Gocce di memoria

di scandros
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo/ Ricordi di un passato ***
Capitolo 2: *** Incontri e scontri ***
Capitolo 3: *** L'essenza dell'anima ***
Capitolo 4: *** Il desiderio di verità ***
Capitolo 5: *** L'insostenibile leggerezza dell'essere ***
Capitolo 6: *** Patty o Trish? ***
Capitolo 7: *** Il vento del passato ***
Capitolo 8: *** Quel disperato sentimento ***
Capitolo 9: *** Epilogo ***
Capitolo 10: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo/ Ricordi di un passato ***


GOCCE DI MEMORIA

 

 

A volte ci voltiamo indietro cercando il nostro passato, cercando quelle orme testimoni dei nostri passi e che qualcuno ci ha sottratto percorrendo il nostro cammino.

Le testimonianze di una vita sembrano tanto lontane quanto irraggiungibili, distanti da un futuro che vorrebbe volare ad ali spiegate ma che inconsapevolmente è legato a quelle ombre buie che ancora tormentano il cuore.

 

Trish è alla continua ricerca del suo essere.

 Tanto bella quanto altera, si imbatterà nel cuore solitario di un giocatore a cui il passato ha tolto la gioia più grande: amare.

 

Riuscirà il tormento di Holly a sciogliere il cuore di ghiaccio di Trish?

Riuscirà Trish a riacquistare la sua identità nel nome di un grande amore che attende solo di albeggiare su un mare di sentimenti?

 

Scandros

 

 

 

 

 

 

CAPITOLO 1

Ricordi di un passato

Barcellona.

Era seduta all’ombra di un grande albero vicino un edificio circondato da strutture utilizzate per le attività sportive. Sembrava un complesso scolastico e forse lo era. All’improvviso, sentì i rintocchi dell’orologio e si alzò velocemente. Doveva correre. Era in ritardo per quell’appuntamento. Le nubi basse e nere rendevano tetro il paesaggio. Il cielo plumbeo sembrava un peso insormontabile sulle sue giovani spalle. Correva sempre di più lungo quella strada: sembrava infinita. Sentiva i tuoni echeggiare nell’aria e una voce che la chiamava. Continuava a correre insistentemente lungo quella strada mentre la pioggia copiosa cadeva giù dal cielo. Tutto accadde all’improvviso. Un fulmine si schiantò sull’asfalto illuminando a giorno la strada. L’odore acre dello zolfo persisteva nell’aria. Il suo corpo era riverso sull’asfalto umido ed elettrizzato dalla carica del fulmine. Sotto di lei, una macchia di sangue continuava ad ingrandirsi al ritmo dei secondi che inesorabili trascorrevano.

- Dottoressa Hamilton! Dottoressa! - disse l’infermiera cercando di attirare l’attenzione della donna presa completamente dai suoi pensieri.

- Ehm…sì, scusami Carmen, ero assorta nei miei pensieri. - rispose cercando di giustificare la sua momentanea estraniazione.

- Beh, l’avevo notato. Tutto bene? - chiese Carmen interessata all’atteggiamento del medico.

- Ma certo, non preoccuparti. - rispose accennando un timido sorriso.

- Bene. Sta arrivando un’ambulanza. Giovane di circa ventisei anni vittima di un incidente con la motocicletta. Pare sia stato scaraventato sul marciapiede da un’auto in folle corsa. - informò Carmen porgendo alla dottoressa Hamilton il camice sterile e i guanti.

Entrambe corsero verso l’entrata riservata all’ambulanza nell’attesa che arrivasse il ferito.

Quell’attesa era interminabile. Una fitta la colse all’improvviso. Ancora quei suoi mal di testa. Doveva decidersi a parlarne ad uno specialista e fare forse degli accertamenti per appurare che non si trattasse di nulla di grava. Sentiva i battiti del cuore accelerare all’improvviso. Proprio come quella notte…esattamente come tutte le volte che quell’incubo tornava incontrastato a tormentarle il sonno. Forse aveva bisogno di un analista o chissà di una vacanza rilassante.

I paramedici entrarono velocemente spingendo la barella all’interno del pronto soccorso.

- Frattura scomposta del perone destro con probabile distorsione del ginocchio, abrasioni e lesioni su entrambe le gambe e sul braccio destro. Perdita di conoscenza dovuta all’impatto con l’asfalto, escoriazioni superficiali sul volto e l’addome. Fortunatamente indossava il casco integrale. -

- Sappiamo come si chiama? Avete già contattato i parenti? -

- Ha 27 anni e si chiama Oliver Hutton…porca miseria ma lui è il centravanti del Barcellona. Dottoressa non vorrei dirle come fare il suo mestiere ma penso che sia meglio contattare prima la squadra. -

- Di cosa parli Quan? - chiese la dottoressa Hamilton rilevando i battiti cardiaci.

- E’ un calciatore, dottoressa, uno dei più famosi. Fu una rivelazione già ai campionati mondiali under 18…

- Ok, ok, non m’interessa la sua carriera agonistica. Era cosciente quando siete arrivati? Ha detto qualcosa prima dello svenimento? - chiese informandosi su eventuali dettagli che sarebbero occorsi per ricostruire la dinamica dell’incidente.

- Beh sì, qualcosa l’ ha detto…un nome: Patty. Continuava a ripeterlo insistentemente fino a quando non ha perso conoscenza. -. Ebbe un fremito, un brivido che le percorse la schiena. La stanza era riscaldata. Non vi erano correnti d’aria eppure ebbe la sensazione di freddo.

- E l’auto che l’ha travolto? - domandò cercando di scacciare quella strana angoscia che continuava a seguirla come un’ombra.

- Pare essere sbucata dal nulla ad alta velocità e poi si è dileguata. Almeno, così sostengono dei testimoni. -

- Okay, portiamolo in sala 4. - disse poi a Carmen e al dottor Arnau giunto in loro aiuto.

- Dottoressa tenga…in questa busta ci sono i suoi effetti personali! - le disse Quan prima di congedarsi.

Quan guardò la dottoressa e sorrise. Oramai la conosceva da qualche anno, da quando aveva cominciato a fare il tirocinio presso di loro. Era uno degli interni migliori e da voci di corridoio aveva saputo che stava facendo domanda per l’assistentato in chirurgia plastica d’urgenza. Non si tirava mai indietro se c’erano doppi turni oppure turni di notte. Era sempre seria e competente sul lavoro ed estremamente affascinante nonostante non facesse nulla per far risultare la sua bellezza..

Si girò e andò via verso l’ambulanza richiamato dal suo collega.

Intanto, in sala emergenza 4 la dottoressa Hamilton e il dottor Arnau cercavano di rimettere in sesto il calciatore prima di mandarlo in chirurgia per un eventuale operazione.

- Carmen, per favore controlla tra gli effetti personali se c’è un numero di telefono da contattare in caso d’emergenza. Poi vieni qua e fai il prelievo per l’emocromo e gli esami di routine. Luis come va? - chiese al collega mentre suturava le abrasioni che il calciatore si era procurato nella caduta.

- Qui tutto okay. Tra un po’ ho finito. Ma ci pensi, stiamo curando un gran calciatore! -

- Complimenti. Sembrate tutti affascinati dal personaggio e non dal paziente. Per favore richiedi l’RX toracico e alle gambe. - disse poi con tono quasi di rimprovero nei confronti del collega.

- Avanti Trish non capita tutti i giorni di avere un vip tra le mani, no? -

- Dottoressa nella busta, oltre agli indumenti c’è un cellulare che segnala otto chiamate non risposte e un portafogli. - disse Carmen esaminando gli oggetti, - Ah, c’è anche un braccialetto con un ciondolo, forse un portafortuna. Glielo avrà regalato un’ammiratrice! -

- Non cancellare le chiamate senza risposta. Potrebbero essere importanti per risalire all’orario in cui è successo l’incidente. Quel pirata è fuggito. Prova a dare un’occhiata nel portafogli per cortesia. - le chiese mentre gli fasciava il capo.

Lo guardò in volto cercando di cogliere i segni del suo risveglio. Da quando era arrivato non aveva ancora ripreso conoscenza. Trish guardò l’elettrocardiogramma. I battiti diminuivano sensibilmente probabilmente per effetto del trauma causato dalla caduta. Si portò una mano alla fronte. Ancora quella fitta accompagnata dai battiti accelerati del suo cuore.

- Porca miseria non ora! - pensò tra se cercando di mascherare quel suo mancamento. Il paziente sussultò. - Maledizione, Luis prendi il defibrillatore….i battiti sono sempre meno intensi. - gridò cercando di destare il collega da uno strano torpore.

Luis afferrò il macchinario e lo caricò per indurre la scossa elettrica sul petto del ragazzo.

- Dai che ti riprendi…forza! - incitò Luis mentre gli dava la quarta scarica.

- Okay, ritmo sinusale normale, battito in aumento. Ti abbiamo ripreso. -

- Trish penso che si stia riprendendo! - affermò il medico guardando le dita del giovane muoversi e le labbra schiudersi.

- Signor Hutton ci sente? - chiese Trish cercando di capire se comprendesse o no dove si trovava.

- Sta cercando di dire qualcosa! - esclamò Trish Hamilton non riuscendo a comprendere cosa il ragazzo avesse sussurrato.

- Patty…- sibilò nell’orecchio della dottoressa che si era chinata su di lui per ascoltarlo. Rimase atterrita. Continuava a guardarlo cercando di capire. Il cuore le batteva sempre più velocemente.

- Signor Hutton mi sente? Sono la dottoressa Hamilton. Sa dove si trova? -

Il giovane aprì gli occhi e fu investito dalla forte luce della lampada che sovrastava il lettino sul quale giaceva dolorante.

- Cosa….é successo? - chiese a bassa voce cercando di muoversi.

- Non si muova. Ha avuto un incidente con la sua motocicletta. - asserì Luis. Carmen si avvicinò alla dottoressa con il portafoglio del calciatore.

- Guardi dottoressa, a parte un po’ di soldi e le carte di credito, c’è un cartoncino con dei numeri di telefono. -

- Bene, prova a chiamare questo dove c’è scritto Julian Ross. E’ il primo sulla lista. Chiedi se conosce Oliver Hutton e in caso affermativo di contattare i parenti e la squadra di calcio. -

- Guardi, c’è anche questa fotografia. - le disse avvicinandosi con la piccolo foto tra le mani. Ritraeva un Oliver Hutton adolescente, probabilmente di circa sedici anni ed una sua coetanea. Si guardavano e sorridevano. Dietro di loro un grande ciliegio in fiore. Carmen guardò la dottoressa.

- Lo sa dottoressa, secondo me questa ragazzina le somiglia. -

- Ma certo, e cosa ci farei io con Oliver Hutton? - le chiese quasi in maniera scontrosa.

- Beh…eppure..- sostenne mostrando la fotografia al dottor Arnau.

- Carmen ha ragione. Trish questa ragazzina ti somiglia. Perché non ci mostri una tuo foto da adolescente? Magari scopriamo che Oliver Hutton conosce una tua sosia! - disse quasi divertito. Trish lo fissò. La sua adolescenza. Quale adolescenza? Ne aveva mai avuta una? Abbassò lo sguardo e continuò quello che stava facendo.

- Carmen chiama in radiologia. Si muovono a portarci l’ RX portatile? - le intimò cercando di non perdere la calma.

- A volte siamo circondati da incompetenti. - sentenziò Luis Arnau.

- Già. -

- A che ora stacchi? - le chiese cercando di dare un tono alla loro conversazione.

- Alle diciotto, ma domani ho doppio turno. -

- Ti va di andare a mangiare qualcosa insieme stasera? Magari possiamo andare a degustarci un’ottima paella sotto i portici de L’Ambos Mundos! - le chiese guardandola.

- Ti ringrazio Luis, ma vorrei riposarmi. Ieri ho avuto una giornata massacrante e domani me ne aspetta un’altra. - rispose abbassando lo sguardo.

Non era la prima volta che Luis le chiedeva di uscire. Di rado aveva accettato e non si era mai mostrata troppo contenta della sua compagnia. Luis era un trentenne alto, sempre abbronzato con i capelli castano chiari che gli circondavano un ovale regolare. Le infermiere impazzivano per lui e per quegli occhi di un verde scurissimo. E doveva ammetterlo anche lei che era davvero un uomo piacevole. Eppure, non si sentiva attratta né da lui né da altri.

Si era trasferita a Barcellona da circa due anni. Dopo aver conseguito la laurea in medicina negli Stati Uniti aveva cominciato il suo internato al Saint James Hospital di Chicago. In seguito aveva vinto una borsa di studio per l’Europa. Aveva visionato più proposte, tra cui Londra, Parigi, Mosca, Berlino ma lei aveva preferito la Spagna perché c’era il mare.

Talvolta, soprattutto la domenica mattina, quando non era di turno, le piaceva correre lungo il mare e i giardini che costeggiavano la Barceloneta. Restava per ore a fissare il mare, il tramonto stemperarsi sulle onde, disperdendosi in miriadi di colori caldi. Ne assaporava le tinte, il profumo, la voglia di libertà che le incuteva.

Luis la guardava sempre più interessato. Non solo si era dimostrata sempre all’altezza della situazione ma era una donna estremamente enigmatica. E questo lo affascinava. Non si scomponeva mai, agli occhi di altri poteva sembrare superba, ma Luis era certo che dietro quella sua sicurezza si celava una donna passionale e bisognosa di affetto. Il suo fisico era longilineo con le curve nei punti giusti. Aveva dei lunghi capelli neri che portava sempre raccolti in uno chignon basso. No, non ricordava di averla mai veduta con i capelli sciolti o senza occhiali. Sembrava quasi una maschera la sua. Si chiedeva come mai una donna così avvenente non cambiasse il suo aspetto quotidianamente: lei sembrava aver scelto uno stereotipo da seguire, ed era quello che faceva.

- Dottoressa Hamilton, ho rintracciato quel tale Julian Ross. E’ un compagno di squadra del signor Hutton. Ha detto che avverte lui la famiglia e la squadra. -

- Benissimo. Carmen avverti in chirurgia che abbiamo stabilizzato il paziente e che lo portiamo su per terminare gli accertamenti. Se ho ragione, a giudicare da come si è gonfiato, potrebbe avere del liquido al ginocchio e sarà necessaria un’artroscopia. Chiedi l’ausilio del chirurgo ortopedico! Se è vero che si tratta di un campione di calcio, non possiamo certo trascurare la sua carriera! - dispose Trish guardando il paziente. Aveva gli occhi aperti ma sembrava stordito dall’incidente o forse dall’effetto degli analgesici.

- Signor Hutton. Le sue condizioni sono stabili. Adesso la mandiamo su in chirurgia dove le sistemeranno la gamba. Probabilmente, dopo una piccola operazione la ingesseranno e rimarrà in trazione per un po’ di tempo. - gli disse Luis Arnau. Oliver Hutton sembrava non ascoltarlo e non distogliere lo sguardo dalla dottoressa. Lei lo guardò e prima di risistemare le barre di protezione del lettino, gli sorrise.

- Potrò tornare a giocare? - chiese con un filo di voce. Continuava a fissarla e lei a guardare lui. Trish si portò una mano alla fronte. Ancora una fitta.

- Questo glielo potranno dire dopo l’operazione! - esclamò Luis allontanandosi per chiamare l’ascensore.

- Si….sente bene? - le chiese il calciatore notando quell’attimo di defaillance da parte del medico.

- Cosa? Ma certo! E’ stato solo un lieve giramento di testa. Grazie…- disse prima di entrare con la barella nell’ascensore. Luis li salutò con una mano lasciando che le porte dell’ascensore si chiudessero.

- Signor Hutton abbiamo avvertito un certo Julian Ross dell’incidente. Ha detto che avrebbe avvertito lui i suoi parenti e la squadra. -

Socchiuse le palpebre in segno di assenso.

- Vedrà che dopo l’operazione si sentirà meglio. Mi hanno detto che è un calciatore. Dovrà stare lontano dal campo di calcio per un po’ di settimane. Ma sono sicura che il dottor Velasquez riuscirà a rimetterla a posto in meno che non si dica. -

- Grazie,….Patty…- sibilò richiudendo le palpebre.

Le porte si aprirono e Trish, con l’aiuto di un inserviente spinsero la barella fino all’anticamera della sala operatoria che avevano preparato.

- Mi allontano un attimo. Vado a ragguagliare i medici sulle sue condizioni! - gli disse. Sebbene la guardasse, il suo sguardo sembrava assente.

Trish entrò nella stanza di sterilizzazione e ragguagliò i colleghi circa le condizioni del calciatore.

Dopo circa un quarto d’ora, Oliver Hutton entrò in sala operatoria.

Oramai le diciotto erano passate da un pezzo. Trish ripose il camice e lo stetoscopio nel suo armadietto, indossò il cappottino in renna e afferrò la borsa. Richiuse l’armadietto e cercò le chiavi di casa nella borsa. Le afferrò e uscì dal salottino. Si avvicinò al bancone accettazione del pronto soccorso e al telefono compose l’interno di chirurgia.

- Sono la dottoressa Hamilton, dal Pronto soccorso. Volevo sapere se Oliver Hutton è uscito dalla sala operatoria. - chiese all’interlocutore. Rimase in attesa qualche minuto prima che l’uomo tornasse al telefono.

- Sì dottoressa, circa venti minuti fa. E’ ricoverato qui in chirurgia. Le sue condizioni sono stazionarie. -

- Bene. E’ venuto qualche familiare? -

- Sì, la madre è qui insieme ad alcuni dei compagni di squadra e all’allenatore. -

- Benissimo. Grazie per le informazioni. - concluse la conversazione uscendo poi dal pronto soccorso.

