I Need A Hero

di Aliens
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** One. I Need a Hero ***
Capitolo 2: *** Two. La Principessa e la Plebea ***
Capitolo 3: *** Three. La Casa del Re ***
Capitolo 4: *** Four. Il primo passo falso ***



Capitolo 1
*** One. I Need a Hero ***


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***  

Era stata la richiesta d’aiuto più dolorosa ed eclatante della sua vita.
Le era costata gran perte della suo già piccolo equilibrio.
Era uscita dal suo cuore con inaspetatta potenza e aveva dovuto sottostare al suo volere.
Era divampata come una fiamma che attacca una casa di legno.
E nulla aveva potuto.
Lì, al confine tra Tempelhof-Schöneberg e Charlottenburg-Wilmersdorf, dove tutti l’avrebbero potuto ammirare,
aveva inciso il suo dolore con l’uso di una boboletta dai colori accecati:
« I Need a Hero»
E tutta Berlino poteva ben riconoscere la sua firma:
Ykin

In quel momento anche Ykin aveva bisogno di un aiuto.


***




COGITO ERGO SUM
Penso dunque esisto.
[Renè Descartes]


***



Berlino non dormiva mai.
Niky aveva quella convinzione fin da quando era nata. Berlino era una città che non conosceva orari, una città caotica e frenetica, grigia come il cielo di quel mattino di inizio Novembre.
O, almeno, lo era lì a Gropiusstadt, quartiere nel distretto di Neukölln, nelle periferie malfamate della Capitale teutonica, tristemente famosa come il quartiere di Christiane F. di “Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino”.
Niky l’aveva letto quel libro e si era stupita di come il tempo si fosse fermato in quel maleodorante e disatrato quartiere. Vi erano ancora i casermoni allineati, i giardini pubblici ridotti al nulla dai vandali, la polizia distratta che circolava sulle strade dando divieti a destra e manca. Forse era quello il motivo che rendeva il quariere il Bronx teutonico.
Erano i divieti, l’incapacità di fermare la delinquenza cercando di risolvere il problema alla radice. Niky ricordava bene la sua infanzia passata tra i casermoni popolari.
I suoi genitori si erano trasferiti lì dopo il matrimonio. Non avevano soldi e nemmeno un lavoro stabile per potersi permettere un appartamento in una zona più sicura di Berlino e, con una fortuna che si sarebbe ritorta contro di loro, avevano trovato un appartementino al dodicesiomo piano di un stabile a tredici piani. Un appartamento piccolo ed essenziale, con due camere da letto, un minuscolo bagno e una cucina che comunicava con il salotto e fungeva anche da sala da pranzo. Quattro stanze in tutto.
Quando era nata lei, l’idilio tra i genitori aveva iniziato a scemare. Erano arrivati i problemi e le discussioni. E con loro anche la distrastosa infanzia di Niky. Ricordava benissimo il giorno in cui i bambini dello stabile vicino gli avevano distrutto la bicicletta buttandola contro la macchina del portiere. Heinz Wren era tutt’altro che un buon portiere, in tutti i suoi ricordi Niky lo ricordava ubriaco. Quando aveva visto la sua utilitaria ammaccata dalla bicicletta, l’aveva presa per il colletto della camicia e l’aveva picchiata così forte che quando era rientrata a casa era crollata sul pianerottolo. Ricordava perfettamente la faccia del padre che non si era risparmiato di andare dal portiere a dirgliene quattro. Ovviamente aveva rimproverato anche lei.
I casermoni di Gropiusstadt puzzavano di muffa, piscio e altre zozzerie che lei non aveva mai avuto il coraggio di scoprire. Aveva scoperto il perché di quel puzzo infernale, concentrato sulla tromba delle scale, quando, un giorno, mentre tornava da scuola, l’ascensore si era bloccato al quinto piano e lei, che lo stava aspettando da più di mezz’ora –perché fare dodici piani di scale non era la cosa migliore per una bambina di otto anni- se l’era fatta addosso, scatenando le ire della portinai, al secolo Ada Wren, la moglie dell’ubriacone. Anche da lei le aveva prese. Aveva imparato, quindi, che quando l’ascensore era rotto doveva andarla a fare in un posto in cui non la vedeva e quello era proprio la tromba delle scale. Era stato in quel momento che Niky non li aveva biasimati più.
Quando, poi, a dieci anni, aveva sentito il bisogno di socializzare aveva scoperto che a Gropiusstadt era difficile anche giocare. Si era sempre chiesta perché chiamassero “Zona giochi” un posto situato tra un casermone e l’altro, che puzzava di piscio ancora di più della tromba delle scale. Si era sempre chiesta come un ragazzo potesse “Rilassarsi e giocare gioiosamente” in un posto il cui primo divieto, scritto a lettere cubitali su un cartello, era: è vietato urlare, giocare a palla e disturbare la quiete dei conquilini. Ergo, si era sempre detta Niky, i bambini potevano solo graffiare la sabbia che era una latrina per bimbi e animali.
Così, il divito tassativo di divertirsi, li avevano portati a cercare qualcosa che potesse distrarli dalla squallida vita che erano costretti a vivere.
A Gropiusstadt imparavi subito che tutto ciò che è permesso è terribilmente noioso e quello che è vietato, invece, è di gran lunga più divertente. Era così che crescevano i bambini del quartiere, con la convinzione che le leggi siano solo stupide imposizioni.
Gropiusstadt era un posto dimenticato da tutte le istituzioni, una Sodoma moderna.
Niky si legò i capelli neri in una frettolosa crocchia lasciando che alcune ciocche ricadessero sul suo viso, e afferrò il suo zaino. Con cura se lo mise in spalla e uscì di casa, sbattendo la porta.
La puzza aumentava la mattina, lei lo sapeva bene. Ancora di più se si era costretti ad uscire alle sei e mezza per recarsi a scuola. La maggior parte dei ragazzi del Casermoni andavano alla Johann Gutenberg Gymnasium. Un Liceo sì, ma con i metal detector posti all’entrata. Niky lo diceva sempre che il quartiere era una riproduzione uscita male di un ghetto americano.
Lei, invece, non andava a scuola a Gropiusstadt, come i suoi amici, ma a Chalottenburg, il cuore di Berlino. Per arrivarci, da Gropiusstadt, ci voleva quasi un ora. Aspettò l’ascensore e vi si infilò dentro. Quella mattina non era proprio al suo apice della forza, non aveva dormito e la sveglia aveva suonato, suo malgrado, alle 5:30 come ogni mattina. Si era trascinata in bagno, lavata, vestita, e aveva cercato di nascondere le pesanti occhiaie nere sotto un chilo di fondotinta. Odiava quel prodotto ma non poteva dar ancora prova a quei riccastri che per lei quel ritmo era insopportabile. Aveva afferrato una merendina e un succo di frutta che avrebbe consumato in metro –tanto aveva ventidue fermate prima di cambiare treno- ed era uscita dopo aver dato un bacio a suo padre e a al suo fratellino che dormivano nella stanza grande. Uscì facendo attenzione a non sbattere il pesante portone e ad accoglierla fu una sferzata di vento non indifferente. I venti polacchi stavano portando i grandi nuvoloni di neve che si sarebbero svuotati sulla città. Si strinse nel suo cappottino e prese a camminare verso la metropolitana di Rudow, poco distante dai Casermoni.
Era ormai un’abitudine. Da due anni, in fatti, Niky aveva abbandonato il fallimentare liceo di Groupiusstadt dopo una borsa di studio. Aveva più talento, più intelligenza e più voglia di imparare dei suoi amici di quartiere, ed era stata spedita alla Immanuel Kant Gymnasium. Un nome, una storia. L’Immanuel Kant aveva trecento anni, come il quartiere in cui era situato, ed era la scuola più prestigiosa –e nemmeno a dirlo, costosa- di Berlino, una delle più consociute a livello nazionale. Quando, dopo un concorso di letteratura, Niky, al secolo Nicole Emily Carter, studentessa del 10° grado nella Johann Gutenberg aveva surclassato Jan Libenitz (il cui nome era scolpito nei libri di storia tedesca), giovane studente del 13° grado alla Immanuel Kant con il massimo  dei voti e un brillante foturo da medico, entrambe le scuole erano rimaste atterrite. La prima perché aveva sempre calcolato Niky come una spocchiosa intelligentona che contraddiva i professori e che di conseguenza prendeva voti bassissimi, la seconda perché una ragazzina di Gropiusstadt fosse tanto intelligente ed istruita da poter battere in modo così pesante uno che alla cultura era stato iniziato fin dalla tenera età.
Era stato in quel momento che i cervelloni della Immanuel Kant avevano capito che Nicole Carter, figlia di un imbianchino, residente nel quartiere malfamato per eccellenza e iscritta alla scuola più bistratta di Berlino, dovesse diventare una di loro.
Le avevano offerto una mega borsa di studio con tanti zeri da far svenire suo padre e le avevano promesso tutte le coperture che le avrebbero permesso di accrescere il già innato talento intellettivo.
Suo padre, nonostante le sue proteste, l’aveva spedita con un gran sorriso. Dopo che sua madre se l’era data a gambe, nella vita di Johann Carter non c’era stato niente per cui gioire veramente. Niky, invece, ne sentiva il peso addosso come una condanna.
Due anni lì dentro le erano serviti per capire che sì, le differenze c’erano e creavano problemi. Non aveva amici e i ricchi la snobbavano mentre i professori la lodavano.
Arrivò alla stazione di Rodow ed entrò. Notava con disinteresse i ragazzini che rientravano a casa, ubriachi o strafatti, dopo una notte da leoni.
Notte da leoni, mattina da coglioni, diceva un detto del quartiere. Niky li osservò cercare di alzarsi e collassare. Alcune macchine lasciavano le prostitute all’imboccatura della stazione mentre qualche agente sonnecchiava nei gabbiotti. Infilò il suo abbonamento e lasciò che le porte di vetro si aprissero per farla accedere al binario. Il suo lato era pieno di impiegati che si recavano a Schöneberg o al Mitte. Tutti così lontani dalle malfamate periferie.
Ed era così la sua mattina, pensò mentre si sedeva su un rotto e scomodo sedile rosso e apriva la sua merendina, la routine martellante di una ragazza povera tra i ricchi.



