Streghe di Zucchero e Segreti di Famiglia di HamletRedDiablo (/viewuser.php?uid=56405)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Slytherin ***
Capitolo 2: *** Vita Scolastica ***
Capitolo 3: *** Bosco Notturno ***
Capitolo 4: *** Nemmeno ad Hogwarts ***
Capitolo 5: *** Lo studente giapponese ***
Capitolo 6: *** Cambiamenti ***
Capitolo 7: *** Magia Orientale ***
Capitolo 8: *** Natale ad Hogwarts ***
Capitolo 9: *** La cicatrice ***
Capitolo 10: *** Lutto ad Hogwarts ***
Capitolo 11: *** Nuovi Inizi ***
Capitolo 1 *** Slytherin ***
Prologo
Non avrebbe mai
pensato che il suo ultimo anno di lezioni sarebbe stato così
movimentato.
Certo, le sue
preoccupazioni svanivano se paragonate a quelle che il suo eccelso padre aveva affrontato durante i
suoi diciassette anni.
Scrollò
la testa,
sospirando. Ormai era riuscito a far capire almeno agli incantatori di
Hogwarts
che lui era un individuo a se stante e non un’appendice della
fama paterna. Ma,
per il resto del mondo magico, lui non era che una ramificazione
imperfetta del
noto genitore, un innesto che ancora non aveva dato i suoi eroici
frutti.
Al contrario del
padre, infatti, la sua vita scolastica era stata sorprendentemente
vivace e
pacifica – escludendo alcuni episodi – e pareva che
buona parte dei maghi
considerasse questa sua serenità una colpa:
com’era possibile che la progenie
del famoso Potter si rammollisse in uno stile di vita tranquillo
anziché andare
a caccia di maghi oscuri e fosche presenze?
Contorse un
angolo
della bocca, contrariato. Non aveva alcuna intenzione di buttarsi tra
le fauci
del pericolo, se non era costretto. Gli eroi facevano sempre una fine
tragica e
prematura, mentre lui pianificava di andarsene solo dopo essere
diventato un
vecchietto rinsecchito coccolato dall’amore familiare. Suo
padre era una delle
eccezioni alla regola, ma nessuno gli garantiva che la dea bendata
avrebbe
concesso una seconda occasione alla
famiglia Potter.
Per cui, meglio
rimanersene al sicuro nel dormitorio di Slytherin,
a studiare come era suo dovere.
Se solo fosse
riuscito a studiare. Lanciò un’occhiata ai libri
chiusi con rassegnazione.
Ultimamente i
suoi
piani di tranquillità erano stati sconvolti da troppi
avvenimenti.
Non era lo
studio a
preoccuparlo: aveva ancora tempo di prepararsi per i MAGO, e si era
sempre
dimostrato uno studente brillante.
Ciò
che lo
preoccupava, era cosa sarebbe successo una volta che la porta della sua
camera
si fosse aperta.
Sospirò
di nuovo.
Dovevano
parlare.
Il progetto che Haru aveva proposto era ambizioso, ma non impossibile,
e
abbastanza folle da solleticare la loro curiosità. Senza
contare che gli ultimi
avvenimenti avevano messo in luce come non si potesse attendere oltre:
bisognava elaborare una risposta efficace prima possibile, o tutto il
sistema
magico ne sarebbe stato irrimediabilmente compromesso.
Ma non era solo
il
futuro del mondo della magia a tormentarlo.
Cosa avrebbe
detto
su quell’altra questione?
O meglio,
cosa avrebbe fatto?
Si
tirò le coperte
fino al mento e poi più su, a coprire tutta la faccia.
Non era
necessario
cercare nemici epocali per finire invischiati in un mare di guai.
Bastava
innamorarsi.
Si
irrigidì sotto
le lenzuola quando sentì lo scricchiolio della porta che si
apriva.
Dalle coltri
emersero solo i ciuffi scomposti della frangia e gli occhi verdi, che
puntarono
subito la persona appena entrata.
Il materasso si
inclinò sotto il peso di un secondo occupante.
Albus fece
uscire
dalle coperte anche la bocca perché il nome del compagno di
stanza non venisse smorzato
dalle lenzuola.
«Scorpius…»
Parte
Uno – Primo Anno
1
Slytherin
Gli sarebbero
scoppiate le vene del collo.
Gli sarebbero
scoppiate tutte quante, e di lui sarebbe rimasta solo una macchia
rossastra sul
binario nove e tre quarti di King’s Cross.
Fu con enorme
sollievo che sentì il peso della valigia abbandonare le sue
braccia per
schiantarsi sul pavimento della carrozza numero tre
dell’Hogwarts Express.
Si
aggrappò al
corrimano e riuscì a raggiungere il suo gigantesco bagaglio.
«Hai
dei sassi in
quella valigia, Albus?» chiese Rose, fissando con aria
critica le guance
paonazze dell’amico.
«Mia
madre ha
voluto darmi cose… per ogni evenienza»
sbuffò lui, affaticato.
L’apprensione
di
Ginny per il figlio minore si era palesata nelle pile di vestiti,
scarpe, libri
e cibarie che aveva stipato a forza nella valigia.
Sulle labbra di
Rose si mescolarono divertimento e furbizia nel suo tipico sorriso da
bravata.
«Immagina
cosa
succederebbe se qualcuno dovesse disattivare l’incantesimo di
riduzione che tua
madre ha messo su tutta quella roba» scherzò,
additando il bagaglio.
Albus
non riuscì a trattenere un sorriso nel pensare ad un
povero mago coinvolto nell’esplosione del suo baule
sovraccarico.
«Quel
poveretto si
troverebbe ricoperto di maglie e calze» rise.
«Un
bell’albero di
Natale» rincarò lei «Solo che sarebbe
decorato con le tue mutande e non con dei
festoni!»
«Rose!»
«Perché,
non le
porti?»
«Sì,
ma…»
«Se
non c’è colpa,
non c’è vergogna» sentenziò
lei con un’alzata di spalle, per poi indicare la
cabina più vicina. «Ho appoggiato le mie cose
lì. Ti unisci a me per il
viaggio?»
«Volentieri…»
l’entusiasmo uscì smorzato dalla gola di Albus: il
peso del baule limitava
notevolmente le sue capacità espressive.
«Ti
aiuto» offrì
lei, afferrando una maniglia del mastodontico bagaglio.
Albus
poté muovere
solo pochi passi prima che una risata di scherno lo freddasse alle
spalle:
«Ti
fai aiutare da
una donna?»
Il bimbo
alzò gli
occhi per incrociare lo sguardo derisorio di James Sirius Potter.
Sarebbe
arrivato il giorno in cui sarebbe cresciuto a
sufficienza per ribattere guardando il fratello maggiore dritto negli
occhiali.
O, ancora meglio, il giorno in cui avrebbe imparato una magia di
ingrandimento tale
da poterlo guardare dall’alto con aria di sufficienza, come
un elefante fa con
una pulce.
Ma
per il momento era ingabbiato nel metro e trenta tipico
dei suoi undici anni, e non poteva che allungare il collo per miagolare
le sue
proteste.
«Questa
valigia
spezzerebbe la schiena anche a te» replicò,
tirando cocciuto il manico del
bagaglio. La resistenza del baule fu così ferrea che per
poco Albus non si
rovesciò a terra, e la sua piroetta non troppo nascosta
suscitò l’ilarità del
fratello e della sua congrega.
«Non
ho mai detto
che non sia pesante» gli ricordò James, mentre si
aggiustava gli occhiali con
insopportabile strafottenza. «Ho detto solo che hai meno
forza di una donna.»
«Almeno
io ho solo
due occhi sul naso.»
Il sorriso di
James
si incrinò a quell’affermazione. Dopo tanti anni
di guerriglie familiari,
entrambi i fratelli avevano imparato quali fossero i punti deboli
dell’avversario: Albus si irritava per i commenti indelicati
sulla sua scarsa
altezza e sulla sua debolezza, e James era particolarmente sensibile
alle
frecciatine sui suoi occhiali. Albus era convinto che, se si fosse
accanito a
dovere, sarebbe riuscito a radicare nel fratello un vero e proprio
complesso
per la miopia. Ma preferiva evitare di sfoderare
l’artiglieria pesante con lui:
non ci teneva a sperimentare quanto potesse essere perfido se
adeguatamente
stuzzicato.
Un ghigno
malizioso
solcò le labbra di James quando questo
controbatté:
«Io
gli occhiali
posso toglierli. Tu, invece, come
conti di aggiungere tutti i centimetri che ti mancano?»
«Devo
ancora
crescere!» protestò Albus.
«Ma
crescerai al
massimo di una spanna, se queste sono le premesse»
constatò James, e rimarcò la
differenza di altezza tra loro appoggiando un gomito sulla testa del
fratello.
Non contento, gli pizzicò un bicipite come la strega faceva
con Hansel nella
famosa fiaba per verificare quanto fosse ingrassato. «E non
cambieranno nemmeno
queste braccine flaccide.»
«Vedremo
se i miei
muscoli ti sembreranno ancora un problema quando dovremo prenderti un
cane
guida. La miopia peggiora quando si
invecchia» reiterò Albus.
«Potrei
scambiarti
per il mio cane guida, allora, visto che non crescerai più
di così» con scorno
del fratello minore, James non sembrò accusare il colpo,
anzi, un’aria leziosa
si dipanò sul suo viso mentre restituiva l’insulto.
«Scusatemi.»
La sorpresa si
diffuse
come un fulmine sul volto dei presenti: troppo impegnati a seguire la
disputa
tra fratelli, nessuno si era accorto del nuovo arrivato, un ragazzetto
pallido
che osservava la scena a lato dei propri bagagli con distaccata
curiosità.
«Dovrei
passare»
sottolineò l’ovvio con un candore tale che nessuno
riuscì ad afferrare il
sottilissimo alone di sarcasmo di quelle parole. A parte Rose, il cui
sopracciglio disegnò un arco dubbioso.
«Da
quello che ho
capito, il problema è che sia una donna ad aiutarlo,
giusto?» continuò
serafico. Si avvicinò al baule e scostò
educatamente la ragazza per poi
chinarsi ad afferrare la maniglia libera. «Così la
questione dovrebbe essere
risolta, no?»
Albus non fece
in
tempo a ringraziare lo sconosciuto che una mano sgraziata gli
piombò sulla
testa e prese a scompigliargli con furia i capelli.
«Complimenti,
Albus! L’ho sempre detto che saresti finito a Slytherin!»
James, al contrario del nuovo arrivato, non aveva la
delicatezza di mascherare la sua ironia. «Ci vediamo a
Hogwarts!»
Il minore dei
Potter attese che il fratello e il suo stormo migrassero in un altro
vagone,
poi si rivolse finalmente al suo salvatore:
«Ti
ringrazio.»
«Non
ho fatto nulla
di speciale» si schermì l’altro.
«Era
anche nel suo
interesse aiutarti, altrimenti non sarebbe riuscito a
passare» intervenne Rose,
che fino a quel momento era rimasta barricata dietro un rovente
silenzio: le
risposte acide che aveva trattenuto tra i denti per non peggiorare la
lite dei
due fratelli le bruciavano tra le labbra e le arroventavano le gote. Se
c’era
una cosa che proprio non sopportava, era di essere costretta al
silenzio quando
mille idee le ribollivano nella gola.
La battuta di
Rose
non intaccò l’aura compassata del ragazzo, che si
informò con calma inglese:
«Qual
è la tua
cabina?»
«Nostra»
specificò
subitaneamente la cugina.
Albus
indicò con un
cenno della testa la porta dello scompartimento limitrofo.
«Quella»
asserì.
«Puoi unirti a noi, se non hai altri compagni»
aggiunse, per non apparire
scortese con chi si era appena mostrato gentile nei suoi confronti.
Passò
un secondo di
silenzio prima che il ragazzo annuisse: lo aiutò a
trascinare il bagaglio fino
a destinazione, dopodiché uscì nuovamente per
prelevare le sue valigie.
Rose non permise
ad
Albus di seguirlo per restituire il favore ricevuto: costrinse
l’amico a prendere
posto sul sedile accanto al finestrino e bisbigliò
cospiratoria:
«Quel
tipo non mi
convince.»
«Mi ha
aiutato»
obiettò Albus, senza comprendere
l’ostilità della cugina.
«E’…
sfuggente» proseguì
Rose, lanciando un’occhiata alle sue spalle per assicurarsi
che l’interessato
non la sentisse. «Come se portasse una maschera.»
«Tu
vedi doppi fini
in ogni cosa» la smontò Albus con un sospiro.
«E tu
non ne vedi
affatto. Il mondo non è una fabbrica di confetti»
ribatté lei. Prese posizione
di fianco all’amico con le braccia incrociate e il collo
sprofondato nelle
spalle come stendardi della sua testardaggine.
Albus nutriva un
profondo rispetto per la cugina: aveva una memoria proverbiale e un
intuito
affilato, ed aveva divorato in lettura l’equivalente di una
biblioteca. Era
certamente la persona più intelligente che conoscesse, dopo
zia Hermione.
Ma
proprio la sua astuzia la rendeva incredibilmente
guardinga e sospettosa, come se la vita ricalcasse le intricate trame
che la
affascinavano, in cui tutti tradivano tutti. Forse le persone troppo
intelligenti non sapevano godersi la vita con la stessa rilassatezza
degli
stupidi.
«E,
comunque,
volevo difenderti mentre litigavi con tuo fratello»
sbottò di colpo. «Ma avrei
peggiorato la situazione. Ti stava già accusando di fare
troppo affidamento su
di me, ti avrei scavato la fossa se fossi intervenuta. Mi immagino i
commenti:
“Non solo hai meno muscoli, ma hai anche meno fegato di una
donna”» si voltò a
fissarlo irata, con occhi fiammeggianti: «Tuo fratello e i
suoi amici hanno per
caso una condivisione di neuroni? Ogni volta che aprivi bocca tu si zittivano, tutti seri come se tu
avessi appena detto che Tu-Sai-Chi è morto di raffreddore, e
ogni volta che
apriva bocca lui erano tutti felici
e
sorridenti. Sembrano delle foche ammaestrate, sbattono le pinne se gli
fai
dondolare un pesce davanti al naso!» Rose rilassò
la schiena contro l’imbottitura
del sedile per riprendere fiato: aveva pronunciato quel rosario di
improperi
quasi senza respirare, e le guance avevano assunto la stessa tinta
scarlatta
dei capelli.
«Rose,
sei
impareggiabile quando ti sfoghi in questo modo» sorrise
Albus, divertito dal
temperamento della cugina. Lei gli rispose con un brontolio greve poco
prima
che la porta si aprisse permettendo al ragazzo sconosciuto di entrare e
posare
i bagagli.
Rose non
staccò per
un secondo gli occhi dal giovane mentre questo sistemava il baule,
spazzava con
la mano dal sedile alcune briciole invisibili e infine si accomodava di
fronte
a loro.
Albus
pregò che il loro nuovo compagno non notasse il
sospetto con cui lo esaminava la cugina. Fortunatamente lui fu troppo
educato
per farlo pesare e lei fu abbastanza furba da assumere nuovamente un
contegno
civile nel momento in cui il ragazzo si voltò nella loro
direzione.
«Non
ci siamo
ancora presentati» notò la cugina, porgendo la
mano con simulata amicizia. «Mi
chiamo Rose. Rose Weasley.»
Gli occhi chiari
del ragazzo si sgranarono lievemente per la sorpresa a
quell’informazione e
riacquistarono una dimensione normale quando si posarono sui riccioli
rossi
della ragazza.
«Weasley»
ripeté
lui, con un accenno di sorriso. «Il tuo è un
cognome abbastanza conosciuto.»
«Lo
so» rispose lei
senza scomporsi.
Albus le
lanciò
un’occhiata: i capelli cremisi del padre e gli occhi nocciola
della madre
sembravano gridare il nome dei suoi genitori, ma il ragazzo era stato
abbastanza diplomatico da non farlo notare e fingersi sorpreso. Anche i
vestiti
della cugina, chiaramente passati sotto più mani prima di
raggiungere le sue,
erano un chiaro indice della famiglia di provenienza, ma perfino su
questo
aspetto lo sconosciuto aveva sorvolato.
Le iridi fumose
del
ragazzo si focalizzarono su Albus, in attesa della sua presentazione.
Il piccolo prese
mentalmente un profondo respiro. Era il suo turno.
«Mi
chiamo Albus
Severus Potter.»
Le sopracciglia
quasi albine del ragazzo si sollevarono fino a sfiorare la frangia.
«Anche
il tuo
cognome è abbastanza famoso.»
“Abbastanza
famoso”. Apprezzava l’eufemismo.
«Sì,
all’incirca» Albus
tentò maldestramente di sminuire. Non era una di quelle
persone che si
vantavano del lustro della famiglia: al contrario, avrebbe preferito
nascere in
una casa anonima, in modo da non dover sopportare la pressione costante
del
confronto con il padre. Di Harry Potter aveva ereditato il cognome, gli
occhi
verdi e i capelli corvini; per ora, le loro somiglianze si limitavano a
quello.
«E
tu?» domandò,
per deviare l’attenzione da se stesso.
«Scorpius
Malfoy.»
La stima che il
ragazzo nutriva per la sua famiglia gli fece scandire con orgogliosa
calma ogni
singola lettera.
Rose
appoggiò il
viso contro una mano ma, sebbene la bocca fosse premuta contro il
palmo, Albus
poté udire ugualmente il commento della cugina:
«Più
che famoso, è
famigerato.»
«Volete
qualche
dolcetto, tesorini?»
Albus
provò per la
prima volta in vita sua l’intenso desiderio di gettarsi in
ginocchio e
ringraziare ogni santo in ascolto: l’arrivo della signora dei
dolci era stato
provvidenziale nel coprire l’ultima parte
dell’affermazione di Rose.
La
cugina estrasse il portafoglio e ne esaminò il contenuto,
facendo mille conti su cosa fosse più conveniente comprare.
Albus si frugò
nelle tasche, contò i soldi che aveva trovato e scelse.
Scorpius studiò
attentamente il contenuto del carrello, calcolò la portata
del borsellino e
decise a sua volta.
«Io
prendo una
caramella TremilaGustiPiùUno e una Cioccorana»
ordinò Rose.
«Per
me un
Cioccorno e tre ZuccottiPlus» la donna gli allungò
il cartoccio dei dolci,
notando: «Hai gli stessi gusti di tuo padre,
figliolo.»
Albus si
esibì in
un sorriso gastritico nel prendere il sacchetto: dubitava fortemente
che suo
padre mangiasse le stesse cose. Innanzitutto, vent’anni prima
le caramelle
avevano solo mille gusti più uno, e come CioccoAnimali
esistevano solo le
CioccoRane. E poi, gli Zuccotti erano dolcetti gonfi di semplice crema
di
zucca: ora il ripieno frizzava e, in alcuni casi, danzava addirittura
sulla
lingua. Valentine, uno degli amici di suo fratello, sosteneva che una
volta due
omini di crema arancione avevano improvvisato un valzer nella sua bocca.
Certamente
la signora intendeva fargli un complimento. Non
poteva immaginare quanto fosse fastidioso avere un mito per genitore.
«Per
me una fetta
di Torta della Strega» chiese Scorpius.
Nessun commento
sui
suoi parenti: la consegna della busta avvenne in silenzio, la signora
intascò
il denaro e proseguì verso lo scompartimento successivo.
«Hai
preso un
Cioccorno?» si stupì Scorpius, armeggiando con la
confezione della sua fetta di
torta.
«Sì.
Perché?»
domandò di rimando Albus, mentre sistemava le sue compere
sul sedile.
«Sono
molto più
complicati da mangiare delle CioccoRane. Loro al massimo saltano. I
Cioccorni…»
si strinse nelle spalle. «Prova ad aprirla» lo
invitò e, nel dirlo, poggiò il
contenitore del suo dolce sulle gambe, come per prepararsi ad uno
spettacolo.
Albus
fissò Rose, indeciso,
la quale gli restituì uno sguardo vago: evidentemente,
nemmeno lei aveva mai
assaggiato un Cioccorno.
Il ragazzo
aprì con
cautela la bustina, per richiuderla subito dopo con uno scatto: nel
momento in
cui i lembi di plastica si erano separati, un corno di cioccolato aveva
cercato
di pungergli il pollice con un nitrito rabbioso.
«Era
questo che
intendevo» spiegò Scorpius.
«Sarà un problema domarlo.»
Albus
riaprì la
busta, questa volta completamente, e l’unicorno di cioccolato
galoppò furioso
sul suo braccio; il giovane fece appena in tempo ad afferrarlo per il
dorso
prima che la piccola belva gli conficcasse il corno in un occhio.
«Aspetta
che si
addormenti» lo consigliò Scorpius.
«Si
addormenta?»
gracidò Albus, tenendo lontano da sé la bestia
scalciante.
«Le
industrie
dolciarie hanno a cuore la verosimiglianza del prodotto, ma devono
anche
renderlo mangiabile. È ovvio che abbiano pensato ad un
meccanismo per
permetterti di gustarlo» brontolò Rose.
La cugina non
aveva
quasi finito di parlare che l’unicorno si
afflosciò tra le sue dita. Era quasi
ridicolo con il grosso collo penzolante, le zampe ciondolanti e le
labbra che
si increspavano in una strana imitazione del russare umano. Albus lo
addentò
con circospezione, timoroso che quel mostriciattolo potesse
risvegliarsi nel
suo esofago e piantargli gli zoccoli nella trachea.
«E’
buono»
constatò, ingoiando e prendendone un altro morso.
«Deve
essere più
che buono, altrimenti la gente comprerebbe solo le
CioccoRane» replicò Rose.
Masticando,
Albus
si trovò a fissare la sgargiante confezione sulle ginocchia
di Scorpius: il
cartone era stato piegato in modo da riprodurre le stamberghe delle
streghe del
tredicesimo secolo, le stesse che si vedevano raffigurate nei libri
babbani di
favole. Scorpius afferrò due angoli del tetto sgangherato e
lo sollevò:
all’interno riposava una fetta di torta alla crema spolverata
di zucchero e
pinoli e, a lato, sedeva una minuscola figurina umanoide.
«Cos’è?»
indagò
Albus, allungando il collo.
«La
Torta della
Strega ha una particolarità: trovi sempre una mini-strega
dentro» spiegò
Scorpius.
«Davvero?»
Albus si
ricordò di essere in compagnia di un estraneo e non solo
della cugina, quindi, anziché
leccarle, cercò un fazzoletto su cui pulirsi le dita sporche
di cioccolato.
«E
cosa fanno
queste streghe?» domandò Rose, giocherellando con
l’apertura della caramella.
«Raccontano
aneddoti
poco conosciuti sul mondo della magia» per dare una prova
pratica di quanto
diceva, Scorpius avvicinò una mano all’interno
della casetta, permettendo alla
piccola fattucchiera di salirvi sopra.
Il
vestitino aderente dell’incantatrice aveva uno spacco
piuttosto marcato da cui si intravedeva il collant sottostante ma,
nell’immensa
ingenuità degli undici anni, nessuno dei tre la
reputò una cosa maliziosa.
«Avete
mai sentito
parlare dei Grandi Ceppi Magici? Si narra che, nei tempi antichi, essi
si siano
distinti nella massa dei maghi per la loro capacità di
affinare gli
incantamenti in maniera peculiare e sofisticata. Tali tecniche
sarebbero state
tramandate di generazione in generazione agli eredi di questi Grandi
Ceppi, ed
esisterebbero ancor oggi» raccontò la strega.
«Non
è così
sconosciuta. L’ho letto in un libro qualche mese
fa» minimizzò Rose, ficcandosi
la caramella in bocca.
«Non
sempre
sorprendono» ribatté Scorpius. La fattucchiera sul
suo palmo cominciò a
disfarsi lentamente in una voluta di fumo sottile, fino a lasciargli la
mano
libera di afferrare la torta.
«Di
cosa sa la tua
caramella, Rose?» domandò Albus, sperando di
prevenire ulteriori interventi
della cugina.
«Di
serpe» rispose
seccamente lei.
***
«Quel
tipo non mi
piace.»
«L’avevo
intuito,
Rose.»
«Sto
parlando
seriamente, Albus. Non mi piace.»
Erano riusciti a
rimanere insieme fino a che non avevano raggiunto la stazione di
Hogwarts. Poi
avevano perso Scorpius nello sciame di gente che aveva affollato i
corridoi del
treno. Albus non era riuscito a scorgerlo sulle barche che li avevano
portati
fino a scuola e nemmeno ora lo distingueva nella marea di teste che li
circondava.
«Mio
padre mi ha
consigliato di non diventargli amica» rimbrottò
Rose.
«A Ron
non è mai
stato simpatico Draco Malfoy. E trasferisce quella vecchia antipatia su
Scorpius» da quello che sapeva, zio Ron e Draco avevano
rivaleggiato a lungo per
zia Hermione, ma preferì non mettere al corrente la cugina
di quel pettegolezzo
che suo padre si era fatto sfuggire per una BurroBirra di troppo.
«Mi
fido più di mio
padre che di un estraneo con cui ho conversato in treno»
protestò Rose,
scatenando una mezza sommossa tutt’attorno perché
si era fermata nel bel mezzo
della calca per ribattere.
«Comunque,
non è solo per quello» Rose riprese a camminare
per evitare di essere falciata. «Te l’ho detto, non
mi piace che sia così
sfuggente.»
«A me
non è
sembrato tanto subdolo.»
«Perché
tu sei un
sempliciotto, quindi è facile ingannarti.»
«Grazie
Rose» sbuffò
offeso Albus. «Anche se fosse, potrebbe avere i suoi buoni
motivi per non
scoprirsi.»
«Non
mi interessano
i motivi. Come posso fidarmi di chi non è
sincero?» contestò Rose.
La fila si
arrestò
di colpo, e Albus per poco non crollò addosso al tizio
davanti a lui, che
protestò rumorosamente rispedendolo al suo posto con uno
spintone. L’improvvisa
frenata fu dovuta non solo al raggiungimento dei cancelli di Hogwarts,
ma anche
dall’aspetto della professoressa che li attendeva.
«Finalmente
quest’anno hanno messo la Eeriemay ad accoglierci!»
si felicitarono gli
studenti più anziani.
«Anche
Slytherin produce qualcosa di buono,
ogni tanto» fu il bisbiglio abrasivo di qualcuno.
La strega del
dolce
di Scorpius non era riuscita a farli imbarazzare; la donna che li
aspettava
avrebbe fatto arrossire perfino un sasso. Senza l’uso della
magia.
Era
l’apoteosi della femminilità, con curve sode
straripanti
dai vestiti e una montagna di capelli rubino raccolti in una crocchia
volutamente
scomposta. Gli occhi erano evidenziati da un trucco sapiente che ne
esaltava la
grandezza e il verde delle iridi, e con altrettanta maestria erano
state curate
le labbra piene. La divisa da impiegata modello che indossava era il
particolare veramente sconcio dell’insieme: un abito simile
avrebbe dovuto
evidenziare coprendo, ammiccare ma con pudore. C’era ben poco
di coperto e
pudico nell’abbigliamento della donna: la gonna era talmente
corta da poter
essere scambiata per un fazzoletto, e l’effetto malizioso era
accresciuto dai
tacchi alti che indossava. La blusa era stata alleggerita di alcuni
bottoni, in
modo che fosse più che visibile la prosperità dei
seni, su cui si appoggiava un
pesante ciondolo d’oro. Il mantello sanguigno non copriva in
alcun modo tutta
quell’abbondanza: era semplicemente appoggiato sulle spalle.
La donna sorrise
in
uno sfavillio di denti perlacei nel dar loro il benvenuto:
«Ragazzi,
auguro a
tutti voi un anno piacevole tra le mura di Hogwarts» detta da
lei, ogni parola
sembrava foriera di doppi sensi osé. «Io sono
Rebecca Eeriemay, la responsabile
di Slytherin. Fatemi la cortesia di
seguirmi fino alla Sala Principale, dove i nuovi arrivati potranno
essere
assegnati alle varie Case. Prego» si voltò con una
mossa da soubrette e
cominciò ad ancheggiare nei corridoi, seguita a ruota dagli
studenti. Nemmeno
il pifferaio di Hamelin aveva riscosso tanto successo nel farsi
tallonare da
dei bambini.
Albus procedette
con gli occhi fissi a terra, troppo imbarazzato dalle forme che
ondeggiavano
davanti a lui. Rose fissò lo sguardo da un’altra
parte, lievemente disgustata:
che pessimo esempio dava alla categoria femminile.
Guardando
ognuno da una parte diversa, raggiunsero finalmente
la Sala Principale, sul cui soffitto si distendeva un sereno cielo
notturno.
Il Cappello
Parlante venne portato dalla sensuale professoressa, e subito il
copricapo
cominciò a cantare.
Albus quasi non
sentì il testo della ballata, affogato nel suo rimuginare:
forse era vero che
lui era ingenuo rispetto alla cugina, ma non era giusto farlo passare
per un
credulone. E poi, Scorpius non gli sembrava un cattivo ragazzo. Forse
appena un
po’ ritroso, ma chi non lo sarebbe stato, sentendosi dare del
traditore fin
dalla culla?
«Bradley
Thomas!»
Il primo nome lo
riscosse istantaneamente dal suo stato meditativo.
Ad
una velocità che non avrebbe creduto possibile la sua
bocca si asciugò completamente e le mani cominciarono a
grondare. Tra poco
avrebbe saputo a quale Casa lo avrebbe ospitato per i successivi sette
anni.
«Ravenclaw!» gridò il
Cappello.
Albus attese,
torcendosi le mani per l’ansia. I minuti parvero dilatarsi
per dare più tempo
al suo cuore di spaccargli il petto mentre i nuovi arrivati venivano
chiamati
uno per uno.
«Malfoy
Scorpius!»
Il
ragazzino trasalì e si sporse per riuscirlo
a vedere. Scorpius avanzò senza la minima esitazione, con
un’ombra di sorriso
distesa sulle labbra. Si sedette e il Cappello quasi non si
appoggiò sulla sua
testa prima di annunciare:
«Slytherin!»
Sentì
la cugina
irrigidirsi al suo fianco, come se i suoi dubbi su quel ragazzo fossero
stati
confermati. Albus, al contrario, provò solo un enorme
sollievo: se fosse finito
a sua volta a Slytherin, almeno non
sarebbe stato solo.
Vennero smistate
altre tre matricole prima che il suo nome venisse pronunciato:
«Potter Albus
Severus!» intonò Eeriemay.
La
professoressa non gli riservò un trattamento di favore, cosa
che Albus apprezzò
oltre ogni dire: gli sorrise incoraggiante come aveva fatto con tutti
gli altri
e gli posò con grazia il cappello sulla testa.
Trascorse
qualche
istante di silenzio totale in cui Albus quasi dimenticò come
si facesse a
respirare. L’attenzione di tutti gli studenti presenti si era
focalizzata di lui,
in scalpitante attesa del verdetto; l’aria sembrava vibrare
tanto era gravida
di tensione.
Poi
il cappello emise la sua sentenza:
«Slytherin!»
La notizia venne
accolta da un mutismo glaciale. Gli Slytherin
non si aspettavano quell’assegnazione e ancor meno i Griffindor, che lo guardavano come se li
avesse appena pugnalati
alle spalle. Soprattutto il fratello, con gli occhi sbarrati dalla
meraviglia e
dall’orrore.
Poi la signorina
Eeriemay
applaudì, felice che un nuovo pargolo si aggiungesse alla
Casa di cui era
responsabile, e, sul suo esempio, un’ovazione si
sollevò dalla tavola degli Slytherin.
Albus dovette
fare
attenzione a non inciamparsi nella tunica mentre si rialzava e si
dirigeva al
tavolo degli Slytherin. Suo padre
gli
aveva detto che poteva parlare con il Cappello e chiedergli di essere
affidato
ad una particolare Casa, ma non l’aveva fatto. In un certo
senso, voleva sapere
l’opinione del Cappello senza interferire con essa in alcun
modo. E poi, non
vedeva il senso di finire in una Casa su richiesta personale: doveva
essere
assegnato in base alle attitudini, non ai capricci.
Cercò
nel tavolo la
chioma bionda di Scorpius e, individuata, vi si accostò.
«Anche
tu a Slytherin» si
congratulò il ragazzo,
facendogli spazio perché potesse sedersi.
Albus
annuì, prendendo posto in silenzio.
«Conosci
qualcun altro di questa Casa?» al cenno negativo
del piccolo Potter, Scorpius si scostò appena
perché fosse visibile il ragazzo
che sedeva alla sua destra.
La
buona creanza impedì ad Albus di esternare il proprio
stupore: il giovane apparso a lato di Scorpius sembrava un elogio alla
buona
salute e un polo attrattivo per le malattie al contempo. Neppure uno
dei
lucidissimi capelli castani era sfuggito all’ira del pettine,
che li aveva
sistemati in una simmetria implacabile; allo stesso modo, la pelle
levigata era
priva di qualsiasi imperfezione. Il fisico del ragazzo,
però, era quello di un
sollevatore di stuzzicadenti, esile e delicato come una scultura di
cristallo.
Ad accentuare la fragilità del corpo contribuivano il
colorito pallido tendente
al verdognolo delle guance ed il fazzoletto ricamato che il giovane
teneva
vicino a bocca e naso, come se temesse un conato da un momento
all’altro.
«Lui
è Macauley
Nott» lo introdusse Scorpius.
Lo sconosciuto
roteò i suoi occhi castani su Albus, e il suo sguardo fu
più intenso di una
radiografia.
«Non
mi sembra
sano. Ha gli occhi vitrei e suda troppo» fu
l’analisi clinica di Macauley.
Albus
fissò il suo
riflesso in una delle coppe lucidate presenti sulla tavola: non gli
sembrava
che il suo sguardo fosse così assente, e non stava sudando
affatto. Decise di
ignorare la diagnosi non richiesta e porse la mano in segno di
cameratismo:
«Piacere.
Mi chiamo
Albus…»
Non
riuscì a
terminare la presentazione: Macauley trasalì come se gli
avesse teso un
Basilisco al posto della mano.
«Pazzo!
Lo sai
quanti germi si trasmettono con il contatto fisico?»
strepitò, attutito dal
fazzoletto che si era premuto sul viso come una mascherina.
«Esprimi quello che
devi esprimere alzando il pollice.»
Albus
fissò
sconcertato Scorpius, il quale sillabò muto:
“È un po’ strano. Assecondalo”.
Il piccolo
tentò di
nuovo: «Mi chiamo Albus Severus Potter» e
alzò il pollice.
«Più
lontano»
ordinò Macauley, nauseato. Albus fece retrocedere il dito
verso il petto. «Più
lontano di così!»
«Nott,
se lo
allontana ancora si spezza il gomito» lo calmò
Scorpius, quando le
articolazioni di Albus minacciarono di sconfinare.
«Piacere
di
conoscerti» sentenziò lo strano tipo, rilasciando
la presa sul fazzoletto che
tornò a sostare in prossimità di bocca e naso.
«Non
è cattivo.
Devi solo imparare a conoscerlo» sdrammatizzò
Scorpius. «Allora, sei contento
di essere a Slytherin?»
«Sì»
Albus fu il
più sorpreso di tutti nel sentire quella sillaba uscirgli
dalle labbra.
«Davvero?
E la tua
famiglia Griffindor
approva?»
discusse caustico Macauley.
«All’inizio
pensavo
che non mi sarebbe piaciuto venire a Slytherin»
ammise Albus, guadagnandosi un’occhiata sprezzante da Nott;
Scorpius, al
contrario, si mantenne indifferente. «Più che
altro per i pregiudizi della
gente. Però non mi sembra male come Casa. È solo
malvista dagli esterni.»
«Altroché
se è
malvista!» sbottò Macauley. «Non pensano
mai che Tu-Sai-Chi poteva finire in
una qualunque altra Casa. Non è stata Slytherin
a crearlo, ma lui ha creato tutti gli stereotipi che la
contraddistinguono!
Stereotipi falsi»
aggiunse, piccato.
«Allora
dobbiamo
impegnarci per fare crollare queste credenze, no?»
ribatté con ovvietà Albus.
Nott lo
fissò
indagatorio, Scorpius interessato.
«Gli Slytherin tentano da decenni di
riabilitare il loro nome. Cosa ti fa credere che quest’anno
possa cambiare
qualcosa?» lo mise in dubbio Macauley.
«Quest’anno
ci
siamo noi» rispose semplice Albus.
Scorpius nascose
un
sorriso mascherandolo da colpo di tosse; Macauley scostò per
la prima volta il
fazzoletto dal viso per esclamare:
«Sei
più tenace del
Morbillo dei Goblin!»
«Grazie…?»
traballò
Albus, indeciso se quello fosse un complimento o meno.
Il trillo
gioioso
della Eeriemay distolse l’attenzione del giovane Potter:
«Weasley
Rose!»
Il Cappello non
fece fatica a decidere. D’altronde, Albus stesso avrebbe
scommesso la sua
bacchetta sulla Casa della cugina.
«Ravenclaw!» fu infatti la
sentenza del
Cappello.
E, con lei, lo
Smistamento terminò.
***
Era stata una
cena
bizzarra.
Aveva mangiato
con
un misto di felicità e agitazione: quando prevaleva la
contentezza, il cibo gli
sembrava squisito; quando prevaleva l’ansia, i piatti
diventavano
improvvisamente acidi.
Era
contento che il suo discorso avesse riscosso
l’approvazione di Macauley e Scorpius. Tuttavia, lui stesso
non era convinto
delle sue parole: non era ancora sicuro che Slytherin
fosse la Casa che faceva per lui.
Da
quanto sapeva dai racconti degli studenti più anziani,
era normale portarsi simili dubbi anche al secondo anno: solo il tempo
gli
avrebbe fatto capire perché il Cappello avesse scelto quella
strada per lui.
Ad
ogni modo, la rete di preconcetti che imprigionava quella
che era diventata la sua Casa non gli piaceva per nulla: che senso
aveva
giudicare intere generazioni di maghi per le nefandezze di un unico
individuo?
Era
sincero quando aveva dichiarato di voler scardinare quel
substrato di malignità gratuite.
Comunque, non
erano
state solo le sue riflessioni a rendere strampalato quel pasto.
Macauley era uno
spasso da guardare mentre mangiava: aveva studiato le posate alla
ricerca di
macchie e batteri, e aveva esaminato ogni singolo boccone prima di
portarlo
alle labbra.
Albus
si girò sulla schiena e osservò il letto a
castello
dall’altro lato della stanza: nel giaciglio superiore,
Macauley dormiva
protetto da una mascherina ipoallergica.
Sorrise,
scuotendo la testa. Se non altro, sua madre sarebbe
stata felice di sapere che uno dei suoi compagni di stanza fosse
così attento
all’igiene.
«Potter,
dovresti
dormire» bisbigliò Scorpius dal materasso sopra il
suo.
«Anche
tu» replicò
Albus. «E chiamami con il mio nome.»
«Non
ti piace
“Potter”?»
«Preferisco
Albus».
Gli piaceva il
suo
cognome. Ma era troppo generico. E poi, era sua padre il
Potter per eccellenza.
«D’accordo,
Albus.
Ma dovresti comunque dormire. Domani cominciano le lezioni»
lo consigliò
Scorpius.
Il ragazzo si
inabissò nelle coperte fino al naso, brontolando un assenso.
«Scorpius?»
tremulò
nel buio.
«Sì?»
«Ti
seccherebbe se
domani mi sedessi vicino a te, a lezione?»
Ci fu un
movimento
nel materasso di sopra che Albus non riuscì a decifrare, poi
giunse risposta:
«Albus,
ho
accettato di dividere il letto con te. Cosa ti fa pensare che ti
caccerei se ti
sedessi vicino a me?»
Il piccolo si
sorprese del tono di Scorpius. Aveva ipotizzato una risposta del tipo:
“Ma certo,
nessun problema”, il tutto condito da un sorriso che avrebbe
falciato l’ombra
della stanza. C’era un sottofondo ironico in disaccordo con
l’immagine gentile
e luminosa di Scorpius. Doveva essere davvero stanco, e lui lo stava
tenendo
sveglio.
«D’accordo,
grazie.
Buonanotte, Scorpius» tagliò corto, per non
infastidirlo ancora.
«Sogni
d’oro,
Albus» si accomiatò a sua volta l’altro.
Il bambino
restò
ancora qualche istante immobile nel letto, aspettando di addormentarsi.
Quando
finalmente
si sentì abbracciare da Morfeo, gli tornarono in mente le
parole della cugina.
Come posso
fidarmi di chi non è sincero?
Poi
scivolò nel
sonno, e il variopinto mondo onirico ebbe il sopravvento.
Il banner per questa storia è stato realizzato da
Clau-tan<3<3<3
Grazie per essere arrivati fin qui, spero che anche i prossimi capitoli
saranno di vostro gradimento<3
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Capitolo 2 *** Vita Scolastica ***
"
2
Vita Scolastica
Per
diventare parte della propria Casa era necessario vivere il suo spirito
in ogni
istante della giornata.
Per questo,
nel momento in cui il
Cappello aveva decretato le rispettive appartenenze, i loro vestiti
erano
magicamente mutati: gli indumenti che erano stati esplicitamente
richiesti
bianchi – alcune sciarpe e cravatte – ora vantavano
lucenti strisce verdi e
argentee, e su tutto il resto del vestiario si era concretizzato il
simbolo
degli Slytherin.
Su tutto.
Proprio tutto.
Queste
furono le considerazioni
di Albus quando, uscendo dalla doccia, gettò uno sguardo
sulla sua biancheria.
Poteva accettare l’emblema della Casa sulla canottiera, ma le
mutande con il
simbolo serpentino sfioravano l’eresia.
Avrebbe
voluto sapere il nome del
burlone che aveva ideato quello scherzetto. Non riusciva a conciliare
l’idea
della Mc Granitt, la loro integerrima condottiera, con quella di un
buontempone
dedito alla personalizzazione dell’intimo altrui.
Finì di asciugarsi e cominciò a
vestirsi, e lì ebbe inizio la seconda
riflessione della mattina: la tunica che avevano indossato il primo
giorno era
stata rimpiazzata da una divisa scolastica più moderna. Lo
sguardo di Nott non
era stato dei più incoraggianti quando gli aveva chiesto
perché dovessero
sostituire la veste nera. «Ci fanno indossare quelle
palandrane solo il primo
giorno. È una specie di rito, visto che per secoli i maghi
hanno vestito così.
Un tributo, per meglio dire. Ma, finita la commemorazione, ci danno le
vere
divise» gli aveva spiegato.
Albus
allacciò la fibbia dei
pantaloni e procedette nell’abbottonatura della camicia.
Secondo lui, comunque,
la tunica tenebrosa aveva tutto un altro fascino rispetto al completo
“contemporaneo”.
Stava allacciando la cravatta quando Scorpius lo
chiamò dalla stanza:
«Albus, ti stanno…»
«Spiega a questo stupido aggeggio che non sono il suo padrone, che Piton lo
strafulmini!» starnazzò
Macauley, vagamente isterico.
Albus si gettò fuori dalla porta del bagno,
incurante dei capelli ancora
umidicci che cominciavano a formare un alone scuro sul colletto.
E finalmente
capì quale fosse il
motivo dell’agitazione di Nott.
Qualcuno lo
stava chiamando al Cercapersone.
Nel mondo
dei maghi, il Cercapersone
non si limitava a squillare come un normale cellulare: quando riceveva
un
messaggio o una telefonata, il Cercapersone sguainava un paio di
gambette
metalliche e scorrazzava in giro alla ricerca del destinatario. Gli
stregoni avevano
adottato la tecnologia babbana per la sua indubbia
praticità, ma avevano voluto
aggiungere un tocco personale al tutto.
Albus si
mordicchiò l’unghia
dell’indice, imbarazzato: non aveva detto ai suoi genitori
che il suo Cercapersone
era rotolato giù per le scale. E caduto dal terrazzo. E
finito in lavatrice. In
realtà, era un miracolo che fosse sopravvissuto
all’estate: forse gli oggetti
incantati erano più tenaci di quelli comuni. Ma tutti quegli
urti non lo
avevano comunque lasciato illeso: ora il suo Cercapersone identificava
come suo
possessore la prima persona che vedeva, un po’ come le
paperelle che etichettavano
come mamma la prima cosa con le zampe rossicce che passava loro
davanti, anche
un umano in stivali da pioggia.
Quella
mattina, la “mamma” del
suo cercapersone era Macauley.
Era
piuttosto buffo vedere un
ragazzino di undici anni inerpicato su una sedia con la bacchetta
spianata e
gli occhi strabuzzati, attaccato da una temibile agendina elettronica
che
continuava a sbatacchiare sulle gambe della seggiola. Un elefante
terrorizzato
da un topo avrebbe fatto la stessa impressione.
«Scusami Macauley» Albus corse in suo
aiuto recuperando il Cercapersone,
che continuò a zampettare a vuoto nell’aria.
«Ti sei spaventato?»
«Rispondi e porta quella diavoleria lontana da
me!» sbottò lui,
rinfoderando la bacchetta. «Non ti sei asciugato bene i
capelli» lo rimproverò
nello scendere dalla sedia.
«Dovevo rispondere» replicò
Albus. Si slanciò all’improvviso in avanti
per tenere fermo il Cercapersone, ancora convinto di appartenere a
Nott. Quella
scatoletta aveva la forza di un Minotauro.
«Se ti viene il raffreddore, dovrai starmi a
dieci metri di distanza» lo
ammonì Macauley, rifugiatosi dietro la sedia per sfuggire
alla perseveranza del
diabolico marchingegno.
«Ma Macauley, siamo in stanza
insieme…»
«Dieci, ho detto!»
L’Albus mentale roteò gli occhi con
un sonoro sospiro mentre l’Albus reale
annuì e si ritirò a sedere sul suo letto per
rispondere alla chiamata.
Scorpius si era mantenuto totalmente neutrale alla
faccenda: aveva
nascosto qualunque esternazione, fosse un sorriso o una smorfia, dietro
lo
scudo di un libro, e aveva continuato la lettura tranquillo come se
nulla
stesse accadendo.
Il minore dei Potter osservò per un attimo il
colore del suo
Cercapersone. I maghi avevano voluto dare un ennesimo tocco stravagante
alla
loro rivisitazione della tecnologia; avevano riprodotto nel
Cercapersone le
funzioni di un telefono cellulare e l’estetica di
un’agendina elettronica, con
una sfiziosa novità: il coperchio metallico variava la
propria tinta in base all’umore
di chi stava chiamando. Dalla tonalità azzurra appena
intaccata da un’ametista
pallido Albus capì che il mittente era fondamentalmente
sereno, ma con una
punta di agitazione.
Sollevò il coperchio e diede inizio alla
comunicazione.
«Albus! Come è andata la prima
settimana di lezioni?»
«Mamma, mi hai chiamato ieri sera. Lo sai come
è andata» rispose
serafico lui.
L’apprensione di sua madre era da Torneo
TreMaghi, ma la dolcezza con
cui si preoccupava per lui era troppo genuina per inacidirlo: non era
mai
accaduto, nella storia della famiglia Potter, che la prole si fosse
mostrata
villana con Ginny.
«Hai dormito bene?»
«Sì.»
«Oggi hai molte lezioni?»
«Ho Trasfigurazione subito dopo mangiato. E poi
abbiamo le “Scholzioni”
nel pomeriggio» elencò Albus.
«Le cosa?»
«Difesa contro le Arti Oscure e Volo»
si riprese lui.
Dall’anno precedente, Hogwarts vantava due
professori tedeschi tra le
file dei propri docenti, i cosiddetti “fratelli
teutonici”. Poiché di cognome
facevano Scholz, gli studenti chiamavano
“Scholzioni” le loro ore, nomignolo
che si guardavano bene dall’usare in presenza dei due
insegnanti, che non
avrebbero gradito. Per meglio precisare, forse il minore si sarebbe
messo a
ridere e gli avrebbe perfino offerto una Burrobirra per la fantasia, ma
il maggiore
non avrebbe di certo apprezzato l’umorismo. Meglio essere
cauti con quel
mastino di Achill Scholz.
«Non ti sei asciugato i capelli»
notò lei.
Nott estrasse la bacchetta e, facendo uscire dalla punta
un filo di
fumo, vergò una frase nell’aria: “tua
madre è una santa”.
«Stavo per farlo quando mi hai
chiamato» si giustificò Albus.
«Allora ti saluto. Non voglio che ti
ammali.»
Macauley picchiettò due parole
perché si allontanassero tra di loro e
fece un’aggiunta nello spazio appena liberato: “tua
madre è davvero una
santa”.
Albus salutò Ginny e chiuse l’agenda,
che venne poi riposta nel cassetto
del comodino; ancora non capiva come facesse ad aprirlo da sola con
quelle
zampette microbiche.
«Perché mia madre sarebbe una
santa?» domandò, avviandosi verso il
bagno.
«Perché impedisce ai tuoi pericolosi
germi di bivaccare in questa stanza»
lo delucidò Nott.
«Non mi sono ancora ammalato!»
protestò l’altro.
«E’ meglio se ti asciughi i capelli,
Albus» intervenne Scorpius,
accompagnato dallo sfogliare del libro.
«E se i tuoi bacilli sono testardi come te,
contagerai tutta Hogwarts»
quantificò Macauley.
«Non sono testardo» si oppose Albus.
«Sì che lo sei.»
«Non lo sono.»
«Però ti ostini a negare di essere
testardo.»
«No, sono tenace nell’affermare di non
esserlo.»
«Non cambia molto.»
«La tenacia è una virtù,
la testardaggine un vizio.»
«Macauley, ha vinto lui»
sancì Scorpius, appoggiando finalmente il tomo
e sporgendosi dal letto per fissare i due contendenti.
«Rassegnati. E lascialo
andare ad asciugarsi i capelli, se proprio temi
l’epidemia.»
Nello spartito dei discorsi di Scorpius ogni tanto
apparivano delle note
discordanti. In quei sette giorni di conoscenza, Albus si era
ritagliato
un’ideale del suo compagno di stanza: si sedeva sempre
accanto a lui, a lezione
e nella Sala Principale, non si era mai mostrato scortese con nessuno e
studiava
con particolare impegno, tanto da suscitare lo spirito competitivo di
Rose.
Eppure, alcune volte quell’immagine di studente modello
vacillava, come un
equilibrista che perde l’assetto per qualche secondo. Era un
baluginio di un
istante, un tentennamento appena intravisto, prima che lo Scorpius di
sempre
riprendesse il sopravvento.
I suoi pensieri si dissiparono per un rumore di artigli
contro la
finestra. E ancor più dall’invettiva di Macauley:
«Cos’è quel mostro?»
«Il mio gufo» lo liquidò
Scorpius.
Albus fissò il rapace che attendeva al di
là del vetro: era un esemplare
piuttosto grosso, rispetto alla media, con un piumaggio bianchissimo
appena
macchiato da alcune ombre marroncine.
«Non vorrai farlo entrare?»
inorridì Nott.
«Se è arrivato fin qui, vuol dire che
ha qualcosa da consegnarmi» si
difese Scorpius, avvicinandosi alla finestra.
«Ma perché non fai come Albus e non
ti prendi un Cercapersone? Non
impazzito, possibilmente.» Albus arginò
bruscamente l’onda di simpatia che aveva
provato per Nott: era stato stupido pensare che Macauley fosse in grado
di fare
un complimento.
«Perché dovrei?»
«Perché un’agenda non perde
le piume, non porta malattie e non caccia
schifezze che gozzovigliano nel sottosuolo»
sciorinò Macauley.
«Il mio gufo è addestrato. Non fa
niente di tutto questo» ribatté
Scorpius. E aprì la finestra.
Nott corse ai ripari infilandosi prontamente la
mascherina, mentre Albus
si allungò verso il letto del compagno per vedere meglio il
rapace appollaiato
docilmente sul suo braccio.
«Di che razza è?»
s’informò, incantato dalle piume immacolate.
«E’ un gufo delle nevi»
illustrò Scorpius, solleticando un’ala
all’uccello perché l’aprisse.
«Ha il piumaggio ancora un po’ scuro
perché è un
esemplare giovane» gli indicò le imperfezioni
marroni. «Quando crescerà sarà
completamente bianco.»
«Almeno sei abbastanza civile da non far
atterrare il tuo piccione in
Sala Comune» rumoreggiò Macauley da un angolo
della stanza.
Albus strinse le labbra per soffocare un risolino: la
faccia schifata di
Nott quando gli uccelli di alcuni studenti planavano sulle tavole
imbandite
poteva essere paragonata a quella di un ogre che vede un
tutù da danza
classica. “Arma batteriologica di massa”, li aveva
definiti. Probabilmente i
nervi e le difese immunitarie dell’amico non avrebbero retto
se le abitudini
fossero rimaste immutate rispetto a venti anni prima: ormai erano
sempre di più
gli studenti che si affidavano all’elettronica e sempre meno
i pennuti che
sorvolavano le mense di Hogwarts.
«E’ un gufo, non un
piccione» si premurò di precisare Scorpius,
tirando
il nastro che legava un pacchetto alla zampa dell’uccello.
«Come mai non lo fai atterrare con tutti gli
altri?» considerò Albus.
«Perché lui non è un
troglodita» rispose in sua vece Nott. «Tuttavia, se
fosse davvero evoluto, lo farebbe
appollaiare da qualche altra parte.»
«E dove?» replicò signorile
Scorpius.
Alcuni colpi sbarazzini alla porta interruppero la loro
discussione.
«Ragazzi? Siete pronti?»
gorgheggiarono delle voci al di là del legno.
Quell’anno a Slytherin
erano
stati assegnati tre maschi e ben sette femmine; per compensare, Ravenclaw contava due deliziose
fanciulle e nove pargoli.
Le Slytherin si erano dimostrate molto
socievoli nei loro confronti e,
per cementare il legame tra le “matricole
serpentine”, avevano proposto di
scendere sempre tutti assieme per la colazione. Il rituale prevedeva
anche il
commiato della buonanotte e l’obbligo, per loro tre, di
cedere il passo alle
femmine nell’entrare in una stanza. Non era ben chiaro
perché l’ultima regola
dovesse saldare i rapporti personali, ma l’avevano accettata
con un’alzata di
spalle.
Per essere
esatti, Scorpius e
Albus avevano concordato con quel buffo galateo. Macauley si era
dimostrato un
poco recalcitrante.
«Sono di nuovo qui, quegli untori in
gonnella» si risentì infatti.
«Macauley, non essere sgarbato» lo
calmò Scorpius, aprendo la finestra
per far uscire il gufo.
«Sono obiettivo» si
giustificò lui. «Ti ficcano quelle unghie smaltate
ovunque per farti il solletico. E i baci,
poi. Quello schioccare di saliva sulle guance» Nott
buttò fuori la lingua come
per un conato, per evidenziare la sua misoginia.
«Non possiamo restare rintanati tutto il
giorno» comunicò Scorpius.
Scavalcò con le gambe il bordo del letto ed
atterrò con un tonfo smorzato sul
pavimento. «E siamo già in ritardo per la
colazione.»
Il sospiro snervato di Macauley uscì molto
simile a “stormo di
invasate”, ma si aggiunse comunque ai suoi compagni
nell’apertura della porta.
«Oh, finalmente!» li salutò
Cenerentola.
«Pensavamo non vi foste svegliati
affatto» proseguì Lentiggine.
Si sarebbero certamente infuriate se avessero saputo dei
soprannomi che
avevano loro affibbiato, ma non lo avevano fatto con cattiveria: una
settimana non
bastava per ricordarsi i nomi di tutto l’istituto. Scorpius
era quello
vagamente più fisionomista di loro tre, ed anche lui si
trovava in difficoltà;
Nott non si impegnava nemmeno: per lui erano tutte portatrici di germi.
I nomignoli
erano opera di Albus:
Cenerentola si era guadagnata il suo pseudonimo per la propensione a
raccogliere
i capelli biondi in un fiocco azzurro, e Lentiggine per le efelidi che
le
punteggiavano il nasino alla francese. Gli epiteti proposti da Nott
erano stati
scartati per ovvie ragioni.
«Albus, non ti sei asciugato i
capelli!» notò Fiamma, caratterizzata dai
capelli rossi.
L’interessato arricciò le labbra,
scuotendo il capo. Possibile che il
mondo dovesse focalizzarsi sullo stato della sua chioma?
«Oh, che carino!» cinguettò
Cenerentola, avvolgendolo in un abbraccio e
guadagnandosi così lo sdegno di Nott: il contatto fisico era
il primo veicolo
di contagio.
«Assomiglia a mio fratello minore»
pigolò Fiamma, unendosi alla stretta,
e Albus poté sperimentare l’emozione del
prosciutto pressato tra due fette di
sandwich. Per una qualche ragione a lui ignota, tutte le ragazze di Slytherin lo trovavano adorabile, e
cercavano ogni scusa possibile per coccolarlo. Avrebbe preferito che
non lo
facessero: era imbarazzante sentirsi soffocare da un abbraccio
perché la sua
statura non raggiungeva quella della maggior parte delle femmine della
sua
Casa.
«Non dovresti andare in giro così, ti
prenderai un raffreddore» si
impensierì Lentiggine.
«E’ quello che gli ho detto anche
io» si indignò Macauley.
«Oh, Nott, se anche tu vuoi un po’ di
attenzioni basta chiedere»
vocalizzò Lentiggine, avvicinandosi a lui.
«Prima che tu faccia un altro passo ricorda: ho
una bacchetta» minacciò
Macauley e, nel dirlo, infilò una mano nel mantello.
«Nott, non vorrai lanciarmi uno Schiantesimo,
vero?» si allibì lei.