Quel giorno si sentiva tremendamente malinconica. Piovigginava, oramai si era in autunno inoltrato e le giornate si stavano rinfrescando. Scese dalla metropolitana e percorse di corsa i due isolati che la dividevano dal palazzo in cui viveva. Al terzo piano di quello stabile, aveva preso in affitto un appartamento di due vani, abbastanza grande e sufficiente per le sue esigenze. Inserì la chiave nella serratura e la fece girare. Appena dentro accese la luce e appoggiò sul divano la giacca e la borsa. Accese il computer portatile sullo scrittoio ed avviò la connessione internet per scaricare la posta elettronica. Andò in camera da letto e si buttò a peso morto sul letto. La stanchezza stava prendendo il sopravvento. Girò il capo verso il comodino e guardò la sveglia. Era il dodici ottobre. Qualcuno, qualche tempo addietro le aveva detto che il dodici ottobre era il suo compleanno. Il notifier vocale le annunciò che c’era posta in arrivo. Si alzò e andò a visionare i messaggi..

- Trish, ciao tesoro. Ti volevamo fare tanti auguri per il tuo compleanno. Come stai? Perché non ti fai mai sentire? Se lavori tanto ti affaticherai. Se sei in casa per favore, rispondi. Possibile che io non riesca ad avere il tuo numero di cellulare per poterti raggiungere, ovunque tu sia? Scusami, non dovrei rimproverarti, so bene che sei autonoma. Ancora auguri, tesoro. -. Chiuse gli occhi per cercare di allontanare la voce della madre che le sembrava di aver udito leggendo quel messaggio.

Sua madre? Chissà se lo era davvero. Da circa dieci anni non sapeva più nulla del suo passato. Ricordava solo di essersi risvegliata in un letto di ospedale dopo quattro mesi di coma, con una donna accanto che diceva di essere sua madre. Le avevano detto che era stata vittima di un incidente nel quale aveva riportato un grave trauma cranico che le aveva provocato la perdita della memoria. Da allora la sua vita era cambiata. Ricordava che quel giorno d’autunno, quando finalmente i medici la dimisero, non andarono a casa ma all’aeroporto. Non capiva nulla di quello che stava succedendo. Seguiva quella coppia di adulti che dicevano di essere i suoi genitori senza parlare, senza neppure pensare a quello che stava succedendo. Era priva di una sua identità. In fase di atterraggio, la hostess disse ai passeggeri che stavano per giungere a Chicago. Ed era lì che aveva trascorso gli anni prima di trasferirsi a Barcellona.

Si alzò e camminò per la casa quasi in cerca di qualcosa. Il suo appartamento era completamente anonimo. Non c’erano ne fotografie ne libri, ne cd musicali ne videocassette con gli ultimi film trasmessi al cinema. Nulla, assolutamente nulla. Sospirò. Era l’ennesima crisi d’identità che prendeva forma.

- Perché non riesco ad accettare questa mia vita? Perché vorrei tanto scoprire chi ero prima dell’incidente? Perché i miei genitori dicono solo che ero un’alunna perfetta, timida, introversa, a cui non piaceva lo sport e cose del genere? Possibile che fossi così piatta già da allora? Possibile che in tutta la mia vita l’unica cosa di buono che sia riuscita a fare sia stato laurearmi in medicina? - sospirò sedendosi sul divano alla penombra della luce del lume acceso in camera da letto. Sollevò le ginocchia e le strinse al petto quasi in segno di protezione. Di tutto quello che era successo, la cosa che meno accettava era proprio sua madre. Sin da dopo l’incidente era diventata la sua ombra. Le acquistava gli abiti, i testi da leggere, la consigliava su tutto, praticamente viveva la sua vita. Fino a quando non decise di iscriversi all’università di Chicago e di frequentare medicina. I suoi genitori erano rimasti molto entusiasti di quella sua scelta, meno però dei cambiamenti che la figlia stava subendo. Diventava sempre più introversa e parlava poco. Studiare sembrava il suo unico interesse anche se la loro preoccupazione era proprio l’assenza di dialogo. Tutto era filato nella più ipocrita perfezione fino a due anni prima, quando Trish aveva deciso di lasciare i suoi genitori.

- Cos’hai detto Trish? - chiese suo padre drizzandosi dalla poltrona. Il giornale gli cadde sul pavimento. Il suo viso era adirato.

- Quello che hai sentito. Qualche mese fa ho fatto domanda per un concorso interno. Andrò all’estero, in Europa. -. Sua madre era pallida come un cencio.

- Non dirai sul serio. Tu non puoi partire. Non stai bene? - le disse afferrandole un braccio.

- Io sto benissimo. Mi sono laureata in poco tempo con il massimo dei voti ed esercito la professione medica già da quando era studentessa. Se ho ottenuto questi risultati è stato perché ero lucida di mente. - rispose sciogliendosi dalla presa.

- Tu non puoi andartene dopo tutto quello che è successo, dopo quello che noi abbiamo fatto per te! -. Le parole della madre le risuonavano ancora in mente. Forti, brutali, sprezzanti.

Fu proprio in quel preciso istante che decise che non sarebbe più tornata indietro. Doveva rompere la campana di vetro sotto la quale l’avevano rinchiusa anni prima.

- Vi ringrazio per l’avermi rinchiusa in una teca di cristallo dalla quale non potevo uscire. Non solo non ricordo nulla del mio passato, di come è accaduto l’incidente, di quelli che forse erano i miei amici, ma da quando siamo arrivati qui mi avete soffocato con le vostre fobie circa la mia salute. Io sto bene. Frequentando il college ho anche fatto attività sportiva, ovviamente a vostra insaputa perché mi avreste ostacolato anche in questo. Cosa volete da me? Il mio bene? Allora lasciatemi vivere. Io non ce la faccio più a stare qui con voi. Mi dispiace, ma io…devo andar via. -

- Trish ti rendi conto di quello che stai dicendo? Se tu non avessi avuto noi…

- Ma cosa diavolo stai dicendo. A me sembra una cosa naturale, che un genitore si occupi del proprio figlio, senza rinfacciarglielo. Per anni mi avete ripetuto le solite cose, che dovevo riguardarmi, che ero cagionevole di salute, che avrei dovuto condurre uno stile di vita tranquillo senza provare particolari emozioni! Perché? Perché io non posso vivere come le altre ragazze della mia età? Sono in buona salute e lo dimostrano gli accertamenti medici che mi faccio costantemente. Siete voi che mi volete come una bella statuina. Non ho conseguito la laurea in medicina per riporla nel cassetto. Ho diritto anch’io alla mia vita. Ho già perso il passato, lasciatemi costruire il mio futuro. -

- Tu non puoi farci questo! - sentenziò Jim.

- E da quando ti preoccupi dei miei sentimenti? L’ultima volta che l’hai fatto, mi hai affibbiato il figlio idiota di un tuo superiore, solo ed esclusivamente per fare carriera! - rispose quasi urlando puntandogli il dito contro. Sua madre continuava a guardarla quasi attonita cercando di riordinare le idee per poter dire qualcosa. Non la vedeva così da tanto tempo, tanto che aveva dimenticato la sua irruenza e la sua voglia di libertà.

- Mi hai quasi fatto perdere il posto? -

- Ti preoccupi ancora di quella storia? Dovrei farlo io visto che mi sono trovata ad essere l’oggetto di una serata piacevole tra tre amici. Devo ricordarti che per poco non mi hanno violentata? Oppure devo continuare a pensare che avresti voluto esserci anche tu? -

- Smettila di dire idiozie. -

- Tu non sei mio padre, quindi taci per quanto riguarda la mia vita. - gli disse guardandolo quasi con odio. Non gli aveva mai perdonato quell’avventura meschina che l’aveva lasciata cadere in un baratro buio e tetro dal quale era risalita solo grazie alle sue forze.

- Se esci da questa casa non ci metterai più piede. - tuonò Jim infervorato dalle parole di astio e odio pronunciate dalla figlia adottiva.

- Aspetta Jim…- sussurrò sua madre cercando di sedare gli animi e di riprendere l’autocontrollo perduto. - Trish tesoro…cercheremo di cambiare atteggiamento…-

- Ormai ho deciso. Me ne vado…-

- Ma dove andrai? - esclamò in tono supplichevole.

- Ovunque purché sia lontano da qui…

- Ci odi fino a questo punto? - le chiese supplichevole.

- Non vi odio: voglio solo vivere. Penso di averne diritto. Vi ho chiesto tante volte di parlarmi del mio passato. Siete sempre stati evasivi e non ho mai scoperto il perché. Dato che il mio passato è oscuro, vorrei far luce almeno sul mio futuro. Argomento chiuso. -

- Trish, pensaci. Ti prego. -

- Ho già deciso. - disse risoluta andando in camera sua. Il suo risentimento era tale da spingerla ad andar via pur di non restare in un ambiente quanto mai opprimente ed asfissiante.

Con la mente percorse i singoli attimi che avevan preceduto la sua partenza da quella litigata con i suoi genitori. Aveva preparato i suoi bagagli da giorni attendendo con trepidazione il giorno della partenza. Ricordava come il giorno della sua iscrizione al concorso, leggendo le varie destinazioni, era rimasta affascinata da Barcellona. Si era iscritta ad un corso serale di spagnolo e si sentiva preparata a quell’esperienza che avrebbe mutato il suo futuro. Aveva studiato con impegno e assiduità pur di coronare il suo sogno di fuga, per mettere alla prova le sue conoscenze e le sue capacità. Jason Mulder. Fu lui, il suo compagno di corso a darle la notizia.

- Trish, finalmente ti ho trovata. - le disse senza fiato. Aveva corso lungo i corridoi dell’ospedale. Voleva essere il primo a darle la notizia.

- Cos’è successo? Riprendi fiato o ti verrà una crisi! - gli rispose incitandolo a calmarsi.

- Tu…ce l’hai fatta. - le disse regalandole il più bel sorriso che lei avesse mai ricordato.

- Cosa? -

- Hai vinto la borsa di studio! Sei arrivata prima! - esclamò prendendola tra le braccia e facendola volteggiare in aria. Istintivamente la baciò con ardore e lei rispose a quel gesto affettuoso di colui che era diventato il suo più grande amico. Dopo che anche lei si rese conto della splendida notizia, andarono a festeggiare in una birreria irlandese e tra una bevuta e l’altra, si risvegliarono nel letto dell’appartamento di Jason.

- Stai andando via? - le chiese guardandola mentre si alzava dal letto, nello splendore della sua nudità. Era successo ancora una volta. Trasportati dalle emozioni, dall’energia del momento, dall’attimo, si erano riscoperti amanti ma solo ed unicamente amici. Almeno per lei.

Un tuono la riportò alla realtà. Jason Mulder. Sorrise al ricordo dell’ amico e del compagno di alcune notti. Il suo ovale regolare, i suoi occhi scuri sempre vigile, le labbra carnose di un rosso ciliegia. Le sue grandi e protettive braccia. A lui aveva confidato i dubbi sul passato, i silenzi della sua vita, i progetti sul futuro. Quella era stata la loro ultima notte. Poi era andata via lasciandogli solo una lettera nella quale si congedava da quel capitolo della sua vita.

Chiuse gli occhi cercando di assaporare la sensazione del suo ultimo passionale bacio scambiato prima di andar via. Gli aveva detto addio per sempre, per ricominciare una nuova vita.

Era il giorno del suo compleanno.

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Capitolo 2
*** Incontri e scontri ***


CAPITOLO 2

 

 

 

Incontri e scontri

 

 

La ragazza era riversa sulla strada. La pioggia battente non riusciva a disperdere la pozza di sangue sotto il suo corpo. Vide un ombra correre verso la giovane, il capo coperto dal cappuccio della felpa.

La guardò ancora e fu pervasa da un senso di indefinita tristezza. Inconsapevolmente, senza alcuna ragione, cominciò a piangere. L’uomo si avvicinò alla figura distesa sull’asfalto. La prese tra le sue braccia e cercò di smuoverla. Rimase in attesa di un suo movimento, ma non vide il benché minimo segno di vita. Scosse il capo e il cappuccio si riversò sulle sue spalle. Alzò il capo al cielo urlando mentre le sue lacrime amare si mischiavano a quelle del cielo. Lo guardava attonita. Non riusciva a distogliere lo sguardo da quel giovane, da Oliver Hutton mentre disperato stringeva a se la ragazza urlando inconsolabilmente il suo nome: Patty.

 

Continuava a rigirarsi nel letto disturbata dai suoi soliti incubi. Un’improvvisa sensazione di freddo la destò. Si levò improvvisamente a sedere sul letto. La fronte madida di sudore, il battito accelerato. I suoi incubi la angosciavano ancora di più.

Oliver Hutton. Era arrivato ferito il giorno prima e lei lo aveva curato. Cosa ci faceva nel suo sogno? Perché si disperava dinnanzi alla morte di quella ragazza di cui lei non riusciva mai a vedere il volto? Guardò la sveglia. Erano le cinque. Nell’arco di un’ora sarebbe squillata ricordandole che alle sette e trenta doveva essere in ospedale.

Si passò le mani tra i capelli nel ricordo ancora vivo di quel sogno. Perché proprio lui? Patty. Quel nome. L’aveva pronunciato anche il giorno prima e l’aveva chiamata così. Perché?

- Forse si tratta della sua ragazza e per questo la cercava ieri. Ma allora perché mi è venuto in sogno? Non ci capisco più nulla. Continuo a chiedermi se tutti questi incubi, il mio mal di testa, fanno parte di reminiscenze del mio passato. -. Si voltò verso la finestra. Il vento l’aveva spalancata e adesso spirava gelido nella sua stanza da letto. Rabbrividì, ma era ben cosciente che non si trattava di freddo. Chiuse gli occhi e fece una smorfia di dolore. Non capiva nulla di quello che le stava accadendo. Scostò le coperte e si alzò dirigendosi in bagno.

Si soffermò a guardare il lungo specchio dietro la porta del bagno. Si spogliò continuando a rimirare le forme perfette del suo corpo. Da qualche anno, con una certa assiduità, faceva jogging per mantenersi in forma. I capelli lunghi e scuri ricadevano sul biancore etereo della sua pelle creando un contrasto evidente e sensuale. Era bella, molto, ma lei non si sentiva tale. I suoi grandi occhi nocciola sembravano inespressivi, inanimati e spesso erano annebbiati dalle sue lacrime. Tanti uomini le avevano detto che era splendida, ma lei aveva amato solo Jason, seppure come un amico. Non era riuscita a provare neanche per lui quel grande sentimento che in molti chiamavano amore, a lasciarsi trasportare in un turbine di emozioni e passione. L’aveva amato, e basta. Non aveva sofferto per averlo lasciato, tale era il suo anelito di libertà.

 

Trish sospirò cercando di riprendere l’autocontrollo e si infilò sotto la doccia nella speranza che potesse alleviare il senso di ansia che la avvolgeva.

 

 

- Buongiorno dottoressa Hamilton! - disse l’infermiera incrociandola all’ingresso del reparto ortopedia. Non appena si era liberata, si era diretta in quel reparto dove dal giorno prima era stato ricoverato il calciatore Oliver Hutton. Voleva sapere se incontrarlo ancora una volta gli avrebbe provocato lo stesso effetto dell’incubo di quella notte.

- Buongiorno. Qual è la stanza di Oliver Hutton? - chiese regolando gli occhiali sul naso.

- La numero 218, in fondo al corridoio. Ci sono visite per lui. -

- Bene grazie. - rispose congedando l’infermiera. Era quasi mezzogiorno. Il suo cerca persona squillò e si fermò in corridoio per richiamare il pronto soccorso.

- Chi mi ha cercata? - chiese con tono professionale.

- Il dottor Arnau. E’ qui, glielo passo dottoressa. -

- Sì, grazie, Miguel. -

- Trish! -

- Dimmi Luis. Problemi? -

- Nulla di grave. Volevo solo sapere se avevi già provveduto a far ritirare le analisi complete del signor Aribau. Ho qui la moglie…

- Già ritirate. Ho aggiornato anche la sua cartella. La trovi nello schedario. -

- Sapevo che di te potevo fidarmi. -

- Ma va? Adesso giudichi anche il mio lavoro? - gli chiese in tono ironico.

- Dovresti saperlo che sei la mia preferita. Anzi, visto che ieri hai rifiutato l’invito a cena, ti va di pranzare insieme nella nostra meravigliosa, calda, insuperabile e quanto mai schifosa mensa? - le chiese sarcastico.

- Okay. Non appena mi libero ti chiamo. -

- Dove sei? -

- Ortopedia. -

- Oliver Hutton! Non ti sarai mica presa una sbandata per il personaggio famoso? -

- Luis non dire scemenze. Come potrei infatuarmi di una persona che neppure conosco? -

- Effettivamente da te non mi aspetterei un comportamento del genere. Anche perché non sarebbe giusto nei miei confronti, vista la corte spietata che ti faccio. -

- Smettila di dire scemenze e torna al lavoro. Gli sto riportando gli effetti personali. Ci vediamo dopo. -

- Sì, amore mio. - concluse canzonando la collega. Trish sorrise alle battute infantili ma piacevoli del noto Casanova dell’ospedale. La sua compagnia era piacevole e gli ricordava il suo amico Jason. Proprio perché vittima del suo ricordo, temeva di poter ripetere gli stessi errori, illudendo l’amico di un amore improbabile.