***




La sveglia suonò segnando le sette e mezza.
Si girò nel letto svogliato infilando la testa sotto il comodo cuscino. Non aveva devvero voglia di alzarsi, non dopo la serata passata in compagnia di Brigitte Von Ribbentrop in uno dei locali del Ku’damm. Quell’oca bionda riusciva a rigirarselo come voleva.
Aveva fatto tardi e non aveva alcuna voglia di alzare le chiappe dal suo grande letto e andare a scuola.
Mandò un mugugno e si sotterrò nelle pregiate coperte.
Non ci volle molto per farlo cadere in uno stato di dormiveglia così fitto che non si accorse della porta che si apriva silenziosamente.
Una mano si posò sulle sue spalle scuotendolo appena «Signorino Tom, sua madre ha detto che è ora di alzarsi».
Tom rantolò di dolore.
La mano di Ines, la domestica, lo scosse con maggior dolcezza.
«Di’ a mia madre di andare al diavolo» borbottò il ragazzo irritato voltandosi dal lato opposto alla domestica.
Voleva dormire, dannazione.
La donna, però, non era dello stesso avviso. Allungò una mano e cominciò a scuoterlo con vigore. Non si sarebbe presa un altro rimprovero dalla Signora Kaulitz per quel pigro di suo figlio.
«Forza, si svegli».
Tom mandò una bestemmia che costrinse la domestica a farsi il segno della croce. Era finita in una casa di miscredenti bestemmiatori. Lo spinse con malagrazia facendolo cadere per terra, provocando un'altra bestemmia da manuale.
«A mali estremi, estremi rimedi» sbuffò la domestica vedendo la testa del suo padroncino uscire da dietro il letto «Stia attento alle parole Signorino Tom».
Tom si massaggiò la testa guardando la filippina con odio. Si chiese perché non si fosse chiusa in convento invece di remonirlo su ogni parola che diceva. Se era tanto cattolica perché non aveva dato i voti?
Ines gli intimò di darsi una mossa prima di uscire, con la grazia di un elefante, dall’enorme stanza del treccinato.
Tom si alzò per poi indirizzare verso la porta il più che famoso gesto dell’ombrello. «’Fanculo vecchia troia cattolica» borbottò alzandosi.
I suoi piani erano andati malamente a puttane. Si sistemò i pantaloni del pigiama e si infilò un’immensa maglietta bianca a coprire il suo addome allenato e, scalzo, uscì dalla sua stanza.
Il corridoio era caldo e già fin troppo illuminato. Le porte bianche di pregiato legno di quercia erano tutte serrate. L’unica accostata era quella della camera del fratello. Si avvicinò verso l’enorme porta e bussò appena.
«Avanti» venne da dentro.
Sorrise e aprì la porta «Ehi, buongiorno»
Bill, seduto sulla scrivania, stava smanettando con il computer, disegnava su la table grafica professionale che suo padre gli aveva comprato. Aveva ancora i capelli scompigliati –segno che Ines era passata anche lì- e il pigiama di seta blu addosso.
«’Giorno Tomi» lo salutò allegro girandosi verso di lui «Scommetto che Ines ti ha butta giù dal letto»
«Già» asserì Tom posando le mani sulle spalle del fratello «Disegni?»
Bill annuì spostandosi appena «La tua ragazza mi ha chiesto di disegnarle qualcosa per il ballo delle debuttanti» gli spiegò tirando qualche linea sulla tavola grafica.
Tom fissò il disegno. L’abito che Bill stava disegnando era degno di una principessa. Di un bianco disarmante, lungo e dallo stile ottocentesco. Sbiancò quando si accorse a chi era indirizzato e cosa avrebbe costituito.
«Quale ballo delle debuttanti?» chiese tremante «Non mi dire che…»
«Dovrai andare con lei Tomi, sì» sospirò divertito Bill «E dovrai indossare anche uno smoking»
«CHE COSA?!?!?» urlò incredulo «Quell’oca pronipote di un nazista, quando aveva intenzione di dirmelo che dovevo accompagnarla ad una cazzata del genere, e perché poi?»
«Perché sei il suo ragazzo»
«Io non sono il ragazzo di Brigitte, ci scopo, è diverso» ci tenne a precisare Tom.
«Hai la grazia di un lord Tomi» lo prese in giro Bill con un gioviale sorriso «Ma la società non accetta due che scopano soltanto, tu e Brigitte, agli occhi di tutti, siete una coppia»
«La società berlinese fa schifo» mormorò Tom constatando che quella giornata avrebbe fatto schifo.
Bill si alzò dalla sedia e gli posò una mano sulla spalla sorridendogli «Mettiti l’anima in pace, Tom, siamo entrambi drogati di Brigitte Von Ribbentrop, non possiamo opporre resistenza, anche se io ci provo, la mando a fare in culo e poi le disegno il vestito, quindi...» lo guardò facendo spallucce. Tom sospirò affranto. Bill aveva ragione «Ora scendiamo, mamma starà dando di matto» lo incitò il gemello alzandosi dalla sua postazione.
La famiglia Kaulitz risiedeva da quasi tre secoli in un palazzo a Charlottenburg. Agiati fin dalla notte dei tempi, i Kaulitz erano un’antica e rispettata famiglia berlinese formata, prevalentemente di avvocati e banchieri. Era stata l’ostentata opulenza della sua famiglia a crescere i gemelli Kaulitz. Bill e Tom erano diversi e allo stesso tempo uguali a tutti i ragazzi cresciuti tra gli eleganti palazzi del cuore pulsante di Berlino, a ridosso della Ku’damm. Non erano viziati ma avevano tutto ciò che desideravano, frequentavano la scuola più prestigiosa di Berlino, partecipavano a feste sregolate senza essere giudicati e vivevano l’esistenza in una campana di vetro.
Tom e Bill Kaulitz erano cresciuti sotto la giurisdizione di un famoso banchiere che portava a casa uno stipendio pari a 20.000 euro al mese e di una più che celebre e prolifera pittrice che aveva esposto persino al MOMA di New York. Avevano vissuto un’infanzia costellata di giocattoli, amici, vacanze in posti esotici e avevano goduto della migliore istruzione.
Non che fosse servito a qualcosa, i gemelli erano apatici a qualsiasi imposizione scolastica, ma, essendo ricchi ed influenti, nessuno aveva avuto il coraggio di riformarli.
Era stato quasi scontato scegliere il Liceo più prestigioso e spocchioso di Berlino, l’Immanuel Kant Gymnasium. I gemelli, entrandovi, avevano visto le foto dei loro parenti e antenati appesi in quella specie di Hall of Fame degli studenti illustri della scuola.
A loro non era mai importato più di tanto. Erano soffocati da quell’ambiente alto-borghese, quasi nobiliare. La gabbia dorata che li circondava li aveva stretti in una morsa famelica.
Era la rabbia e la ribellione dei gemelli a renderli diversi dagli altri, forse meno algidi e più umani. Almeno rispetto ai loro spocchiosi amici che si divertivano ad andare in giro con le loro ferrari a farsi vedere.
Tom Kaulitz non aveva voluto una ragazza come Brigitte, Tom se l’era vista nuda in un letto e ne aveva approfittato, perché sì, il perbenismo è prettamente aristocratico. Tom non aveva mai voluto andare in quella scuola per snob e né tanto meno avrebbe voluto andare al Politecnico a studiare Giurisprudenza come voleva il padre. No!
Era stato quel senso di ribellione che aveva creato Macky. Macky era suo alterego, quel nomignolo che sua nonna dava a Bill era diventato il suo modo di evadere. Lo aveva scritto su parecchi muri di Charlottenburg. Macky era un writers, un teppista, era il figlio di uno stimato banchiere. Nell’elitè di Berlino non c’era posto per quelli che scarabbocchiavano i muri.
A Tom non era importato. Aveva guardato un graffito a Tempelhof e ne era rimasto abbaiato. I suoi colori lo avevano accecato come se avesse guardato il sole direttamente in faccia.

Rompi Le Catene


Tom era rimasto a fissarlo incantato e si era scritto nella mente il nome di quel genio: Ykin.
Era diventato il suo eroe, la sua fonte di ispirazione. Sapeva solo il suo psudomino e il suo dominio, Gropiusstadt, il Bronx berlinese. Avrebbe voluto stringere la mano a quel ragazzo e dirgli che aveva illuminato uno che Gropiusstadt non l’aveva mai vista nemmeno con il cannocchiale.
Niky e Tom, oltre alla scuola, avevano in comune Ykin, ma in due modi completamente diversi.
Fu quello il motivo che li fece fermare tutti e due davanti a quel graffito fresco.

I Need A Hero.

Entrambi lo fissarono con interesse.
Entrambi avevano bisogno di un eroe, entrambi sapevano che non sarebbe mai arrivato.

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Capitolo 2
*** Two. La Principessa e la Plebea ***


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***


Solo il Karma può colpirti con un calcio nel sedere.
YKIN – Stabile numero 10 – Gropiusstadt.




***



L’Immanuel Kant Gymnasium sorgeva imponente tra le vie trafficate di Charlottenburg, poco distante dal Ku’damm.
L’imponente palazzo Rinascimentale riusciva ad incutere terrore anche al più temeraio degli studenti. Come ogni mattina il giardino, dall’erba all’inglese ben curata anche in novembre, era saturo di ragazzi vocianti e macchine di lusso.
I “Signorini” erano accompagnati da berline nere e da autisti vestiti come ad un matrimonio. Quelli che abitavano nelle vicinanaze arrivavano a piedi nei loro costosi vestiti. Niky, invece, dopo essere sbucata dalla stazione di Kurfürstendamm, aveva sviato qualche veditore ambulante e si era messa a correre verso quel cancello dall’aspetto enorme e ben tenuto.
Il nome della scuola era sventolato ai quattro venti, come l’estrazzione sociale di chi lo frequentasse. Si sbirgò a correre verso di esso perché era sicura di arrivare in ritardo. Così, incoscentemente, si buttò nel mezzo della strada.
Alcune delle brillanti berline fecero rimbombare i clackson e lei, alzando appena la testa, se ne infischiò altamente. Lei veniva da un quartiere molto lontano, aveva anche il diritto di precedenza no?
Si sistemò la borsa sulle spalle e, defilata, si finilò nel cancello della sua scuola. Nessuno la degnò di uno sguardo, lei era il Caso-Umano della della scuola, come amava definirla Brigitte Von Ribbentrop ogni due per tre. Come se lei fosse davvero la principessa che vorrebbe far credere: la sua famiglia rinnegava l’olocausto, perché, di fatto, ne aveva fatto parte. Il suo bisnonno Joachim Von Ribbentrop era stato il ministro degli esteri durante il nazismo, immischiato, in modo inequivocabile, nella questione della deportazione degli ebrei. Nonostante le carte, il Processo a Norinberga che lo aveva portato alla morte e tutte le testimonianze, i Von Ribbentrop rinnegavano qualsiasi cosa fosse successa durante il conflitto, le consideravano bugie. Suo nonno, Gustav Carter, era stato nella resistenza e deportato in un campo di concentramento, ritiratosi in un piccolo paesino a Monaco dopo la liberazione, ricordava ancora l’orrore di Dachau, a cui era sopravvisuto e l’aveva raccontato, senza censure, alla nipote. Niky aveva provato una tale antipatia per Brigitte Von Ribbentrop, dapprima per il suo cognome, che non si era sforzata di far amicizia con lei. Aveva iniziata a odiarla quando, in classe, disse al professore di storia che l’Olocausto era solo una grande bugia per infangare il buon nome del suo bisnonno.
Niky ricordava di essersi schiarita la voce e aver detto «Certo, perché sei milioni di innocenti, uccisi in camera a gas, forni creamatori ecc, sono statai tutti quanti inventati SOLO per infangare il nome del tuo bisnonno, vero?» era stata ferma nelle sue convinzioni «Svegliati, principessina, Joachim Von Ribbentrop firmò le carte e approvò la deportazione, ci sono fotografie, filmati, testimonianze… sarebbe pure ora che la tua famiglia si prendesse le sue responsabilità».
Era stato in quel momento che Brigitte aveva dato inizio alla loro guerra psicologica. La demoliva, la umilava, la faceva sentire… diversa.
E Niky l’aveva accettato con un sorriso sarcastico. Brigitte poteva essere bella e ricca quanto voleva ma lei veniva da Gropiusstadt, le sue parole calcolate la facevano quasi ridere. Lei veniva da un quartiere in cui potevi trovarti puntata in faccia una pistola e non aveva mai avuto paura, ne poteva avere di Brigitte Von Ribbetrop? No, questa era la risposta.
Varcò l’enorme portone d’ingresso e camminò, tranquilla, verso la sua classe. Frequentava il 12° H, la classe avanzata. Il perché vi si trovasse anche Brigitte era una mistero che non voleva svelare, avrebbe scoperto il torbido segreto di una puttanella titolata.
Prese la via delle imponenti scale di marmo coperte da un tappeto rosso. Tutto in quella scuola richiamava l’opulenza dei suoi alunni. Posò la mano sul pesante corrimano mentre il suo cellulare vibrava.
Lo afferrò facendolo slittare verso l’alto.

Luxus la pazza ;)

Sorrise.
La foto dell’amica campeggiava sotto la bustina del messaggio. A Alexandra Lidia Thomas, detta Lexus, piaceva farsi fotografare, il più delle volte in pose del tutto inquietanti.
Aprì il messaggio già ridendo. Sapeva che l’amica le avrebbe allietato la giornata con i suoi cinici messaggini da pettegola o con scleri degni di una diva pazza.
Conosceva Lexus dal quando era nata perché abiatava nello Stabile accanto al suo. Si era trovate ad evadere insieme i divieti degli spazi giochi di Gropiusstadt, a far finta di fumare insieme, a truccarsi, a vivere ogni minuto della loro infanzia insieme.
Niente era cambiato da quando l’avevano trasferita alla Immenuel Kant. Si vedevano fin troppo per due che dovevano studiare.


Giorno secchiona, oggi vieni?
Ho bisogno del tuo aiuto per l’interrogazione di biologia, sono nella merda… come sempre xD!
Apparte il mio rendimendo scolastico disastroso, devo raccontarti delle news (INCREDIBILIIII) su Tailine Berger e Kail!
Ti voglio bene secchia stronzetta! ;) Lexus!

Lexus, come si poteva ben capire, non era una cima a scuola e non lo nascondeva.
Sapeva che sarebbe finita a lavorare in qualche bar e che alla sua scuola sarebbe uscita buttata a calci nel sedere dai suoi professori.
Non voleva, però, essere bocciata e ammetteva che ci era riuscita solo perché Niky la bacchettava e la colpiva con un giornale quando si distraeva.
Niky aprì la pagina vuota e rispose:

Buongiorno asina :D
Certo che vengo ad illuminare la tua mente bacata xD!
Non vedo l’ora di sapere tutto!
Un bacio ciuccia darkettona e… ti voglio troppo bene! :-*

Secchia Stronzetta e Ciuccia Darkettona erano sempre stati i loro soprannomi. Entrambe ammettevano i loro difetti e li valorizzavano. Differentemente dalla Immanuel Kant, nella sua precedente scuola Niky era popolare e benvoluta. Non ci sono distinzioni in un posto dove tutti sono destinati alla delinquenza e alla mediocrità. Niky amava l’affollato liceo Johann Gutenberg, perché si sentiva a casa e amata. All’ Immanuel Kant, il più delle volte, parlava con se stessa o con i professori, durante le interrogazioni.
Il cellulare vibrò.

Stonza <3 buona giornata tra i riccastri xD non vedo l’ora di vederti!

Sorrise e rispose con un trasporto che spero Lexus percepisse:

Anche io lexus! :D a dopo!