«Mantieni una distanza di sicurezza»
le suggerì Macauley.
«Siamo in ritardo per la colazione»
ricordò Scorpius a tutti quanti,
prima che Lentiggine facesse un altro passo e Nott… solo il
cielo sapeva come
avrebbe potuto reagire Nott alla vicinanza di una pericolosa fonte di
agenti
patogeni.
«Andiamo» decretarono le ragazze,
portandosi via il piccolo Potter come
trofeo da viziare. Albus si voltò disperato e vide la
riprovazione di Nott e
l’enigmatico sorrisetto di Scorpius. E nessuna traccia di
cameratismo o
comprensione.
Chissà come avrebbe reagito sua madre se gli
avesse raccontato tutti i dettagli
della vita ad Hogwarts.
***
Aveva temuto seriamente di rivedere la sua colazione.
La Eeriemay aveva svolto la sua lezione di Trasfigurazione
ben fasciata
da uno dei suoi vistosi completi, inadeguati all’insegnamento
di giovani menti
che si avviavano alla tempesta ormonale.
Ma non era stato
l’abbigliamento succinto
della prof a sconvolgere il suo stomaco.
La donna
aveva portato in classe
un enorme sacco e aveva distribuito il contenuto tra gli alunni,
raggiante come
una bambina a Natale.
Albus non
pensava che una femmina
potesse toccare qualcosa di simile senza urlare. Lui
non avrebbe mai toccato qualcosa di simile senza urlare.
Ragni. La
Eeriemay aveva portato
dei grossi, enormi, pelosi, schifosi ragni.
«Cambiategli colore, ragazzi. E usate
l’immaginazione» cantilenò
zuccherosa, accavallando le gambe sulla scrivania; la parte maschile
dell’aula
fu distratta per la successiva mezz’ora, e i ragni
cominciarono ad aggirarsi in
libertà.
Albus aveva allontanato istintivamente la sedia dal banco,
finendo quasi
in braccio Rose, seduta dietro di lui. La cugina aveva immobilizzato il
suo
aracnide con un colpo di bacchetta e una freddezza micidiale,
dopodiché si era
picchiettata la punta dell’asticella sulle labbra alla
ricerca di un’idea
innovativa. Scorpius aveva tracciato un cerchio con la verga sottile
attorno al
ragno, intrappolandolo in una circonferenza argentata, e aveva
cominciato a
ripetere tra sé la formula che la professoressa aveva appena
spiegato per
testare gli accenti corretti. Nott aveva stordito la sua bestia
spruzzandole
uno spray addosso, ed il ragno si era afflosciato in uno stato comatoso
mentre
il ragazzo si muniva di maschera e guanti di lattice prima di
proseguire.
Albus aveva
passato qualche
interminabile minuto in un’imbarazzante rappresentazione in
cui lui avvicinava
le mani al ragno, quello sollevava le zampe, o le ganasce, o quello che
erano
per attaccare e lui che ritraeva le dita. Poi lui le avvicinava di
nuovo e il
copione si ripeteva.
Stava per
schiacciarlo sotto il
libro di Trasfigurazione in preda all’esasperazione e allo
schifo, quando una
bacchetta era saettata verso di lui e aveva rinchiuso
l’aracnide in una
circonferenza argentea.
«Grazie Scorpius» aveva mormorato, con
voce traballante per la nausea.
Il compagno aveva mosso appena la mano per fargli capire
di non sentirsi
in debito, e aveva ricominciato a lavorare al suo ragno.
Alla fine della lezione, ognuno aveva tentato di fare del
suo meglio. Si
potevano vedere ragni rossi, verdi, gialli, a strisce, a fiori, a pois.
Ma
restavano comunque disgustosi aracnidi ottozamputi.
I loro
sforzi avevano fruttato
una decina di punti per Ravenclaw e
venti per Slytherin: la Eeriemay
era
rimasta favorevolmente impressionata dalla tinta omogenea che erano
riusciti a
stendere magicamente sui ragni, e aveva molto gradito la fantasia a
farfalle
adottata da Rose.
Ma Albus non
era riuscito a
rallegrarsi troppo per quella vittoria: le sue guance avevano lo stesso
colore
del suo maglione, e il suo stomaco si era arrampicato in una posizione
imprecisata tra la gola e il cuore.
Non avrebbe
mai più passato un
solo secondo della sua vita in compagnia dello zio Ron quando era in
vena di
raccontargli storie dell’orrore sui ragni: era principalmente
colpa sua se era
diventato aracnofobo.
«Forse Macauley ha un
antiemetico…» valutò Scorpius quando il
pallore di
Albus si avvicinò a quello del primo stadio di rigor mortis.
Albus fece perno sul mento e roteò la testa in
cenno di diniego, per poi
schiantare la fronte sul tavolo: era bastato quel semplice movimento
per fargli
sentire sul palato il sapore della bile.
«Tu ascolti troppo le favole di mio
padre» lo rimproverò Rose. «E poi,
cosa può farti un ragno? E’ un animale stupido.
Puoi bloccarlo con un colpo di
bacchetta, o schiacciarlo con una scarpa.»
Albus sollevò un palmo in segno di resa.
«Rose, ti prego. Non vorrei sporcarti la
divisa» rantolò Albus.
«Sei senza speranza» si
rabbonì la cugina, carezzandogli affettuosa i
capelli corvini.
«Forse staresti meglio se mangiassi
qualcosa» si offrì Scorpius.
Albus mandò un lamento incomprensibile, che il
compagno interpretò come
un assenso.
«Fraternizzi ancora con lui?»
ringhiò Rose, quando Scorpius sparì oltre
lo stipite della porta.
«Ancora non ti convince?»
boccheggiò Albus.
Pensava che la cugina si fosse finalmente ricreduta su
Scorpius: era
dall’inizio della scuola che si trovavano tutti insieme a
studiare nelle aule
di lettura di Hogwarts. Tutti a parte Nott, che preferiva ripassare le
lezioni
al sicuro nella loro camera. Inoltre, quel giorno Scorpius si era
dimostrato
particolarmente altruista, aiutandolo a non rovinare per terra nel
tragitto
dall’aula alla sala studio.
Ma,
nonostante il comportamento
di Scorpius fosse irreprensibile, il muro di diffidenza della cugina
non era
ancora crollato.
«Sembra sempre che voglia nascondere
qualcosa» inquisì infatti.
«Rose, ognuno di noi ha qualcosa che non vuole
rivelare. Magari ce ne
parlerà lui stesso quando ci conosceremo meglio»
agonizzò Albus.
«Quel giorno mi ricrederò»
pontificò lei.
Albus riuscì ad appoggiare faticosamente la
testa sulle braccia
abbandonate sul tavolo.
«Dovrei farti conoscere Nott. Sono certo che
andreste d’accordo»
stramazzò lui. Li immaginava già, Macauley che
spargeva disinfettante tutto
intorno e Rose che lo fissava con sospetto da dietro la costola di un
libro.
«Non pensavo che la Eeriemay fosse
così brava con le trasfigurazioni»
ponderò a voce alta Albus, per cambiare discorso.
«Buon sangue non mente»
chiarì Rose. «E’ la nipote della nostra
preside,
dopotutto.»
La testa di Albus scattò verso
l’alto, e si accasciò il secondo
successivo: meglio non tentare manovre troppo avventate con
l’apparato
digerente in sciopero.
«La Eeriemay… nipote della
McGranitt?» tartagliò, annichilito.
«Mi pare che la preside sia la sorella di sua
madre» citò Rose,
punzecchiandosi il mento con il tappo della penna.
Era
impossibile che quelle due
avessero del sangue in comune, assolutamente impossibile. Albus non le
riusciva
a pensare neppure come vicine di posto a mensa, figurarsi come parenti!
Erano
il diavolo e l’acqua santa, il nero e il bianco, il gatto e
il cane, Lord Voldemort e suo padre!
Impiegò
qualche minuto prima che
il suo stomaco debilitato assorbisse la notizia. Se non altro aveva
capito chi gli avesse apposto il
simbolo della
Casa anche sulle mutande.
«Non è un caso se gli studenti
più anziani dicono che la Eeriemay abbia
avuto il posto grazie alle raccomandazioni»
menzionò Rose.
«A me ha fatto una buona impressione come
insegnante» s’impermalì Albus.
«Ha un abbigliamento sconveniente.»
«E’ comunque un’ottima
maga.»
«Albus, non ragionare con organi lontani dal
cervello.»
«Che intendi dire?»
Ogni possibile risposta aspra le appassì sulle
labbra: quando il cugino
la fissava con quegli occhioni verdi da cerbiatto spaurito le sue armi
retoriche si arrugginivano.
«Beata innocenza» sospirò,
assestandogli alcune pacche sulla testa e
smettendo nel momento in cui il verde sulle guance del consanguineo si
fece più
intenso. «Comunque, ha fatto solo due lezioni, e noi siamo
dei principianti. E’
troppo presto per decidere se sia una buona insegnante o meno.
Rimandiamo il
giudizio a quando la conosceremo meglio.»
«Lo farai anche con Scorpius?»
La cugina ritrasse la mano: su alcuni argomenti,
l’ipnotismo degli occhi
da cucciolo non sortiva alcun effetto.
«Lui è un discorso a parte. Non mi
dà una bella sensazione» lo stroncò
lei.
Qualunque replica venne bloccata da un forte conato quando
una mano si
abbatté senza alcun riguardo sulla sua schiena.
«Bravo! Hai fatto guadagnare dei punti a Slytherin» lo
canzonò una voce ben nota.
«James, sto per vomitare» lo
avvisò, in procinto di svenire.
Le sopracciglia del fratello disegnarono un arco sorpreso
da sopra le
lenti degli occhiali.
«Cos’è successo?»
si rivolse a Rose, poiché il consanguineo sembrava sul
punto di ributtare anche l’anima.
«Lezione con i ragni»
telegrafò lei.
«Ma sei un
cretino! Perché non hai chiesto di
saltarla?» lo riprese brusco James.
«Prima o poi
dovrò vincerlo questo… difetto»
crollò Albus.
«Devi cercare di
arrivarci vivo al giorno in
cui lo “vincerai”»
s’incaponì il fratello, tastandogli con malagrazia
la
fronte. «Hai la febbre?»
«Ho la
nausea» si lamentò Albus.
«Hai fatto
lezione con dei ragni… non c’è
proprio limite alla tua idiozia?» lo sgridò James.
«Cerca di non morire,
almeno!» sbuffò, mollandogli la testa di colpo:
Rose si tuffò come un portiere di
Quidditch per evitargli la collisione con lo spigolo del tavolo.
«Tuo fratello è più
umorale di un’elefantessa incinta»
disapprovò lei,
aiutandolo a rimettersi composto mentre James si allontanava dalla sala
studio
a grandi passi.
«Forse è sotto pressione»
biascicò Albus. «E’ responsabile anche
per me,
adesso.»
«Comunque sia…»
«Eccomi.»
Rose si ammutinò in un silenzio offeso:
detestava essere interrotta.
Specie da Scorpius.
«Ti servono un po’ di zuccheri per
rimetterti in forze. Tra qualche ora
abbiamo la prima Scholzione» annunciò Scorpius,
mettendogli davanti al naso il
frutto della sua ricerca.
Albus sentì la nausea gonfiarsi fino a fargli
quasi scoppiare l’esofago.
«Scorpius, non credo che mi vada di mangiare una
fetta di torta» esalò.
«Non preoccuparti» lo
tranquillizzò Scorpius, scoperchiando la casetta.
«Le
Torte della Strega comprendono una vasta gamma di dolciumi»
estrasse un
biscotto dalla scatola e glielo esibì davanti agli occhi: un
semplicissimo
disco di pastafrolla con qualche goccia di cioccolato ad insaporirlo.
«Alcuni
sono quasi spartani.»
Albus afferrò il biscotto e cominciò
a sgranocchiarlo come un castoro.
Il rimedio di Scorpius, sorprendentemente, riscosse successo: lo
stomaco riprese
la sua posizione nel ventre, felice di tornare alle vecchie mansioni.
Pian
piano Albus recuperò la postura corretta sulla sedia,
diventando più dritto mentre
i biscotti calavano.
«Come ti senti?» volle sapere
Scorpius, quando anche l’ultimo dolcetto
fu spazzolato.
«Meglio» garantì Albus.
Rose sollevò il libro per nascondervi lo
scetticismo che dilagò sul suo viso.
«Mangia anche la strega» lo
consigliò Scorpius.
«La strega si mangia?» si sorprese
Albus.
«E’ fatta di zucchero»
affermò Scorpius. «Devi mangiarla prima che
cominci a sparire. E, se apri la bocca subito dopo averla inghiottita,
sentirai
le ultime parole che vuole dirti.»
Albus allungò la mano alla piccola
fattucchiera, che vi saltò
prontamente sopra.
Quella volta fu una specie di druida grassoccia vestita di
foglie a
raccontargli la novella del giorno:
«La magia orientale è più
esoterica di quella occidentale: in Oriente il
legame con gli spiriti è più forte, e le pratiche
magiche assomigliano ai riti
religiosi, con invocazioni delle divinità e controllo del
loro potere.»
Non appena l’incantatrice ebbe finito di
parlare, Albus se la rovesciò
in bocca.
Attese che la strega si sciogliesse prima di inghiottire e
socchiudere
le labbra come gli aveva detto di fare Scorpius.
«Questo ragazzino è un gran
maleducato!» una voce così acuta da sfiorare
gli ultrasuoni gli uscì dalla bocca, che Albus
tappò immediatamente nell’udire
quelle tonalità stridule e adirate.
«Di solito sono contrariate, quando
parlano» si scusò Scorpius. «Del resto,
le hai appena mangiate.»
La testa di Rose sobbalzò dal contorno del tomo
che stava leggendo, in
un contenimento assai povero di una risata fragorosa: sentire il cugino
parlare
con quella vocetta da gallina l’avrebbe rallegrata per i
prossimi cento anni.
«La prossima volta la faccio
dissolvere» decise Albus, accartocciando la
scatola per buttarla via.
***
Il banco slittò all’indietro di un
centimetro scarso prima che
l’occhiataccia del professore lo freddasse sul posto.
Non era del
tutto sicuro che
Achill Scholz lo avesse effettivamente fissato con riprovazione, ma il
cruccio
solidificato sul viso del docente rendeva impossibile decifrarne le
emozioni.
Achill
Scholz sembrava nato per
insegnare una materia inquietante come Difesa contro le Arti Oscure:
era una
delle persone più spaventose che avessero mai visto nella
loro vita, un gigante
nordico con il volto deturpato da spesse cicatrici e dal grugno
immusonito, e
un paio di mani che avrebbero ribaltato la scrivania di noce di
quell’aula come
uno stampo per budini. Marciava inamidato in un’uniforme
marziale munita di
pesanti stivali con la suola rinforzata, e gli occhi stessi sembravano
pietrificati da una rigida disciplina; quasi non batteva le ciglia nel
parlare.
«Cosa voi sapere di
“golem”?» la classe impiegò
mezzo minuto per capire
che aveva detto “golem” e non
“kolam”.
Rose ebbe modo di sfoggiare le sue conoscenze.
«I golem sono un tipo di evocazione di livello
medio-alto. I punti di
forza e di debolezza della creatura variano in base
all’elemento da cui il mago
ha deciso di plasmarlo» esacerbò.
«Ja,
è questo che insegnano
vostri libri di testo» annuì Scholz, con quel suo
accento che storpiava
“questo” in “kvesto” e
“vostri” in “fostri”.
Albus vide Nott schizzare verso il soffitto e lui stesso
rischiò di
saltare al collo della cugina quando Scholz abbatté i magli
che aveva come
pugni sulla cattedra.
«Nein! In che
era preistorica è
fermo vostro sistema scolastico? Con nozioni così antiquate
primo mago nero che
vede voi vi trasforma in zerbino! E vi usa per lustrarsi
stivali!»
«Ora gli scoppia la carotide» previde
Nott, allarmato dalla ragnatela di
vene pulsanti sul collo teso del professore.
«Tu, forza, in piedi!»
sberciò Scholz in direzione di Albus.
Per un attimo, il ragazzo ebbe l’impressione che
il professore avrebbe
messo in pratica quanto detto precedentemente sui maghi oscuri, e che
lo avrebbe
usato per lucidarsi gli anfibi.
«Tu ti chiama Malfoy?» volle sapere il
docente.
«No signore» lo contraddisse titubante
Albus, aggrappandosi alla sua
bacchetta.
Una “V” seccata si disegnò
tra le sopracciglia del prof quando Scholz
aggrottò la fronte e attaccò:
«E come ti chiama, allora?»
«Potter, signore. Albus Severus
Potter» riferì in un bisbiglio atterrito.
«Tuo nome troppo lungo! Se un alleato in
difficoltà prova a chiamare tu,
tempo di pronunciare tuo primo nome e lui già
morto!» lo redarguì il
professore.
Albus morsicò le labbra, non sapendo bene cosa
rispondere. Non poteva
cambiare il suo nome in ASP solo per salvaguardare eventuali colleghi
moribondi. Sua madre lo avrebbe portato dallo psichiatra se avesse
avanzato una
simile richiesta.
«Dove è Malfoy?»
abbaiò di colpo.
«Sono qui, professore» Scorpius
alzò anche la mano per rendersi più visibile.
«Muove tue secche gambette e viene
qui!» ordinò il docente, puntando il
dito verso i suoi piedi.
Scorpius, a dispetto del tono minaccioso di Scholz,
obbedì tranquillo,
sfilando quasi per raggiungere la cattedra.
La classe
trattenne il respiro per
timore di cosa sarebbe capitato a quei due poveretti, uno arpionato
alla bacchetta
e l’altro che spazzolava metodico la verga con i polpastrelli.
«Cosa sapete voi di golem?»
domandò di nuovo il professore. La prima fila
sobbalzò nel vedere l’insegnante chinarsi ed
estrarre l’asta magica dalla
fondina dentro lo stivale.
«Quello che ha detto Rose Weasley,
signore.»
Quella risposta ottenne il biasimo del professore,
espresso in una
bacchettata sulla testa.
«Impara a pensare con tua
zucca vuota, o presto vedrai fiori da parte di radici»
s’inasprì Scholz mentre
Albus si massaggiava il principio di bernoccolo.
«Ma è così, professore,
sul nostro libro non c’è scritto altro»
Scorpius
arretrò con il collo quando la bacchetta di Scholz gli si
agitò davanti al
naso.
«Se non c’è scritto altro,
allora tu deve cercare altra fonte! Non
limitatevi a studio accademico, ragazzi: il mondo cambia, e i libri
colgono
cambiamenti solo fino a data di loro pubblicazione, poi più!
Non basate vostre
conoscenze solo su biblioteche: imparate da vita!»
A giudicare dall’arricciamento del naso, Rose
non condivideva
quell’opinione: lei era una bibliofila, una di quelle ragazze
che, oltre che
leggere e memorizzare i libri, vi tuffava il naso per sentirne il
profumo. Era
scontato che non approvasse l’avversione del professore per
la carta stampata.
«Magia è cambiata. In bene e in male.
Ora io vi insegna alcune formule
di incantesimi elementali, e voi usa contro golem.»
«Ma le magie elementali sono programma del
terzo…»
«E se enorme golem arriva per mangiare tu? Tu
cosa dici? “Mi spiace,
passi di nuovo tra due anni”? Mostro non aspetta, mostro
mangia!» lo incalzò
Scholz, puntandogli la bacchetta al petto. Albus non osò
nemmeno respirare per
paura di quale incantesimo si sarebbe inciso sul suo sterno al minimo
fiato.
«Ora voi fate attenzione» due possenti
pacche sulle spalle li
costrinsero ad avvicinarsi al professore, che si abbassò
dall’alto dei suoi due
metri per istruirli: «Queste sono
formule…»
Scholz passò loro gli incantesimi con il tono
sottile della spia, e, per
quanto la classe tendesse le orecchie, nessuno riuscì a
carpire nemmeno una
sillaba.
«Ora voi fate vedere che avete
imparato» la bacchetta del prof si mosse
veloce: tracciò un otto dall’alto verso il basso e
puntò esattamente a metà
dello spazio vuoto tra i due studenti: «Golem!»
invocò Scholz.
Albus richiamò tutto il sangue evaporato dallo
sgomento e raddrizzò la
bacchetta per affrontare la bestia che si stava formando davanti a
loro: un
ammasso di roccia emerso dal nulla stava dando vita ad una creatura
umanoide, e
guizzanti lingue di fuoco ruggivano sulle sue braccia.
«Magia moderna fa queste combinazioni: due
elementi su uno stesso golem»
Scholz si accomodò dietro la sua scrivania, e
augurò: «Buona fortuna, ragazzi.»
Albus fece schioccare la lingua contro il palato secco,
cercando di
sfruttare i secondi che ancora li separavano dalla nascita completa
della
creatura. Le sue braccia erano di fuoco, quindi l’elemento
contrario era
l’acqua. E la formula per l’incantesimo
d’acqua…
«Piscis Marinis!»
recitò,
puntando la bacchetta contro il mostro ormai formato. Dalla punta di
legno si
sprigionò un crepitio e, in un lampo bluastro, da essa
scaturì…
«Che diavolo è quella
cosa?» esclamò Rose.
Albus fissò il risultato della sua magia,
trasecolato: un enorme pesce
dalle squame verdognole annaspava sul pavimento dell’aula,
sbatacchiando le
pinne nella misera pozza d’acqua in cui si era materializzato.
«Professore!» si allarmò
Albus, i capelli quasi ritti dallo spavento.
«Se tua magia non funziona, tu usa
testa» il docente si picchiettò una
tempia per rendere più chiaro il concetto.
Ma… ma gli aveva detto lui
che
formula usare, non più di cinque minuti prima!
Non ebbe tempo di maledire l’insegnante,
poiché una lunga lingua di
fiamme gli passò rombando sopra la testa, e Albus dovette
gettarsi a terra per
evitarla.
Con un
muggito atroce, la bestia
calò su di lui entrambi gli arti incendiari; Albus fece
appena in tempo a
rotolare di lato per evitarli: le fiamme gli lambirono appena il
maglione,
effondendo un odore di lana bruciata.
«Così li ammazza!»
strillò Rose.
Albus non riuscì ad udire la replica del prof:
il golem lo aveva preso
in antipatia e continuava a mulinare le braccia nella sua direzione,
mugghiando
come il mare in tempesta.
Il ragazzo
continuò ad arretrare,
alla frenetica ricerca di una strategia da usare contro il mostro,
finché il
muro non sbarrò la sua ritirata.
La bestia spalancò la bocca rocciosa in un
boato assordante, e levò ambo
le braccia come mannaie.
Albus ebbe la certezza, in quel momento, che il golem
ruggente sarebbe
stata l’ultima cosa che avrebbe visto.
Ma il secondogenito dei Potter non ebbe una fine
così ingloriosa.
«Disintegra Mineralia!»
Il golem ebbe un guizzo e si bloccò come se
qualcuno avesse spento il
suo interruttore. Un piede pietroso slittò in avanti, e una
minuscola frana gli
fece crollare gli abbozzati lineamenti del viso. Una dopo
l’altra, le pietre
che lo componevano si sbriciolarono in sassi, che a loro volta si
polverizzarono nel toccare il suolo.
Il petto scosso dalla respirazione accelerata,
accartocciato a terra
poiché le ginocchia erano diventate burro fuso, Albus
fissò con occhi spiritati
la lenta disfatta del golem di cui non rimasero che alcune pietruzze
annerite
dal fuoco.
«Molto bene, Malfoy!» si
complimentò Scholz, rialzandosi dalla cattedra.
«Anche se golem fatto di tanti elementi, basta mirare a
quello centrale per
distruggere lui! Venti punti a Slytherin»
si rigirò di colpo e grugnì: «Ma
ricordate che io vi ha fatti combattere con
golem di basso livello. E molto più piccolo di veri golem.
Un golem serio non
entrerebbe in questa aula!»
Scorpius accettò la stramba lode con un sorriso
e un inchino appena accennato.
Si diresse verso Albus e gli tese la mano.
«Tutto bene?» si premurò,
tirando per sollevarlo in piedi.
Albus annuì, la bocca troppo riarsa per
articolare parola.
«Accidenti, Scorpius!»
enfatizzò Macauley, quando i due si rimisero a
sedere. «Meno male che il prof ti ha insegnato quella
formula!»
Albus aprì il libro e vi annegò con
lo sguardo, imbarazzato.
Non se la
sentiva di dire che, in
realtà, il prof non aveva spiegato loro
quell’incantesimo. Come faceva Scorpius
a conoscerlo?
Sfogliò
una pagina, cercando di
distrarsi, ma la voce della cugina gli risuonò nelle
orecchie.
Come posso fidarmi di chi non
è
sincero?
***
Si portò le ginocchia al petto,
raggomitolandosi sotto le coperte.
Dopo la prima Scholzione, il resto della giornata era
trascorso
pacificamente: la lezione di volo con Barthold Scholz, il minore dei
due, era
giunta a termine senza incidenti, e la cena nella Sala Principale era
stata
piacevole e tranquilla.
Albus sorrise contro il cuscino, accarezzando il piccolo
tesoro che
stringeva al petto. Tornando nella camera, aveva trovato sul letto una
confezione di the e un braccialetto contro la nausea, poggiati su un
foglio
ripiegato. Aveva aperto il biglietto e l’immagine
tridimensionale di un James
assai scontento gli aveva fatto la paternale.
Ricordava
ancora le parole
esatte: “Visto che sei piccolo e sei uno Slytherin
sei stupido, quindi hai bisogno che tuo fratello maggiore Gryffindor ti faccia da balia. Usa il
braccialetto e fatti un the
la prossima volta. Se muori, sarò io a dover raccogliere i
tuoi resti con un
cucchiaino e riportarli a casa!”. Il foglietto si era
autodistrutto non appena
James aveva finito di predicare, stracciandosi in un mucchietto di
coriandoli
che Albus aveva conservato nel cassetto: erano rare le occasioni in cui
l’acido
fratello gli dimostrava un minimo di interessamento, e quelle poche
volte
dovevano essere conservate con cura.
Sorrise
ancora di più,
appallottolandosi sul bottino che premeva sul cuore. Era bello sapere
che
qualcuno vigilava su di lui, anche se era quello scorbutico di James.
«Albus?»
Il ragazzo sollevò la testa dal guanciale,
incerto.
«Albus?» chiamarono ancora.
Accertatosi quel bisbiglio non fosse frutto della sua
immaginazione, il
giovane rispose:
«Sono qui.»
«Sali un attimo.»
«Salire? E come faccio?»
«Metti i piedi sul materasso e aggrappati alle
sbarre» lo istruì
Scorpius.
Perplesso, Albus emerse dalle coperte e vi
appoggiò sopra le preziose
reliquie. Seguendo le istruzioni dell’amico e cercando di non
svegliare Nott
con le sue manovre, riuscì ad inerpicarsi sul secondo piano
del letto a
castello.
«Che c’è?»
chiese, gattonando sulle coltri.
Scorpius sollevò le lenzuola e lo
invitò ad entrare. Impacciato, Albus
zampettò sul letto fino a riuscire a stendersi sotto le
coperte.
Scorpius
afferrò le coltri e
strattonò perché li coprissero fin sopra le
orecchie e solo allora cominciò a
parlare.
«Cosa ne pensi della Scholzione?»
Albus strizzò gli occhi, ma, anche
così, il volto dell’amico rimase una
sagoma fuligginosa, di cui distingueva appena i contorni su cui si
appoggiavano
le coperte.
«E’ andata bene. Nessuno è
caduto dalla scopa» vagliò.
«No, dicevo la prima»
specificò Scorpius.
Albus rabbrividì. Sentiva che una nuova fobia
si era aggiunta a quella
per i ragni: la
braccia-di-golem-infuriato-che-ti-passano-a-un-millimetro-dalla-testa-fobia.
«Mi hai salvato» stabilì
Albus.
«Non ti è sembrato…
strano, quell’incantesimo?» Scorpius
tentennò appena
un secondo prima di affibbiare un aggettivo alla sua magia. Ma Albus
coniò una
definizione migliore:
«Più che strano, direi
provvidenziale. Altrimenti, a quest’ora sarei un
mucchietto di cenere. Con gli occhi verdi e i capelli scuri»
completò.
«Che orrore!» Scorpius si finse
stomacato, ma nella sua voce c’era un
eco di risata troppo distinguibile perché la farsa reggesse.
Ridacchiarono
entrambi sull’idea
di un mucchio di polvere semovente e parlante con un ciuffo di capelli
corvini
e due globi verdi per occhi, ma lo fecero a labbra strette per non
svegliare
Nott.
Scorpius
passò un dito sotto
l’occhio per asciugare una goccia di risata e
respirò a fondo per riprendersi.
Rimase qualche istante in silenzio, il sorriso che pian piano
svaporava. Poi
confessò a voce bassa
«E’ stato il primo incantesimo che ho
visto fare a mio padre.»
«Davvero?»
s’incuriosì Albus.
Le coperte si tesero in sincrono con l’annuire
di Scorpius.
«Avevo… quattro o cinque anni
all’epoca» conteggiò Scorpius.
«E mi era
sembrata una magia strabiliante. Così ho voluto
provarla» si avvicinò, con una
mano a lato della bocca, per sussurrare in direzione del suo orecchio:
«Non
c’era un singolo sasso nel giardino di casa Malfoy,
perché li frantumavo tutti
quanti.»
«Usavi le bacchette MiniMago?»
s’interessò Albus.
Il Ministero della Magia, una decina di anni prima, aveva
approvato il
commercio di queste verghe per il settore dell’infanzia:
erano riproduzioni in
miniatura di una vera bacchetta, tarate in modo da non permettere
l’afflusso di
magia entro un certo limite. Era una misura necessaria per garantire la
sicurezza del piccino e della sua famiglia, e per evitare che lattanti
troppo
dotati appiccassero il fuoco alle loro stesse abitazioni.
«Proprio quelle» comprovò
Scorpius. «Non avevo mai distrutto qualcosa di
più grande di un sasso» ammise, sistemando dietro
l’orecchio un ciuffo biondo
troppo cresciuto. «Ma oggi… penso che lo spavento
abbia fatto da carburante.»
Scese di
nuovo un velo di
silenzio imbarazzato, strappato per la seconda volta da Scorpius.
«Grazie per non aver detto agli altri che il
professore non ci aveva
insegnato quella magia.»
«Perché mi ringrazi?»
Scorpius masticò il proprio labbro e
gettò fuori, riluttante:
«Sai quello che si dice della mia
famiglia…»
Sì, lo sapeva. Tutti lo sapevano. Se Harry
Potter era il sole del mondo
magico, Draco Malfoy era l’eclisse,
nell’immaginario comune. “Tale padre tale
figlio”, “un albero cattivo non può fare
frutti buoni” e altri proverbi simili
avevano fatto in modo che la fama del padre trasmigrasse nel figlio.
A casa
Potter, però, si
raccontava una storia diversa: durante le riunioni di famiglia, anche
se zio
Ron calcava la mano su “quanto era snob Draco
Malfoy”, zia Hermione, da
consumata avvocatessa che era stata, ne prendeva le difese: era vero
che Malfoy
era stato un Mangiamorte, ma solo perché si era trovato
incastrato in un
meccanismo più grande di lui, e non era riuscito ad uscirne.
Albus non se
la sentiva di condannare
del tutto l’operato di Draco: il padre era un seguace del
Signore Oscuro, per
cui lui stesso si era ritrovato in quelle schiere infernali. E, una
volta lì,
si era mosso per salvare la propria vita e quella della sua famiglia.
Non lo
vedeva come un personaggio negativo: diventato Mangiamorte per
costrizione,
aveva cercato di difendere quello che poteva.
Non lo
accusava di vigliaccheria
come molti facevano con leggerezza: doveva amare la sua vita
più dellidea di
andare ad ingrossare la lista di caduti per mano di Voldemort. Come
biasimarlo?
Forse lui avrebbe fatto lo stesso.
«Io penso che tuo padre non abbia agito
male» dichiarò.
Gli occhi grigi di Scorpius scintillarono
nell’oscurità, alzandosi su di
lui.
«Davvero?»
Albus annuì. A suo parere, Malfoy non era un
traditore spietato, ma un
eroe frainteso.
Il silenzio
si gonfiò di nuovo
tra di loro, e questa volta fu Albus a spezzarlo:
«Comunque, se ripenso al prof Scholz,
quel… quel terrorista! Voleva
ammazzarci per caso?» sibilò irato: sarebbero
passati eoni prima che riuscisse
a perdonare il professore di averlo fatto quasi uccidere da una
bestiaccia di
fuoco e fango. «Giuro che non scenderò
più a lezione di Difesa prima di essermi
letto tutti i libri!»
«Ma le biblioteche non ti insegnano nulla, non
lo sai?» lo prese in giro
Scorpus.
«Tu no impara da libri, impara da
vita!» sillabò Albus, scimmiottando il
duro accento del prof. «Così io prossima volta ti
fa evocare girino contro
licantropo, ja!»
Affogarono
entrambi nel cuscino
per controllare l’accesso di riso che gli agitava le spalle e
gli inumidiva gli
occhi.
«Hai talento per le imitazioni»
annaspò Scorpius, sopravvissuto
all’attacco di ilarità. Albus impiegò
qualche secondo in più a sistemare la
mascella in sede.
«Voglio farti vedere una cosa»
esordì di colpo Scorpius. Strisciò fuori
dal tunnel di coperte, trafficò per un attimo sulla mensola
accanto al letto e
scivolò di nuovo nell’intrico di lenzuola con una
scatola quadrata tra le dita.
«Che cos’è?»
chiese Albus.
Con gesti da prestigiatore, Albus sciolse il nastro e
scoperchiò la
confezione. Una distesa fragrante di cioccolatini variegati si
scoprì in un
effluvio di aromi speziati.
«Che tipo di cioccolata è?»
investigò: non aveva dimenticato
l’esperienza con l’unicorno.
«Semplice cioccolata babbana» lo
tranquillizzò Scorpius. «Non posso
farla arrivare in Sala Principale. Sai le pernacchie se si scopre che
un Malfoy
è ghiotto di pasticceria comune?»
In effetti,
nonno e papà Malfoy
erano stati convinti assertori della necessità di mantenere
il sangue magico
puro. Chissà che shock
quando avevano
scoperto che al loro successore scintillavano gli occhi davanti ai
negozi
dolciari babbani.
«Me ne spediscono solo una scatola
all’anno» disse infatti Scorpius,
mordendosi le guance per non ridere. Ricordava ancora la scena in cui,
per la
prima volta, aveva chiesto al padre di comprargli un po’ di
cioccolato. Draco era
diventato quasi viola mentre cercava di forzarsi ad entrare in un
negozio
gestito da babbani. Poi si era arreso e, con uno sbuffo, aveva chiesto
alla
moglie di assecondare il pupo. Non poteva dimenticare la contrizione
del padre
mentre attendeva con il figlio fuori dalla pasticceria: aveva scritto
in faccia
a chiare lettere “dove ho sbagliato
nell’educarlo?”. E non poteva dimenticare
nemmeno il baluginio di sorriso che gli aveva rilassato il volto quando
aveva
visto il suo erede assaggiare un cioccolatino tutto festante.
Non era
facile capire suo padre,
e suo padre non riusciva a capire del tutto il figlio. Ma entrambi
compivano
sforzi nella direzione dell’altro, e questo bastava.
«Assaggiane uno» lo incitò,
allungandogli la scatola.
«Ma hai detto che te li spediscono solo una
volta all’anno…» si
sottrasse Albus. «E poi mi sono già lavato i
denti…»
«Non ti marciranno i denti per un cioccolatino.
Coraggio» lo incalzò
l’altro.
Di nuovo
quel tono che discordava
con l’aspetto da damerino di Scorpius.
Albus
cedette all’amico, e si
servì di un dolcetto cosparso di granella di nocciole.
Capì subito perché a
Scorpius piacessero tanto: la mano del pasticcere esperto era
rintracciabile
nella consistenza morbida del cioccolato e nel gusto ricco del ripieno
che si
spandeva sulla lingua.
«Sono squisiti!» gioì,
gustandosi gli ultimi echi della leccornia.
«Sono i migliori» trionfò
Scorpius, assaggiandone uno a sua volta.
«Grazie» mormorò Albus.
Attese che anche l’amico avesse finito di
masticare e stabilì: «Dovrei tornare a letto,
credo.»
Scavarono entrambi per tornare in superficie, e Albus si
districò dalle
lenzuola mentre Scorpius riponeva il cofanetto.
«Buonanotte, Scorpius»
augurò Albus, scendendo nel suo giaciglio.
«A domani» lo salutò
l’altro.
Si infilò sotto le sue coperte, soddisfatto
della prelibatezza di cioccolato
e del dialogo con l’amico.
La cugina
aveva torto: Scorpius
era un bravo ragazzo, come pensava lui.
Si
accoccolò sul materasso e
chiuse gli occhi in attesa del sonno.
Li
riaprì quasi immediatamente:
un tonfo sordo e un pesante fruscio, come di un corpo trascinato, lo
destarono.
Appoggiò i gomiti sul cuscino e protese il capo verso il
soffitto, in attesa.
L’indecifrabile rumore si ripeté e, sforzandosi al
massimo, riuscì a captare
uno spiaccichio sommesso di sottofondo e un raspare di gola, una specie
di
basso ringhio animalesco.
«Scorpius?» lo chiamò,
allarmato. «Scorpius, hai sentito?»
Dal letto superiore non venne suono. Il piccolo Malfoy
aveva meno
problemi di lui a combattere l’insonnia.
Restò ancora sollevato, in allerta, pronto a
scattare al minimo rumore.
Solo dopo un prolungato silenzio i suoi muscoli cominciarono a
rilassarsi, e
gli fu possibile tornare a stendersi sotto le coperte.
Stese un braccio al di fuori delle coltri e
afferrò la bacchetta, che
nascose sotto il cuscino.
Qualunque cosa avesse udito, non lo avrebbe trovato
impreparato. Restò a
lungo sotto le coperte, stringendo spasmodicamente la bacchetta, i
nervi
tremanti per l’agitazione. Dopo un lungo ed estenuante turno
di vigilanza lo
stress e la stanchezza ebbero il sopravvento, ed un sonno profondo lo
avviluppò
nelle sue spire.
Albus avrebbe dormito sonni tranquilli.
Per quella notte, almeno.
E
dal prossimo capitol cominciano i guai xD
Il
Cercapersone e Achill Scholz sono anche loro prodotti made in RedDiablo
^^
Grazie
a tutti<3<3<3
Red
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Capitolo 3 *** Bosco Notturno ***
"
3
Bosco Notturno
Qualcosa
di sottile
e duro gli si conficcò tra le costole, regalandogli un
risveglio davvero poco
piacevole.
Si
stropicciò gli occhi e, quando la
caligine del sonno si fu dissipata, poté vedere Nott
punzecchiarlo con la punta
della bacchetta.
«Svegliati»
borbogliava, continuando a
infilzarlo.
«Sono -ouff!-
sveglio!» Albus si alzò a sedere con uno scatto
quando la punta della verga
arrivò a trafiggergli un polmone.
«Oh,
meno male» Nott apparve non poco
sollevato nel ritirare la bacchetta e strofinarla con dovizia sul
fazzoletto. «Allora
alzati.»
«Non
conosci un modo più delicato per
svegliare la gente?» si risentì Albus, con una
mano premuta sui piccoli lividi
circolari. «Ad esempio, chiamare per nome o scuotere per una
spalla delicatamente…»
«Albus
Severus Potter.»
Quando
Macauley si indignava aveva un modo tutto particolare di riprendere le
persone.
Rallentava incredibilmente la pronuncia del nome:
“Albus” sembrava composto da
quattro “l” e cinque “b”, per
non parlare di “Severus”, le cui
“s” si
allungavano fino a disperdersi nell’infinito e la
rotondità della “r” veniva
esasperata al limite. Per compensare, accelerava sul cognome tanto che
“Potter”
perdeva tutte le sue vocali.
«Sì,
Nott?» rispose fiacco, preparandosi
mentalmente alla tiritera dell’amico.
«Senza
offesa, ma mi ripugna l’idea di
raggiungere un contatto troppo intimo con un addormentato. Mi farebbe
sentire
un maniaco. Che schifo, al solo dirlo mi viene la pelle
d’oca!» e lo dimostrò
scoprendo il braccio orripilato.
«Non
ti sembra che sia un tantino più
sospetto pungolarlo con la bacchetta?» lo contraddisse Albus.
«Meno
equivoco e meno fraintendibile. Senza
contare che chi dorme sbava.»
«Io
non sbavo!»
«Albus
Severus Potter, è mia personale
opinione che tu abbia la salivazione di un Cerbero.»
L’Albus
interiore segnò sul promemoria mentale
di non chiedere mai più a Macauley di farlo alzare dal
letto. E, per sicurezza,
lo sottolineò tre volte.
Meglio
farsi
svegliare dai calcetti del Cercapersone o da Scorpius. Era
l’unico che si
preoccupava di avere un minimo di delicatezza nel destarlo dai suoi
sogni.
E
che si era
dimostrato preoccupato quando aveva raccontato degli strani rumori
uditi negli
ultimi tempi. Nott aveva prognosticato l’ormai prossimo
collasso dei suoi
timpani, e Rose non si era dimostrata particolarmente impressionata. A
volte
pensava che, se Satana in persona fosse apparso alla cugina, lei gli
avrebbe
chiesto di dimostrargli empiricamente la sua presenza, o non si sarebbe
lasciata spaventare.
«Dov’è
Scorpius?» domandò Albus, notando il
materasso vuoto.
«E’
sceso a dare una mano al professor
Barthold. Il rimpiazzo è stato scelto da poco, e la squadra
è ancora scombussolata»
rispose Nott.
Albus scese dal
letto, e si infilò in bagno
per lavarsi.
Ricordava
benissimo gli estenuanti provini
cui li aveva sottoposti Barthold Scholz, alla ricerca del soggetto
mancante
della squadra. Aveva concesso anche ai ragazzi del primo anno di
prendervi
parte, visto il suo carattere permissivo e ottimista.
Una
settimana prima
aveva annunciato la nomina ufficiale del sostituto. Ma non aveva
rivelato la
sua identità.
E
aveva ingaggiato
Scorpius come suo aiutante personale. Forse i capelli biondi del
piccolo Malfoy
gli ricordavano le terre germaniche, e questo suscitava il suo istinto
materno
– Barthold Scholz era un metro e novanta di uomo ben
piazzato, ma ciò non
intaccava l’aria da chioccia del viso paffuto. Ad ogni modo,
il corpulento
professore tallonava costantemente Scorpius per assegnargli i compiti
più
disparati.
Albus si
sfregò con l’asciugamano e cominciò
a vestirsi, meditabondo. Fortunatamente Barthold Scholz era riuscito a
racimolare sette giocatori, o Slytherin
sarebbe stata esclusa dal torneo di Quidditch per quell’anno.
Sperava solo che
Scorpius non fosse troppo impegnato nelle faccende che gli avrebbe
assegnato
l’insegnante, o non si sarebbe goduto per nulla la prima
partita dell’anno, Slytherin
contro Ravenclaw.
Uscì
dal bagno e notò che Macauley era
ancora mezzo svestito: se ne stava seduto sul letto con aria indolente,
in
pantaloni e canottiera, senza alcuna intenzione apparente di proseguire
nella
vestizione.
«Faremo
tardi per la colazione» lo sollecitò
Albus.
Nott si fece
cadere sul letto con un
sospiro.
«Non
si apre la zip della felpa» si lagnò,
sventagliando l’indumento citato.
«Ti
presto uno dei miei maglioni» patteggiò
l’altro.
A Hogwarts, da
qualche anno, i regolamenti
sulle divise si erano fatti più elastici: ogni studente era
tenuto ad indossare
i colori ed il simbolo della propria Casa, ma erano abbastanza liberi
nel
modello dell’abito. Albus, ad esempio, aveva optato per dei
maglioni verdi
rifiniti in argento, con il serpente attorcigliato a sinistra sul petto
e la
camicia che sbucava dal colletto tondeggiante; Nott prediligeva delle
felpe
aperte centralmente da una zip metallizzata che arrivava a foderarlo
fino al
collo, senza lasciare intravedere nulla della maglia sottostante.
L’appartenenza alla Casa era esibita dal marchio sulla
scapola destra, dal
colore muschiato della stoffa e dall’argento della cerniera.
Scorpius sembrava
nato nei suoi vestiti: la camicia, sempre bianchissima e stirata, era
coperta
dal gilet smeraldo di ottima fattura, e sui polsini era stato ricamato
il
simbolo della Casa in argento, come dei preziosi gemelli.
Rose
non aveva
badato molto all’estetica: aveva scelto una normale felpa blu
con il corvo
distintivo stampato su un lato, in modo che il profilo
dell’animale partisse
dal petto, passasse per il braccio e terminasse sulla schiena. Alla
gonna aveva
preferito i pantaloni, molto più comodi per aggirarsi sulle
interminabili
scalinate di Hogwarts.
Nel
complesso, ogni
allievo era libero di personalizzare la propria divisa secondo il
proprio gusto
personale, a patto di rispettare la decenza.
C’era
solo un
particolare che Albus detestava del proprio completo: i pantaloni erano
troppo
lunghi, e aveva dovuto rigirare gli orli parecchie volte per non
inciamparci
mentre camminava.
Nott
sollevò la felpa, la osservò con
perplessità mentre la faceva volteggiare sopra il viso
dopodiché la lasciò
cadere a lato.
«Dobbiamo
proprio andare a questa partita?»
gorgogliò.
«Non
vorrai perderti il torneo di Quidditch!»
esclamò Albus.
«Sarà
un carnaio. Pieno di gente pressata.
Pieno di microbi in proliferazione»
si schifò lui, rigirandosi sul letto in modo da dargli le
spalle.
«Non
fare l’asociale» lo spronò Albus,
avvicinandosi al suo letto. «Odi così tanto stare
in mezzo alle persone?»
«Al
contrario!» punto sul vivo, Nott schizzò
a sedere ad una velocità tale che per poco non
fracassò il naso dell’amico con
una testata. «Non sono un misantropo.»
«Ma…»
«Sono
un grande estimatore del genere umano.
Amo le persone. È la loro carica batterica ad
impensierirmi» sciorinò Macauley.
Le sopracciglia
di Albus si inarcarono per
il dubbio.
«Allora
dimostralo venendo alla partita» lo
sfidò.
Un occhio
castano si aprì per fissarlo con
astio.
«Albus
Severus Potter, non mi piace come tu
stia cercando di fregarmi» lo avvertì.
«Ti ho
solo detto di venire alla partita» si
discolpò Albus. «Sei libero di decidere cosa
fare.»
«Sai
che verrò. E sai di avermi costretto a venire»
s’inalberò Nott.
Albus fece
ciondolare le gambe dal bordo del
letto con innocenza.
Sapeva
benissimo che
Macauley prendeva qualunque obiezione al suo modo di vivere come un
affronto
personale. E che era talmente orgoglioso da fare ogni cosa possibile
pur di
riscattare il proprio onore.
Ma
Nott non avrebbe
mai scoperto che Albus aveva sfruttato la sua peculiarità
per i propri fini.
Il
Potter minore
fischiettò, per ostentare il suo candore.
Astuto
e calcolatore.
Ormai
stava
diventando uno Slytherin a tutti
gli
effetti.
***
«Albus
Severus Potter, io ti odio!»
«E’
la decima volta che me lo dici.»
«Così
non te lo dimenticherai. A proposito,
ti odio!»
«Non
avevi detto di amare le persone?»
«Ho
anche detto di detestare i loro germi!
Per Piton, gli esseri umani sarebbero creature così
adorabili se solo capissero
l’importanza di non diffondere il
contagio!»
Era un fenomeno
bizzarro vedere uno studente
arpionato ad un fazzoletto di bucato, le guance verde mela in tinta con
il
resto del vestiario, in mezzo ad una folla di tifosi agguerriti. Dava
l’impressione di una Puffola Pigmea persa in uno sciame di
goblin delle paludi.
Su
insistenza di
Albus aveva evitato di mettere la mascherina, ma aveva provveduto ad
erigere
altre barriere, a cominciare dalla sciarpa tirata fin sopra il naso, il
fazzoletto premuto su di essa, i guanti a proteggere le mani -solo
Albus sapeva
che sotto quelli di lana se ne nascondeva un altro paio in lattice- e
il
cappello calato sopra gli occhi.
«Nott,
sei sicuro di riuscire a vedere
qualcosa della partita?» indagò Albus, sistemando
meglio il proprio berretto e
la sciarpa con i colori della Casa.
«Sentirò
il commento. Sarà più che
sufficiente» sentenziò Macauley.
«Ne
sei sicuro?»
«Non
ho alcuna intenzione di rischiare di
essere infestato dai batteri altrui» ribatté secco
Nott.
«Signore
e signori!» esplose a tradimento
Valentine, facendo sobbalzare l’intera platea. «Oh,
vi ho spaventato?» ghignò
da dietro il microfono -altra adozione babbana per studenti che non
avevano
voglia di ampliare la voce con la magia-, palesemente compiaciuto della
selva
di volti stizziti girati nella sua direzione.
«Non
me» brontolò Achill, dal palco
riservato ai professori. «Ci vuole ben altro per
sorprendermi!»
«Chiedo
venia» scherzò Valentine, accennando
ad un inchino sarcastico. «Coraggio, studenti, mostrate
l’attaccamento alle
vostre Case con una bella ovazione ai vostri docenti responsabili!
Tutti i Ravenclaw in piedi per Luna
Lovegood!»
Albus vide Rose
scattare come una molla per
la svagata professoressa che li salutava con aria vacua dalla sua
postazione.
La cugina venerava la propria responsabile: la considerava uno spirito
libero,
un’anima colma di fantasia e un cuore aperto alle nuove
conoscenze. Ma,
soprattutto, un’infaticabile conoscitrice della biblioteca:
sapeva esattamente
che letture consigliarle, in ogni occasione.
«E
ora, tutti voi Gryffindor, su le
mani per suo marito, Neville Paciock!»
James si
alzò in piedi con meno slancio
rispetto a Rose. Rispettava il capo della loro Casa nonché
insegnante di
Erbologia, ma la sua stima era lontana anni luce
dall’adorazione della cugina.
«Professore,
uno dei miei compagni di stanza
soffre di fastidiose bolle sul ventre, non è che potrebbe
consigliare…»
sproloquiò il ragazzo, rivolgendosi ad un Neville
disorientato da una
consulenza così improvvisa.
«Valentine
Cross!» tuonò la McGranitt dal trono
rialzato riservato alla preside.
«Hufflepuff,
dimostrate il vostro
affetto a Zacharias Smith!» continuò
imperturbabile il ragazzo, incitando con
le mani una standing ovation.
La curva
giallo-nero dello stadio si
sbracciò in direzione del professore, che
ricambiò con un artritico movimento
di dita. L’insegnante di Pozioni non era conosciuto per la
sua calorosità e
cordialità.
«E
infine, la Venere di Hogwarts, la
signorina Rebecca Eeriemay!»
L’applauso
non deflagrò solo dalle scalinate
di Slytherin: il grazioso inchino
dell’insegnante -che mise ancor più in risalto la
scollatura- aizzò metà dello
stadio meglio di quanto un incantatore avrebbe fatto con un serpente.
«A
proposito, prof» Valentine finse di
coprire il microfono con la propria sciarpa mentre proponeva:
«Questo sabato
sono libero. Non è che vorrebbe…»
«Cross,
vai
avanti!» lo interruppe burbera la McGranitt.
«Era
un invito galante, zia Minnie»
cinguettò la Eeriemay.
Un sopracciglio
argenteo pulsò. La McGranitt
sellò il naso con gli occhiali nel proferire:
«Sai
quanto io aborrisca i diminutivi. E
quanto disapprovi il tuo modo di…» fece un esame
completo alla spregiudicata
nipote prima di esalare tra i denti: «…
scioglierti i capelli.»
«Zia
Minnie, sei sempre così formale!»
gorgheggiò affettuosa la professoressa.
«Niente
diminutivi» ricordò la McGranitt,
prima di barricarsi nel suo silenzioso ed impeccabile contegno.
«Come
dimenticarsi della nostra
infaticabile, incorruttibile preside!» ostentò
Valentine, rimuovendo la sciarpa
dal microfono. «Coraggio, ragazzi, chi rimane seduto
è un troll stercorario!»
La preside non
parve gradire la scurrile
esortazione di Cross, ma apprezzò il trasporto con cui ogni
singolo allievo
caracollò in piedi per agitare le braccia nella sua
direzione.
La
McGranitt era
sicuramente una dei presidi più benvoluti di tutta la storia
di Hogwarts. Il
tempo aveva sbiancato i capelli raccolti nella sempiterna crocchia e
aveva
indebolito i suoi occhi, costretti a sforzarsi dietro le lenti tonde
degli
occhiali. Alcune rughe avevano intaccato la fredda
incorruttibilità dei
lineamenti, e gli abiti creavano ampie pieghe di vuoto nel
drappeggiarle
attorno al corpo dimagrito. Ma tutti nutrivano l’infondata e
commovente
speranza che per la McGranitt il tempo si arrestasse, e potesse
rimanere per
sempre a proteggere la loro beneamata scuola.
«Cross,
procedi. I giocatori staranno
morendo di impazienza» lo esortò la McGranitt,
dissimulando il compiaciuto
imbarazzo con un gesto svolazzante della mano: l’applauso
degli studenti non
accennava a diminuire.
«Okay,
ragazzi, ora basta. BASTA!» rombò nel
microfono quando l’ovazione non si arrestò
nonostante il primo richiamo. «Vi
ringrazio» sussurrò lezioso. Il suo ruggito aveva
provocato un accenno di
sincope ad un terzo dello stadio, e ora tutti stavano riprendendo posto
tenendo
una mano sul cuore in fibrillazione.
«Si
dia inizio alle danze!» annunciò, con un
movimento teatrale del braccio. «Che entrino le
squadre!»
«Macauley,
vedi Scorpius?» si preoccupò
Albus, allungando il collo in tutte le direzioni.
«Sarà
ancora a sfaccendare per lo
Scholz-junior» bubbolò Nott da dietro la sciarpa.
«E no, Albus» lo anticipò
lui, puntandogli un indice ammonitore davanti al viso. «Non
mi toglierò il
berretto per aiutarti a cercare.»
«Ma
sta per perdersi la partita!»
controbatté Albus.
«Se il
prof lo sta torchiando, la perderà
comunque, indipendentemente da quanti centimetri ti si
allungherà il collo o da
quanti batteri inalerò» espose Nott.
«Ma
non avevi detto di amare le persone?»
insistette Albus.
«Troppa
percentuale patogena in giro per
dare prova della mia filantropia» si giustificò
Macauley.
Un lungo,
scoraggiato sospiro venne emesso
sia dall’Albus interiore che da quello esteriore:
l’ipocondria del suo compagno
di stanza era da record. Se non lo avesse conosciuto di persona,
avrebbe
pensato che si trattasse di una barzelletta.
Osservò
quasi con rassegnazione la sfilata
delle squadre, finché un particolare non attirò
la sua attenzione. La bocca e
gli occhi estesero il loro diametro fino all’inverosimile, il
busto si sporse
dalla ringhiera degli spalti tanto che Nott fu costretto ad afferrarlo
per il
colletto prima che si sfracellasse sul campo.
«Ma
sei impazzito?» lo sgridò, sventagliando
nell’aria la mano per ripulirla. «Volevi
ammazzarti?»
«Ho
visto Scorpius!» tartagliò dall’emozione
Albus, agitandosi come se la sua sedia fosse fatta di tizzoni ardenti.
«Ed
è un’esperienza nuova, suppongo, visto
che siamo compagni di stanza»
replicò
sprezzante Nott. Per il disappunto, si imbacuccò come una
testuggine nella sua
fortezza di lana. «Sinceramente, Albus, a volte penso che
dovresti andare a
farti visita…»
«E’
sul campo!» incapace di contenersi,
Albus sollevò il cappello del compagno e gli
orientò la testa in modo che
vedesse i giocatori sciamare nello stadio. «Scorpius
è stato preso nella squadra!»
Ad una prima
occhiata aveva creduto di
essersi ingannato. Anche se da quella distanza non poteva vedere gli
occhi
grigi dell’amico, aveva riconosciuto il taglio particolare
della chioma bionda,
e il viso che sembrava brillare di trionfo.
Le divise del
Quidditch non erano cambiate:
sopra ad un comodo completo scuro andava indossata la casacca tipica
della Casa
di appartenenza, il tutto perfezionato dalle protezioni su ginocchia,
gomiti e
avambracci. Era stata introdotta solo una modifica nel campo della
sicurezza:
una specie di colletto nero bordato di verde e argento per gli Slytherin e di azzurro per i Ravenclaw, per difendere le vertebre da
eventuali urti.
Scorpius
portava la
sua divisa come un re avrebbe sfoggiato la corona: era chiaramente
raggiante
della qualifica ottenuta, e non riusciva a contenere un sorriso
soddisfatto
nonostante gli sforzi di comprimerlo serrando le labbra.
Il suo
Cercapersone reclamò la sua
attenzione assestandogli dei calcetti dalla tasca in cui
l’aveva sprofondato.
Lo pescò dalle profondità del pertugio di stoffa
e lo aprì.
Un’unica
parola
apparve sullo schermo: “Cretino”.
«Non
so chi sia, ma concordo» rimbrottò
Nott, offeso per la distruzione delle sue palizzate lanose.