Non appena si voltò, si imbatté in una coppia di ragazzi che attendendo di entrare nella stanza del calciatore. Le due ragazze si guardarono. Trish da un lato, avvolta nel camice bianco, con i capelli scurissimi raccolti nel classico chignon, gli occhiali da riposo sempre sul naso. L’altra invece, era una ragazza più o meno della sua stessa altezza, snella e dal portamento aggraziato. L’ovale chiaro era incorniciato da una chioma castano ramata che morbidamente le scendeva sulle spalle. Non avrebbe mai dimenticato quel suo sguardo fisso su di lei, i suoi occhi sgranati che la guardavano, mentre il mazzo di fiori le scivolava via dalle mani posandosi sul pavimento del corridoio. E lui la guardava nella stessa maniera. Sembravano entrambi catturati dalla sua immagine, incapaci di fare un minimo movimento o pronunciare il più piccolo sibilo. La ragazza dai capelli rossi tremava e tentoni si aggrappò al braccio di lui.

Trish ebbe un fremito, proprio come durante l’incontro con Oliver Hutton.

- Posso aiutarvi? - chiese loro cercando di interrompere quello stato di strano torpore.

- Pat…Patty! Sei tu! - sussurrò lei con le lacrime agli occhi.

- Prego? Ha detto qualcosa? - le chiese guardandola con maggiore curiosità.

- Tu…tu sei…Patty! - le disse ancora una volta.

- Mi dispiace, temo mi stia confondendo con qualcun altro. Mi chiamo Trish Hamilton, non Patty! - rispose cortesemente senza distogliere lo sguardo dalla coppia.

- Ma…io sono Amy e lui…Julian Ross. -

- Signora, sono davvero spiacente ma non sono la persona che crede lei. Evidentemente ci somigliamo ma, le assicuro che mi chiamo Trish Hamilton. Ora scusatemi, devo vedere un paziente. - disse loro lasciandoli senza parole. Prima che potesse girare la maniglia, un uomo seguito dal dottor Velasquez aprì la porta.

- Dottoressa Hamilton, cercavo proprio lei! - disse il dottor Velasquez evidentemente inasprito dal colloquio con l’uomo che l’aveva preceduto.

- Mi dica dottore. -

- Il signor Gomez è il procuratore del signor Hutton. -

- Piacere di conoscerla. - gli disse ponendogli la mano in segno di saluto. L’uomo gliela strinse ma era palesemente adirato. - Cosa posso fare per voi? - chiese per nulla intimorita dall’espressione cagnesca.

- Il signor Velasquez è adirato con noi perché siamo intervenuti tempestivamente sul signor Hutton senza prima consultare lo staff medico della squadra. Il signor Hutton è un calciatore professionista molto noto e le sue gambe valgono parecchi milioni di euro. -. Trish aveva ascoltato i commenti del primario di ortopedia e aveva compreso dal suo sguardo che era alquanto tediato da quel comportamento poco coerente con la loro mentalità.

- Signor Gomez, mi sono occupata io del primo soccorso del signor Hutton. Sebbene le sue condizioni non fossero gravi, a causa del trauma dovuto alle cadute e al dolore procuratogli dalle ferite, è svenuto. Non solo. Il battito del cuore ha cominciato a rallentare e abbiamo dovuto utilizzare il defibrillatore per ristabilire il ritmo normale. Di fronte a tutto questo, secondo lei era opportuno attendere che qualcuno di voi fosse contatto e venisse subito. E comunque, sapendo che si trattava di uno sportivo, abbiamo richiesto esami complementari a quelli di routine e più specifici per accertarci che una caduta rovinosa avesse procurato danni a legamenti o altro. - disse Trish sicura e preparata sull’argomento.

- Infatti, come le ho già detto, dall’esame artoscopico è risultato solo un lieve distacco della cartilagine rotulea. Abbiamo fatto quello che era necessario. Il signor Hutton dovrà rimanere ingessato per qualche settimana, e con la gamba in trazione non correremo il rischio di rigetti. Per quanto concerne il trauma cranico, è di lieve entità e non ha procurato alcun danno cerebrale. - concluse il dottor Velasquez visibilmente più rilassato dopo l’ampio prologo fatto da Trish.

- Oramai è fatto. Avrei preferito consultare prima altri specialisti. -

- Signor Gomez, solitamente ci occupiamo di feriti ben più gravi e generalmente salviamo loro una vita. Mi sembra davvero eccessiva la sua preoccupazione. In questo ospedale i malati sono curati in maniera eccellente e indistintamente, sicuramente non in base al nome, al titolo o a raccomandazioni. - esplose Trish cercando di mantenere la calma ma pur sempre seccata dal comportamento di quell’uomo.

- Me lo auguro per voi. In ogni caso predisporrò il trasferimento del signor Hutton. -

- Faccia come crede, fin quando resterà, sarà ben curato. Con permesso. - gli disse aprendo la porta della stanza di Oliver Hutton. Aveva visto il sorriso sulle labbra del primario. Condivideva le sue idee e quanto Trish aveva declamato al procuratore.

 

Il volto girato verso la finestra. Rimirava silenziosamente il paesaggio oltre i vetri cercando forse di assaporare la fresca giornata di ottobre. Il vento ululava tra le fronde dei platani facendo ondeggiare le fogli al suo ritmo. Aveva la stessa impressione del giorno prima, del sogno di quella notte: lui era triste, malinconico. Perché un giovane attraente, rampante come lui doveva sentirsi così mesto? Richiuse la porta alle sue spalle destandolo dai pensieri. Si voltò lentamente verso di lei e la guardò con più attenzione rispetto al giorno prima. Quegli occhi sembravano perdersi nei suoi. Ebbe un fremito. Non ricordava se qualcuno l’aveva mai guardata con la stessa attenzione, premura, forse eccitazione. Gli incuteva timore o probabilmente qualche altra strana, inspiegabile sensazione! Ma quale? Non era paura la sua, non temeva l’aggressione o il comportamento scorretto di Hutton. Ma nella sua espressione c’era qualcosa che la incuriosiva e al tempo stesso preoccupava. Smosse le labbra e fievolmente pronunciò qualcosa.

- Patty! -. Trish assottigliò gli occhi per guardare meglio l’immagine dinanzi ai suoi occhi. Una copia di adolescenti sorridenti che si rincorrevano. Un flashback. Negli ultimi tempi le capitava sovente di avere dei flashback che all’improvviso comparivano ai suoi occhi come immagini confuse. Scosse il capo. Oliver Hutton la fissava. Ripeté quel nome quasi eccitato. Gli occhi sgranati su di lei in preda all’euforia di quell’attimo.

- Signor Hutton, io mi chiamo Trish Hamilton. L’ho già detto ai suoi amici. Evidentemente somiglio a questa persona di nome Patty. -

- No. Non può essere così. Tu sei Patty, la mia Patty! - esclamò non convinto dell’affermazione della dottoressa.

- Le ripeto che mi chiamo Trish Hamilton! - sentenziò quasi infastidita da quelle continue insinuazioni sul suo nome. Si avvicinò al letto e gli diede una busta.

- Sono venuta per consegnarle i suoi effetti personali. - gli disse spiegando la ragione della sua visita. Non era vero. Era solo una scusa e lei lo sapeva. C’era qualcosa in quel ragazzo che la attirava. Oliver abbassò lo sguardo afferrando la busta. Lei prese la cartella clinica al bordo del letto e cominciò a scorrerla velocemente in attesa che il giovane controllasse che i suoi effetti fossero interamente contenuti nel sacchetto. Alzò leggermente lo sguardo su di lui. Gli oggetti erano sparsi sul copriletto: tra le mani tratteneva solo la fotografia e il braccialetto di cui le aveva parlato Carmen. Non staccava gli occhi da quella foto. La sua mano tremava.

- Patty! Per un attimo ho pensato che tu fossi tornata da me. Non c’è giorno che non ti pensi, che ti cerchi nella mia quotidianità, nella mia vita oramai così monotona da quando non ci sei più. Sono disperato. Sei andata via senza dir nulla, forse per punirmi del mio egoismo, senza lasciarmi la possibilità di spiegarti. Mi hai abbandonato al nulla e adesso mi ritrovo qui, in un letto di ospedale, con il tuo fantasma di fronte a me. Ti somiglia. Tanto. Sono certo che se si sciogliesse i capelli e si togliesse gli occhiali, sareste identiche. Ma come faccio a dirlo? L’ultima volta che ti ho vista, avevi sedici anni. Perché non riesco a chiudere gli occhi e ad abbandonarmi all’oblio? Perché ogni giorno cerco la ragione per andare avanti senza di te? Piccola stella mia, quanto vorrei rivederti, almeno, solo per un piccolissimo attimo. - pensò continuando a rimirare quell’immagine. Trish l’aveva guardato costantemente. Possibile che il sentimento per quella ragazza fosse tale da indurlo ad essere così nostalgico? Provò compassione per lui. Si avvicinò di nuovo al suo letto.

- Ha trovato tutto? - gli chiese senza pretendere che la guardasse.

- Non lo so, e comunque non ha importanza. Ho trovato quello che volevo. - disse stringendo la foto e il braccialetto. Era una catenina in argento con appesa una iniziale. Era una “P”.

- D’accordo. Allora, io vado via. Ci sono dei suoi amici, posso farli entrare? -

- Le hanno detto chi sono? -

- Se non ho capito male, Julian Ross ed una certa Amy. -

- Sì, va bene. - rispose in tono distaccato. Trish lo guardò ancora e poi gli voltò le spalle. - Grazie! - aggiunse prima che la donna si congedasse.

 

Quando Amy e Julian entrarono, trovarono Holly ancora impegnato a rimirare la fotografia.

- Come stai? - gli chiese Julian cortesemente.

- Bene, grazie Julian. Gomez dice che mi vuole far dimettere e trasferire a casa così potrò stare più tranquillo. -. Amy si era avvicinata alla finestra e guardava il cortile estraniata dal mondo interno. La guardarono entrambi. Julian sapeva cosa stava provando. Aveva visto la sosia della sua cara amica Patty, la ragazza di cui uno dei suoi migliori amici era disperatamente innamorato.

- L’hai vista! - esclamò rivolgendosi all’amica. Chinò il capo in segno di assenso e strinse i pugni.

- E’ lei. - disse Holly guardando nel vuoto.

- No. Lei è Trish Hamilton. -

- No Amy. Sono sicuro che sia lei. -

- Holly non dire stupidate. Se si fosse trattato di lei, ci avrebbe riconosciuti. - ribatté seccamente cercando di convincersi che effettivamente non si trattava dell’amica.

- L’istinto mi dice che è lei. -

- Amy ha ragione. Patty non era così fredda e distaccata. Lei era adorabile, gioiosa, allegra…lei era la nostra Patty e tu dovresti fartene una ragione. -

- Sai bene come la penso a tal proposito. Fino a che non la troverò, o qualcuno non mi dirà che è morta, non mi darò pace. -

- Holly, non puoi continuare a vivere con il suo fantasma. Lei non c’è più. Se ne è andata dieci anni fa al tuo ritorno dal Brasile. Nessuno ha più notizie di lei da allora. Non è più tornata a Fujisawa e in quella che era la sua casa, ci abita da allora un’altra famiglia. -

- Patty non sarebbe mai andata via senza una ragione. -

- Mi sembra inutile parlarne perché il tuo cuore ha già deciso. Vuoi continuare a tormentarti? Fallo pure amico. Non hai il diritto di soffrire così tanto. Hai perso l’entusiasmo, sei diventato una macchina che gioca a calcio per dovere e non per il piacere di stare con quello che una volta era il tuo migliore amico. Lei non tornerà Holly, fattene una ragione! - ribadì risoluto Julian. Holly non parlò ed Amy continuò a fissare il paesaggio oltre la finestra. Come l’amico, non aveva mai perduto la speranza di trovare la sua cara amica Patty.

- Anche se non tornerà, lei rimarrà sempre con me! - sussurrò accompagnato dalle lacrime di Amy che lentamente le stavano scivolando giù per le gote.

 

 

Trish percorreva il corridoio quasi soffocata da quella sensazione di angoscia che avevano pervaso le quattro mura. Aveva avvertito la stessa sensazione del sogno, la medesima malinconia. Si toccò la fronte sudata. Aveva la strana impressione che le loro vite si stessero intrecciando! Qualcosa li accomunava, forse la tristezza delle loro vite oramai piatte e prive dei migliori sentimenti un po’ per scelta, un po’ per l’incessante procedere degli eventi. Oliver Hutton si sarebbe ripreso facilmente dalle ferite riportate nell’incidente, ma Trish sapeva che la ferita che aveva al cuore, non si sarebbe mai rimarginata. Andò in bagno e si guardò allo specchio.

Cosa aveva lei di tanto somigliante con la ragazza che cercavano? Possibile che i loro tratti somatici fossero tanto simili e che tutte le persone che ruotavano attorno a Oliver Hutton la scambiassero per la misteriosa Patty? Si portò una mano al viso accarezzando la pelle morbida. Quale grande sentimento aveva legato quel giocatore alla ragazza? Possibile che il destino era stato così cruento e ingiusto da dividerli? Più pensava a lui, più accresceva il desiderio di sapere cosa angosciava Oliver Hutton.

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Capitolo 3
*** L'essenza dell'anima ***


CAPITOLO 3

 

L’essenza dell’anima

 

 

 

I giorni trascorrevano nella più grigia routine e saltuariamente, Trish andava a visitare Oliver Hutton che per qualche strana ragione aveva deciso di rimanere in ospedale. Anche nei giorni successivi al loro primo vero incontro, lei aveva provato le medesime sensazioni: il cuore avvolto in uno strano e quasi disperato tumulto. Era così che stava vivendo la sua degenza. Inspiegabilmente, soffriva per quel ragazzo. Lo vedeva sempre mesto e alla ricerca della solitudine e del silenzio. Spesso si soffermava a guardare la sua finestra dal giardino e senza saperlo, era il momento in cui anche lui la guardava. Quando le giornate erano belle e soleggiate, Trish consumava il suo pranzo seduta su una panchina all’ombra degli alti platani.

Lui la rimirava rinchiusa nei suoi segreti, nell’aurea misteriosa che pareva circondarla. Era sicuro di aver trovato la sua Patty e dal giorno in cui si erano parlati, non aveva smesso di seguirla con gli occhi e con la mente. Per questo motivo aveva chiesto al suo procuratore di rimanere ricoverato in ospedale.

E anche quel mezzogiorno, mentre il sole splendeva nel cielo terso, la vide lì, seduta sulla panchina, che leggeva all’ombra del platano. Rivide la sua Patty seduta all’ombra del grande ciliegio, tante volte testimone delle loro chiacchierate e del loro ultimo incontro. La ricordò mentre i grandi occhi nocciola si perdevano nei suoi, le stringeva la mano per sigillare l’intensità del momento.

Trish Hamilton. Non sembrava una persona gioiosa eppure, nei giorni che erano seguiti, durante i loro sporadici incontri, gli aveva dimostrato di essere dolce e premurosa. Questa sua tendenza aveva rafforzato il pensiero di Holly che si trattasse della sua Patty. Ma allora, perché mai avrebbe continuato a vestire l’identità di un’altra persona? La sua Patty sarebbe stata contenta di vederlo, ne era sicuro.

- Signor Hutton, perché non va a fare una passeggiata in giardino? - gli chiese il primario visitandolo. Era in ospedale da circa quindici giorni e la sua degenza progrediva di giorno in giorno. Entro pochi giorni gli avrebbero tolto l’ingessatura e dopo aver ripetuto gli esami, avrebbe dovuto iniziare la fisioterapia ortopedica. Se tutto fosse andato per il meglio, il primario gli aveva assicurato che prima di Natale sarebbe sceso nuovamente sul terreno di gioco.

- Pensa sia una buona idea? - gli chiese guardandolo.

- Certamente. Deve cominciare ad abituarsi all’idea di alzarsi indipendentemente dai suoi bisogni fisiologici. Oggi è una bella giornata e l’aria è calda. Se vuole l’accompagno. - gli disse indicando la porta. Oliver lo guardò e pensò che non era affatto una cattiva idea uscire per prendere un po’ d’aria fresca. Impacciato e movendosi lentamente, riuscì a mettere entrambe le gambe per terra. Il medico gli passò la vestaglia che indossò facilmente. Afferrò le stampelle imbracandole sotto le braccia e preceduto dal primario, iniziò adagio a camminare verso il corridoio. Finalmente, poteva alzarsi per andare in un posto che non fosse la toelette. Gli sembrava di aver respirato una boccata d’aria pulita. Si guardava intorno cercando di memorizzare i luoghi che stava percorrendo. Quando finalmente arrivarono all’esterno dell’edificio, Oliver alzò gli occhi al cielo e fu colpito dal luminoso bagliore del sole. Chiuse gli occhi accecato e assaporò la frizzante aria ottobrina sentendosi già meglio.

La vide ancora seduta lì, romanticamente e splendidamente immersa nei suoi pensieri, nel suo sognare, nel lungo viaggio oltre la realtà.

La rivedeva ancora seduta all’ombra del ciliegio mentre la brezza ondeggiava dolcemente tra i suoi capelli scuri. Trish li portava sempre legati. Mentre timidi spicchi di sole si riflettevano sulla sua pelle candida. Dov’era? Era inevitabile pensare a lei. Ogni più piccolo gesto, la più timida sensazione, le ricordavano il grande amore della sua vita.

Lentamente si avvicinò alla dottoressa memorizzando ogni singolo tratto di quel volto tanto somigliante a quello dell’amata. Nulla. Era leggermente differente perché più maturo, lontano dall’adolescenza che avevano trascorso insieme.

Rimase a guardarla in silenzio. La discesa lenta di una foglia secca sul suo libro sembrò destarla dall’atmosfera ovattata in cui pareva giacere. Alzò lo sguardo verso di lui e istintivamente gli sorrise. Non le capitava spesso, ma con lui sì. Imbarazzato cercò di sedersi ma perse l’equilibrio cadendo. L’improvviso intervento di Trish attutì quella che altrimenti si sarebbe rivelata una caduta rovinosa.

