui qualche istante prima. Che Albus gli avesse lanciato un incantesimo di telepatia senza che lui se ne accorgesse?

Magia o meno, Albus aveva appena ammesso di ricambiarlo. In un modo indiretto, ma lo aveva ammesso.

Scoprius non gli diede modo di aggiungere altro: si staccò istantaneamente dal muro, raggiunse il ragazzo in due falcate, gli afferrò il viso tra le mani e lo baciò.

Sentì un verso di sorpresa strozzarsi nella gola dell’amico quando gli schiuse le labbra per avere accesso alla sua bocca. Le mani di Albus si strinsero sulle spalle del compagno, e si rilassarono solo quando il giovane si fu abituato ai movimenti della lingua dell’altro.

Scorpius portò una mano dietro la nuca del giovane, quasi volesse impedirgli di scappare, mentre esplorava la sua bocca, seguito a tratti dai movimenti esitanti della lingua del compagno.

Quando si staccarono, Albus portò una mano alle labbra ancora umide di saliva, quasi incredulo. Poi esclamò:

«Era il mio primo bacio serio! Mi sento violato!»

«Ma se hai detto che mi ricambi!» protestò Scorpius.

«Ma non ti ho dato il via libera per tutto!» contestò Albus. «Pensavo che non sarebbe stato così improvviso!»

Scorpius si strinse nelle spalle, arrendendosi.

«Posso toccarti la faccia?» domandò. Albus annuì, e le mani di Scorpius gli circondarono di nuovo il viso.

«Posso avvicinarmi?»

«Mi chiederai il permesso per ogni passo?»

«Sei tu che mi hai chiesto di non essere improvviso.»

«Ma non ti ho chiesto di fare la cronaca minuto per minuto.»

«E allora cosa dovrei fare?»

Le braccia di Albus salirono lente a circondargli il collo.

«Baciami e basta» sussurrò il giovane.

Scorpius non esitò a cogliere l’invito, e congiunse di nuovo le loro labbra.

Albus sentì le mani dell’amico scivolargli sulla schiena e premerlo con più forza contro il suo petto quando il ritmo del bacio accelerò, e lui stesso strinse l’abbraccio per avere il compagno più vicino a sé. Nessuno dei due si accorse della porta che si apriva.

«Io chiedo asilo a Harunobu.»

I due si staccarono di colpo, fissando un raccapricciato Macauley freddato sulla soglia della camera.

Il giovane mostrò un sacchetto di plastica pieno di flaconcini: probabilmente era andato a svaligiare le scorte di Madamina per avere nuove armi di distruzione di massa contro i microbi.

«No, non spiegatemi niente!» li bloccò l’ultimo arrivato, facendo un passo indietro. «Sono affari vostri, io non mi intrometto. Ma non si copula in camera, chiaro?»

Macauley nemmeno rispose agli occhi che lo fissavano allibiti; si voltò e ricordò:

«Non fate niente che io non farei, durante la mia assenza.»

«Tu non respireresti nemmeno, se potessi» gli ricordò Scorpius.

«Esattamente» confermò Macauley. «Lo sai quanti batteri entrano nel condotto nasale con la respirazione?» e, come se questo spiegasse tutto, il ragazzo sparì alla volta del dormitorio di Hufflepuff.

«Questa è una… buona reazione?» valutò incerto Albus.

«Considerando il soggetto, direi che è ottima» convalidò Scorpius.

Nessuno dei due spese una parola in più per il terzo Slytherin: Albus allacciò di nuovo le braccia al collo del compagno, e Scorpius si chinò di nuovo su di lui.

Era stata una lunga giornata.

Avevano bisogno di sentirsi vicini, per quella sera.

 

 

 

Okay, provo vergogna per me stessa per il ritardo ENORME con cui aggiorno. Chiedo scusa ç_ç

Ho attraversato un blocco di ispirazione non indifferente per questa fanfic .-. Un enorme, gigantesco, orrido blocco che mi ha attanagliata per mesi >_>

Ma ora eccoci qui, con un nuovo capitolo<3

Il prossimo arriverà tra tre settimane, con tutti i dubbi della nuova coppia pronti ad esplodere<3<3 Non riesco a fare prima causa lavoro, perdonatemi ç_ç

Al prossimo capitolo<3

Red

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