Albus sapeva
più che bene chi fosse il
mittente, per cui fu fulmineo nel rispondere: “Lasciami in
pace, James”.
Quasi non fece
in tempo ad inviarlo che il
Cercapersone gli conficcò una zampetta di metallo nel polso.
Albus imprecò
mentalmente, segnando: “comprare delle guarnizioni in gomma
per le gambe del
Cercapersone” tra le cose da fare.
“Dovevi
entrare tu in squadra”.
“Tu
sei entrato al secondo anno”.
Questa volta fu
rapido ad evitare l’attacco
dell’agendina: la aprì nel momento stesso in cui
arrivò il messaggio.
“Io
non ero in classe con un Malfoy”.
Albus
roteò gli occhi al cielo, ributtando
il Cercapersone nel pozzo nero da cui era venuto.
«Ma
cosa vedo! Un giovane virgulto si è
aggiunto alla squadra!» commentò Valentine.
«Ja,
giovane virka… virku… giovane uomo»
confermò Barthold, la cui pronuncia
presentava lacune assai più profonde di quelle del fratello
maggiore. Il tedesco
si arrampicò al suo posto, di fianco alla Eeriemay, con il
viso tondeggiante
aperto nel solito giubilo immotivato.
«E a
cosa dobbiamo questa sfiziosa novità?»
chiese Valentine, sdraiandosi sul parapetto della cabina di regia come
una
sirena.
«Cross,
composto»
lo riprese la McGranitt, subito ubbidita dal giovane.
«Mancava
uno componente. E Scar… Scorpias…»
«Scorpius»
lo soccorse Valentine.
«Lui
è nato per scopa!» gioì Barthold. Una
sequela di battutine oscene sul doppio senso di quella frase
partì dalle file
dell’ultimo anno, ma lo Scholz minore vi passò
sopra con baldanza: «Lui era
scelta giusta!»
«Complimenti,
Scorpius, il professore
stravede per te» si complimentò Valentine,
fingendo di togliersi un inesistente
cappello per omaggiarlo. «Guardalo, è felice come
un tacchino all’ingrasso!»
«Valentine
Cross!» lo ripresero all’unisono la
McGranitt e Achill Scholz.
«Tacchino
è buono» festeggiò Barthold, senza
capire la ragione dello sdegno dei due colleghi.
«Barthold,
la tua spontaneità ti rende
adorabile» rise la Eeriemay.
«Noi
deve fare qualcosa per tuo pessimo
inglese» ringhiò Achill.
«Due
soli cavalieri e ben cinque dame…»
contò Valentine, piegando le dita davanti agli occhi per
formare un cannocchiale.
«Godetevi questi momenti irripetibili, ragazzi! Ma
procediamo, abbiamo perso
abbastanza tempo» prevenne l’intimidazione della
preside, ben visibile dalla
tensione del collo e dall’irrigidimento degli occhi.
«In che ruolo giocherà la
nostra matricola?»
«Lui
Cercatore!» trionfò Barthold.
Albus morse le
labbra, mentre una
processione di mormorii stupiti lievitava nella platea, specie dalla
parte Gryffindor. Suo fratello lo
avrebbe
rimproverato a morte per “essersi fatto battere a quel modo
da un Malfoy”.
«Cercatore?»
gli fece eco Valentine. «Una
cosa simile non accadeva dai tempi di Harry Potter.»
La folla
rumoreggiò ulteriormente a quel
paragone: com’era possibile mettere la progenie di Malfoy
sullo stesso piano
dell’eroe che aveva sconfitto Lord Voldemort?
«Si
preannuncia una partita molto
interessante» li placò Valentine, esibendosi in un
sorriso luminoso. «Squadre
in posizione!»
Una giocatrice Ravenclaw dal volto esotico si
avvicinò a Scorpius per stringergli
la mano ed augurargli buona fortuna.
«E’
Daiyu Lee. Ha un anno più di noi»
spiegò
Rose all’interrogativo inespresso sul volto del cugino. Aveva
scelto uno dei
posti di confine tra le loro due Case, in modo da potersi sedere vicino
a lui. «Tuo
padre ti ha mai parlato di Cho Chang? E’ sua
figlia.»
Sì,
suo padre gli aveva parlato della sua
prima cotta. Lo aveva fatto con molta cautela davanti ad una Ginny
contrariata
e allo stesso tempo tronfia: non le piaceva che si ricordasse la
ragazza che
aveva avuto il primo bacio di suo marito, ma la fede
all’anulare era la prova
della sua vittoria finale. Era riuscita a sposare il suo innamorato,
senza
alcuna intromissione esterna.
Il sangue
orientale aveva dettato la forma
allungata degli occhi e quella arrotondata del viso, nonché
la tinta corvina
della lunga chioma raccolta in due cicciuti chignon ai lati della
testa. Le
origini inglesi del padre avevano stemperato il castano scuro delle
iridi con
una spruzzata di verde muschio, anche se dagli spalti quel particolare
era
pressoché invisibile.
«Sembra
simpatica» approvò Albus di fronte
all’assenza di ostilità della ragazza
nell’incoraggiare Scorpius.
«Non
è solo simpatica» accrebbe Rose.
«E’
veloce come un fulmine. Il vostro portiere non riuscirà
nemmeno a vedere la
Pluffa.»
«Scorpius
è il nostro Cercatore» reagì
Albus. «Se prende il Boccino, la partita è
nostra.»
«Se»
rimarcò la cugina. «Anche noi abbiamo un
Cercatore.»
«Tutti
abbiamo un Cercatore, o le squadre
non sarebbero scese in campo» reiterò Nott.
«E, per la cronaca, sta cominciando
la partita.»
L’attenzione
dei tre si focalizzò nuovamente
sul campo, dove i giocatori stavano salendo sulle proprie scope.
«Barthold»
lo stuzzicò la Eeriemay,
attorcigliando le dita attorno ad una ciocca carminio. «Forse
mi sbaglio, ma…
il professore di Volo non dovrebbe essere in campo a lanciare la
Pluffa?»
«Pluffa,
fräulein
Eeriemay?» ripeté Scholz.
«Quella
cosa tondeggiante a forma di palla
che hai in mano, Barthold» chiarì lei.
Il professore
osservò la sfera tra le sue
mani con sorpresa, come se il pallone gli si fosse materializzato tra
le dita
all’improvviso.
«Oh,
quanto io sbadato! Mille gra… danke,
fräulein
Eeriemay» ringraziò lui,
scendendo dagli spalti per mettere in gioco la Pluffa.
Lo scivolone di
Barthold passò praticamente
inosservato: nel momento in cui la palla si librò dalle mani
del prof, un
tornado azzurro si precipitò su di lei, la
afferrò, la fece roteare e la
scagliò con precisione in uno degli anelli di Slytherin.
La curva Ravenclaw
si scorticò
l’ugola per inneggiare lodi alla saetta azzurra che si godeva
il suo trionfo
scagliando un pugno al cielo.
«Daiyu
è una forza!» esultò Rose,
applaudendo fino a spellarsi le mani. Albus annuì con aria
assente.
Il
Portiere si
riprese velocemente dalla sorpresa iniziale e non permise
più ai Cacciatori che
infuriavano sotto di lui di avvicinarsi troppo agli anelli; i Battitori
sfrecciavano da una parte all’altra del campo, proteggendo i
compagni dai
pericolosi Bolidi.
Albus
percepì
tutto ciò come una marea indefinita ai margini della sua
coscienza: la lotta
tra i Cacciatori per il possesso della Pluffa, le acrobazie dei
Portieri per
difendere gli anelli, i colpi sferrati dai Battitori per deviare i
Bolidi.
Tutto quanto.
Esultava
per
inerzia insieme agli altri quando Slytherin
segnava,
ma i
suoi occhi erano focalizzati su un’altra sfida: Scorpius e il
Cercatore dei Ravenclaw
che si
incrociavano e si allontanavano in una specie di coreografia non
scritta, alla
frenetica ricerca del Boccino d’oro.
Tendevano
la mano
quando pensavano di averlo raggiunto, ed ecco che il Boccino scartava
all’improvviso lasciandogli solo il ricordo di un battito
d’ali tra le dita;
frenavano bruscamente per non schiantarsi contro le gradinate e i pali
degli
anelli. Scorpius
diede prova del suo
talento nel curvare all’improvviso, inclinandosi con tutto il
busto per
favorire la manovra fino a trovarsi pressoché orizzontale.
Il Cercatore di Ravenclaw
era quasi caduto
dalla scopa per la sorpresa quando lo aveva fatto per la prima volta:
un
secondo prima vedeva la sua testa bionda davanti a sé, e
quello dopo era
sparita come se il Mantello dell’Invisibilità gli
fosse piombato addosso.
La sciarpa di
Albus segnò l’aria di verde e
argento quando il ragazzo la agitò incitando il compagno:
«Forza
Scorpius!»
Il giovane
giocatore gli regalò un
sorrisetto soddisfatto come ringraziamento quando volò
rasente alle gradinate
per inseguire il Boccino.
«Sembri
una ragazzina esagitata» sprizzò
acido Nott.
«Dobbiamo
incoraggiarlo, è la sua prima
partita!» cercò di scuoterlo Albus.
«No,
passo» si arrese Macauley, mostrando i
palmi. «Basti tu ad affossare la dignità di Slytherin.»
Albus non perse
tempo ad offendersi per l’acredine
dell’amico: la lotta dei due Cercatori lo calamitò
di nuovo, annebbiando tutto
il resto.
Scorpius
faceva del
suo meglio per rivaleggiare degnamente con un avversario più
esperto di lui,
arrivando a compiere delle figure in volo che mozzarono il fiato a
tutta la
sezione Slytherin. La Eeriemay
stessa
si dimenticò di respirare quando Scorpius si
lanciò in picchiata per afferrare
il Boccino, e riprese quota ad una manciata di centimetri dal suolo.
«Io
avevo detto che lui nato con scopa!»
gongolò Barthold.
«Spero
che non muoia con scopa»
replicò la
Eeriemay, seguendo i funambolismi di Scorpius con il cardiopalma.
Macauley si
ostinò a rimanere rintanato nel
suo guscio disinfettato perfino quando le tribune tremarono per il
boato dei Ravenclaw in risposta ad
un numero
particolarmente complicato di Daiyu, che la vide dribblare due
giocatori
avversari e mettere la Pluffa in rete con una semi capriola.
Rose
esultò
interiormente nel leggere lo sconforto tra le file degli Hufflepuff
e dei Gryffindor:
la ragazza si muoveva come in simbiosi con il vento stesso, tanta era
la
naturalezza con cui volava sulla scopa, e la sua spregiudicatezza
nell’ignorare
le leggi di gravità preoccupava quelli che sarebbero stati i
successivi
sfidanti.
«Te
l’avevo detto che Daiyu Lee è
fortissima!»
ricordò superba.
«Eh?»
boccheggiò Albus, deconcentrato.
Rose
roteò gli occhi al cielo: il cugino era
praticamente ipnotizzato dall’inseguimento dei due Cercatori.
Si decise anche
lei a seguire il duello, lasciando perdere il resto della partita.
Scorpius
non se la
cavava male: non aveva ancora la scioltezza dei compagni più
anziani, ma stava
giocando in maniera eccellente per un novellino. Pochi sarebbero stati
sufficientemente coraggiosi o scapestrati da rischiare il sacrificio
del
proprio collo per il bene della squadra: le manovre di Scorpius si
facevano più
azzardate man mano che il tempo scorreva e l’avversario si
avvicinava al
Boccino.
Nott non vide
nulla di quanto accadde,
infagottato com’era nella sua trincea lanosa. Al contrario,
Albus soffocò un
grido e si schiaffò le mani sulla faccia, borbottando sui
palmi qualche
improperio. Rose si entusiasmò assieme al resto della sua
Casa, pur provando
una punta di amarezza per la delusione del cugino.
I
due Cercatori si
erano portati in parallelo, il Boccino che fendeva l’aria
poco davanti a loro.
Si erano entrambi allungati al massimo per raggiungerlo, ma Scorpius
era stato
svantaggiato dai centimetri in meno di altezza rispetto al contendente
più
anziano e dalla sfortuna che aveva fatto vacillare il suo equilibrio
per una
frazione di secondo. Il Cercatore Ravenclaw
aveva approfittato dell’occasione, e, slanciandosi in avanti,
aveva finalmente
afferrato il Boccino e lo aveva portato in trionfo con il pugno alzato.
«Vince
Ravenclaw!»
annunciò Valentine, inneggiando l’applauso. Che
non si fece attendere: l’intera
fila azzurra e nera festeggiò rumorosamente la propria
squadra mentre questa
atterrava gioiosa sull’erba.
Gli Slytherin
si unirono all’atmosfera frizzante per inerzia, ma nessuno
riuscì a scacciare
dal volto l’ombra della demoralizzazione. Anche se Scorpius
era solo al primo
anno, tutti loro avevano sperato in una sua prodigiosa vittoria. Aveva
giocato
bene, ma l’amarezza finale guastava la sua esibizione
sportiva.
Le squadre si
incontrarono a centro campo
per scambiarsi i convenevoli e i complimenti del dopo partita: Daiyu
Lee fu
particolarmente calorosa nel rinfrancare Scorpius, che parve
impercettibilmente
sollevato dopo il suo discorso.
«Io
vado giù» riferì Albus, cominciando a
fendere la calca.
«Giù
dove?» volle sapere Rose.
«Agli
spogliatoi. Devo parlare con Scorpius»
urlò lui sopra la folla agitata.
«In
quel postribolo di malattie veneree?» Nott
contorse la faccia per la nausea.
«Proprio
lì» confermò Albus, un secondo prima
di essere inghiottito dalla ressa.
Sarebbe andato
da solo: Macauley non lo
avrebbe accompagnato per la sua mania igienista, e Rose, in quanto
femmina, era
interdetta all’entrare nello spogliatoio maschile.
Non
importava,
avrebbe chiesto a qualche studente più anziano la strada.
Il
morale di
Scorpius era ai minimi storici: lui più di tutti aveva
confidato nella
vittoria. Aveva bisogno di qualcuno che gli risollevasse lo spirito.
Non
sarebbero
bastate di certo le leggende metropolitane di una strega di zucchero,
quella
volta.
***
«Albus?»
Scorpius parve
stupito di vedere l’amico,
fumante nei suoi vestiti troppo pesanti, ruzzolare negli spogliatoi
alla sua
ricerca.
«Scorpius!»
ansò, barcollando
pericolosamente sulle gambe instabili.
«Sarà
meglio che ti togli il cappotto» si
premurò Scorpius. «Stai cuocendo, lì
dentro.»
Albus
annuì, sedendosi in una delle panchine
ed alleggerendosi di sciarpa e cappello.
«Sei
stato bravissimo!» si complimentò,
prima ancora di finire di aprire il giubbotto.
L’altro
gli indirizzò uno sguardo perplesso.
«Abbiamo
perso» rilevò.
«Non
importa!» s’infervorò Albus. Il pugno
destro si abbatté nel palmo sinistro mentre lo mitragliava:
«Non pensavo fossi
così bravo a volare! Hai lasciato lo stadio di stucco! Hai
fatto delle virate
che… scommetto che nemmeno Victor Krum era così
bravo!»
Le labbra di
Scorpius retrocedettero man
mano che i complimenti aumentavano, fino a sparire dentro la bocca per
l’imbarazzo. Gli occhi non sostennero la vista
dell’esultanza dell’amico e deragliarono
verso il muro, più anonimo e tranquillo.
«Non
ho fatto niente di speciale» minimizzò.
«Niente?»
lo contraddisse con fervore Albus.
«Scorpius, la metà dei presenti alla partita si
sarebbe ammazzata se avesse
provato ad imitarti in una sola
delle
tue manovre! E hai avuto solo una settimana per prepararti!»
«Erano
nove giorni.»
«Cosa
cambia? Sei un portento, credimi!»
Daniel,
l’unico altro maschio della squadra Slytherin,
stava cercando Scorpius per
rincuorarlo dopo la sconfitta, ma si arrestò in un angolo
notando una scena che
sicuramente non si sarebbe svolta un ventennio prima: Potter, sporto
fino
all’ernia dalla panchina su cui era seduto, che sviolinava
lodi a Malfoy, in
piedi ed in imbarazzo di fronte a lui.
Si
strinse nelle
spalle, ritirandosi: Potter sembrava avere le idee molto più
chiare di lui su
come si rassicurasse un Cercatore in erba.
«La
picchiata!» proseguì nella sua processione
di glorificazioni. «Per un attimo ho temuto che ti saresti
spiaccicato al
suolo. Invece no! Hai fatto una ripresa sensazionale!»
Scorpius non
sapeva bene come ribattere ad
una simile manifestazione di ammirazione incondizionata, per cui rimase
in
silenzio, a sorbire le magnificazioni di Albus con vergognoso
compiacimento,
intimamente felice della stima che sgorgava dall’amico.
«Hai
giocato benissimo!» concluse Albus,
riprendendo fiato dopo la lunghissima apologia.
La mano ancora
stretta dal guanto protettivo
scompigliò la chioma bionda, e Scorpius bisbigliò:
«Grazie,
Albus.»
Il ragazzo
annuì, lieto di vedere un
colorito più sano sul volto dell’amico, prima
sbiancato dal rammarico.
Perso
com’era nel
profondersi in un dettagliato encomio della partita, non aveva
considerato che
Scorpius era ancora vestito con la tunica da giocatore. Non si era
tolto
nemmeno le protezioni, e la scopa era ancora stretta tra le dita.
«Scusami!
Ti ho bloccato qui e non ti ho
fatto cambiare» Albus schizzò in piedi e
cominciò a radunare veloce le sue
cose.
«Non
preoccuparti» lo tranquillizzò
Scorpius. Strattonò lievemente l’ampio colletto
della divisa verde e argento, e
non gradì il profluvio olfattivo caratteristico del dopo
partita. «Effettivamente,
avrei bisogno di una rinfrescata» valutò,
richiudendo tutto quanto. «Devo
prendere alcune cose dall’armadietto. Vuoi
accompagnarmi?»
Albus
accettò immediatamente la proposta, e
seguì l’amico fino al contenitore metallico.
Il primo a
frenare fu Scorpius, e Albus lo
imitò qualche secondo dopo.
Qualcuno aveva
sfregiato l’armadietto di Malfoy.
I graffi, fatti
con uno strumento metallico
simile ad una chiave, andavano a comporre la scritta:
“rifiuto”. L’insulto si
propagava lungo tutta la diagonale dello sportello, dallo spigolo
sinistro in
basso a quello destro in alto. E non era il solo: imbrattature a
pennarello,
incisioni più modeste, lettere di giornale sminuzzate e
riassemblate coprivano
tutto l’armadietto con una colata di ignominia.
Albus
restò
inorridito di fronte a tanta cattiveria. La maggior parte delle
cicatrici
metalliche faceva riferimento alla reputazione della famiglia Malfoy:
“traditori”, “vigliacchi” e
simili erano i più gettonati. I biglietti smembrati
oltraggiavano Scorpius con mille improperi diversi: “tale
padre tale figlio”,
“quando tradirai anche tu Hogwarts?”,
“sei marcio dentro” erano solo alcuni
esempi della meschinità che sanguinava da quelle lettere
scoordinate.
Le
scritte a pennarello,
invece, criticavano la partita. Qualcuno doveva essere sgattaiolato
dentro
approfittando della distrazione offerta da Albus. “Il
capitano di Ravenclaw avrebbe
dovuto buttarti giù
dalla scopa”, “gli Slytherin
non
vincono se non barano”, “con quanti galeoni ti sei
comprato il posto in
squadra?”. E decine di altre insolenze.
Quel
carosello di
malignità gli fece girare la testa come un profumo troppo
concentrato: i sensi
sembrarono svenire per un istante, offuscando ogni percezione del
mondo, e lui
stesso traballò sulle gambe. Sbatté gli occhi
più volte per riprendersi,
convinto di trovarsi in un brutto sogno: era impossibile che i ragazzi
di
Hogwarts potessero essere così crudeli con un loro compagno.
La realtà lo
schiaffeggiò quando, al termine dei suoi tentativi, le
scritte non sparirono,
anzi, sembrarono brillare di nuova linfa vitale nel pugnalargli gli
occhi.
«Scorpius…»
tartagliò, annichilito. Se lui
era rimasto sconvolto, Scorpius doveva essere distrutto. Essere
bersaglio di
tanta cattiveria…
Il
ragazzo non
rispose: la frangia aveva coperto gli occhi ed ogni emozione che
turbasse le
iridi di quarzo. Non sembrò nemmeno sentire il proprio nome:
restò pietrificato
nella sua posizione, muto e cereo come un morto.
«Scorpius?»
tentò di nuovo Albus, con garbo.
Non
fu sufficiente
ad evitare la reazione dell’amico.
«Ti
ho sentito!»
sbottò Scorpius. Fu quasi feroce nel rispondere, tanto che
Albus arretrò di un
passo.
L’atto
di bullismo
lo aveva stupefatto, ma lo scoppio dell’amico lo sconvolse:
il tono usato da
Scorpius era troppo asciutto e brutale per corrispondere al modello di
ragazzo
tranquillo e posato di sempre. Lo avrebbe shockato di meno sentire il
pavimento
prorompere ad una simile maniera.
Scorpius
scostò la
frangia con un gesto secco, liberando le iridi dardeggianti. Nonostante
il colore
freddo, gli occhi del ragazzo parevano di fiamma tanta era la rabbia
che
deflagrava dentro di essi.
Albus
restò
ammutolito dalla furia sorda che ribolliva nelle vene
dell’amico: era quasi
possibile udire il ringhio del sangue schiumante di collera.
Scorpius
tremò da
capo a piedi, e diede l’impressione di voler sradicare
l’armadietto e gettarlo
dalla finestra. Invece emise un sospiro simile ad un ringhio e gli
diede
bruscamente le spalle, divorando il corridoio a grandi passi.
«Scorpius!»
Albus si affrettò dietro di lui.
«Mi… mi dispiace…»
«Perché,
hai contribuito a quell’opera
d’arte?»
«No,
ma…»
«Allora
non scusarti.»
Tecnicamente le
parole non erano scortesi,
ma l’inflessione con cui esplosero sulle labbra di Scorpius
gli scorticò il cuore.
Ancor più del fatto che fossero le spalle
dell’amico a rivolgersi a lui: da
quando si conoscevano, non era mai successo che Scorpius si rifiutasse
di
guardarlo in faccia.
«Mi
dispiace… perché so che stai male»
provò
di nuovo.
«Lo
sai?»
Gli eventi si
succedettero così rapidamente
che Albus li distinse solo al loro termine: si ritrovò con
la schiena addossata
al muro, il cappello ancora in mano e la sciarpa sbilenca sul petto, ed
un
pugno di Scorpius ad un soffio dal suo orecchio. Il viso
dell’amico era
arroventato dall’ira, ed Albus rabbrividì di paura
per la prima volta: temeva
che quel rogo di furia riducesse in cenere il ragazzo che conosceva.
«Cosa
sai, esattamente?» sibilò Scorpius.
«Immagino
che… tu stia soffrendo» Albus
calibrò le parole con la cura di un esperto nel disinnescare
una mina. «Se
dovesse succedere a me…»
La
cautela non fu
sufficiente: evidentemente aveva tagliato il filo sbagliato.
«Oh, a
te
non succederebbe!» eruppe l’altro, scostandosi da
lui con una spinta. «Tu sei
il discendente del grande astro del firmamento magico! Ti basta
esistere per
essere elogiato!»
«Scorpius…»
«Ti
è sembrato strano vedere una cosa del
genere? A me no. Anzi, mi chiedevo quando avrebbero
ricominciato» seguitò
spietato Scorpius. «Ma forse per te, abituato ad essere
viziato da tutti,
sembra impossibile.»
Albus
torturò il cappello che teneva tra le
dita, e morse le labbra fino a sentire il sapore ferrigno del sangue.
Non
doveva piangere. Di sicuro, le sue lacrime avrebbero fatto arrabbiare
Scorpius
ancora di più.
«Forse
dovresti unirti agli altri. Prima che
certe voci vadano ad infangare il tuo stimato nome.»
La stoccata
finale lo colpì direttamente ai
condotti lacrimali: una goccia di tristezza rotolò sulla
guancia prima che la
falla venisse risanata. Albus la estinse sul berretto, che
fregò con forza sul
volto.
«Perché
dovrei? Tu sei mio amico, molto più
degli altri»
arrancò, il peso delle
lacrime non sfogate che si accumulava sulle sue corde vocali,
impastando le
parole in una fanghiglia piagnucolosa.
Un
angolo della
bocca di Scorpius scattò derisorio, come se il fatto non
avesse alcuna
importanza.
E
quello lo ferì più
di tutto.
Più
delle parole dure
dell’amico, più della sua irruenza incendiaria,
più del sentirsi trattato come
un pigro privilegiato.
Poteva
sopportare
tutto. Ma non che Scorpius classificasse la loro amicizia come qualcosa
di
inutile.
«E
se…» la voce scricchiolò in un estremo
contenimento delle lacrime: ormai era al limite. «Se tu mi
conoscessi un
minimo, sapresti che non mi sono mai vantato del mio cognome!»
Il
labbro inferiore
quasi ballò, e Albus fu costretto a morderlo per mantenerlo
fermo.
«Ma
non credo che ti importi…» biascicò,
sollevando la sciarpa perché facesse da scudo alle lacrime
che avevano travalicato
gli argini.
Schivò
l’amico e
uscì di corsa dagli spogliatoi.
Davvero,
poteva
sopportare ogni cosa.
Che
Scorpius fosse
infastidito, arrabbiato, furioso; che non fosse quell’idolo
di perfezione che
aveva immaginato.
Ma
non
l’indifferenza. Non che tutti gli avvenimenti degli ultimi
tempi che lui aveva
serbato come tesori fossero ridotti ad un pugno di sabbia.
La
sciarpa raccolse
le sue lacrime e s’impregnò della sua amarezza
mentre il piccolo correva fuori
dalla stanza, fuori da Hogwarts, fuori da tutto.
***
Il cuore perse
tutte le tonnellate di
preoccupazione con cui si era appesantito e librò felice
nell’aria non appena
distinse la sagoma del cugino.
L’ipocondriaco
era venuto a cercarla circa
un’ora dopo la fine della partita, affannato per la cattiva
notizia: Albus era
sparito.
Si
supponeva che
avesse avuto un diverbio con Scorpius, e da allora era introvabile.
Interrogato, Malfoy aveva confermato quella tesi: Albus era scappato
dopo la
loro discussione.
Rose aveva
giurato intimamente che,
qualunque cosa fosse accaduta a suo cugino, l’avrebbe
restituita a Scorpius
moltiplicata per mille.
Con
quello spirito
guerriero aveva cominciato a cercare Albus in tutta la scuola, dalle
torri fino
ai sotterranei. Aveva fatto ricorso anche alla professoressa Eeriemay,
che a
sua volta aveva chiamato Achil Scholz che si era trascinato dietro il
fratello,
e tutti e tre si erano divisi alla ricerca dell’alunno,
lasciando Rose da sola.
Rimaneva
un solo
luogo in cui non aveva controllato: la capanna di Hagrid.
Si
era precipitata
fuori da Hogwarts nel terrore che il cugino fosse sorpreso dalla notte
mentre
girovagava nel bosco limitrofo alla scuola: nonostante le cure del
guardiacaccia, quella foresta non era mai del tutto tranquilla e, da
quel che
aveva capito dalle ipotesi sconnesse di Nott e dai monosillabi di
Scorpius,
Albus era scosso emotivamente. Non voleva che un Platano Picchiatore lo
rivoltasse come un calzino, o che una bestia bavosa se lo
sgranocchiasse mentre
era incapace di intendere e di volere.
Mentre
correva, si ricordò del pessimo senso
dell’orientamento del cugino, e di come
le chiedesse sempre indicazioni stradali.
Deviò
quindi dal
sentiero principale e cominciò a vagabondare nella boscaglia
chiamando a gran
voce il consanguineo.
Si
era quasi
consumata le ginocchia per la corsa quando finalmente lo aveva
intravisto,
accucciato sotto un albero.
«Eccoti
qui» buttò fuori in un fiato
debilitato, crollando di fianco a lui.
Il cugino rimase
immobile, rannicchiato
sulle proprie gambe, la fronte contro le ginocchia e le braccia avvolte
attorno
alle tibie.
Rose
gli passò
delicata una mano sui capelli; Albus sussultò appena, come
un cucciolo che si
aspetta una sferzata anziché una carezza.
«Volevi
andare da Hagrid, vero?» mormorò,
affettuosa.
La
testa di Albus sprofondò nelle ginocchia per assentire.
«Ma ti
sei perso lungo la strada.»
Altro cenno
positivo.
Il palmo della
cugina scese fino ad
appoggiarsi sulla sua spalla, su cui si strofinò come per
scaldarlo.
«Vuoi
dirmi cosa è successo?»
La zazzera
corvina venne scossa in segno di
diniego.
«Ho
saputo che hai discusso con Scorpius»
insistette dolcemente Rose.
I muscoli di
Albus si contrassero come se un
dardo lo avesse colpito. Il viso sprofondò ancora di
più tra le gambe e le
braccia serrarono la stretta per soffocare gli uggiolii spezzettati nel
pianto.
«Scusa!»
esclamò Rose, abbracciando il
cugino di slancio e cullandolo come un bambino. «Scusa, non
volevo…»
Un altro cenno
di diniego, poi Albus sciolse
le braccia per circondare il busto della ragazza e sfogarsi sulla sua
spalla.
Rose
aspettò che le
lacrime diventassero singhiozzi e che questi ultimi si indebolissero
fino a
interrompersi del tutto; quando le spalle smisero di sussultare anche
la presa
sulla sua schiena si fece meno angosciata, finché quello che
era partito come
appiglio disperato non divenne un abbraccio fraterno tra cugini.
«Scusa…»
bofonchiò Albus. Si allontanò per
assicurarsi di non aver ridotto in condizioni pietose la spalla della
cugina su
cui aveva sbrodolato la sua infelicità. Rose
approfittò del suo movimento per
prendergli il volto tra le mani e osservarlo.
«Hai
pianto fino ad ora?» La domanda era del
tutto superflua: gli occhi di Albus erano diventati una mistura rossa e
acquosa: non sembravano quasi solidi tanto le lacrime li avevano
imbevuti.
«No…
non sempre» sdrammatizzò Albus. «Ogni
tanto mi calmavo…»
I palmi di Rose
lo guidarono ad accoccolarsi
nuovamente contro di lei, e presero ad accarezzargli i capelli e la
schiena
come avrebbero fatto con un gattino abbandonato.
Aveva
voglia di
dirgli che lei lo aveva avvertito, che quel tizio non le era mai
piaciuto. Tuttavia,
non era così infame: non avrebbe mai infierito sul cugino. E
poi, il dolore che
stava provando avrebbe avuto più effetto di qualunque
ramanzina.
«Torniamo
a scuola» propose quando lo sentì
rilassarsi sotto le sue cure. «Sono tutti in ansia per te. E
tra poco farà
buio.»
Albus
lasciò che la cugina lo aiutasse a
rialzarsi in piedi, opponendo la flaccida resistenza di un corpo
inerte: era
troppo esausto per compiere sforzi sulle sue gambe.
«Andiamo»
lo sollecitò lei. Si circondò le
spalle con il suo braccio e gli cinse la vita con il proprio per
sostenerlo nel
cammino.
«Rose,
non sono paralitico.»
«Non
importa. Lasciati coccolare, ogni tanto»
lo dissuase la cugina.
Albus si
accucciò nella stretta amorevole
della consanguinea e si impose di non pensare a cose che avrebbero
potuto
renderlo triste. Ad esempio, cosa avrebbe potuto dire a Scorpius una
volta
tornato nel dormitorio.
Doveva
scusarsi? No,
in fondo si era solo difeso.
E
Scorpius? Sperava
che avesse la decenza di fare ammenda in qualche modo. Altrimenti non
avrebbe
saputo proprio come fare per esigere le sue scuse. E, senza di esse,
non
sarebbe riuscito ad avere con Scorpius lo stesso rapporto di prima.
Scrollò
la testa,
sfinito.
Ci
avrebbe pensato
con calma una volta che si fosse trovato davanti all’amico.
Per ora era meglio
concentrarsi sui suoi piedi e sulla loro sincronia.
Fu un rumore
alla loro destra a distrarre
entrambi.
Il
sottobosco
frusciò sotto un peso mastodontico, e i rami secchi
crocchiarono in un concerto
di suoni spezzati.
Un
suono a metà tra
il ringhio e il sibilo si sollevò dalle cime degli alberi.
Poi
tutto fu
silenzioso.
«Cos’è
stato?» biascicò Albus, troppo stanco
per rendersi conto del pericolo.
Fortunatamente,
Rose era abbastanza vigile
per entrambi.
«Andiamo
via» si affrettò a velocizzare il
passo come se i demoni d’Inferno le fossero alle calcagna:
non sapeva che cosa
ci fosse alle loro spalle, e non aveva intenzione di verificarlo. Albus
stava
male. E non sarebbe riuscito a reggere uno scontro.
Rose quasi
volò quando si rese conto che la cosa
li stava seguendo: gli alberi
stormivano e il suolo gemeva di fianco a loro, prove di un enorme corpo
in
movimento, e quel latrato trattenuto diventava sempre più
forte e feroce.
«Albus,
corri!» strillò, spezzandogli quasi
il polso per la forza con cui lo strattonava.
Ma per quanto
Rose galoppasse e Albus si
sforzasse di tenere il passo, furono costretti entrambi ad arrestarsi
quando la
cosa sbarrò loro la
strada: un tronco
fu quasi divelto dalla forza con cui la bestia si fece largo per uscire
allo
scoperto, e due piccoli affossamenti si formarono sotto i suoi piedi
per l’urto
dell’atterraggio.
Rose
lasciò andare il cugino e gli si parò
davanti, levando la bacchetta in direzione del mostro.
Non aveva mai
visto niente di simile,
nemmeno nei suoi incubi.
Ma Albus aveva
bisogno di lei. Avrebbe fatto
tutto ciò che era in suo potere per difenderlo.
Serrò
i denti, richiamò alla memoria le
formule di attacco che conosceva.
E
si preparò allo scontro con la bestia.
Grazie a tutti<3<3<3
P.S. Il quarto capitolo arriverà quanto prima :D |
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Capitolo 4 *** Nemmeno ad Hogwarts ***
"
4
“Nemmeno
ad Hogwarts”
Un bagno solo
non
sarebbe stato sufficiente.
Per Silente, non
gli sarebbe bastato rimanere una settimana
immerso nella vasca per togliersi di dosso tutte quelle porcherie!
Nott
si assicurò la mascherina al viso e si accertò
che i
guanti fossero bene aderenti alla pelle prima di proseguire oltre in
quel
delirio di sottobosco insidioso. I rami gli graffiavano i capelli
castani, e le
radici tentavano continuamente di fargli lo sgambetto.
Stava
procedendo a rilento per il timore di non accorgersi
di qualche ostacolo vegetale e ritrovarsi impantanato in una fanghiglia
patogena: avrebbe preferito affrontare un Dissennatore a mani nude
piuttosto
che tuffarsi in quella melma piena di schifezze.
Una
persona normale avrebbe visto un normalissimo bosco,
cosparso di pozzanghere per via della pioggia di qualche giorno prima.
Ma
Macauley non era una persona normale, e per lui la foresta ben curata
di
Hogwarts non era altro che un’incubatrice di pericolosi virus.
Imprecò
sonoramente
contro un gatto fulvo che sbucò fuori da un cespuglio e gli
sfrecciò fra le
caviglie; per evitare il felino, Macauley quasi si ribaltò
su un sasso alle sue
spalle, e solo aggrappandosi alla corteccia dell’albero
più vicino riuscì ad
evitare il fatale impatto con i bacilli del suolo. La prossima volta
avrebbe
detto ad Albus di perdersi in un’infermeria, o, perlomeno, in
un luogo
civilizzato.
Rose aveva
cercato il
cugino per tutta la scuola e non lo aveva trovato, così si
era inoltrata nella
foresta alla sua ricerca.
Macauley
storse la bocca: Rose gli sembrava una persona in
gamba, ma era comunque una ragazzina da sola nella selva. Se dovevano
trovare
Albus, meglio cercarlo in due.
Aveva
impiegato qualche dozzina di minuti a convincersi che
Albus valesse il rischio di essere infettato da un qualche germe
sconosciuto, e
altri venti per preparare il suo equipaggiamento sterilizzante. Senza
contare
la mezz’ora persa a cercare Scorpius per trascinarlo in
quella missione di
recupero; in fondo, era colpa sua se Albus era scappato nel cuore della
giungla.
Non
lo aveva trovato, né nel dormitorio né nelle aule
che
erano soliti frequentare. Così si era arreso
all’idea che avrebbe compiuto
quella ricerca in solitario, e si era spinto nel bosco.
Al pensiero di
Albus, magari ancora solo e sperduto, accelerò un
po’ il passo
Si
arrestò di colpo, avvertendo un suono in lontananza:
dalle cime degli alberi si levò un ululato mischiato ad un
ruggito, un rumore
così gutturale che sembrava provenire dalla viscere della
terra stessa.
Sperava
vivamente
che Albus non si trovasse in quella zona. Fece per allontanarsi, ma un
dubbio
atroce lo bloccò: e se invece quella cosa,
qualunque fosse l’essere capace di mandare un simile barrito,
stesse per
attaccare Albus?
Morse
il labbro e sguainò la bacchetta, inspirando a fondo
da dietro la mascherina.
Non
fece in tempo a muoversi.
Un’improvvisa
folata di vento gli turbinò attorno, e
qualcosa di molto pesante gli precipitò addosso,
schiacciandogli i polmoni
contro il terreno umido.
In
quel momento, Nott sentì rimbombare nella testa le note
di un requiem.
Sarebbe
certamente morto. Se non per l’aggressione di quel
mostro sconosciuto, per quella dei germi che lo stavano inesorabilmente
infettando.
***
Appena gli occhi
annebbiati misero a fuoco la bestia, i muscoli ripresero
improvvisamente vigore,
al contrario della mente, che si svuotò di ogni nozione
magica per riempirsi di
un panico confusionario.
Mise
a freno il tremito delle mani per estrarre la bacchetta
e affiancarsi alla cugina. Per tutta risposta, Rose lo spinse di nuovo
indietro, e Albus non poté fare altro che pensare ad una
tattica soddisfacente
protetto dalla schiena della consanguinea.
Per quanto le
sue
meningi atterrite lavorassero, non riusciva a ricordare niente di
simile al
mostro che avevano davanti. E, se non riusciva ad identificarlo, non
poteva
nemmeno conoscere i punti deboli in cui attaccare.
Uno
sguardo fugace alla cugina fu sufficiente per capire che
nemmeno lei sapeva catalogare la creatura che avevano davanti.
Il fetore
emanato
dalla bestia era tanto intenso da essere quasi materiale,
un’onda mefitica che
polverizzava le mucose nasali. Non era un tanfo assimilabile alla
sporcizia;
era il miasma di un corpo in decomposizione.
Rose
portò una manica davanti al naso per schermarlo da
quell’effluvio
pestilenziale.
Le
sembrava di avere davanti a sé un animale vivo e al
contempo in putrefazione. Non solo per l’odore: il mostro
pareva creato
assemblando pezzi di vari esseri viventi, in alcuni punti saldati alla
perfezione e in altri cedevoli. Il colore dell’incarnato non
era uniforme e
variava da un grigio malato ad un biancastro pallido; i confini tra le
tinte
dissimili sancivano i punti in cui i diversi pezzi erano stati
assemblati,
alcuni recanti ancora i punti di sutura. Inoltre, sul corpo
dell’animale si
aprivano una serie di squarci che lasciavano intravedere la carne
sottostante,
viva e purulenta come se la pelle grigiastra fosse scoppiata a causa di
cisti
troppo cresciute.
Rose
deglutì a fondo quando analizzò il mostro nel suo
complesso: nonostante la forma umanoide, le grosse gambe muscolose
erano piegate
come quelle di un fauno, e le braccia, decisamente sproporzionate,
raggiungevano le ginocchia; la schiena era arcuata da una evidente
gobba, e il
muso del mostro scintillava di una furia ferina quasi folle nel
protendersi in
avanti per cercare il loro odore.
Dal
modo in cui stringeva gli occhi dalle enormi pupille –
la cornea non era che una sottilissima linea giallastra sul bordo
– e da come
annusava l’aria, Rose capì che quella bestia era
probabilmente cieca, e che
l’olfatto era il suo senso più sviluppato.
Arretrò
di un passo, e subito l’animale ruotò la testa
nella
sua direzione. Rose era sicura di non aver mosso più di
qualche foglia nel
muoversi. Dunque il mostro compensava la scarsa capacità
oculare con udito e
olfatto estremamente fini.
Parò
la bacchetta davanti a sé, mentre la bestia inspirava
l’aria come un mantice, eccitata dalle particelle del loro
profumo che era
riuscita a rintracciare nell’aria.
Teneva
la mascella penzolante come un cane affaticato, e i
due maghi poterono così notare la chiostra di zanne da cui
dondolavano sottili
fili di bava.
Rose
schiaffò una mano sulla bocca del cugino prima che
questo si lasciasse sfuggire un verso disgustato. La bestia
drizzò il capo,
circospetta, udendo quel sottilissimo cambiamento nell’aria.
Poi ricominciò ad
annusare, alla ricerca sempre più frenetica e bramosa delle
sue prede.
Rose
serrò con calma le dita attorno alla bacchetta, una
dopo l’altra.
Non
potevano muoversi, altrimenti li avrebbe sentiti. Ma era
solo questione di tempo prima che li scovasse con il fiuto.
Potevano
tentare un'unica via di fuga.
Rose
lanciò uno sguardo alle sue spalle
e fece un cenno con il capo al cugino, mostrandogli la bacchetta con
una impercettibile
rotazione del polso. Gli occhi verdi le risposero con uno sguardo
smarrito, ma
il capo di Albus si chinò comunque in un assenso: si fidava
della cugina e, se
lei aveva intenzione di usare la magia, l’avrebbe
spalleggiata.
Rose
puntò la bacchetta davanti a sé,
subito imitata da Albus. Passò la lingua sulle labbra
secche, tesa fino allo
spasmo. Aveva ragione Achill Scholz, la teoria e la pratica differivano
anni
luce l’una dall’altra.
Inspirò un’ultima volta prima di
passare all’azione.
«Stupeficium!»
recitò,
muovendo la bacchetta con un colpo preciso in direzione della bestia.
«Stupeficium!»
le fece eco
Albus; avanzò di un passo per evitare di colpire la cugina,
e puntò la verga in
direzione dell’essere.
I
lampi rossi si intrecciarono crepitando
e colpirono il mostro al ventre, ribaltandolo come un pupazzo e
scagliandolo a
diversi metri di distanza.
Il
corpo della creatura non aveva
ancora toccato terra che Albus si sentì strattonare con
forza per la manica:
gli alberi persero nitidezza e cominciarono a sfrecciare intorno a lui
mentre
la cugina lo trainava.
«Richiama la tua scopa!»
ansò lei, correndo a precipizio per la foresta.
«Cosa?»
«Chiama la tua scopa prima
che
quel coso si rialzi!» sibilò Rose.
«Non credo proprio che possa volare: se
riusciamo a salire sulla scopa siamo salvi!»
Scavalcò con un salto un arbusto
sulla loro strada, ma Albus non fu altrettanto agile: vi si
schiantò contro,
sradicandolo dal terreno, e non ebbe quasi tempo di accorgersene per la
fretta
con cui stavano scappando. Solo dopo qualche secondo
registrò un vago bruciore
alle gambe.
«Non so come si fa!» le
ricordò Albus.
«La formula è
“Accio”, e poi il nome della scopa» lo
istruì Rose,
dribblando un albero con precisione millimetrica. Albus quasi si
arrotolò su se
stesso per evitare il medesimo vegetale.
«Ma è una formula avanzata! Non
è del primo anno!» protestò il cugino,
provato dalla corsa e dalle troppe emozioni tutte accatastate insieme.
«Albus, stiamo rischiando la
vita!
Fai almeno un tentativo!» replicò esasperata lei,
assestandogli uno scrollone
più forte.
Albus annuì, un nodo di panico che si
ingrossava nella gola, e strinse
più forte la bacchetta tra le dita sudate per
l’agitazione.
«Accio Firebolt!»
strillò
quasi. «Non ha funzionato!» esclamò
terrorizzato, non vedendo alcun risultato
tangibile.
«Devi aspettare che arrivi!» lo
rimproverò Rose, continuando a correre. «E
spero che faccia in fretta!» La terra dietro di loro
rombò, e il suolo tremò
sotto i loro piedi; un verso raccapricciante stracciò
l’aria intorno: la bestia
aveva ricominciato la caccia.
Rose si fermò davanti ad un grosso albero, si
fletté sulle ginocchia
tenendo le mani a barchetta davanti a sé e spronò
il cugino: «Sali.»
«Che
vuoi fare?»
squittì Albus, atterrito dal tuono dei passi, sempre
più vicino.
«Se
sali
sull’albero, sarai in una posizione di vantaggio rispetto a
lui. E potrai
scappare più velocemente con la scopa» espose
velocemente Rose.
«E
tu?» pigolò
Albus: non voleva che la cugina si sacrificasse per salvarlo.
«Quando
ti sarai
arrampicato, mi darai una mano a salire. E ora muoviti!» lo
esortò a denti
stretti lei, per non essere troppo udibile. La bestia doveva averli
quasi
raggiunti: l’aria era satura dei suoi versi e del suo lezzo.
Fu
rapido nel poggiare il piede sui palmi della cugina e ad
issarsi sul ramo più robusto grazie alle spinte di Rose. Si
posizionò a
cavalcioni sulla frasca e, stesosi sulla pancia, allungò le
braccia per aiutare
la consanguinea nella scavalcata.
Non
furono abbastanza veloci: il tronco sottile di un
alberello ancora giovane venne tranciato a metà da una
tremenda zampata. La
creatura sbucò dal varco così aperto, le narici
vibranti alla ricerca dei due
maghi.
Albus
sbarrò gli occhi per lo sgomento, e protese con
più
decisione le mani verso la cugina; Rose mosse appena il capo in cenno
di
diniego. Albus stese le dita a raggiera, supplicandola con gli occhi
velati di
pianto di ascoltarlo e salire. Rose ripeté
l’esiguo movimento con sguardo
fermo, per fargli capire che non lo avrebbe seguito: non aveva alcuna
intenzione di metterlo in pericolo con i rumori che avrebbe fatto
scalando la
corteccia. E poi, la Firebolt sarebbe arrivata tra poco. Dovevano solo
pazientare.
Rose
si voltò con la massima cautela, per dare le spalle
all’albero e non alla bestia, e serrò le dita sul
legno della bacchetta. Si
sarebbe difesa con la magia, se la scopa non fosse giunta in tempo.
La
creatura si mosse, fiutando con le enormi narici umidicce:
levò il capo verso l’alto poi, lentamente, lo
abbassò fino a trovarsi
all’altezza della testa di Rose. A quel punto mosse alcuni
pesanti passi in
avanti, avvicinandosi sempre più.
Albus
seguì la scena raggelato nella sua postazione: vide il
sudore imperlare la fronte di Rose, e la bestia parve individuare la
sua paura
con l’olfatto oltremodo sviluppato. Alcune ciocche di capelli
rossicci
ricaddero sul volto della cugina, ma lei non li spostò per
non fornire al
mostro ulteriori indizi sulla sua posizione.
Albus
sentì il sangue congelarsi nelle vene quando
l’abominio si arrestò a pochi metri di distanza
dalla cugina: l’enorme testone
ondeggiò davanti al volto di Rose, fissandola con gli occhi
ciechi; la ragazza
trattenne a stento un conato quando l’alito mefitico della
creatura le
avviluppò il volto.
Questa
volta, la bestia non le lasciò il tempo di reagire:
lanciando un mugghio spaventoso, inalberò una mano e la
calò con violenza sul
fianco della maga, scaraventandola a lato.
Rose
sentì il suo corpo spezzarsi in due: la forza di quella
zampata era tale che le parve di venire tagliata a metà
dall’arto di ferro del
mostro. I suoi piedi persero aderenza al terreno, e la vista venne
invasa da un
turbinio confuso di foglie, erba e cielo, mentre il suo corpo rotolava
fino a
sbattere di schiena contro una betulla. L’istinto di
sopravvivenza la spinse a
rialzarsi il più in fretta possibile, ma il dolore al fianco
smorzò i suoi
tentativi: cercò di muovere le gambe, e subito una fitta
lancinante le mozzò il
fiato, costringendola prona sulle foglie secche.
Riuscì
a voltare la testa quel tanto che bastava a vedere la
bestia, ebbra della vittoria, avanzare verso di lei con le fauci
spalancate e
sbavanti.
Tastò
il terreno intorno a lei, stringendo i denti per il
dolore che dalla vita si propagava in tutto il corpo, ma fu inutile:
doveva
aver perso la bacchetta nel punto in cui il mostro l’aveva
aggredita. Non
sarebbe riuscita a recuperarla. E, anche se fosse arrivata la Firebolt,
Albus
non avrebbe potuto salvarla: il mostro era troppo vicino, e troppo
affamato.
Quello
che avvenne in seguito, però, non lo avrebbe mai
ipotizzato: la bestia si impennò improvvisamente, emettendo
un verso di
sorpresa. La grossa testa sbatacchiò in tutte le direzioni,
infastidita, e le
mani mulinarono nell’aria per liberarsi
dell’impiccio aggrappato al suo collo.
Albus,
dimentico della magia e del buon senso, si era
lanciato sulla bestia e le stava stringendo il collo con tutte le sue
forze.
Non aveva meditato un piano di battaglia, non aveva pensato a niente:
aveva
visto sua cugina a terra, ferita, ed un mastodontico mostro incombere
su di
lei. Era bastato per farlo scattare, privo di ogni percezione che non
fosse la
consanguinea distesa inerte al suolo.
La
bestia sgroppò come un toro infuriato, agitando le
braccia contro quel minuscolo esserino arpionato alla sua trachea.
«Albus,
imbecille!»
gracchiò Rose, la voce arrochita dal dolore. «Che
diavolo fai?»
Il ragazzo non
rispose, impegnato anima e corpo nel restare attaccato al collo del
mostro.
Ma
la bestia fu più testarda di lui: portò le mani
sulle
vertebre e le palpò fino a trovare il corpo estraneo. Albus
sentì le dita animalesche
serrarsi intorno ai suoi fianchi, strattonarlo via e lanciarlo in aria
con una
forza inaudita.
Udì
l’urlo di Rose, ma venne sovrastato dal grido del suo
cuore impazzito di paura: il mostro lo aveva lanciato troppo in alto,
si
sarebbe sfracellato al suolo.
Qualcosa
si frappose fra lui e il suo inevitabile destino:
una stretta snella ma decisa lo prese in vita, ed il vento gli
scompigliò i
capelli mentre veniva portato lontano dalla bestia.
Alzò
lo sguardo, stringendo gli occhi per difenderli
dall’aria sferzante, ed un baluginio di riflessi dorati lo
abbagliò.
«Stai
bene?»
Albus
stentò a
riconoscere la voce. E non perché non l’avesse mai
sentita prima, ma perché era
davvero impossibile che lui fosse
lì
in quel momento.
Due
occhi grigi e preoccupati si voltarono verso di lui. «Stai
bene?» ripeté il ragazzo, aiutandolo con un
braccio a sistemarsi sulla scopa.
«Che
ci fai qui?»
Albus tentò con tutte le sue forze di mantenere ferma la
voce, ma fallì con
disonore: le lacrime che aveva versato quel pomeriggio tornarono a
fiaccargli
le corde vocali, facendolo quasi miagolare.
«Ho
saputo che eri
scomparso» la scopa virò di lato, evitando un
fendente della bestia ringhiante.
«E ho immaginato che fosse per colpa mia» si
alzarono di quota per sfuggire
alla portata degli abnormi arti del mostro.
Lì
Scorpius approfittò di un unico attimo di calma per
mormorare:
«Mi
dispiace.»
Non
si era voltato nel dirlo, ma Albus riuscì ugualmente a
carpire la sua onestà dalle spalle lievemente abbassate,
come abbattute, e
dalla lievissima titubanza di sottofondo, quasi temesse che le sue
scuse non
sarebbero state accettate.
Le maniche della
tunica di Albus si arrotolarono sui gomiti quando il piccolo fece
strisciare le
braccia a cingere il petto di Scorpius. Lo abbracciò forte,
premendo la guancia
contro la sua schiena piegata dalla colpa.
«Se
non mi reggo,
cado» minimizzò. «Dobbiamo parlarne
meglio.»
Scorpius si
dichiarò d’accordo con un cenno del capo e
planò in picchiata verso il suolo,
dove Rose li attendeva, sdraiata sofferente su un fianco. E non era
sola.
«Albus!»
Nott,
posto ad avanguardia della ragazza a bacchetta spianata,
strillò come una
donnetta nel vederlo. «Non azzardarti mai più a
fare una cosa simile!»
«Anche
tu qui?» si
stupì Albus, notando le vistose macchie di terriccio sulla
tunica di Macauley,
i fori sui guanti di lattice e la posizione sgangherata della
mascherina.
Stentava a credere che l’ipocondriaco amico si fosse esposto
a un simile rischio
di epidemie solo per lui.
«E’
ovvio, cretino!»
sberciò Nott, senza staccare gli occhi dalla bestia, confusa
da quegli strilli
e dalla raffica di vento che si era portata via il suo giocattolo.
«E i
batteri?» volle
sapere Albus, ancora aggrappato a Scorpius.
«Eri
in pericolo!»
starnazzò Macauley.
Albus
batté le
palpebre, incredulo: erano tutti lì per lui. Rose, che lo
aveva aiutato fino a
farsi quasi spezzare la schiena; Macauley, che si era gettato a
capofitto in un
covo di germi; e Scorpius, che non aveva esitato a lanciarsi in volo
contro un mostro
per salvarlo.
Solo
perché erano preoccupati per lui.
Albus
nascose il viso tra le scapole di Scorpius per
arginare il desiderio di piangere. Ma non per la tristezza, come aveva
fatto in
tutte le ore precedenti: per ringraziare con qualche goccia di emozione
chi
teneva così tanto a lui da mettere a repentaglio la propria
incolumità pur di soccorrerlo.
Il breve idillio
venne frantumato dal ruggito collerico della bestia, decisa a stanare i
nuovi
intrusi.
«Che
facciamo?»
bisbigliò Scorpius.
«Ho
lanciato un
incantesimo di appello» rispose in un sussurro Albus.
«La mia Firebolt dovrebbe
arrivare» inarcò un sopracciglio e
domandò: «Tu perché hai la
scopa?»
«Sono
venuto a
cercarti direttamente sulla
scopa»
rispose Scorpius, con un sorriso furbetto. «Era molto
più semplice cercarti
dall’alto. E’ così che ho visto
Macauley.»
«Idiota»
sibilò
Nott alla coppia fluttuante. «Mi hai fatto perdere dieci anni
di vita con il
tuo scherzetto.»
«Non
ti ho
spaventato così tanto» si difese Scorpius.
«Chi
parla della
paura? Parlo delle infezioni» replicò Nott.
«Se
avete finito di
fare salotto, c’è una bestia assetata di sangue
che ci sta ancora dando la
caccia» ricordò loro Rose, infuriata. A giudicare
dallo sguardo di fuoco con
cui stava incenerendo Scorpius, non gli aveva perdonato il torto fatto
al
cugino, poco importava che lo avesse poi sottratto ad una cruenta morte.
Il
mostro lanciò un barrito selvaggio, schiumando di rabbia
mentre vorticava gli artigli tutto intorno.
Rose
si sforzò per mettersi in ginocchio, la mano premuta
sul fianco dolente; Macauley si risistemò la mascherina con
la mano sinistra,
la destra protesa a tenere sotto tiro di bacchetta la bestia; Scurpius
voltò la
scopa in modo da fronteggiare la creatura e schermare Albus, che
sbucò dalle
sue spalle armato di verga magica.
L’avrebbero
affrontato insieme.
Il cespuglio
sotto
di loro perse qualche foglia quando un gatto rossiccio balzò
fuori dalla selva
e saltellò in mezzo alla radura. Si sedette e si
leccò una zampa, passandola
poi sulla testolina pelosa, e per tutto il tempo fissò
sereno il mostro
ululante davanti a loro.
«Di
nuovo quel
gattaccio!» inveì Nott. «Prima mi ha
fatto quasi ammazzare!»
Il micio lo
fissò
con aria sorniona, avvolgendosi la coda attorno al corpo flessuoso. Si
rialzò
sulle zampe e ondeggiò elegante verso Macauley, per
strusciarsi contro le sue
caviglie.
«Vattene,
schifosa
palla di pelo!» lo insultò Nott, scrollandoselo di
dosso.
«Macauley,
un gatto
non ti ucciderà, quella bestia sì!» lo
sgridò Rose, stringendo gli occhi per
una fitta improvvisa.
Il
gatto li guardò con gli occhi verdi e astuti,
inspiegabilmente
divertito; inalberò la coda con vezzosità e
rivolse la sua attenzione al
mostro, incrociando graziosamente le zampine anteriori.
Il
pelo lucido e fulvo si allungò in una lussureggiante
chioma sanguigna, gli occhi smeraldini si disegnarono con un trucco
sapiente,
il musetto peloso evolse in un ovale raffinato dalla pelle chiara; il
corpo
agile del felino si gonfiò nelle forme prorompenti di una
giovane donna, e le
zampette incrociate si allungarono in un paio di gambe tornite e
sensuali.