Faccia a faccia, l’uno nelle braccia dell’altra. Poteva sentire il suo respiro vicino il viso, i suoi occhi scrutare curiosi ogni minimo particolare del suo ovale perfetto. Il cuore batteva veloce al ritmo dei pensieri che confusi si accavallavano gli uni sugli altri. Il suo sguardo dentro di lei. Così profondo, audace, sembrava quasi volerla spogliare di quella maschera che con consuetudine vestiva. Avvertì l’impulso di buttargli le braccia al collo e baciare quelle labbra vogliose. Schiuse le palpebre per riprendersi dall’attimo di defaillance. Non l’aveva lasciata neppure per un secondo.

- Sta bene? - gli chiese cercando di ricomporsi e aiutandolo ad alzarsi. Si sedettero entrambi sulla panchina. - Le fa male da qualche parte? -

- Ho l’impressione che si siano accavallati i nervi del braccio! - le disse con una smorfia di dolore. Gli si avvicinò alzando la manica del pigiama e della vestaglia fino alla spalla. Posò le sue mani sul braccio intorpidito. Una sensazione di immediato calore lo investì. Le sue mani cominciarono a salire e scendere lungo la pelle, movendosi con un ritmo dolce e quasi sensuale. Sussultò. Quel gesto così spontaneo era davvero insolito da parte sua. Non ricordava di averlo fatto mai prima, soprattutto ad un uomo. Cosa le stava succedendo?

Ebbe un flashback. Ancora Oliver Hutton e quella ragazzina che gli massaggiava i polpacci stanchi. Scosse leggermente il capo per cercare di cancellare l’immagine apparsa improvvisamente. Chi era quella ragazza che oramai l’assillava da tempo? Forse doveva chiederlo a Oliver Hutton? Ma cosa avrebbe pensato sapendo che lei l’aveva sognato o che spesso compariva nei flashback della sua mente? Rinunciò all’idea per non doversi esporsi troppo con lui e continuò il massaggio.

 

Lui sembrava incantato da quei gesti e ammutolito dalla sua predominanza. Patty. Lei era bravissima a massaggiargli le gambe. Non occorreva che le dicesse qualcosa: se ne accorgeva da sola e in pochi istanti era da lui con unguenti miracolosi che lenivano i suoi dolori. Gli mancava molto, troppo. Ma da quando era in ospedale, riusciva a pensare ad altro, a Trish.

- Perché mi guardava prima? - gli chiese con tono divertito, senza alcun ammonimento quand’ebbe terminato il massaggio.

- Pensavo non mi avesse visto! - rispose imbarazzato portandosi una mano tra i capelli.

- L’ho notata mentre usciva dal portone. Ed ho visto il riflesso della sua ombra. -

- Non le sfugge nulla. -

- Più cose di quante lei possa immaginare, signor Hutton. - gli rispose continuando a guardarlo. Era un bel giovane, alto, dal fisico atletico, con i pettorali e le braccia scolpite da dure ore di allenamento. Si riscoprì leggermente imbarazzata. Non era da lei fissare qualcuno soprattutto se non si trattava di un amico. Gli sorrise ancora.

- E’ più carina quando ride. - le sussurrò spontaneamente.

- Grazie. -. Ancora il silenzio tra loro. Eppure era piacevole. Il sole tiepido li riscaldava mentre i loro pensieri vagavano chissà per quali orizzonti. Ascoltavano gradevolmente i loro respiri.

- Non ha risposto alla mia domanda! - esclamò lei interrompendo quel complice mutismo.

- Sarei sconveniente se le dicessi perché è una bella donna? - le chiese ironico. Dai pochi momenti in cui avevano avuto scambi di parole e idee, aveva compreso che era una donna preparata e alla quale piaceva conversare solo con le persone che lei giudicava interessanti.

- No, ma non le crederei. Il suo non è lo sguardo di un ammiratore. - rispose sicura guardandolo. Era impressionante la loro somiglianza. Holly non riusciva a distogliere lo sguardo da lei. Persisteva a guardarla negli occhi quasi catturato da un filo magico invisibile. Sentiva il turbinoso fluire del sangue nelle vene quasi a volergli ricordare che esisteva, che era lì con una figura enigmatica. Nonostante non la conoscesse bene, si sentiva a suo agio con lei.

- Non sarà da ammiratore ma non mi impedisce certo di farle un complimento sincero. -

- Allora nuovamente grazie. - gli rispose guardando il libro.

Occhi oscuri, una poesia di Herman Hesse che spesso rileggeva. La seguì con gli occhi e scorse velocemente le tre strofe.

 

Occhi oscuri

 

E' la mia nostalgia ed il mio amore

oggi in questa notte calda

dolce come il profumo di fiori esotici,

svegliati ad una vita che scotta.

La mia nostalgia ed il mio amore

e' tutta la mia fortuna e sfortuna

e' scritta come una muta canzone

nel tuo sguardo oscuro da fiaba.

E' la mia nostalgia ed il mio amore,

sfuggito al mondo e ad ogni suo rumore,

si e' costruito nei tuoi occhi oscuri

un segreto trono da re.



Herman Hesse (1877-1962)

 

 

Chiuse gli occhi ripensando ai suoi occhi nocciola che pulsavano alla vita, al ritmo del suo cuore innamorato. Non l’aveva mai capita, fino a che non l’aveva perduta. Era questo il suo peggior incubo. Non averla amata abbastanza non quanto il suo cuore e il suo corpo desideravano fare ora. Lei si voltò verso il giovane e sembrò comprendere quale stato d’animo stesse vivendo in quell’attimo, quale tumulto avesse preso il sopravvento nel suo cuore.

- E’ molto bella. - le disse ancora ad occhi chiusi.

- Sì, lo é. -

- Lei è una persona nostalgica? -

- La nostalgia fa parte della nostra essenza, proprio come la felicità. Sentimenti contrastanti che ci accarezzano, ci accompagnano dalla nascita alla morte, come ombre. Le emozioni creano lampi di trepidazioni, turbini di passioni e noi…non possiamo nulla dinanzi a loro: dobbiamo solo avere la speranza di poterli provare, di essere investiti dalla loro energia e ritrovarci un giorno, innamorati della vita. - disse trascinata da un’insolita passione.

- La nostalgia è insita dentro di noi e solo chi soffre ne conosce davvero il significato. - rispose malinconico e serio.

- La sofferenza non è solo la perdita di qualcuno ma anche di qualcosa. La sofferenza non conosce ragione o metodo. Arriva e basta, scompigliando un momento della tua vita e adombrando le giornate che ne seguono. - gli rispose imperiosa.

- Non c’è niente che possa far soffrire di più della perdita di una persona importante. - sentenziò lui cercando di esternare.

- Non sono d’accordo. - disse richiudendo il libro e alzandosi dalla panchina.

- Perché, c’è qualcosa che può far soffrire di più? Io non penso. - le disse cercando di trattenerla ancora in quel discorso oramai degenerato.

- Sarebbe egoistico dire che si soffre qualcuno. La sofferenza è dentro di noi, e basta. Dobbiamo conviverci tutti i giorni, non dobbiamo aspettare che muoia qualcuno a noi caro per provarla. -

- Ma cosa stai dicendo! - esclamò lui drizzandosi in piedi. Il volto era infervorato, i suoi occhi furenti. Le afferrò un polso per trattenerla. Lei si girò di scatto verso di lui. - Evidentemente non hai mai perso qualcuno perché altrimenti non parleresti così. Perdere la persona alla quale tieni di più al mondo nell’impotenza di poter fare qualcosa per riportarla da te. Ti trovi all’improvviso catapultato in una dimensione a te sconosciuta, in una sorta di camera insonorizzata dove tutti cercano di avvicinarsi a te, e il tuo cuore ti impedisce di avere qualsiasi reazione. La perdita delle persone a cui tieni ti porta una tale sofferenza che anche dopo tanto tempo non riesci a dimenticare il suono della loro voce, la sensazione di una loro carezza, ogni piccolissimo gesto che a loro era legato. La sofferenza è tua, è vero e ti porta a non dimenticare le persone che ami, ad averne una grande, infinita nostalgia. -

- Come fai a dire che non capisco? Come ti permetti di giudicarmi? Si può soffrire anche solo ed esclusivamente per la mancanza di un’identità che ti impedisce di costruire il futuro, che ti fa vivere ogni singolo giorno sul baratro dell’oblio. La perdita di una persona porta sofferenza ma anche la rassegnazione. La perdita di se stessi porta soltanto a un continuo turbamento che notte e giorno non ti lascia respirare. Non c’è minuto nella tua grigia giornata, che non porti a domandarti cosa diavolo ci fai qui? Continui a farti domande alle quale nessuno ti può rispondere, e coloro che possono farlo, restano lì ad aspettare un tuo passo falso per il solo desiderio di puntarti il dito contro! Cosa ne sai tu di me! - urlò guardandolo sprezzante, adirata, desiderosa di andare oltre quelle frasi, di urlare al mondo intero che lei Trish Hamilton, non sapeva nulla di se stessa. - La sofferenza non riporterà in vita la tua Patty ed io non sono lei, mettitelo in testa! - concluse tirando verso di se il braccio.

- Patty non è morta! - replicò gelido. - Lei tornerà. -.

Trish lo guardò ancora. Sul suo volto c’era la convinzione che quella ragazza prima o poi sarebbe tornata a splendere nella sua vita. Si rese conto dalle sue parole, che doveva averla amata e ancora l’amava in maniera assoluta e disperata. Si poteva soffrire così, disperandosi nel desiderio del ritorno di una persona amata? Quale straordinario sentimento aveva unito Oliver Hutton alla sua Patty? Si girò per andarsene. Quella conversazione l’aveva turbata fin troppo e dopo Jason, era lui la prima persona alla quale parlava così sinceramente. No, era diverso da Jason. Oliver Hutton era più passionale, si lasciava trasportare dalle emozioni, aveva conosciuto la sofferenza. Jason era e sarebbe rimasto sempre e solo uno dei suoi più grandi amici, il rampollo di una nota famiglia statunitense che prima o poi avrebbe sposato una donna di importanza rilevante.

- Non ti servirà a nulla fuggire dai fantasmi del tuo passato. Non riuscirai mai ad essere te stesso pensando a quello che eri. - pensò Hutton. Le parole che il suo amico Julian gli aveva ripetuto tante volte. Adesso, le avrebbe volute gridare a Trish Hamilton per sovrastare il suo sguardo tagliente e accusatorio. Ma come poteva dire a lei le parole che tanto odiava ascoltare?

- Mi dispiace. - le disse.

- Invidio quella ragazza. La passione e il sentimento che ti legano a lei è tanto grande quanto ingiusta è stata la vita che vi ha separati. -

- Non invidiare i miei sentimenti. Ognuno di noi può amare, basta solo aprire il proprio cuore. Io l’ho imparato a caro prezzo…e a distanza di anni, non riesco a trovare il coraggio di ricominciare. - disse con voce flebile.

- Ah…imparare ad amare…chissà, forse…un giorno. - gli disse guardandolo ancora, un’ultima volta per poi correre via.

 

 

Julian, Amy e Philip Callaghan avevano assistito all’ultima parte della loro lite. Si avvicinarono all’amico apparentemente in stato di tranche.

- Adesso che l’ho vista.. penso che Amy e Holly abbiano ragione. - disse rivolgendosi a Julian.

- Ti prego, Phil, non ricominciare anche tu con questa storia. Non è lei, non può essere. Si sarebbe ricordata di noi. -

- Holly, tu cosa ne pensi? - chiese Amy.

- Io? Non lo so più. - gli disse sedendosi nuovamente sulla panchina. I tre amici lo guardarono cadere nello sconforto dell’amore perduto, ancora una volta.

Amy si girò verso il viale doveva l’aveva vista correre via. Cercava ancora la sua ombra, qualche minimo particolare che l’avrebbe ricondotta alla sua cara amica. Non c’era più. Dal giorno in cui l’aveva incontrata, dentro di se era maturata e cresciuta l’idea che si trattasse di lei. Julian non era riuscito a distogliere la moglie da quel pensiero e l’arrivo di Philip Callaghan in città, per la partita contro il Manchester United, aveva solo aggravato questa tesi.

Holly sembrava prostrato dallo scontro con Trish, duramente provato dalle parole che aveva udito e che le aveva detto. Forse era stato troppo duro nei suoi confronti e probabilmente non aveva avuto alcun diritto a parlarle così. Ma c’era qualcosa di indefinibile nella sua persona, nel suo carattere che continuava a tormentarlo. Quella donna era diventato il suo tarlo fisso, la persona alla quale, a parte la sua Patty, pensava durante il giorno.

Il calcio, la sua più grande passione e amata professione erano orami passati in secondo ordine.

 

 

Stesa sul divano, immersa nel buio della sera, Trish ripensava alla discussione avuta con Oliver Hutton quel mezzogiorno. Cosa sapeva lui della sua vita? L’incidente prima, il coma dopo. Il trasferimento della sua famiglia a Chicago. La campana di vetro sotto la quale l’avevano fatta crescere fino a che non aveva deciso di andare via per sempre.

- No. Lui non può sapere queste cose di me! Nessuno lo sa, solo io e i miei pensieri. Sono fuggita dagli Stati Uniti anche per questo, per cercare di costruire una vita migliore. E invece, mi ritrovo qui a piangermi addosso, a pensare continuamente a quel maledetto incidente. Se solo sapessi, tutto mi sarebbe più chiaro, non vivrei più con questa angoscia. Ma lui? Perché ha tanta influenza su di me? Cosa mi sta succedendo? Possibile che la mia attrazione verso di lui sia tale da permettergli di parlarmi con tale insolenza? Oliver Hutton. Dal giorno in cui è arrivato in ospedale, non faccio che pensare a lui, cercare il pretesto per andare a trovarlo. E’ vero, devo ammetterlo. Il cuore mi batte quando lo vedo, ma non riesco ad essere felice. Lui è già innamorato e non permetterà a nessuno di portargli via la sua sofferenza, il ricordo della persona amata. Patty! Chi sei tu che gli procuri tanto dolore? - si chiese guardando il soffitto. Avrebbe voluto che Jason fosse lì ad ascoltarla, a consigliarla sul da fare. I loro rapporti erano limitati oramai solo agli auguri di Natale. Adesso c’era Oliver Hutton. Jason non si era mai permesso di parlarle così, nonostante conoscesse particolari della sua vita totalmente oscuri ad Hutton. Lui invece, non aveva avuto alcuna remora a dirle di guardare avanti e non indietro, a farle capire che doveva vivere la vita e non voltarsi indietro. Stupido. Come aveva osato. Doveva diradare se non smettere del tutto le sue visite a quel paziente tanto ostile nei suoi confronti.

- Non invidiare i miei sentimenti. Ognuno di noi può amare, basta solo aprire il proprio cuore. - pensò ricordando a menadito le parole che le aveva detto. Come si imparava ad amare? - E’ una parola tanto semplice da pronunciare quanto difficile da provare. Come faccio a non pensare al mio passato se mi chiedo continuamente se ho mai amato qualcuno? Perché non sono riuscita ad innamorarmi di Jason o ad infatuarmi di Luis? Cosa c’è di sbagliato in me? Possibile che il mio cuore sia offuscato dalle nebbie di un amore passato, al quale inconsapevolmente mi sento ancora legata? - si chiese prima che il sonno e la stanchezza prendessero il sopravvento su di lei.

 

Continuava a guardare fuori dalla finestra. Gli alberi erano avvolti dalla notte e le stelle erano troppo in alto per poterle vedere ad occhio nudo. Non riusciva a dormire, non per i dolori, ma per l’assillante pensiero di Trish Hamilton. Era entrata nella sua vita all’improvviso, proprio come una folata di vento.

- Cosa diavolo mi sta succedendo? Cosa mai mi passa per la mente? Avevo voglia di baciarla, di stringerla a me. Come può essere? Io non posso amarla, io amo Patty! Maledizione. Trish Hamilton perché sei entrata nella mia vita? Io…non so più cosa fare. Patty aiutami. Dove sei stella mia? Vorrei tanto che tu fossi qui, tu…che quando io avevo bisogno, mi sentivo insicuro, c’eri sempre. Tu che eri la parte migliore di me. Quando finirà questo oblio? Quando lascerò che la dimenticanza porti via con se il sapore amaro della tua scomparsa? Forse è per questo motivo che l’ho incontrata? -

- Siamo così simili perché entrambi abbiamo sofferto e ancora soffriamo per qualcuno o qualcosa. Cosa la fa disperare così tanto? Quale motivo può essere più valido della perdita di qualcuno che si ama? Mi sento scombussolato. Non so cosa fare. Vorrei andare da lei e sapere cosa la affligge forse per lenire le mie ferite o forse perché davvero vorrei aiutarla. Oggi, in preda al panico, ho esagerato. Ho fatto sì che il nostro incontro degenerasse in quella maniera. Non ne avevo il diritto. E qualcosa mi dice che non la rivedrò molto presto! - pensò rimuginando sull’esito di quell’incontro.

 

Di una cosa entrambi erano certi: quel loro scontro avrebbe cambiato il corso del loro rapporto e forse delle rispettive emozioni.

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Capitolo 4
*** Il desiderio di verità ***


CAPITOLO 4

 

 

 

Il desiderio di verità

 

 

 

 

L’aereo partito da Barcellona stava per atterrare a Tokyo. Finalmente sarebbe stata di nuovo a casa.