Mise il blocco al suo vecchio cellulare e fece appena in tempo a infilarselo in tasca prima di essere investita da qualcuno.
Cadde atterra e il suo zaino si aprì faendo cadere tutti i suoi libri.
Mandò un’ imprecazione inelegante mentre un coro di risate la cincondava.
«Strisci a terra, Carter, è quello il posto per quelli come te».
Niky chiuse gli occhi tirandosi a sedere. Eccoci, una nuova battaglia della guerra psicologica era aperta. Guardò la sua aguzzina con infinito disprezzo.
Brigitte Von Ribbentrop era l’ereditiera per eccellenza. Bionda, occhi azzurri, fisico mozzafiato e cervello di un oca giuliva. Sostava davanti a lei con addosso quel pezzo di stoffa da seicento euro Dior che lei chiamava gonna, un maglioncino di pregiato chachimire rosso e stivali prada bassi. Il suo viso d’angioletto aveva tutta l’aria di essere… diabolico.
La guardò colma di derisione mentre Lauren Shopenhuer e Emilee Hasse appoggiavano l’ape regina. Niky diceva sempre che se Arthur Shopenhuer e Hermann Hasse avessero conosciuto le loro diretti discendenti si sarebbero rivoltati nella tomba, entrambi.
Da grandi letterati e filosofi quali erano si sarebbero vergognati di quelle due galline bionde come Brigitte. Aveva forti dubbi su Joachim –visto che era stato un nazista- ma i due illustri intellettuali le avrebbero decisamente soppresse.
Il fatto che sia Hasse e Shopenhuer fossero conosciuti a livello mondiale come uomini di grande cultura e levatura, aumentava la voglia di Niky di strozzare le nuove generazioni. Lauren ed Emilee non avevano una personalità, era solo vittime del piaga Von Ribbentrop.
La mora non apparteneva a nessuna illustre famiglia, non conosceva nessun famoso politico ecc, ma aveva di certo una personalità abbastanza forte ed indipendente da poter annientare quelle tre oche ricche.
Non rivolse loro una parola e fece per rialzarsi. Brigitte, di parere opposto, la spinse di nuovo atterra.
«Devi stare giù, plebea, questo non è posto per gente come te» rinforzò il concetto.
«Brigitte, smettila» lo avrebbe voluto dire lei –dopo averle tirato un pugno- ma la voce che pronunciò quella frase era quella irritata di un ragazzo. Niky, un dolore al sedere assurdo, guardò un paio di nike da rapper nere avvicinarsi al gruppetto.
Non ci voleva un genio a capire chi fosse: Tom Kaulitz.
Non era un nobile ma era comunque di origini di grossa levatura. Wilihem Angus Kaulitz, nel 1870, fondò la Deutsche Bank, dando prestigio e ricchezza alla famiglia, ma, ancor prima della Deutsche Bank, la famiglia Kaulitz lavorara per le finanze del regno di Prussia e per l’Impero Austiaco. Una lunga dinastia di economisti che, in un certo senso, reggeva l’economia teutonica da secoli. Jӧrg Kaulitz, il padre di Tom, aveva a carico più di un milione di sportelli sparsi per il mondo e un capitale plurimiliardario. I Kaulitz, di fatti, erano dieci volte più ricchi dei Von Ribbentrop ed era quello il motivo per cui la famiglia aveva spinto la sua piccola Brigitte nelle braccia di un futuro ereditiere multimiliardario. Allo stesso tempo, però, i gemelli Kaulitz non ostentavano la loro ricchezza. I Kaulitz erano la famiglia più ricca di Berlino –forse dell’intera Germania- eppure i due rampolli andavano in giro a piedi, vestivano secondo una moda tutta loro, si comportavano normalmente. Niky aveva avuto modo di conoscere Bill Kaulitz quando questi gli aveva dato il benvenuto alla Immanuel Kant e ne era rimasta affascinata. Quel ragazzo aveva i soldi necessari per comprarsi un’isola eppure girava con un maglioncino sfilacciato e un jeans slavato e macchiato.
Ed erano belli. I Kaulitz erano tremendamente belli ed intriganti.
Tom, quel giorno, poi, risplendeva. Il viso dai tratti delicati era colpito da una lama debole di luce dando alla sua pelle pallida un colorito più bronzeo, la fronte spaziosa era coperta da una fascia di pelle nera che si intonava ai suoi cornrowrs mori (che, si diceva, avesse fatto insieme al suo amico Samy Deluxe). Il suo piercing al labbro, quel mattino, era di pesante metallo lucente. Era alto, Tom Kaulitz, alto e allenato. Indossava una t-shirt nera che si intravedeva sotto un pregiato cappottone di Chachemire che aveva lasciato aperto, i suoi jeans beggy scuri, ricadevano su delle Reebok grigie intonate al cappottone del ragazzo.
Aveva le mani nelle tasche e un viso non del tutto pacifico.
Tom l’aveva visto solo da lontano, Brigitte lo marcava stretto a scuola. Bill era qualche passo indietro che reggeva tra le mani un libro. Dei due era quello eccentrico. Pantaloni dal cavallo basso fin troppo larghi per lui retti da un pezzo di stoffa viola a dare l’aria di uno che non conosceva l’uso di una cinta, la canotta con un pesante scollo era infata nei parantoli e, a coprirlo dal freddo, vi era un lungo trench gessato che ricadeva fino alle ginocchia aperto. Bill adorava portare catene e crocefissi, almeno quanto lo amava Lexus, e questo a Niky non era sfuggito.
Come lo smalto nero sulle sue unghie, lucido come i suoi anfibi.
Due figure identiche ed aliene.
Cominciò a raccatare la sua roba mentre Brigitte trillava un «Amoreee» così acuto da rompere qualche vetro. Come avrebbe voluto spaccare la faccia a quell’oca.
Tom la guardò appena prima di fissare la ragazza ancora a terra.
Nicole Carter, in un certo senso, era molto popolare alla Immanuel Kant, la conoscevano tutti perché era l’unica povera tra quelle mura secolari. La conoscevano tutti perché era come di un altro mondo. Tom la invidiava in un certo senso, non era incatenata in un vincolo creato da un cognome importante.
Lei poteva scegliere, lui no. Lei era povera ma tremendamente libera, lui era fin troppo ricco e rinchiuso in una gabbia d’oro massiccio.
La conoscevano tutti perché era bella e diversa. Quel mattino i suoi capelli erano legati in una coda disordinata, alcuni di essi erano sfuggiti e le ricadevano, scomposti, sul viso dai tratti gentili. La pelle era pallida e levigata, sensa un filo di trucco. Ed era quello il bello di Nicole, era vera. I suoi occhi turchesi, intensi e profondi, non avevano bisogno di mezzucci per essere affascinanti. Indossava un felpone che le arrivava quasi alle ginocchia, bianco e grigio, un jeans consumato scuro, strappato in più punti, e delle rovinate etnis nere. Le mani smaltate di violetto lavorano per cercare tutto ciò che le era caduto.
Tom si piegò sotto lo sguardo di tutti seguito da Bill.
«Hai bisogno d’aiuto?» disse il minore dei gemelli afferrando un quaderno.
«Grazie» mormorò lei, diventando rossa.
Che razza di figura. Era rimasta a fissare le scarpe del più grande aspettando una derisione gratuita. In fondo, erano i gemelli Kaulitz no?
«Tutto bene?» chiese, però, la voce sensuale di Tom facendole sgranare gli occhie  fissarli sui suoi ambrati.
Belli, fin troppo belli.
Lo vide porgerle il libro di Astronimia e lei lo afferrò mormorando un “grazie”. «Sì, sto bene» balbettò mentre afferrava il libro e lo riponeva nella cartella dove Bill aveva già risposto il suo quaderno di Etica e di Storia tedesca.
Tom inclinò al testa e sorrise «Meno male, allora»
Cosa dicevi a una delle persone più ricche di Europa? Cosa dicevi al figlio di un banchiere che reggeva l’economia tedesca?
Si limitò a guardarlo in quei profondi occhioni ambrati, dal taglio leggermente orientale e si chiese se avesse mai visto un tipo del genere nel suo quartiere.
«Tom, che stai facendo» esclamò indignata Brigitte. Non era ammissibile che il suo ragazzo aiutasse una peblea. Guardò Bill che, con un candido sorriso, le rifilò un dito medio ben smaltato per poi gongolare felice.
«Quello che non ti hanno insegnato a fare» ribattè Tom senza guardarla «Si vede che i Von Ribbentrop, l’umanità, non ce l’hanno per DNA»
Niky alzò un sopracciglio: umanità? Lui si era fermato per pietà?
Guardò Tom alzarsi e puntare la sua ragazza che starnazzava «Non ti permetto di insultarmi»
«E io di farmi usare da te come bambolotto da esposizione» la guardò intensamente «E non sono geneticamente predisposto a farmi sottomettere»
«Cosa stai dicendo?»
I due iniziarono a litigare ma, sinceramente, a Niky poco importava. Infilò le ultime cose nello zaino e ringraziò Bill, l’unico che si era dimostrato veramente interessato a lei.
«Non c’è di che» le aveva sorriso mentre si issava lo zaino sulle spalle.
Il sorriso di Bill era da mozzare il fiato e, più di ogni altra cosa, era sincero. Si alzò e lo salutò andandosene, passando inosservata per di più.
«Avevo intenzione di dirtelo!» urlò Brigitte «Ma sapevo che avresti reagito così»
«E cosa volevi fare? Trascinarmi in quel posto senza avermi avvertito?» la rimbeccò il ragazzo «Mi sarei incazzato di più, sappilo»
«Ma amore…»
«Amore un cazzo!» alzò appena la voce «Prima di tutto voglio che tu smetta di tormentare Nicole Carter, apri gli occhi Brigitte, il tuo bisnonno era nazista, ha autorrizzato la deportazione, è stato condannato a morte. Stop. Non vedo perché tu debba perseverare su questa cosa quando qualcuno dice la verità…»
«Il mio bisnonno non…»
«Sveglia!» Tom avvicinò il viso a quello di lei «La storia è molto chiara e tu e la tua famiglia non potete farci niente» la guardò negli occhi «Sincermante preferirei essere un “nessuno” di Gropiusstadt che il pronipote di un mostro»
Brigitte iniziò ad urlare.
Odiava quando Tom rimarcava quel fatto –e lo faceva sempre-. A lei, poi, Tom non piaceva nemmeno tanto. Cioè, fisicamente era una bomba –per non parlare di come faceva sesso- ma non era il tipo di uomo che avrebbe voluto accanto. Erano stati i suoi genitori, ammirata dagli zeri nel conto in banca dei Kaulitz, a dirle, chiaramente, che se voleva continuare a fare la bella vita doveva accalappiare uno dei rampolli della Deutsche Bank. Bill l’aveva scartato a priori. Oltre ad essere terribilmente ambiguo, era calcolatore ed intelligente. Non sarebbe mai riuscita ad imbrogliarlo. Tom era quello con il debole per il gentil sesso, per incastrarlo gli era bastato “vendersi”.
Ma, come aveva scoperto ben presto, Tom non era un allocco e ci teneva a rimarcare tutti i suoi scheletri nell’armadio.
Era quasi una tortura tenerlo buono.
Bill dal suo canto, fece dietro front attirando l’attenzione del fratello «Dove vai?»
«In classe» rispose il più piccolo prendendo la via delle scale «L’oca sta decidendo di rompermi un timpano, ci tengo sai?» sorrise «E Nicole, fratellino, l’ha capito prima di me».
Brigitte urlò ancora di più accusandolo di essere un bruto e lui sospirò. Sì, Nicole aveva capito prima di lui che con Brigitte era meglio non averci mai niente a che fare.



***



L’ora di sociologia era, in un certo senso, la sua ora preferita dopo l’arte.
Il professor Mardock era un anticonformista e parlava dritto al cuore incantandoti.
Quel giorno, poi, non afceva che sorride.
«Tom» trillò entrando. Era uno dei pochi professori che non si riferisse a lui come “Signor Kaulitz”. Tom gli rivolse un sorriso mentre quello posava la sua enorme cartella sulla cattedra «Seduti ragazzi» rivolse l’ordine alla classe e si fiondò su di lui «Ho un progetto fantastico da proporti Tom, credo che ne sarai entusiasta»
Fece scivolare sul banco del ragazzo un foglio arrivato direttamente dal ministero. Lo guardò e lesse il titolo in grassetto.

ARTE URBANA: l’espressione della ribellione dei bassi fondi.