Davanti
alle espressioni allibite dei propri studenti, il
gatto si tramutò nella loro professoressa di Trasfigurazione.
«Hai
un vocabolario
piuttosto disinvolto per essere un undicenne, Nott»
cinguettò la Eeriemay,
togliendosi una foglia dai capelli sciolti sulle spalle.
«Le
chiedo scusa,
prof…» articolò a stento Macauley,
ricordando fin troppo bene gli insulti che
aveva rivolto al micio.
«Cerca
solo di
contenerti, in futuro» lo consigliò bonaria la
Eeriemay, dedicando di nuovo la
sua attenzione alla bestia.
Inclinò
la testa di lato, facendo scorrere i lunghi capelli
sulla giacchetta del completo. Con una disinvoltura sconcertante,
inserì la
punta delle dita nello scollo della camicia ed estrasse la bacchetta,
custodita
tra i seni.
Tutti
e tre i maschi volsero la loro attenzione altrove, chi
a terra, chi alle proprie mani, suscitando il divertimento beffardo
della
Eeriemay.
«Non
emozionatevi
troppo, ragazzi» sorrise la prof, puntando la verga contro il
mostro scatenato,
che agitava le fauci bavose e gli artigli sporchi come un indemoniato.
«Immobilus» recitò
la professoressa, con aria quasi annoiata.
Uno
schiocco, e la creatura smise improvvisamente di
muoversi, come pietrificata. La Eeriemay torse le labbra in
un’espressione
compiaciuta, e fece per riporre la bacchetta quando il mostro
mandò un acuto
latrato e riprese a dimenarsi all’interno della morsa magica:
grosse gocce di
sudore colarono dal mento sbeccato mentre l’essere tentava di
muovere qualche
passo in avanti, le vene gonfie fino a scoppiare e i tendini tesi come
corde
d’arco.
Un
sopracciglio scarlatto si sollevò, confuso.
«Le
bestie umanoidi
non dovrebbero avere resistenze particolari a questo
incanto…» rifletté,
spostandosi a lato come una gladiatrice per osservare gli sforzi del
mostro.
«Professoressa,
andiamocene finché è immobilizzata»
consigliò Macauley. Si chinò per aiutare
Rose a rialzarsi, e così la risposta della donna lo colse
mentre era chinato
sulla giovane:
«Il
nostro caro Hagrid non è più così in
forma da
fronteggiare un simile abominio, e suo figlio non è
abbastanza esperto. Vedi
anche tu come sta resistendo all’incantesimo, no?»
la Eeriemay scostò una ciocca
rubino dal viso e dichiarò: «Dobbiamo occuparcene
noi.»
Prima
che gli studenti potessero chiedere a chi si riferisse
con quell’ipotetico “noi”, dal bosco
venne un rumore di rami spezzati e di
parolacce in tedesco, preludio del rocambolesco arrivo dei due Scholz.
«Lei
è saetta, fraulen
Eeriemay» gorgogliò festoso
Bartold, scrollandosi dai capelli l’equivalente di una
collinetta di foglie.
«Tu sei lento!»
grugnì Achill, scuotendo
il fango dagli stivali. «Noi dobbiamo fare qualcosa per tuo
lardo, oltre che
per tuo inglese!»
«Lardo?»
ripeté
disorientato e ammirato Bartold. «Che termini difficili
sai!»
Un ruggito
particolarmente forte della bestia li fece voltare
all’unisono.
«Dobbiamo
eliminarlo» sentenziò Achill, armandosi di
bacchetta.
«Non
possiamo» replicò la Eeriemay, tenendo la
verga puntata al mostro ruggente. «Non abbiamo mai visto
niente del genere,
prima. Dobbiamo studiarlo.»
«Non
possiamo
portare cosa del genere in Hogwarts! Sicurezza di
studenti…» Bartold brancolò
nella futile ricerca dei termini inglesi per finire la frase.
«Capisco.
Lasciate
che io prenda un campione, allora. Poi potrete toglierlo di
mezzo.»
La donna
ancheggiò
verso la creatura che, vedendola avvicinarsi, le latrò
contro a gola spiegata,
spruzzando saliva tutt’attorno.
La
Eeriemay si fece strada in quella pioggia di batteri con
una fermezza che Nott trovò semplicemente eroica, si
portò la bacchetta alle
labbra e vi sussurrò qualcosa sopra. Poi la ficcò
con forza nella massa
rigonfia di un muscolo della creatura, che esacerbò un grido
di dolore.
La
Eeriemay fu rapida nell’estrarre la verga e spostarsi di
lato, prima che il braccio del mostro, liberatosi
dall’incantesimo, compisse un
arco verso di lei: lo schivò con grazia, permettendo a
quegli artigli di
sfiorargli appena le punte dei capelli cremisi.
I professori si
disposero a formare un triangolo attorno al mostro che rumoreggiava
selvaggio e
agitava il braccio che era riuscito a svincolare dalla magia. Le
bacchette si
levarono con solennità in direzione della bestia, in
sincrono; una serietà
mortale colò sui volti dei docenti, indurendoli in una
maschera di risolutezza.
«Deflagra» recitarono
all’unisono; tre
serpenti di luce scarlatta e crepitante sfrecciarono dalle punte delle
loro
bacchette fino alla creatura, che raggiunsero in un orribile sfrigolio
di carne
bruciata.
Le
spire sanguigne si avvolsero attorno al petto della
bestia, e lo scoppiettio del fuoco di un camino si tramutò
nel rombo di un
incendio, effondendo tutto attorno l’odore rivoltante dei
muscoli carbonizzati
e le urla di agonia della bestia.
Macauley
chiuse gli occhi e voltò la testa, Rose non
riuscì
a distogliere lo sguardo dilatato dall’orrore;
trovò come unico sostegno le
braccia dell’amico che ancora la sorreggevano, e
affondò le dita nelle sue
maniche per avere un contatto umano mentre la morte del mostro la
ipnotizzava
con il suo fascino macabro.
Albus
avvertì un conato serrargli la bocca dello stomaco, e
premette una mano sul viso per evitare di rigettare tutto quello che
aveva
mangiato nei mesi precedenti. Quando temette di aver raggiunto il
limite, una
maglia morbida premette contro il suo viso, e due braccia amichevoli lo
strinsero per confortarlo. Scorpius, con il busto torto in una
posizione
davvero improponibile, lo stava abbracciando per confortarlo e
confortarsi a
sua volta, sconvolto dalle urla atroci dell’animale.
Albus
si afferrò al gilet dell’amico e
affondò il volto nei
suoi vestiti con tutta la sua forza, aspirando a pieni polmoni il
profumo di
Scorpius per sfuggire all’odore di morte che permeava tutto
il bosco.
Passarono
alcuni minuti che parvero secoli, e, finalmente,
l’agonia della bestia terminò. Un manto di
silenzio spettrale scese nella
foresta, ed una brezza serale si impegnò a spazzare via il
tanfo incenerito.
Macauley
aveva ancora gli occhi serrati quando la Eeriemay
giunse ad appoggiargli una mano sulla spalla.
«E’
tutto finito»
modulò dolce. Non riusciva nemmeno ad immaginare quanto
potesse essere
terribile, per dei ragazzi così giovani, assistere alla
morte di un essere
vivente, per quanto mostruoso. Era la loro insegnante, aveva il dovere
di
aiutarli; era un essere umano, aveva la facoltà di
comprenderli.
Accarezzò
i lucidi e pulitissimi capelli di Nott per
convincerlo a dischiudere le palpebre, e sfiorò le guance
pallide e fredde di
Rose, ancora irrigidita per lo spavento e il raccapriccio.
Bartold
si avvicinò a loro trotterellando, e restituì
alla
ragazza la sua bacchetta.
«Tu
molto brava» si
complimentò. «Tu ottima maga in futuro.»
Scorpius e
Albus,
invece, ricevettero la visita dello Scholz maggiore.
«Non
state
attaccati come femminucce, diavolo! Siete maschi, siete
guerrieri!» abbaiò.
Quando i due ragazzi si furono staccati, Achill schiaffò
senza alcuna
delicatezza un manico di scopa sullo stomaco di Albus: la sua Firebolt
era
finalmente giunta.
«Tu
devi ancora
migliorare molto, io temo» lo rimproverò.
Albus non
riuscì
nemmeno ad annuire, le mani tremanti strette attorno alla scopa.
«Coraggio»
mormorò
la Eeriemay. «Torniamo a Hogwarts.»
***
Albus
fissò il
materasso sopra di sé, assorto.
Solo Rose era
stata
trattenuta in infermeria, per via del colpo subito al fianco.
Il
loro controllo invece era stato veloce, ed erano stati presto
spediti nelle loro camere.
Non
gli avevano concesso di vedere la cugina poiché si era
addormentata quasi subito dopo la visita, stremata. Avrebbe dovuto
aspettare il
giorno dopo per sincerarsi delle sue condizioni.
Nott
aveva deciso di trascorrere un po’ di tempo in
infermeria: aveva intenzione di fare impazzire la loro povera
dottoressa per
farsi controllare ogni minima escoriazione.
Albus
sorrise, addolcito: era davvero incredibile che
Macauley avesse compiuto una simile impresa per lui. Doveva volergli
molto più
bene di quanto pensasse.
«Albus?»
Il piccolo
sollevò
il capo, nell’oscurità.
«Sì?»
«Hai
detto che
dovevamo parlare» gli ricordò Scorpius.
«Sali.»
Albus si
rigirò su
un fianco, indeciso se rispondere o meno all’invito:
desiderava e temeva quel
momento, perché non sapeva come ne sarebbe uscita la loro
amicizia.
Raccolse
il coraggio necessario e sgusciò fuori dalle
coperte, si puntellò sul materasso e si arrampicò
sul giaciglio dell’amico.
Scorpius lo attendeva seduto a gambe incrociate, con le coperte tirate
fin
sopra le cosce.
«Come
stai?» si
preoccupò Albus, accucciandosi sulla trapunta.
Scorpius si
strinse
nelle spalle. «Quella bestia non mi ha toccato. Tu,
invece?»
«Poteva
andare
peggio» Albus si grattò la nuca, sospirando.
«Spero che Rose non abbia nulla di
grave.»
«Se la
caverà»
asserì deciso Scorpius. «E’ forte, non
si farà piegare. Anche se ho
l’impressione che mi odi.»
«E’
perché… sono
stato male per il nostro litigio» soffiò Albus.
Le loro bocche
si
azzittirono nell’imbarazzo, poi Scorpius si decise ad
affrontare l’argomento:
«Sono
stato troppo
brusco con te» ammise, senza abbassare lo sguardo: tenne gli
occhi fissi in
quelli di Albus, come a voler evidenziare la sincerità delle
sue parole. «Non
era colpa tua.»
«Volevo
solo
aiutarti» l’altro, al contrario, voltò
il viso verso le coperte, le spalle
abbassate come un cucciolo bastonato.
Scorpius
tamburellò
le dita sulle lenzuola per il nervosismo a stento represso e
confessò:
«Non
è una scena
insolita, per me. Sono piuttosto… abituato ad essere
additato come feccia»
masticò il labbro inferiore, risentito: no, non era ancora
abituato, altrimenti
sarebbe riuscito a mantenersi distaccato da tutte quelle
meschinità. Solo,
simili trattamenti non erano una novità.
«Però… non sempre riesco a
controllarmi.»
«L’avevo
notato.»
Scorpius
sospirò rumorosamente
prima di aggiungere: «Eri l’ultima persona a
meritarsi tutti quegli insulti. Mi
dispiace davvero, Albus.»
Di nuovo
silenzio.
Quando Albus
replicò, la sua voce era poco più di un pigolio:
«Pensi
davvero che
io sia viziato?»
«No»
Scorpius
poggiò una mano sulla testa reclinata dell’amico,
e gli parve di accarezzare un
animale ferito. «Non sei egoista, non pretendi che tutto ti
sia dovuto. Non sei
viziato.»
«Credi
che per me
importi solo il mio cognome?»
«No.
Anzi, penso
che per te sia quasi un peso.»
Albus
deglutì:
l’amico ci aveva azzeccato. Era davvero gravoso dover
affrontare ogni giorno il
fantasma della fama paterna.
«Allora
perché mi
hai detto quelle cose?» uggiolò.
Sentì
l’amico fare
un profondo respiro prima di compiere l’ammissione
più sofferta di tutta la sua
vita: «Pensavo che il tuo cognome ti avesse portato una vita
molto tranquilla.
Invece, essere un Malfoy vuol dire essere considerato colpevole fino a
prova
contraria; non è bello quando tutte le persone che incontri
ti guardano come se
volessi attentare in qualche modo alla loro vita. E credevo che per
te… fosse
stato tutto molto più semplice. Si può dire che
fossi…» rigirò la coperta tra
le dita della mano libera prima di confessare: «…
invidioso.»
«Non
hai nulla da
invidiarmi» replicò Albus. «Tu devi
combattere contro la tua cattiva
reputazione, ma ti assicuro che… non è facile
difendersi da chi pretende che tu
sia un eroe.»
Scorpius
accentuò
le carezze sulla testa di Albus: mai come in quel momento il suo amico
gli era
sembrato fragile.
«Combattiamo
insieme» propose Albus, sempre a testa china, porgendogli la
mano. «Contro la
fama, buona o cattiva che sia. E portiamo onore a Slytherin.»
Scorpius
accettò la
mano che gli veniva offerta. A parole, era quasi uguale dal giuramento
che si
erano fatti il primo giorno, ma il significato era molto diverso:
allora
dovevano solo difendere la loro Casa, ora si impegnavano a lavare via i
pregiudizi legati al loro cognome, infami o eroici che fossero. Si
erano
promessi di vivere a testa fiera non solo per gli Slytherin,
ma soprattutto per se stessi.
«Non
dirmi mai più
quelle cose cattive» bisbigliò Albus. Anche se la
fronte era ostinatamente
abbassata, non era difficile capire che l’amico era sul punto
di piangere: le
lacrime gli rallentavano le parole, incastrandole nel groppo che gli
stringeva
la gola. «Mi hai fatto stare male.»
La mano di
Scorpius
scivolò dalla sua testa alla spalla e da lì
proseguì verso la schiena, per
poterlo attirare a sé e abbracciare. Annuì tra i
suoi capelli e garantì:
«Non
lo farò. Avevo
paura che saresti morto, in quel bosco.»
«Sarei
morto, se
non fosse arrivata Rose.»
«E se
non fossi
arrivato io.»
«Lei
ti ha
preceduto.»
Scorpius
lasciò
cadere la discussione: Albus era più rilassato, e le lacrime
stavano pian piano
retrocedendo dalla sua ugola.
«Tra
poco tornerà
Nott» gli ricordò Scorpius, sciogliendo
l’abbraccio. «E’ meglio che torni nel
tuo letto.»
Albus parve
raggomitolarsi su se stesso quando chiese in un bisbiglio pieno di
vergogna: «Posso
dormire qui stanotte?»
Scorpius lo
fissò
senza capire, e Albus specificò, arrossendo per
l’imbarazzo di mostrarsi così
debole: «Tutto quello che è avvenuto nel
bosco… non riuscirei ad addormentarmi
se rimanessi da solo con in miei pensieri. Vedrei sempre la bestia e la
sua…»
non riuscì a pronunciare la parola
“morte”: temeva che quelle poche lettere
potessero evocargli di nuovo gli ululati tremendi del mostro.
L’espressione
dell’amico si aprì nella comprensione. Capiva
perfettamente: anche lui era
rimasto impressionato da quella scena, e sicuramente avrebbe rivissuto
in sogno
la loro epopea nella foresta. Ma sarebbe stato meno traumatico passarci
di
nuovo attraverso con una presenza affettuosa al fianco.
Scorpius si
distese, sollevando alle coperte per invitarlo ad entrare. Albus
salterellò
come un coniglietto fino a raggiungere il suo posto sotto le coltri,
vicino al
tepore di Scorpius.
«Achill
ci ha dato
delle donnette solo perché eravamo abbracciati» lo
punzecchiò l’amico,
scompigliandogli la frangia corvina. «Cosa direbbe di tutto
questo?»
«Che
siete
nauseanti» rispose caustica una voce dalla porta.
Albus si
affacciò
dalle coperte, e un seccatissimo Nott ricambiò il suo
sguardo.
«Tenetemi
fuori dal
vostro cerchio dell’amore, io me ne vado a letto»
annunciò, dirigendosi spedito
verso la sua branda.
Albus
notò i
cerotti e le sottili fasciature sulle mani dell’amico:
nonostante la sua
pignoleria, doveva essersi ferito sul serio durante la sua avventura
boschiva,
altrimenti la loro dottoressa si sarebbe rifiutata di medicarlo.
«Grazie,
Macauley»
sorrise Albus: si illuminò come una stella per la
gratitudine e l’affetto verso
il patologico compagno di stanza, e Nott non poté rimanerne
del tutto
indifferente.
«La
prossima volta
cerca di non scappare così lontano» lo
ammonì, privo della solita acredine.
Albus si
infilò
nuovamente sotto le coperte, soddisfatto: era davvero felice che
Macauley
stesse bene. Anche perché sarebbe stato un tormento
assisterlo mentre era
ferito.
Si
acciambellò nel
suo lato di materasso e, al termine delle manovre, augurò:
«Buonanotte,
Scorpius.»
«Buonanotte»
ricambiò l’altro. «Se fai un incubo,
svegliami» gli ricordò.
Quella notte,
contro ogni sua previsione, Albus dormì sereno.
L’affetto
dei suoi
amici esorcizzò i pensieri negativi, e la colossale
stanchezza accumulata
impedì a qualunque incubo di presentarsi, facendolo
sprofondare in un sonno
pesante e senza sogni, ma pacifico.
La
notte trascorse tranquilla, dopo quella giornata infernale.
***
Scorpius aveva
ragione: Rose non si era fatta piegare dagli eventi del giorno prima.
Ne
ebbe la prova la mattina seguente, quando si ritrovarono
davanti all’entrata della Sala Principale per la colazione:
la forza con cui lo
strinse in un abbraccio gli incrinò una vertebra del collo.
«Meno
male che stai
bene!» si rallegrò lei, sprimacciandogli le guance
soffici.
«Mi
fai male» si
lamentò lui, i lineamenti scomposti dalle strane coccole
della consanguinea.
«Come
ti senti?» le
domandò Scorpius, mantenendosi ad una distanza sufficiente a
non invadere il
quadretto domestico.
«Bene»
sillabò
Rose; il suo tono non mascherò per nulla il risentimento che
nutriva nei
confronti del giovane Malfoy. La dichiarazione del suo stato di salute
assomigliò
di più ad una maledizione.
«Ti fa
male il
fianco?» si preoccupò Albus, squadrando la felpa
azzurra della cugina come per
guardarci attraverso.
«Mi
hanno fatto un
impacco di erbe taumaturgiche. Sto più che bene»
garantì Rose, battendogli una
pacca sulla spalla.
«La
bestia deve
averti colpito forte» notò Scorpius.
«Albus,
puoi
precederci in Sala Principale?» Rose praticamente lo
costrinse a seguire il suo
consiglio, facendolo girare di spalle e sospingendolo verso
l’ingresso del
salone. Albus ubbidì, timoroso di quello che la cugina
avrebbe potuto dire a
Scorpius.
«Dovrei
ringraziarti per aver salvato Albus» considerò a
voce alta la ragazza,
scostando dietro le spalle la coda ramata.
«E’
stata colpa mia
se è fuggito nel bosco» si svilì lui.
«Almeno
non sei
ipocrita. Egoista e impulsivo, ma non ipocrita» fu la
sprezzante stima di Rose.
Scorpius
gonfiò i polmoni, pronto a subire un’offensiva
mortale. Sapeva bene quanto Rose fosse protettiva nei confronti di
Albus e,
alla luce dei fatti, la giovane era pronta a sguainare
l’artiglieria pesante
con lui.
«Non
penso che tu
sia propriamente cattivo. Sei pieno di difetti, ma non sei
malvagio» soppesò
acre Rose, incrociando le braccia e tamburellando le dita su un gomito.
«Dovrei
ringraziarti?» ipotizzò Scorpius.
«No»
lo represse
lei. «Non apprezzo chi si nasconde dietro ad una maschera.
Non mi interessa il
motivo, e non lo voglio sapere. Ma, se vuoi che io mi fidi di te,
dovrai
scoprirti per quello che sei» strinse i gomiti nelle mani e
proseguì: «Credo
che, con tutti i mesi che hai trascorso ad Hogwarts, solo ieri tu sia
stato
sincero.»
«E
vorresti che io
facessi scappare Albus nel bosco ogni giorno?»
Lo sguardo
adamantino di Rose ebbe la stessa carica assassina dell’Avada Kedavra.
«Se ci
provi di
nuovo, ti faccio sparire dalla faccia della Terra»
comunicò glaciale. «Penso
che, se tu non ti sforzassi tanto di essere un idolo di beatitudine,
eviteresti
simili scenate. E saremmo tutti più tranquilli, specie mio
cugino.»
«L’hai
mandato via
per farmi la paternale?»
«Le
mie sono considerazioni
personali. Dico solo che, se vuoi andare d’accordo con me,
devi rivelarti per
quello che sei. Non voglio fare amicizia solo con il carattere che tu
decidi di
mostrarmi: se dobbiamo avere un legame, voglio stringerlo con tutto
Scorpius,
non con una sua metà. Decidi tu»
terminò con un’alzata di spalle, dirigendosi
nella Sala Principale.
Scorpius la
imitò
dopo essersi assicurato che la ragazza avesse preso posto alla sua
Tavola.
Le donne che
leggevano erano davvero tremende.
***
Scorpius
sembrava
integro, perlomeno.
Albus
non sapeva mai cosa aspettarsi da Rose, quando le
nuvole del cattivo umore si assiepavano attorno alle sue tempie. Quel
temperamento forte e deciso lo aveva preso dalla zia Hermione, senza
dubbio: con
una classe ammirevole, era in grado di smontare il suo interlocutore
brano a
brano. E stava lentamente passando quella sua peculiarità
alla figlia.
Albus
slittò lungo
la panca per permettere a Scorpius di sedersi vicino a lui.
Nott
si lamentò al massimo delle sue possibilità per
ogni
singolo graffio sulle dita, tormentando i suoi compagni per tutta la
colazione.
Albus sopportò con un sorriso ed immensa pazienza,
ricordandosi come, il giorno
prima, Macauley si fosse rotolato nel fango per aiutarlo: ascoltare le
sue
lagne era il minimo che potesse fare per contraccambiare. Scorpius non
aveva il
medesimo buon cuore, ma seppe annegare ogni commento inappropriato
nella tazza
di the che teneva tra le mani.
La colazione
trascorse tranquilla, tra il chiacchiericcio frizzante e i profumi
mattutini.
La sua conclusione, però, non fu quella di tutti i giorni.
La Eeriemay si
erse
in tutta la sua sinuosa figura, sorprendendo gli studenti per il suo
vestiario
insolitamente castigato: la scollatura arrivava appena a sfiorare le
clavicole,
la gonna copriva le ginocchia magre, e i capelli erano raccolti in un
severo
chignon. Nonostante il trucco, vistoso e curato come sempre, quello fu
l’unico
giorno in cui la procace professoressa assomigliò un minimo
alla zia Minerva.
«Spero
che abbiate
consumato una buona colazione» augurò la voce
argentina della Eeriemay. «Ma vi
pregherei di non alzarvi, ancora: la vostra preside vorrebbe tenere un
piccolo
discorso.»
Si
riportò a sedere
e, anziché accavallare le gambe come di consueto, si
sistemò in una posizione
contenuta, i tacchi insolitamente bassi paralleli e ben poggiati per
terra.
La
morigeratezza della responsabile di Slytherin
instillò una punta di sano terrore negli allievi,
accresciuta dalla serietà con cui la McGranitt si
alzò dal suo seggio.
Gli
occhi sciupati dall’età si indurirono dietro gli
occhiali e la voce stessa della preside suonò ferrea e
inflessibile nel
silenzio che si era creato:
«Sono
fiera della
divisione in Case degli studenti di Hogwarts, perché
permette ad ognuno di voi
di sviluppare le proprie capacità seguendo il proprio
istinto. Ogni Casa ha
questo preciso scopo: deve sottolineare le vostre
peculiarità, le vostre
inclinazioni. Ma l’appartenenza ad una Casa non deve dare
adito a
discriminazioni. Mai. Lo Smistamento deve donarvi l’orgoglio,
e non la vergogna,
di assomigliare ad uno dei grandi fondatori di questa scuola»
le labbra della
donna si strinsero e gli occhi si chiusero per un istante, come per
recuperare
la forza necessaria a proseguire: «Ho sempre creduto che gli
studenti di
Hogwarts fossero coscienti di questa realtà. E che i loro
contrasti fossero
dovuti a momentanee incomprensioni.»
La
McGranitt strinse le mani ossute, prese fiato e continuò,
sferzante come una frusta:
«Sono
amareggiata e profondamente delusa. Un vostro compagno
di Slytherin è stato
oggetto di un
atto di puro vandalismo. Non avrei mai pensato che qualcuno di voi
potesse
essere capace di tanto. Immagino che il colpevole non voglia
rivendicare la
paternità della sua opera.»
Lasciò
che tra le tavole scorressero sguardi perplessi e
indagatori, alla ricerca del delinquente, e che i sospetti passassero
di bocca
in bocca.
«Sapete,
con la magia si possono fare cose incredibili.
Avrete modo di scoprirlo durante la vostra formazione» li
istruì la McGranitt,
statuaria. «Ma vi rivelerò una legge fondamentale
degli incanti: nulla compare
senza la precisa volontà di un mago. Nemmeno ad
Hogwarts» il resto del discorso
fu pronunciato con un sarcasmo elegantissimo, degno di una nobildonna
che
schiaffeggia un plebeo con il guanto immacolato: «Riteniamo
dunque che
l’armadietto in questione non si sia ricoperto di calunnie da
solo. Qualcuno ha
programmato quell’affronto e l’ha portato a
termine. E, chiunque lui sia, ha
tutta la mia disapprovazione: ritenevo che i miei studenti, oltre al
talento per
la magia, possedessero un’ineffabile qualità
chiamata “tolleranza”.
Evidentemente, su uno o più di loro, mi sbagliavo. Mi auguro
di cuore che
simili episodi non debbano ripetersi mai più tra le mura di
questa scuola.
Hogwarts deve garantire una serena permanenza ai suoi studenti, a tutti i suoi studenti, senza
distinzioni. Mi auguro che abbiate capito.»
La McGranitt si
adagiò di nuovo sul suo trono con dignità
principesca, sotto lo sguardo
sfavillante e soddisfatto della nipote.
Pian
piano, con timore e reverenza, gli alunni sciamarono
fuori dalla sala, domandandosi cosa fosse avvenuto e chi fosse il
responsabile.
Il terzetto
degli Slytherin venne raggiunto da
Rose, ma
non fecero in tempo a scambiarsi una sola parola: la Eeriemay e la
svampita
professoressa Lovegood, impegnata a fissare chissà cosa
nell’etere, si
materializzarono al loro fianco.
«Stai
bene adesso,
Rose?» si premurò Luna, gli occhi puntati una
ventina di centimetri sopra la
testa dell’allieva.
«Sì,
mi sono
ristabilita completamente» assicurò Rose,
sprizzando ammirazione per la sua
responsabile.
«Avete
avuto molto
coraggio» li elogiò la Eeriemay.
«Davvero audaci. Anche troppo. Vi ricordo che
è vietato inoltrarsi nella foresta da soli.»
«Oltretutto,
vi
siete quasi fatti ammazzare» rimarcò deconcentrata
la Lovegood.
«Per
cui dobbiamo
mettervi in punizione, per domare la vostra
caparbietà» sciorinò la Eeriemay,
che non sembrava troppo dispiaciuta per la notizia che stava dando.
«E’
stata colpa mia»
proclamò Albus, alzando la mano. «Sono stato io a
scappare nella foresta. Gli
altri non c’entrano.»
La Eeriemay
sorrise
quasi materna, racchiudendo con una mano il mento dolce del ragazzino.
«Questo
è molto
carino, da parte tua. Ma inutile» la seconda parte fu
proferita con singolare
sadismo. «Dovete essere puniti.»
Scorpius attese
con
aria rassegnata, Macauley incrociò le braccia seccato, Albus
tormentò le dita
per l’imbarazzo, e Rose mostrò stoicismo nel
prepararsi al castigo.
«Rose
Weasley dovrà
aiutare la professoressa Lovegood a sistemare i tomi della biblioteca.
Vero,
Luna? Luna, zuccherino?» la richiamò la Eeriemay
sbattendo le ciglia annerite
dal mascara: la responsabile di Ravenclaw
si era di nuovo persa a fissare l’infinito multiverso attorno
a lei.
«Sì, proprio
così» confermò la donna,
avviandosi ondeggiando verso l’uscita della Sala.
Rose si
impegnò a
mostrare contrizione, nonostante la sua anima stesse spargendo
coriandoli di
felicità: interi pomeriggi in biblioteca in compagnia della
sua professoressa
preferita. Davvero una punizione intollerabile!
«Scorpius
Malfoy e
Albus Severus Potter dovranno aiutare il professor Achill Scholz nei
suoi
esperimenti» seguitò la Eeriemay.
«Che
genere di
esperimenti?» si impensierì Scorpius.
«Vi ha
già fatto
evocare un pesce contro un golem?» al cenno affermativo, la
docente flautò: «Allora
siete preparati a ciò che vi attende.»
Albus
scoccò uno
sguardo impaurito da sotto la frangia corvina, e due occhi grigi
risposero con
la medesima preoccupazione. Scholz li avrebbe portati in
prossimità della
tomba, o ce li avrebbe direttamente scagliati dentro; dipendeva da
quanto si
sentisse permissivo il professore.
«Macauley
Nott,
invece, dovrà aiutare la nostra dottoressa a pulire e
disinfettare l’infermeria.
È la persona più adatta, direi» lo
lodò la Eeriemay, con un sorrisetto lezioso.
«E ora potete andare.»
La professoressa
osservò i ragazzi che si allontanavano chi perplesso, chi
festante, chi
angosciato: si erano impegnati a fondo per trovare dei
“castighi” che si
confacessero alle loro preferenze. In fondo, avevano dimostrato una
coesione di
gruppo notevole per dei ragazzi del primo anno, e dovevano essere
premiati,
sebbene avessero infranto le regole.
La sua
momentanea
serenità venne interrotta da Achill Scholz, che le si
avvicinò con il volto
incupito da pensieri plumbei. La cicatrice che sfregiava il viso
dell’uomo si
incartapecorì per l’espressione corrucciata.
«Abbiamo
risultati
di analisi» comunicò, ombroso.
La donna si
voltò,
arricciando le labbra con cordoglio.
«Non
hanno
identificato bestia» ringhiò con voce metallica.
«Come
è possibile?»
boccheggiò la Eeriemay.
«E’
come se lui
fosse bestia nuova, mai vista.»
«Ma
questo è
impossibile!»
«Ja» l’affermazione di
Scholz cadde pesante
come una pietra dalle labbra dure dell’uomo. «Per
questo noi pensa che sia…
nuova creazione magica.»
Il ribrezzo
sgranò
gli occhi della donna.
«Chi
mai
concepirebbe una simile… mostruosità?»
«Forse
creazione
riuscita male. O magia segreta usata senza conoscere tabù o
rituali. Comunque…
c’è qualcosa di molto strano in quella
bestia.»
I tacchi della
Eeriemay echeggiarono discreti mentre la donna si accostava ad una
maestosa
finestra.
«Ne
parlerò con mia
zia. Probabilmente dovremmo rafforzare la sorveglianza. Senza che gli
studenti
se ne accorgano, per non diffondere il panico. Qualunque cosa ci sia
là fuori,
non deve sapere che noi siamo al corrente della sua
esistenza.»
«Lei o
lui sa già»
ragliò Achill, con fare militare. «Noi
abbiamo ucciso sua creatura. Lui sa.»
«Sa
solo che un
mostro si è introdotto nel nostro territorio, e noi ci siamo
difesi» lo
contraddisse la donna.
«In
guerra è meglio
eccedere in prudenza» replicò Achill.
«Non
siamo in
guerra.»
«Lei
è sicura che
no, signorina Eeriemay?»
Il tono aspro e
marziale dell’uomo la mise in agitazione. No, non era sicura.
Ma era passato
così poco da quando Voldemort se ne era andato, e pensare ad
un nuovo
conflitto…
«Prenderemo
le
misure necessarie, Achill. Ne parleremo stasera»
decretò infine.
L’uomo
marciò
spedito fuori dalla stanza, lasciandola sola con i suoi pensieri.
Le unghie ben
curate della donna sfregarono appena contro il vetro.
Avrebbe
protetto quel posto con tutte le sue energie. Era la
scuola cui sua zia aveva dedicato tutta la propria vita, e non avrebbe
vanificato i suoi sforzi.
Tuttavia
non poteva fare a meno di augurarsi che i loro
timori fossero infondati, e che quella bestia fosse semplicemente
un’anomalia
naturale e non un artificio da laboratorio.
Sospirò,
abbandonando a sua volta l’atrio.
Le
nubi si addensarono sul soffitto della Sala Principale;
il loro colore mortuario riempì la stanza, e il cupo eco dei
tuoni risuonò come
tamburi di guerra.
Sì,
qualcosa era in arrivo.
Ma
non quel giorno, né quell’anno.
Hogwarts
sarebbe rimasta un’oasi di pace.
Per
qualche tempo ancora.
***
L’odore
del the si
spandeva in tutta la cucina, annidandosi nelle sezioni in legno delle
pareti.
Il
ragazzo contò le foglioline che galleggiavano
nell’infuso
ambrato: avrebbe divinato sulla loro posizione una volta finito il the.
La porta
scorrevole
si aprì, ed un uomo argentato dalla vecchiaia si sedette a
gambe incrociate sul
tatami di fronte al piccolo.
«Nonno»
lo salutò
il giovane. Sistemò la ciotola finemente decorata sul
tavolino basso, poggiò le
mani sulla stuoia e vi avvicinò la fronte in segno di
rispetto.
«Il
Consiglio ha
deciso, Haru» annunciò benevolo
l’anziano, invitandolo con la mano a rialzarsi.
Il
piccolo rialzò la schiena con impeccabile compostezza,
poggiando le dita sulla stoffa del kimono
che gli fasciava le gambe inginocchiate.
«Tra
due anni,
quando avrai completato i tuoi studi, frequenterai una scuola
occidentale. I
dettagli della missione ti verranno forniti al prossimo
Consiglio.»
«Avrò
l’onore di
partecipare al Consiglio?»
L’uomo
annuì con il
capo, solenne.
«Avete
già deciso
quale sarà la mia meta?» domandò il
giovane, con profonda umiltà.
L’anziano
lisciò la
lunga barba canuta, fingendo raccoglimento.
«Sì,
Haru, abbiamo
deciso. E’ una scuola inglese. Si chiama Hogwarts.»
E
dal prossimo capitolo... quarto anno<3<3<3
Grazie
a tutti<3
|
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Capitolo 5 *** Lo studente giapponese ***
Parte
Due – Quarto Anno
1
Lo
studente giapponese
L’acqua nel bollitore borbottò
allegramente,
e Ginny spense il fornello prima che debordasse
«La
colazione è
pronta» avvisò, attendendo in risposta il rombo
degli affamati in corsa.
James
fu il primo ad occupare il proprio posto, seguito a
ruota dal padre e dalla sorellina, Lily Luna.
Ginny
osservò il quadretto familiare mentre metteva in
infusione le foglie di the nell’acqua bollente.
Le
sembrava passato un solo giorno da quando aveva
accompagnato l’undicenne James al binario nove e tre quarti.
E ora, invece, si
trovava a fissare un mago agitato per gli esami del quinto anno e una
frizzante
tredicenne che non vedeva l’ora di ricongiungersi con le
amiche di Griffindor.
«Non
hai chiamato
tuo fratello?» domandò a James, porgendogli il
piatto con i toast caldi.
«L’ho
fatto, ma non
ha risposto» replicò il maggiore con
un’alzata di spalle.
Una nuvoletta di
esasperazione fuoriuscì dalla labbra di Ginny. Non dubitava
dell’affetto che
James nutriva per i fratellini minori; tuttavia, sarebbe stato gradito
che lo
dimostrasse non solo in circostanze estreme.
«Vado
a chiamarlo»
sentenziò, avviandosi sulle scale a chiocciola che portavano
al piano superiore
dove dormivano i figli.
Bussò
tre volte alla porta di Albus e, pur non ottenendo
risposta, entrò.
Il
ragazzo stava seduto sul letto, perfettamente pulito e
vestito, e osservava una scatola di metallo con aria sognante.
«La
colazione è
pronta» notificò Ginny. Albus guizzò
sul letto come un animale spaventato da
uno sparo, e gli occhi tornarono ad una dimensione normale solo dopo
aver
riconosciuto la madre.
«Mamma,
mi hai
fatto paura» protestò, richiudendo di scatto la
scatola.
«Ho
bussato» replicò
lei. Si avvicinò al letto e si mise a sedere accanto al
figlio. «C’è qualcosa
che non va?»
«Perché
me lo
chiedi?» si difese Albus, nascondendo il forziere di metallo
dietro la schiena.
«Non
so cosa tu
tenga in quella scatola, ma ogni volta che la tiri fuori sei turbato,
in
qualche modo» picchiettò affettuosamente il naso
del figlio quando questo la
guardò come se si chiedesse quale stregoneria avesse
utilizzato. «Una madre sa
queste cose, anche senza la magia.»
Albus
camuffò
comunque il contenitore metallizzato prima di borbottare:
«Non
so bene come
prendere questa storia dello scambio culturale.»
Ginny
annuì, e
attese che il figlio proseguisse. Alla fine del terzo anno, la
McGranitt aveva
annunciato agli studenti che, all’inizio del semestre
seguente, Hogwarts
avrebbe ospitato il primo progetto interculturale tra le varie correnti
magiche. I nominativi degli studenti esteri che avrebbero popolato la
scuola
non erano ancora stati divulgati, ma si vociferava che tra di essi
figurassero
i figli del noto Victor Krum e un ragazzo proveniente addirittura dal
Giappone.
«E
poi… quest’anno
sono stato promosso a Cercatore, quindi Bartold Scholz
pretenderà moltissimo…»
continuò, girando le dita per il nervosismo.
Ginny sorrise
compiaciuta. Albus non aveva avuto un percorso sfavillante nel
Quidditch come
il padre, ma si era comunque distinto: era stato arruolato al secondo
anno, e
aveva partecipato come Giocatore fino al terzo, quando era giunta la
notizia
della sua promozione. Scorpius, il precedente Cercatore, aveva chiesto
di diventare
Battitore, ed era stato prontamente accontentato. L’altro suo
amico, Nott, si
era rifiutato di avere un qualunque ruolo nella squadra: troppi germi e
troppa
sporcizia.
«Hai
paura di non essere all’altezza
delle aspettative?» chiese gentilmente Ginny, sporgendosi per
accarezzargli la
testa: adorava passargli le mani nei capelli da quando aveva deciso di
lasciarli crescere un pochino di più rispetto al solito. Le
punte più lunghe
arrivavano a sfiorargli il collo, e tutto il resto della capigliatura
era
scalato sulla nuca: Ginny si divertiva un mondo a scompigliargli i
ciuffi più
corti e lisciargli quelli più lunghi.
«No, è che… mi sembrano
troppe cose tutte insieme» bofonchiò,
sottraendosi alle coccole materne: se permetteva a sua madre di
gingillarsi
troppo con i suoi capelli, si sarebbe ritrovato ad assomigliare ad un
porcospino.
«Allora cerca di affrontarle una alla volta.
Oppure fatti aiutare dai
tuoi amici» lo consigliò la donna, vendicandosi
per l’interruzione delle moine
con un abbraccio a tradimento. «Da Rose, da Macauley. E da
Scorpius.»
Ginny
represse a stento una risata: era stata una vera festa
quando le famiglie Potter, Malfoy e Weasley si erano ritrovate per la
prima
volta sotto lo stesso tetto per scambiarsi gli auguri di Natale, due
anni
prima. James si era chiuso in un mutismo pressoché totale,
Scorpius, Albus e
Rose avevano chiacchierato tranquillamente, raggiunti da Lily, troppo
piccola
per percepire la tensione circostante. Le donne di casa si erano sedute
ad un
tavolo per discutere degli argomenti più disparati, mentre
gli uomini avevano
preso posto sul divano, scambiandosi convenevoli più o meno
minacciosi.
Le
famiglie erano uscite indenni da quell’esperienza e da
tutti i ritrovi successivi per le varie festività e per le
vacanze estive: gli
ostacoli maggiori si trovavano sul fronte maschile adulto, nonostante
tutti
quanti avessero la maturità necessaria ad essere perlomeno
civili. Le donne si
erano presto ritrovate a fare salotto con serenità, e i
ragazzi non avevano
avuto grossi problemi a fraternizzare: perfino James, dopo molte
resistenze,
aveva concesso l’onore di risposte monosillabiche agli altri
allievi di
Hogwarts.
Era
quasi ironico che il figlio di Malfoy fosse diventato il
miglior amico del suo Albus. Forse era vero che, da qualche parte,
esisteva una
sorta di karma.
«Non
sei solo,
Albus. E se Rose sapesse che ti stai mettendo tanti problemi, ti
colpirebbe con
un quaderno» lo mise in guardia Ginny.
Albus
si lasciò sfuggire il gorgoglio di un ghigno. Sua
madre era troppo legata all’immagine della Rose infante,
piccola e indifesa: la
cugina lo avrebbe seppellito con l’enciclopedia, se avesse
saputo quali dubbi
lo agitavano.
«Grazie,
mamma.
Dammi un minuto e scendo per la colazione» la
congedò Albus, sciogliendo l’abbraccio.
Ginny
gli scoccò uno sguardo colmo di affetto, prima di
alzarsi dal letto e uscire dalla stanza. Così il figlio
poté estrarre
nuovamente la scatola di metallo e accarezzarla con gli occhi.
Dunque
sua madre aveva notato il suo forziere dei tesori. Ma
non lo aveva aperto. E non avrebbe dovuto farlo mai.
Non
avrebbe proprio saputo come spiegarle la quantità
industriale di pezzetti di confezioni di Torte della Strega presenti
lì dentro,
tutte legate a ricordi con Scorpius, o l’involucro del
Cioccorno, il primo
dolce che avesse mangiato con quello che sarebbe diventato il suo
migliore
amico. O la cartina dei cioccolatini babbani che Scorpius gli aveva
passato
nelle serate in cui si intrufolava nel suo letto per chiacchierare dopo
lo
spegnimento delle luci.
Inarcò
un sopracciglio, perplesso e accigliato. Possibile
che tutti i suoi tesori fossero collegati a Scorpius e al cibo?
Nascose
di nuovo il forziere nel comodino. Quell’anno si
sarebbe impegnato a collezionarne altri per variare un pochino la sua
raccolta.
Stirò
i muscoli delle braccia e si osservò allo specchio. Un
quattordicenne spettinato ricambiò la sua occhiata; la
frangia si era allungata
troppo, e quasi copriva il verde degli occhi. Soffiò su un
ciuffo corvino per
sollevarlo: avrebbe chiesto a sua madre di sfoltirla un po’.
Con tutta la
pratica che aveva fatto sforbiciando i capelli dei numerosi fratelli
quando
ancora non era sposata, Ginny Weasley era ormai una parrucchiera
provetta.
Da
quando era entrato nella squadra di Quidditch, il suo fisico
si era vagamente irrobustito: le braccia non sembravano più
due ramoscelli
secchi e il torace si era distanziato dalle dimensioni di un tronchetto
smilzo.
Era comunque visibile la natura ineluttabilmente snella della sua
muscolatura,
ben diversa da quella più scolpita di Scorpius; il suo
fisico erbaceo non
sarebbe mai diventato roccioso.
Scompigliò
ulteriormente i capelli nel goffo tentativo di
pettinarli.
Con
sua grande soddisfazione, era cresciuto in altezza: era
sicuro che, entro i sedici anni, James avrebbe smesso di canzonarlo per
la sua
statura gnomica.
Sistemò
meglio l’ampia camicia che portava aperta sulla
maglia a maniche lunghe, e strinse di un buco la cintura dei jeans, che
minacciavano di raggiungere le caviglie.
Uscì
dalla stanza e
raggiunse in fretta la famiglia riunita al tavolo.
Avrebbe
aspettato
di raggiungere il treno per parlare agli altri delle sue preoccupazioni.
Per
il momento, voleva pensare solo al the caldo e ai
biscotti che lo aspettavano.
***
«Tua
madre vuole
ucciderti, ammettilo.»
«Cosa
te lo fa
pensare?»
«Il
fatto che ogni
anno cerchi di spezzarti la schiena con dei bauli alti il doppio di te
e
pesanti il quadruplo.»
Albus
scostò un
ciuffo di frangia carbone per scoccare un’occhiata in tralice
a Macauley.
«Zia
Ginny esprime
il suo amore riempiendolo di cianfrusaglie indispensabili» lo
corresse Rose,
sbucando a lato della mastodontica valigia.
«E zia
Hermione?»
controbatté Albus, fissando il pratico trolley della cugina.
«Mia
mamma possiede
una ferrea razionalità che filtra
l’affetto» si vantò lei, gonfiando il
petto
sotto la maglia.
«Vuoi
dire che mia
madre non è razionale?» sbuffò. Per un
attimo pensò di risolvere il problema
del bagaglio spingendolo a spallate, ma preferì ricominciare
a trainarlo per il
manico: non voleva che gli studenti del primo anno lo scambiassero per
un
incrocio tra un umano e un minotauro.
La porta dello
scompartimento si aprì, e ne emerse Scorpius, che li aveva
preceduti per
cercare una cabina libera.
«Ho
trovato quattro
posti» annunciò, non del tutto certo di aver
riportato una vittoria.
«E
qual è il
problema?» chiese Rose, cui non sfuggì la nota di
incertezza in sottofondo.
«Non
saremo soli»
li avvertì Scorpius, afferrando il secondo manico del baule
malefico. «C’è lo
studente giapponese.»
Albus e Rose
accettarono tranquillamente la novità; Nott, da regina
melodrammatica qual era,
roteò gli occhi al cielo e si lamentò
vistosamente:
«In
Asia ci sono
fin troppe malattie che la nostra medicina non può
curare.»
«Davvero?»
si
sorprese Abus.
«No
che non è
vero!» replicò Rose, in coda al corteo.
«Dovresti
avere
imparato a non dare ascolto a Macauley. Secondo lui, potrebbe ucciderti
anche
un pomello della porta mal lucidato» aggiunse Scorpius,
indicando lo
scompartimento poco più avanti.
«Potrebbe,
se prima
di te l’ha toccata un Troll Pestilenziale»
s’impermalì Nott, innalzando la
mascherina a scudo. Aveva evitato di indossarla per tutta
l’estate, fomentando
la speranza che le sue manie stessero pian piano scemando; ma,
finché nel mondo
avessero proliferato i germi, Macauley Nott avrebbe innalzato i suoi
scudi
ipoallergenici. «Ballerò a debita distanza dai
vostri cadaveri sconquassati
dalla Febbre del Drago Giallo» profetizzò,
catastrofico.
La
cura con cui Macauley si schierava contro i batteri
perfino nel parlare era ossessiva: bastava citare la sua rivisitazione
del
vecchio “ballerò sui vostri cadaveri”
per averne conferma.
«Esiste
una
malattia simile?» bisbigliò Albus.
«Se
esiste, non
penso che sarà il ragazzo giapponese ad
attaccartela» lo rassicurò Scorpius,
aprendo lo sportello. Il baule di Albus decise di giocare uno scherzo
malevolo
al gruppo, e si incastrò con tutta la sua prepotente mole
nel bel mezzo della
porta, per cui il quartetto fu costretto ad uno strano percorso
militare per
entrare nell’abitacolo: Scorpius fu il primo ad allungarsi
per superare il
baule, e aiutò Albus a fare lo stesso, sostenendolo per le
braccia mentre il
traballante amico superava l’ostacolo. Furono entrambi
costretti ad aiutare
Nott, il quale aveva la pretesa di scavalcare il bagaglio senza toccare
nulla
del mondo circostante; Rose oltrepassò la valigia con
un’eleganza vagamente
derisoria nei confronti dei goffi approcci dei suoi tre compagni,
ancora impegnati
a disincastrare Nott dal pasticcio in cui si era infilato.
Albus
riuscì a
riemergere dagli scarlatti abissi dell’imbarazzo solo dopo
lunghi secondi di
contemplazione del pavimento: il nuovo arrivato doveva averli scambiati
per un
gruppo di trafelati scriteriati con impedimenti motori.
«Posso
aiutarvi?»
La proposta non
era
colorita di derisione, e nemmeno opacizzata dalla pietà, per
questo lo sorprese
al punto da non riuscire a rispondere subito. Chiunque,
nell’assistere al
teatrino di prima, sarebbe scoppiato a ridere a crepapelle o avrebbe
commiserato la scarsa destrezza di Nott. Mise un foglietto di carta per
segnare
la pagina, chiuse il libro che stava leggendo e guardò nella
loro direzione:
queste furono le reazioni del nuovo studente, tutte compiute con una
dignità e
compostezza inconsuete in un ragazzo di quattordici anni.
Il giovane non
vacillò minimamente sotto lo sguardo di Albus, e si
lasciò studiare con
condiscendenza.
Quel
ragazzo era l’incarnazione della guerra tra la cultura
orientale e occidentale: i capelli ebano scendevano in una lunga coda
tra le
scapole e in una frangetta scalata sulla fronte liscia. Lo stesso
colore
intenso subissava le iridi riservate, protette dai sobri occhiali
rettangolari.
L’incarnato era una fusione tra il colorito giapponese e il
tipico pallore
inglese, una tinta particolare come i lineamenti che colorava: gli
zigomi
paffuti delle terre asiatiche dimagrivano in una guancia quasi ovale,
che si
concludeva con un mento morbido e un pallido sorriso di circostanza,
né troppo
sfacciato né troppo disinteressato.
I
jeans e le scarpe da ginnastica erano uguali a quelle
indossate da qualunque studente di Hogwarts, ma la maglia sovrastante
lo faceva
spiccare come un rubino in mezzo alla neve: era una reinvenzione del
tradizionale kimono, e compensava
l’esoticità lacunosa delle sue fattezze miste. A
giudicare dalla lucentezza del
tessuto, le maniche ampie e lo scollo sovrapposto dovevano essere stati
realizzati con una seta porpora; i lembi incrociati della maglia erano
tenuti
fermi da una sottile cintura di stoffa nera, e i grossi grani di un
braccialetto scuro deformavano il bordo della manica destra.
«Mi
sono espresso
male?» domandò. Il giovane possedeva chiaramente
una solida base grammaticale,
vista la scioltezza con cui parlava un idioma straniero, nonostante la
sua
pronuncia ancora impastata di oriente. Per gli Scholz sarebbe stato un
duro
colpo vedere un simile ragazzino parlare l’inglese con una
dizione migliore
della loro.
«Se
riesci a
smuovere quel brontosauro…» salmodiò
Nott, indicando la voluminosa valigia. «…
te ne saremo eternamente grati.»
Il
libro venne quietamente appoggiato sul sedile, e il
giovane fluì verso di
loro. Fu quella
l’impressione che diedero i suoi movimenti, più
simili a quelli di un fiume che
a quelli di un essere umano per scioltezza.
Il ragazzo si
chinò
ad afferrare uno dei due manici. Macauley pensò che il peso
esagerato del baule
avrebbe staccato con ferocia quel braccino minuto che tentava di
sollevarlo:
invece l’asiatico e Scorpius riuscirono a rimorchiare la
valigia all’interno
dello scompartimento e a richiudere la porta.
«Grazie»
trillò
Albus, aggirando il mastodonte per potersi sedere.
Il
ragazzo si schermì con un velocissimo cenno del capo,
riprese posto e si isolò nuovamente dietro il libro.
Seguirono
alcuni secondi di silenzio indigesto, mentre tutti
si chiedevano, chi con disagio e chi con irritazione, se fosse meglio
lasciare
il giapponese nel suo isolazionismo o se fosse preferibile un approccio
diplomatico.
Rose, che era
capitata a sedere vicino al nuovo arrivato poiché i maschi
avevano occupato in
una frazione di secondo le poltroncine sul lato opposto,
gettò un’occhiata agli
strani caratteri che il giovane leggeva con aria assorta.
«Sono
ideogrammi,
vero?» arrischiò una domanda retorica, per rompere
il ghiaccio.
«Kanji» telegrafò
l’altro, calamitato dal
racconto.
«Come?»
La seconda
domanda
riuscì a scollare occhi e occhiali del ragazzo dal volume.
«Non
sono
ideogrammi generici. Sono kanji»
spiegò il giovane, pacificamente vanesio. «Kanji,
hiragana e katakana,
per essere precisi.»
«Non
sono comunque
ideogrammi?» ribatté Rose, che non gradiva essere
ripresa.
Una
folata di denigrazione spirò sotto l’inappuntabile
compostezza, impercettibile come l’onda del mare sotto uno
strato di ghiaccio.
«I
caratteri
giapponesi si chiamano kanji,
quelli
cinesi hanzu» espose il
giovane.
«Ideogramma è un termine troppo generico. Potrebbe
comprendere questi e mille
altri alfabeti, come quello degli antichi egizi.»
«Quelli
erano
geroglifici» lo sfidò lei.
«Che
rientrano
comunque nella categoria» e, prima che la ragazza potesse
aggiungere altro, il
giapponese la bruciò: «Con ideogramma si intende
un segno grafico, o
significante, che corrisponde ad un concetto, o significato: quindi,
anche i
geroglifici egiziani posso rientrare in questo insieme. Perfino i
pittogrammi sumeri»
il ragazzo riaprì il libro, molesto e tranquillo:
«E nessuna di queste lingue
assomiglia all’altra.»
«Credevo
che cinese
e giapponese fossero la stessa cosa» meditò tra
sé Nott. A voce non
sufficientemente bassa da non essere udito dalle orecchie del giovane.
«Sono
due lingue completamente
differenti» garantì il
ragazzo, con il risentimento coagulato di chi ha fatto lo stesso
sermone mille
volte.
«Ma
hanno lo stesso
alfabeto, no?»
Il libro si
chiuse
con un colpo secco a quell’ennesima semplificazione
così tipicamente colonialista.
«L’inglese,
l’italiano e il tedesco hanno lo stesso alfabeto. Pensi che
bastino le stesse
lettere per rendere uguali le lingue?»
«No…»
«Ti
sei risposto da
solo» concluse il ragazzo, aprendo per l’ennesima
volta il tomo.
«Cosa
stai
leggendo?» soccorse Albus, per tamponare il nervosismo
sanguinante dalla cugina
e dall’amico.
Gli occhi scuri
lo
scrutarono da dietro le lenti, e solo dopo qualche istante le labbra si
mossero
per proferire:
«Una
raccolta di
racconti tradizionali.»
«Quello
che stai
leggendo ora di cosa parla?» continuò Albus, con
la disperazione di un medico
che pratica il massaggio cardiaco.
«E’
la favola della
gru» decise di rispondere il giovane, dopo essersi concesso
il solito secondo
di meditazione. «Una storia d’amore tra un ragazzo
povero e una gru innamorata
di lui.»
«Finisce
bene?» lo
tampinò il minore dei Potter.
«Lei
lo aiuta a
diventare ricco, ma lui infrange la promessa che si erano scambiati, e
lei è
costretta ad abbandonarlo» sintetizzò
l’asiatico.
«Che
allegria. In
Giappone vi ammazzate di risate» commentò caustico
Nott, ancora offeso per
l’attacco di prima.
«Credo
che
Shakespeare sia nato in Inghilterra, giusto?» si difese con
falsa modestia il
ragazzo. «Le sue opere più famose sono tutte
tragedie tra le più rovinose.
Anche in Inghilterra vi date alla pazza gioia, presumo.»
«Come
ti chiami?»
Albus si sbracciò davanti a Nott, che era pronto a partire
con una
coloritissima invettiva, a costo di diventare paonazzo e abbassare le
sue
difese immunitarie per quello.
«Non
mi sono ancora
presentato?» si stupì il giovane. Il libro venne
nuovamente messo da parte.
«Perdonate la scortesia.»
Nott
rimbrottò qualcosa di molto insolente a denti stretti,
che venne arrestato in uno sbuffo quando Albus gli assestò
una gomitata tra le
costole.
«Venduto
al nemico»
sibilò indispettito Macauley, sollevando la mascherina per
disprezzo.
«Oda
Harunobu
Kurisumasu» annunciò il giovane.
«Haru-cosa?»
«Kuri-cosa?»
esclamarono all’unisono Scorpius e Albus.
«Potete
chiamarmi
per cognome. Oda» semplificò il giapponese.
«Io
credo che ti
chiamerò per nome. Harunobu»
s’incaponì Rose.
«Se
vuoi chiamarmi
per nome, preferisco Haru» le consigliò
l’asiatico. Alla ragazza non sfuggì
l’istantaneo tremito del sopracciglio del giovane nel sentir
pronunciare il suo
nome completo. Dunque non gli piaceva che gli altri lo chiamassero in
quel
modo.
«Non
mi
convincerai, Harunobu»
ribadì Rose,
assaporando la vendetta nel vedere il sopracciglio sinistro scattare di
nuovo.
«Posso
sapere il
tuo nome?» chiese Haru, piazzando con forza gli occhiali
sulla radice del naso.