Era molto preoccupata. Doveva assolutamente scoprire qualcosa che era accaduto circa dieci anni prima. Lo doveva fare per lei, per riconquistare forse un’amica perduta e lo doveva fare per un grande amico che da tempo soffriva. La scusa per partire a Tokyo le era piovuta su un piatto d’argento. Julian si era infortunato ad una spalla nella partita contro il Manchester United e così avevano deciso di tornare insieme in Giappone per trovare amici e parenti.

- Tesoro stai bene? - chiese Julian alla moglie prendendole la mano.

- Ma certo Jul. Ero solo soprappensiero. -

- Questa storia ti sta sfinendo. Perché ti ostini tanto? -

- Perché sono sempre più convinta che si tratti di lei! - asserì determinata.

- Cosa te lo fa pensare? -

- Lei. A parte la somiglianza, è proprio l’espressione dei suoi occhi. Sembra quasi voler nascondere qualcosa. -

- Ma dai. Amy, se davvero si trattasse di lei, Trish Hamilton sarebbe un’attrice strepitosa. Come potrebbe mentire in maniera così perfetta di fronte a noi e soprattutto di fronte a quello che è stato l’amore della sua vita? -

- Non lo so Julian. Non so spiegarmi tante cose, ma esattamente come Holly, io sono convinta che si tratta di lei. Sembra quasi aver acquisito una nuova personalità. Il corpo è il suo ma lei è un’altra. Quando l’altro giorno ha improvvisato quel massaggio a Holly, lui mi ha confermato che ha avuto provato le medesime sensazioni di quando Patty lo assisteva ai tempi dei campionati scolastici. -

- Avanti Amy, come fa Holly a ricordare le sensazioni provate quando Patty gli rifaceva le fasciature? -

- Forse perché ne era innamorato? - sentenziò lei dispiaciuta.

- Non volevo offenderti. So quanto tieni a Patty e Holly è anche un mio grande amico. Se potessi, lo aiuterei in ogni modo, solo che non so come fare! -

- Io ci devo provare. Se solo ripenso a quante lacrime ha versato lei per amor suo e a quante ne ha versate lui dopo la sua scomparsa. Non hanno mai avuto la possibilità di amarsi e questo mi fa molto male: non è giusto. Devo scoprire che fine ha fatto Patty: perché è scomparsa prima che Holly tornasse dal Brasile? - si domandò prima che l’aereo cominciasse la fase di atterraggio.

Julian guardò sua moglie e sospirò. Erano felicemente sposati da due anni. Lei non aveva mai dimenticato la cara amica e l’incontro casuale con Trish Hamilton aveva cambiato i suoi ultimi giorni. Lei e Holly sembravano vivere nell’incubo della dottoressa Hamilton.

 

L’indomani mattina, Amy si destò molto presto. Era stato abbastanza strano svegliarsi nella grande camera da letto di Julian, in particolare perché per la prima volta non dormivano in quella stessa alcova da clandestini, ma da marito e moglie. Guardò fuori dalla finestra e sospirò. Si guardò il grembo che oramai cominciava a crescere. Avrebbe dovuto dirglielo. Oramai era al terzo mese ma a lui non aveva ancora detto niente perché le avrebbe impedito di partire.

Il suo cuore le aveva indicato la strada del ritorno. Solo lei poteva farlo visto che nessuno degli ex compagni di Patty aveva saputo più niente di lei. C’era qualcosa che la spingeva a cercare la verità a Fujisawa. Guardò Julian ancora dormiente. Lo amava più della sua stessa vita e proprio per questo aveva sempre compreso i sentimenti di Patty. I tempi della scuola, dei campionati nazionali, la partenza di Holly e il tanto sospirato ritorno. Perché quel giorno non andò all’aeroporto, e perché quando Holly andò a casa sua non vi trovò nessuno fino a quando non vide solo il vendesi della società immobiliare? Perché era andata via tutto d’un tratto senza dir nulla?

 

Andò in bagno, si fece la doccia e si vestì velocemente. Si guardò allo specchio. Chissà se sarebbe stato un maschietto o una femminuccia. Se avesse concluso qualche cosa, quella sera avrebbe rivelato alla famiglia dell’imminente maternità.

Quando terminò di prepararsi si accorse che Julian era sveglio.

- Ciao tesoro. - gli disse baciandolo dolcemente sulla fronte.

- Ciao cara. Stai uscendo? -

- Sì, pensavo di andare subito a Fujisawa a vedere se riesco a combinare qualcosa. Così, se mi sbrigo magari passo da Evelyn a vedere i bambini. Ti va di venire con me? -

- Non me l’avevi ancora chiesto: perché proprio ora? -. Lei abbassò lo sguardo. Non l’aveva reso complice delle sue indagini.

- Scusami, è che credevo non ti importasse molto di questa cosa o comunque che l’avessi presa un po’ alla leggera. -.

- Il fatto è che mi è difficile credere ai fantasmi del passato. Ma ti vedo così convinta che sto cambiando idea. Di una cosa sono certo: se stai facendo tutto questo è perché sei sicura di ricavarne qualcosa. - le disse poi, balzando a sedere sul letto.

Com’era bello il suo Julian, anche appena svegliato, con i capelli scompigliati e il volto segnato dal cuscino.

- Ti amo Jul. -

- Anche io, amore mio. - rispose tirandola a se e appoggiando il capo al suo ventre. Lei gli accarezzò i capelli conscia che quella sera l’avrebbe reso l’uomo più felice del mondo.

Julian decise di seguirla, così si preparò in fretta e scesero entrambi in soggiorno per fare colazione. I genitori di Julian erano già al tavolo che si versavano del caffè.

Dopo i convenevoli e la colazione, Julian prese le chiavi della sua macchina, ancora parcheggiata nel garage della villa, e insieme alla moglie si diresse alla volta di Fujisawa.

 

Seguendo i ricordi, Amy indicò a Julian la strada per arrivare a quella che era stata la casa di Patty. Parcheggiarono l’auto lungo la strada e scesero per proseguire ai piedi cercando di districarsi tra i vicoli di quelle villette.

- Sei sicura che è da queste parti? -

- Sì, in fondo a quella strada c’è la casa di Holly, ci siamo passati prima in auto. E da queste parti dovrebbe esserci la villetta in cui abitava Patty. -.

Amy sembrava non distogliere lo sguardo da una villetta recentemente ristrutturata.

- E’ quella. - disse indicandola con il dito.

- Sei sicura? A me sembra nuova! -

- Forse è stata recentemente ristrutturata. - sussurrò avvicinandosi al giardinetto che circondava la villa. - Adesso ne sono sicura. -

- In che senso? - chiese Julian non capendo.

- Vedi il ciliegio? Beh era proprio sotto la finestra della stanza di Patty. -

- Uhm…tesoro, come pensiamo di entrare in questa casa? -

- Suonando il campanello, mi sembra ovvio. - rispose precedendolo.

 

Un signore anziano aprì la porta e si avvicinò al cancello. Guardò la coppia con aria incuriosita. Amy era davvero elegante nel tailleur rosso rubino che le fasciava le forme longilinee. I capelli ramati le cadevano leggeri sulle spalle.

- Buongiorno. - dissero i ragazzi in coro.

- Salve. Sentite, non siamo interessati ne alla vostra pubblicità ne ai prodotti che rivendete porta a porta. -

- No, non si preoccupi, non siamo agenti pubblicitari o venditori porta a porta. - rispose lei cercando di tranquillizzare l’anziano.

- Allora cosa volete? -

- Beh..lei è il proprietario, il signor Morgan? -

- Perché mai dovrei rispondere ad una domanda del genere? - chiese scattando sulla difensiva.

- Mi dispiace, lei ha ragione, siamo piombati qui all’improvviso senza neppure annunciare il nostro arrivo. Non ci giudichi in maniera prevenuta. Stiamo cercando informazioni sulla famiglia che abitava in questa casa prima di voi, la famiglia Gatsby. -

L’anziano si mise le mani in tasca e si avvicinò ancora di più.

- Tu sei uno sportivo? - chiese a Julian sorprendendolo.

- Sì, gioco a calcio. Perché? -

- Evidentemente, nella famiglia che abitava prima qui, qualcuno coltivava la passione per lo sport. -

- In che senso? -

L’uomo non rispose. Sembrava non voler scoprire le sue carte.

- La prego, signore. Sto cercando una mia carissima amica che una volta abitava qui. All’improvviso é scomparsa e non abbiamo più avuto notizie di lei. Si chiamava Patty, Patricia Gatsby! - aggiunse Amy sperando di risvegliare in quell’uomo delle emozioni.

- Venite! - esclamò aprendo il cancello. Julian prese per mano Amy e la tenne al suo fianco. Lo seguirono in casa silenziosamente. Non sembrava esserci nessuno, si sentiva solo il profumo del caffè. Indicò loro un sofà consunto e i ragazzi si accomodarono in segno di educazione. Si allontanò in cucina e quando tornò aveva con se un vassoio con delle tazze colme di caffè fumante.

- Ci siamo trasferiti qui circa dieci anni fa. Eravamo in visita presso dei parenti. Mia moglie soffriva di attacchi di asma e il medico ci consigliò di trasferirci in provincia abbandonando la vita caotica di Tokyo. Chiamai subito l’agenzia immobiliare e con mia somma sorpresa chiudemmo il contratto in quella stessa settimana. La famiglia che abitava qui aveva fretta di concludere l’affare ma senza svendere la proprietà. -

- Perché avevano fretta? -

- Non lo so bene. Incontrai il padrone di casa solo due volte. Mi sembrava un uomo fugace, che avesse fretta di concludere quasi stesse fuggendo da qualcosa. Vidi solo lui. Quando mi fece visitare la casa rimasi colpito dalla stanza del figlio. Almeno pensavo fosse un ragazzo. Avevo notato appesi al muro dei poster e delle fotografie sempre della stessa squadra di calcio. In particolar modo, nelle foto avevo notato un ragazzo e una ragazza: c’erano sempre. Per questo pensai che si trattasse di quel ragazzo e forse della sua fidanzatina. Sapete, io ho uno spirito di osservazione molto vasto anche perché dipingo, quindi mi piace analizzare i minimi particolari.

- Quello che credevo essere il signor Gatsby, mi rispose quasi in maniera scortese che si trattava di sua figlia. Entrò in camera e strappò dal muro un poster di quel ragazzo. Poi ne uscì profondamente adirato. Non capivo. Quando tornai la seconda volta, dopo che ebbi concluso il contratto, la casa era stata parzialmente svuotata. La maggior parte dei mobili erano stati già portati via e c’erano solo dei cartoni. Poi mia moglie mi chiamò e la raggiunsi al piano di sopra. Sapete, lei era psicologa e analizzava tutto quello che trovava, anche gli oggetti. -

- Perché sua moglie la chiamò? Cosa aveva visto di tanto interessante? - chiese Amy sporgendosi verso l’uomo, evidentemente interessata da quella conversazione.

- Aveva trovato una scatola. La ricordo ancora quella scena. La trovai abbassata, raccoglieva delle buste da lettera dal pavimento. Mi disse di guardare. Provenivano dal Brasile ed erano tutte indirizzate a Patricia Gatsby. Erano tutte aperte, quelle buste: ognuna conteneva ordinatamente la sua lettera. Tranne una. Ancora sigillata arrivata da un paio di settimane. Evidentemente non l’aveva mai aperta. -

Julian impallidì. Ricordò vagamente che Holly gli aveva detto di aver spedito a Patty una lettera prima del suo rientro in Giappone e, che non vedendola più, aveva sperato almeno in una sua risposta scritta. Si trattava della lettera che Patty evidentemente non aveva mai letto.

- Accanto alle buste, sul pavimento, trovammo anche una fotografia. La cornice si era ammaccata e il vetro infranto. -

- Chi ritraeva quella foto? -

- I due ragazzi che avevamo precedentemente visto durante la nostra prima visita alla casa. -. L’anziano signore si alzò e andò verso uno scrittoio sistemato all’angolo della stanza. Ne aprì il grande cassetto estraendo una scatola. La portò ai due ospiti posandola sul tavolinetto antistante il sofà. Gli occhi di Amy si riempirono di lacrime.

- Tesoro, che hai? -

- Jul, questo…questa è la scatola porta lettere che regalai a Patty dopo la partenza di Holly. - disse rammaricata. In quella bella scatola di tessuto fiorato, erano conservati i ricordi e le speranze, i sentimenti e i dispiaceri di Holly e Patty.

- Signora, si sente bene? - domandò l’anziano intimorito dalla reazione di Amy.

- Vede, non vedo Patty da così tanto tempo che il ritrovare un pezzo del suo passato, qui, in questa casa, non può che rattristarmi. In questa scatola, lei conservava le lettere che il ragazzo di cui era innamorata, le scriveva durante il suo soggiorno in Brasile. -

- In questi anni mi sono spesso domandato il perché di tanto mistero nel comportamento del padrone di casa. Mia moglie si era subito affezionata a quei due ragazzi. Conservò gelosamente la fotografia che aveva ritrovato e queste lettere. Non le abbiamo mai lette. Lei diceva che dovevamo rispettare i sentimenti dei due giovani, che aveva romanticamente ribattezzato in Romeo e Giulietta. Mia moglie diceva che quella fotografia parlava. Nelle loro espressioni era dipinto l’amore che provavano l’uno per l’altra. -

- Sua moglie aveva ragione! Un amore mai dichiarato ma intenso e sincero. - esclamò Julian sorprendendo Amy. Anche lui, finalmente stava credendo a quella storia.

- Non ha mai cercato di contattare la famiglia Gatsby? - chiese Amy.

- Sì. Dopo che ritrovammo la scatola con le lettere, mia moglie chiamò l’agenzia immobiliare. Volevamo restituire gli oggetti alla legittima proprietaria. Mi ricordo che l’agente che ci aveva seguiti nell’acquisto della casa, ci disse che si erano trasferiti negli Stati Uniti. Fino a prima della sua morte, mia moglie Hanna mi disse che era sicura che quei due giovani un giorno avrebbero vissuto la loro storia d’amore. -. Amy e Julian tacquero. Se Patty si era trasferita negli Stati Uniti, forse non si trattava di Trish Hamilton visto che lei risiedeva in Spagna!

Prima di congedarsi, l’anziano diede a Amy la scatola con le lettere dicendole che non aveva alcun motivo per conservarle lui, che forse era più giusto che le conservasse una cara amica. La foto invece la trattenne perché a quella immagine legava quella della moglie, tanto affascinata da quei due ragazzi.

- Sono sicura che si tratti di lei! - disse poi in auto.

- Hai sentito cos’ha detto? Patty si è trasferita negli Stati Uniti. -

- Già, ma poi potrebbe essersi trasferita in Spagna. -

- Non far viaggiare troppo la tua fantasia. -

- Non è giusto Julian. -

- Lo so tesoro, ma forse…e se provassimo ad andare all’agenzia immobiliare? -

- Non penso sia una buona idea. Sono trascorsi dieci anni e probabilmente l’agente che trattenne la trattativa per la vendita della casa non c’è più. Senza contare poi che all’epoca non volle dare riscontro alle richieste del signor Morgan. Amy, capisco che vorresti arrivare alla verità, sapere perché Patty è sparita e non si è fatta più viva, ma forse il destino non vuole. -

- Potremmo ingaggiare un investigatore privato. -

- Amy! -

- Okay, ma io non mi do per vinta. Scoprirò cosa è successo. Che ne dici di passare da Bruce e da Evelyn? -

- Sì, certo. - rispose Julian sconsolato. Quando Amy si metteva in testa una cosa, diventava irremovibile. Tuttavia, era stata proprio quella forza d’animo, quel suo carattere fermo ad aiutarlo nelle situazioni più critiche.

 

Trovarono facilmente la residenza di Bruce ed Evelyn, oramai sposati da quattro anni e genitori di due splendidi gemelli di pochi mesi. Era proprio sopra il negozio che Evelyn gestiva con l’aiuto del marito, quando non allenava la squadra cittadina dei pulcini.

Parcheggiò la bella auto di lusso proprio davanti l’ingresso del negozio. Mano nella mano, solcarono la soglia e videro una giovane con due simpatiche codine intenta a sistemare alcuni oggetti su uno scaffale.

- Pensavo che col matrimonio avresti sciolto i tuoi codini? - disse Amy cercando di attirare la sua attenzione. Evelyn si voltò di scatto riconoscendo la voce dell’amica e corse ad abbracciarla.

- Amy, Julian. Che sorpresa. Che bello avervi qui! - disse loro dopo averli salutati adeguatamente.

- E Bruce dov’è? - chiese Julian. - Starà per arrivare. E’ andato a fare una consegna. Non riesco ancora a crederci, voi due qui. -

- In carne e ossa. Come state Eve? -

- Benissimo. Mi sono ripresa del tutto dopo il parto e adoro i miei cuccioli. Vieni, sono qui che dormono. - disse a Amy trascinandola verso una culla riposta dietro il bancone.

- Scusami Eve. E’ stata un’improvvisata e non ho avuto neanche il tempo di prendere un regalo a questi splendidi pargoletti. -

- Ma scherzi? Non devi neppure pensarci ad una cosa del genere. -

- Tesoro, io son….Julian, Amy! - esclamò Bruce attonito e incredulo nel vedere i due amici.

- Ciao Bruce. - risposero coralmente abbracciandolo.

- Eve, è quasi ora di pranzo. Potremmo chiudere il negozio e andare tutti a casa. Pranzate da noi. -

- E’ un’ottima idea tesoro. - gli rispose.

- No, noi non vorremmo essere ….