«Cos’è?» chiese incuriosito.
«Una ricerca sociologica mista all’arte urbana, i Graffitismo, Tom» spiegò eccitato il professore «Vogliono una ricerca su un quartiere in cui il graffitismo è parte integrante della cultura giovanile e, in allegato, vuole creato un murales che poi andrà collocato in una delle Case Famiglie del quartiere scelto»
«Wow» commentò Tom stupito ed eccitato.
Sì, il professore Mardock lo conosceva terribilmente e meglio di qualsiasi altro professore. E lui sentiva che quel concorso avrebbe scombussolato un po’ tutto. Poteva lavorare su ciò che gli piaceva e forse scovare Ykin.
Avrebbe preso un buon voto e avrebbe conosciuto il suo eroe.
«Dovrai scegliere un quartiere, di quelli abbastanza malfamati, e fare ricerche, magari visitarli e fotografare tutti i graffiti che trovi, poi monteremo una presentazione, oltre a questo dovrai descrivere la vita della gente che vi abita, il loro punto di vista, insomma, dovrai parlare con un sacco di gente»
Si sarebbe invintato un mare di stronzate, non avrebbe mai trovato il coraggio di parlare con quelli che, in un certo senso, odiavano il suo cognome. Come avrebbe scritto le cazzate che il Ministero voleva sentirsi dire e avrebbe cercato Ykin tranquillamente.
Lui, forse, lo avrebbe aiutato a rompere davvero le cantene.
«Quale quartiere vuoi scegliere? Hai già qualcosa in mente?» chiese il professore.
Tom sorrise «Pensavo a Gropiusstadt, lì c’è un famoso writers che vorrei incontrare, Ykin credo si chiami, è abbastanza malfamato per lei?»
«Troppo» annuì il professore «Ed è un’ottima idea perché al 12° H c’è un ragazza che abita lì» si illuminò «Ma sì, certo, lo farete insieme, da lei potrai davvero imparare lo stile di vita dei bassi fondi»
Tom spalacò gli occhi «Vuole che Nicole Carter mi aiuti?»
Il professore annuì «Sì, questo pomeriggio inizieremo».
Ed era stato in quel momento che Tom si era detto sorridendo: “è il Karma.



***


Niky non era stata molto contenta della scoperta.
Era corsa in bagno e aveva afferrato il cellulare componendo di fretta il numero dell’amica.
«Pronto?»
«Lexusssss» piagnucolò.
«Tesoro, cos’è successo?» chiese preoccupata la ragazza.
Niky si fece ricadere contro la parete cadendo, poi, in posizione fetale sul pavimento. Era in evidente shock post scoperta. Il prof era stato fin troppo chiaro: doveva passare un bel po’ di tempo insieme con Tom Kaulitz.
Questo avrebbe portato a due grandi catastrofi: la prima sarebbe stata portare Tom Kaulitz, ereditiere di una fortuna plurimiliardaria, a Gropiusstadt, e la seconda, ed era la catastrofe maggiore, Brigitte Von Ribbentrop l’avrebbe massacrata per quel motivo.
Si passò una mano tra i capelli mori sospirando pesantemente guardando le piastrelle bianche del bagno.
Nel suo vecchio liceo il muro era pieno di scritte e di disegnini di ovvio gusto che la facevano ridere. Alla Immanuel Kant tutto era candido, sterile, impersonale.
«Mi hanno assegnato un progetto» annunciò all’amica.
«Lo dici come se si stesse per abbattere una tempesta su Berlino» ridacchiò Lexus dall’altro capo del telefono. Niky poteva sentire le voci concitate che infestavano il corridoio del liceo dell’amica. «Cosa c’è che non va?»
«Mi hanno assegnato un progetto in coppia con una persona che a Gropiusstadt non DEVE mai mettere piede» esclamò esasperata «Perché il progetto mi impone di portarlo da noi, Lexus»
«Che cosa abbiamo di male? Gli facciamo schifo per caso?» la sua voce si era inacidita appena. Lexus odiava essere discriminata.
«Non lo so» commentò Niky disperata «Ma credo che molti a Gropiusstadt lo vorrebbero usare come arma»
«Ma chi cazzo è questo?»
«Tom Kaulitz»
Sospirò, l’aveva detto. Quanti a Gropiusstadt avevano debiti con la banca del padre del ragazzo? Quanti a Gropiusstadt avrebbero voluto usarlo per arrivare al direttore in persona.
Lexus boccheggiò e Niky se ne accorse. Era un nome importante quello.
«Quel… quel Tom Kaulitz?» balbettò Lexus incredula «Il figlio di Jӧrg Kaulitz, il presidente della Deutsche Bank? L’ereditiere?»
«Sì, chi altri sennò» sospirò Niky «Sarà una castratrofe, apparte il fatto che lo dovrò incappucciare quando verrà da me, non voglio immaginare cosa mi farà Brigitte Von Ribbentrop quando lo verà a sapere»
«Von Ribbentrop?» Lexus alzò appena la voce «La smorfiosetta a cui devo spaccare il culo?»
Niky mandò un verso d’assenso ridendo silenziosamente dell’amica. Era così iper protettiva nei suoi confronti che stava progettando insieme a Killen (il suo migliore amico ed ex ragazzo), un modo per farla pagara alla bionda.
Anche se dubitava che la riconoscessero, non l’avevano mai vista. Dubitava che Killen Werner e Lexus Thomas avrebbero mai visto la baronessa Von Ribbentrop.
«Cosa c’entra lei?» chiese l’amica.
«C’entra che stanno insieme, credo» spiegò Niky «Penso che i genitori di Brigitte l’abbiano costretta ad andare con Tom»
«Un mostro?»
«Al contrario» si lasciò sfuggire Niky «Non è per un mostro, è un figo della miseria» le disse sapendo che Lexus stava afferrando una rivista da una matricola che stava passando. La sentì sfogliare le pagine e poi mandare un versetto d’assenso.
«Ah però! Hai capito tu Tom Kaulitz» esclamò «All’ereditiere ci darei una ripassata volentieri, tutto quel ben di Dio in mano di una smorfiosa titolata... che spreco».
Eccola, Lexus la pervertita. Niky, suo malgrado, sorrise divertita. La immaginava con quella rivista in mano a guardare il visino del suo compagno di progetto, gli occhi castani assotigliati in un’espressione maliziosa.
«Lexus…»
«Che c’è?» chiese lei.
«Concentrati» la riprese Niky.
«Lo sai che la mia capacità di concentrazione va da uno a cinque secondi, poi mi perdo» piagnucolò l’amica mentre restituiva la rivista «Dicevamus?»
«Dicevamo che io, con Tom Kaulitz, non voglio lavorare se quella strega bionda cercherà di ostacolarmi in ogni modo» annunciò Niky alzandosi dalla sua posizione. Si sistemò i pantaloni che si erano ritirati fin sopra le caviglie e prese la via della porta.
«Ma se è solo lavoro perché dovrebbe rompere il cazzo, scusa? Finite la ricerca, consegnate il progetto ed è tutto finito no?»
«Sembra così facile» sospirò la mora mentre sostava davanti allo specchio.
«Hai paura che ti salti addosso?» chiese Lexus ridacchiando «è per questo che temi Brigitte?»
Niky spalancò gli occhi iniziando a ridere nervosamente. Ma cosa stava dicendo Lexus? Come poteva lei, Nicole Carter, ad attrarre Tom Kaulitz?
Non era certo da buttare ma… non era nessuno.
Guardò la sua immagine allo specchio. Gli occhi turchesi la guardavano con aria incerta, scorrevano sul suo viso dai tratti dolci ed infantile, sulle lunghe ciglia scure che incorniciavano i suoi occhi di un brillante turchese. Aveva una pelle pallida evidenziata da quei capelli di un nero corvino legati in una disordinata coda che lasciava svolazzare alcuni capelli, quasi elettrizzati.
Il suo naso era adornato da un anello sulla narice sinistra e un brillantino per il suo Monroe sul lato destro. Se lo erano fatte lei e Lexus per i sedici anni –accompagnate dai genitori ovviamente-. Apparte Bill e Tom, alla Immanuel Kant nessuno aveva un piercing. Era considerato da delinquenti, quello che però aveva notato era che a Tom e Bill non avevano mai detto assolutamente nulla.
Si toccò una guancia e si accorse che la sua pelle era liscia e levigata, una fortuna.
«Ma sei pazza!?» esclamò la mora «Come pretendi che Tom Kaulitz mi salti addosso, tu non hai visto Brigitte»
«Ma smettila Secchia» ridacchiò Lexus «Che sei bellissima»
«Lexus?»
«Sì?»
«Tom Kaulitz non vuole saltarmi addosso» precisò con un sospiro.
Lexus rise e la sua risata divertita fu investita dal suono della campanella della Immanuel Kant. Niky sospirò sapendo a cosa andava in contro e si affrettò a congedare l’amica «Lexus, io devo andare dal professor Mardock, vado ad incontrare l’ereditiere, ti chiamo appena sto in metro»
«Ok Secchia Strenzetta, ricordati di passare da me oggi?»
«Ok, ti voglio bene Ciuccia» le disse e prima di suscitare l’iralità di Lexus attaccò.
Con l’umore sotto i piedi si trascinò verso il secondo piano dove aveva appuntamento con il Professore e Tom Kaulitz. Sperava che non ci fosse Brigitte o sarebbe scappata a gambe levate.
Sotto lo sguardo di tutti –perché il Caso Umano della scuola non passava mai inosservato- Niky ciabattò verso la grande porta di pesante mogano e rifiutò ancora di guardare il Castello di Chalottenburg da quelle fastidiose finestre.
Non ce la faceva davvero più a vedere lo sfarzo di quel posto.
Con evidente irritamento e rassegnazione abbassò la maniglia ed entrò nella classe. Mardock ancora non c’era in compenso Tom era in perfetto orario. Sedeva ad un banco con in mano il suo costosissimo e super nuovo e ultra piatto I-Phone 5g nero. Niky guardò di sfuggita il suo usatissimo, scassatissimo Nokia 5300 e se lo nascose nella tasca. Aveva una certa vergogna a farsi vedere con il suo fido amico mattone con lo sportellino traballante. Niky osservò il ragazzo toccare pigramente lo schermo del cellulare e sbuffare.
Da quando stava aspettando?
Chiuse la porta abbastanza violentemente per attirare l’attenzione dell’ereditiere. Il ragazzo sobbalzò voltandosi, finalmente, in direzione della ragazza. Le sorrise solare, un sorriso che colpì allo stomaco la mora. Sorrise nervosa e si avviò verso il banco accanto al suo.
«Ciao» trillò  lui osservandola.
Era nervosa, lo vedeva dal modo in cui sbatteva contro ogni cose che le capitava a tiro imprecando sotto voce. Le ragazze che frequentava non imprecavano come scaricatori di porto e questo rendeva davvero unica quella ragazza.
«Ma porco cazzo» sibilò a denti stretti quando si impigliò con una manica ad una sedia. Si liberò facilmente e si lasciò ricadere sulla sedia.
«Tutto bene?» le chiese Tom.
Lei annuì infilandosi, sempre nervosamente, una ciocca di capelli dietro un’orecchio «Tutto bene, perché?»
«Perché sei andata contro ad ogni cosa dentro questa stanza» le disse dolcemente e divertito. La osservò arrossire e ne provò un’immensa tenerezza.
«Ehm…» balbettò grattandosi la testa «Oltre ad essere di un altro quartiere non sono minimamente aggraziata come le principessine della Immanuel Kant» spiegò sorridendo «Sono parecchia goffa»
«E imprechi come uno scaricatore di porto, sì» ridacchiò l’ereditiere sempre più divertito.
«Scusa»
Che figura di merda, pensò Niky.
Aveva incontrato due volte Tom Kaulitz e tutte e due le volte gli si era presentata come una gan sfigata. Si complimentò con se stessa e abbassò il viso.
Aveva fatto la figura della maldestra povera imprecatrice.
«Ehi, mi piace» si sbrigò a precisare Tom con un sorriso «Le ragazze che conosco sono tutte uguali»
Ed era vero, questo Niky lo saeva perfettamente. Si era sempre chiesta come una persona munta di una personalità, come i Kaulitz, riuscisse a vivere in un mondo tanto falso e omologato.
Lei stava soffocando e vi era solo sei ore al giorno weekend escluso. «Capisco» disse soltanto.
Cosa poteva dirgli?
Lei a Gropiusstadt aveva amici così diversi tra di loro che non erano mai d’accordo, ognuno scintillava di personalità e individualità. Ognuno dei suoi amici aveva un modo di vederla e di comportarsi diverso, erano variegati e per quel motivo si divertivano come i matti.
Ebbe un forte attacco di nostalgia e si strinse le braccia in una specie d’abbraccio.
«Comunque io sono Tom Kaulitz, piacere» le disse allungando una mano.
«Nicole Carter» sorrise stringendo la grande mano del ragazzo. Aveva il tocco ruvido, aveva sempre immaginato il contrario.
Era stata una semplice stretta di mano ma, per un attimo, Niky aveva sentito una scarica elettrica carica di presentimenti in tutto il corpo.
Ed era vero, il Karma ti colpisce con un bel calcio nel sedere.







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Capitolo 3
*** Three. La Casa del Re ***


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***

 

Ogni cosa ha il rovescio della medaglia.

YKIN – Parco Giochi – Gropiusstadt

 

 

 

***

 

 

L’appartamento dei Thomas non era mai silenzioso.

Vivere in una casa di cinque stanze compreso bagno non aiutava una famiglia che di figli ne aveva ben cinque. I Thomas, di fatti, a Gropiusstadt, li conoscevano tutti. Tre maschi, due femmine, mamma e papà, troppo numerosi per vivere in un appartamento in uno Stabile, troppo poveri per avere una casa loro.