«Rose
Weasley»
comunicò la ragazza.
«D’accordo
Weasley-san…» Haru fece per passare agli altri, ma
lei lo stoppò.
«Mi
chiamo Rose»
rimarcò.
«Ti
chiami Rose
Weasley, Weasley-san» si
giustificò
Haru, l’eco di un sorrisetto beffardo che evaporava sulle
labbra.
Rose
segnò mentalmente quel tipo nell’elenco dei suoi
rivali.
Era
un onore essere segnati sulla lista nera della ragazza,
poiché davvero poche persone sul globo potevano garantirle
una soddisfacente
gara di cervelli. C’era stata la statua a forma di aquila che
poneva i suoi
indovinelli ai ragazzi di Ravenclaw.
Ogni volta l’enigma cambiava, e i poveri studenti passavano
interi minuti a
lambiccarsi il cervello per entrare nel dormitorio: l’aquila
di granito non
permetteva il passaggio finché non si trovava la soluzione
al suo quesito.
Rose, per la mole industriale di libri che leggeva e per la sua innata
intuizione, scioglieva i dilemmi in tempi assurdamente brevi tanto che
la
statua, ormai, la faceva passare senza nemmeno interrogarla. E
così era stata
depennata dalla lista dei rivali.
Ma
Harunobu sembrava più tenace, più preparato e
più
subdolo. Per quanto si atteggiasse a bravo ragazzo, era chiaro che
nascondeva
qualcosa, proprio come Scorpius al primo anno. Era certa che, durante
la loro
permanenza ad Hogwarts, quelle non sarebbero state le uniche
schermaglie. E non
aveva intenzione di perdere.
«Macauley
Nott»
ringhiò il ragazzo da dietro la mascherina.
«Sei
raffreddato?»
domandò Haru.
«No»
sbottò Nott.
Il giapponese
alzò
di nuovo il sopracciglio sinistro, ma non si espresse ulteriormente.
Una
ragazzina polemica con un incendio nei capelli e un tizio con la
mascherina
saldata al viso. E gli altri due sarebbero sembrati normali, se non li
avesse
visti sbuffare su una valigia più grande di loro. Curioso paese,
l’Inghilterra.
«Piacere
di
conoscerti, Nott-san.»
«Macauley»
sillabò inviperito il giovane.
«Non
credo che
riuscirei a chiamarti per nome, Nott-san. Va contro la mia
educazione» si
dispiacque Haru.
«Allora
non
aspettarti risposta» starnazzò Macauley, schivando
la seconda gomitata di
Albus.
Le seguenti
presentazioni furono serene, senza scontri o risposte sferzanti.
«Come
mai sei
venuto a Hogwarts?» chiese Rose. Fortunatamente, la ragazza
era abbastanza
matura da mettere da parte il malumore in nome del quieto vivere. Al
contrario
di Nott, fumante dietro la mascherina.
«Sono
stato
invitato per lo scambio culturale» minimizzò Haru,
tentando di riprendere in
mano il tomo che stava leggendo.
«Strano»
Rose
sollevò il mento esattamente come faceva zia Hermione un
secondo prima di scagliare
l’arringa finale in tribunale. «La professoressa
Lovegood, l’anno scorso, mi
aveva detto che uno studente sarebbe arrivato grazie ad una prestigiosa
borsa
di studio, che gli avrebbe permesso di rimanere oltre
i tempi dello scambio.»
Gli
occhi di Haru erano scuri come una notte senza stelle;
eppure, per un attimo, nelle sue iridi Albus intravide lo scintillio
del
ghiaccio mentre si voltava in direzione della cugina.
«Non
è detto che
questo studente sia io» insinuò il giapponese.
«So
che gli esami per
quella borsa di studio sono durissimi. Ma tu sembri abbastanza istruito
per
farcela» il tono di Rose fu talmente duro che nessuno avrebbe
potuto prendere
quelle parole per un complimento. Tuttavia, l’asiatico
sfoderò una classe
impeccabile nel rispondere:
«Ti
ringrazio per
la fiducia, Weasley-san.»
«Non
è fiducia.
Solo una constatazione.»
«Sono
certo che i
professori di Hogwarts sapranno spiegarvi la situazione meglio di
me» asserì
Haru.
«Per
fortuna siamo
quasi arrivati» sbuffò Nott, imbufalito.
«Il tempo vola quando ci
si diverte.»
Haru si
ritirò di
nuovo dietro le pagine del volume e, questa volta, nessuno
cercò di
dissuaderlo.
Le
uniche parole che strisciarono fuori dalle labbra del
giapponese, poco prima che il treno si arrestasse, furono:
«Sarà
divertente la
vita ad Hufflepuff.»
***
«Quel
tipo non mi
piace.»
«Lo
dicevi anche di
Scorpius.»
«Questo
tipo mi
piace ancora di meno.»
Daiyu Lee
annuì
benevola, ascoltando le lamentele di Rose.
«Voglio
dire, è
inquietante. Come poteva sapere di essere assegnato ad Hufflepuff?»
s’impuntò la giovane.
«Magari
conosceva
le caratteristiche della Casa e ha tratto la conclusione più
logica…»
«Quel
tipo e le
caratteristiche di Hufflepuff sono
diversi come una Viverna e una Puffola Pigmea» la
smontò Rose.
«Magari
ha avuto
fortuna» tentò nuovamente Daiyu.
«Si
tratta di un
chiaro caso di premeditazione. Anche se non capisco come abbia
fatto» rimuginò
l’altra.
«Forse
la stai
prendendo un po’ troppo male…»
cercò di calmarla la ragazza cinese.
«Quando
è andato
verso la tavolata degli Hufflepuff
mi
ha detto: “come previsto, Weasley-san”»
si arrabbiò Rose. «Odio quel
nomignolo.»
«E’
solo una forma
di cortesia» sdrammatizzò la compagna.
«Detta
da lui,
sembra sarcasmo.»
Daiyu
desistette dall’intento di farle cambiare idea: Rose
era una ragazza brillante, intelligente e accorta, ma quando si
arrabbiava
diventava più ostile e testarda di un mulo.
Lasciò
quindi che l’amica sbollisse la rabbia sulla zuppa
servita a cena, e cercò di godersi la prima serata a
Hogwarts.
Avrebbero
apprezzato molto di più quella serenità se
avessero previsto l’arrivo ormai prossimo della tempesta.
Ma
nessuno lo fece, e risate e allegria continuarono a
divampare nella scoppiettante Sala Comune.
***
«E’
quello, zia
Minnie?»
«E’
lui. E sai
quanto aborro quel soprannome.»
La Eeriemay non
prestò attenzione al rimprovero della preside, e si
concentrò sulla filiforme
figuretta asiatica che sedeva al tavolo degli Hufflepuff.
«Non
sembra il genio
che dicono» commentò, conscia di essere villana.
«Le
apparenze
ingannano» la redarguì la McGranitt. «La
voce non deve trapelare tra gli
studenti. Rivolgetevi a lui come se fosse un normale alunno.»
«E lui
accetterà di
recitare la parte del “normale alunno”?»
contestò la Eeriemay, fissando la
schiena del ragazzo sempre meno convinta. «Quando uno
è un genio e sa di
esserlo, di solito ha anche un ego smisurato.»
«Non
questo
ragazzo. Anche se può dare quell’impressione, a
prima vista» la McGranitt gustò
un lungo sorso dal suo calice e terminò:
«Più che vanità, le sue conoscenze gli
sfuggono di bocca, e per questo può apparire
superbo.»
«Non
mi piace
molto» lamentò la Eeriemay.
«Ti
abituerai,
Rebecca. Chiedi aiuto agli Scholz, se il ragazzo ti crea
problemi.»
La giovane donna
annuì, continuando a fissare il giapponese.
No,
quell’anno non sarebbe stato tranquillo.
Ma
non vi era necessità che gli studenti lo sapessero.
***
Albus
mugolò come
un cerbiatto ferito, massaggiandosi la fascia lombare.
Ogni
anno, ogni trecentosessantacinque giorni la sua schiena
veniva regolarmente spezzata dal peso della sua valigia. A costo di
sembrare
pazzo, l’indomani mattina sarebbe andato dal professore di
Incantesimi per
sapere se esistesse una magia in grado di annullare il peso degli
oggetti.
Qualcosa
di appuntito lo colpì direttamente sulla nuca, ed
il ragazzo esacerbò un gridolino risentito.
«Pomata»
notificò
Macauley, già arroccato al sicuro al secondo piano del letto
a castello. «Se
domani non vuoi svegliarti con la rigidità di un manico di
scopa, ti consiglio
di spalmartela.»
Albus
mormorò un ringraziamento, non troppo sentito
perché
il lancio micidiale di Nott gli era costato un bernoccolo.
I
cattivi pensieri nei confronti dell’amico si eclissarono
non appena il medicinale venne a contatto con la sua spina dorsale
infiammata:
disciplina farmaceutica e magica avevano trovato una perfetta fusione
in quella
mistura. In pochi secondi, perfino il ricordo del precedente
irrigidimento
scomparve. Chissà cosa avrebbero detto i Babbani se avessero
saputo che i maghi
del settore medico utilizzavano le loro conoscenze per curare
reumatismi ed
ecchimosi, e non per sconfiggere draghi in duelli mozzafiato.
Sarebbero
rimasti delusi, probabilmente.
Restituì
il tubetto con un lancio a spiovente, abbastanza
alto da evitare un disastroso impatto con la faccia di Nott, secondo i
calcoli
di Albus. Non fu così: un angolo metallico ferì
Macauley sul naso, poco sopra
la punta.
Nei
pochi secondi che occorsero al minore dei Potter per
accorgersi del danno arrecato e chiedere scusa, Macauley si
armò di
disinfettante e acqua ossigenata, e procedette allo sterminio dei
batteri.
«La
prossima volta
ti lascerò morire nell’inferno
dell’acido lattico, Severus» ringhiò
l’oltremodo
irritata schiena di Nott.
Albus
si sentì vagamente rincuorato: lo aveva chiamato solo
con il secondo nome, non con il nome completo. L’odio di
Macauley sarebbe stato
spazzato via dal levar del sole.
Albus
spense la luce e si stese sul letto, ma non chiuse gli
occhi: sapeva che, di lì a poco, sarebbe giunto il segnale.
Ed
infatti, qualche minuto più tardi, il ticchettio di
un’unghia contro la sponda di metallo lo invitò a
salire.
Sgusciò
fuori dalle coperte e si arrampicò veloce al piano
superiore, disinvolto nei movimenti come l’abitudine gli
aveva insegnato ad
essere. Scorpius aveva già alzato le coperte, e Albus si
infilò sotto di esse
come in una tana.
Gli
occhi grigi del giovane scintillarono complici mente una
mano si inabissava sotto il cuscino per rivelare il tesoro celato
lì sotto.
«Quest’anno
papà mi
ha permesso di entrare da solo» disse, per spiegare la
scatola leggermente più
grossa delle precedenti.
«Sei
proprio
onesto» si complimentò Albus mentre
l’amico apriva il coperchio scarlatto.
«Chiunque altro avrebbe comprato una scatola grande almeno il
doppio.»
«Tu
avresti
comprato una scatola grande esattamente come quelle degli anni passati.
Sei
ancora più onesto di me» lo prese in giro
Scorpius, porgendogli la confezione.
I
due amici la alleggerirono festosamente di due
cioccolatini. Le braccia di Albus grondarono sul cuscino: il giovane
sembrava
disossarsi quando si perdeva nell’estasi del cacao. Da quando
aveva detto di
preferire il fondente, due anni prima, nei forzieri annuali di Scorpius
non
erano mai venuti a mancare i bocconcini amari che tanto lo deliziavano.
«Hai
la faccia da
oppio, quando mangi il cioccolato» notò
l’altro, sorridendo dell’innocenza
dell’amico.
Albus
batté le palpebre annebbiate, disorientato.
«La
cosa?» masticò,
impastando parole e residui di cacao.
«Faccia
da oppio»
ripeté Scorpius. Richiuse il bottino e lo nascose
nuovamente: lo avrebbero
consumato con calma nelle sere a seguire. «E’
l’espressione che fanno i neonati
dopo aver mangiato.»
«Da
quando ti sei
specializzato in lattanti?» Albus si rigirò sulla
schiena, intrecciando le mani
sullo stomaco appagato e fissando l’amico.
«Da
quando mia
madre ha saputo di aspettare un altro bambino»
sospirò Scorpius. Quell’estate
la madre aveva scoperto di essere incinta e alla notizia era seguito un
pomeriggio di festeggiamenti dei tre Serpeverde più uno,
come amavano definirsi
per irritare Rose: i quattro si erano riuniti nel giardino di casa
Potter, e
avevano celebrato la novità con una sgangherata partita a
Quidditch. «Legge
libri su libri su come prendersi cura dei poppanti. E dire che dovrebbe
essersi
già allenata con me» considerò con un
sogghigno, puntando il gomito sul
cuscino. «Ti sembra che una cosa del genere si addica a mia
madre?» Scorpius
scrollò la testa. «Gli ormoni sono
spaventosi.»
Albus
commentò facendo sfrecciare gli occhi altrove.
Preferiva non infierire confermando la stranezza della signora Malfoy:
l’aveva
conosciuta come una donna raffinata ed elegantemente distaccata dalle
preoccupazioni mortali. Era una delle rare persone che riusciva ad
essere quasi
aristocratica evitando il peso della boria. Non riusciva proprio ad
immaginarsi
quella signora eterea sprofondata su una poltrona a divorare manuali
per le
puerpere.
«Ma se
li legge e
basta…»
«Li
ripete» lo
freddò Scorpius, la voce tremolante di un sospiro
trattenuto. «Spesso.»
I polpastrelli
di
Albus tamburellarono tra di loro, indecisi. «E ha bisogno di
un pubblico per
ripeterli?»
«Insiste
per
spiegarmi le gioie della maternità» si dolse
Scorpius. «Suppongo che prima il
suo bersaglio preferito fosse mio padre.»
«Davvero?»
si stupì
Albus. Aveva difficoltà ad immaginare Lady Malfoy perdersi
nella lettura di
tomi didattici, ma l’idea che Draco Malfoy subisse
passivamente una mitragliata
di nozioni materne era quantomeno surreale.
«Lui
non me l’ha
confermato» ammise Scorpius. «Ma quando gli ho
chiesto di sostituirmi
nell’ascoltare la mamma, mi ha guardato. Ed era
un’occhiata molto
esplicativa.»
Albus
annuì, comprensivo. L’amore di Malfoy per la sua
famiglia doveva essere davvero smisurato per permettergli di superare
prove
così ardue.
Un sorrisetto
zampillò sulle labbra di Scorpius.
«Sei
proprio un
bambino in tutto, quando mangi. Ti sei sporcato»
notò, puntando il labbro
inferiore.
«Dove?»
domandò
Albus, sfregandosi la bocca con il dorso della mano.
«No,
più a destra…
no, così è troppo… un po’
meno…» Scorpius si stancò presto di
recitare la parte
del navigatore in corto circuito. «Non muoverti»
ordinò, fermo ma amichevole.
Sul
letto piovve un silenzio impacciato quando le dita di
Scorpius circondarono il polso dell’amico per scostargli la
mano dalle labbra.
Un imbarazzo immotivato gocciolò su Albus, acuendo ogni sua
percezione nervosa:
le coperte quasi gridarono anziché frusciare quando Scorpius
si alzò sulle
ginocchia per chinarsi su di lui, le dita ancora strette sul suo polso
per
tenere la mano lontana dal volto, e l’aria parve sfrigolare
mentre l’amico si
faceva più vicino. Si sentì doppiamente in
imbarazzo per il fatto stesso di
essere a disagio: avevano passato serate intere a chiacchierare su
quello
stesso letto, si spogliavano nello stesso spazio quando dovevano
giocare a
Quidditch e condividevano la stanza da anni. Ormai era abituato alla
presenza
di Scorpius come lo era a quella della sua stessa ombra. Non riusciva a
capire
perché tutto gli sembrasse in qualche modo fuori luogo,
né se il combustibile
che stava facendo marciare il suo cuore a velocità
raddoppiata fosse la vergogna
o un sentimento più insidioso che non voleva riconoscere.
Scorpius
stese una mano nella sua direzione, e il pollice
andò a premere sulle labbra di Albus, esattamente sopra la
macchia. Albus
resistette a stento all’impulso di retrocedere con uno
scatto: i suoi sensi
sovraccarichi lo tormentarono ad ogni minimo movimento del dito del
giovane, e
per il ragazzo fu davvero complicato resistere a
quell’assalto nervoso.
La
mano di Scorpius non lo abbandonò subito: il pollice
scivolò lento dal labbro al mento, e le dita si allungarono
a sfiorare la
guancia liscia. Le iridi verdi di Albus non erano abbastanza affilate
da
fendere l’oscurità e raggiungere gli occhi
dell’amico, così la sua espressione
rimase un mistero avviluppato dalle ombre della notte.
Scoprius si
scostò
di botto, come se un improvviso segnale fosse risuonato nella sua testa.
«Ora
sei pulito» lo
tranquillizzò, ritirandosi nella sua parte di materasso.
Albus
fece un cenno con il capo. Non osò parlare, insicuro
com’era della stabilità della sua voce: il cuore
non aveva ancora smesso di
pulsare, e temeva che quei battiti tumultuosi potessero risuonare nelle
sue
parole.
«Sono
un po’
stanco» comunicò Scorpius. Si stese sul fianco e
ricordò: «Domani le ragazze
verranno a farci il “catturone di inizio anno”:
dobbiamo essere freschi, se
vogliamo ribellarci.»
La
testa di Albus si mosse meccanicamente in un accenno, ma
il resto dei muscoli rimasero immobili.
«Se
vuoi rimanere
ancora un po’, per me non è un problema»
lo rassicurò Scorpius.
Entrambi i
ragazzi
si sistemarono sotto le coltri: il primogenito dei Malfoy si
girò su un fianco
per addormentarsi e Albus rimase fermo, in attesa che i suoi muscoli
tornassero
ad uno stadio solido.
Era
stato uno sfioramento, e si era verificato solo perché
lui non aveva la galanteria necessaria a non sporcarsi quando mangiava.
Non
capiva perché una cosa così semplice potesse
sconvolgerlo tanto.
Ci
stava ancora ragionando quando il sonno lo rapì a
tradimento.
***
Ad Hufflepuff non vi erano delle camere
multiple:
ogni studente aveva la sua stanza, sebbene molto più piccola
rispetto a quelle
comuni di Slytherin.
La
luna ricamò riflessi argentati sulla chioma corvina e
sulla lama che Haru teneva tra le mani.
Il giapponese
ricalcava l’immobilità della notte, seduto a gambe
incrociate sul suo letto,
talmente statuario da sembrare privo di respiro.
Osservò
i caratteri incisi sul pugnale che scintillava nella
luce fredda. Li rilesse più volte, affinché il
loro significato gli penetrasse
nella pelle e nella mente.
Un
sibilo d’acciaio serpeggiò nella stanza quando
l’arma
venne riposta nel suo fodero, a sua volta sprofondato nella veste da
camera che
il giovane indossava.
Si
lasciò cadere
sul materasso, stanco.
Per quel giorno
aveva fatto una ricognizione generale.
Dal mattino
seguente si sarebbe concentrato sui suoi bersagli.
Grazie a tutti voi che continuate a leggere<3
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Capitolo 6 *** Cambiamenti ***
"
2
Cambiamenti
Il viso della
ragazza era talmente cupo da rannuvolare persino il suo vestiario: la
felpa
zaffiro sembrava regredita in un blu scuro, e perfino il corvo argento
aveva
perso la voglia di scintillare nel suo ricamo.
Il
nome “Harunobu” era ufficialmente segnato sulla sua
lista
nera e, quella mattina, era stato cerchiato e sottolineato
più volte,
guadagnandosi la promozione ad “acerrimo nemico”.
Non
le aveva fatto nulla di propriamente sgarbato o
palesemente villano, e proprio questo la irritava maggiormente: non
poteva
accusarlo di nulla, perché lui aveva la grazia malevola di
umiliarla senza
esporsi troppo.
Rose
agitò le spalle come se una serpe le avesse accarezzato
le scapole. C’era qualcosa che il ragazzo nascondeva, lo
aveva avvertito a
pelle come era successo con Scorpius al primo anno: il giapponese aveva
sotterrato qualcosa dietro la mascherata dello studente modello.
La
sua finzione, associata al suo carattere insopportabile,
gettava Rose in uno stato di insoddisfazione corrosiva.
Chiuse
gli occhi sospirando, mentre i ricordi della mattina
le scrosciavano nella memoria.
***
L’intransigenza
di
Zacharias Smith nei confronti degli insubordinati era leggendaria. Per
questo
Rose aveva sfoggiato un talento di dissimulazione insospettabile nel
mascherare
il proprio malcontento: perfino i quadri dei corridoi sapevano che, se
avesse
contraddetto il professore, non se la sarebbe cavata con una punizione
leggera
come quella che le avevano inflitto al primo anno dopo
l’incidente del bosco.
Da
qualche tempo, il programma scolastico prevedeva che gli
alunni dello stesso anno partecipassero alle lezioni tutti assieme per
favorire
il rispetto tra le varie Case. Rose era ben felice di questa regola,
che le
permetteva di assistere alle lezioni in compagnia del cugino e dei suoi
amici
di Slytherin, e ad alcuni alunni di
Gryffindor e Hufflepuff
con cui era entrata in confidenza nell’ultimo periodo.
Per
questo visse ciò che avvenne quella mattina come una
sorta di maledizione divina: conosceva moltissime persone
all’interno delle
Case, alcune solo di fama, e con molte di esse aveva rapporti, se non
amichevoli, perlomeno civili. Invece il destino beffardo
manipolò la volontà di
Zacharias Smith in modo che quest’ultimo pensasse che fosse
davvero una grande
idea associare alla più promettente studentessa di Ravenclaw il più talentuoso
dei ragazzi stranieri: così Rose si ritrovò
accoppiata alla sua nemesi nipponica.
Haru
la scrutò da sopra gli occhiali con elegante ironia, e
Rose contraccambiò con un sorriso talmente falso da sembrare
dipinto.
«Weasley-san,
è un
piacere collaborare con te» annunciò il giovane,
accennando ad un inchino con
il capo.
«Il
piacere è mio, Harunobu»
replicò lei, accatastando gli
ingredienti sul tavolo da lavoro il più rumorosamente
possibile. Si concentrò
sui contenitori e sulle provette per non inondare di invidia tutti gli
altri
studenti a cui fossero stati affidati i ragazzi dello scambio
culturale: con
tutti gli allievi esteri che erano arrivati, dovevano affibbiarle
proprio lui. La fortuna era cieca,
ma la
sfortuna aveva la precisione di un cecchino.
«Hai
mai preparato
delle pozioni prima d’ora?» Rose legò i
voluminosi capelli rossi in una coda in
attesa della risposta. Haru spostò gli occhiali rettangolari
sul naso con un
indecifrabile ghigno a piegargli le labbra e rispose, serafico:
«Avevamo
lezioni
simili anche in Giappone.»
Rose
annuì e aprì la busta che il professore aveva
lasciato
sul loro banco. Un’altra invenzione di Zacharias per quella
lezione: ogni
coppia si sarebbe cimentata in una pozione diversa, per dimostrare che
l’interazione tra più culture poteva portare a
risultati migliori.
Quello
però che il docente richiedeva loro non era un
risultato, ma un miracolo: Rose sentì la vita abbandonarla
quando lesse il
biglietto.
«Il
Distillato
della Pace» la giovane trovò davvero ironico che
ad una coppia male assortita
come la loro fosse stato assegnato quell’infuso: sembrava
quasi che il destino
volesse distendere a forza i loro rapporti elettrici. Ma non fu il
sarcasmo del
fato a sconvolgerla: quello era un filtro usato di solito per i GUFO o
i MAGO,
quindi di livello nettamente superiore al loro. Per quanto lei e Haru
potessero
essere considerati geniali, dubitava che avrebbero mai superato quella
prova.
Inoltre, non sapeva nemmeno quale fosse il livello di preparazione del
giapponese, o se avesse mai distillato una pozione simile prima di
allora. Il
professore aveva delle aspettative forse
troppo alte nei loro confronti.
«Che
ingredienti
servono?»
Le parole
dell’orientale le bussarono sulla spalla, facendola
trasalire. Quando aveva
abbassato gli occhi sul foglio, il ragazzo si trovava
all’altro capo del
tavolo: si era mosso più silenziosamente di un fantasma
nello scivolarle alle
spalle, quasi che l’aria si fosse zittita per farlo passare.
«Essenza
di
elleboro, principalmente» replicò lei, scostandosi
istantaneamente. «Bisogna
fare molta attenzione, perché se esageriamo con le dosi chi
la beve potrebbe
cadere in un sonno irreversibile.»
«Mentre
lo scopo
della pozione è acquietare lo spirito» concluse
Haru. Assottigliò gli occhi per
leggere la ricetta nel libro aperto sul leggio. «Dobbiamo
preparare l’infuso di
timo in cui versarla» notò.
Nonostante
la prima impressione sul treno fosse stata una
delle peggiori, il giapponese si rivelò un ottimo compagno
di lezione: era
rapido e preciso nel seguire le istruzioni, ed aveva una
manualità
sorprendentemente buona per una persona non avvezza ai sistemi di
infusione
occidentali.
Mentre
l’asiatico si protendeva sullo scaffale per afferrare
i fiori di gelsomino, altro elemento fondamentale per quella mistura,
Rose poté
scorgere un particolare che prima le era sfuggito: la maglia che
indossava quel
giorno era di un modello molto simile a quella che portava sul treno,
ma sulla
stoffa gialla della schiena era stampato un tasso nero, attraversato a
metà dal
codino corvino. A prima vista non lo aveva notato, celato dalla
fantasia a
foglie carbone che decorava la seta.
«Pare
che il tuo
trasferimento sia ufficiale» commentò lei, quando
il giovane fu di ritorno.
«Si
vocifera che
uno studente sia arrivato ad Hogwarts in possesso di una borsa di
studio molto
prestigiosa» Haru appoggiò i fiori sul tavolo, in
attesa che la mistura di timo
ed elleboro terminasse di bollire.
«Questo
significa
che è arrivato con gli studenti per lo scambio culturale, ma
non ripartirà con
loro» si spazientì Rose.
Gli occhi di
pece
la fissarono con astuzia, subito sostituita da distaccata cortesia.
«Hai
un intuito
eccezionale, Weasley-san» minimizzò lui, lisciando
i petali dei fiori di
gelsomino.
La ragazza per
un
attimo fu tentata di gettarlo nel paiolo dove la pozione stava
ribollendo, ma
un’occhiata particolarmente torva del professore la convinse
a desistere.
«Anche
tu hai un
buon intuito» controbatté lei, scrollando la coda
rossiccia. «Hai indovinato la
tua Casa di appartenenza.»
Il giapponese
fece
cadere i fiori nella spuma della pozione, poi si scostò di
un passo per
permettere alla compagna di girare l’intruglio.
«Non
è stato
intuito» notificò Haru. «Ho imbrogliato
il Cappello Parlante.»
Rose
rischiò di
rovesciare il calderone e di perdere il conto dei giri di mestolo a
quell’affermazione; il ferreo autocontrollo imparato dalla
madre le impedì di
provocare una mezza inondazione nell’aula. Sollevò
lo sguardo nocciola su di
lui, allucinata.
«Hai…
imbrogliato
il cappello?» la giovane gli fece eco continuando a muovere
meccanicamente le
mani: non poteva permettere che un diverbio mandasse in fumo il loro
lavoro su
quella pozione.
«Ho
testato i
sistemi di sicurezza di Hogwarts» Haru proferì
quella risposta come la più
gigantesca ovvietà del mondo.
«Il
Cappello non è
un sistema di sicurezza.»
«Oh.
Hai ragione,
non lo è.»
Il
sorriso da volpe celato dietro l’aria dimessa da bravo
ragazzo la pungolò nell’anima.
Rose
estrasse il mestolo dal pentolone e lo impugnò come un
paladino avrebbe fatto con la sua spada; inalberò il collo e
drizzò il mento
con aria di sfida, pronta a distruggere il nemico.
«Hogwarts
è stata
costruita dai quattro migliori maghi mai esistiti, e ancora oggi
è difesa dagli
incantatori più potenti al mondo. Cosa ti fa credere di
poter screditare le
loro protezioni, tu che sei solo un ragazzino di quattordici
anni?»
Haru
la fissò statuario, la solita espressione ghiacciata
sul viso. Scostò un ciuffo di frangia e, con tono vagamente
risentito, sospirò:
«È
impazzita.»
Il mestolo gli
sfiorò la punta del naso, minaccioso come la canna di un
fucile.
«Non
provare a
mettere in dubbio le mie facoltà mentali» lo
avvisò lei.
«Mi
hai frainteso»
si discolpò Haru. Gli indici rotearono verso il basso a
puntare il paiolo, e il
ragazzo annunciò, atono: «La pozione. È
impazzita.»
Lo
spettacolo offerto dal calderone fu sconfortante: sulla
superficie dell’acqua si erano gonfiate delle piccole nuvole
di bollicine e
spuma come se dei Rospi di Palude stessero intorbidando
l’acqua dal fondo del
paiolo, e alcuni grumi di gelsomino si stavano incollando ai bordi del
pentolone,
formando un bizzarro tappeto di ciuffi biancastri.
«Vado
a prendere
altro tiglio» decise placido, mentre Rose correva a
rovesciare il disastro
ribollente nello scolo in fondo all’aula.
Haru
appoggiò le foglie aromatiche sul tavolo, e aiutò
la
compagna a pulire il calderone e a ricominciare il lavoro.
«Sei
arrogante» lo
attaccò lei, per nulla intenzionata a lasciar cadere la
discussione di poco
prima.
Gli occhi
dell’orientale rimasero calamitati sulle foglie che pian
piano cedevano il proprio
colore all’acqua circostante, prima di risalire su di lei.
«Potrei
rivolgerti
la stessa accusa, Weasley-san» restituì il colpo
lui, carezzevole e
inflessibile. «Hai detto che sono un ragazzino di quattordici
anni come se tu
fossi già nel mondo degli adulti» sorrise
mellifluo, con la dolcezza acida di
chi sa di avere l’avversario in pugno: «Mi hai
trattato come un moccioso,
dicendo che ho quattordici anni. Tu quanti anni hai,
esattamente?»
Per
tutta risposta, Rose gli indicò perentoria il paiolo.
«Aggiungi il gelsomino»
ordinò.
Haru non
proseguì
oltre quella schermaglia e procedette ad aggiungere il fiore. La
ragazza lo
fissò meditando vendetta e, non appena l’asiatico
si rialzò, era pronta a
sferzarlo:
«Parli
sempre come
se gli altri fossero un gradino sotto di te.»
«Non
ricordo di
essere stato offensivo nei vostri confronti»
obiettò pacato Haru.
«Non
parlo del tuo
atteggiamento, ma di quello che ci sta dietro.»
Un
filo di silenzio si srotolò dalle labbra
dell’orientale,
cucendogli le labbra. Gli occhiali abbandonarono la loro postazione, e
Rose si
sentì quasi schiaffeggiare dalla profondità delle
iridi ebano.
«Anche
questo te lo
suggerisce il tuo intuito, Weasley-san?» flautò
Haru. Gli occhi di onice
sembravano pulsare di una fonte magica sconosciuta e antica,
paralizzante per
la sua solennità, e Rose quasi esalò un sospiro
di sollievo quando l’altro
inforcò di nuovo le lenti.
«Le
tue analisi
sono accurate, Weasley-san, ma sbagliano in un punto» un
pizzico di spontaneità
stemperò la formalità incolore nel sorriso che le
rivolse. «Sono semplicemente
cosciente di aver ricevuto nozioni diverse rispetto alle
vostre.»
«Hai
frequentato
una scuola di magia, nel tuo paese?» si incuriosì
Rose.
Le
mani del giapponese si stesero verso di lei, porgendole
il mestolo come un samurai avrebbe offerto la katana
al suo padrone.
«Dobbiamo
mescolare
la pozione, Weasley-san» le ricordò con educazione.
Le
sue labbra si ritrassero come se avessero assaggiato un
limone particolarmente aspro, ma Rose afferrò comunque il
mestolo con stoicismo
e riprese il suo lavoro.
Detestava
l’abitudine nipponica di restare sul vago.
In
particolar modo, odiava l’ambiguità di quel giapponese.
***
«Rose!»
Il flusso dei
suoi
ricordi venne sbarrato dall’apparizione di Dallas Dursley,
che correva
trafelato nella sua direzione.
Lo
zio Harry non le aveva mai raccontato come avesse reagito
Dudley nello scoprire che suo figlio era nato con una porzione di
sangue
magico. Zia Ginny, più incline alle confidenze, le aveva
rivelato che al cugino
di suo marito era quasi venuto un colpo apoplettico quando il pargolo
aveva
sollevato in volo il biberon che la madre stava cercando di fargli
bere. Ma
nemmeno lei era stata troppo descrittiva: Rose aveva capito vagamente
che
Dudley aveva stabilito un nuovo record per drammaticità e
durata di una scenata
isterica. Harry, a questo punto della storia, interveniva per
riscattare
l’onore del cugino: Dudley, nonostante il palese e altisonante rifiuto iniziale, aveva
accettato le inclinazioni del
figlio.
Ma
non era riuscito ad accompagnare il fanciullo a fare
compere nel mondo magico, così Harry aveva accettato di
fargli da
accompagnatore quando ce ne fosse stato bisogno, e il piccolo Dallas
era stato
ben felice di farsi scarrozzare in quel mondo strano e meraviglioso.
L’accettazione
di Dudley era stata una sorpresa per la
famiglia Potter al gran completo, specie per Harry, che aveva subito le
angherie del cugino per anni. Dudley aveva messo sulla bilancia del suo
cuore
l’affetto per il figlio e la ripugnanza per i maghi, e
l’ago era stato
sbilanciato pesantemente in favore del pupo. Aveva strappato a Dallas
la
promessa di non praticare mai la magia nel mondo comune, salvo casi
estremi di
vita o di morte, e si era rassegnato a vedere suo figlio scomparire
nella
colonna di una stazione anziché salire sul treno come tutti.
Anche
Vernon e Petunia, nonostante un cocente rinnegamento
iniziale – con attacchi irosi del primo e crisi di pianto
della seconda –
avevano accettato quella piccola anomalia nella loro famiglia: era pur
sempre
il figlioletto del loro magnifico Dudley, e dovevano amarlo
incondizionatamente.
Dallas aveva
ereditato dal padre i capelli biondicci e la corporatura robusta, che
il
costante allenamento a Quidditch aveva impedito di diventare adiposa
come
quella del genitore; la madre invece gli aveva regalato gli occhi
chiari in cui
si mescolavano il grigio e l’azzurro e il sorriso contagioso,
che lo avevano
reso il leader carismatico di Hufflepuff.
Gli studenti più giovani lo chiamavano
“GGG”, il “Grande Gigante
Gentile”, per
via della sua altezza vertiginosa, delle sue spalle taurine e del suo
buonumore
costante.
Il
ragazzo trottò nella sua direzione come un bufalo, e si
arrestò di fianco a lei ansando per la corsa.
«Ti
stavo cercando…
c’è qualcosa che non va?»
virò Dallas alla vista del viso incupito della giovane.
«C’è
un ragazzo straniero
che mi infastidisce» tagliò secca lei.
Il
giovane passò una mano muscolosa sui capelli corti e si
informò, premuroso:
«Stai
parlando
dello studente giapponese?»
Rose
fissò Dallas
con stupore. Gli occhi sgranati di un ingenuo, le gote arrossate come
mele per
la corsa e l’espressione mortificata e bonacciona: non era
esattamente il
ritratto dell’investigatore sagace. Dallas aveva molti pregi,
indubbiamente, ma
l’astuzia non era tra questi; quindi l’asiatico
doveva aver fatto qualcosa di
così plateale da suscitare persino il sospetto di una
persona pacifica come lui.
«Come
hai fatto a
indovinare?» indagò perciò Rose.
Il
giovane si fissò le dita nerborute, lacerato da un
conflitto interiore: era giusto o meno rivelare segreti altrui in cui
si era
praticamente inciampati? Alla fine, decise che la ragazza fosse una
persona
sufficientemente affidabile e dichiarò:
«È
sempre molto…
riservato. Guardingo, quasi» barcollò per la sua
avversione naturale al parlare
male degli assenti. «La seconda sera sono entrato in camera
sua per dargli il
benvenuto. Non ero riuscito a farlo il giorno del suo arrivo
perché stavo
aiutando a sistemare le matricole.»
Rose
chinò il capo, comprensiva. I Prefetti avevano imparato
che i nuovi arrivati ascoltavano molto volentieri il “Grande
Gigante Gentile”,
e lo avevano quasi schiavizzato per aiutarli a gestire gli alunni del
primo
anno. Dallas, da sempliciotto qual era, si era lasciato felicemente
raggirare.
«Insomma,
sono
entrato nella sua camera. Forse ho dimenticato di bussare, o forse non
mi ha
sentito. Si stava cambiando, mentre sono entrato» Dallas si
dondolò sui piedi e
si umettò le labbra, ostacolato nel racconto dalla sua
coscienza. «È stato
veloce a rimettersi la maglia, ma non abbastanza. Ho
visto…»
«Cosa
hai visto?»
lo spronò Rose, quando l’altro tentennò
per l’ennesima volta.
Dallas fece un
vago
cenno con la mano in direzione della spalla.
«Aveva
delle
cicatrici. Qui» batté la mano sulla scapola
sinistra. «E qui» appoggiò il palmo
sul fianco destro. «E anche qui» Dallas si contorse
come un orso che cerchi di
recuperare del miele appiccicato sulla schiena quando tentò
di toccare il
centro della colonna vertebrale. «Erano delle gran brutte
cicatrici. Sembravano
fatte da armi da taglio.»
Lo sconcerto fu
chiaramente visibile sul volto di Rose. Perché mai uno
studente avrebbe dovuto
riportare simili escoriazioni sul corpo? Haru aveva detto di avere
conoscenze
diverse dalle loro… forse intendeva dire che era stato
addestrato al
combattimento e non alle arti magiche? In tal caso, però,
non si spiegava la
sua destrezza nelle lezioni di Hogwarts, impensabile per un alunno
totalmente
digiuno di incanti, né il conseguimento di quella difficile
borsa di studio.
Quelle
cicatrici erano forse dovute ad un incidente, o ad un
allenamento estremo?
«Ho
riferito
l’accaduto ai professori, ma mi hanno detto di non
preoccuparmi e lasciare che
se ne occupino loro» terminò Dallas, scuotendo
scoraggiato le spalle massicce.
Rose
annuì meccanicamente, ancora immersa nei pensieri. Si
riscosse solo quando il vocione possente del giovane la
riportò alla realtà.
«Comunque,
ero
venuto a cercarti per via di Albus.»
La
ragazza si concentrò istantaneamente sulle parole del
rappresentante di Hufflepuff,
preoccupata.
«Cosa
è successo?
Si è fatto male durante un allenamento di
Quidditch?» s’impensierì; da quando
era diventato Cercatore, Albus aveva gettato anima e corpo nelle
esercitazioni
di Bartold Scholz, dimenticandosi la sua incolumità: aveva
perso il conto delle
volte in cui aveva ringraziato Scorpius per aver salvato il collo del
suo
consanguineo.
«No,
non credo che
si sia fatto male. Ma sta seduto fuori in cortile con la faccia da
“il mondo
sta per finire”» riferì Dallas.
A
Rose fu sufficiente intersecare due informazioni per
ottenere la verità: Albus era depresso ed era solo. Questo
significava che la
colpa del suo cattivo umore era Scorpius.
Si diresse nel
giardino interno a passo di bersagliere, e non si fermò
finché non scorse la
figura abbattuta del cugino.
Dallas
non aveva esagerato: Albus se ne stava seduto, le
gambe che ciondolavano prive di forza, gli occhi abbassati e le spalle
curvate
come se qualcuno lo avesse bastonato.
Rose
trattenne a forza tra i denti un sospiro bellicoso: la
sua stima nei confronti di Scorpius era salita nel corso degli anni, ma
sarebbe
precipitata se il ragazzo fosse stato davvero la causa di quella
depressione.
Si
accostò dolcemente al cugino e gli avvolse le spalle con
un braccio. Albus sollevò per un attimo gli occhi infelici
su di lei, prima di
abbassarli di nuovo con aria demolita.
«Qual
è il
problema?» domandò carezzevole lei.
Albus trasse un
profondò respiro e uggiolò:
«Scorpius
ha la
ragazza.»
Rose
batté le
palpebre, incerta sulla solidità del suo udito.
«Ha…
la ragazza?»
Aveva
pensato ad una miriade di possibilità differenti,
mentre correva in soccorso del consanguineo: Scorpius lo aveva di nuovo
insultato senza motivo come aveva fatto al primo anno, lo aveva fatto
cadere
dalla scopa durante gli allenamenti, era arrabbiato con lui e non
voleva più
parlargli, erano entrambi in lutto perché le Torte della
Strega erano
misteriosamente sparite dal mercato… il fidanzamento era
l’unica ipotesi che
non aveva vagliato.
Albus
confermò, rattristato:
«È
Margaret
Finnigan.»
Rose
roteò gli occhi verso l’alto, scartabellando il
suo
elenco mnemonico degli studenti di Hogwarts: le sue meningi
superallenate le
proposero la figura di una ragazza normale, castana di occhi e di
capelli, non
troppo appariscente e motivata nello studio.
«È
una Gryffindor»
ricordò, con uno schiocco di
dita.
«Una
delle poche che
non è razzista nei confronti degli Slytherin»
confermò Albus.
Rose
si rigirò le punte ondose di una ciocca ramata tra le
dita, insicura su come continuare quel discorso.
«Cosa
ti rende
triste? Il fatto che abbia una ragazza prima di te?»
«No.»
«Credi
che lei lo
allontanerà dal vostro gruppo?»
«Spero
di no.»
«Ti
senti in
qualche modo tradito dal suo comportamento?»
«Credo
di no.»
Lo
sguardo di Rose si appuntò sull’erba circostante:
aveva
esaurito le pallottole nella sua pistola di psicologia, e non sapeva
quali
altri motivazioni razionali fornire al comportamento del cugino.
«Credo
che una fase
di rifiuto nei confronti delle situazioni nuove sia normale. In fondo,
ci
sentiamo a disagio ad affrontare qualcosa a cui non siamo
abituati» patteggiò
lei.
Albus
rimase ad ascoltarla passivo, gli occhi di giada fissi
sul prato.
«Vedrai
che passerà
in un paio di giorni, giusto il tempo di abituarti» lo
consolò, stringendo
forte la presa sulle spalle. L’abbozzo di un sorriso nacque e
morì sulle labbra
di Albus, ancora incastrato nel suo mesto marasma.
Rose
dovette quasi trascinarlo via di peso da quel posto per
spintonarlo verso l’aula di Difesa contro le Arti Oscure: per
quanto i drammi
personali potessero essere profondi, non avrebbe permesso al cugino di
perdersi
una lezione proprio all’inizio dell’anno.
Inoltre,
il suo malumore era del tutto ingiustificato, e
sarebbe svanito nel giro di poco tempo.
Rose
si convinse di questo, nonostante un piccolo tarlo
nella sua mente continuasse a contraddirla.
***
Durante lo studio,
perfino un normalissimo Succo di Zucca poteva essere gustato come
l’idromele
degli dei.
Valentine
si servì un generoso sorso prima di passare il
cartoccio al ragazzino che sedeva di fronte a lui. Uno strano Slytherin in fondo alla biblioteca
scattò in piedi e uscì di gran fretta,
sistemandosi velocemente una bizzarra
mascherina e rimbrottando qualcosa sulla bomba batteriologica che i due
avevano
appena creato mescolando la saliva sulla cannuccia.
Aveva
sempre avuto il presentimento che gli Slytherin
fossero gli svitati di
Hogwarts, e quel ragazzo ne era la prova. Doveva essere Macauley Nott,
l’amico
ipocondriaco di Albus.
«La
tua bravura
durante gli esami è davvero un mistero»
commentò il piccoletto, dopo aver bevuto
a sua volta ignorando l’allarmista di Slytherin.
«Considerando quanto odi lo studio.»
«Ma io
non ho
bisogno di studiare. Sono un genio innato» si
vantò pomposo l’altro.
Il
ragazzino gli lanciò un’occhiata interrogativa da
sopra
il libro su cui si chinò di nuovo da perfetto studente
zelante.
Valentine
reclinò
il capo all’indietro, e i riccioli scuri rimbalzarono nel
vuoto. Se pensava al
bizzarro destino che lo aveva portato a diventare
l’insegnante privato di un
moccioso del primo anno, avrebbe potuto pensare che un gremlin si fosse
divertito a scambiare le tessere del mosaico della sua vita: Fleur
Delacour era
preoccupata che il figlio minore, Louis, si trovasse in
difficoltà a Hogwarts,
così aveva chiesto al marito di domandare ai suoi fratelli
se qualcuno dei loro
figli fosse disposto a fare da tutore al pargolo. Bill Weasley aveva
passato in
rassegna tutti i parenti fino a Ginny, che aveva consigliato James, che
aveva
scaricato il pupo sulle spalle dell’amico.
Louis
era un alunno perfettamente normale, ma la madre
desiderava che il suo bambino eccellesse, così lo aveva
affidato alla
supervisione dello scapestrato ma brillante amico di James. Che aveva
accettato
dopo essere stato insistentemente minacciato da quest’ultimo.
Valentine
si stava dondolando annoiato, in attesa che il
ragazzino risolvesse l’ultimo quesito che gli aveva posto,
quando una figura al
di là della porta della biblioteca attirò la sua
attenzione.
«Torno
subito.
Intanto finisci l’esercizio» si congedò
sbrigativo prima di correre fuori dalla
stanza.
Inseguì
il giovane che aveva attirato la sua attenzione
finché non riuscì ad afferrarlo per un polso. Fu
costretto a rilasciare subito
la presa con un guaito strozzato: una scarica elettrica gli aveva
bruciato il
palmo nel momento stesso in cui aveva stretto le dita sulla pelle del
ragazzo.
«Porti
sempre
quell’aggeggio infernale» ridacchiò
Valentine tra le lacrime, scrollando la
mano fumante.
Lo
studente giapponese fece scivolare la manica del kimono
in modo che scoprisse i grani del
bracciale che indossava e sentenziò, neutro:
«Sempre.
È
estremamente utile contro i contatti indesiderati.»
«Non
è un po’
pericoloso portarlo a scuola?» lo stuzzicò
Valentine. «Potresti abbrustolire
degli innocenti.»
«Colpisce
solo i
miei nemici» confutò Haru, serafico, e
accarezzò il monile al suo polso.
«Questo significa che lavori ancora per l’altra
parte.»
Valentine
soffiò sul palmo arroventato, e la successiva
frecciatina sembrò uscire spontaneamente insieme al respiro:
«Dovresti
aggiornare
il tuo aggeggio. Io sono dalla vostra
parte.»
Gli occhiali
inalberarono contro di lui uno sguardo indecifrabile, in accordo con la
replica
enigmatica:
«Non
sono sicuro di
potermi fidare di te. Se non sbaglio, tre anni fa uno strano mostro si
è
infiltrato ad Hogwarts.»
Valentine
non sembrò sorpreso da quella notizia; smise
perfino di agitare la mano, che appoggiò con accennata
strafottenza sulla tasca
del pantaloni, e controbatté:
«Mi
stai accusando
di aver aperto i cancelli di Hogwarts a quello schifo?»
«Qualcuno
l’ha
fatto.»
Gli occhi di
Haru
erano neri e freddi come il mare artico, e Valentine si difese con una
risatina
sprezzante da quel gelo.
«Dovresti
scegliere
con più accuratezza i tuoi nemici, o ti troverai
solo» profetizzò greve il
ragazzo di Gryffindor.
«Se
sei solo,
nessuno può tradirti» recitò composto
Haru.
«Può
tradirti il
tuo corpo. O la tua mente.»
«Non
se sono stati
bene addestrati.»
Valentine
fece spallucce, evidenziando il suo disinteresse
per quel duello di dialettica.
Sfilò
la mano dalla tasca e con quella salutò il ragazzo
più
giovane: il palmo svettò nella luce del corridoio, liscio e
intonso come se
nulla l’avesse mai sfregiato.
«Buona
fortuna,
Haru. Cerca di non ostacolarmi troppo» augurò,
dirigendosi nuovamente verso la
biblioteca.
Il
giapponese non lo fermò in alcun modo, e Valentine fece
ritorno alla sua postazione di fronte al giovincello del primo anno.
«Ho
finito
l’esercizio» annunciò Louis,
allungandogli il libro.
Il
giovane annuì, facendo ballare i riccioli lucidi, e
controllò che la soluzione del piccoletto fosse quella
corretta.
Hogwarts
stava per essere scossa fino alle fondamenta.
Meglio
godersi gli ultimi attimi di tranquillità.
***
Scholz li aveva
allenati durante l’estate del loro primo anno.
Si
erano ritrovati ad affrontare serpenti di fuoco brandendo
un ramoscello, a guerreggiare con pericolosi sirenidi armati di
tridente con il
solo ausilio di una lattina sbeccata, e ad acquietare irascibili api
giganti
muniti di bandierine. Avevano fatto più esperienza di
battaglia in una sola
estate di quanto avesse fatto la maggior parte dei maghi in tutta la
loro vita.
Tuttavia,
il disastro peggiore che si fosse mai trovato ad
affrontare era quello che si parava di fronte a lui in quel momento.
Si
stavano preparando per l’allenamento di Quidditch
pomeridiano: la squadra al completo, riserve incluse, si stava
cambiando negli
spogliatoi immersa nel classico chiacchiericcio scoordinato che
anticipava le
esercitazioni.
Si
era appena infilato la maglia da allenamento - ampia e
ancora incrostata nonostante i suoi sforzi di rimuovere le macchie
provocate
dalle sue numerose cadute – quando Scorpius lo aveva
raggiunto.
«Ti
senti bene?»
gli aveva chiesto.
Quella
domanda era il demone insormontabile con cui Albus
non sapeva come confrontarsi.
Evitò
di rispondere per qualche secondo, fingendosi
estremamente concentrato nell’indossare i guanti.
«Non
ho niente»
assicurò, poco convincente.
Doveva
esserci un giradischi malefico nel suo cervello,
inchiodato su un unico verso: “Scorpius ha la
ragazza”. Non capiva perché
quell’informazione l’avesse tanto sconvolto: era
normale che uno come Scorpius
avesse delle ammiratrici, ed era altrettanto normale che, tra le tante
spasimanti, ce ne fosse una che corrispondesse ai suoi gusti.
Non
era normale, invece, che lui si sentisse amareggiato
dalla notizia, quasi ferito come se l’amico lo avesse
oltraggiato; percepiva una
punta di acredine in fondo allo stomaco che gridava:
“tradimento!”.
Si
bloccò per un secondo mentre prendeva la scopa
dall’armadietto.
Tradimento?
Lui non era la moglie di Scorpius, e nemmeno la
sua fidanzata; era solo un suo amico. E la ragazza che Scorpius aveva
scelto
gli era del tutto indifferente, quindi non poteva addurre nemmeno un
triangolo
amoroso come origine di quella sgradevole sensazione.
Era
il suo migliore amico, avrebbe dovuto gioire della
primavera di Scorpius.
Invece
continuava a rimuginare su rancori che non
comprendeva e rimpianti che non identificava.
Quasi
saltò quando
Scorpius gli appoggiò una mano sulla spalla.
«Sicuro di stare bene?» lo mise in
dubbio
l’altro, osservandolo scettico.
Albus
scosse freneticamente la testa in cenno di assenso, si
caricò in spalla la scopa come un minatore avrebbe fatto con
un piccone e
sfrecciò verso il campo.
Aveva
bisogno di schiarirsi le idee.
L’aria
frizzante dei pomeriggi settembrini e l’adrenalina
del gioco lo avrebbero aiutato.
Montò
a cavalcioni della scopa e salì il più in alto
possibile, distanziandosi al massimo delle sue capacità dai
problemi sulla
terraferma.
Grazie
a tutti
voi per la pazienza<3
Grazie
davvero<3
A
presto con il
prossimo capitolo!
Red
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Capitolo 7 *** Magia Orientale ***
3
Magia
Orientale
«Tu e
Albus avete
litigato?»
Scorpius
interruppe
i preparativi mattutini per fissare Macauley con fare interrogativo.
«Non
che io sappia»
arginò.
Nott si strinse
nelle spalle, allacciando gli elastici della mascherina.
«Di
solito vi
scambiate i microbi tutto il tempo…» Scorpius lo
incenerì, tra il disgustato e
l’offeso, e Macauley chiarì: «Siete
sempre vicini, respirate la stessa aria,
consumate lo stesso spazio: praticamente vivete in tandem.»
Le dita di
Scorpius
terminarono di annodare la cravatta verde e argento, mentre le meningi
lavoravano su quella nuova questione. Ciò che gli aveva
appena fatto notare
Nott non era sbagliato: ultimamente Albus sembrava imbarazzato in sua
presenza,
quasi temesse di disturbarlo semplicemente sbattendo le ciglia. Ed
erano almeno
tre settimane che non saliva nel suo letto per le loro chiacchierate
notturne.
Si
mise a sedere sul materasso e cominciò ad allacciare le
scarpe. Che cosa era cambiato, in quel lasso di tempo?
La
sua media scolastica non aveva subito grandi variazioni,
e comunque dubitava che il malessere timido di Albus fosse collegato ad
una
questione di voti. Durante gli allentamenti di Quidditch non si erano
registrati cambiamenti sostanziali: Albus era sempre il loro Cercatore,
e
Scorpius il Battitore. Non aveva litigato con Rose, quindi non era
nemmeno un
impaccio dovuto a guerre intestine al loro piccolo gruppo.
Le
mani si congelarono sulle stringhe quando i suoi
ragionamenti approdarono ad una conclusione: l’unico evento
saliente delle
ultime settimane era stata Margaret, la Gryffindor
che ora era la sua ragazza.
«Macauley»
sondò,
perplesso. «Albus aveva una cotta per Margaret?»
«Non
che io sappia»
lo scimmiottò Nott.
Scorpius
trattenne
il respiro come se gli avessero passato un cubetto di ghiaccio sulla
schiena e
replicò in un sibilo:
«Macauley,
ti hanno
mai detto che dovresti fare teatro? Hai un talento spiccato per il
melodramma.»
I
capelli di Nott, vaporosi per l’accurato lavaggio,
scintillarono sotto la luce della lampada quando il ragazzo
voltò la testa.
«Ti
darò tre ottimi
motivi per evitare il teatro» un indice avvolto dal lattice
svettò nell’aria: «Primo:
quinte polverose. Secondo: spogliatoi in comune. Terzo: costumi di
seconda
mano, quindi dove degli estranei hanno sudato.»
«Anche
nel
Quidditch abbiamo gli spogliatoi in comune» gli fece presente
Scorpius.
«Ed
è esattamente
per questo motivo che non mi avvicino a meno di due metri da voi
finché non vi
siete fatti una bella doccia bollente» flautò
serafico e sarcastico Nott. «E
rinnovo il mio invito ad usare un bagnoschiuma a base di acido
muriatico, in
quelle occasioni.»
«Ci
scioglierebbe
la pelle.»
«Ma le
vostre ossa
sarebbero splendenti e disinfettate.»
Scorpius
scosse la chioma bionda, arrendendosi alla crociata
igienista dell’amico.
Il
Cercapersone di Nott lanciò il suo grido di battaglia
–
“ogni microbo risparmiato oggi diventerà
un’epidemia domani!” – e si
slanciò
verso il padrone, che lo sollevò da terra con due sole dita,
quasi fosse
ricoperto di fango: ogni suo oggetto personale era perfettamente
sterilizzato,
ma quell’ordigno elettronico aveva appena corso una maratona
sul pavimento, ed era quindi infetto. Scorpius approfittò
di quella
momentanea distrazione per guadagnare la porta.
«Vado
a cercare
Albus» annunciò sbrigativo.
«Credo
che Albus
stia cercando noi» lo mitragliò Nott.
Non
fu tanto la replica dell’amico quanto il mezzo sisma del
cassetto a farlo tornare sui suoi passi: Scorpius aveva dimenticato il
suo
Cercapersone dentro il comodino, e quella bestiola metallica stava
ammattendo
per riuscire ad aprire uno spiraglio da cui scappare. Il suo
proprietario mise
fine a quel supplizio
estraendola dal
cassetto.
«E
credo che sia
urgente» decorò Macauley, alzandosi per cercare il
“kit di igiene istantanea”:
dopo la lotta rocambolesca del primo anno, aveva preparato un piccolo
marsupio
per tutte le evenienze.
Scorpius
non avrebbe usato le stesse parole dell’amico per descrivere
la situazione, né il medesimo tono tra il pacifico e il
rassegnato. Il
messaggio che Albus gli aveva appena inviato si componeva di
un’unica,
terribile parola: aiuto!
«Qual
era la
formula per rintracciare le persone?»
«GPS.»
Nott rispose con
calma e freddezza alla sollecitazione dell’amico.
«Come
hai detto?»
domandò Scorpius, disorientato.
«GPS»
scandì
Macauley, indicando il Cercapersone. «Questi affari sono
dotati di un
dispositivo satellitare. In altre parole, puoi trovare chiunque, in
qualunque
momento» aggrottò la fronte, scontento
dell’espressione smarrita del compagno:
«L’ho
sempre detto che vivi in una famiglia troppo antiquata.»