- Assolutamente. Non si accettano rifiuti. Quando ci capita un’occasione del genere? - disse Bruce entusiasta. - Allora campione, come mai qui in Giappone? -

- Mi sono infortunato e devo stare a riposo. Così ho chiesto al mister di poter tornare in Giappone e lui mi ha dato il benestare. Tutta colpa di Philip Callaghan. Mi sono infortunato nell’incontro con il Manchester. -

- Come stanno Philip e Jenny? -

- Benissimo. Jenny non è venuta insieme. La gravidanza glielo ha impedito. Comunque se la cavano a gonfie vele. -

- E…Holly? - chiese conoscendo la risposta di Julian. Amy abbassò lo sguardo e Eve notò la sua espressione malinconica.

- Sempre uguale. Oramai è diventato una macchina che gioca a calcio. Anche quest’anno sarà eletto il miglior giocatore del campionato…ma ha perso l’entusiasmo, la gioia di vivere…più passa il tempo e più diventa nostalgico. -

- Non l’ha dimenticata? - chiese Eve. Julian scosse il capo.

- Al contrario. E’ convinto che un giorno tornerà. -. Calò il silenzio tra loro, spezzato improvvisamente dal pianto di uno dei gemelli. Evelyn si destò e corse verso la culla.

- Vieni qui tesoro, ti presento zia Amy e zio Julian. - disse prendendo tra le sue braccia la bimbetta di pochi mesi.

- Come si chiama? - chiese Julian prendendole una manina tra le sue.

- Patty! - esclamò timoroso Bruce. Amy e Julian lo guardarono e gli occhi della signora Ross si riempirono di lacrime.

- Anch’io non ho mai perso le speranze di ritrovare la mia migliore amica! - disse malinconica Evelyn. E’ stato Bruce a decidere che doveva chiamarsi così. -

- Anche se litigavamo spesso, volevo un gran bene alla nostra Patty: era come una sorella per me. - disse passandosi una mano tra i capelli corti.

- Su, adesso andiamo così possiamo pranzare. - ribatté Evelyn cercando di spezzare l’aria tesa e mesta che si era creata nel ricordo di un’amica scomparsa.

 

Amy e Evelyn cucinarono per i loro mariti che nel frattempo accudivano i due gemelli. Trascorsero un pranzo piacevole cercando di ricordare solo i momenti più felici della loro adolescenza e parlando ovviamente di calcio. Evelyn si alzò per andare a preparare il caffè e Amy la seguì in cucina. Eve la guardò e le sorrise.

- Volevo chiedertelo prima ma c’erano Julian e Bruce! -

- Cosa? -

- Tu…aspetti un bambino? -

- E tu come…

- Dai tuoi occhi, dalla tua espressione. Si riconosce una donna in stato interessante. O Amy. Sono così contenta per voi. - le disse abbracciandola.

- Ma Julian lo sa? -. Scosse il capo in segno di dissenso.

- Come no! Secondo me lo renderesti l’uomo più felice del mondo. -

- Ne sono consapevole, ma in questo stato, non mi avrebbe mai permesso di venire in Giappone. -. Evelyn la scrutò e si sedette al tavolo della cucina. Era un invito per l’amica a svelarle la motivazione di quel viaggio.

- Non comprendo. C’è una ragione particolare che ti ha spinta a tornare in Giappone? -. Amy annuì accomodandosi di fronte all’amica.

- Patty! -

- Continuo a non capire. Spiegati. -

- Circa tre settimane fa Holly ha avuto un incidente con la motocicletta ed è stato ricoverato d’urgenza. Quando siamo andati a trovarlo in ospedale, abbiamo casualmente incontrato una donna. Evelyn credimi, è la fotocopia di Patty. -. Eve era attonita, non riusciva a credere alle sue orecchie.

- Quando l’ho vista, per poco non ho perduto i sensi. Io e Julian eravamo paralizzati di fronte a lei. E’ un medico dell’ospedale in cui è ricoverato Holly. I capelli raccolti in uno chignon dietro la nuca e degli occhiali leggerissimi sul volto. Per il resto: identiche. -

- Le hai parlato? Hai sentito la sua voce? -

- Simile anche quella. Più fredda, distaccata, troppo professionale. Istintivamente l’ho chiamata Patty, ma lei ci ha detto che non si chiama così. Comunque, da quel giorno non ho fatto che pensare a lei e non riesco a togliermi dalla testa che siano la stessa persona. -

- Suvvia Amy, se si fosse trattato di Patty, sarebbe stata contenta di vedervi e immagino quale poteva essere la sua reazione di fronte al nostro capitano. -

- E’ quello che sostiene Julian. Eppure, io e Holly la pensiamo alla stessa maniera. -

- Incredibile. -

- Se vedessi Holly, proveresti un immediato desiderio di andar via. Da quando lei non c’è più, si è intristito talmente tanto che oramai gioca solo ed esclusivamente per dovere. Non lo riconosceresti. Non ha mai smesso di pensarla e soprattutto di colpevolizzarsi per quello che è accaduto. Vive nel rimorso di non averle mai detto quanto l’amava. -

- Se solo Holly sapesse quali splendidi sentimenti provava Patty per lui….-

- Lo sa bene. E se ne rammarica perché se lei non fosse scomparsa, adesso starebbero vivendo la loro meravigliosa storia d’amore. -.

- Tesoro, noi usciamo, andiamo al campo di calcio. - disse Bruce comparendo sulla porta della cucina insieme a Julian. Baciarono repentinamente le mogli ed uscirono.

- Torniamo al tuo viaggio. Cosa pensi di scoprire qui? -

- Siamo andati a verificare chi abita in quella che era la casa di Patty. -

- Il signor Morgan. -

- Esatto. Mi ha raccontato di come ha acquistato la casa. Mi ha detto che il padrone di casa aveva una gran fretta di concludere la vendita dell’immobile e che subito dopo sono partiti per gli Stati Uniti. -

- Vuoi forse dirmi che…

- Non lo so. La storia è abbastanza strana e confusa. Pare che ebbe un comportamento guardingo e spesso adirato e che entrando nella stanza di Patty, strappò via dai muri i poster della nazionale giovanile e le fotografie che la ritraevano insieme a Holly. In una successiva visita con la moglie, il signor Morgan trovò la scatola con le lettere che Holly scriveva a Patty quando era in Brasile e una loro fotografia la cui cornice si era rotta cadendo sul pavimento. Insomma, un atteggiamento poco gentile. I signori Morgan non gli fecero domande ma non hanno mai veduto ne Patty ne sua madre. -

- Che strano…eppure, io ricordo che il padre di Patty era una persona molto gentile. Veniva spesso a vedere le partite della New Team travolto dall’entusiasmo della figlia. Al contrario della madre di Patty alla quale non piaceva l’idea che la figlia frequentasse tutti quei ragazzi. - disse Evelyn alzandosi per controllare la cottura del caffè.

- Ora che ci penso…il signor Morgan ha detto che quello che pensava essere il signor Gatsby non lo era. Tuttavia disse che si trattava della stanza della figlia. -

- Adesso che ci penso: i genitori di Patty erano divorziati da quattro anni. Si erano separati a causa dei continui spostamenti di lavoro di sua madre, e durante uno di quei viaggi, se non ricordo male, lei si invaghì di un funzionario della società presso cui lavorava. Dopo qualche tempo decisero di divorziare perché la situazione era insostenibile. -

- Non lo sapevo. Patty non me ne ha mai parlato. -

- Non l’avrebbe fatto neanche con me se non l’avessi scoperta in lacrime. A parte me, solo Holly sapeva della separazione dei suoi genitori. Subito dopo la separazione consensuale, il nuovo compagno della madre si trasferì da lei. Patty aveva un pessimo rapporto con lui e spesso pernottava a casa del padre. -

- Quindi l’uomo che si è occupato della vendita della casa era evidentemente il patrigno di Patty! - disse Amy confusa.

- Penso proprio di sì. Se quello che mi hai detto è vero, non si trattava sicuramente del signor Gatsby. Ricordo un altro particolare. Due giorni prima dell’arrivo di Holly, Patty mi disse che l’aveva chiamata entusiasta perché stava rientrando in Giappone e finalmente si sarebbero riabbracciati. Aggiunse anche che sarebbe andata fuori con suo padre e che ci dovevamo incontrare direttamente in aeroporto. Dopo quella telefonata, non ho più visto ne sentito Patty. -

- Scomparsa nel nulla due giorni prima dell’arrivo di Holly. Non posso pensare che sia fuggita per non vederlo. -

- Impensabile e quanto mai assurdo. Non ho mai visto amare qualcuno come Patty amava Holly. Lei viveva per lui. Avrebbe fatto di tutto per riabbracciarlo. Quando Holly arrivò e vide che Patty non c’era comprese subito che c’era qualcosa che non andava. Gli dissi che era andata fuori città col padre e che probabilmente non avevano fatto in tempo a tornare per il suo arrivo. Tuttavia, come tutti sappiamo, Patty non è mai tornata da quel viaggio. -

- Già. Scomparsa. Non hai più visto suo padre? -

- No Amy. Lui era un noto architetto e viaggiava spesso. Non ho più visto neanche la madre e di Patty e il suo compagno. -

- Un’intera famiglia sparita nel nulla. - sentenziò Amy pensando a Trish Hamilton. Evelyn si alzò per versare il caffè. - Evelyn, ricordi come si chiamava il patrigno di Patty? Forse possiamo provare a rintracciarlo. - le chiese sperando in una risposta positiva.

- Ricordo che era un americano. L’ho visto un paio di volte. Patty lo odiava soprattutto perché voleva sposare sua madre e allontanarla da suo padre. Dunque, come si chiamava….mi spiace Amy, ma non ricordo il suo nome! - esclamò rammaricata. Appoggiò il vassoio sul tavolo e circondate dall’aroma, sorseggiarono lentamente il loro caffè.

- Aspetta un attimo. Mi è venuto in mente un particolare. Non appena si trasferì a casa di Patty, decise di far rifare le aiuole e il prato intorno alla casa e così venne al nostro negozio per ordinare il materiale che gli serviva. Se ricordo bene, prese talmente tanto materiale che ci chiese di fargli una fattura anziché la solita ricevuta. -

- Anche se gli hai fatto la fattura, non ricordando il nome come pensi di risalire a lui? - le chiese non comprendendo dove volesse arrivare.

- Al termine del liceo, andando tutti i giorni al negozio, decisi di immettere nel computer i dati di tutti i nostri clienti in maniera tale da avere un archivio storico ed eliminare un po’ di scartoffie. Il mio archivio ad oggi raccoglie i dati di clienti che sono passati dal negozio in circa quindici anni. Con un po’ di fortuna, se facciamo una ricerca per strada, potremmo anche trovarlo. -

- E’ una buona idea. Speriamo solo che ci porti a qualcosa. -

- A cosa non sappiamo. Anche se troviamo il nome, non possiamo certo telefonare in tutto il paese per rintracciarlo. - ribatté Evelyn alzandosi e spostandosi nello studio dove aveva il computer. Lo accese e in pochi minuti avviò il programma di ricerca dati dell’archivio.

- Quanti nominativi in questa strada. - disse scorrendo lentamente i nomi dei clienti residenti vicino casa di Patty.

- O santo cielo! - esclamò Amy non distogliendo lo sguardo dal monitor.

- Cosa succede? Hai visto qualcosa? - le chiese Eve voltandosi verso l’amica. Il volto era pallido e allibito.

- James Hamilton. - sussurrò Amy leggendo il nominativo che lampeggiava vicino il cursore.

- Sì, è lui. Si chiamava James Hamilton, l’americano. - aggiunse Eve. Amy tremava come una foglia.

- Amy cosa ti succede? -. Non riusciva ad emettere alcun suono. Cercava disperatamente di smuovere le labbra che parevano incollate. Si sentiva mancare l’aria. Eve si alzò e la costrinse a sedersi al posto suo. Corse in cucina e prese dell’acqua fresca. Evelyn ebbe un lampo e nella sua mente si formulò una sola domanda.

- Come si chiama la dottoressa che somiglia a Patty? - le chiese diretta.

- Trish…Trish Hamilton. - sussurrò Amy abbastanza forte da far percepire a Eve quel nome. Gli occhi le si riempirono di lacrime, il cuore le batteva talmente veloce che nulla avrebbe potuto arrestare la sua corsa.

- Sua madre, la chiamava Trish! - esclamò con un fil di voce guardando l’amica.

 

Julian guardò la moglie seduta al suo fianco. Era sfinita dopo una giornata che l’aveva provata intensamente. Era bella la sua Amy. Le luci del tramonto si coloravano sul suo volto dipingendola come in un quadro di Botticelli. Ne era profondamente innamorato e riusciva a sentire il dolore che stava provando in quella estenuante ricerca della verità. Quando gli era stato offerto di giocare nel Barcellona cinque anni prima, Julian antepose alla sua carriera la volontà di Amy. Chiese a lei se era il caso di trasferirsi in Spagna, in un paese tanto lontano quanto affascinante. Ed Amy non ci pensò due volte: sarebbero andati a vivere in Europa, avrebbero riabbracciato il loro amico Holly e soprattutto avrebbero potuto confortarlo nei momenti bui che stava trascorrendo dalla scomparsa di Patty.

Gli aveva parlato di quello che aveva scoperto con Evelyn: secondo loro Trish Hamilton e Patricia Gatsby erano la stessa persona. Tuttavia, nessuno riusciva a spiegarsi perché avesse cambiato nome e il perché di quel suo comportamento tanto lontano da quello della loro cara amica Patty.

- Dove siamo? -gli chiese destandosi dal riposo.

- Siamo quasi a casa, tesoro! Dormito bene? - le chiese premurosamente.

- Scusami, mi sono addormentata mentre guidavi. -

- Sei bella quando dormi! - le disse sorridente.

- Perché, quando sono sveglia somiglio ad una vecchia strega? - gli chiese ironica.

- Assolutamente. Tu sei la donna più bella del mondo per me. -. Guardò la scatola fiorata contenente le lettere che Holly inviava a Patty.

- Cosa pensi di farne? - gli chiese Julian.

- Non lo so ancora. Spero mi possano tornare utili nella mia ricerca. -

- Sei sempre sicura che si tratti della stessa persona? -

- Il mio cuore dice di sì. Jul, la loro somiglianza è tale che non potrebbe essere altrimenti. E poi pensaci, si chiama Trish Hamilton. Trish era il diminutivo con cui la chiamava sempre sua madre ed Hamilton era il cognome del compagno di sua madre. -

- Non capisco. Perché mai avrebbe dovuto cambiare cognome? -

- Non saprei. Patty era molto affezionata a suo padre ed effettivamente non ci sarebbe una ragione plausibile in questo, a meno che…-

- A meno che suo padre non sia morto e il patrigno non la abbia adottata! - aggiunse Julian.

- Già, anche se mi sembra improbabile. Evelyn mi ha detto che a Patty non piaceva James Hamilton. -

- Se si tratta effettivamente di Patty, o è un’ottima attrice e in tal caso non capirei i motivi di questo suo strano comportamento, oppure….oppure ha perso la memoria! - disse guardando la moglie.

- Lo stavo pensando anch’io. Dovremmo accertarcene. Solo così potremmo saperlo. -

- Senti Amy e se invece stessimo sbagliando, se non si trattasse di lei. Ti sembrerebbe giusto indagare tanto nella vita di qualcuno? -

- Holly sta soffrendo e giorno per giorno peggiora. Jul, non è giusto che sia finita così. Patty amava intensamente Holly e nulla l’avrebbe resa più felice del suo amore. E quando lui finalmente si è sentito pronto per dichiararsi, lei è scomparsa nel nulla. La sofferenza che è stata di lei, è diventata la sua adesso. Fino ad ora non ha costituito nessun legame serio. E perché? Perché spera sempre che lei torni e se c’è una minima speranza che Trish Hamilton e Patty siano la stessa persona, beh, io devo scoprirlo. -

- E’ un gesto nobile il tuo. -

- Patty avrebbe fatto lo stesso per noi e per chiunque. Ha sempre anteposto la felicità altrui alla sua. Soffriva ed amava in silenzio. - concluse guardando Julian. Erano arrivati alla villa dei Ross. Julian varcò il cancello percorrendo il lungo viale alberato e parcheggiò l’auto nel cortile dinanzi il portico d’entrata.

- Jul. -.

- Sì Amy. - rispose avvicinandosi alla moglie. Lo guardò imbarazzata. Era il momento di dirgli che stava per realizzare un sogno che li avrebbe resi felici entrambi. Afferrò le mani del marito tra le sue.

- Julian…tu sai che io..ti amo tanto. Io volevo che tu mi promettessi una cosa? -

- Sei strana! Cosa dovrei prometterti? -

- Se io dovessi…prendere qualche chilo, tu ameresti comunque tua moglie? -. Julian la guardò incuriosito da quelle parole. Il sorriso di lei era talmente luminoso che lo abbagliava. Comprese di cosa stava parlando.

- Amore mio, certo che ti amerei, ma tu forse…vuoi dirmi che noi…-. Amy annuì. Afferrò la moglie tra le sue braccia e la fece volteggiare in aria in un impeto di felicità.

- Mi hai reso l’uomo più felice del mondo. Un bambino…avremo un figlio! - gridò in preda all’entusiasmo. Amy era gioiosa e ancora una volta si rese conto che aveva fatto la scelta giusta nel rimanere con quell’uomo straordinario con il quale aveva condiviso gioie e dispiaceri e che le sarebbe rimasta al fianco per tutta la vita.

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Capitolo 5
*** L'insostenibile leggerezza dell'essere ***


CAPITOLO 5

 

L’insostenibile leggerezza dell’essere

 

 

 

Udì suonare alla porta e si precipitò ad aprire nonostante fosse ancora claudicante. Dal grande salone che si affacciava sull’immensa terrazza, si mosse verso l’ingresso e aprì la porta senza accertarsi di chi fosse.