Niky, paradossalmente, adorava l’assordante casa di Lexus perché, in sé, racchiudeva quello che non era mai stata la sua famiglia: chiassosa, unita, stramba e divertente.

«Lorenz, dannazione, non puoi scopare con il silenziatore con il tuo amico?» Lexus, in tutta la sua grazia, entrò nella piccola cucina/salotto/sala da pranzo.

Alexandra Thomas era la ragazza più strana che conoscesse, i capelli lunghi fino al collo, castano scuro striati di mesces bionde incorniciavano un viso dalle fattezze bellissime e pesantemente truccato, sopracciglie perfettamente tenute ed eveidenti ciglia finte pregne di mascara che facevano risaltare gli occhi scuri che ne denotavano le origini italiane. Il classico rosaio (usato per ornamento perché Lexus era totalmente atea) appeso al collo che ricadeva sul felpone dei Nightwish che era solita usare in casa, le ricadeva addosso nascondendo le sue forme minute. I jeans strappati fasciavano le gambe magre e finivano in un paio di pantofole nere con un grande fiocco rosa. Per denotare la somiglianza con Niky c’erano i due piercing sul viso, sul naso dal lato opposto dell’amica e il Monroe gemello sullo stesso lato.

«Io non sto scopando brutta strega!» urlò il fratello facendo uscire la testa dalla sua stanza «Ci stiamo allenando»

«E io sono Mike Tyson» brontolò la ragazza andando verso il tavolo dove una montagna di libri e fogli avevano preso il posto del normale cesto di frutta che Lucia Thomas rimetteva in ordine ogni mattina.

Niky le sorrise mentre Killen, il loro migliore amico, si posava una mano sulla bocca ridendo sommessamente.

Come ogni pomeriggio dopo la scuola L’Asse del Male si incontrava nel piccolo e caotico appartamento dei Thomas. Niky, Lesux e Killen erano sempre stati uniti, fin da quando si erano conosciuti nell’area giochi che costeggiava i loro Stabili. Il soprannome di “Asse del Male” glielo avevano affibbiato all’età di undici anni quando riuscivano a dominare l’area giochi. Con l’intelligenza di Niky, la faccia da culo di Killen e la spietatezza di Lexus nessun bambino era mai riusciuto a metterli sotto. Crescendo quella spadmodica voglia di prevalere era scemata ma i tre erano rimasti sempre insieme. Tra Niky e Killen, poi, per un certo tempo, c’era stato del tenero (non a caso per Niky lui era stato il primo), una tenera storia d’amore che si era esaurita dopo nemmeno sei mesi e che si era risolta con la decisione comune di lasciarsi e tornare amici.

Non c’era stato imbarazzo, per loro era normale essere amici.

Lexus aveva vissuto la loro storia con un sorriso sarcastico sul visino impertinente. Sapeva che sarebbe finita, era come se lei si fosse fidanzata con uno dei suoi innumerevoli fratelli. Era impossile e anche parecchio raccapricciante.

E aveva azzeccato. Ricordava con ribrezzo i pomeriggi passati a guardare la tv mentre i due scopavano nella sua stanza. Aveva archiavato quel periodo in un angolo remoto del suo cervello sotto il catalogo “Ricordi raccapriccianti”.

Si sedette sulla sedia in parte a quella di Killen proprio di fronte a Niky «Il coglione è sistemato, ora possiamo studiare?» domandò a bruciapelo prima di fulminare Killen «La smetti di ridere?»

«Scusa» ridacchiò quello guardandola «Ma questa famiglia è composta di pazzi»

Lexus lo liquidò e guardò l’amica che fissava annoiata le parole scritte sul libro dell’amica «Sei sicura che state facendo ancora “La Rivoluzione Industriale” in Storia?» domandò alzando gli occhi turchesi e fissandoli sui due.

La castana si sporse verso il libro ed annuì «Sì»

«Mah, solo nella mia scuola si va alla velocità della luce» Niky fece spallucce.

«Ci credo» esclamò Killen «Vai alla Immanuel Kant, noi dopo cinque minuti non ascoltiamo più» le sorrise «Sei sempre stata più intelligente di noi, lo sai»

«Smettila» lo schernì aprendo una penna «Cominciamo a studiare o devo prendere il giornale?»

Lexus ridacchiò. Lo sport preferito di Niky era picchiare le loro teste con quotidiano arrotolato quando si distraevano. Killen era quello che ne prendeva di più e quando lei si azzardava a ridere Niky la colpiva. Era Imperialismo quello.

Il ragazzo le rifilò un’occhiataccia con i suoi occhioni scuri e afferrò, malamente, un libro «Secchiona»

«Asino!» lo apostrofò la mora con un sorriso serafico.

Killen la scimmiottò mentre afferrava un evidenziatore «Il Bianno Rosso? Che cazzo è?»

Si sotterrò quando Niky lo fissò come se fosse uno stupido e si sporgeva verso un comodino lì vicino. Bild era piegato su un vecchio portatile stra usato. «Non ci provare?»

«Com’è possibile che tu non sappia cosa sia il Biennio Rosso, Kiki?» lo guardò satanica.

«Odio quando mi chiami Kiki, lo sai» balbettò mentre guardava terrorizzato la mano di Niky afferrare il giornale e arrotolarlo.

«Non sei nella posizione» ridacchiò Lexus. Killen la guardò come per incenerirla facendole alzare la mani in aria «Oh, io so cos’è il Bienno Rosso»

Niky alzò una mano e Killen, ormai memore di tutte le botte in testa, si sbrigò a coprirsi per evitare il male maggiore. Strinse gli occhi aspettando il colpo.

Se l’avessero visto in quelle condizioni la sua credibilità sarebbe andata a farsi fottere. Lui era il Re di Gropiusstadt e si faceva picchiare, quasi tutti i pomeriggi, da una secchiona della Immanuel Kant. Stava davvero cadendo in basso.

Una musichetta si diffuse per la piccola stanza e Killen alzò appena lo sguardo.

Niky stava guardando il suo vecchio cellulare con aria confusa mentre abbassava il giornale. Mandò un sospiro di sollievo e abbandonò la sua posizione per sistemarsi la pesante camicia a quadri che aveva sulla maglietta bianca. Quella volta l’aveva scampata bella.

Niky guardò il suo cellulare vibrare e lo prese con una certa confusione.

 

Tom Kaulitz

 

Prese il cellulare e premette il tasto verde «Pronto?» chiese con aria guardinga.

«Ciao Nicole, sono Tom» trillò la voce all’altro lato del telefono.

Quella chiamata era strana e anche irreale. Tom Kaulitz, l’ereditiere, la stava chiamando.

«Ciao» lo salutò non sapendo bene cosa dire.

Ricordava di aver scambiato il suo catorcio con quello di Tom per segnare il numero per ogni evenienza (vergognandosi anche a morte), ma non pensava che il ragazzo l’avrebbe mai chiamata.

«Chi è?» mormorò Lexus avvicinandosi con l’orecchio all’aggeggio dell’amica.

Niky le assestò una spinta mentre Tom si schiariva la voce «Ti ho chiamata per il progetto» le disse.

«TOM!» esclamò Lexus individuando solo le parole “Chimata”, “Progetto”. Battè le mani tra di loro mentre Niky alzava un sopracciglio e le intimava di stare zitta.

«Tom chi?» chiese Killen curioso.

«Tom Kaulitz» lo illuminò Lexus.

«Sì, ti serve qualcosa?» chiese ignorando i due amici che, chi con lo sguardo esultante e chi con lo sguardo incredulo, parlottavano tra di loro.

«Beh, sì, volevo chiederti se vogliamo iniziare questo pomeriggio, ti venivo a prendere là giù» le disse dolcemente.

Niky sbarrò gli occhi.

No. No e poi no!

Non sarebbe andata al palazzo del Re dell’economia vestita come era. Ciabattine rosa prestatele da Lexus (e rubate ad Elisa, la sorella dell’amica), felpone nero che sfiorava il sedere, capelli retti da un mollettone di fortuna e jeans sbiaditi e coperti di strappi.

Un po’ di pudore lo aveva anche lei.

E poi era con i suoi amici e non li avrebbe mai mollati. Non aveva nemmeno il coraggio di chiedere a Tom di farli venire con loro, conosceva troppo bene Lexus e Killen per azzeccare il finale.

La raffinata casa dei Kaulitz sarebbe stata distrutta da due urgani cafoni.

«Non posso adesso» disse sinceramente «Sono a casa della mia migliore amica e sto cercando i farle fare qualcosa per passare l’anno»

«EHI!» esclamò Lexus voltandosi verso di lei mentre Killen ripeteva come un mantra “Ma quel Tom Kaulitz?” «Io non ho bisogno del tuo aiuto per passare l’anno, ho bisogno di te per Etica, è questo asino rappettaro che ha bisogno di un trapianto di cervello»

«Parla Einstein» borbottò Killen.

Tom rise. La sua risata era una melodia dolce e contagiosa. Si schiaffò una mano sul viso scuotendo la testa. Certo che potevano farsi riconoscere da chiunque quei due.

«Chi erano?» domandò Tom ridacchiando appena.

«Lexus e Killen, i miei migliori amici» gli spiegò «Dei tre sono l’unica a sapere cos’è il Biennio Rosso quindi devo aiutare le loro menti ottuse a fiorire»

«Io so cos’è il Bienno Rosso» esclamò Lexus.

«Certo, e io sono cinese» Killen la guardò con un sorrisetto sghembo. Lexus si sporse verso di lui e lo pizzicò a morte sul braccio.

«Stronzo» l’apostrofò Killen toccandosi il braccio. La spinse leggermente. Lexus, però, non si faceva abbattere.

«Stronza»

Tom rise ancora e fece sorridere anche lei. Aveva una risata meravigliosa.

Si riscosse da quei pensieri e guardò i suoi due migliori amici farsi i dispetti come due bambini. No, non li avrebbe mai portati da Tom.

«Non puoi proprio?» chiese «In fondo, prima iniziamo, prima finiamo»

«Lasceresti due bambini da soli Tom?» domandò Niky divertita.

«EHI!» esclamarono i due interessati guardandola male e suscitando altre risate da parte di Tom. Niky non potè che essere divertita dai comportamenti degli amici. Erano veri, erano loro stessi, erano… amici.

«No» ridiacchiò Tom «Ok, va bene, mi arrendo» si ricompose appena «Che dici, va bene domani?»

«Domani?» guardò Lexus.

La castana le si era avvicinata e aveva posato l’orecchio sul cellulare, Killen l’aveva aseguita subito dopo. Curiosi come due topi di fogna che vedono per la prima volta il sole, stavano cercando di origliare la conversazione.

Cercò di scansarli, ma erano due contro uno.

«Sì, dopo scuola vieni a pranzo qui, va bene?» chise lui. Nella sua voce c’era un che di speranzoso.

«Ehm…»

Niky esitò. Non voleva andare a casa dei Kaulitz, non voleva sentirsi una pezzente in una casa delle bambole, non voleva subire il disprezzo di un ceto sociale che lei stessa sopportava appena.

Poi dai Kaulitz, la famiglia più potente di Berlino. Cosa poteva entrarci lei?

Lexus, rapida, le afferrò il cellulare e se lo portò all’orecchio. Niky aveva la ridicola tendenza pensare troppo a cose che avevano bisogno di una risposta secca.

«Certo che verrà!» squittì Lexus guandondo l’amica guardarla con un un viso stupito.

Era anche parecchio divertente visto che aveva la bocca aperta indignata e la fulminava con lo sguardo promettendole di farla secca.

«Non dovevi nemmeno chiederlo, Tom, se lei non veniva la spedivo io a calci nel culo a Charlottenburg» continuò gesticolando con una mano.

«Lexus!» la rimproverò Niky mentre Killen scoppiava in una sonora risata.

«Ah!» esclamò subito dopo la castana «Io sono Lexus, piacere di parlare con te, Tom»

E anche Lexus si trovò ad ammirare quella risata di Tom, era gioviale, divertita, contagiosa «Piacere mio Lexus, hai un nome davvero strano»

«Non si chiama Lexus» urlò Niky «Si chiama Alexandra» strappò il telefono all’amica e se lo portò all’orecchio «Ma la chiamiamo tutti Lexus fin da quando cadeva dalle staccionate per infilarsi nei garage dei vicini»

«Non c’era bisogno di dirlo anche a Tom Kaulitz eh» si lamentò la ragazza andandosi a buttare sul picoclo divano «Non sono cose belle da ricordare»

«Invece sì» intervenne Killen buttandosi al suo fianco e afferrandola per le spalle. La strinse a se e Lexus protestò visibilmente irritata dalle prese per il culo dell’amico.

«Allora va bene per domani?» chiese di nuovo Tom «Vieni con me all’uscita e poi ti riaccompagno io»

«Prendo la metro, tranquillo» lo rassicurò lei «Non voglio farti scomodare troppo»

«Come vuoi»

Si salutarono e poi l’ereditiere attaccò il telefono. Niky lo posò sul tavolo stranita da quella conversazione. Chissà cosa avrebbe detto Brigitte se avesse scoperto che il suo ragazzo l’aveva chiamata? Chissà cosa avrebbe detto se avesse saputo che lei sarebbe stata sola con lui a casa sua? Chissà…

Un urlo di Lexus la riportò alla realtà. Killen aveva preso a scompigliarle i capelli con la grande mano consumata dal suo lavoro di manovale.