«Siamo
sostenitori
della magia nella sua forma più alta» si difese
Scorpius, lievemente inacidito.
«Ma
ogni tanto la
tecnologia aiuta» minimizzò Nott, utilizzando lo
stilo ipoallergenico per
digitare una combinazione di tasti sul Cercapersone. «E ora
andiamo a vedere in
che guaio si è cacciato Albus.»
Scorpius
cedette qualunque possibile reticenza, e seguì il
collega fuori dalla stanza.
La
Natura aveva creato uno dei suoi più grandi misteri con
Macauley Nott: una persona che riusciva a gestire con freddezza un
messaggio
disperato da parte di un amico e che perdeva controllo e
dignità alla vista di un
germe solitario.
Decisamente
inspiegabile.
***
«Valentine?»
Louis
fissò il suo tutore, sconcertato. Il Gryffindor
non aveva mai addolcito
l’aria scontenta con cui affrontava quelle ripetizioni: si
sedeva con uno
sbuffo, spiegava in modo chiaro ma incolore e lo scrutava svogliato
mentre
riempiva intere pagine di appunti ed esercizi. I suoi voti erano
sensibilmente
migliorati, ma avrebbe gradito una partecipazione maggiore da parte del
suo personal trainer, come lo
chiamavano i
suoi compagni di corso.
Tuttavia,
per quanto Valentine potesse essere abrasivo, non
era mai arrivato ad una maleducazione simile: Louis gli stava ponendo
una
domanda, e all’improvviso il giovane aveva voltato il capo
riccioluto e si era
messo in ascolto dell’aria.
«Valentine!» lo richiamò
una seconda volta, spazientito.
Il Gryffindor
spostò lo
sguardo assente su di lui, e gli occorsero alcuni secondi per
rischiararlo
dalla torbida vacuità che si era impossessata delle iridi
scure.
Louis
arricciò le labbra, una colorita ramanzina scalpitante
sulla lingua: era solo un povero, piccolo studente del primo anno, ma
meritava
comunque un minimo di rispetto. Probabilmente Valentine non avrebbe
capito una
sola parola della sua invettiva, perché Louis, quando si
infuriava, tendeva a
strillare con tonalità eccessivamente acute e turbate
dall’accento nasale
ereditato dalla madre, ma gli avrebbe dato comunque soddisfazione
sgridare il
suo tutore.
Aveva
appena preso fiato per cominciare quando Valentine
ordinò:
«Vai sotto il tavolo.»
Louis batté le palpebre sugli occhi
acquamarina, disorientato come una
persona che ha appena visto una gelatina di palude esibirsi in un
balletto
classico. Non ebbe tempo di dissipare la sua confusione che essa crebbe
a
livelli esponenziali: Valentine ringhiò qualcosa di
incomprensibile e si lanciò
su di lui, ficcandolo a forza sotto il tavolo e avvolgendolo con il
proprio
corpo. Le labbra di Louis boccheggiarono di nuovo, inaridite dallo
stordimento,
e si spalancarono in un grido non appena un rombo sordo percosse tutte
le mura
dell’edificio, facendo tremare l’intera stanza.
Louis ebbe l’impressione di
trovarsi in un enorme scatolone scosso da un gigante, e si
rifugiò
istintivamente nella stretta del tutore.
Valentine
gli coprì la testa con le mani quando le finestre
della sala di lettura improvvisamente esplosero, scagliando ovunque
pericolose
schegge di vetro.
Nella
biblioteca regnarono alcuni minuti di caos totale:
sedie rovesciate, rumore di studenti gettatisi sotto i tavoli e urla
strozzate,
il sibilo dei frammenti delle finestre, libri che si schiantavano al
suolo e
quel costante rombato di sottofondo che scuoteva tutto il palazzo.
Una formula
recitata da una voce femminile pose fine a quel delirio: i vetri rotti
si
immobilizzarono e fluttuarono a terra con grazia, gli scaffali e le
mura
tornarono solidi e fermi, e dopo qualche secondo alcune teste esitanti
spuntarono
dai tavoli.
La
signorina Eeriemay troneggiava al centro della stanza, la
crocchia sulla nuca scomposta per via della corsa precipitosa con cui
aveva
raggiunto la biblioteca e le labbra schiuse per il fiato ingrossato
dallo
sforzo. Una mano reggeva le scarpe con il tacco, vezzosità
femminile cui aveva
rinunciato per soccorrere i suoi studenti più agevolmente, e
l’altra sfoderava
la bacchetta con cui aveva sedato quello sfacelo.
«Avete
degli ottimi
riflessi, ragazzi» si complimentò in un ansito
affaticato.
«Cos’è
stato?»
soffiò a stento Louis, la bocca e le gambe semiparalizzate
dallo spavento.
«Niente
di buono»
mormorò Valentine, lasciando la presa su di lui.
La Eeriemay
incrociò il suo sguardo, ed entrambi annuirono
impercettibilmente nel tempo di
un battito di ciglia.
«Valentine,
ti
affido questi studenti: porta i feriti in infermeria e chiama il
custode per
ripulire questo macello» comandò rapida la donna,
uscendo senza infilare i
tacchi: aveva ancora molte scale e molti corridoi da percorrere.
Il
ragazzo fu lesto a rispondere all’appello della
professoressa: aiutò gli allievi ad uscire dai loro rifugi
improvvisati,
analizzò velocemente le condizioni di ognuno e
radunò un gruppetto da condurre
in infermeria.
Louis,
sebbene non si fosse ferito in alcun modo, seguì
ugualmente Valentine lungo le scalinate che conducevano al reame di
Madamina,
come avevano soprannominato l’erede di Madama Chips.
Valentine lo aveva mascherato
con l’ampia giacca rosso mattone della sua Casa, ma Louis se
ne era accorto
ugualmente quando l’aveva abbracciato in preda al panico, e
aveva sentito una
sostanza viscosa bagnargli le mani: il giovane si era ferito alla
schiena.
Assistere
alle sue cure era il minimo che potesse fare per
quello zotico che lo aveva appena salvato.
***
«Senza
offesa, ma
non eccelli negli incantesimi.»
«Non
sono offeso, Weasley-san.»
«Offenditi,
invece.
Ti sto insultando.»
«Non
sono comunque
offeso, Weasley-san.»
«Come studente
sei
assolutamente mediocre. Per me è un mistero come tu sia
riuscito ad ottenere
quella borsa di studio.»
«Non
dovevi
prendere le mie parole un incoraggiamento ad aumentare la dose,
Weasley-san.»
«Per
cui non credo
che abbandonare a metà la lezione di Incantesimi sia stata
una buona idea.
Anzi, è stata una trovata del tutto idiota.»
«Tu
invece puoi
permetterti di perdere delle lezioni perché sei
un’ottima maga, Weasley-san.»
«Perdo
una lezione
perché il mio compagno di Incantesimi mi ha piantata in asso
a metà! E smetti
di chiamarmi Weasley-san, Harunobu!»
L’ultima
stoccata
fu quella decisiva per arrestare il giapponese.
Durante
l’addestramento di sortilegi in coppia, Haru aveva
improvvisamente sollevato il viso, come un segugio che fiuta la pista,
dopodiché si era precipitato fuori dall’aula, non
prima di aver porto le sue
più sentite scuse all’insegnante con tanto di
inchino. Rose, rimasta senza
compagno, non aveva potuto fare altro che seguirlo nella sua assurda
corsa,
senza negarsi il piacere di ingiuriarlo in tutti i modi possibili.
Il
sopracciglio sinistro di Haru si inalberò verso
l’alto
nell’appuntarsi sulla figura scomposta della giovane: i
capelli increspati
erano sfuggiti in buona parte all’elastico e ricadevano sul
volto accaldato, da
cui lo fissavano due infuriati occhi nocciola.
«Non
potevo
rimanere in aula» terminò lui, dandole le spalle.
«Perché?»
insistette lei. «Non avevi un Diavolo della Lava alle
calcagna.»
Rose
si reputava una persona mediamente paziente: non faceva
mistero delle proprie simpatie o antipatie, ma erano rari i casi in cui
si
dimostrasse realmente villana. Quella volta, però, non
riuscì a trattenersi:
afferrò lo studente nipponico per un braccio costringendolo
a voltarsi. La
manovra fu così brusca che il ragazzo batté la
nuca contro la parete, ma Rose
non vi badò e lo investì con le domande che le
ribollivano nella testa da
quando aveva conosciuto quell’indecifrabile straniero:
«Sei
qui da due
mesi, e non sappiamo niente di te. Nessuno
sa niente di te. Non sappiamo niente dei tuoi genitori, della tua
famiglia, dei
tuoi amici. Eri morto prima di arrivare qui, per caso?»
«Sono
una persona
riservata…» si discolpò Haru, ma non
servì a placare il fuoco della giovane:
«No,
tu sei
ermeticamente sigillato in te stesso! Non ti è mai sfuggita
una singola parola,
e quando parli con gli altri non fai che rigirare i loro discorsi in
modo da
non rivelare niente di te. Di cosa hai così paura? Credi che
saremmo pronti a
pugnalarti alle spalle?»
Rose
quasi si morse le labbra per quell’ultima invettiva: il
lampo ferito che attraversò le iridi di onice del giovane la
fece pentire
dell’infelice scelta di vocaboli.
«Succede
molto più
spesso di quanto si possa pensare» sorvolò Haru,
la solita compostezza appena
intaccata da un alone malinconico. «Vuoi conoscere qualcosa
di me, Weasley-san?
Allora seguimi.»
Il
giapponese le negò di nuovo la sua attenzione e
squadrò
il soffitto, apparentemente assorto. Frugò con una mano
nelle tasche e ne
estrasse un finissimo rettangolo di quella che si rivelò
essere carta di riso.
Sussurrò qualcosa sulla punta della sua bacchetta, che si
colorò di nero, e con
quella vergò uno strano ideogramma sul foglio.
Rose
osservò con meraviglia il foglietto che si scuoteva a
mezz’aria e che cominciava a piegarsi da solo, frenetico ma
preciso, fino ad
assumere la forma di una piccola gru. L’uccello di carta
batté un paio di volte
le ali, poi partì spedito verso una destinazione nota solo a
lui. I due giovani
si affrettarono a seguirlo.
«Cos’era
quello?»
sbuffò Rose, correndo al massimo delle sue forze.
«Un origami cercatore»
spiegò Haru. «È una
delle magie di base orientali.»
Un occhio di
pece
la fissò da sopra la spalla, mondato da qualunque ombra di
derisione o
superiorità.
«Hai
detto che non
sono bravo con gli incantesimi occidentali, Weasley-san. Infatti, la
mia specialità
è un’altra. Tra poco la vedrai.»
***
Albus
inalberò la
sciarpa contro il freddo dicembrino, e innalzò
l’orlo del cappotto fino alle
orecchie.
Quel
pomeriggio si sarebbero congelati durante gli
allenamenti di Quidditch; forse Bartold gli avrebbe concesso di finire
prima,
se il meteo si fosse rivelato troppo ostico.
Fece
mentalmente l’inventario dei capi invernali presenti
nel suo armadio mentre percorreva il sentiero che lo avrebbe riportato
a
scuola.
Hagrid
non era più giovane come una volta, e nelle giornate
umide come quella le sue vecchie ossa cigolavano. Albus aveva preso
l’abitudine
di recarsi a casa sua prima dell’inizio delle lezioni per
aiutarlo a prepararsi
un the bollente da bere a colazione e un altro da mettere in un thermos
e che
il gigantesco guardiacaccia avrebbe consumato nel corso della giornata.
Era
molto affezionato ad Hagrid, che trattava alla stregua
di uno zio, e quello era il suo modo per dimostrarglielo; il
guardiacaccia
aveva provato quanto tenesse a lui mascherando alcune marachelle del
gruppo di
Albus negli anni precedenti.
Alitò
sui guanti di lana con i colori della sua Casa,
sfregando i palmi tra di loro. Il profilo della scuola si stagliava
indistinto
nella bruma della mattina, e Albus soffiò una nuvoletta di
fiato condensato.
L’inverno
stava raggiungendo il proprio cuore: si stendevano
davanti a lui almeno altri due mesi di freddo gelido, passati a tremare
per gli
spifferi e a cercare ristoro in un bagno bollente.
Si
consolò pensando che Natale era vicino, e con esso le
vacanze e i festeggiamenti per l’anno nuovo. Avrebbe dovuto
scegliere un giorno
per vagabondare per i negozi assieme ai suoi amici, e si sarebbe
ripetuta la
scena di tutti gli anni in cui ogni tanto qualcuno strillava a qualcun
altro di
voltarsi per comprare il regalo senza essere visto dal diretto
interessato.
Si
bloccò di colpo, folgorato da un altro pensiero. Forse
Scorpius avrebbe portato anche Margaret.
Quella
ragazza non suscitava la sua simpatia, e nemmeno il
suo risentimento; era semplicemente un pezzo stonato nel puzzle formato
dal
loro gruppetto. Pensare che sarebbe stata presente anche lei al loro
rituale
natalizio – che probabilmente avrebbe tenuto Scorpius per
mano tutto il tempo,
e forse avrebbe fatto quei versetti scemi che aveva visto fare dalle
ragazze in
fase di corteggiamento – gli procurava la sensazione
fastidiosa di una carezza
contropelo.
Stava
per emettere un sonoro sbuffo, ma una figura
intravista nella caligine acquosa gli fece morire il respiro in gola.
La foschia su
cui
si stagliavano le ombre degli alberi rendeva l’atmosfera
simile ai boschi
spettrali di alcune storie dell’orrore, e Albus
attribuì a quell’ambientazione
lugubre il primo brivido che gli percorse la schiena.
L’uomo
sfocato di fronte a lui non sembrava risentire del
gelo invernale: i suoi abiti parevano più leggeri della
nebbia che lo
attorniava, eppure non era scosso nemmeno dal più piccolo
fremito. Le maniche
ampie e lo scollo sovrapposto gli ricordarono i vestiti di Haru, ma
quelli
dello sconosciuto erano più scuri e funerei, lo stesso
colore degli stracci dei
Dissennatori. Inoltre, il loro compagno indossava sempre i jeans sotto
le sue
particolari maglie; l’abito di quell’uomo, invece,
cadeva dritto fino a terra,
lasciando scoperti un paio di sandali di corda del tutto inadatti a
sopportare
l’aria da neve di quel giorno.
Albus
stava per riprendere la sua strada quando l’individuo
sollevò un braccio. Fino a quel momento aveva tenuto le mani
nascoste nelle
larghe maniche del suo vestito, e il giovane desiderò che
avesse continuato a
farlo: le dita che ne emersero erano ossute e nodose come se una
sanguisuga le
avesse spolpate di tutta la carne, lasciando solo una patina di pelle
sull’osso.
Mosse
un passo all’indietro, ed un ramo scricchiolò
sotto la
suola dei suoi scarponi.
L’uomo
ruotò la testa a scatti fino a comprendere il
tremante Slytherin nel suo campo
visivo. Albus impugnò istintivamente la bacchetta quando il
ghigno
dell’individuo fendette la nebbia. Il sinistro sconosciuto
non smise di sorridere
in quel modo perverso nemmeno quando chiuse la mano a pugno, in una
strana
malia che fece deflagrare i vetri della biblioteca.
Lo
spavento piegò le ginocchia ad Albus e gli sbarrò
gli
occhi, ma non sortì alcun effetto sull’uomo, che
infilò nuovamente il braccio
nella manica come se nulla fosse successo.
Lo
sconosciuto rialzò il viso su di lui, e Albus dovette
ingoiare il suo stesso grido. Aveva capito cosa lo avesse agghiacciato
di
quell’essere, ancor prima di metterlo a fuoco: i suoi capelli
assomigliavano a
serpenti di catrame, divisi in corpose ciocche che scendevano fino al
petto, e
il loro colore tenebroso risaltava ancora di più la pelle,
talmente diafana da
apparire azzurra, e gli occhi in cui il bianco della cornea si era
espanso fino
a comprendere iride e pupilla, creando un orribile specchio cieco.
«Tu…
conosci…
Harunobu?»
Albus
non riuscì a rispondere, troppo traumatizzato
dall’aver sentito parlare una creatura che aveva
l’aspetto di un cadavere.
L’uomo
si avvicinò di qualche passo, lasciando dietro di
sé
una scia di orme: qualunque cosa fosse, era reale.
La
mano di Albus rintracciò febbrilmente il Cercapersone
nella tasca del cappotto e premette il tasto laterale, quello delle
emergenze:
un messaggio di allarme rosso sarebbe stato immediatamente inviato ai
suoi
amici.
«Tu…
conosci…
Harunobu?»
Le labbra livide
dell’uomo faticavano ad articolare le parole, quasi dovessero
costruirle una ad
una con enorme fatica. L’inglese non era la sua lingua madre,
come era ovvio
dai suoi vestiti.
Le
sopracciglia dell’individuo si congiunsero per esprimere
rincrescimento
e, un secondo dopo, Albus poté vederle da una distanza molto
ravvicinata: senza
emettere un suono, senza spostare un filo d’aria, lo
sconosciuto si era
improvvisamente accostato a lui.
«Tu…
conosci
Harunobu?» sillabò irritato.
La gola si
rifiutò
di collaborare, e Albus non poté fare altro che annuire,
augurandosi che quelle
pupille morte lo vedessero. Così fu, e una delizia
scellerata stese i
lineamenti dell’uomo.
«Dove…
è… adesso?» scandì,
dopo essersi umettato le labbra.
«Non
lo so…» esalò
Albus, terrorizzato.
«Tu…
hai detto… di
conoscerlo…» si sforzò di dire
l’altro, gli occhi vuoti di nuovo ribollenti di
collera.
«Non
so dove sia…»
«Tu
hai…»
Albus nemmeno si
accorse di quello che stava facendo; la sua mano sgusciò
fuori dalla tasca,
puntò la bacchetta dritta al petto dell’uomo e la
sua bocca strillò:
«Stupeficium!»
Non
aspettò nemmeno
di vedere l’effetto del suo incantesimo; sentì il
corpo dell’altro allontanarsi
con uno schianto, e le sue gambe presero a correre più
furiosamente che mai.
Il
portone di Hogwarts non era lontano: sarebbero bastati
pochi minuti per raggiungerlo.
Il
respiro affannato si condensava in una scia di nuvolette
dalla sua bocca, che all’improvviso si interruppero contro
qualcosa di compatto
e tiepido. Ancora prigioniero nella rete del panico, Albus si
dibatté
forsennatamente per liberarsi di quell’impiccio sul suo
cammino: la creatura
d’oltretomba poteva avventarsi su di lui da un momento
all’altro.
«Siamo
noi!»
Una voce
ripeté
quella frase per quattro volte prima che Albus riuscisse finalmente a
recepirla. Il giovane batté le palpebre per liberarsi della
paura che gli
impediva di vedere con correttezza la realtà, e si accorse
finalmente di aver
sbattuto contro a Scorpius e Nott, giunti fin lì in risposta
al suo messaggio.
Si
sentì travolgere da un sollievo totale, che
traboccò dal
suo cuore e invase tutto lo spazio circostante, e avrebbe probabilmente
abbracciato i suoi amici fino a spezzare le loro spine dorsali se il
terrore di
poc’anzi non fosse stato così radicato in lui.
«Dobbiamo
andarcene!» si agitò, spingendoli verso la scuola.
«C’è un uomo…»
Macauley
lanciò uno strillo convulso e puntò un indice
tremante verso di lui tartagliando, allucinato:
«Hai… hai un lombrico…
sulla spalla…»
Albus fece appena in tempo a guardare nel punto indicato
da Nott che
Scorpius notò in un sibilo atterrito:
«Non sarà quello il tuo maggiore
problema…»
Scorpius
rimase freddato sul posto, e Albus era ormai troppo
sconvolto per avere una qualsiasi reazione; Macauley invece si
esibì in una
sequela di squittii disgustati e di saltelli atletici per evitare lo
schifo che
si stava radunando attorno a loro.
Vermi
e insetti di ogni specie, forma e colore avevano stretto
un orribile cerchio semovente, intrappolandoli con i loro orridi corpi.
Non erano
normali artropodi: la loro sagoma ricordava quelli che anche i ragazzi
conoscevano da una vita, ma vi era sempre un dettaglio sbagliato, che
fosse la
tonalità, la grandezza o la bellicosità
dimostrata dalle loro tenaglie
frementi.
Albus non perse
tempo e fece scattare la bacchetta davanti alle labbra: il terrore
aveva
raggiunto il punto di saturazione, lasciando dietro di sé
una mente
spaventosamente fredda e tremendamente bisognosa di una via di fuga.
«Focaia» recitò,
soffiando sulla punta.
Quella era una delle tante magie che non avrebbero dovuto conoscere, e
che loro
avevano imparato durante la lotta per la sopravvivenza con Achill
Scholz: un
fungo di fuoco si gonfiò dall’apice della verga e
investì una schiera di
invertebrati, carbonizzandoli all’istante.
Non
vi fu bisogno di parole: tutti e tre imboccarono quella
strada di fortuna alla massima velocità, ma dovettero
frenare poco dopo.
Muto
come uno spettro, il misterioso uomo si era
materializzato davanti a loro. Osservò la devastazione
dell’esercito degli
insetti, e il collo stridette come se le ossa e i muscoli fossero da
tempo in
disuso.
«I
miei… servi»
barbugliò, in compianto per la sua truppa sacrificata. Il
lutto lo abbandonò
presto: rizzò il capo e ripeté, per
l’ennesima volta: «Dove… è
Harunobu?»
«Io…
io lo strozzo,
quando lo vedo!» esacerbò isterico Macauley. Aveva
una reazione di rigetto
verso tutte le cose che riguardavano il giapponese, ma
l’essere accerchiato da
un esercito di artropodi e minacciato da un tizio fresco di tomba per
causa sua gli fece odiare
lo studente straniero con tutte le sue forze.
«Non
lo sappiamo»
prese la parola Scorpius, seguendo l’esempio di Albus e
stendendo la bacchetta
davanti a sé.
«Voi…
siete… di
Hogwarts» brancolò l’uomo.
«Non
siamo
informati di tutti i suoi spostamenti» ribatté
Scorpius.
L’individuo
lanciò un grido così bestiale da annullare tutti
i loro pensieri e le loro reazioni; per questo Scorpius non
riuscì a muoversi
quando l’uomo allungò una mano sepolcrale verso di
lui e gli scagliò contro
un’ondata di energia malefica. La forza oscura lo
colpì al centro del petto,
scagliandolo contro l’albero alle sue spalle come una bambola
rotta; la testa
assunse un’orribile angolazione nell’urto, e la
schiena produsse un rumore così
forte da scuotere perfino la corteccia del vegetale.
Lo
sconosciuto non poté però infierire: gli altri
due
studenti si pararono di fronte al loro compagno ferito, tenendo
l’uomo sotto il
tiro della bacchetta.
«Dove…
è… Harunobu!»
ululò quello, picchiandosi la testa cava con le mani ossute.
«Stai
offrendo uno
spettacolo vergognoso.»
Il
viso dell’uomo parve liquefarsi e solidificarsi di nuovo
come cera in una maschera di gioia distorta che raggelò il
cuore a tutti i
presenti. Si voltò festoso, e ignorò
completamente la ragazzina dalla chioma
ramata che accompagnava il giovane tanto a lungo chiamato.
Haru
si guadagnò il rispetto istantaneo di Albus per la
freddezza altera con cui osservò lo spettro che si
avvicinava a lui.
Scorpius,
dietro le schiene dei suoi amici, si issò
faticosamente in piedi, le orecchie ottenebrate dall’urto che
risuonavano di un
discorso aspro in uno strano idioma: l’individuo misterioso e
lo studente
straniero si stavano affrontando in una schermaglia dialettica nella
loro
lingua madre.
Più
l’essere tombale si infiammava, più Haru raggelava
lo
sguardo e le parole: anche se il significato delle loro frasi era
sconosciuto,
i ragazzi di Hogwarts si sentirono quasi lacerare dal tono folle dello
sconosciuto e pietrificare dalle repliche atone del giovane giapponese.
Quel giorno, il
quartetto sperimentò sulla propria pelle una teoria che
avevano sentito
rimbalzare in molti libri e in molti discorsi: gli eventi possono
degenerare
con la velocità di un fulmine.
Haru
disse qualcosa di particolarmente offensivo nei confronti
dell’essere immondo: i suoi occhi ciechi si sbarrarono per
l’ira, e i suoi
artigli repellenti svettarono contro il cielo di fumo.
Rose,
sebbene fosse al fianco di Haru, non riuscì a cogliere
né i suoi movimenti né quelli del suo avversario;
vide solo l’effetto dei loro
strani incanti: lo sconosciuto aveva sputato una strana parola, e, in
risposta
al suo comando, gli insetti attorno a lui si erano agglomerati con un
orribile
suono di antenne sfregate e carne molle incollata, tingendo di un bel
verde
nauseato le guance di Nott. In risposta, Haru aveva mormorato a labbra
strette
una breve litania, e aveva strattonato il bracciale a grani che portava
al
polso fino a stapparlo.
Una belva
raccapricciante, con la forma di uno scarafaggio, le chele di uno
scorpione e
la mandibola di un coleottero, si era avventata su di loro, e avrebbe
probabilmente tagliato in due il ragazzo asiatico se un terzo elemento
non si
fosse frapposto tra di loro: un drago argenteo dal corpo flessuoso e
dallo
sguardo implacabile aveva serrato le fauci sul ventre scoperto della
creatura,
facendola frinire di dolore.
Haru non
riuscì a
voltarsi nella loro direzione, troppo concentrato a mantenere vivo
l’incantesimo che permetteva al drago di muoversi, ma il suo
grido risultò
comunque nitido:
«Andatevene!»
Rose
non si disturbò di replicare a parole: estrasse la
bacchetta e accompagnò ad un elegante gesto una semplice
formula:
«Stupeficium!»
La
belva inumana barcollò insieme al suo evocatore quando il
raggio magico colpì le costole rachitiche
dell’uomo.
«Non
giocare a fare l’eroe, Harunobu» lo
apostrofò lei,
sollevando di nuovo la verga per una fattura difensiva.
«Solo
se tu non mi tratterai come una principessa da salvare»
in quel momento, il drago troncò con un morso una chela
dell’abominio, ed essa cadde
al suolo frantumandosi in una miriade di insetti che corsero a
nascondersi nel
sottosuolo. «Weasley-san» concluse Haru, scostando
un ciuffo scuro dagli occhi.
Le dita di Albus
si
chiusero attorno alla bacchetta come quelle di un naufrago attorno
all’ultima
ancora di salvezza. Suo padre gli aveva spiegato come usare quella
magia:
avevano fatto pratica nel giardino dietro casa tante volte per
perfezionarla.
Lo aveva indottrinato a dovere sui benefici di quell’incanto.
Ma non aveva mai
pensato che la prima volta in cui lo avrebbe messo in pratica sarebbe
stata
conto un morto formato da vermi e artropodi e un uomo pronto per la
bara.
Inspirò
a fondo, e l’aria invernale gli corroborò i
polmoni
e lo spirito; prese fiato dal centro del petto e gridò la
formula che suo padre
gli aveva insegnato con tanta cura:
«Expecto Patronum!»
Per
qualche istante, il mondo si resse su
un’immobilità
totale, che fece temere ad Albus di avere disastrosamente fallito. Poi,
dagli
alberi immoti si levò un ululato cristallino, e il minore
dei Potter poté
vedere per la prima volta il suo Patronum.
Era talmente bello che il ragazzo non riuscì ad associare
quel magnifico
esemplare ad una sua opera: un lupo gigantesco lo fissava con i suoi
occhi
acuti, splendido nel suo manto argenteo e nella sua muscolatura
massiccia.
Albus
richiuse di scatto la bocca che non si era accorto di
aver spalancato quando il lupo scattò verso
l’abominio, trapassandolo: l’enorme
insetto quasi si rovesciò per il contatto con
l’energia dell’animale del bosco,
e agitò penosamente da testa, infastidito dalla sua luce
pura. Il mago serrò la
presa sulla bacchetta e si concentrò per sincronizzare i
movimenti del suo Patronum a quelli
del drago, mentre
altre due verghe si levarono nella battaglia: Scorpius e Macauley
seguirono
l’esempio di Rose, e bombardarono il mago mefistofelico con
tutti gli
incantesimi offensivi del loro repertorio.
Il
bosco scintillò delle luci sanguigne delle magie, ed
echeggiò per i rumori della battaglia tra le creature
evocate; Macauley,
Scorpius e Rose marciarono in avanti quando il mago cominciò
a barcollare sotto
i loro incanti, facendo perdere vigore anche alla sua creatura,
stordita dal
lupo e ferita dal drago.
La
sorpresa che li fece sussultare, però, non fu legata ad
un possente contrattacco dell’individuo lugubre, ma al suo
improvviso
accartocciarsi su se stesso. Non si limitò a rannicchiarsi:
la sua pelle si
spiegazzò come una vecchia pergamena, le mani si
rattrappirono allo stesso modo
di un foglio di carta gettato nel camino, perfino i vestiti si
curvarono al
centro, coprendosi di pieghe; il viso collassò sul kimono logoro, che a sua volta si
compattò in un piccolo
concentrato di rughe. La sfera di tessuto semovente e incartapecorito
continuò
a rimpicciolirsi fino ad implodere, e quella piccola deflagrazione
causò la
tragica sorte della belva: le chele tremarono per il tremendo stridio
che la
mostruosità emise mentre il suo capo si sfaldava in una
ripugnante cascata di
insetti e vermi. Scorpius sentì uno strillo da donnicciola
alla sua sinistra, e
l’istante successivo il suo corpo era appesantito da una
cinquantina di chili
in più, precisamente quelli di Macauley, che gli si era
gettato addosso per
sfuggire all’orda di artropodi che sciamava a nascondersi nel
bosco.
«Schifose
bestiacce!» sibilò Nott, pestando per bene il
terreno contaminato prima di
poggiarvi di nuovo il piede sopra.
«È
svanito»
commentò Rose, molto più pragmatica
dell’amico Slytherin.
«Come è possibile?»
«Non
era
l’originale. Era un doppio.»
I
cinque giovani scattarono istintivamente sull’attenti
quando la voce della Eeriemay li colse alle spalle.
La
donna era riuscita a materializzare un paio di mocassini
ai suoi piedi, in modo da non arrivare sul luogo del combattimento con
i geloni,
e a far sparire le fastidiose scarpe con il tacco. Gli occhi smeraldini
li
fissarono uno dopo l’altro, indecifrabili, e si appuntarono
sulle due creature
di luce argentata.
«Albus.
Harunobu.
Eccellente lavoro» si complimentò. «Ora
congedateli.»
Il giapponese si
chinò a raccogliere le perle del rosario e
reclinò il capo in segno di
rispetto; il drago gli sfiorò la fronte con il muso
squamoso, dopodiché
sfrecciò verso il cielo e si dissolse tra le nuvole
accecanti. Albus si accomiatò
più goffamente dal suo Patronum,
ma
il lupo sopperì alla sua mancanza di stile lanciando un
secondo ululato e
sparendo nel bosco con la grazia di un animale fatato.
«Professoressa,
cosa è successo?» domandò Scorpius, la
schiena addossata all’albero contro cui
si era schiantato: ora che l’adrenalina della battaglia era
scomparsa, poteva
avvertire con chiarezza quanto la dura corteccia lo avesse scorticato.
«Era
pieno di
insetti!» sberciò isterico Nott.
«Come
è possibile
che sia scomparso in quel modo?» protestò Rose.
La
professoressa utilizzò un gesto perentorio da direttore
d’orchestra per imporre il silenzio ai suoi febbricitanti
allievi.
«Avrete
le risposte
che volete. Ma prima dovete andare in infermeria. Alcuni di voi
sembrano averne
bisogno» la Eeriemay condì il tutto con una
vistosa occhiata a Scorpius. «Lasciate
che Madamina vi curi. E dopo parleremo.»
I
giovani annuirono e si affrettarono a seguire l’insegnante
per il sentiero che portava a Hogwarts. Macauley e Albus aiutarono
Scorpius a
camminare, improvvisandosi stampelle umane, mentre Rose e Haru li
precedettero
in testa.
La
Eeriemay fermò tutto l’eterogeneo gruppetto a
metà strada
per un importante annuncio.
«Avete
sconfitto un
doppio da soli. Sono vostra responsabile e non dovrei
dirlo…»
Il
sorriso che le solcò le labbra meno truccate del solito
fu il più genuino che le avessero mai visto esibire
dall’inizio del primo anno.
«Sono
fiera di voi.»
***
«Mi
chiedo cosa
intendesse dire.»
«Forse
che è orgogliosa
del nostro operato.»
«Mi
chiedo se non
ci sia qualche significato nascosto.»
«Tu
sei troppo
cervellotica, Weasley-san. Forse, a volte, le persone intendono dire
semplicemente ciò che dicono.»
«Non
accetterò una
simile predica da te, Harunobu.»
Il giapponese
preferì iniziare una muta discussione con le sue dita
intrecciate che
proseguire quella con Rose. Madamina li aveva spediti fuori
dall’infermeria
quasi istantaneamente: non avevano riportato alcun danno, al contrario
di
Scorpius.
«Non
hai usato la
bacchetta per evocare quella… cosa.»
L’asserzione
di
Rose lo colse del tutto impreparato, per cui gli occorse qualche
secondo in più
del consueto per rispondere:
«È
uno shikigami.
L’equivalente orientale
dell’evocazione di tuo cugino. Basta il rosario per
richiamarlo» il giapponese
lanciò un’occhiata di rammarico al suo polso nudo.
«Dovrò farne uno nuovo.»
«Quindi
è questa la
tua specialità?»
Haru la
fissò in
silenzio dietro gli occhiali, e Rose scelse con cura le parole per
chiedere:
«Gli
incantesimi
della tua terra.»
La nostalgia
assottigliò gli occhi a mandorla del ragazzo, e per un
attimo la giovane poté
cogliere il vero significato della malinconia nelle sue iridi offuscate.
«Sì.
Quelli sono la
mia specialità» concluse lui.
Entrambi
fissarono
il soffitto prima che uno dei due trovasse la frase giusta per
interrompere
quel silenzio.
«Hai
combattuto
bene» si complimentò Haru.
«Anche
tu. Il drago
è stato molto d’effetto»
restituì Rose.
Il
soffitto magnetizzò di nuovo gli sguardi di entrambi, e
questa volta fu la ragazza a parlare.
«Perché
siamo
rimasti qui ad aspettare, anche se Madamina ha detto che è
tutto a posto?»
Il motivo
comparve
in quel momento sulla porta dell’infermeria: Louis
uscì con lo sguardo
abbassato ed un sorriso sommesso, segnali che la diagnosi non era stata
rosea
come sperava ma nemmeno catastrofica come immaginava.
«Louis-san»
lo
chiamò Haru. Il piccolo si voltò verso di lui, il
visetto grazioso rannuvolato
dal sospetto: non conosceva lo studente straniero, eppure lui lo aveva
appena
chiamato per nome. Provava un’istintiva diffidenza nei
confronti degli
sconosciuti che sembravano essere al corrente dei suoi dati personali.
«Devo
solo farti
qualche domanda su quello che è successo in
biblioteca» l’espressione ostile del
più giovane non mutò, ma l’asiatico
proseguì imperterrito: «Valentine ti ha
salvato?»
Louis
annuì, senza perdere il suo grugno poco minaccioso.
Ancora non capiva come il giapponese avesse scoperto il suo nome o
perché conoscesse
gli avvenimenti della biblioteca.
«Ed
è intervenuto
prima o dopo lo scoppio dei vetri?»
«Mi ha
buttato
sotto il tavolo un secondo prima dell’attacco»
rispose cauto il piccolo.
«Come
se avesse
saputo in anticipo cosa sarebbe successo.»
Haru
sussurrò a se stesso quella affermazione, ma non fu
abbastanza sottile: anche Louis la udì, e si accorse anche
dell’espressione
investigativa dell’orientale. Tutto ciò ebbe su di
lui l’effetto del morso di
un serpente; scattò all’indietro e
obiettò con rabbia:
«Valentine
non è
coinvolto.»
«Non
ho mai detto
questo.»
«Ma lo
stavi
insinuando» Louis rizzò il capo biondo e
dichiarò, con la voce bianca il più
possibile stentorea: «Non mi importa cosa pensi: Valentine mi
ha salvato. E
questo non cambia.»
La matricola non
ascoltò una parola di più: girò su se
stesso e scomparve nel corridoio il più
velocemente possibile.
«La
prossima volta,
prova con un approccio più gentile»
consigliò Rose, divertita dal cipiglio con
cui Louis aveva tenuto testa al giapponese.
«Non
avevo detto
nulla» si difese Haru. «A quanto pare, non sei
l’unica a vedere sottintesi
ovunque, Weasley-san.»
L’asiatico
sopportò la successiva ramanzina con la
remissività di chi sa di avere la coscienza sporca.
Quella
volta, era davvero presente un’insidia nelle sue
parole, e il piccolo l’aveva colta.
Era
convinto che Valentine fosse in qualche modo coinvolto,
o che perlomeno fosse a conoscenza di quell’attacco.
In
fondo, quel ragazzo li aveva già traditi una volta.
Non
avrebbe esitato a farlo di nuovo, se gli si fosse
presentata l’occasione giusta.
E
loro avrebbero dovuto essere preparati per quel giorno.
***
Scorpius
toccò
nervosamente il vistoso collare che Madamina gli aveva allacciato
addosso a
tradimento.
«Ora
capisco come
si sentono i cani» brontolò, cercando la striscia
adesiva che teneva
quell’orrore attaccato al suo collo.
«Madamina
ha detto
che era necessario» cercò di addolcirlo Albus.
«Sai
come si chiama
questo?» Scorpius ticchettò le dita sul collare e
proclamò: «Vendetta. Da
quella volta che sono caduto a Quidditch e ho continuato a giocare
anziché
venire in infermeria.»
«Non
credo che
Madamina sia così rancorosa.»
«Io
credo che la
memoria di Madamina sia più ferrea di quanto
immaginiamo.»
La bocca di
Albus
si piegò in un sorriso sfumato quando i suoi occhi
dirottarono sul proprio polso:
Madamina era stata più clemente con lui, e gli aveva
appiccicato un misero
cerotto su una piccola escoriazione. Non si era invece risparmiata con
Scorpius: lo aveva ficcato a forza nella branda ospedaliera e gli aveva
avviluppato il collo con quell’infernale strumento medico,
dicendo che il colpo
era stato più forte del previsto e che avrebbe dovuto
riposarsi.
«Non
vai a lezione?»
s’informò Scorpius, godendosi l’unica
cosa buona di quel soggiorno forzato: i
morbidissimi cuscini dell’infermeria dietro le spalle.
Albus scosse la
zazzera corvina.
«La
Eeriemay ha
detto che potevamo prenderci una giornata di libertà. In
fondo, oggi abbiamo
rischiato di morire.»
«Per
noi non è una
grossa novità. Ti ricordi le Scholzioni extra che abbiamo
dovuto fare?»
«Intendi
quella
volta che ci ha buttato in una tana di Gorgoni nane?»
«O
quella in cui
abbiamo dovuto cacciare un Orso Antropomorfo.»
«O
quando abbiamo
affrontato una legione di Termiti Sanguinarie.»
«Abbiamo
il passato
di un veterano di guerra» esalò Scorpius,
passandosi una mano sugli occhi. «E
abbiamo solo quattordici anni. Immagina cosa potrà succedere
quando ne avremo trenta.»
«Una
cosa è certa»
profetizzò Albus. «Avremo un sacco di aneddoti per
i nostri nipotini.»
Scorpius ebbe
una
proiezione mentale di loro due, vecchi e canuti, mentre intrattenevano
un
pubblico di mocciosetti con i racconti delle loro mirabolanti
avventure:
immaginò Albus salire sul bastone da passeggio come se fosse
una scopa, e lui
mulinare gli occhiali in giro per scimmiottare la bacchetta. Il quadro
complessivo fu così comico che una risata
zampillò spontanea.
«Anche
gli altri
hanno il pomeriggio libero?» chiese Scorpius.
«Non
Rose e Haru»
annunciò Albus, senza aggiungere il motivo: sarebbe stato
innaturale che i due
cervelloni del gruppo rinunciassero alle loro beneamate nozioni
quotidiane. «Credo
che Nott sia impegnato in un’opera di disinfestazione totale
del suo corpo.»
«E tu
hai
intenzione di sprecare il tuo pomeriggio in infermeria?»
«Non
fare il
sarcastico. Sono infortunato anche io» contestò
Albus, facendo svettare il
microbico cerotto.
Scorpius
preferì
affondare la schiena nel cuscino piuttosto che stuzzicare ancora il suo
amico,
e Albus ne approfittò per rendere più comoda la
sua posizione: era piazzato su
una sedia a lato del letto del compagno, e sfruttò una parte
libera di
materasso per appoggiarvi le braccia incrociate e usarle come cuscino.
Le
emozioni della mattinata lo avevano talmente sfinito che
trascorsero solo pochi minuti prima che il suo respiro si appesantisse
in un
sonno esausto.
Scorpius
sollevò la testa, per quanto il collare rigido gli
permettesse, e studiò l’amico. Del loro gruppo,
Albus era quello che più di
tutti manteneva ancora dei tratti infantili, visibili nelle guance
tonde e
negli occhi grandi, ora chiusi nel sonno. L’adolescenza si
stava pian piano
facendo strada nella linea della mascella, nelle spalle e nei
centimetri di
altezza guadagnati, ma non aveva ancora cancellato del tutto il bambino
che
Albus era stato.
Scorpius
allungò una mano per accarezzare i capelli corvini
del ragazzo, godendosi quella serenità: era tanto tempo che
non parlavano con
tranquillità, ed era assurdo che fossero riusciti a farlo
solo dopo essere
stati quasi uccisi da un mago scheletrico. Ed erano parecchi giorni che
lui e
Albus non si ritrovavano a chiacchierare nello stesso letto. Anche in
quel
caso, la branda di un’infermeria non era prevista nelle sue
ipotesi di
riconciliazione, ma era comunque gradita, se serviva a recuperare il
loro
vecchio legame.
Scorpius
si rilassò in quella pace familiare, senza
accorgersi di avere accarezzato i capelli dell’amico tutto il
tempo.
Forse
Madamina aveva ragione: avrebbero fatto meglio a
riposarsi tutti e due.
***
Margaret
Finnigan arrivò
in infermeria con le labbra spalancate dal fiatone.
Aveva
saputo che Scorpius era stato ferito, e si era
precipitata a verificare le sue condizioni.
Si
fece dire da Madamina il numero della stanza e decelerò
il passo solo in prossimità della porta, per evitare di
disturbarlo in caso
stesse riposando.
Girò
la maniglia e fece ruotare piano i cardini per
sbirciare all’interno. Rischiò di rovinare tutte
le sue premure quando la
sorpresa minacciò di farle scoppiare sulla bocca una
rumorosa esclamazione.
Scorpius era
steso
sul letto, la testa rialzata da due cuscini e un collare medico attorno
alla
gola. Gi occhi erano chiusi in una rilassatezza totale, e le labbra
erano
piegate in una curva dolce che sapeva di serenità.
C’era però un dettaglio non
previsto, in quell’idillio: accanto al suo ventre riposava
Albus, la testa
appoggiata sulle braccia conserte che ne nascondevano il viso, la cui
unica
parte visibile erano le ciglia che scurivano leggermente gli zigomi con
la loro
ombra.
La
mano di Scorpius era appoggiata sui capelli di Albus, con
le dita intrecciate alle ciocche di ebano, prova che il giovane non
aveva solo posato
il palmo sulla nuca del compagno, ma gli aveva accarezzato i capelli
ripetutamente.
Margaret
sentì la
necessità di deglutire, mentre richiudeva la porta. Da
quando stavano insieme,
Scorpius l’aveva toccata a malapena: era sempre lei a
prendere l’iniziativa per
tenergli la mano, e lui l’abbracciava solo quando lei glielo
chiedeva.
Era
una condizione abbastanza umiliante per cominciare una
relazione, ma era convinta che presto Scorpius si sarebbe abituato a
lei, e
tutta quella timidezza si sarebbe dissolta. Fino a quel momento: non si
era mai
dimostrato altrettanto serafico in sua presenza, anzi, c’era
sempre qualcosa di
artificioso nei suoi movimenti, come se non sapesse esattamente come
comportarsi e si stesse attenendo ad un copione scritto da altri.
Che
senso aveva essere la sua ragazza, se aveva più
intimità
con i suoi amici che con lei?
Scrollò
la testa e uscì dall’infermeria.
Era
venuta per assistere Scorpius, ma era chiaro che non era
della sua assistenza che aveva
bisogno.
***
Nott
sobbalzò sul
letto quando bussarono alla porta.
Erano
passati quattro giorni dall’attacco del mago dei
vermi, ma il terrore di quell’esperienza non era ancora
svanito: da allora, i
suoi incubi si erano popolati di insetti giganteschi e sporchi che
piovevano da
tutte le parti, attentando alla sua incorruttibilità
igienica.
Fortunatamente,
fu
qualcosa di più pulito e profumato ciò che si
presentò dinanzi a lui quando
aprì la porta: la Eeriemay lo scrutò
dall’alto dei suoi tacchi laccati e
domandò, senza nemmeno salutare:
«Scorpius
è stato
dimesso dall’infermeria?»
«Sì…»
«Allora
raduna il
tuo squadrone, Macauley. Vi voglio davanti al pipistrello entro dieci
minuti,
d’accordo?» lo lisciò vezzosa,
allungandogli un buffetto sulla guancia.
Nott stava per
replicare su quanto il contatto fisico non richiesto fosse socialmente,
psicologicamente e batteriologicamente sbagliato, ma la professoressa
si era
già volatilizzata nel dedalo dei corridoi.
Sbuffò
sonoramente, e afferrò il Cercapersone per facilitare
la ricerca.
All’orizzonte
si
prospettava un’altra megagalattica serata. E non era sicuro
di essere felice di
quella prospettiva.
Eccomi
di nuovo
qui<3
Alcune
dichiarazioni da fare in merito al capitolo: gli origami
sono animali, fiori o altro ottenuti mediante l’arte
orientale di ripiegare un foglio di carte. Gli shikigami,
invece, sono degli spiriti che possono essere evocati
dagli onmyouji (specialisti di arti
esoteriche e divinazione), esattamente come i famigli dei maghi
occidentali.
Questo
capitolo
introduce un po’ il tema della magia orientale…
che sarà spiegato e meglio
analizzato nei capitoli a seguire, non temete<3
Ancora
una
volta, mi scuso profondamente per il ritardo .-. Per evitare un altro
catastrofico allungamento dei tempi di pubblicazione, ho già
cominciato a
scrivere il capitolo successivo, e sono a metà…
spero quindi di pubblicare in
tempi più brevi XD
Come
sempre,
grazie a tutti per essere arrivati fin qui<3
A
presto!
Red
|
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Capitolo 8 *** Natale ad Hogwarts ***
4
Natale
ad Hogwarts
La statua a
forma
di pipistrello sembrava sbarrare le fauci per la
perplessità, quella sera.
Davanti
a lei erano radunati un giapponese, un piccoletto
dagli occhi verdi, un signorino altolocato, uno strano essere in
mascherina e
guanti di lattice e una ragazza che tentava di rimediare
all’intrico di
riccioli rossastri con le dita.
Era
la prima volta nella sua vita marmorea che assisteva
allo schieramento di uno squadrone così male assortito. Ed
il ragazzo che
temeva una guerra batteriologica stava guardando malissimo i suoi arti
di
pietra.
«La
prof avrebbe
anche potuto dirci come si apre, questo affare»
sbottò Macauley.
«In
realtà lo ha
fatto» lo redarguì Haru, garbato.
«E
quando?»
«All’inizio
dell’anno. Io so come si accede a questa sezione del
castello.»
Due
occhi castani sgranati dall’irritazione gli incendiarono
le guance.
«E perché non l’hai
detto prima?»
«Perché
tu non me
l’hai chiesto.»
«Respira,
Nott» il
consiglio di Scorpius lo raggiunse un secondo prima di mettere in atto
i suoi
loschi piani, e fu così che il collo del giapponese non
venne ghermito dagli
esasperati artigli di lattice.
«Puoi
aprirlo?»
propose Albus, in attesa che la pressione di Nott scendesse di nuovo a
livelli
umani.
Haru
si portò davanti alla statua, e tracciò uno
strano
segno sulla sua ala sinistra. Il pipistrello sbatté le
palpebre di granito,
conficcò le grinfie nel suo basamento e cominciò
a sbattere furiosamente le
ali, sollevando il pesante cilindro di marmo da terra.
«Che
significa?» si
schifò Nott, osservando critico il buco oscuro che la statua
aveva aperto.
«Dobbiamo
gettarci
di sotto» spiegò Haru. «La professoressa
ha incantato il pavimento in modo che
il nostro atterraggio sia morbido.»
«Non
pretenderà che
noi…» il resto della frase sfumò in uno
squittio di raccapriccio: sprezzante
del pericolo, Rose aveva stretto la coda che legava la sua chioma
ramata e si
era gettata nel precipizio ombroso. Punto nel suo orgoglio virile,
Scorpius si
lanciò subito dopo di lei: i Giganti delle Montagne
sarebbero diventati educati
come un principe prima che qualcuno potesse dire che un Malfoy aveva
meno
coraggio di una donna. Haru saltò subito dopo di loro e, di
fronte alla statua
ansante per la grande fatica, rimasero solo Albus e Nott. E in pochi
secondi
rimase solo Macauley, che spinse il compagno nell’abisso con
grande galanteria.
Albus
non riuscì nemmeno ad urlare: l’aria gli premette
contro la faccia, bloccandogli le grida e storcendogli la bocca come
quella dei
cani che sporgono la testa dal finestrino in autostrada. Emise un
rantolo
agonizzante quando all’improvviso la gravità si
invertì, facendogli compiere
una capriola su se stesso: l’aria sembrò farsi
più densa, rallentando la sua
caduta, che terminò contro un pavimento soffice. In
verità, non era tanto
morbido quanto molle: il minore dei Potter ebbe l’impressione
di essere finito
in un enorme bacile di formaggio parzialmente cagliato, che si muoveva
come un
essere vivo sotto i suoi piedi, facendolo ruzzolare ad ogni nuovo
tentativo di
muovere un passo. Un tonfo sordo si afflosciò a pochi passi
da lui, e capì che
anche Nott li aveva raggiunti.
«Lumos» sentì
recitare dalla cugina nelle
tenebre, e la luce accesa sulla punta della sua bacchetta
rischiarò l’atmosfera
circostante.
Haru
non sembrava avere particolari problemi di equilibrio:
seguiva i movimenti ondulatori del pavimento con enorme scioltezza,
allo stesso
modo di un domatore che asseconda una tigre. Scorpius aveva trovato un
alleato
nel muro, cui si era appoggiato per non essere rovesciato dalle strane
mattonelle semoventi; Rose aveva rinunciato alla posizione eretta e
procedeva
strisciando come un militare tra le linee nemiche. Nott avanzava a
passi
alternati, passando dalla posizione carponi a quella sdraiata ad una
vagamente
dritta, mentre Albus decise di farsi strada stando il più
acquattato possibile.
«Un’esperienza…
singolare» commentò Haru, una volta raggiunta una
porzione di pavimento
piacevolmente stabile.
I
brontolii di Macauley furono ammortizzati dalla nausea
feroce che gli serrava la bocca dello stomaco; Scorpius
approdò sul suolo
immobile e aiutò Albus a raggiungere a sua volta quel punto
sicuro. Rose
rifiutò ogni aiuto mascolino, e si drizzò in
piedi con le sue sole forze,
sentendosi portatrice della forza femminile come le suffragette
francesi.
«Da
che parte
dobbiamo andare?» s’informò Albus,
accendendo a sua volta la bacchetta come
aveva fatto la cugina poc’anzi.
Il
giapponese indicò loro uno stretto corridoio che furono
costretti a percorrere in fila indiana per evitare il
“potenzialmente fatale
contatto con quelle pareti sporche e marcescenti”, secondo le
tragiche
previsioni di Nott.
Raggiunsero
una porta dopo un breve cammino, e Scorpius, che
apriva la fila, bussò tre volte prima che il legno ruotasse
spontaneamente sui
propri cardini.
Al
contrario dello strampalato atrio dal pavimento
molliccio, l’interno fu molto gradito dagli studenti:
entrarono in una stanza accogliente
dal mobilio comodo e sobrio, ben riscaldata da un caminetto intagliato
nella
parete a nord e bene illuminata grazie all’ausilio di globi
fluttuanti che
spandevano una luce calda,.
«Benvenuti»
li
accolse la Eeriemay, seduta su una poltrona al centro della stanza.
I
suoi alunni furono quasi turbati nel vederla senza i suoi
soliti completini mozzafiato: indossava una tuta bianca priva di
fronzoli, e
perfino il viso sembrava accordarsi con quell’aria di
essenzialità, ripulito da
qualsiasi traccia di trucco.
«Professoressa…?»
la fuggevole intonazione interrogativa venne captata dalle orecchie
della
donna, che minimizzò brevemente:
«Ogni
tanto è
giusto sacrificare l’eleganza alla comodità.
Prego, sedetevi.»
Ad
un suo cenno, le poltrone asserragliate ai lati della
stanza si appropinquarono goffamente verso gli ospiti, zampettando
sulle gambe
grassocce.
Macauley
fu l’ultimo a sedersi, troppo impegnato a notare
come la tuta della professoressa fosse perfettamente immacolata
– impresa quasi
titanica, visto il bianco splendente del tessuto - e come il suo viso,
senza
l’opera dei cosmetici, apparisse molto più pulito.
La poltrona lo colpì sul retro delle ginocchia,
rovesciandolo sulla propria
imbottitura bordeaux.
La professoressa
accavallò le gambe, azione che sembrò molto meno
indecente del solito senza la
classica minigonna, ed esordì:
«Immagino
che
avrete delle domande da farmi.»
Albus fece
scorrere
lo sguardo sui suoi colleghi: Rose non sembrava intenzionata a prendere
la
parola, Haru non pareva sentirne la necessità, Scorpius
stava riordinando le
idee e Macauley era perso in qualche altro pensiero. Non si
sentì colpevole nel
cominciare:
«Perché
succede
sempre a noi?»
Ricordava
bene i racconti di suo padre: in tutta Hogwarts,
le avventure più fantasiose erano capitate a lui, a zio Ron
e a zia Hermione
poiché Voldemort aveva intenzione di terminare il lavoro
lasciato incompiuto
tanti anni prima. Se qualcuno di loro era entrato nel mirino di un
pericoloso
mago oscuro, i loro giorni di tranquillità potevano
considerarsi finiti.
La
Eeriemay scosse i capelli, lasciati liberi di scendere
sulle spalle.
«La
prima volta è
stato totalmente casuale, Potter. Questa volta, invece, il mago aveva
uno scopo
preciso.»
Rose
notò Haru annuire gravemente, ma dovette distogliere
subito l’attenzione perché la professoressa
continuò:
«Quello
contro cui
avete combattuto, però, non era il mago originale. Era una
sua copia. Per
questo è sparito in quel modo» le labbra si
arricciarono, vezzose e polemiche,
prima di aggiungere: «Ed è anche per questo che
siete riusciti a sconfiggerlo.
Altrimenti non ce l’avreste mai fatta.»
«Ma se abbiamo
sconfitto il suo doppio…» la protesta di Macauley
si infranse contro la mesta
replica di Haru:
«Tu
non sai quanto lui faccia
paura.»
La
Eeriemay schioccò le dita per ottenere di nuovo
l’attenzione dei suoi studenti, deviata sul giapponese.
«Questo
attacco è
stato una prova di forza. Quel mago voleva dimostrare di potersi
infiltrare ad
Hogwarts perfino con una piccola parte del suo potere» la
bocca rosea della
prof si chiuse su quel punto, stizzita. Avrebbe voluto dire che
quell’incantatore era un arrogante e un ciarlatano, ma non
poteva, perché aveva
effettivamente eluso i sistemi difensivi di Hogwarts, e
l’aveva fatto mentre la
scuola era forte dei suoi insegnanti, votati alla sua protezione. Non
era un
folle qualunque da sottovalutare.
«Il
primo attacco
non è stato molto elegante, come infiltrazione» si
permise di far notare
Scorpius.
«Il
primo non era un’infiltrazione;
era un attacco frontale per provare la sua potenza»
precisò la Eeriemay.
«Con
quella bestia
bavosa?» inorridì Macauley, issando istintivamente
la mascherina.
«Perché
ha cambiato
rotta in questo modo?» obiettò Rose. «Il
primo attacco era piuttosto
sconclusionato. Questo invece sembrava progettato.»
La
Eeriemay fissò Haru, spingendo così i suoi
allievi a fare
lo stesso. Non era lei a dover fornire delucidazioni a riguardo.
«Perché
ora ci sono
io, a Hogwarts» asserì l’asiatico, con
un filo di voce.
Haru non era una
persona famosa per la sua loquacità o per la sua esuberanza
istrionica: parlava
pacato, canzonava con eleganza e rideva mascherando il sorriso con la
mano. Ma
perfino su una persona così dimessa quel tono
sembrò troppo flebile.
«Tu
sei il suo
obiettivo?» al cenno affermativo di Haru, Rose insistette:
«Per quale motivo ce
l’ha con te?»
«Perché
gli sono
subentrato nella successione al Clan.»