La vide lì, ferma sulla soglia in attesa che proferisse qualcosa, che la invitasse ad entrare. La luce alle sue spalle che proveniva dal lucernaio delle scale scuriva la sua figura snella e ben proporzionata. I capelli, sciolti sulle spalle erano di un colore così scuro che poteva confondersi con quello della notte. La cosa che più lo colpì fu il suo sguardo deciso, risoluto. I grandi occhi nocciola sembravano essersi assottigliati, divenuti più adulti, e lo scrutavano con circospezione. Gli sorrise e il suo cuore cominciò a palpitare rapidamente, il sangue scivolare velocemente. Quelle labbra rosse, ben disegnate, profumate, che più di una volta aveva desiderato baciare in preda ad una tempesta ormonale che sempre più spesso lo faceva sentire uomo.

Avanzò di pochi passi tanti quanti bastavano ad avvicinarsi pericolosamente a lui. Poteva sentire il suo respiro, il profumo esotico e sensuale della sua pelle liscia e morbida, che inavvertitamente si trovò ad accarezzare. Le lacrime gli sgorgarono innocentemente e scesero lungo il volto sorpreso.

- Amore mio, sono tornata per te! - esclamò gettandosi tra le sue braccia. Aveva un nodo in gola. L’emozione soffocava ogni sibilo che avrebbe voluto emettere per lei. La strinse al suo petto sentendo un immane calore sul suo corpo.

- Quanto ti ho aspettato. Non ti lascerò più, te lo prometto. Ti amo più della mia stessa vita. - le disse poi prendendole il volto e baciandola con passione e ardore. Lei si staccò da lui e gli prese le mani tra le sue. Lo guardò con espressione placida, arricciando il naso in una smorfia divertita. Non riusciva a staccarle gli occhi di dosso. Sembrava ipnotizzato dal suo sguardo.

- Io non sono Trish…sono Patty! E tu, amore mio, ti sei innamorato di lei. -

- Ma cosa…stai dicendo. Io ho amato e amerò per sempre solo ed esclusivamente te. Non mi importa di Trish, io voglio stare con te. -

- Non mentire. Puoi ingannare la mente, ma non il tuo cuore. Ti senti attratto da lei, la sogni, il tuo corpo di uomo si eccita al solo sfiorarla. La desideri come uomo e come amante. E’ il principio dell’amore. -

- Non dire sciocchezze, Patty. Ti ho atteso per anni e adesso che sei tornata…

- Io sono tornata per dirti di andare da lei…io sono solo il tuo più bel sogno e il tuo peggior incubo. Io non ci sono più Holly. Sono venuta per dirti addio. E’ lei la tua speranza, il tuo presente e il tuo futuro. -. Impulsivamente si levò verso il suo volto e lo baciò per un’ultima volta. La guardò mentre inesorabilmente impotente, lei si allontanava verso il bagliore che l’aveva avvolta al suo arrivo.

- Patty! Pattiiiiiiiiiiiiiiiiy! - gridò in preda all’emozione travolgente di quell’incubo. Respirando affannosamente cercò di riprendersi dal sogno scotendo il capo e passandosi le mani tra i capelli roridi di sudore.

- Maledizione! Era un incubo. Patty, tu..sembravi così vera, sembravi Trish! - esclamò guardandosi intorno in cerca della sua ombra. La porta della sua stanza d’ospedale era chiusa. Solo la luce del corridoio filtrava dalle feritoie della porta. Lo spiraglio illuminava qualcosa. Era il braccialetto d’argento che portava al suo polso. Il braccialetto che le aveva regalato Patty prima della sua partenza in Brasile, lo stesso che lui le aveva fatto riprodurre in Brasile e che le aveva rispedito con la sua ultima lettera, quasi come un pegno d’amore.

- Sono giorni che penso a Trish e…sento un vuoto...lei non c’é. Da quel dì non viene più a trovarmi. Forse dovrei cercarla e scusarmi con lei. Patty. Mi sei apparsa in sogno dicendomi di andare da Trish, che è con lei che dovrei costruire il mio futuro. Ma come faccio se lei è tanto simile a te? Ogni qual volta la vedo, mi sembra di vedere te e questo mi rattrista perché non ho mai potuto dirti veramente quanto ti amavo.

- Vorrei tanto poter capire, sapere se sei scomparsa perché io trovassi Trish sulla mia strada…ma ogni volta che ci penso, riesco solo a darmi una risposta: sei scomparsa senza dir nulla, senza lasciare tracce di te. Vivo con questo rimorso. Se penso a Trish, mi sembra di poter sentire la sua tristezza, la sua nostalgia, la sua sofferenza. Non mi era mai capitato prima. Probabilmente ha ragione lei: non si soffre solo per la perdita di qualcuno che si è amato. Cosa voleva dire quando ha detto che si può soffrire per la perdita dell’identità? Quello che mi volevi dire nel sogno era che devo starle vicino? Che devo prendermi cura di lei esattamente come avrei fatto con te? - si chiese distendendosi nel letto. Si portò una mano alla fronte e il ciondolo appeso al suo braccialetto brillò ancora una volta, ricordandogli con quanto affetto Patty glielo aveva regalato.

 

Mancava un’ora alle sei e trenta e quel giorno lui sarebbe stato dimesso. Era rimasto in ospedale per stare con Trish, se ne rendeva conto, e per pigrizia, per non dover stare a casa, sorvegliato a vista da un infermiere professionale e dal medico sportivo. Aveva prolungato fin troppo la degenza ospedaliera e avrebbe dovuto continuare fisioterapia e riabilitazione presso il centro sportivo della sua squadra. Il medico sportivo del Barcellona l’avrebbe seguito per una repentina ripresa. Il presidente e l’allenatore gli avevano detto che lo volevano in squadra prima di Natale per concludere la prima parte del girone di andata della Liga Spagnola.

 

Trish Hamilton. Quel nome continuava a martellare nella sua mente come un marchio indelebile. Aveva ragione Patty. Quando per fermarla le aveva afferrato il polso o quando inavvertitamente era caduto tra le sue braccia, aveva provato un fremito che tumultuosamente l’aveva scosso e l’aveva fatto sentire uomo. Quante donne c’erano state nella sua vita? Alcune, ma solo per una notte di sesso, non di amore, perché l’amore sublime era destinato alla sua Patty. Oppure a Trish.

I suoi compagni erano andati a trovarlo a turno e si sentivano spesso telefonicamente. Ma gli mancavano Benji e Tom, troppo occupati con i rispettivi campionati per potersi recare da lui; Julian e Amy con i quali aveva un rapporto di complicità nato fin da quando erano ragazzini. Sarebbero arrivati entro una settimana. Anche Julian avrebbe dovuto sottoporsi alla fisioterapia e doveva rientrare in campo entro poco tempo. Le loro assenze stavano penalizzando la squadra che nelle ultime quattro partite aveva totalizzato solo due vittorie, una sconfitta e un pareggio. Si sentiva solo, sempre più malinconico, nell’impotenza di poter fare qualcosa per cambiare il corso degli eventi.

 

 

- Ciao Trish. -

- Buongiorno Luis. Tutto bene? - chiese al collega procedendo al suo fianco, entrambi diretti al distributore di caffè.

- Starei meglio se accettassi un invito a cena. -

- Alle dieci del mattino? Sono troppo impegnata, dovresti saperlo. -

- Questo è vero. A che ora stacchi? -

- Il mio turno è finito alle otto ma sono arrivate due emergenze e sono rimasta qui. Spero di andarmene tra un po’. -

- Da un po’ di tempo a questa parte sembra che ti sia fatta carico di tutti i turni dell’ospedale. Ti servono soldi? -

- Mi sembra una domanda un po’ indiscreta, la tua! No, non mi servono soldi, è solo un grande desiderio di lavorare e rendermi utile agli altri. - mentì rispondendo alla curiosità del collega.

- Così non ti troverai mai un buon marito. -

- E se tu continui a fare il casanova con tutte le donne di quest’ospedale, dubito che qualcuna ti metterà l’anello al dito. -

- Io desidero solo te. - le disse porgendole il bicchiere con il caffè fumante e fissandola con sguardo ammiccante. I suoi occhi erano di un verde scuro ed intenso, ma non riusciva ad emozionarsi, non come con Oliver Hutton.

 

Oliver era fermo, sembrava in attesa di qualcosa. Continuava a girare il capo in cerca di qualcuno mentre i passeggeri in entrata ed uscita camminavano vorticosamente attorno a lui. All’improvviso scorse un’ombra a lui familiare e il suo viso si illuminò del più caldo dei sorrisi.

- Capitano…so che ci siamo salutati ieri…ma io…. - gli disse affannata dalla corsa.

- Non preoccuparti…sono felice che tu sia venuta…mi fa piacere, davvero! -

- Desideravo darti questo! - gli disse porgendogli una piccola scatola azzurra. Oliver la aprì e ne estrasse un braccialetto d’argento con un ciondolo.

- E’ bellissimo…grazie, Patty! -

- Io..é solo un pensiero…un portafortuna. Quando ti sentirai solo, ed avrai bisogno di sentirti un po’ a casa…-. Non la fece terminare di parlare che le posò un bacio sulla guancia.

- Grazie, dolce Patty! - le sussurrò. La vide arrossire per l’imbarazzo mentre stranita si accoccolava tra le sue braccia.

 

 

- Trish! Trish, mi senti? - le chiese Luis preoccupato.

- Ehm…sì, Luis, certamente. - rispose scotendo il capo. Era pallida come un cencio.

- Sicura di star bene? - le domandò cercando di capire cosa la angosciava tanto.

- Sì, è stato solo un giramento di testa! - rispose mentendo per occultare il flashback che aveva appena avuto. Non solo era impallidita, ma soprattutto tremava come una foglia. Aveva visto la ragazza che spesso le era apparsa in sogno insieme a Oliver Hutton.

- Scusami Luis, vado a sciacquarmi il viso. -

- Sarebbe il caso che tu andassi a casa e non alla toelette. Ti chiamo un taxi? -

- No, non preoccuparti. Sto bene. Forse…lavoro troppo, hai ragione tu! - esclamò accennando un timido sorriso per tranquillizzare il collega.

- Ti accompagno io, se vuoi. -

- Ti ringrazio davvero Luis, ma non è necessario. Mi sciacquo il viso, mi bevo il caffè e termino le mie cose prima di andar via. -

- Perché sei così testarda? Non pensare a quello che devi fare, posso finire io il tuo lavoro. Va a casa a riposarti, anzi, prenditi qualche giorno di ferie. -

- Certo, e dove me ne vado? - pensò tristemente. Era sola in quella città e non aveva amicizie al di fuori dei colleghi di lavoro con i quali usciva di rado.

- Andrò a casa, ma non penso di prendermi delle ferie. - rispose con tono accondiscendente nell’intento di accontentare il collega insistente. Si allontanò da Luis ancora in preda all’ansia procuratale dal flashback. Entrò nella toelette richiudendo a chiave la porta alle sue spalle. Si guardò allo specchio. Posò il bicchiere del caffè sul lavandino e si tolse gli occhiali. Si sciolse lo chignon smovendo il capo facendo ondeggiare i capelli sulle sue spalle. Le lacrime cominciarono a rigarle silenziosamente le gote lievemente arrossate dallo sbalzo di pressione. Accennò un sorriso alla superficie argentata posta di fronte a lei. Fu colta dal panico. Si portò le mani al volto coprendo quei tratti tanto somiglianti a quelli della ragazzina vista nel flashback…e nei suoi sogni. Identiche. In preda allo sconforto e ai singulti si lasciò scivolare lungo la porta. Afferrò le ginocchia tra le gambe e accoccolò il capo su di esse. I brividi seguitavano a percorrerla mentre le ombre del passato sembravano essersi impossessate di lei. La ragazza del sogno: le somigliava molto. No. Erano due gocce d’acqua. Patty. Le venne in mente quel nome che più di una volta Oliver aveva ripetuto, il nome con cui lui l’aveva chiamata al suo arrivo e anche successivamente. Era forse questa la ragione della confusione del ragazzo? La loro somiglianza?

- Cosa mi sta succedendo! Queste immagini che si sovrappongono, i mal di testa, lo stato ansioso. Mi sento di impazzire. Devo andare da un medico, non posso continuare così. No, forse ho solo bisogno di riposo, di riordinare le idee e capire perché il pensiero di Oliver Hutton è diventato tanto assillante. -. Si rialzò lentamente e cercando di riacquistare l’autocontrollo, si sciacquò il volto, si risistemò i capelli e inforcò gli occhiali. Titubante e incerta su quello che avrebbe fatto, uscì lentamente e si avviò verso l’ufficio accettazione del pronto soccorso. Silenziosa, smise il camice bianco e andò oltre il bancone, afferrò le cartelle di sua competenza con l’intenzione di terminare di compilarle prima di andare via.

- Dottoressa Hamilton! - esclamò una voce alle sue spalle. La stessa del sogno, la stessa che oramai aveva avuto occasione di sentire più volte. Si voltò e vide un ragazzo alto e bruno di fronte a lei. Istintivamente gli sorrise. Avrebbe dovuto essere adirata con lui per il comportamento avuto durante l’ultimo incontro. Tutt’altro. Si riscoprì felice di vederlo. Mentre il cuore le batteva forte in petto, ebbe l’impulso di correre tra le sue braccia. Le gote si colorarono di quell’imbarazzo adolescenziale, che non ricordava aver mai provato.

I capelli scompigliati, il fisico atletico, quel suo sguardo quieto, il sorriso dolce, l’aria sicura che infondeva. Era quello Oliver Hutton. L’aveva fermata per salutarla. Dietro di lui riconobbe il suo procuratore e il dottor Velasquez.

- La stanno dimettendo signor Hutton? - gli chiese tralasciando il tono confidenziale che si erano scambiati in precedenza. Lui le sorrise divertito chinando il capo in segno di assenso. Era bella Trish Hamilton. Indossava un dolcevita nero aderente che sottolineava le forme generose e perfette del suo essere donna. Le gambe lunghe e ben tornite erano fasciate da un pantalone dello stesso colore della maglia, sulla quale riverberava una catenina con appesa una perla. Nella sua semplicità, era di una raffinatezza ed eleganza disarmanti.

- Sì. Vado via. - le disse sempre a capo chino. Era dispiaciuto perché in quelle quasi quattro settimane trascorse in ospedale non aveva avuto il coraggio di avvicinarla, di conoscerla. In fondo, era rimasto sempre il solito timido Holly imbranato con le donne. Dov’era finito il coraggio con il quale avrebbe voluto confessare a Patty il suo amore?

- Spero che possa riprendere a giocare al più presto. - esclamò continuando a guardarlo negli occhi incurante del rossore che le procurava. Era dispiaciuta. Andava via, forse per sempre.

- Me lo auguro anch’io. L’inattività mi impigrisce. -. Era una conversazione sterile, priva di sentimento eppure, doveva esserci e per questo Oliver l’aveva intavolata.

- Allora, buona fortuna! - gli disse tendendogli la mano. Holly protese la sua verso quella della dottoressa. Dal polsino della camicia pendeva il ciondolo del braccialetto che aveva visto nel suo flashback. Lo guardò intontita e quasi ipnotizzata. Aveva l’impressione che lui la stesse guardando esattamente come nella visione che aveva avuto poco prima, nella stessa maniera in cui aveva guardato Patty.

- Grazie per quello che hai fatto per me, Trish. - le disse comprendendo il disagio del momento. Lei distolse lo sguardo dal bracciale e fissò i suoi occhi scuri. Erano nostalgici. L’aveva chiamata per nome e il suono della sua voce le era sembrato dolcissimo, le aveva riempito il cuore e la mente come un raggio di sole che prorompente era entrato di lei per splendere con tutto il suo bagliore.

 

Amore è ogni moto della nostra anima in cui essa sente se stessa e percepisce la propria vita.

La felicità è amore, nient'altro. Felice è chi sa amare. Amore è ogni moto della nostra anima in cui essa senta se stessa e percepisca la propria vita. Felice è dunque chi è capace di amare molto. Ma amare e desiderare non è la stessa cosa. L'amore è il desiderio fattosi saggio; L'amore non vuole avere; vuole soltanto amare.”

 

Quelle frasi di Herman Hesse echeggiarono nella sua mente accompagnate dalla voce di Oliver. Quel nuovo contatto l’aveva fatta fremere. Era forse stato un attimo di felicità? Quello strano sentimento, l’amore, che lei ricordava di non aver mai vissuto? Ripensò a quanta passione Oliver avesse esternato nel parlare di Patty. Il suo amore verso quella ragazza era tale da portarlo a soffrire in quel modo? Pensò a lei. Non riusciva a non pensare a Oliver, desiderava percepire la sua malinconia, far propri i suoi dispiaceri ed aiutarlo a risorgere. Era questa la felicità? L’amore incontrastato verso una persona, fatto di rinunce e sofferenza pur di veder realizzata la sua felicità?

 

 

- Ho fatto quello che dovevo, Oliver…anzi…devo scusarmi per quello che è successo…

- No. E’ colpa mia. Mi sono lasciato trasportare egoisticamente dalla mia sofferenza, senza tener conto dei pensieri o dei problemi altrui. Dovrei essere io a scusarmi…per non averti capita! - aggiunse quasi con un sussurro.

- Allora ci scusiamo reciprocamente dimenticando quello che è successo! - gli disse sorridente. Le loro mani erano ancora una dentro l’altra. Il procuratore di Holly lo riportò alla realtà esortandolo ad andar via.