«Killen, io ti ammazzo» ringhiò «Mettiti le tue mani nel culo»

«Oh povera darkettona» rise lui sarcastico tirandole una ciocca di capelli.

Sorrise.

Non le importava di Brigitte. Lei aveva tutto ciò che aveva ed era vero. I sentimenti plastificati della nobiltà e dell’alta borghesia le sarebbero stati sempre stretti.

 

 

 

***

 

 

La notte era nera e rumorosa.

Berlino non dormiva mai. Le macchien continuavano a correre veloci contro l’asfalto nero.

Camminava costeggiando il muro a testa bassa. Si tirò su lo zaino nero facendo tintinnare il suo interno. Si maledì per quell’incoscienza e si guardò intorno.

Tom non voleva essere scoperto, sarebbe finito davvero nei guai e, come minimo, avrebbe beccato un anno in Accademia Militare. In fondo, si disse, i suoi antenati avevano finanziato quel luogo di guerra fin dagli inizi.

Suo padre, da bambino, portava spesso lui e Bill a visitare l’Accademia e l’ala dedicata al loro tris nonno Klaus Kaulitz.

Rabbrividiva al solo pensiero.

Si fece cadere sulla testa il cappuccio della felpa nera che aveva comprato ad un mercatino dell’usato, coprendo il capellino NY dello stesso colore che lo copriva dagli occhi indiscreti.

Charlottenburg era ancora sveglia o, almeno, lo era il suo lato oscuro. Poteva notare, distintamente, alcuni illustri avvocati amici del padre fermare le macchine davanti a delle angezie ambigue. Li vedeva uscire, sistemarsi la giacca elegante ed uscirne con delle escort bionde e pagate profumatamente.

Gli fece schifo pensare che sarebbe stato lui ad amministrare le finanze di quei luridi porci fedigrafi.

Quando avrebbe preso in mano la Società, li avrebbe mandati tutti sul lastrico. A lui non fregava niente dei soldi e delle conoscenze, odiava quei porci in giacca e cravatta e sorriso falso. Odiava vedere la falsità negli occhi delle persone che lo circondavano e, quell’odio, era cresciuto dopo aver parlato con Niky, quel pomeriggio e averla ascoltata battibeccare con i suoi amici.

Si era divertito ad immaginarsi lì con loro, a ridere, a fare cazzate a…vivere.

La sua gabbia si faceva giorno per giorno più stretta e soffocante.

Si fece salire sul viso una bandana nera coprendo la sua bocca e il suo naso lasciando, intravedere, solo le sue due stille di petrolio ambrato. Risultava abbastanza irriconoscibile.

Svoltò verso un vicolo e poi, con grande agilità, afferrò una vecchia scala di emergenza di una delle palazzine e cominciò a salire, velocemente.

Il suo zaino tintinnava dietro alle sue spalle ma, dal rumore di auto che sgommavano verso l’Hotel più vicino, nessuno se ne sarebbe curato, non lo fece nemmeno lui.

Arrivò all’ultimo gradino e, con un salto, toccò con i piedi la copertura di quell’enorme palazzo.

Posò atterra lo zaino e afferrò la scala facendola cadere, rumorosamente, ai suoi piedi. In quel modo avrebbe impedito a chiunque di salire. Sorrise sotto la bandana e prese lo zaino caricandoselo ancora sulle spalle.

Con una camminata dinoccolata e tranquilla, Tom raggiunse il suo scopo.

Alla cima del grande palazzo vi era una gigantografia pubblicitaria. Il simbolo della banca del suo antenato capeggiava sopra l’immagine dei suoi ereditieri con in mano un salvadanaio a forma di porcellino. Sorridevano, i loro visini nivei guardavano il belvedere di Berlino, semplici e rassicuranti.

“Il vostro futuro nelle nostre mani” recitava la pubblicità.

«Se» borbottò Tom buttando il suo zaino a terra «La vostra anima nelle mani del diavolo».

Si piegò trando appena su i larghi pantaloni e aprì lo zaino. Al suo interno aveva stipato abbastanza bombolette per la sua opera di puro vandalismo.

Oh come avrebbe goduto a far sapere a suo padre cosa pensava di lui. Come avrebbe sogghiniato quel mattino nel vedere i titoli in prima pagina. Per come erano distratti i suoi genitori non avrebbero mai sospettato di lui.

Afferrò una delle bombolette e la guardò e sorrise. Se la fece roteare tra le mani per poi alzarsi. Mosse le gambe per mettere a posto i jeans e, con un sorriso satanico in volto, avvicinò il beccuccio della bomboletta al cartellone tracciando la prima linea

Si strinse appena la bamndana alla bocca per non respirare i fumi emanati dal colore e, concentrato, iniziò la sua opera.

Da piccolo aveva pensato al padre come un supereroe. Lo guardava con quella valigetta nera di pelle correre per casa urlando contro qualcuno al cellulare. Lui e Bill avevano giocato spesso ai banchieri da piccoli nell’enorme camera dei giochi. Da piccolo Tom era stato orgoglioso delle sue origini, se ne era vantato tra i banchi del suo prestigioso asilo. Quante volte, in vacanza, aveva deriso i bambini che non potevano permettersi un ombrellone nell’assolata e fantastica spiaggia di Miami? Quante volte si era trasformato in uno spocchioso riccastro con la puzza sotto il naso?

Trante, troppe.

Tom non aveva mai capito cosa significasse essere il figlio di un banchiere finchè non gli era stato impedito di vedere Cem, il suo amichetto turco.

Tom lo ricordava perfettamente quel ragazzino di dodici anni che parlava a malapena il tedesco e che lui aveva preso sotto la sua ala protetrice.

«Vieni con me, se stai simpatico a me sei simpatico a tutti» gli aveva detto con spocchia.

E Cem lo aveva seguito. Quando suo padre l’aveva scoperto gli aveva urlato contro che non doveva frequentare “certa gentaglia”.

In quel momento Tom aveva capito, in quel momento la realtà si era aperta davanti ai suoi occhi infantili e aveva deciso che non sarebbe stato il classico fighetto ricco. Anzi, avrebbe passato la vita a distanziarsi da quel mondo tanto ipocrita.

Tirò un’altra linea e sorrise soddisfatto.

Tutto quello che aveva rappresentato la sua vita era sparito quando aveva scoperto il marcio di quella prigione d’oro massiccio. Suo padre se la faceva con la segretaria, i suoi genitori non dormivano nemmeno più insieme, sua madre soffriva come un cane, i loro genitori erano così ciechi da non capire cosa frullasse nella testa dei loro figli.

Tutto in quella prigione dorata era fatta di ipocrisia e falsità.

Fece un cerchio e si allontanò appena prendendo un’altra bomboletta dallo zaino. Si allontanò appena per ammirare la bozza del suo disegno. Era soddisfatto.

Sceccherò la bomboletta e poi l’aprì, spruzzando atterra per verificarne il retto funzionamento, poi lo puntò contro il cartellone iniziando a disegnare.

Aveva pensato a quel mondo di evadere dopo aver visto quel graffito di Ykin, la voglia di rompere le catene lo aveva scosso come se fosse stato investito da una scossa elettrica.

Aveva voglia di uscire, stava soffocando.

Continuò nel suo intendo finchè non mise l’immaginario punto al suo lavoro. Buttò a terra la bomboletta che rotolò fino al ciglio del tetto e indietreggiò appena.

Allacciò le braccia al petto e sorrise.

Il suo eroe sarebbe stato contento di vedere campeggiare quella scritta su un cartellone così visibile.

 

Affideresti la tua anima al diavolo?

 

Pose la sua firma alla fine della frase e, soddisfatto, afferrò il suo zaino.

Si sentiva meno soffocato, si sentiva decisamente meglio. Si sentiva libero.

 

 

 

***

 

 

 

 

Quella mattina, Niky aveva fatto una cosa che non aveva mai fatto, nemmeno quando stava con Killen: si era alzata ed era rimasta a fissare l’armadio con l’indecisione dipinda sul viso.

Cosa mettersi per andare a casa di un multimiliardario?

Cosa mettersi per non sembrare una pezzente e non doversi rovinare per fare acquisti?

Quella mattina, Niky era stata sul punto di avere una crisi isterica. Alla fine aveva optato per un pantalone nero attillato, una canotta binaca e una cardigan beige che aveva lasciato aperto sulla canotta. Le dava un’aria da brava ragazza. Si era infilata un paio di consumante All Star che lei e Lexus avevano in comunione e si era legata i capelli in una treccia lenta e dall’aria trascurata. Si era truccata leggeremente e aveva scelto di usare piercing poco vistosi.

Una fina cicella di argento e un piccolo brillantino sul monroe.

Per proteggersi dal freddo novembrino si era infilata un trench di poliester nero che aveva allacciato alla vita.

Il risultato l’aveva scioccata appena ma l’aveva fatta sorridere. Sembrava una ragazzina normale Berlinese, non il caso umano venuto dal ghetto.

Le si prospettava una giornata in solita in fondo.

Entrò nella sua classe con tranquillità. Era la prima ad entrare e ad accomodarsi al suo posto, quello vicino al temosifone vicino alla finestra. Sistemò la sua roba sul banco e si affrettò ad aprire il suo libro di Filosofia.

Era una materia che l’affascinava e che l’appassionava al tal punto da far ricerche individuali.

La Professoressa Rodwee aveva iniziato ad adorarla e questo aveva fatto accrescere l’odio che i suoi compagni provavano per lei. Era così, volevano essere superiori a lei in tutto.

Sospirò e posò la testa contro la mano. Odiava quei riccastri, li odiava con tutta se stessa.

Concentrò la sua attenzione sul libro cercando di capire la visione dell’assolutismo di Thomas Hobbes e sospirò sottolineando la parola chiave.

La cattiveria naturale dell’uomo.

Una mano smaltata di rosa si posò sul suo campo visuale distraendola.

Alzò lo sguardo e si trovò a specchiarsi in due iridi truchesi che mandavano bagliori pieni di cattiveria. Il suo viso d’angioletto era sfromato da una smorfia di disgusto e rabbia. Eccolo, il confronto.

Brigitte la guardò intensamente e Niky non abbassò gli occhi come si aspettava quell’oca.

«Sta’ lontana da Tom» esalò criptica.

«Non posso» rispose Niky «Ci hanno assegnato un compito»

«Rinuncia»

«Lo accompagni tu a Gropiusstadt Von Ribbentro?» le sputò addosso acida Niky «Ops, scusa, il mio quartiere è merda per te»

Brigitte la guardò stirando gli occhi.

La sua espressione aveva un che di arcigno che le faceva venir voglia di ridere. Brigitte pensava davvero di farle paura, l’unica cosa che aveva preoccupato Niky era stata la consapevolezza che avrebbe dovuto sentire la sua “deliziosa voce” molto di più di quello che poteva sopportare.

Era cresciuta in un quartiere dove nessuno guardava in faccia l’altro.

«Se scopro che hai toccato Tom solo con un dito… giuro» quella vocina da troietta le faceva arrivare il sangue al cervello. Strinse i pugni sotto il banco e la guardò attentamente «Farò pentiere tua madre per non aver abortito»

E fu lì che Nicole seppe cosa significasse ribollire di rabbia.

Odiava quando si toccava il tasto dis ua madre. Quella stronza aveva lasciato suo padre, lei e il suo fratellino senza pensarci due volte. Le saliva una rabbia incontrollata anche solo a pensare a lei.

Saettò in piedi nello stesso istante in cui la professoressa entrava nella classe. Brigitte la guardò con un sorriso poco rassicurante e si lasciò ricadere al suo fianco. Erano compagne di banco. Brigitte si sistemò i capelli con fare vanitoso e le rifilò un’occhiataccia da magistrale.

Niky scosse la testa e posò lo sguardo.

La Professoressa Rodwee posò la valigetta sulla cattedra senza degnare i suoi alunni di un’occhiata, si sedetta sulla sua sedia e prese a sfogliare il registro. Scrisse qualcosa e poi prese a fare l’appello.

«Carter» esclamò e Niky alzò la mano.

«Presente»

La professoressa le sorrise e poi riprese a fare i nomi. Le lettere si susseguivano velocemente.

«Von Ribbentrop» concluse in fine.

«Presente»

La Redwee chiuse il registro e guardò la bionda «Bene Brigitte, spero vivamente che oggi tu sia pronta per l’interrogazione»

Niky fece scattare lo sguardo su quella megera bionda dall’aria angelica. Brigitte non aveva nemmeno mai aperto il libro di filosofia, forse nemmeno gli altri. Brigitte sorrise imabarazzata e scosse la testa.

Come poteva davvero quella bambolina essere così fortunata nella vita? Avere soldi, avere un ragazzo ereditiere e frequentare una scuola come la Immanuel Kant e avere un cervello come una gallina?