L’unica
faccia che
non lo fissò con la confusione dipinta in volto fu quella
della professoressa,
già al corrente del passato dello studente straniero. Haru
sospirò, tolse gli
occhiali, li ripulì e li inforcò di nuovo, ma,
nonostante le lenti fossero
impeccabilmente linde, tenne gli occhi chiusi nel raccontare:
«Ve lo
spiegherò
nel modo più semplice possibile: un Clan è un
nucleo familiare, ed è guidato
dal Capoclan, che è scelto tra i primogeniti
maschi.»
Rose
espresse il suo malcontento con un colpo di tosse in
cui era possibile decifrare: “sessisti!”, che Haru
sorvolò con un sorriso
diplomatico.
«Il
Capoclan attuale
è mio nonno. Io sono il suo erede.»
«E
perché questa
cosa dovrebbe infastidire quello sciroccato?»
sparò con assoluta mancanza di
tatto Nott.
La
vita sembrò defluire dal fisico del giapponese; per un
attimo, tutti i ragazzi di Hogwarts ebbero l’impulso di
correre in suo aiuto e
sorreggerlo, perché il giovane parve afflosciarsi come un
sacco di canapa
svuotato. Drizzarono tutti la spina dorsale contro lo schienale in
riflesso al
guizzo con cui l’asiatico si riappropriò della sua
compostezza, eccessiva per
un quattordicenne.
«Perché
all’inizio
era lui l’erede.»
La
comprensione cedette il passo all’orrore quando Haru
specificò, la mascella serrata dai ricordi dolorosi:
«Era mio cugino.»
«Era?»
notò
Scorpius.
Le
orbite di Albus quasi spararono fuori gli occhi dalla
violenza con cui si aprirono, e il giovane miagolò:
«Vuoi
dire che… è
morto?»
«Abbiamo
combattuto
contro un…» annaspò Macauley,
più preoccupato dai morbi importati dal paese dei
defunti che dall’effettiva probabilità di essersi
scontrato con uno zombie.
«No,
non è morto.
Non fisicamente, almeno» Haru riaprì gli occhi, e
restituì uno sguardo fermo a
quello spaesato degli altri ragazzi. «Ci sono delle prove da
superare, per diventare
Capoclan. Si affrontano per lo shicigosan.»
«Il
cosa?» brancolò
Albus.
«A tre, cinque e
sette anni» chiarì Haru. «Mio cugino
fallì durante la seconda prova, quella cui
venne sottoposto a cinque anni» il giapponese
sfoderò un’espressione adamantina
per far capire che non sarebbe sceso in ulteriori dettagli sulle prove
che i
prescelti dovevano affrontare: il suo Clan era legato alle tradizioni,
e queste
volevano che alcune informazioni non uscissero dai confini della
famiglia. «Ma
non accettò mai il suo fallimento. E la sua rabbia crebbe
quando vide che io,
al contrario, ero riuscito a superarla.»
Il
fuoco nel camino riempì il silenzio con il suo crepitio.
Ad Haru occorsero tre profondi respiri prima di riuscire a rivelare:
«Durante
la terza
prova, cercò di risolvere il problema alla radice.»
«Ha a
che fare con
le cicatrici che hai sulla schiena?»
Se
Rose avesse lanciato una bomba a mano, forse l’effetto
sarebbe stato meno devastante: tutti i presenti saltarono sul posto,
compresa
la Eeriemay, che non si aspettava che la sua allieva fosse a conoscenza
di quel
dettaglio sul ragazzo straniero.
«Dallas
le ha viste
per caso. E per caso lo ha raccontato a me» si
discolpò Rose di fronte agli
sguardi accusatori dei presenti.
Il
sangue faticò a colorare di nuovo le guance mortalmente
sbiancate di Haru, che articolò infine:
«Sì,
ha a che fare
con quelle.»
Si
alzò dalla poltrona e si girò in modo che il suo
piccolo
pubblico potesse vedere con chiarezza la sua schiena.
Allentò i bordi della
maglia, che scivolarono sulle spalle scoprendo il dorso.
Il
respiro si bloccò a metà tra la gola e il naso, e
tutti
quanti si esibirono in strane smorfie per riuscire a riempire di nuovo
i
polmoni di ossigeno.
Nei
film si vedevano spesso scene di quel genere, ma non
erano paragonabili al raccapriccio della realtà: la
cicatrice più visibile era
quella sulla spalla sinistra, frastagliata laddove la carne si era
incuneata
sotto il pugnale, e collegata da un filo di pelle in rilievo alla
seconda, di
cui era visibile solo la sommità irregolare dal bordo
obliquo della maglia. Raccontavano
con estrema crudeltà la storia che le avevano portate ad
increspare la pelle
del giovane: Rose si sfregò le mani sulle braccia per
contenere i brividi
quando le parve di vedere l’arma ancora conficcata nei
muscoli del ragazzo.
«Il
nonno mi ha
salvato» riprese Haru, ruotando le spalle per infilarsi
nuovamente la maglia a kimono e
procedendo ad allacciare la
fascia in vita. «Ha disconosciuto mio cugino nel modo
più totale: l’ha cacciato
dalla famiglia e gli ha assegnato un kaimyou.
Un nome postumo, che si dà solo ai defunti»
tradusse, accomodandosi di nuovo
sulla poltrona. «In pratica, mio cugino è morto
per qualunque mago orientale:
non riceverà da loro alcun aiuto o conforto. È il
prezzo da pagare per la sua
scelleratezza, secondo il nonno.»
«Quindi
è tornato
per ucciderti?» chiese senza peli sulla lingua Nott.
«E per
riprendere
il posto di erede. Dice che sono un usurpatore»
ridefinì Haru.
«Perché
hai deciso
di venire ad Hogwarts?» chiese invece Rose.
Questa
volta fu la professoressa a rispondere:
«Si
può dire che
sia un effetto della globalizzazione. Da quando il mondo è
diventato più
piccolo, ci sono stati molti teorici a vedere con favore una possibile
fusione
tra la magia occidentale e quella orientale. Una cosa del genere
è ancora
un’utopia, e forse lo resterà: le differenze di
base sono infinite, e molto
profonde» Haru asserì in silenzio, e la Eeriemay
si sentì autorizzata a
proseguire: «Tuttavia è possibile arrivare ad una
cooperazione tra incantatori;
da qualche anno, alcuni maghi hanno dato vita a una specie di quartier
generale
della magia internazionale. È un luogo in cui si riuniscono
incantatori di tutti
i paesi, e si formano gruppi d’azione misti adibiti dalle
più svariate mansioni»
la Eeriemay sfoderò un sorriso smagliante
nell’annunciare: «Il nostro Harunobu
è uno dei membri di questa associazione.»
«Lui?»
scattò
Macauley. «Ma non è ancora
diplomato…»
«Non
lo sono ad
Hogwarts, ma possiedo già un diploma» lo
contraddisse tranquillo Haru.
Le sopracciglia
ramate di Rose si sollevarono per il dubbio.
«Quanto
dura la
scuola di magia in Giappone?»
«Esattamente
quanto
la vostra.»
«Ma
tu…»
«Ho
finito il
percorso di studi con un poco di anticipo» si
schermì, con un piccolo rossore
di orgoglio per il suo talento innato.
I
ragazzi di Slytherin
lo fissarono come se si fosse improvvisamente trasformato in
un’idra a tre
teste: come era possibile che la Natura avesse creato un essere con
più
cervello di Rose? Era umanamente, biologicamente impossibile.
«Non
vi abbiamo
ancora detto perché Harunobu è venuto fino a
Hogwarts» la Eeriemay si
riappropriò delle redini del discorso. «Pare che
gli incantatori oscuri siano
giunti alle nostre medesime conclusioni» la donna si
dilungò in una pausa
meditativa prima di asserire: «E alle nostre stesse
soluzioni.»
«Quindi
esiste una
lega internazionale anche per i maghi oscuri?» si sorprese
Albus.
«Non
sappiamo se
siano organizzati fino a quel punto» ammise la Eeriemay.
«Ma alcuni gruppi
stanno tentando degli… esperimenti.»
«Esperimenti?»
le
fece eco Scorpius.
Le unghie della
Eeriemay piroettarono sulle ginocchia, e si fermarono solo quando la
professoressa spiegò:
«Ricordate
il
mostro del primo anno? Abbiamo analizzato con cura il campione che ho
prelevato»
perfino da dietro la mascherina fu visibile la smorfia nauseata di
Nott. «Non è
riconducibile a nessuna fattura già esistente.»
«Quindi
stanno
cercando di creare un… nuovo tipo di magia?»
azzardò Rose.
«Precisamente»
puntualizzò la Eeriemay. «E non possiamo
permetterci di rimanere indietro: se
davvero i maghi oscuri si stanno muovendo in questa direzione, anche
noi
dobbiamo elaborare incantesimi originali» sbatté
le palpebre con superiorità in
reazione alle espressioni sconcertate dei suoi studenti. «Non
siate così
sorpresi. La magia muta in continuazione: le belve stregate sviluppano
una
resistenza particolare agli incantesimi che le debellano, dopo un certo
periodo, e per questo la magia deve essere costantemente
rinnovata.»
«Quindi
Haru è
venuto qui per trovare degli alleati?» incalzò
Rose.
«Colleghi
di
studio, per la precisione» sottolineò composto il
giapponese. «Persone capaci,
che siano interessate a cercare forme di magia alternativa, e a formare
gruppi
d’azione con incantatori di diverse
nazionalità.»
Albus
fissò
Scorpius, vedendo specchiata sul volto dell’amico la sua
stessa perplessità: le
capacità di Rose erano una leggenda in tutta Hogwarts, ma
loro non si
distinguevano per una media astronomicamente alta o per interventi
particolarmente brillanti. Se non fossero stati figli dei loro famosi o
famigerati padri, probabilmente sarebbero stati riconosciuti solo per
via del
Quidditch.
E
la presenza di Nott in un simile progetto era ancora più
anomala: era uno studente zelante, ma che contributo poteva dare alla
ricerca
chi disinfettava l’aria stessa prima di respirarla?
Gli occhiali
risalirono il naso dell’orientale, prima che questo parlasse:
«Vi ho
visto
lottare contro il doppio di mio cugino: pochi studenti avrebbero avuto
il
vostro stesso sangue freddo.»
«Non
puoi
giudicarci solo per un episodio» confutò Scorpius.
Haru sorrise
accondiscendente, reclinando appena la testa su una spalla.
«Siete
riusciti a
fronteggiare una belva a soli undici anni.»
«Ci
hanno salvato i
prof» ammise vergognoso Albus.
«Siete
stati
allenati da Achil Scholz. Mi dicono che non sia facile sopravvivere ai
suoi
addestramenti» proseguì pacifico.
Nessun
dei due interpellati osò replicare: avevano salvato
la pelle per misericordia divina durante quegli infernali allenamenti.
«Noi
non siamo
stati presi sotto l’ala protettrice di Achil
Scholz» replicò aspro Macauley.
«C’è
chi riesce a
superare le proprie paure per aiutare gli amici»
elencò Haru, fissando prima
Nott e poi Rose. «E chi spicca per l’eccellenza
negli studi.»
Le
parole di Haru seminarono una manciata di disorientamento
imbarazzato sulle facce dei presenti, che non si aspettavano simili
complimenti
dal distaccato giapponese, né di essere selezionati per un
progetto così
importante a soli quattordici anni.
«Ovviamente,
non
pretendiamo una risposta immediata» li rilassò la
Eeriemay. «Avrete tutto il
tempo di pensare. Ma dovevate sapere, era un vostro diritto. E
l’abbiamo
rispettato.»
Nessuno
ricordò con
esattezza se quella stanza fu sede di altre discussioni: rimasero tutti
invischiati nella densa palude della riflessione e del dubbio, e
rimasero in
quella sospensione plasmatica finché non risalirono lo
strano corridoio assieme
alla professoressa.
Solo
Haru fu abbastanza lucido per bloccare un attimo Rose,
una volta usciti dal basamento del pipistrello, e farle notare:
«Non
mi hai
chiamato Harunobu come al solito, prima.»
La ragazza si
strinse nelle spalle con noncuranza e sdrammatizzò:
«So
che odi il tuo
nome completo.»
«Questo
non ti ha
impedito di chiamarmi così fino ad oggi
pomeriggio» evidenziò Haru.
«Non
essere troppo
pignolo» sibilò Rose, assottigliando gli occhi per
apparire più intimidatoria.
Il giapponese
scosse appena la testa, un abbozzo di sorriso negli occhi neri.
«È
un nome da nonni. Per questo preferisco
Haru.»
«Cercherò
di chiamarti così. Se non mi farai arrabbiare»
concesse con simulato dispotismo
lei.
«Ti ringrazio per la cortesia»
l’asiatico si inchinò brevemente, e
incrociò le sue iridi onice con quelle nocciola della
ragazza solo sul finire
del commiato: «Rose-san.»
Rose non era una
ragazza che arrossiva per le galanterie; come la rimproverava
affettuosamente
sua madre, era “troppo intelligente per civettare”.
Anche quella volta,
infatti, le sue guance non mutarono colore, e rimasero solide nel loro
incarnato chiaro.
Però
non poté bloccare un sorriso spontaneo nel replicare
all’asiatico che stava svanendo nei corridoi per il
dormitorio di Hufflepuff:
«Ricordati:
solo se non mi farai
arrabbiare.»
***
«Salvare
il mondo
della magia da una nuova, potente minaccia.»
La valutazione
di
Scorpius risuonò ammorbidita dalla coperta che gli
nascondeva la bocca: il
piccolo Malfoy soffriva terribilmente il freddo, e quello che per le
persone
comuni era un innocuo spiffero veniva percepito dalla sua pelle come
una
tormenta caucasica. Albus si rannicchiò vicino
all’amico per aiutarlo a
riscaldarsi, sebbene stesse soffocando sotto il triplo strato di
coperte.
«Pare
che la tua
famiglia non possa farne a meno» lo stuzzicò, e
gli occhi grigi si curvarono in
due mezzelune sornione.
«Ma,
se anche
dovessi accettare, questa volta sarei solo uno dei tanti»
chiarificò Albus, in
un respiro soffocato dalla calura. «Haru ha parlato di
“gruppi di azione”.
Nessuno ricorderà precisamente il mio nome.»
«Non
ti sembra avvilente?»
«No.
Direi
rilassante.»
«Strano.
Stavo pensando la stessa cosa» concordò Scorpius.
Chi
proveniva da famiglie fin troppo nominate nel mondo
magico, trovava confortante la prospettiva dell’anonimato.
Una fuga dalle
troppe lodi o dall’eccessiva infamia sarebbe stata accolta
come un balsamo
ristoratore.
«Stavi
pensando di
accettare?» bofonchiò Albus.
Scorpius
sospirò a
fondo, tirando i lembi della coperta.
«Non
lo so. È
ancora tropo presto per decidere. Ma penso che la prospettiva di una
magia fondata
su basi del tutto nuove, e di una cooperazione tra maghi stranieri
sia…
eccezionale.»
La
frangia di Albus si sparpagliò sul cuscino quando
quest’ultimo annuì.
«Hai
visto cosa
siamo riusciti a fare oggi?» sussurrò, emozionato.
«Immagina cosa potremmo
fare, se riuscissimo a coordinarci meglio…»
«Qualcuno
ha preso
molto seriamente l’invito di Haru» lo prese in giro
Scorpius.
Albus
gattonò
goffamente per uscire dalla trappola delle coltri strettamente infilate
sotto
il materasso, e fu placcato da Scorpius, che lo abbrancò per
il bacino.
«Non
fare il bullo
con me» protestò Albus, gonfiando le guance.
Scorpius
rilasciò
la presa, e l’altro atterrò di faccia sul cuscino
brontolando un “prepotente”.
«Per
dire la
verità, c’è qualcosa che mi preoccupa
molto più di tutto il resto» commentò
Scorpius, adagiandosi placidamente sul letto.
«Quale?»
domandò
curioso Albus.
«Tra
poco sarà
Natale. Questo significa che le nostre famiglie si incontreranno per
festeggiare.»
Un bubbolio
morente
annaspò sul cuscino.
«Spero
che
quest’anno zio Ron sia meno minaccioso» si
augurò gorgogliando Albus.
«E che
mio padre
sia meno inquietante» aggiunse Scorpius.
«E il
mio meno
silenzioso.»
Entrambi
rotearono gli occhi al cielo, ed entrambi risero
per la loro sincronia.
I
loro parenti avrebbero formato un pessimo gruppo di
azione.Quest
***
Il suo cervello
era
come intorpidito, quella mattina.
Gli
inglesi avevano un modo di gioire per l’arrivo del
Natale molto più colorato e chiassoso di quello giapponese:
Hogwarts si era
ricoperta di lucine fluttuanti di varie tinte, carole tradizionali
rimbalzavano
per tutti i corridoi, e l’agrifoglio sembrava aver trovato
sui muri il suo
habitat ideale, a giudicare dalla foresta di foglie pungenti e bacche
rosse che
aveva invaso la scuola.
Si
stropicciò gli occhi, inebetito: tutte quelle luci, quei
colori sfavillanti e quelle melodie infantili gli rimbombavano nel
cranio ad
ogni ora.
Ma
lo stordimento natalizio non ottenebrò del tutto i suoi
sensi: avvertì un corpo estraneo strisciare nella stanza, a
pochi centimetri
dal suo letto. Haru scivolò silenziosamente al di fuori
delle lenzuola, e
rotolò vicino al bordo del materasso. Trattenne il respiro,
visualizzò nella
sua mente lo schema offensivo e agì.
La
sua mano scattò oltre il bordo delle coperte, afferrando
lo sconosciuto per la collottola e scaraventandolo sul letto; prima che
quest’ultimo avesse il tempo di gridare, il giapponese
calò sulla sua schiena e
lo immobilizzò con una chiave articolare al braccio.
«Haru!
Fermo,
fermo, fermo! Sono io, Albus!» gridò
l’oscurità.
A
quell’appello disperato, improvvisamente le luci si
accesero, e il mistero della stanza venne svelato: Rose reggeva una
scatola tra
le mani e lo fissava inorridita, Macauley, incollato
all’interruttore della
luce, era completamente sbiancato; l’espressione di Scorpius
era squisitamente
indecifrabile.
«Siete
voi» si
tranquillizzò Haru, lasciando andare il povero Albus, che fu
lesto a saltare
fuori dal letto. «Mi avete spaventato.»
«Tu mi hai spaventato» si
risentì il
minore dei Potter, impegnato a massaggiarsi il braccio.
«Da
dove ti è
uscito…» Macauley gesticolò a caso,
ipotizzando le mosse con cui Haru poteva
aver sottomesso Albus nel giro di un secondo. «… quello?»
«Mi ha
insegnato il
nonno» spiegò Haru, infilandosi velocemente la
vestaglia ai piedi del letto:
era davvero sconveniente che degli ospiti, tra cui una femmina, lo
vedessero in
pigiama.
«Tuo
nonno deve
avere delle ossa d’acciaio» fischiò
Nott.
«Ha
un’ottima
resistenza fisica» confermò Haru.
Inforcò gli occhiali e domandò, sollevando il
sopracciglio sinistro: «Come mai siete venuti qui?»
Nonostante la
sua
spalla non fosse ancora del tutto sicura di stare bene, fu Albus a
spiegare il
motivo della loro incursione:
«Abbiamo
saputo da
Dallas che saresti tornato in Giappone per le vacanze di Natale.
Così siamo
venuti per darti il regalo in anticipo. Volevamo farti una
sorpresa.»
Raramente
gli occhi di Haru si erano spalancati così tanto,
o le sua guance avevano assunto una tonalità così
vicina al rosso vivo. Per la
prima volta in vita sua, l’orientale faticò ad
esprimersi, e gli occorse
qualche secondo per dire:
«Vi
ringrazio… per
la vostra cortesia.»
«La
prossima volta
elimineremo l’elemento sorpresa» decise Rose.
«O tu
eliminerai
noi, probabilmente» aggiunse Macauley, ancora sconvolto per
la reazione
bellicosa dell’asiatico.
«Sono
profondamente
dispiaciuto per l’inconveniente» la testa
dell’orientale si inchinò fino a
livelli quasi improponibili, e lì rimase finché
un imbarazzatissimo Albus non
lo sollecitò a sollevare il capo.
La
lotta contro un mago oscuro e la condivisione di un
complicatissimo progetto futuro avevano cementato uno strano legame di
cameratismo e amicizia, che nessuno si spiegava ma che tutti
accettavano.
Avevano tempo e voglia di conoscersi e trovare basi più
solide per quell’imprevista
alchimia.
Ognuno dei
quattro
ragazzi poggiò la mano sul pacchetto retto da Rose e lo
avvicinarono
all’unisono ad Haru, esclamando:
«Buon
Natale.»
Il
giapponese fissò l’incarto come se non capisse
bene in
che modo approcciarsi ad esso; dopo una pausa che fu imbarazzante per
il
quartetto e necessaria per lui, l’orientale
afferrò la confezione e l'aprì,
svelandone il contenuto.
«Biscotti?»
notò
Haru, lievemente interrogativo. Alcuni avevano indiscutibilmente
l’aspetto di
fragranti dolciumi, ma altri sembravano più adatti al camino
che alla tavola.
«Li
abbiamo fatti
insieme ieri sera» spiegò fiero Albus.
«La
cottura aiuta a
bruciare i germi» spiegò Macauley, quando non
poté più tollerare la perplessità
del giapponese sulle sue creazioni culinarie. Haru annuì
senza troppa
convinzione, ma l’espressione smarrita si riscaldò
ben presto in una di
gratitudine.
«È
un pensiero
molto gentile» li ringraziò, inchinandosi
profondamente. «Siete stati molto
premurosi nei miei confronti.»
«È
una sciocchezza»
si schermì Albus, a disagio per la formalità
degli omaggi.
«Mangiali
pensando
all’Inghilterra» gli suggerì Rose.
Ciascuno
dei presenti si servì di un biscotto sotto invito
di Haru: tutti dribblarono i frollini carbonizzati, perfino il loro
creatore,
ed uscirono dalla stanza con le labbra ancora sporche di briciole per
permettere al ragazzo di cambiarsi.
Prima
di cominciare la vestizione, il giapponese appoggiò il
pacchetto di pasticcini sul letto, senza riuscire a distogliere lo
sguardo.
La
vita del genio era piuttosto solitaria: un bambino più
dotato dei ragazzi più grandi riscontrava invidia e
diffidenza. Aveva visto
l’amicizia solo da lontano, osservando estranei che si
scambiavano gesti
affettuosi o leggendola sui libri.
Haru
terminò di stringere il nodo della maglia e si sedette
sul letto, a poca distanza dal suo regalo.
Non
aveva mai sentito la mancanza di un amico. Il nonno era
stato il suo punto di riferimento fin dalla più tenera
età e non gli aveva mai
fatto mancare nulla, specialmente il tempo da trascorrere insieme. Era
stato
severo con lui molte volte, perfino burbero, ma Haru non aveva mai
dubitato
dell’affetto sincero che nutriva nei suoi confronti. Forse,
era stata proprio
quella loro connessione particolare a scatenare il risentimento del
cugino,
nove anni prima.
Afferrò
il fagotto e lo appoggiò sulle ginocchia.
Era
venuto ad Hogwarts per cercare degli alleati, e aveva
trovato degli amici, per quanto bizzarri. Persone che avevano perso una
serata
per preparargli dei biscotti. Poteva quasi vederli, mentre Macauley
polemizzava
sui tempi di cottura, Scorpius e Albus tentavano di staccarsi
l’impasto colloso
dalle dita e Rose li riprendeva per la loro totale inettitudine ai
fornelli.
Amici.
Che buffo mondo.
Si
rialzò per
andare di fronte allo specchio e pettinarsi.
Ma
non prima di aver appoggiato il pacchetto sul comodino,
di fianco alla foto del nonno e alla lettera che sua madre gli aveva
lasciato
prima di partire.
Quella
pasticceria più o meno riuscita meritava un posto sul
suo personale altare dei tesori.
***
Quando Haru
uscì
dal dormitorio, si ritrovò di fronte ad una curiosa scena di
folklore
occidentale.
Nell’aria
fluttuavano piccoli rametti di vischio, decorati
da nastri rossi, e Nott era disgraziatamente finito sotto uno di essi.
«Non
ti infetterò,
Macauley» la ragazza di Slytherin
che
era capitata sotto la pianta galleggiante assieme a Nott aveva
l’aria
esasperata di chi spiega le tabelline ad un Troll Troglodita.
«Ti
dico che non è
vischio!» Macauley, al contrario, esibiva la stessa
espressione terrorizzata di
un vampiro di fronte ad un paletto di frassino.
«È
vischio. Siamo
sotto Natale, è ovvio
che sia
vischio.»
«No
che non è
vischio!»
All’improvviso,
la piantina scintillò, e le sue bacche
biancastre si gonfiarono e si arrossarono, finché un rametto
di agrifoglio
solitario non si ritrovò a svolazzare nella selva dei
più compromettenti
fratelli.
«Hai
visto? Non è
vischio!» trionfò Macauley, per poi svanire lungo
il corridoio alla velocità
della luce.
Haru
si diresse verso il punto da cui aveva visto provenire
la magia mutaforma e bisbigliò:
«Hai
salvato la
situazione, Rose-san.»
La giovane
emerse
dalla sua postazione rinfoderando la bacchetta.
«Macauley
stava per
uccidere i nervi di quella ragazza» si giustificò
lei.
Haru
spostò la coda corvina su una spalla, gli occhi
socchiusi come quelli di uno studioso.
«Spiegami
questa
vostra usanza: cosa succede di così tremendo, se si finisce
sotto il vischio?»
«Bisogna
baciarsi»
fu la brutale risposta di Rose.
Le
sembrò di vedere le vertebre del timido giapponese
appiattirsi di colpo una sull’altra per lo shock della
scoperta.
«Capisco
le riserve
di Macauley-san» dichiarò infine.
«Non
è obbligatorio
baciarsi sulla bocca» lo confortò Rose.
«Sulla guancia è più che
sufficiente.»
L’asiatico
non sembrò particolarmente rincuorato dalla precisazione.
La sua preoccupazione aumentò esponenzialmente quando una di
quelle malvagie
piantine decise di fare il nido sopra le loro teste.
Rose
la fissò seccata, Haru spaesato, e nessuno dei due
mosse un singolo muscolo per una quantità di tempo
irragionevole, nella
speranza che il vischio si stancasse di loro e andasse ad infastidire
qualcun
altro.
Quando
fu chiaro che la piantina non avrebbe desistito, Rose
appuntò i suoi occhi su Haru e contrattò,
stendendo il braccio verso di lui:
«Una
calorosa stretta
di mano sarà più che sufficiente.»
L’asiatico
accettò prontamente l’invito, afferrando le dita
che gli venivano offerte.
«Sei
una persona
molto ragionevole, Rose-san» si complimentò
compiuto, quando finalmente il
vischio decise di volare su altre teste.
La
piantina ne adocchiò una bionda e una corvina, e prese a
ronzare su quelle zazzere, arrivando perfino a schiaffeggiare quella
più alta
per non essere ignorata.
«Credo
che ce
l’abbia con noi» notò Scorpius, toccando
il punto in cui le foglie lo avevano
sferzato.
A
volte, il periodo natalizio diventava simile ad una bolgia
infernale: non era nemmeno possibile recarsi a lezione pacificamente
senza
essere infastiditi da strani vegetali pettegoli.
Il rossore
salì
fino alle orecchie, rendendo il viso di Albus una maschera scarlatta
quando
squittì:
«Ma…
ma è vischio!»
Scorpius
annuì,
incapace di aggiungere qualcosa di intelligente o innovativo
all’osservazione
dell’amico.
«Questa
piantina
non se ne andrà finché non sarà
soddisfatta. E la cosa comincia a diventare fastidiosa»
ringhiò Scorpius, dopo la
quarta volta in cui il vischio gli frustò
l’orecchio per spronarlo.
La
memoria di Albus tornò all’inizio di
quell’anno
scolastico, quando il suo cuore era praticamente impazzito al tocco di
Scorpius;
rivisse quello sconvolgimento quando l’amico gli
appoggiò le mani sulle spalle,
ed il sangue sembrò scoppiettargli nelle vene e nelle
orecchie quando il
giovane si chinò sbrigativo ad appoggiargli un bacio sulla
guancia. Di nuovo,
non capì la ragione di quel turbinio: avevano vissuto
insieme per quattro anni,
condividendo anche il respiro, e non aveva mai sperimentato prima una
sensazione così irragionevole.
«Se ne
è andata,
finalmente» commentò sollevato Scorpius quando la
piantina fluttuò ad
importunare altre coppie.
Albus
quasi saltò sul posto quando la voce di Margaret
Finnigan lo sorprese alle spalle. Per un qualche motivo,
avvampò come se fosse
colpevole di qualcosa, e provò il violento desiderio di
sparire tra le
mattonelle del pavimento.
La
coppietta lo abbandonò prima ancora che lui potesse
rendersene conto; Margaret aveva chiesto a Scorpius in modo piuttosto
perentorio di parlare un attimo da soli, e Scorpius l’aveva
assecondata,
salutando velocemente l’amico.
Rimase
così, confuso, arrossito e con il sistema
circolatorio in subbuglio finché la figura di Nott non
interruppe la sua
agitazione silenziosa.
Un
particolare dell’amico catturò la sua attenzione e
causò
il suo sconcerto.
«Quello
è…
rossetto?» chiese; un marchio cremisi a forma di labbra
svettava sulla fronte
pallida del compagno, che cercava in tutti i modi di pulirlo con una
salvietta
umida.
«La
Eeriemay mi ha
beccato sotto uno di quei cosi
satanici!» sbraitò Macauley.
Le
sopracciglia di Albus ballarono una danza di stupore e
perplessità, e il giovane indagò:
«Vuoi
dire che sei
finito sotto lo stesso vischio con una persona… e non ti sei
allontanato
correndo?»
«Quella
donna è un
demonio!» sbottò Nott.
«Ma di
solito tu…»
«Albus
Severus, se
vuoi aiutarmi a togliermi questo schifo dalla fronte sei bene accetto,
in caso
contrario taci» s’inviperì Macauley.
Albus
si arrese, e si issò sulle punte dei piedi per aiutare
l’amico a ripulire il disastro.
Haru
gli aveva quasi rotto un braccio, Scorpius gli aveva
rivoluzionato il sistema circolatorio e Macauley si era sottoposto ad
un
contatto fisico per la prima volta nella sua ipoallergenica vita.
Quel
Natale stava portando con sé fin troppe sorprese.
***
I Weasley
adoravano
le feste che potessero accordarsi con il loro stile di vita allegro e
rintronante.
Per
questo avevano una particolare predilezione per il
Natale che, con le sue luci e le sue canzoni, ben rispecchiava lo
spirito della
famiglia.
Hermione
si era occupata delle decorazioni assieme a Ginny,
ma qua e là spuntavano le sporadiche
“migliorie” di George: poteva capitare che
alcune delle piantine di agrifoglio messe ad addobbare il camino
emettessero
una sonora pernacchia nei confronti di chiunque passasse loro davanti,
o che
l’abete luccicante pizzicasse le guance a chi sostava di
fronte a lui. Le palle
colorate, poi, erano una novità dei Tiri Vispi, per cui
sarebbero state testate
quella sera sui malcapitati: le sfere kamikaze si lanciavano sulle
teste dei
passanti, sprigionando gavettoni di arcobaleno. “Tingete le
vostre feste di
allegria!”, recitava lo slogan.
Molly,
che aveva conservato la sua esuberanza a dispetto
dell’età,
aveva sommerso la cucina con una quantità quasi imbarazzante
di cibo, e a Ron
era stato assegnato l’ingrato compito di apparecchiare
l’opulenta tavola.
Albus
scese le scale quasi intontito da quel mondo sfolgorante
e caotico: in tutta la casa era fiorita una strana vegetazione a base
di
pungitopo, nastri colorati e luci intermittenti, ed in un angolo
l’abete troppo
carico si sforzava di non crollare sui regali sottostanti. La tavola
era
apparecchiata con lo sgargiante servizio delle feste, tutto oro, rosso
e
bianco, e un nugolo di piccole candele profumate veleggiava
nell’aria.
La
famiglia Malfoy, che sedeva sul sofà nella propria
consueta eleganza, sembrava l’unico stralcio di mondo normale
in quella stanza
sommersa dallo spirito natalizio.
Molly
fu ben felice di mettere tutti a tavola e di riempire
ogni piatto vuoto con i più svariati manicaretti, con
particolare cura verso la
signora Malfoy, perché doveva “mangiare per
due”. La pancia cominciava a
vedersi, nonostante il tentativo della donna di dissimulare con un
abito in
stile impero, ed era stata perciò tempestata di attenzioni e
premure dalla
parte femminile della famiglia, nonché di domande sul nome
del nascituro.
James
non perse il vizio di tormentare il fratello,
stuzzicandolo per tutta la durata del pranzo nonostante i rimproveri
della
madre.
Al
termine dell’infinito banchetto, gli adulti, satolli di
cibo, si sedettero a chiacchierare, e Rose offrì aiuto alla
nonna per
sparecchiare. Albus e Scorpius ignorarono il richiamo del dovere e si
accucciarono in posizione strategica, vicino alle fiamme del camino.
«Non
ho ancora
capito come sia possibile che tua nonna metta in tavola ogni anno un
pranzo più
pomposo di quello precedente» gorgogliò, rigonfio
di manicaretti.
«Non
preoccuparti.
Ci sarà un limite al numero di portate che un umano
può cucinare» bofonchiò
Albus, gli occhi appesantiti dall’abbuffata. «Prima
o poi lo raggiungerà.»
«Io
credo di aver
raggiunto il limite massimo che un essere umano può
ingerire» notificò
Scorpius.
«Io
sto provando
quello che prova un pitone dopo aver mangiato una pecora.»
«I
pitoni non
mangiano le pecore. Gli scoppierebbe lo stomaco, o qualunque cosa
abbiano per
digerire.»
«Hai
centrato il
punto» boccheggiò Albus.
Scorpius
batté un
paio di pacche sulla testa reclinata dell’amico in segno di
incoraggiamento.
Albus rialzò gli occhi acquosi per scrutare il ragazzo al
suo fianco e gli pose
la domanda che gli ronzava in testa da qualche giorno:
«Non
hai portato
Margaret. Né oggi né a fare le spese di
Natale.»
Le
labbra di Scorpius si ritirarono per essere mordicchiate
e una mano salì a pettinare i capelli all’indietro.
«Ci
siamo lasciati
il giorno del vischio nella scuola» confessò,
appoggiandosi con la nuca al
muro.
Due
occhi verdi lo fissarono, sgranati e increduli: lui era
convinto che, quella volta, Margaret lo avesse allontanato da lui per
poter
approfittare della leggenda del vischio con il suo ragazzo.
«Vi
siete lasciati?»
riuscì solo a ripetere.
Scorpius
annuì e
sospirò al contempo.
«Credo
che sia
meglio così» affermò. Durante la loro
breve relazione, Margaret era stata quasi
sempre in agitazione, e lui non ne aveva mai compreso il motivo fino al
giorno
della loro definitiva rottura: anche se con parole gentili, lei si era
lamentata di non essere nemmeno al livello dei suoi amici per lui, e di
non
ottenere mai niente dal suo ragazzo se non dopo una precisa richiesta,
come se
lui non facesse nemmeno lo sforzo di pensare a lei. Se la loro storia
doveva
procedere in quel modo, in una continua mortificazione, era meglio
concludere
tutto prima di finire per odiarsi.
«Non
eravamo fatti
per stare insieme» concluse, sbrigativo.
Albus
tamburellò le
dita sulle ginocchia, alla ricerca di qualcosa da dire. Sarebbe stato
decisamente di cattivo gusto erompere in un grido di gioia, ma era
l’unica
reazione spontanea a quella ammissione. Margaret non sarebbe
più stata una
presenza incollata a Scorpius, e non avrebbe più minacciato
l’equilibrio del
loro gruppo. Erano pensieri abominevoli, se ne rendeva conto, ma non
riusciva a
scacciarli dalla propria mente.
«Mi…
dispiace»
abbozzò alla fine, fissando il soffitto per paura che
l’amico potesse leggergli
in faccia qualcosa di compromettente.
Scorpius
si strinse nelle spalle.
«Arriverà
la
persona giusta. Non c’è fretta»
profetizzò. Sperava solo di non aver fatto
soffrire troppo Margaret: era una brava ragazza e meritava di essere
trattata
con cura. Anche per questo motivo, era meglio che si fossero lasciati:
probabilmente,
lui non sarebbe riuscito a fornirle tutte le attenzioni che lei
desiderava.
Albus
annuì, un’improvvisa e insensata voglia di
prenderlo
per mano. Si trattenne conficcandosi le unghie nel palmo.
«Albus!
Scorpius!
Venite! È ora di aprire i regali!»
chiocciò felice Molly, che aveva già
radunato tutti i presenti sotto l’albero.
George
aveva fatto del suo meglio per brevettare le sue
nuove invenzioni con i regali di Natale. Il più divertente
di tutti fu quello
assegnato a Harry: una strana polverina fuoriuscì dal
pacchetto e si depositò
sui suoi occhiali, facendogli vedere tutti i presenti in mutande.
«È
per combattere l’ansia durante gli esami» si
giustificò
George, mentre Harry cercava disperatamente di rimuovere quella cosa
dalle
lenti.
Ginny
ed Hermione avevano scelto dei regali utili, e i
Malfoy avevano optato per dei doni raffinati; grazie a ciò,
il resto dei
pacchetti fu scartato senza timore e senza sorprese.
Scorpius
passò il proprio regalo ad Albus di soppiatto: era
troppo personale per essere visto da tutti.
Il
resto del pomeriggio passò tranquillo, e terminò
con
l’accomiatarsi degli invitati e un ultimo scambio di auguri
di Natale.
Quella
sera, dopo la visita notturna della madre per
portargli un the digestivo e il bacio della buonanotte, Albus si
rannicchiò
sotto le coperte ed estrasse di nuovo il regalo di Scorpius.
Il
portachiavi d’argento a forma di lupo scintillò
sotto la
luce della luna.
Volevo
pubblicare questo capitolo la vigilia di Natale<3
Dal
prossimo, si
passa al sesto anno<3
Grazie
a tutti
voi che siete arrivati fin qui<3
E
buon Natale a
tutti<3
Red
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Capitolo 9 *** La cicatrice ***
Le
gambe gli dolevano e il cuore sembrava essersi stancato
di pulsare; i polmoni erano un incendio doloroso, e gli occhi vedevano
il mondo
come una massa acquosa.
Ma
non smise di correre.
Doveva
trovare Haru. Era l’unico in grado di spiegargli cosa
stesse succedendo.
Il giapponese lo
fissò perplesso, una punta di spavento nelle iridi scure.
«Va…
tutto bene?»
tentennò. Il colorito paonazzo, gli occhi allucinati e
l’espressione
terrorizzata dell’altro ridicolizzavano la sua domanda, ma
Haru la pose
comunque per correttezza.
«Ho un
problema»
ansò il ragazzo. E scoprì la spalla.
Haru non si
lasciava mai andare a manifestazioni plateali di sentimenti; per questo
sentì
le vene raggelarsi quando gli occhi del giapponese si spalancarono per
la sgradita
sorpresa.
«Hai
un problema» convalidò
Haru. Si alzò ed esaminò la spalla
dell’amico, premendovi sopra le dita
fresche.
«Che…
che cos’è?»
domandò l’altro, deglutendo a fatica.
L’asiatico
morse il
labbro inferiore, impensierito. E la sua diagnosi non fu per nulla
rassicurante.
«Una
cosa molto
spiacevole, probabilmente.»
Parte
Tre – Sesto Anno
1
La
cicatrice
«Wunderbar!» gioì
Bartold, subito rimesso
a sedere dal più rigido fratello.
«Cerca
di
contenerti, almeno un po’» abbaiò
Achill, con l’unico effetto di incrementare
le urla dell’esagitato consanguineo.
Il
maggiore degli Scholz si afferrò le tempie con le dita di
acciaio, premendo forte. Era la seconda partita della stagione, e lo
stadio
sembrava impazzito. Durante la precedente – Gryffindor
contro Ravenclaw – il
pubblico si era
scatenato, ma non in quel modo: i
palchi che sorreggevano gli studenti sarebbero crollati, se non
avessero
abbassato il volume degli strepiti.
Al
primo anno, non avrebbe immaginato che i due studentelli
che aveva preso come assistenti per punizione sarebbero diventato
così
popolari. I loro genitori erano conosciuti in tutto il mondo magico,
per merito
o per infamia, e i figli si stavano dimostrando degni successori, anche
se il
consenso che riscuotevano tra i compagni era dovuto ad altri fattori.
Le
ragazze trovavano adorabile il “faccino da
cerbiatto” di Albus, e Malfoy, a
detta loro, costituiva la sua perfetta controparte oscura, il
“bel tenebroso”.
Achill ringhiò un sospiro esasperato: avrebbero dovuto
vederli durante le prove
che aveva loro assegnato, per rivoluzionare completamente la loro
visione del
“cerbiatto” e del “tenebroso”.
Poi,
come tocco finale, l’elemento a sorpresa, emerso
durante il quinto anno, quando Hufflepuff
aveva dovuto cambiare portiere. Lo studente giapponese si era proposto
alle
selezioni spinto più dal suo Prefetto, Dallas Dudley, che da
convinzione
personale. L’asiatico aveva sbaragliato gli altri aspiranti,
e le sue parate
feline erano diventate un mito ad Hogwarts e una piaga per i suoi
avversari.
Era
stata una sorpresa per Haru stesso: non avrebbe mai
immaginato che i suoi allenamenti nelle arti marziali sarebbero serviti
a
giocare una partita a cavallo di una scopa.
Era
così giunto il giorno dell’attesissima partita Hufflepuff contro Slytherin,
“cerbiatto” Cercatore e
“tenebroso” Battitore contro il
portiere orientale. Schiaffò la faccia nelle mani ruvide,
sperando che tutta
quella confusione cessasse presto.
Come ogni anno,
Rose si era seduta nei posti limitrofi alla sezione Slytherin,
in modo da poter parlare con Nott.
«Non
hai
partecipato nemmeno quest’anno alle selezioni?»
strillò lei, per sovrastare la
folla.
«Se
mai dovessi
decidere di morire, lo farei in un modo rapido e pulito. Tipo il
veleno» la
mascherina onnipresente non cancellò il disprezzo nella sua
voce. «Quel campo
maledetto non avrà nemmeno una goccia del mio sangue. Mai.»
Vedere
Nott immutato nonostante il passare degli anni donava
uno strano senso di rilassatezza: la sua fobia per i germi non si era
attenuata
da quando lo avevano conosciuto, così come il suo brutto
carattere non si era
minimamente ammorbidito. Gli unici cambiamenti visibili erano nelle
guance e
nella mascella, che avevano abbandonato le forme morbide
dell’infanzia in
favore di lineamenti più spigolosi e asciutti, e nel tono di
voce, scuritosi
con il tempo.
Rose si
tappò le
orecchie con le mani: la folla intorno a lei impazzì quando
Albus sfiorò le
transenne. Si concentrò anche lei sul cugino, seguendo il
suo folle
inseguimento del Boccino, tallonato dal Cercatore di Hufflepuff.
Trattenne il fiato quando un Bolide sfrecciò dritto
nella loro direzione, e lo rilasciò in un sospiro sollevato
poco dopo: il
pronto intervento di Scorpius aveva salvato il collo di Albus, e
aizzato la
curva Slytherin ad un tifo ancora
più
concitato.
Rose
fu tentata di fasciarsi la testa con la sciarpa azzurro
e bronzo della sua Casa per arginare le grida che la circondavano.
Aveva
pescato alcuni commenti nella folla: apprezzamenti sui capelli chiari
di
Scorpius, tenuti abbastanza lunghi da ricadere sul collo, e sul viso
che si era
affilato con la crescita. Altre si complimentavano di come Albus, il
nanerottolo di Slytherin, avesse
guadagnato dei centimetri durante l’estate, raggiungendo
quasi la statura
dell’inseparabile amico. Rose sogghignò a quelle
considerazioni: aveva
trascorso quasi ogni giorno insieme ad Albus e Scorpius, e non aveva
quasi
notato i loro cambiamenti. Se ne era accorta quando,
quell’estate, aveva
riesumato delle vecchie foto del primo anno, e delle facce paffute e
dei corpi
puerili l’avevano salutata dalle istantanee.
Erano
ormai entrati a pieno titolo nell’adolescenza, nelle
sue forme angolose e nei suoi mutamenti graduali ma costanti.
Tra
di loro, quello che aveva subito variazioni meno
sostanziali era Haru: ad eccezione dei capelli, lasciati liberi di
crescere
fino a metà della schiena nel sempiterno codino, il
giapponese non era
praticamente cambiato, e non solo nel fisico: i suoi atteggiamenti
erano quelli
di sempre, come se fosse nato già adulto.
L’asiatico,
dalla sua posizione fluttuante vicino ai cerchi,
si voltò per un attimo ed incrociò il suo
sguardo: nel vedere le iridi nere che
la fissavano con un interrogativo divertito, Rose si accorse di essersi
soffermata ad osservarlo. Rispose con un’occhiata carica di
ostilità, dopodiché
voltò il capo, facendo nascere un risolino sulle labbra
pallide dell’orientale.
«Gente,
vi invito a
notare la sorprendente parata di Harunobu»
proclamò Valentine al microfono. Le
spalle del giapponese si contrassero nel sentire il suo nome
pronunciato per
intero: era così antiquato.
«Io
non sarei mai
riuscito a fare una cosa del genere» proseguì
Valentine, scomponendosi come di
consueto sulla tribuna del commentatore: in quel momento era
completamente
addossato alla balaustra. «Non senza spezzarmi un braccio. O
lussarmi un
gomito. Voglio dire, questo ragazzo deve avere delle articolazioni
d’acciaio
per riuscire a…»
«Valentine Cross!» gli anni
avevano
accentuato le rughe sul volto della preside e infiacchito le sue
membra, ma
aveva ancora voce e autorità sufficienti per zittire quel
prolisso
commentatore.
«Attenzione,
la
Pluffa torna in gioco» ricominciò il giovane,
cinguettando nel microfono. «E Potter
tallona il Boccino. E… oh, ciao Louis!» il ragazzo
si sporse pericolosamente
dalla tribuna per sbracciarsi in direzione del piccoletto del terzo
anno.
«Louis, non fare finta di non conoscermi! Sto salutando
proprio te!»
«Vai avanti, Cross!»
tuonò la McGranitt.
Louis
ringraziò
intimamente la preside, innalzando la sciarpa rossa e oro a difesa del
volto.
Che vergogna essere della stessa Casa di quel degenerato. E che
vergogna averlo
come tutore.
«Oh,
si nasconde.
Non è carino? Cioè, guardatelo bene, è
davvero
carino!» insistette Valentine, godendosi lo spettacolo delle
guance della sua vittima
che perdevano ogni colorito umano.
«È…»
«In
nome di cielo,
Cross! Se tu vuole tubare, fallo quando tu
non ha microfono in mano!» esplose Achill.
«Grazie»
approvò
solennemente la McGranitt, sollevata dal disturbo di dover intervenire
ancora.
«Concentriamoci sulla partita, gente. Non
facciamo arrabbiare il buon vecchio Achill» riprese
Valentine. Diede una
scrollata sbarazzina ai riccioli scuri e riprese a commentare.
Haru
si lanciò a parare un ennesimo attacco, e la Pluffa
tornò in campo, rimbalzando fino agli anelli di Slytherin. I Bolidi si scontrarono
più volte con la mazza di
Scorpius, deciso a difendere i suoi compagni. Albus sfrecciava a pochi
centimetri da terra, proteso in avanti per afferrare il Boccino.
La
Pluffa disegnava rapidi archi nel cielo, mentre i
giocatori la passavano ai compagni o la rubavano alla squadra
avversaria; i
Portieri galleggiavano davanti agli anelli, pronti a scattare nel
momento in
cui la palla fosse arrivata troppo vicina; i Battitori segnavano
l’aria di lampi
colorati, saettando da una parte all’altra del campo per
deviare i Bolidi.
Fu
in quel momento che accadde.
Le
dita di Albus stavano per serrarsi attorno al Boccino,
quando all’improvviso tutto il corpo del ragazzo si
accartocciò su se stesso,
facendogli perdere l’assetto di volo. Il Cercatore venne
disarcionato dalla
propria scopa, e rotolò a terra sollevando un coro di
sorpresa.
Rose
si protese dalla tribuna, preoccupata: il cugino non si
mosse per alcuni istanti, completamente ritorto su se stesso. Anche se
gli era
visibile solo la schiena, infagottata nella divisa della sua Casa,
poteva
immaginare l’espressione sofferente di Albus e
quell’idea le diede una stretta
al cuore.
Inoltre,
non capiva perché il cugino sembrasse patire tanto
per quella caduta: stava volando rasoterra, quando aveva perso
l’equilibrio,
quindi non poteva essersi fatto troppo male. Aveva sopportato ruzzoloni
peggiori, durante le partite di Quidditch – Rose si era
sentita morire quella
volta che, al quinto anno, lo aveva visto sgambettare nel vuoto, appeso
alla
sua scopa solo con una mano, sbalzato di sella dalla scorrettezza del
Cercatore
rivale.
Perfino
i professori parevano spiazzati dallo Slytherin
che ancora non si alzava:
l’espressione statuaria della McGranitt tremava, Achill non
era mai stato umano
come in quel momento; Bartold aveva afferrato la scopa, pronto ad
intervenire
direttamente sul campo per aiutare il suo allievo, e il colorito della
Eeriemay
era mortalmente illividito, mettendo ancora più in risalto
il rossetto
scarlatto.
La curva Slytherin scoppiò in un
ruggito di
incoraggiamento quando Albus cominciò faticosamente a
rialzarsi in piedi.
Scorpius
non poteva abbandonare il suo ruolo di Battitore, o
i suoi compagni sarebbero stati gettati a terra dai Bolidi, ma
ciò non gli
impedì di controllare con la coda dell’occhio
l’eroica risalita dell’amico:
Albus si issò a carponi, e utilizzò la scopa come
bastone per sollevarsi in posizione
eretta. Restò qualche istante fermo, in attesa che le gambe
si stabilizzassero,
poi riposizionò il manico in assetto di volo e vi
saltò sopra spavaldo,
partendo immediatamente alla ricerca del Boccino.
L’aria
si tinse di verde e argento quando gli Slytherin
fecero roteare le loro sciarpe
come incitamento per il loro Cercatore coraggioso.
Le
iridi verdi scoccarono da una parte all’altra del campo
alla ricerca del Boccino, e lo individuarono poco dopo: le ali dorate
battevano
ad una velocità da capogiro, cercando di sfuggire al
Cercatore di Hufflepuff.
Lo
stadio si zittì improvvisamente quando Albus mise in atto
il suo piano di azione: si gettò a capofitto verso il
Boccino, ma in direzione
opposta rispetto all’altro giocatore. Se non fossero stati
più che attenti, si
sarebbero violentemente scontrati.
Il
cervello iper-allenato di Rose calcolò velocemente che,
se effettivamente il cugino avesse tentato di raggiungere il Boccino
seguendo
lo stesso percorso del Cercatore avversario, sarebbe arrivato con un
disastroso
ritardo, e i cento punti sarebbero andati ad Hufflepuff.
Ma era comunque una follia buttarsi in un’operazione
così rischiosa: il timido Albus di tre anni prima non
avrebbe mai azzardato
un’azione simile. Non che Albus avesse perso la sua dolcezza
o la sua ingenuità
in quegli anni, ma era subentrata una vena di fermezza e
caparbietà che rendeva
finalmente chiaro perché il Cappello Parlante lo avesse
assegnato a Slytherin.
Rose
si aggrappò al braccio di Macauley; Nott era così
assorto nell’osservare la partita che non protestò
per i batteri del contatto
fisico. Perfino Valentine aveva smesso di sbrodolare stupidaggini al
microfono.
I
due Cercatori si avvicinarono sempre più, le dita di
entrambi tese fino allo spasmo per recuperare il prezioso Boccino.
Albus
avvertì le ali dorate solleticargli i polpastrelli prima di
scontrarsi
rovinosamente contro l’altro giocatore.
I
colori delle due squadre si mescolarono in un groviglio di
gambe e braccia, le scope che roteavano nell’aria prive di
bagaglio umano, e l’aggrovigliamento
di Slytherin e Hufflepuff
si abbatté al suolo con un tonfo secco.
Achill
scavalcò lo spalto degli insegnanti con un salto da
mastino, e accorse a districare i suoi allievi, seguito da una
preoccupatissima
Eeriemay e da un boccheggiante Bartold.
«Albus
Sever… Albus
Sebaru…» Achill ringhiò quasi,
estraendo il suo vecchio apprendista da
quell’intrico di stoffa. «Io ti ha sempre detto che
tuo nome è troppo lungo!»
Bartold
aiutò il Cercatore di Hufflepuff,
stordito dalla caduta, a rialzarsi a sedere; la
Eeriemay si inginocchiò di fianco ad Albus, e lo
sollevò gentilmente
avvolgendogli le spalle con un braccio.
«Va
tutto bene?» si
premurò.
Gli occhi verdi
che
si posarono su di lei erano un po’ troppo vacui per
appartenere ad una persona
in perfetta salute, ma il suo studente diede prova di avere ancora un
minimo di
forze e di lucidità: sollevò nell’aria
il pugno, vittorioso. Le ali trasparenti
del Boccino palpitavano tra le sue dita chiuse.
«Vince
Slytherin!»
l’annunciò di Valentine quasi
sparì, sommerso dalle grida trionfanti della Casa in
questione.
La
fine della partita li aveva sollevati dai propri
incarichi, per cui Scorpius e Haru atterrarono quasi istantaneamente
accanto ai
professori. Il giapponese restituì la scopa al suo compagno
di squadra, mentre
Scorpius si avvicinò reggendo tra le mani quella di Albus.
«Come
sta?»
domandò, fallendo miseramente nel tentativo di mascherare la
propria ansia.
La Eeriemay
cercò
di tranquillizzarlo con un sorriso incerto.
«Credo
che stia
bene. Ma è meglio portarlo da Madamina» decise la
professoressa.
La
mano di Albus ricadde al suolo, e il Boccino ruzzolò
sull’erba. Gli occhi smeraldini cercarono quelli grigi e
rannuvolati di
preoccupazione, e le labbra si curvarono in un sorrisetto tenue.
«Abbiamo
vinto»
gioì Albus, prima di perdere i sensi.
***
Il carattere
giocoso di Hufflepuff permetteva
alla
Casa di non rammaricarsi troppo per
le sconfitte: utilizzarono le vivande comprate in previsione della
vittoria per
organizzare invece un piccolo rinfresco per la squadra e per qualunque Hufflepuff che avvertisse un languore
nello stomaco.
«Sei
stato
fantastico, Haru!» ruggì felice Dallas, battendo
una ciclopica pacca sulle
spalle esili del giapponese. «Ti muovi come un
felino!»
«Non
è niente di
speciale» minimizzò l’asiatico, ma la
sua replica si perse nel roboante
applauso che riempì tutta la sala principale.
«Voi
di Hufflepuff siete
molto… energici» notò
Rose. Era stata invitata da Dallas a prendere parte alla festicciola
– nonostante
la sconfitta, avevano giocato indiscutibilmente bene, per cui la
squadra
meritava di essere acclamata – e lei aveva accettato
volentieri: qualunque cosa
potesse evitarle il pensiero di suo cugino in infermeria era bene
accetta.
«È
abbastanza
divertente, quando ti abitui a questo stile di vita»
affermò Haru, sorbendo un
sorso del suo succo di zucca.
«Non
mi sembra che
tu sia rumoroso come Dallas» confutò Rose.
«Ho
detto
“abituarsi”, non
“adattarsi”» replicò serafico
l’asiatico.
«Sei
troppo
attaccato al significato delle parole» brontolò la
ragazza.
Nemmeno
il carattere di Rose aveva subito sostanziali
cambiamenti con il tempo. Al contrario del corpo: anche se tentava di
nasconderlo con le felpe larghe, sul suo fisico stavano pian piano
maturando le
forme di una giovane donna. Haru lo aveva notato quando una volta, in
biblioteca, la ragazza gli si era rovesciata addosso, e il suo petto si
era
premuto contro quello della giovane.
Haru
affogò quei pensieri in un sorso più lungo di
succo: indugiare
su quei dettagli lo faceva sentire un vecchio maniaco.
«Come
sta Albus?»
domandò, facendo cambiare strada alla propria mente. Finita
la partita, era
stato trascinato da Dallas nella Sala di Hufflepuff,
e non aveva avuto modo di raggiungere l’amico. Rose, al
contrario, era riuscita
ad evitare il delirio dilagante almeno il tempo sufficiente per fare
visita al
cugino.
«Era
ancora
svenuto, quando sono andata in infermeria. Ma Madamina mi ha garantito
che sta
bene» rimbrottò la ragazza.
Scorpius
era riuscito a restare al capezzale di Albus: le Slytherin
avevano ridacchiato e
gorgheggiato un “resta pure, lui ha bisogno di te”
con fare allusivo, e non
avevano fatto pressioni affinché i protagonisti della
giornata fossero presenti
alla baraonda che si sarebbe scatenata poco dopo nella loro Casa. I
ragazzi di Slytherin si erano
limitati a stringersi
nelle spalle e lasciarli soli.
Rose
tirò distrattamente la propria treccia rossiccia,
allungatasi negli ultimi anni. Aveva un sospetto, da molto tempo. Ma
aveva
bisogno di un parere imparziale.