Era vero quel che diceva la Signora Schneider del quinto piano: C’è chi ha tutto e chi non ha niente, la maggior parte delle volte quello che ha tutto non se lo merita.

 

 

 

 

 

***

 

 

 

Era imbarazzata, no, forse di più.

Camminava circondata dai due gemelli, che allegri, chiacchieravano, come se lei fosse loro amica da sempre.

Bill gesticolava animatamente mentre entravano nella Ku’damm. Alcune ragazze si giravano a guardarlo. Aveva raccolto i capelli dentro un capello di lana morbido che gli scopriva la fronte spaziosa. Sotto il cappottone di pelle si porteva intravedere una maglia bianca abbastanza trasparente che aveva fatto chiedere a Niky quanto Bill potesse sopportare il freddo. Indossava jeans tremendamente stretti e neri che si infilavano in delle adidas nere e bianche all’ultima moda.

Ha gli occhi struccati ma era un particolare che Niky aveva imparato a non notare, Bill a scuola si truccava raramente.

Saltellava felice tra le vetrine dei negozi chiusi. Sembrava felice come una pasqua!

«Tomiii» squittisce sporgendosi verso il fratello travolgendo la mora «Domani dobbiamo andare a comprare il vestito per il matrimonio dei Von Sayn Wittgenstein»

Niky alzò un sopracciglio mentre il diretto interessato mandava un sospiro sconsolato «Perché devo venirci?»

Il suo tono era simile a quello di un bambino lamentoso e svogliato.

Si sistemò il cappotto mentre Bill inclinava la testa «Kate Von Sayn Wittgenstein non è stata la tua prima cotta?»

Arrossì tutto di colpo, Niky lo notò subito e quasi le venne da ridere. Cosa che fece Bill. La sua risata cristallina si perse per la strada vuota facendola sorridere.

«Sì» sibila Tom voltando appena la testa di lato «Avevo sette anni e non sapevo –e tutt’ora non so- pronunciare il suo cognome» si girò fulminandoli con un sorriso «Mi sembra uno sciogli lingua»

Niky rise con i due mentre Tom si grattava la testa «E poi è diventato un cesso, Billie, non posso credere che mi abbia dato il mio primo bacio»

Bill annuì «Anche io non posso credere di averla baciata»

Ed era strano, tremendamente strano sentir parlare i famosi ereditieri come due ragazzi normali. Cotterelle, baci tra bambini, svolgiatezza nei matrimoni.

Scoppiò a ridere senza pensarci, contagiata dall’allegria dei due.

Iniziavano a piacergli.

Sorpassarono una boutique e svoltarono in una via costeggiata da un’enorme palazzone di mattoni.

Ad attirare l’attenzione di Niky fu quel cartellone posto alla sua cima. I sorrisi dei gemelli ne costituivano il fulcro. Il viso di Tom, però, era scporcato da quello che lei riconobbe immediatamente come vernice sprey. Bombolette.

Era pasticciato e brutallizzato come il leggendario slogan della famosa filiare di banche. Un complesso graffito lo ricopriva con impertinenza.

Affideresti la tua anima al diavolo? Recitava come un pretenzioso annuncio. Si fermò quasi ipnotizzata. Cazzo, qualcuno aveva davvero sfidato i potenti Kaulitz.

«Bello eh?» si sentì dire dalla voce di Tom.

Voltò la testa verso di lui e alzò un sopracciglio «Io… non… van…»

«Io penso sia bellissimo» soggiunse Bill affiacando i due «Denota un punto di vista importante» fu impercettibile ma Niky capì che Bill guardava il fratello.

Lo vedeva in contemplazione, un sorriso sornione e tranquillo sulle labbra.

Guardò il cartellone ancora una volta. La scritta, i colori, la firma, tutto in quel graffito sembrava urlare disperazione.

Voltò lo sguardo verso di lui e gli puntò il dito contro «Sei stato tu?»

Tom sorrise mostrando la fila di denti perfettamente bianche che impreziosiva la sua bocca ed annuì in trance.

«Ma…»

«Quello lì non sono io» annunciò indicando la sua gigantografia «Quello è solo un fantoccio nelle mani del diavolo» si voltò e la guardò negli occhi «Tutto, Nicole, ha il suo orrendo rovescio della medaglia»

Affideresti la tua anima al diavolo? Aveva detto Tom. Affideresti la tua anima a qualcuno che vuole imprigionarti?

L’orrendo rovescio della medaglia era essere imprigionati in una galera di oro zecchino con un carceriere consaguigno. Il proprio padre.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 4
*** Four. Il primo passo falso ***


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***

 

Carpe Diam.

YKIN – Stabile 17 – Gropiusstadt

 

 

 

***

 

 

«E questa è la mia stanza»

Niky spalancò gli occhi davanti all’enorme ed ordinatissima camera di Tom Kaulitz. Il suo occhio si perdeva in quelle mure di un bianco accecante puntellato da rifiniture d’oro massiccio. Sembrava la camera di un Re. Il letto, un elegantissimo baldacchino di pesante mogano, era finemente rifatto e si specchiava in un televisore LCD cinquantadue pollici Sony ultra piatto posato su un mobiletto bianco munito di x-box 360, lettore dvd, Dolby so Round e modernissimo impianto stereo.

Le grandi finestre erano coperte da una delicata tenda bianca. Niky poteva notare anche il balcone correre su una parte della camera.

Le pareti erano costeggiate da mensole e scrivanie di legno bianco mentre poteva notare un piccolo salottino formato da tre divani bianchi abbelliti da dei cuscini rossi dall’aria comoda e confortante. Un altro televisore era posto al muro davanti ai divani munito degli stessi accessori del primo. Quello che attirò l’attenzione di Niky fu la parete delle chitarre. Poco distante dall’entrata della cabina armadio la parete bianca era abbellita da venti chitarre gibson ben tenute, poco più in là notava una serie di amlificatori e delle cuffie posate su uno di essi.

«Sai suonare la chitarra?» chiese stupita.

Tom annuì grattandosi la testa e le sorrise «Quando ho voluto iniziare mio padre ha pagato Richard Kruspe per insegnarmi»

E Niky non potè non rimanere a bocca aperta. Certo, poteva ben immaginare che uno come rg Kaulitz assodasse per il figlio a cui era venuto il capriccio, un ottimo maestro di chitarra. Non immaginava che avesse pagato persino il chitarrista dei Rammstein.

«E…»

«Ho iniziato quando avevo sei anni» disse semplicemente Tom «Richard è tutt’ora il mio maestro, ma viene una volta al mese…»

«Io non posso credere che tu abbia imparato a suonare la chitarra da Richard Kruspe dei Rammstein»

Non ci credeva davvero, era oltre ogni immaginazione. Il suo viso scioccato lo dimostrava abbastanza bene.

«Ti piacciono i Rammstein?» chiese Tom con un semplice sorriso mentre la dava una leggera spinta per uscire dalla stanza.

«Scherzi?!?!» esclamò Niky «Io AMO i Rammstein, direi che sono quasi una religione»

La risata di Tom riempì la stanza scivolandole addosso, era un suono così cristallino e puro. Si lasciò spingere fuori dalla stanza mentre ascoltava quella risata così contagiosa.

«Lo terrò a mente» le disse dolcemente.

«A tavolaaaa!» la voce di Bill arrivò da sotto le scale, trillante e gioviale.

Era una bomba ad orologeria pronta a scoppiare, un cumolo di esuberanza genuina.

Somigliava abbastanza a Lexus per piacerle, si trovava in sintonia con lui.

 

La tavola era riccamente imbandita. Niky sedeva, silenziosa, al capo di una tavola altrettanto cupa e distaccata.

Simone, la mamma dei gemelli, non apriva bocca se non per mangiare, guardava il marito di sottecchi e abbassava, mortificata, lo sguardo. Simone Kaulitz era di una bellezza assurda ed elegante: folti capelli biondi, occhi da cerbiatta azzurri e un fisico ben mantenuto e filiforme.

Sedeva rigida ed elegante al lato destro del marito, tenendo gli occhi bassi.

Jӧrg Kaulitz, dei figli, aveva poco e niente. La zazzara di capelli castani era ordinata in una pettinatura da imprenditore decantanta anche dal suo abito nero elegante con tanto di cravatta, gli occhi nocciola erano l’unico punto che poteva identificarlo come il padre dei gemelli erano i suoi occhi ambrati profondi come quelli dei figli. Per il resto sembrava essere l’opposto dei suoi bambini, i lineamenti morbidi dei due sfumavano in quelli duri e spigolosi dell’uomo, la pelle nivea dei gemelli era sostituita da una carnagione olivastra. Era un uomo imponente che metteva, tremendamente, in soggezione.

Di colpo, quell’enorme casa era congelata. Tom non guardava mai il padre, sedeva vicino a lei e consumava il pasto rivolgendosi solo alla madre, al fratello e a lei. Bill, dal suo canto, quando veniva interpellato, ciarlava di cose inutile per poi far sfumare tutti i suoi discorsi in un “No, niente” sotto lo sguardo annoiato del padre.

Niky lo sentiva quel gelo, lo sentiva fino alle ossa.

«Dimmi Nicole» le disse Jӧrg afferrando il suo calice di pregiato vino. Lo mescolò appena prima di portarselo alle labbra.

Niky alzò lo sguardo e guardò Tom. Lo vide irrigidirsi sulla sedia e afferrare il suo calice colmo di Coca Cola. Le sorrise nervoso e, per la prima volta da quando quel pietoso pranzo era iniziato, guardò neutro il padre.

«Cosa fanno i tuoi genitori?» chiese con un finto interesse che Niky captò subito.

«Beh…» disse guardando il maggiore dei gemelli «Mio padre fa l’imbianchino e a tempo perso lavora in un bar poco distante dal nostro appartamento…»

«E tua madre?»

«Non c’è» rispose semplicemente Niky abbassando lo sguardo. Il discorso non le piaceva affatto «Se ne è andata circa sette anni fa»

«Mi dispiace» sibilò Jӧrg per niente dispiaciuto, aveva problemi ben più impelleti di una ragazzina senza madre.

Tom bevve ancora e si sporse verso di lei «Ignoralo» le sussurrò in un orecchio.

Niky lo guardò e gli sorrise, anche lui si era accorto della falsità del padre?

«Cosa vuoi fare da grande?» chiese Simone, voltandosi verso di lei. Il suo genuino senso di curiosità le fece ricordare gli occhi della madre di Lexus. Si rilassò ed inclinò la testa.

«Vorrei fare la giornalista» sorrise alla donna «Mi piace scrivere, ma amo molto l’arte»

Simone si illuminò di un sorriso gigantesco e la guardò con malcelata ammirazione «Allora ci vedremo al MOMA?»

Niky rise «Non credo, non sono così brava e nemmeno così originale da poter esporre al MOMA»

Simone fece spallucce «Non lo ero nemmeno io!»

Tom sorrise appena «Sei bravissima mamma» le assicurò con amore.

Ed era l’amore per sua madre che fece intenerire e attristire Niky. Lo guardò e abbassò il viso cercando di ricacciare dentro tutte le emozioni che l’abbandono della madre le aveva suscitato e che non l’avevano mai abbandonata.

«A proposito di Arte» esclamò il Grande Kaulitz «Questa mattina mi ha chimato Birmann e mi ha dato una notizia davvero fantastica» il sarcasmo era così pungente che Niky ne sentì l’odio scorrere «Mi ha detto che il Cartellone Pubblicitario è stato, come dire, abbellito, da un teppistello da quattro soldi»

Tom sorrise mentre si cacciava in bocca un pezzo di bistecca.

«Davvero?» trillò Bill fingendosi scioccato «E cosa c’era scritto, papi» l’ultima parola era stato un sibilo ironico ed acido che aveva fatto sogghignare il maggiore.

Il padre aveva rifilato al gemello più piccolo un’occhiata malevola e riprese a parlare «Niente di che, Billie, lo faremo rimuovere domani mattina»

Tom sorrise ancora mentre mangiava tranquillo «E non pensi che chi l’ha fatto potrebbe rifarlo?»

E quella, Tom se lo disse, sarebbe stata l’unica frase che avrebbe rivolto al padre per quella giornata.

 

 

***

 

Tom si chiuse alle spalle la porta della sua immensa stanza.

Il suo sguardo vagò verso la figura della ragazza che, timidamente, si avvicinava al suo letto e vi si sedeva sopra.

Nicole era davvero diversa dalle altre.

La vide molleggiare appena e sorridergli calorosa «Comodo, quello di casa mia, al confronto, sembra una lastra di pietra»

Un piccolo e accennato sorriso nacque sulle labbra dell’ereditiere mentre si infilava le mani in tasca «Io lo trovo scomodo»

Niky lo guardò mentre le si sedeva accanto.

Aveva l’aria assente di chi sentiva i propri pensieri inseguirsi furiosamente.

«Allora non capisci nulla» scherzò la mora posando una mano sulla spalla del ragazzo.