«Haru»
chiese a
bruciapelo. «Tu cosa pensi di Albus e Scorpius?»
Gli occhi scuri
la
fissarono dal bordo dorato del bicchiere senza capire.
«Sono
entrambi due
ottimi giocatori e maghi capaci» stimò, calmo.
Rose lo
invitò a
proseguire con un gesto della mano.
«Scorpius
è forte
con l’orgoglio, e Albus con la dolcezza» aggiunse
Haru.
«Ma
cosa pensi di loro?»
insistette Rose.
Qualcosa nel
tono
impaziente della ragazza gli fece finalmente cogliere il fine
sottinteso della
frase.
«Di…
loro?» Haru le fece eco
nelle parole e
nel timbro. Rose annuì, e il giapponese si trovò
ad annaspare per ricamare una
risposta soddisfacente. «Non ho mai pensato a loro,
sinceramente… ma è plausibile,
suppongo.»
«Quindi?»
si ostinò
Rose.
«Quindi
credo che
la scelta spetti a loro»
concluse
Haru, annegando le labbra nel succo.
Un
assordante “la prossima volta li sconfiggeremo!”
rimbombò
nella Sala, impedendo la comunicazione tra i due. La Casa
continuò a brindare e
a formulare ipotesi su una futura rivincita ad un volume piuttosto
sostenuto,
così le parole di Haru furono udibili solo alla ragazza di Ravenclaw:
«E
tu cosa pensi
di me, Rose-san?»
La
giovane ebbe un guizzo stupito, e lo fissò incredula.
«Perché
questa
domanda?» pretese di sapere.
«Semplice
curiosità» ridimensionò Haru.
«Puoi evitare di rispondere, se lo ritieni
opportuno.»
Rose inalberò il
capo
fiammeggiante: il silenzio era lo scudo dei codardi o dei colpevoli.
«Penso
che tu sia
fondamentalmente un bravo ragazzo» lo lodò, per
smontarlo subito dopo: «Ma
credo anche che tu abbia una tremenda paura di aprirti agli
altri.»
«Non
posso darti
torto» assodò l’asiatico.
«Ci
conosciamo dal
quarto anno, eppure sappiamo pochissime cose di te»
seguitò Rose. «Ancora non
ti fidi di noi?»
Per tutta
risposta,
Haru le indicò una ragazzina del primo anno. Era piuttosto
graziosa, con i
codini castani, gli occhi verdognoli e il sorriso vivace.
«Vedi
quella
bambina?» si assicurò lui. «Aspettavo
con ansia il suo arrivo ad Hogwarts.»
«Conosci
Elizabeth?» si meravigliò Rose. Non era la
discendente di una famiglia magica
particolarmente prestigiosa, e la giovane Weasley sapeva il suo nome
solo
perché la piccoletta si era presentata dopo che si erano
incontrate
sull’Hogwarts Express. Allora non vi aveva prestato troppa
attenzione, ma Haru
aveva sollevato entrambe le sopracciglia nel vedere la bambina, e, per
l’indole
impassibile del giapponese, era come aver urlato a squarciagola.
«No.
Ma vorrei. È
la mia sorellastra.»
La
notizia le piovve come una doccia gelata sul collo, e
Rose sussultò, voltandosi di scatto verso l’amico.
«La
tua
sorellastra?» ripeté. «E non la
conosci?»
Haru
annuì, un’espressione serena e addolorata sul viso.
«Non
è che non mi
fido di voi» mormorò l’orientale.
«Ma il mio passato non è un argomento di
conversazione felice, nella maggior parte dei casi.»
Fu
il turno dell’asiatico per trasalire, quando Rose gli
circondò le spalle con un braccio.
«È
per questo che
servono gli amici: per affrontare le cose che ci hanno fatto soffrire e
risolverle» sentenziò gentile. «Ce ne
parlerai, quando ti sentirai pronto?»
Il
sorriso del giapponese fu uno dei più sinceri che avesse
mai usato in sua presenza.
«Ve ne
parlerò»
promise. Rose annuì soddisfatta e si staccò da
lui, per poi rivoltargli contro
la sua stessa domanda:
«E tu
cosa pensi di
me?»
L’asiatico
non fu rapido come lei nel rispondere. Giocò
pigramente con il bordo del bicchiere, percorrendolo più
volte con il dito, prima
di affermare, sincero:
«Sono
molto felice
di averti conosciuta, Rose-san.»
E
fu con enorme soddisfazione che vide le guance della
ragazza tingersi di un rosso appena percepibile.
***
Gli occhi di
Louis
possedevano un invidiabile colore azzurro slavato, paragonabile ad un
cielo
estivo. Quel giorno, però, il cielo era in tempesta.
«Non
farlo mai
più.»
«Cos’è
che non devo
fare?»
«Coinvolgermi
nelle
tue idiozie durante le partite di Quidditch.»
Valentine
ruotò gli
occhi al cielo. Ben due Case stavano festeggiando, chi per la vittoria
e chi
per consolazione, e loro erano in biblioteca a studiare. Davvero grama,
la vita
del tutore. Specie durante l’ultimo anno, da quando il
temperamento di Louis si
era diretto con decisione verso l’intrattabilità.
«Così
non ti
scorderai di me» minimizzò Valentine, scrollando
le spalle.
«Non
potrei mai
scordarmi di te» sibilò l’altro,
calcando con troppa forza il pennino sulla
pergamena: la punta si spezzò, spandendo
un’orribile macchia nera.
«Davvero?»
chiese
Valentine, mentre il più piccolo armeggiava per rimuovere
quello sbafo
ignominioso.
«È
dal primo anno
che sono costretto a sopportarti» rimuginò Louis.
«Non potrei scordarti nemmeno
se volessi.»
Si
aspettava una frecciatina, oppure una pagliacciata, ma
gli rispose solo il silenzio. Rialzò lo sguardo, e quasi si
spaventò nel notare
l’altro che lo fissava con un’espressione di
angelica beatitudine.
«Grazie»
si
compiacque Valentine.
«Non
era un
complimento» gli rese noto Louis.
«Invece
lo era. È
rassicurante sapere che qualcuno non si scorderà di me,
nemmeno se dovessi
sparire» fu la criptica replica del più grande.
Le
iridi cerulee si tinsero di incomprensione.
«Sparire?»
ripeté
Louis.
L’indice
di Valentine picchiettò sul libro di testo.
«Manca
l’ultimo
esercizio» gli ricordò, ammutolendo subito dopo.
Louis
lo fissò ancora qualche istante, indeciso, poi
riportò
sguardo e attenzione sulle esercitazioni.
C’erano
giorni in cui davvero non capiva cosa passasse
per la testa a soqquadro di Valentine.
***
«Ma
siete sposati,
per caso?»
Scorpius non
rispose subito: la sua concentrazione era assorbita dal volto pallido e
immobile dell’amico, e gli occorse qualche istante per capire
che Madamina
stava parlando con lui.
«Ogni
volta che uno
si fa male, l’altro resta al suo capezzale fino
all’alba» chiarì la dottoressa.
«Ho visto coppie sposate resistere molto meno.»
C’era
una chiara
contraddizione nel discorso di Madamina: non vedeva come, curando
adolescenti
dai quattordici ai diciassette anni, potesse mai avere avuto a che fare
con
coppie sposate. Ma non si azzardò a domandare: non voleva
che l’infermiera prendesse
il suo dubbio come un aggancio per narrargli delle sue passate
avventure. Non
che i racconti di Madamina fossero noiosi, anzi, la maggior parte delle
sue
vicissitudini avrebbe trovato un’ottima collocazione in
un’antologia di genere
avventuroso. Ma non aveva voglia di ascoltare le sue favole mentre
Albus era
ancora privo di sensi.
La
dottoressa controllò i valori del ragazzo, cambiò
la
flebo ed uscì, lasciandolo solo con il compagno.
«Hai
sentito?» domandò, rivolto al giovane
addormentato. «Fanno insinuazioni mentre tu non puoi
rispondere.»
Avrebbero
dovuto essere nella loro Casa a festeggiare,
invece erano di nuovo nel regno di Madamina.
Erano
finiti spesso in infermeria a causa del Quidditch:
dita insaccate, ginocchia sbucciate, caviglie provate erano
all’ordine del
giorno. Per non parlare del periodo in cui avevano fatto da apprendisti
ad
Achill: Madamina aveva quasi pensato di creare una tessera di
fedeltà solo per
loro.
Ma
non era mai stato inquieto come quel giorno. Aveva notato
la prima fase della caduta di Albus, anche se era stato deconcentrato
dalla
partita: l’amico era scivolato dalla scopa come se avesse
avuto un malore, e i secondi
in cui era rimasto a terra, appallottolato su se stesso, non avevano
fatto che
rafforzare quell’impressione.
Il
volto di Albus appariva diafano nella luce rarefatta
dell’infermeria, e Scorpius sollevò una mano per
sfiorare la guancia
dell’amico. Era tiepida e immobile, e non reagì al
suo tocco imporporandosi
come sempre.
Allungandosi
su di lui, però, Scorpius poté notare un
dettaglio che prima gli era sfuggito: una sottile linea scura spuntava
dallo
scollo rotondo della maglietta del giovane. Avrebbe pensato ad un
capello
incastrato nel colletto se il nero di quella riga non fosse stato
così
innaturale.
Sperò
che Madamina non rientrasse in quel momento, o avrebbe
dovuto sopportare le sue battutine per un bel pezzo: si sporse
sull’amico svenuto
e abbassò lo scollo della maglia in modo da denudare la
spalla.
Sentì
il sangue ritrarsi nelle vene quando, sulla pelle
liscia di Albus, fu visibile un’orribile stigmate scura.
Aveva le dimensioni di
un insetto, ed il colore tenebroso che la costituiva non era fermo, ma
formato
da strani caratteri orientali in continuo mutamento
all’interno del confine dell’innaturale
cicatrice.
«Non
dovevi
scoprirlo così.»
Scorpius
non si sorprese troppo nel voltarsi e riconoscere
Haru, in piedi sulla porta della camera. Aveva sospettato un suo
coinvolgimento
nel momento stesso in cui aveva visto quegli ideogrammi agitarsi
all’interno
della ferita.
«E
come dovevo
scoprirlo?» rivestì la spalla
dell’amico, mentre poneva quella domanda. Ad
Albus non avrebbe fatto piacere rimanere scoperto troppo a lungo.
«Te ne
avrebbe
parlato lui» rispose Haru. Rose aveva fatto ritorno al
dormitorio della sua
Casa, e lui era riuscito a strisciare fuori dalla Sala per andare a
visitare
l’amico. Si era aspettato la presenza di Scorpius, ma non che
avesse scoperto
il segreto di Albus.
«E da
quando ne ha
parlato con te?» lo interrogò Scorpius.
«Da
quando mio
cugino ci ha attaccati.»
Il
grigio freddo delle iridi avvampò di irritazione,
visibile nonostante gli sforzi di Scorpius di contenersi.
«Quindi
sono passati
due anni.»
«Sono
davvero
spiacente» si scusò Haru.
Scorpius
ritrasse le labbra, per evitare di lasciarsi
sfuggire qualcosa di molto antipatico. Tutti loro si erano abituati
alla
riservatezza dell’asiatico, ma l’idea che Albus gli
avesse tenuto nascosto
qualcosa per tutto quel tempo lo irritava terribilmente.
«Era
sparito» lo
difese Haru. «Una settimana dopo, quel graffio era sparito
senza lasciare
traccia. Probabilmente pensava che si trattasse di una ferita
passeggera, e per
questo non ve ne ha parlato. L’ho creduto anche io, fino ad
oggi.»
Il
suo animo fu lievemente ammansito da quella seconda
informazione. Almeno, Albus aveva taciuto su una cosa che credeva
volatilizzata.
Lo avrebbe perdonato più facilmente, sapendo che non aveva
mantenuto un segreto
in malafede.
«Come
è successo?»
chiese Scorpius, passandosi una mano sul viso.
«Deve
essere stato
colpito da uno dei famigli di mio cugino» ponderò
Haru. «A giudicare dalla
forma della cicatrice, direi un verme.»
Quell’ultima
considerazione aprì uno squarcio nella memoria
di Scorpius: Macauley che puntava un dito tremante sulla spalla di
Albus,
tartagliando qualcosa su un lombrico. E lui lo aveva rimproverato,
dicendogli
che un invertebrato non avrebbe rappresentato il peggiore dei loro
problemi. Ironia
del destino, proprio quel lombrico era stato il veicolo della ferita
nera sulla
spalla di Albus.
«Era
sparita»
rimarcò Haru. «Senza lasciare la minima traccia.
Oggi è ricomparsa per la prima
volta in due anni.»
«Cosa
potrebbe
essere?» indagò Scorpius, ipnotizzato dalla spalla
dell’amico: anche se la
maglia era stata rimessa al suo posto, gli pareva di vedere ancora il
graffio
nero allungarsi sulla pelle lattea.
Haru
mostrò le mani
in segno di resa, sconsolato.
«Ho
cercato sui
miei testi di magia, ho consultato mio nonno, ne ho parlato anche con
Eeriemay-sama e il corpo docente. Nessuno conosce questa particolare
fattura.»
«Quindi
non avete
idea dei danni che potrebbe provocare» concluse gelido
Scorpius.
«No»
ammise
amaramente Haru. «Alla luce di quanto avvenuto oggi,
Eeriemay-sama ha supposto
che sia qualcosa di simile alla cicatrice che il padre di Albus-kun
aveva sulla
fronte. Anche Harry-san soffriva di terribili dolori
per…» Haru si sfiorò la
fronte, allusivo.
«Ma
tuo cugino non
ha tentato di uccidere Albus» ricordò Scorpius.
«No.
Infatti dubito
che sia in qualche modo riconducibile alla tipologia di suo
padre» confermò l’orientale.
«Il
problema
centrale resta» controbatté l’altro.
«Non sappiamo cosa sia e cosa potrebbe
comportare.»
Haru
annuì gravemente, incrociando le braccia.
I
pugni del ragazzo di Slytherin
si strinsero sulle ginocchia. Non poteva accettare che Albus
affrontasse quel
pericolo da solo, senza che lui potesse fare nulla.
Di
nuovo, fu la memoria a soccorrerlo.
«Potrebbe
trattarsi
di una di quelle nuove magie oscure di cui ci avevi parlato al quarto
anno?»
sondò.
«È
possibile»
asserì Haru.
«Quindi
la
soluzione potrebbe risiedere non nella magia conosciuta ma in un nuovo
incantesimo» teorizzò Scorpius. Il giapponese
annuì di nuovo e l’altro domandò:
«È possibile entrare a far parte di quel centro di
ricerca di cui ci avevi
parlato?»
Le
spalle dell’asiatico si raddrizzarono con serietà,
e il
suo sguardo si incupì.
«Scorpius-kun,
il
motivo per cui ti stai proponendo è nobile, ma ti invito a
riflettere con
serietà. Se deciderai di aderire, non potrai andartene dopo
aver trovato una
cura per Albus-kun: abbiamo bisogno di maghi che possano garantire un
impegno
assiduo e costante. Sei pronto ad impegnarti con il nostro gruppo per i
prossimi anni, se necessario?»
Scorpius
trovò la sua decisione nel viso scolorito
dell’amico: chi lo avrebbe aiutato, se lui si fosse tirato
indietro?
«Sono
pronto»
dichiarò sicuro.
Il
giapponese lo scrutò con mortale serietà, alla
ricerca di
un minimo tentennamento nella sua persona. Non ne trovò
nemmeno l’ombra, per
cui lo accolse formalmente:
«Benvenuto
tra noi,
Scorpius-kun. Domani parleremo meglio del tuo inserimento in uno dei
gruppi di
ricerca.»
Haru
sparì dalla stanza dopo essersi inchinato velocemente,
e Scorpius gli fu grato per la sua discrezione.
Le
sue dita scivolarono sulle coperte, andando a raggiungere
la mano di Albus, abbandonata lungo il fianco, e si strinsero attorno
alle
compagne.
Non
avrebbe lasciato andare quella mano.
Non
proprio ora che l’amico aveva bisogno di lui più
che
mai.
***
C’era
qualcosa di oscuro e strisciante,
tutto intorno a lui.
Lo
sentiva
arrotolarsi vicino alle sue caviglie come un serpente.
Rimase
immobile,
sperando che quella bestia lo sorpassasse velocemente. Invece la
presenza
viscosa rimase attaccata ai suoi piedi, e gli parve di avvertire il suo
ghigno
sadico contro la tibia.
Poi,
all’improvviso, dall’oscurità cadde
qualcosa. Una pesante goccia gli piovve sul
viso, seguita da un’altra sulle mani, e un’altra
ancora sul petto, finché quel
liquido pastoso non diventò un incessante scroscio intorno a
lui.
Lo
riconobbe.
Rosso,
salato,
caldo.
Era
sangue.
L’ombra
pioveva
sangue.
Si
risvegliò con il
cuore in gola e la fronte madida di sudore, le labbra spalancate in un
rantolo
inconsulto.
Riuscì
a calmarsi solo quando riconobbe le pareti chiare e
l’odore asettico dell’infermeria. Trascorse un
secondo e si agitò di nuovo, ma
per un motivo molto più piacevole: la sua mano era
intrappolata nella presa
gentile di quella di Scorpius.
«Sei
rimasto qui
tutta la notte?» esclamò, prima di riuscire a
controllare la sorpresa.
Scorpius
si rialzò mollemente dal materasso, battendo più
volte le palpebre incollate dal sonno. Anche lui impiegò
qualche istante per
mettere a fuoco il posto in cui si trovava.
Albus
sentì il cuore martellargli nella testa quando
l’altro
non lasciò la presa sulla sua mano, nemmeno quando fu del
tutto sveglio e
lucido. Al contrario, Scorpius avvicinò le dita
dell’amico al proprio petto
quando esordì, la voce ancora arrochita dal sonno:
«Albus,
devo
parlarti di una cosa…»
La
conversazione venne troncata sul nascere da un urlo
raccapricciante, che fendette l’aria insonnolita della
mattina.
«Valentine!»
strillò una voce femminile, scheggiata di panico e orrore.
Albus
rabbrividì da capo a piedi, mentre l’incubo
prendeva
forma nel mondo reale.
L’ombra
pioveva
sangue.
Finalmente
al
sesto anno, dove i giochi si complicano<3
Di
nuovo, mi
inchino e chiedo il vostro perdono per il ritardo
ç___ç Ma gli esami
universitari incalzano e, se non si passano, non si parte per il
Giappone a
marzo .-.
Anyway<3
Eccoci
finalmente
al sesto anno e i nostri eroi entreranno in tempesta
ormonale, cribbio! <3
Una
piccola nota
sui suffissi usati da Haru:
San:
suffisso onorifico piuttosto generico,
usato per le femmine e per i maschi.
Kun:
si utilizza tra coetanei, amici di
sesso maschile o ragazzi più piccoli; non si usa con le
ragazze (sarebbe come
dare loro degli uomini XD)
Sama:
onorifico più formale di –san,
utilizzato verso persone superiori in gerarchia.
Ciò
detto… mi
metto subito a scrivere il prossimo capitolo, non voglio farvi
aspettare ogni
volta quasi un mese ç_ç
A
presto<3
Red
Bacheca
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La
pasticceria
HamletRedDiablo sta sfornando anche:
Quello
che vedi nella tela [Hetalia; GerIta]
Stagioni
Marsigliesi [Hetalia; Spamano, FrUk]
Deimos
- Il Peccato Irrazionale [Originali, Sovrannaturale, Angeli e
Demoni]
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Capitolo 10 *** Lutto ad Hogwarts ***
2
Lutto a Hogwarts
Dalla
camera non provenne alcun suono, ma Rose aprì comunque
la porta.
Il
piccolo stava infossato nel letto, spandendo una nube di
depressione tutto intorno.
«Louis?»
lo chiamò Rose, accostandosi al giaciglio. Le
spalle incurvate ebbero un fremito, ma non una parola uscì
dalle labbra
pallide.
La
ragazza si inginocchiò ai piedi del materasso e lo
consigliò, con fare materno:
«Louis,
se non mangi nulla ti deperirai.»
Il
piccolo si rattrappì su se stesso, incarcerando gli occhi
tra le ginocchia ossute.
«Sono
due giorni che rifiuti il cibo. Per favore, mangia
qualcosa.»
«Non
mi va» la voce di Louis arrivò flebile e distorta
dall’abisso in cui era stritolata. «Il mio stomaco
è imploso.»
Rose
inspirò profondamente, alzando gli occhi al cielo.
Erano dunque giunti alla parte più spinosa del discorso.
«Quello
che è successo a Valentine…»
cominciò, scandendo
lentamente in modo che Louis potesse assorbire ogni parola.
«È qualcosa di
atroce. È comprensibile che tu sia sconvolto; tutta Hogwarts
sta vivendo il
lutto, e ognuno lo affronta a modo suo. Ma…»
«Lui
lo sapeva.»
Rose
non si aspettava di essere interrotta, per cui lo
stupore per l’intervento del parente la paralizzò
momentaneamente.
«Chi
sapeva cosa?» domandò, con cautela.
«Valentine.
Sapeva che gli sarebbe successo qualcosa» Louis
sollevò dalle ginocchia un paio di occhi gonfi e rossi in un
modo tale da far
stringere il cuore per la compassione. «Per questo mi ha
chiesto di non
dimenticarlo.»
Il
piccolo infossò di nuovo il viso nelle gambe incrociate,
e singhiozzò:
«Avrebbe
dovuto cercare di evitare quella cosa, se sapeva
che sarebbe arrivata, anziché fare il malinconico con me. Ma
è sempre stato uno
stupido!»
Sull’ultima
sillaba la sua voce divenne irriconoscibile,
affilata dalla rabbia e frantumata dal pianto. Rose accorse al suo
fianco, e lo
cullò fino a che i suoi singhiozzi non si placarono in
lacrime silenziose.
Reclinò
la testa all’indietro per ricacciare le lacrime che
minacciavano di sfondare gli argini: Louis era sufficientemente scosso,
non
necessitava certo di una parente piagnona al suo fianco. Aveva bisogno
di
qualcuno che gli infondesse scurezza, non che aggiungesse il proprio
pianto al
suo.
La
morte di Valentine aveva sconvolto tutti loro.
Era
stata una Hufflepuff
del terzo anno a scoprire il corpo. Amareggiata per il risultato della
partita
di Quidditch, aveva deciso di rilassarsi con una passeggiata lungo i
corridoi
della scuola. La sua tranquillità era stata brutalmente
fatta a pezzi dal
pungente odore ferrigno e dal liquido viscoso che si era appiccicato
alla sua scarpa.
Era bastata un’occhiata per accorgersi che quella in cui
aveva inavvertitamente
infilato il piede era una pozza di sangue, e che lo stagno scarlatto
era riversato
dal corpo squarciato di quello che era stato Valentine Cross.
Rose
non aveva visto il corpo: faceva parte della seconda
ondata di studenti, quelli arrivati quando i professori erano
già accorsi a
rimuovere il cadavere con la magia, e a cercare di tranquillizzare gli
allievi
che avevano visto quello scempio abominevole. Madamina non era mai
stata tanto
impegnata nella somministrazione di tranquillanti e sedativi.
Louis,
Albus e Scorpius facevano invece parte della prima
ondata: l’infermeria in cui i due Slytherin
avevano passato la notte era tragicamente vicina al luogo del delitto,
e il
Fato aveva deciso che Louis scegliesse proprio quel momento per fare
visita al
parente infortunato.
Rose
non avrebbe mai dimenticato lo stravolgimento che aveva
letto sul volto del cugino e di Scorpius, ma ciò che
l’aveva angosciata di più
era stata la reazione di Louis: fermo e impallidito come se la morte si
fosse
appropriata anche del suo sangue, era rimasto in quello stato
catatonico
perfino quando la Eeriemay lo aveva gentilmente sospinto verso
Madamina, gli
occhi calamitati sul corpo martoriato che quel pomeriggio gli aveva
spiegato
gli esercizi di magia.
I
professori non avevano divulgato dettagli riguardo alle
loro indagini su quel delitto: avevano solo incoraggiato gli studenti a
mantenere la calma, e a fidarsi di loro.
Louis
non era riuscito a seguire il loro consiglio: era
rimasto in camera, chiuso nel silenzio e nel digiuno, e aveva permesso
solo a
Rose di interrompere il suo isolamento.
«I
professori non hanno detto nulla? Su chi o cosa
sia stato a ridurlo così?»
Rose
scosse la testa, e gli accarezzò i capelli morbidi.
«No.
Nulla.»
«Sembrava
che fosse stato sbranato da un drago» commentò, la
voce ingolfata dalle lacrime e dallo shock. «Era tutto
aperto… era…»
«Louis»
lo richiamò gentilmente Rose, abbracciandolo più
stretto. «Non devi torturarti così.»
Il
piccolo si agitò debolmente tra le sue braccia, poi si
accoccolò contro di lei e rimase fermo, in silenzio. Quando
la crisi sembrò
essersi acquietata, Rose gli sollevò il viso arrossato dal
pianto e sillabò con
lentezza:
«Te
la senti di scendere in Sala Comune o preferisci che ti
porti qualcosa da mangiare? Non puoi continuare a digiunare per
sempre»
aggiunse, per prevenire qualunque protesta.
Louis
inclinò il capo in avanti e lo fece ciondolare
debolmente a destra e sinistra.
«Non
me la sento di scendere» borbogliò, tornando a
stendersi.
«Allora
ti porto qualcosa» sancì Rose, avviandosi verso la
porta. Louis non la ringraziò, ma nemmeno
protestò per quell’intrusione nel suo
lutto.
Haru
la attendeva al di fuori della porta: consapevole
dell’astio che il piccolo Griffyndor
nutriva nei suoi confronti, aveva preferito lasciare che la giovane
entrasse da
sola.
«Come
sta?» si informò, seguendola mentre scendeva verso
le
cucine.
«Si
riprenderà. Con il suo tempo» sospirò
Rose. «È stato un
duro colpo per lui. Era molto affezionato a Valentine.»
«Lo
insultava sempre.»
«Proprio
per questo so che era affezionato a lui. Louis non
spreca tempo per infamare persone che gli sono indifferenti o
antipatiche: le
ignora semplicemente.»
Rose
si voltò verso l’orientale e bisbigliò
cospiratoria:
«L’incidente
di Valentine… ha qualcosa a che fare con le
nuove magie di cui ci avevi parlato al quarto anno?»
Haru
sistemò gli occhiali sul naso, soppesando la
possibilità.
«Non
lo escludo. Dovrei recarmi al Quartier Generale per potermene
accertare» poi propose, riprendendo a camminare:
«Puoi venire con noi, questa
sera. Io e Scorpius abbiamo intenzione di raggiungere gli
altri.»
«Che
c’entra Scorpius?»
«Si
è aggiunto al nostro gruppo qualche giorno fa.»
«Per
quale motivo?»
Haru
frenò così bruscamente che Rose quasi gli
finì addosso.
L’asiatico le lanciò uno sguardo vagamente
pettegolo da sopra gli occhiali e
flautò:
«Per
Albus.»
Le
sopracciglia fulve di Rose si sollevarono in un
rimprovero canzonatorio.
«Non
credevo fossi così malizioso» lo
provocò.
«Ci
sono molte cose che ancora non sai» minimizzò
Haru. «Ma
potresti scoprirle venendo insieme a noi, questa sera.»
«È
un ricatto?»
«Un
invito ad ampliare i tuoi orizzonti intellettuali.»
Rose
lo lasciò a cuocere nell’attesa per almeno cinque
minuti prima di degnarlo di una risposta.
«Verrò.»
***
Albus
sfregò la mano contro la cicatrice rovente. La
rivelazione dell’amico sembrava averla incendiata.
«Puoi
ripetere?» domandò, incredulo.
«Ho
deciso di aggiungermi al gruppo di ricerca di Haru»
reiterò statuario Scoprius.
«Perché
hai preso questa decisione?» chiese Albus, sempre
più confuso.
Il
progetto proposto dal giapponese era allettante, ma da
tempo quell’argomento non rientrava più nelle loro
conversazioni. Era una
decisione molto importante, che avrebbe inevitabilmente cambiato il
loro
futuro; non pensava che Scorpius sarebbe riuscito a scegliere senza
farne
parola con nessuno, e in modo così improvviso. Non riusciva
a capire cosa
avesse potuto fargli cambiare idea a quel modo.
Scorpius
si prese qualche istante per riordinare le idee e
stilare un discorso logico.
«Al
primo anno siamo stati attaccati da una bestia, e al quarto
da un mago sconosciuto. Valentine è stato ucciso. Non voglio
farmi trovare
impreparato» spiegò, con calma.
«Ma
puoi difenderti anche con la magia normale»
protestò
Albus.
L’altro
arricciò le labbra: sperava che l’amico non si
accorgesse della piccola breccia nella sua esposizione. Con il passare
degli
anni, era sempre più chiaro perché il piccolo
Potter fosse stato assegnato a Slytherin.
Scorpius
prese fiato, e finalmente ammise quello che voleva
confessare qualche sera prima.
«La
tua cicatrice non appartiene alla magia canonica. È un
nuovo tipo di maledizione. E ho intenzione di trovare una
cura.»
Gli
occhi di smeraldo si spalancarono per
l’incredulità.
«Lo
stai facendo per me?»
Scorpius
fece un vago cenno con la mano, per confermare
senza essere costretto a rendere la situazione ancora più
imbarazzante.
«Non
sto andando in guerra contro un nuovo Signore Oscuro.
Devo solo assistere un gruppo di ricerca» si
ribellò con eleganza Scorpius.
«Ma
è un impegno a lungo termine! Haru è stato chiaro
su
questo punto: non possiamo aggiungerci se abbiamo intenzione di mollare
dopo
qualche anno. Condizionerà tutto il tuo futuro! E
poi…» Albus conficcò una mano
nella tasca, dove il lupo d’argento gli trasmise una
rassicurante frescura. «E
poi, il gruppo di Haru è l’antagonista dei nuovi
maghi oscuri: verranno loro a
cercarvi, in ogni modo. E tu dovrai affrontarli.»
«Non
sono riusciti a uccidermi due anni fa, non ci
riusciranno nemmeno adesso» dichiarò Scorpius, con
la sicurezza strappata a un
eroe delle epopee di Avalon.
«Ma
è diverso! Questa volta non saranno ologrammi, o
ectoplasmi o robe simili: saranno maghi in carne e ossa!»
«E
noi studieremo per sconfiggerli.»
«Scorpius,
è un impegno troppo grande!»
«Non
voglio che quella cicatrice ti divori mentre io me ne
sto a contare le nuvole, Albus!»
Fino
ad allora Scorpius aveva ribattuto conciso e calmo, ma
in quel momento un’emozione nuova gli infiammò la
voce. L’aveva contenuta nelle
mani tremanti, arroccate all’interno delle tasche dei
pantaloni, e l’aveva
morsicata sulle labbra mentre l’amico cercava di convincerlo
a desistere. Ma
non era riuscito a trattenerla fino alla fine.
Albus
lo fissò, spiazzato dal suo tono e dalla sicurezza con
cui l’amico era pronto a gettarsi tra mille potenziali
pericoli solo per il suo
bene. Il minore dei Potter deglutì lentamente, senza
staccare gli occhi dalle iridi
grigie e fredde dell’altro.
«Non
posso impedirti di aggiungerti al gruppo» meditò
ad
alta voce; raddrizzò le spalle e la voce nel proferire:
«Ma tu non puoi
impedirmi di accompagnarti.»
Scorpius
saltò su se stesso come se fosse stato punto da una
tarantola.
«Voglio
esserti di sostegno mentre affronterai… qualunque
cosa dovrai affrontare. Non voglio che i maghi oscuri ti uccidano
mentre io me
ne sto a contare le nuvole.»
Anche
quel modo lievemente sadico di ritorcere contro
l’interlocutore le sue stesse parole segnava il definitivo
slancio di Albus
nella cerchia degli Slytherin.
Scorpius
fu sul punto di ribattere, ma le parole gli si
essiccarono in gola. Il ricordo del sangue di Valentine sparso ovunque
correva
tra di loro, silenzioso e putrido come un fiume di melma, ed entrambi
stavano
cercando disperatamente di evitare che anche l’altro
diventasse un rigagnolo di
quel macabro ruscello.
Non
vi era vischio, quel giorno, ma Scorpius non si fece
intimidire dalla mancanza dei fiorellini spauriti. Si
accostò ad Albus con un
unico passo e, veloce come un fulmine, si chinò su di lui e
gli sfiorò le
labbra con le proprie.
«Haru
ci farà strada, stasera» disse solamente, prima di
lasciare l’amico, confuso e purpureo, in mezzo al giardino.
***
«Mi
stai chiedendo di buttarmi in mezzo a una selva di germi
sconosciuti e potenzialmente letali?»
«Dal
tuo punto di vista, immagino si possa definire
così.»
«Perché
dovrei farlo? Tu non mi piaci molto, Harunobu, e i
batteri mi piacciono ancora meno.»
«Ma
Rose, Albus e Scorpius ti piacciono, vero? Hai
intenzione di lasciarli da soli in questa avventura?»
Nott
fissò il giapponese con astio, da sopra il muro della
mascherina. Sistemò gli elastici attorno alle orecchie e
ringhiò, visibilmente
contrariato:
«Sei
un vile ricattatore, Harunobu. E sono costretto ad
accettare.»
Scusate
l’atroce
ritardo ç_ç
I
preparativi e
la partenza per il Giappone mi hanno tenuta lontana dal pc
ç_ç Scusate *bows*
Ora
sono nel
paese del Sol Levante, quindi è probabile che
aggiornerò ad orari
potenzialmente strani xD
D’ora
in poi
(come avrete notato da questo ç_ç) i capitoli
saranno più corti, perché il
tempo per stare al pc è poco e scaglionato, e, per evitare
altri mastodontici
ritardi, cercherò di aggiornare più spesso, anche
se con capitoli più corti.
Anyway…
finalmente si sono baciati *w* (autrice che fanshippa la coppia della
sua
stessa fanfic XD). Forse vi sarà sembrato un po’
improvviso, ma… attendete il
prossimo capitolo<3 Che cercherò di postare il prima
possibile<3
Grazie,
come
sempre, per la pazienza e per seguire questa storia<3
A
presto!
Red
|
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Capitolo 11 *** Nuovi Inizi ***
3
Nuovi
Inizi
«Sto
per morire.»
«Coraggio,
Macauley. So che ce la puoi fare.»
«Scorpius
Malfoy, abbiamo passato sei anni a Hogwarts
insieme, incollati ogni santo giorno. Esattamente, cosa
nel nostro passato comune ti fa pensare che io possa sopportarlo?»
Scoprius
si esibì nel suo migliore sorriso di circostanza
per mascherare gli squittii isterici del suo amico e le sue repliche
fredde.
«Macauley,
se non collabori, finirai ammazzato da un mago
oscuro. E sarà mia premura farti finire nel loculo
più dimenticato e sporco
di tutto il cimitero» sibilò.
«Esiste
un girone all’inferno per quelli come te, Scorpius
Malfoy» ringhiò Macauley.
Haru
non aveva perso tempo: li aveva portati in una delle
sedi della sua misteriosa associazione. Avevano infranto il coprifuoco,
ma la
Eeriemay aveva assicurato protezione: nessuno, nemmeno il vecchio
guardiano rompiscatole,
avrebbe notato la loro piccola fuga.
Haru
li aveva scortati nel bosco, fino a fermarsi di fronte
a un’enorme quercia. Si stavano chiedendo quale fosse lo
scopo nell’averli
condotti fino a lì quando le radici della quercia si
appallottolarono, formando
una graziosa porticina di legno, da cui erano entrarono.
L’interno
dell’albero ricordava la taverna di un cacciatore
di montagna: pesanti tappeti erano appoggiati sullo spesso parquet di
faggio,
un rustico caminetto scoppiettava a lato e una credenza piena di
bottiglie che
non dovevano contenere succo di zucca torreggiava in fondo alla stanza.
Quattro
persone li attendevano, impegnate nelle attività
più disparate: due gemelli dai
cappelli rossi stavano completando un disegno, una riga a testa in
rapida
successione come se i loro cervelli fossero collegati; Dallas, il
cugino di
Albus, li salutò festante mentre preparava un vassoio colmo
di bicchieri; un
veterano con la polvere di mille battaglie arpionata alla pelle e ai
vestiti
sgracchiò sonoramente per accoglierli.
«Benvenuti
ad Avalon» annunciò Dallas, facendo passare il
vassoio.
«Avalon?»
gli fece eco Rose.
«È
il nome della nostra società» confermò
il ragazzo. Bevve
un sorso dal suo bicchiere e continuò: «Almeno, di
questo ramo della società.»
«Ce
ne sono altri?» esacerbò Macauley, la voce acuita
da una
punta di isteria. I suoi occhi non avevano abbandonato per un solo
istante la
camicia lercia del veterano.
«Una
cinquantina, sparsi in tutto il mondo» la voce
dell’uomo suonò grezza e sporca come il tabacco
masticato. «Cerchiamo di darci
da fare per tenere i maghi oscuri sotto controllo.»
«Vorrei
che vi deste da fare a un milione di pulitissimi
chilometri da qui-ahia!» protestò Macauley, quando
la bacchetta di Scorpius lo
pungolò in mezzo alle costole.
Il
veterano sollevò le sopracciglia cespugliose, e si
avvicinò allo Slytherin sull’orlo
dell’iperventilazione. Panico allo stato puro salì
negli occhi di Mascauley a
ogni nuovo passo dell’uomo.
«Tu
sei una specie di maniaco dell’igiene, non è
vero?» notò
quello.
«”Psicopatico
igienista” è il termine corretto»
puntualizzò
Scorpius.
«Lascia
che ti insegni una cosa amico: quella mascherina e
quei guanti di lattice non ti salveranno in battaglia. Un buon compagno
sì.»
«Un
buon compagno pulito,
possibilmente.»
«I
batteri non sono il male peggiore di questo mondo.»
«Ha
mai letto le statistiche sui deceduti per malattie infettive
ogni anno?»
«Sto
dicendo che ci sono cose più importanti della tua
fobia.»
Macauley
inalberò la mascherina e mitragliò:
«Lei
rimanga ancorato alla sua religione antigienica, sotto
la benedizione della divinità “polvere”,
e io continuerò a pregare i santi
protettori dei disinfettanti e battericidi.»
Il
veterano tirò su con il naso in un modo che per poco le
narici non gli rientrarono nel cervello; Macauley trasalì
sulla sedia,
agghiacciato.
«Novellini»
masticò l’uomo. «Non cambiano
mai.»
«Sei
troppo…»
«…
drastico Angelo.»
La
frase la iniziò uno dei due gemelli, ma la
terminò il
secondo.
Rose
avvertì una fitta allo stomaco nel sentirli parlare.
Ricordava quando suo padre parlava dei suoi fratelli e dello zio che
non aveva
mai conosciuto. E ricordava ancora meglio quando zio George parlava di
zio Fred.
Forse
anche loro erano stati come quei due gemelli, un
tempo.
«E
hai l’aspetto di un vecchio lupo di montagna
spelacchiato.»
«Per
forza la gente è impaurita da te.»
«Come
sarebbe impaurita dalla peste.»
«O
dal vaiolo.»
I
gemelli continuarono a palleggiarsi il discorso, per poi
stringersi la mano al termine.
«È
un piacere sapere che sei sempre d’accordo con me»
gorgheggiarono in coro.
«Ragazzi,
ordine» li sollecitò Haru. «E
presentazioni.»
Il
veterano si pulì il naso sulla manica della camicia, e
Macauley brandì il suo spray disinfettante.
«Angelo
Della Morte» l’uomo torse le labbra in un sorriso
risentito. «Già, i miei genitori avevano un
pessimo senso dell’umorismo. E,
sfortunatamente, facevano “Della Morte” di
cognome.»
«Affascinante»
Macauley indietreggiò, lo spray pronto in
pugno.
«Esperto
di magia italiana» continuò, con un portentoso
sbadiglio. «E rientro oggi da una missione di sei mesi
oltreoceano. Non ho
avuto tempo di farmi una doccia, prima di venire qui.»
Macauley
emise uno strano verso dal naso e dalle labbra
strette, come se una risata isterica gli fosse ruzzolata sulla lingua
per poi
tuffarsi nuovamente nella sua gola. Non
aveva avuto tempo per farsi una doccia. Allora avrebbe dovuto
isolarsi sotto una tenda isolante che isolasse
i suoi germi dal resto del mondo.
«Drew.»
«E
Glenn.»
«Esperti
di magia irlandese.»
«Da
diciotto anni.»
«Praticamente
dalla nascita.»
«Proprio
così.»
Rose
rinunciò a seguire con lo sguardo i due gemelli, mentre
parlavano: i primi tentativi le avevano dato il mal di testa. Si
limitò a
fissare un punto indefinito in mezzo ai due, ascoltando la loro
presentazione
frammentata.
«Dallas
Dursley» terminò il prefetto di Hufflepuff.
«Esperto di magia vodoo.»
Tre
teste scattarono simultaneamente nella sua direzione.
«Esperto
di cosa?»
esalò Rose, annichilita.
«Vodoo»
ripeté placido Dallas.
Il
volto rubicondo e il carattere festaiolo del ragazzo erano
quanto di più distante esistesse dall’idea tetra
dei riti vodoo.
Il
sorriso del giovane inciampò sulle labbra, insicuro.
«Il
vodoo non è solo nelle arti oscure; esiste il vodoo
bianco.»
«Bianco?»
Se
non avessero smesso di traumatizzarlo, la voce di
Macauley sarebbe salita ai livelli degli ultrasuoni entro fine serata.
«E
come sei diventato esperto di vodoo?» esclamò Rose.
«Ricordi
la mia vacanza di tre settimane, di cui mio padre
non vuole mai parlare? Ecco, avevo preso una Passaporta ed ero andato
in Nuova
Zelanda.»
«E
tuo padre te l’ha permesso?» trasecolò
Rose.
«Poche
porte Babbane sono in grado di trattenere un mago.
Papà lo sa, e ha preferito lasciarmi andare. Ha detto che se
devo essere un
mago, che almeno sia un mago specializzato.»
Dallas.
Vodoo.
Era
come dire che Voldemort era diventato famoso per i suoi
ricami all’uncinetto, o che lo zio Harry amava
l’ippica sopra il Quidditch.
Qualcosa di talmente anomalo che la mente umana faticava ad associare i
due
concetti nella stessa linea di pensiero.
Rose
chiuse gli occhi, e scosse la testa. Gradualmente. Si
sarebbe abituata gradualmente.
Terminarono
le presentazioni, e Haru procedette con il punto
successivo:
«Ora
dobbiamo dividerci in squadre operative. Siamo cinque
veterani e quattro matricole, giusto?»
«Noi
andiamo contati come uno» trillarono i gemelli.
«Allora
siamo pari» sgracchiò Angelo.
«Un
momento» il panico era quasi palpabile, nella voce di
Macauley. «Cosa intendi per squadre?»
«Siete
dei novizi nell’organizzazione» spiegò
Haru. «È
normale che veniate affidati ai colleghi più
anziani.»
«Io
prendo l’isterico» si prenotò
l’italiano.
«Stai lontano da me!»
lo spruzzino disinfettante svettò minaccioso
nell’aria, mentre Macauley si
distanziava dalla fonte di batteri salendo su una sedia.
«Macauley-kun,
è logico che siano i compagni anziani a
scegliere» cercò di calmarlo Haru.
«Anche a Hogwarts, è il Cappello a decidere
in quale Casa assegnare gli studenti…»
«Il
Cappello può sbagliare! Infatti ti ha messo in Hufflepuff e non nelle segrete, come
avresti meritato!» gridò Macauley. Poteva
perdonare chi lo raggirava, avrebbe
potuto perdonare perfino un tentato omicidio ma non avrebbe mai perdonato Harunobu per averlo messo
in diretto contatto con quel cumulo di sporcizia ambulante.
«Noi
vogliamo lavorare con Rose.»
«Sembra
una ragazza intelligente.»
«È
sicuramente portata per la magia irlandese.»
«Tutte
le persone intelligenti lo sono.»
Rose
si trovò affiancata dai gemelli irlandesi, uno per braccio,
con due paia di occhi azzurri che la fissavano sfavillanti.
«Io
mi occupo di mio cugino» asserì Dallas, gettando
un
braccio attorno alle spalle di Albus.
«Rimaniamo
noi due, Scorpius» notò Haru.
«Che
tu possa affogare in una discarica, Harunobu»
ringhiò a
denti stretti Macauley.
«Non
vi abbiamo ancora spiegato come intendiamo procedere»
il giapponese ignorò con un’eleganza quasi
sfacciata l’invettiva di Macauley.
«In
effetti, “riscrivere le regole della magia”
è un
concetto un po’ troppo vasto» confermò
Rose.
«Oh,
dovrete aspettare, prima di arrivare a “riscrivere le regole
della magia”» la
riprese bonario Angelo. «Prima di tutto, dovete imparare a
uscire dagli schemi;
solo in seguito potrete maneggiare la magia secondo i vostri
desideri.»
«Una
cosa del genere è possibile?» si sorprese Scorpius.
«Non
del tutto.»
«Le
regole fondamentali vanno rispettate.»
«Noi
non siamo maghi oscuri.»
«Riscriviamo
solo il contorno» intonarono i gemelli.
Haru
mosse un passo verso il centro della stanza, quando gli
fu chiaro che gli altri non avrebbero capito senza un esempio pratico.
«Avete
tutti presente l’incantesimo protettivo Expecto
Patronum, giusto?» premise
velocemente, prima di infilare una mano in tasca ed estrarne un foglio
di
carta, piegato a guisa di falco. «Questo è uno shikigami, l’equivalente
orientale della vostra magia: crea un
animale protettore in grado di allontanare bestie come i
Dissennatori.»
I
ragazzi annuirono; avevano visto Haru utilizzare quella
magia al quarto anno. Tuttavia, Rose notò immediatamente un
particolare.
«Aspetta
un attimo: quella volta, hai usato il rosario, non
un pezzo di carta.»
«Acuta
come sempre, Rose-san» si complimentò Haru. Come
due
anni prima, mormorò una breve litania e strattonò
il rosario fino a strapparlo.
Prima che l’ultimo grano avesse smesso di rimbalzare al
suolo, il drago
argenteo fece la sua apparizione.
«Lui
non è un ordinario shikigami»
l’animale di luce si avviluppò flessuoso alle
spalle del suo creatore,
poggiando il capo sulla mano protesa del giapponese. «Ho
riscritto
l’incantesimo in modo che nessun mago nero possa contrastarlo
con una comune
magia.»
«Se
non è uno shikigami
né un patronum, allora
cos’è?»
Harunobu
non rispose subito, impegnato a cucire e rifinire
le parole per tessere un discorso il meno sconvolgente possibile.
«È
un pezzo della mia anima» sospirò alla fine.
Angelo
quasi rise dell’espressione a metà tra lo stupore
e
l’orrore sui volti dei quattro ragazzi nuovi. Novellini:
amava le loro facce
caricaturali.
«Cosa hai detto
che è?» esacerbò Rose.
«Ognuno
di noi deve trovare una nuova fonte, per le sue
nuove magie. Almeno per quelle più potenti. Non crederete di
poter fare nuova
magia con le vecchie fonti, vero?» lo soccorse malamente
l’italiano. «Haru ha
scelto la sua, ed è stata una scelta molto intelligente: in
qualunque
situazione, può attingere alla fonte e creare i suoi
incantesimi. Sarebbe stato
più stupido scegliere qualcosa di esterno, come il fuoco:
basta un secchio
d’acqua per spegnere ogni possibile incanto.»
«Inoltre,
non ho legato tutta
la mia anima alla mia magia» sottolineò Haru.
«Solo il mio spirito combattivo.»
«E
se un mago dovesse eliminare il tuo drago, cosa
succederebbe?» insistette Rose.
«Lo
spirito appartiene a me, quindi tornerebbe nel mio
corpo.»
«Ne
sei certo?»
«Teoricamente.
Non è mai successo che il mio drago sia stato
sconfitto.»
«Ehi»
cercò di calmarli Angelo. «Le nuove magie sono
sempre
un rischio. Se non siete disposti a correrlo, è meglio che
usciate subito.»
Nessuno
si mosse: per quanto spaventati da quella nuova
situazione, nessuno aveva intenzione di abbandonare i propri compagni
al loro
destino.
I
novellini avevano fegato, almeno un po’. Angelo decise che
quel gruppetto di poppanti non gli dispiaceva.
«Ma
come facciamo a decidere la nuova fonte della nostra
magia?» s’incaponì Rose.
«Non
penserete di imparare tutto questa sera, vero?»
«È
un percorso lungo.»
«Lungo
e faticoso.»
«Ma
noi siamo qui per questo.»
«Per
guidarvi.»
«Finché
non avrete trovato le vostre risposte» cinguettarono
i gemelli.
Angelo
annuì alle parole dei marmocchi.
Sarebbe
stato un lungo percorso, ma quei pivelli potevano
farcela.
Perfino
il maniaco della pulizia, sarebbe riuscito a
diventare un eccellente mago; Angelo avrebbe scommesso su di lui. E
l’italiano
non perdeva mai una scommessa.
***
«Non
hai aperto bocca.»
Albus
si riscosse a quelle parole.
Avevano
fatto ritorno alla loro stanza, ed erano stati
seminati da Macauley nel giro di pochi secondi – doveva
correre a rimuovere
qualunque possibile germe che la sola presenza dell’italiano
poteva avergli
appiccicato addosso. Non avevano idea di dove fosse l’amico,
in quel momento:
in camera erano rimasti solo loro due, a fissare i lati opposti della
stanza.
Albus
prese fiato, e, per la prima volta in tutta la sera,
parlò.
«Sto
cercando di capire perché il mio migliore amico mi
abbia baciato» affermò senza giri di parole.
«Non è esattamente una cosa comune
tra…»
«Non
ci sono molti motivi per cui una persona desidera
baciare qualcun altro. Prova a pensarci» lo
mitragliò Scorpius.
Gli
occhi verdi di Albus si spalancarono, mentre un acceso
rossore gli abbrustolì le guance. Poteva anche essere uno Slytherin, ma non si era ancora scrollato
di dosso del tutto il suo
primordiale candore.
Scorpius
appoggiò la schiena alla parete, incrociando le
braccia al petto.
Alcune
cose cambiavano la propria prospettiva di vita. O meglio,
infuocavano sentimenti che per anni avevano covato sotto la cenere.
Vedere
il proprio amico essere quasi ammazzato durante un
incontro di Quidditch e scoprire che portava su di sé una
maledizione che
avrebbe anche potuto portarlo alla tomba erano tra queste.
Non
si passa una notte in infermeria tra le pene dell’Inferno
e non si decide di buttarsi a capofitto in una lotta
all’ultimo sangue contro
le arti oscure senza realizzare di provare più di semplice
amicizia, per la
persona responsabile di queste scelte.
Anche
se doveva ammettere che era stato azzardato baciarlo
senza preavviso: non sapeva nemmeno cosa provasse Albus per lui. Ma non
era
riuscito a trattenersi, quando l’amico si era offerto di
seguirlo in quella
loro crociata impossibile. In fondo, era anche lui un adolescente con
il sangue
che gli ribolliva nelle vene.
«Credevo
che ti piacessero le ragazze» riuscì a
boccheggiare
Albus alla fine.
«Ma
tu non sei l’emblema della virilità»
dovette chinarsi
per evitare il cuscino che gli fischiò sopra la testa.
«Sono
molto suscettibile, in questo momento» lo avvertì
l’altro.
Scorpius
si raddrizzò nella sua posa dinoccolata,
imperturbabile.
«Anche
io. Sto aspettando una risposta.»
Gli
occhi verdi di Albus fissarono il pavimento, il letto,
il muro, qualunque punto della camera che non fosse il proprio amico.
Le labbra
si accartocciarono una, due, tre volte, e le dita tamburellarono sulle
ginocchia.
Scorpius
avrebbe tanto voluto lanciare un incantesimo di
lettura del pensiero e vedere cosa vorticasse nella testa
dell’amico in quel
momento, ma si trattenne: Albus non lo avrebbe mai
perdonato, e non avrebbe potuto dargli torto.
Alla
fine, il ragazzo esalò un profondo sospiro.
«Non
è facile» cominciò, con tono grave.
«Non mi aspettavo
di piacerti. Non in quel senso,
perlomeno.»
Albus
fece di nuovo una pausa, e Scorpius fu tentato, questa
volta, di lanciare un incantesimo per accelerare il tempo. Si sentiva
come se
lo avessero buttato sui carboni ardenti, e non riusciva a capire se
Albus lo
stesse facendo di proposito o meno: quel suo visetto angelico poteva
ingannare
tutti, ma non lui.
Il
giovane passò una mano tra i capelli corvini, e
lì si
fermò, stringendo alcune ciocche tra i pugni.
«Normalmente,
non avrei saputo cosa risponderti» riprese.
«Però…
immagino che non ci si offra di buttarsi nelle fauci di mille maghi
oscuri per
il proprio amico senza realizzare di essere più
che amici, no?»
Questa
volta fu il turno di Scorpius per guardare l’altro senza
parole. Proprio quello che aveva pensato lui qualche istante prima. Che
Albus
gli avesse lanciato un incantesimo di telepatia senza che lui se ne
accorgesse?
Magia
o meno, Albus aveva appena ammesso di ricambiarlo. In un
modo indiretto, ma lo aveva ammesso.
Scoprius
non gli diede modo di aggiungere altro: si staccò
istantaneamente dal muro, raggiunse il ragazzo in due falcate, gli
afferrò il
viso tra le mani e lo baciò.
Sentì
un verso di sorpresa strozzarsi nella gola dell’amico
quando gli schiuse le labbra per avere accesso alla sua bocca. Le mani
di Albus
si strinsero sulle spalle del compagno, e si rilassarono solo quando il
giovane
si fu abituato ai movimenti della lingua dell’altro.
Scorpius
portò una mano dietro la nuca del giovane, quasi
volesse impedirgli di scappare, mentre esplorava la sua bocca, seguito
a tratti
dai movimenti esitanti della lingua del compagno.
Quando
si staccarono, Albus portò una mano alle labbra
ancora umide di saliva, quasi incredulo. Poi esclamò:
«Era
il mio primo bacio serio! Mi sento violato!»
«Ma
se hai detto che mi ricambi!» protestò Scorpius.
«Ma
non ti ho dato il via libera per tutto!» contestò
Albus.
«Pensavo che non sarebbe stato così
improvviso!»
Scorpius
si strinse nelle spalle, arrendendosi.
«Posso
toccarti la faccia?» domandò. Albus
annuì, e le mani
di Scorpius gli circondarono di nuovo il viso.
«Posso
avvicinarmi?»
«Mi
chiederai il permesso per ogni passo?»
«Sei
tu che mi hai chiesto di non essere improvviso.»
«Ma
non ti ho chiesto di fare la cronaca minuto per minuto.»
«E
allora cosa dovrei fare?»
Le
braccia di Albus salirono lente a circondargli il collo.
«Baciami
e basta» sussurrò il giovane.
Scorpius
non esitò a cogliere l’invito, e congiunse di
nuovo
le loro labbra.
Albus
sentì le mani dell’amico scivolargli sulla schiena
e
premerlo con più forza contro il suo petto quando il ritmo
del bacio accelerò,
e lui stesso strinse l’abbraccio per avere il compagno
più vicino a sé. Nessuno
dei due si accorse della porta che si apriva.
«Io
chiedo asilo a Harunobu.»
I
due si staccarono di colpo, fissando un raccapricciato
Macauley freddato sulla soglia della camera.
Il
giovane mostrò un sacchetto di plastica pieno di
flaconcini: probabilmente era andato a svaligiare le scorte di Madamina
per
avere nuove armi di distruzione di massa contro i microbi.
«No,
non spiegatemi niente!» li bloccò
l’ultimo arrivato,
facendo un passo indietro. «Sono affari vostri, io non mi
intrometto. Ma non si
copula in camera, chiaro?»
Macauley
nemmeno rispose agli occhi che lo fissavano
allibiti; si voltò e ricordò:
«Non
fate niente che io non farei, durante la mia assenza.»
«Tu
non respireresti nemmeno, se potessi» gli ricordò
Scorpius.
«Esattamente»
confermò Macauley. «Lo sai quanti batteri entrano
nel condotto nasale con la
respirazione?» e, come se questo spiegasse tutto, il ragazzo
sparì alla volta
del dormitorio di Hufflepuff.
«Questa
è una… buona reazione?»
valutò incerto Albus.
«Considerando
il soggetto, direi che è ottima»
convalidò
Scorpius.
Nessuno
dei due spese una parola in più per il terzo Slytherin:
Albus allacciò di nuovo le
braccia al collo del compagno, e Scorpius si chinò di nuovo
su di lui.
Era
stata una lunga giornata.
Avevano
bisogno di sentirsi vicini, per quella sera.
Okay,
provo
vergogna per me stessa per il ritardo ENORME con cui aggiorno. Chiedo
scusa ç_ç
Ho
attraversato
un blocco di ispirazione non indifferente per questa fanfic .-. Un
enorme,
gigantesco, orrido blocco che mi ha attanagliata per mesi
>_>
Ma
ora eccoci
qui, con un nuovo capitolo<3
Il
prossimo
arriverà tra tre settimane, con tutti i dubbi della nuova
coppia pronti ad
esplodere<3<3 Non riesco a fare prima causa lavoro,
perdonatemi ç_ç
Al
prossimo
capitolo<3
Red
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