«No, non è il letto» si lasciò scappare Tom «Tutto nella mia vita è scomodo»

Niky lo guardò senza capire. Cosa poteva saperne lui di come ci si sentisse a vivere in modo scomodo? Cosa ne sapeva lui di cosa significasse faticare per arrivare a fine mese? Che ne sapeva lui di cosa significasse vedere il proprio padre incazzarsi davanti al calendario che si accorge che straoridario era il suo orario di lavoro? Cosa ne sapeva lui che viveva immerso nell’oro e che aveva ricevuto lezioni di chitarra da uno dei monumenti nazionali come se fosse un comune maestro di provincia?

La sua espressione mutò in un nano secondo. Si alzò dal letto e, silenziosa, vltò la sua attenzione verso una scrivania «Vogliamo iniziare?»

E Tom si era alzato dal letto e l’aveva spinta leggeremente verso la scrivania «Lì va bene, accendo il computer»

 

Il tempo stava passando abbastanza lentamente.

Niky aveva la testa china sul suo foglio cercando i concentrarsi. Le era abbastanza difficile con il cellulare di Tom che continuava a suonare.

 Lo vedeva alzare appena la testa, prendere il costoso I-Phone e portarselo sotto gli occhi e scuotere la testa.

Dopo la decima chiamata sbuffò afferrando l’aggeggio e si decise a rispondere «Brigitte?»

Tom si alzò velocemente dalla sedia provocando un rumore strisciato «Studio…»

Niky lo fissò andare verso la porta con viso corruciato e scocciato. L’aprì e uscì dalla stanza lasciandola sola nel freddo di quell’ambiente.

Era davvero vero: più avevi più perdevi.

Perdevi il calore di una famiglia, le risate fatte tra le mura di casa con gli amici.

Tom rientrò poco dopo, il viso scocciato, il cellulare stretto alla mano. Lo posò pesantemente sulla scrivania e la guardò. I suoi occhi nocciola le scivolarono addosso con rabbia prima di sospirare «Ti va una pausa, in questo momento non ho le capacità mentali per studiare»

Niky annuì.

«Ti va una partita alla Kinect?» domandò tranquillo mentre la vedeva alzarsi e sistemare i suoi pantaloni attillati. «Ho un nuovo gioco sportivo che è davvero una figata»

«Certo!» trillò «Non ho mai giocato ad una Kinect, ma penso di potermela cavare»

«Allora parti male, bimba, io sono un maestro alla kinect e negli sport»

«Ah davvero?» Niky lo guardò con competitività «Voglio vedere…»

Camminarono verso il piccolo salottino di quella stanza enorme e, nel mentre Tom si piegava, Niky lo osservò.

Era davvero bello, così bello da darti un colpo al cuore. Era simpatico, così simpatico da sembrare finto. Lo vide spunciare dentro un cassettone colmo di giochi ed estrarne uno.

Lo aprì e buttò, con malagrazia, sul divano bianco e lo infilò.

«Vuoi una mano?» chise lei avvicinandosi appena.

«Sposta un po’ il divano, ci vuole abbastanza spazio» le disse sorridendole. Niky sorrise di rimando e andò verso lo schienale, lo arpionò e iniziò a spingere all’indietro.

Madò un grugnito di sfrozo mentre spingeva e Tom la guardava.

«Quanto cazzo pesa questo divano?» ringhiò a denti stretti mentre, in unp slancio poco aggraziato, rischiava di cadere a terra.

Sentì delle mani afferrarle i fianchi impedendole l’imbarazzante caduta. Il corpo dell’eredietiere si accostò al suo in un gesto involontario che la fece avvampare. Si girò e notò le mani del ragazzo posarsi sulle sue e aiutarla nell’impresa.

Arrossì abbassando lo sguardo «G…grazie»

«Di niente» trillò lui tranquillo staccandosi da lei, prese a camminare verso la televisione iniziando a impostare il gioco «A cosa vogliamo giocare?»

«Cosa c’è?» Niky si avvicinò al ragazzo che con strani gesti della mano apriva la schermata dei giochi «Mmm… sci, pattinaggio artistico, ping pong, tennis, calcio, kembo, beach volley…»

«Beach volley» esclamò Niky.

«Okey, vada per il beach volley» ridacchiò Tom “toccando” con la mano l’icona del gioco. Scelsero i personaggi e si posizionarono davanti allo schermo.

Niky si molleggiò sulle gambe e sorrise all’ereditiere «Pronto a perdere, Herr Kaulitz?»

Un sorriso sghmbo impreziosì le labbra del moro «Continua a sognare, Carter» esclamò prima di servire il primo colpo.

E fu come trovarsi bambini, a giocare, a imprecare come dannati per un colpo uscito male. Per Niky fu come ritrovarsi tra le mura dei garage sotterrani a giocare a nascondino quando, al buio, imploravi di non essere scoperto. Per Tom fu tutto nuovo.

Giocava spesso con Bill ma non aveva mai sprecato un pomeriggio intero a saltellare davanti la tv con un suo amico, figurarsi una ragazza.

Un bella ragazza per di più.

Con Brigitte passava la maggior parte del tempo a letto e, se non facevano sesso, veniva trascinato sul Ku’damm a fare shopping.  Non era un bel passatempo. Il primo era anche sopportabile (apparte le urla sguainate di Brigitte), ma il secondo lo subiva solo per portarsela a letto.

Guardò Niky saltare e tirare un colpo, un sorriso vero sulle labbra.

Qaundo si viveva in un mondo di plastica, l’autenticità dei piccolo gesti scaldava il cuore.

Sorrise rispondendo al colpo che palleggiò verso il lato della ragazza. Rimase immobile mentre la palla sfiorava il suo personaggio e sorrise sotto i baffi.

Il televisore mandò il punteggio nello stesso istante in cui Niky esultò «Ho vinto!» esclamò contenta girandosi verso di lui.

Tom era immobile al suo fianco, sorrideva con una strana luce.

Niky si bloccò dal suo balletto di vittoria e si sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio «Vuoi la rivincita?»

Tom inclinò la testa «Vorrei qualcos’altro» mormorò facendo un passo avanti.

La mora rimase a fissarlo mentre le si avvicinava, le braccia lungo i fianchi. Cosa voleva Tom? Perché si sentiva avvampare e fremere?

Sentì la mano dell’ereditiere scivolare verso il suo fianco e spingerla verso di lui. Niky andò a collidere con il suo busto allenato e non troppo ampio. Tom la strinse in una morsa calda con le sue braccia forti facendo salire la mani fino al suo punto vita.

Niky lo guardò come in trance chiedendosi quando si sarebbe svegliata, quando tutto quello sarebbe finito.

Tom inclinò appena la testa e, in un batter d’occhio, imprigionò le sue labbra in quelle di lui. Sentì il tocco glaciale del piercing strofinarsi alle sue labbra immobili, il sapore intenso ed umido di quella bocca.

Sbarrò gli occhi mentre una mano di Tom afferrava un suo braccio e lo depositava dietro il suo collo. L’ereditiere teneva gli occhi chiusi in un’espressione rilassata.

Cedette anche lei nello stesso istante in cui la lingua del moro fece pressione per penetrare nella sua bocca.

Niky lo lasciò fare, lasciò che la sua lingua colpisse prima il palato facendole gustare il suo sapore per poi incontrare la sua lingua intecciandosi. Si strinse a lui passando anche l’altro braccio intorno al suo collo penetrando tra le sue treccine. Si alzò sulle punte e sentì l’aria colpirle la pelle che si era scoperta quando la maglietta si era leggermente alzata.

Era tutto surreale. Tom che la baciava, lei che lo lasciava fare, il suono del gioco che faceva da sottofondo.

Assaggiò quella labbra in un morbido bacio alla francese, lento e passionale. Nessuno dei due aveva fretta, nessuno avrebbe mai voluto interrompere un gesto così puro.

Niky cambiò l’inclinazione della testa in modo da far star comodo il ragazzo e Tom strofinò le mani dietro la schiena della ragazza, stringendo, subito dopo, la stoffa del cardigan. Continuarono a baciarsi per attimi interminabili finchè entrambi sentirono i polmoni reclamare aria.

Si staccarono di qualche millimetro, quel tanto che bastava per riprendere aria e guardarsi negli occhi.

Il cioccolato caldo delle iridi dell’ereditiere la fissarono sorridendo prima di posarsi, con insistenza, sulla sua bocca rossa e leggermente gonfia. Niky, dal suo canto, non riusciva a non fissare quel visino perfetto, quelle labbra maliziosi ed invitanti.

Tom la liberò dall’abbraccio e le afferrò una mano spingedola verso di lui mentre si sedeva sul divano. La fece accomodare sulle sue ginocchia prima di afferrare il suo mento e baciarla ancora, con più trasporto.

Il bacio che si scambiarono fu il primo di una lunga serie. Baci umidi, lascivi, vogliosi, bagnati.

Le loro lingue si cercavano e si trovavano, le loro labbra si mordevano e si modellavano l’una sull’altra. Le mani si intrecciavano, si toccavano.

La spinse leggeremente sul diavano sdraiandosi subito dopo su di lei. Niky gli afferrò il viso con entrambe le mani e accarezzò quella pelle morbida che non aveva alcuna imperfezione.

L’accarezzò avida mentre Tom le strappava i vestiti di dosso. Lo fece anche lei, lo spogliò senza togliere gli occhi da lui, da quel fisico perfetto, da quel viso sporco di malizia.

Non pensò a niente, non ci riusciva in quel momento. Non pensò a Brigitte, ai fatti che sarebbero susseguiti di lì a poco.

I passi falsi posso creare scompiglio, ma sono, si sicuro, gli errori più belli da commettere.

Fremeva di eccitazione mentre Tom le baciava il collo, le accarezzava la pelle nuda e rovente esposta al suo sguardo ambrato. La sua mano grande e appena callosa toccò la sua pelle e Niky lo baciò, con trasporto, con desiderio.

Non pensò a cosa potesse pensare lui di lei in quel momento, non pensò a cosa avrebbe pensato lei di lui alla fine di tutto quello.

Carpe Diam dicevano i romani, Carpe Diam vuol dire cogliere l’attimo, assaporarlo fino in fondo. Lo diceva anche Spinoza, esiste solo una vita, quella terrena che va vissuta a pieno, va assaporata in ogni sua forma. Dolore, sofferenza, amicizia… passione. L’Amore Profano, in fondo, è il più eccitante di tutti.

Lo strinse mentre Tom la privava dell’intimo e le solleticava la giugolare con la lingua.

Le baciò la mascella, il mento e poi tornò alle sue labbra prima di privarsi dei suoi costosi boxer buttandoli chissà dove in quella stanza enorme e illuminata. Niky si lasciò baciare e sospirò quando lui la penetrò.

Quello era il suo primo passo falso, ma non le fregava davvero un cazzo.

 

 

 

 

***

 

 

 

La testa posata sul petto del ragazzo.

Lo sentiva alzarsi e abbassarsi ritmicamente mentre le accarezzava i capelli ondulati dopo che, qualche ora prima, aveva sciolto la treccia.

Tom era caldo.

Si strinse a lui mentre copriva entrambi i corpi nudi, con una coperta rossa.

Era stato davvero bello. Non aveva molta esperienza ma Tom l’aveva fatta impazzire e si era chiesta davvero cosa avesse pensato Bill quando l’aveva sentita urlare in quel modo.

Con Killen era sempre riuscita a trattenersi (specialmente quando erano a casa di Lexus) ma con Tom non era riuscita nell’impresa.

Certo, sapeva che quella sarebbe stata un’unica, straordinaria volta, e voleva godersela, fino in fondo.

«Non pensavo fossi così» disse leggeremente Tom baciandole una tempia.

Niky inspirò il suo profumo con avidità. Era così buono da inebriarle i polmoni.

«Così come?»

«Mmm» mugugnò lui «Ti facevo molto più pudica tesoro» ridacchiò al suo orecchio facendola arrossire fino alle punte dei capelli. Notandolo Tom scoppiò a ridere «Scherzo –più o meno- intendevo così vera nonostante la situazione»

«Dici che ho simulato l’orgasmo, Tom?» no, perché è impossibile, avrebbe voluto aggiungere.

Rise con quella risata così viva e vivace che la sentiva fino alle ossa. «Oh, non lo dubito Nicole…»

«Chiamami Niky… tanto ormai siamo entrati abbastanza in intimità, non credi?» ridacchiò accarezzando i suoi addominali scolpiti.

Tom annuì sorridendole «Niky, okey, io intendevo il tuo comportamento, pensavo che portandoti qui mi saresti diventata come tutte le oche che frequento, invece…»

«Invece?»

«Sei vera» gli disse lui stringendola appena «E questa cosa fa sentire vero anche me…»

Come se lui non fosse reale.

Niky scosse la testa, nonostante l’appagamento, il vittimismo del ragazzo proprio non le piacieva. Voltò lo sguardo altrove.

«Perché hai fatto sesso con me?» chiese Niky, senza guardarlo.

«Carpe Diam!» ridacchiò lui «Cogli l’attimo, ed è stato un attimo fantastico»

 

Ed è sempre da un passo falso che si scatena il Caos.

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