- Buona fortuna Oliver. -

- Trish…io…-. Dalle sue labbra avrebbe voluto far uscire frasi ben definite, parole che le avrebbero accarezzato la mente, sciolto il ghiaccio che incatenava il suo cuore ad un nostalgico passato. Nulla. Riuscivano solo a guardarsi profondamente negli occhi. Desiderava avere quella donna. In quel momento ne fu certo. Lei era il completamento della sua amata Patty.

Patty era la cara amica di cui si era innamorato, la presenza incontrastata della sua vita, la persona che maggiormente aveva contribuito alla realizzazione del suo sogno di calciatore. Trish era la parte adulta che avrebbe dovuto sbocciare in Patty, la donna che non aveva visto formarsi dinanzi i suoi occhi. Lei era colei che con un semplice sguardo risvegliava l’uomo che era in lui creandogli un fermento e un’eccitazione tali che non aveva mai provato prima. Non solo era inverosimilmente somigliante a Patty, ma era come lei, senza la sua evanescenza da adolescente ma con una passione dormiente che attendeva solo di essere risvegliata. Ne era certo.

- Allora…addio Oliver. - gli disse mentre il procuratore continuava a richiamare il suo assistito.

- E’ un arrivederci, Trish. - rispose staccando la mano dalla sua. La guardò ancora una volta e la oltrepassò varcando l’uscita dell’ospedale.

- Oliver! - pensò voltandosi verso l’uscio. Era lì, oltre la porta a vetri, che attendeva solo di ricevere un suo ultimo saluto. Salì sull’auto del suo accompagnatore alzando la mano in segno di saluto. Trish sperava in cuor suo che quello era stato solo un arrivederci, prologo forse di un incontro non troppo lontano. Incapace di non pensare ad altri che a Oliver e ai flashback, Trish consegnò a Luis le cartelle e andò via in preda ai tumulti del cuore.

 

 

 

Nonostante si fosse già a metà novembre, il clima era mite e la temperatura sembrava essersi stabilizzata sui venti gradi centigradi. Le giornate di sole si alternavano a quelle variabili e la pioggia pareva esser scomparsa dalle previsioni meteo. Era trascorsa una settimana dacché Oliver Hutton aveva lasciato l’ospedale e soprattutto aveva inferto una dura ferita al cuore di Trish Hamilton.

Correva lungo la passeggiata che costeggiava la Barceloneta mentre il sole intrideva dei suoi più caldi colori il mare del crepuscolo. Toni dorati e vermigli si alternavano a quelli purpurei trascinati da un ondeggiare lucente che sembrava percorrere il lungomare. Coppie di innamorati, famiglie, amici, passeggiavano felici nel parco e lungo il viale che dalla ramblas conduceva alla piazza intitolata al navigatore Cristoforo Colombo.

Il capo incurvato coperto dal cappuccio del giubbino che la abbracciava, mentre le gambe flessuose vestite di un morbido pantajazz si rincorrevano sull’erba fresca adombrata dall’incedere della sera.

Una pietra rimbalzò vicino i suoi piedi facendole perdere l’equilibrio. Il cappuccio ricadde all’indietro e i capelli lunghi si distribuirono lungo la schiena. Respirò l’aria della sera a pieni polmoni, sentendo una ventata di libertà. Un pastore tedesco di media taglia, evidentemente giovane, le si avvicinò per recuperare l’oggetto del lancio. Divertita dal cane, afferrò il sasso mostrandoglielo e cercando di attirare la sua attenzione. Le erano sempre piaciuti i cani. Il pastore tedesco continuava a scodinzolare la coda in segno di amicizia, fino a ché, palesemente catturato da quell’incontro casuale, non prese a mordicchiarle le scarpe da ginnastica.

- Ehy, che fai birbante. Vuoi il tuo sasso, ed io non te lo do. No…aspetta, hai vinto tu! - disse ridendo e rilanciando il sasso verso una panchina deserta.

- Tutto bene signorina? - le chiese una voce sopraggiungendo alle sue spalle. Si voltò e guardò in alto verso l’interlocutore. Il ritmo cardiaco era accelerato. Un nodo in gola le impediva di parlare. Il sorriso scomparve dal suo volto lasciando spazio alla meraviglia. Il pensiero che le aveva risvegliato tristezza e malinconia in quei giorni, l’oggetto del suo desiderio era lì dinanzi a lei spinto da un destino che sempre più spesso li faceva incontrare. Lui la guardava stranito, catturato dalla sua bellezza e dalla sua strabiliante somiglianza.

- Patty! - pensò tra sé prima di proferire quel nome. Vide la catenina con la perla che circondava il collo nudo. Parve risvegliarsi dal sogno e tornare ad una dimensione in cui lei era sempre più spesso presente. Era Trish, la sua amica Trish.

- Trish! - esclamò cercando di imprimere nella mente ogni singolo particolare di quel viso dipinto dalla penombra della sera. Il sole sembrava una grande lampada dalla luce soffusa che aveva creato intorno a loro una romantica atmosfera.

- O…Oliver! - rispose incredula balbettando il nome del ragazzo. Era dinanzi a lui, come non gli si era mai mostrata, sempre più identica al fantasma del suo passato.

- Ma cosa ci fai qui? - le chiese cercando di rompere il ghiaccio.

- Mi faccio atterrare da un cane! -. Lui la guardò e poi scoppiò a ridere divertito da quella battuta ironica. Fintamente offesa, voltò il capo dal lato opposto per poi guardarlo nuovamente e ridere anche lei. Il ghiaccio si stava sciogliendo riscaldando i loro cuori.

- E tu? -

- Porto a spasso il cane che ti ha atterrato. Abito lassù. - le disse indicandole un attico in un palazzo ben visibile dal parco.

Senza neppure chiederglielo, Holly si sedette sull’erba accanto a lei e così, rimasero in silenzio a guardare il sole infuocare il mare e il cielo in un unico dipinto.

- Le somiglio così tanto da destare sempre tanta meraviglia in te? - gli chiese non sorprendendolo.

- Più di quanto tu non possa immaginare. Con i capelli sciolti e senza occhiali…sembri lei…e per un attimo ho pensato di averla dinanzi ai miei occhi. -

- Allora sei rimasto deluso di aver trovato me…

- No.…ma cosa dici? Lei è Patty e tu sei Trish! - sentenziò con un velo di tristezza facendo assumere ad ognuna di loro la rispettiva identità.

- Parlami di lei…così potrò capire la tua sofferenza. - gli disse posando la sua mano su quella del ragazzo. Seguitava a guardare lo spettacolo di colori che si offriva ai loro occhi.

- L’ho conosciuta al mio arrivo a Fujisawa, circa quindici anni fa. Era la mia prima fan, la manager della squadra in cui giocavo e della nazionale juniores, la mia migliore amica, la mia ombra, colei che sognava insieme a me, colei che c’era sempre…quando la cercavo o quando ne avevo bisogno. Ho sempre creduto che vivesse in funzione mia, per l’amore tanto declamato dai miei compagni e del quale fingevo di non accorgermi. La verità l’ho capita quando a quattordici anni mi trasferii in Brasile realizzando il mio più grande sogno. Imparare a giocare a calcio da professionista. Sebbene ci fossimo salutati il giorno prima, lei venne all’aeroporto, e mi regalò questo braccialetto, che ho sempre portato con me, come un portafortuna…come una parte di lei. -. Trish sbarrò gli occhi. La scena dell’aeroporto l’aveva vista poco prima che fosse dimesso. Tolse la sua mano da quella del giovane, completamente assorbito dai ricordi.

- Mi resi conto dei miei sentimenti solo al mio arrivo in Sud America. Lei era la parte migliore di me…il mio completamento, la persona che più di tutte mi mancava. Compresi allora che ero io che ero vissuto in funzione sua e non il contrario. Costantemente cercavo la sua immagine tra i tifosi sugli spalti, o la vedevo in panchina mentre prendeva diligentemente appunti sugli schemi della partita. E quando mi arrivavano le sue lettere o sentivo la sua voce…mi emozionavo come un bambino. Mi ero innamorato di lei e decisi di dirle tutto. Sono sempre stato timido nell’esternare i miei sentimenti, così decisi che le avrei fatto una sorpresa. Le feci riprodurre lo stesso braccialetto che lei mi regalò due anni prima come pegno della nostra amicizia e le scrissi una lettera nella quale la informavo che sarei arrivato per Natale. Quando rientrai in Giappone purtroppo, ebbi una cattiva sorpresa. Patty era scomparsa, con lei la sua famiglia. Da allora non l’ho più ne vista ne sentita e ogni giorno vivo con il rammarico di non averle mai detto quanto la amavo. - disse chiudendo gli occhi. Trish aveva ascoltato silenziosamente il suo racconto, profondamente toccata dalla storia che aveva udito. Comprendeva solo adesso perché accusasse tanta nostalgia di quella creatura che timidamente l’aveva accudito vivendo il suo sogno d’amore e il motivo della sua immane sofferenza. Avrebbe voluto amare quella ragazza ma il destino li aveva separati ancor prima di farli rincontrare, prima che potessero scoprire insieme la grandezza del loro sentimento, prima che potessero essere felici.

- La ami ancora? - gli chiese cercando di sincerarsi su quali fossero i reali sentimenti nei suoi confronti. Era una domanda diretta e l’eventualità di una risposta positiva la spaventava.

- Non lo so più. - rispose sinceramente confuso da tutti i sentimenti e le emozioni che contrastanti turbinavano nel suo cuore dacché aveva incontrato Trish. Si sentiva molto attratto da lei ma aveva quasi l’impressione di tradire il suo amore per Patty.

- Una volta forse avrei risposto di sì, e per quanto dolce sia il suo ricordo…adesso sono confuso…non so più cosa fare e cosa desiderare! -. Ancora il silenzio che adagio scese tra di loro mentre i lampioni illuminavano timidamente il parco. I colori caldi del crepuscolo avevan lasciato il turno a quelli più freddi della sera che aveva avvolto quasi del tutto la città ricoprendo la superficie del mare di un velo scuro e setoso.

- Perché soffri tanto Trish? - le chiese di soppiatto destandola dai pensieri. Non rispose non sapendo da che parte cominciare. Si sentiva a suo agio con lui. Sapeva che poteva aprirsi con quel giovane che le aveva ispirato subito tanta fiducia. Era diverso da Jason, somaticamente e caratterialmente. Oliver aveva in se una grande passione a cui era stato impedito di crescere sottoforma di travolgenti emozioni. Era più uomo di lui, aveva più cuore di lui.

- Perché non ho una mia identità. I miei ricordi partono da meno di dieci anni fa. Il resto è rinchiuso nel buio più scuro e lontano della mia mente. -. Erano vicini, pericolosamente richiamati da una strana eccitazione che prendeva forma nei loro corpi.

- Non capisco. - le disse guardandola incuriosito. Lentamente, con la mente ne disegnò il profilo incorniciato dai capelli vellutati che si muovevano leggermente sospinti dalla brezza. Sentiva il suo profumo, scorgeva i seni maturi sollevarsi al ritmo del suo respiro.

- Ho avuto un incidente a causa del quale ho perso la memoria. Non ricordo più nulla della mia adolescenza e tanto meno della mia infanzia. Ho perso tutti quelli che erano i miei ricordi, gli affetti e i sogni che avevo coltivato per il mio futuro. Ho dovuto ricominciare tutto daccapo, cercando di ricostruire me stessa, con l’aiuto della mia famiglia. -. Un sospetto prendeva sempre più piega nella sua mente e nel suo cuore. Doveva sapere.

- Come hai avuto l’incidente? -

- Mia madre mi ha detto che è successo mentre eravamo in visita presso dei parenti. Uscita dal coma e dimessa dall’ospedale siamo tornati nella nostra casa a Chicago. Lentamente ho ripreso gli studi e mi sono laureata in medicina. Ho scelto di studiare medicina per potermi dedicare a coloro che avevano bisogno, tutte quelle persone che avevo visto soffrire durante la mia degenza in ospedale. Volevo rendermi utile al prossimo, fare quello che qualcuno aveva fatto per me, per salvarmi la vita. -. Deluso dalla sua spiegazione, Holly annuì e la guardò ancora. Era così triste che poteva sentire la sua malinconia.

- Come mai sei qui in Spagna? -

- Non ne potevo più di stare con loro: mi avevano fatto vivere in una campana di vetro. Iperprotetta, una ragazza di porcellana, che al minimo urto avrebbe potuto rompersi. Ma io non ero così. Mi ero ripresa dall’incidente, almeno fisicamente. Desideravo solo poter vivere come le mie coetanee, correre con loro, respirare la mia adolescenza. Loro mi impedivano di fare tutto questo. Dovevo essere protetta da qualsiasi cosa che avrebbe potuto ledere il mio fragile stato psico-fisico.

- Durante il mio tirocinio a Chicago, feci domanda per un concorso interno vincendo una borsa per studiare all’estero. Tra le città proposte scelsi Barcellona perché c’era il mare. -. Anche a Patty piaceva il mare. Lo adorava. - Ricordo di aver sempre vissuto in loro funzione, cercando di non deludere le loro aspettative, di essere una studentessa modello, una figlia per bene. Ero esasperata. Dovevo andar via per non continuare a vivere succube della loro volontà. Non li vedo da due anni. A mia madre ho dato solo l’indirizzo e-mail perché ogni tanto potesse scrivermi. Sono caduta nel loro dimenticatoio. Sterili auguri di buon compleanno o di Natale per la figlia fedifraga fuggita all’estero dalle grinfie di una famiglia asfissiante. -.

- Hai avuto molto coraggio. -

- Non so se fosse stato più forte il coraggio o l’esasperazione. Volevo vivere la mia vita, cercare me stessa e costruire un futuro….ma gli incubi continui del mio passato, mi hanno sempre impedito di vivere serenamente i giorni avvenire.

Avevo un amico negli Stati Uniti, un mio compagno di studi, un bravo ragazzo, figlio di una ricca famiglia di Chicago, il fidanzato tanto sospirato e sognato da ogni madre. Non siamo mai stati insieme. Ogni tanto ci trovavamo nello stesso letto ed ogni volta, me ne andavo in preda alla tristezza e a un senso di sgomento verso la mia vita vuota. Mi mancava l’amore. Non ho mai amato Jason…e forse, non ho mai amato nessuno. -. Era rammaricata, crucciata verso quel passato vuoto che non le aveva permesso di vivere al meglio i migliori anni della sua vita. Oliver non aveva distolto lo sguardo da lei e nel buio della sera vide i suoi occhi umidi e gonfi di quelle lacrime che chissà quante altre volte aveva versato. Per un attimo, un lungo istante, aveva sperato che le dicesse di essere Patty, che aveva perduto la memoria e che qualcuno, inspiegabilmente le aveva dato una nuova identità. In quel momento, era cosciente che lei era Trish, una donna che l’aveva colpito al cuore, le cui confessioni adesso echeggiavano nella sua mente ricordandogli che era una creatura fragile ed indifesa. Erano soli loro, con i rispettivi fantasmi, così differenti eppure così simili, bisognosi di un amore che li aveva sfiorati ma mai travolti. Impulsivamente le mise un braccio intorno alla spalla e l’accolse in un abbraccio tanto d’amore quanto di speranza.

- Mi sento sola, Oliver, ed ho paura di restarlo per tutta la vita. -

- Ora…non sei più sola. - le sussurrò stringendola ancor più forte a se. Diceva seriamente. Voleva rassicurarla, tenerla stretta al suo petto e…amarla.

Lo squillo del telefono cellulare di Oliver irruppe spezzando l’incantesimo di quell’attimo.

- Pronto? -

- Oliver, ciao sono Edoardo. Come stai? - chiese il compagno di club calcistico.

- Bene grazie, Edo. Mi sto riprendendo dall’incidente e molto presto tornerò ad allenarmi. -

- Senti, sono nei pressi di casa tua. Dovrei lasciarti un pacco da parte dei ragazzi. -

- Sono al parco. Arrivo subito. Grazie Edo. -

- Ti aspetto giù al portone. -

- Okay, ci vediamo tra un po’. - concluse spegnendo il cellulare.

Trish lo guardò dispiaciuta. Sarebbe andato via entro pochi minuti per raggiungere l’amico. Cosa sarebbe successo tra loro?

- Ti accompagno a casa! - le disse dolcemente. Lei scosse il capo e gli sorrise. Sembrava più tranquilla.

- Va pure. Non preoccuparti. Resto qui ancora un po’. E’ una bella serata. - rispose con il cuore ansioso di ricevere il suo amore. Avrebbe voluto che restasse lì con lei, accoccolati sotto le stelle, nel silenzio del loro amore che lentamente stava sbocciando, ma forse era troppo presto. Il cane corse verso di loro richiamato dal fischio di Oliver. Gli si buttò addosso per giocare e non smise fino a quando Trish non lo richiamò verso se. Oliver si alzò e la guardò ancora. Fischiò nuovamente al suo cane e si allontanarono. Non si diedero appuntamento ne si scambiarono i numeri di telefono. Erano consapevoli che in un modo o nell’altro, si sarebbero ritrovati.

 

Il faro acceso di una bicicletta di passaggio, illuminò un oggetto nell’erba. Trish lo cercò con la mano sentendo subito un brivido percorrerla. Era un oggetto metallico, freddo, non pesante. Comprese subito di cosa si trattasse. Lo rigirò tra le mani e se lo portò più vicino agli occhi cercando di scorgere in esso i più intimi segreti che ne erano contenuti.

- Il braccialetto che Patty regalò a Oliver prima della sua partenza. - pensò stringendolo nel suo pugno. - Devi averlo amato più della tua stessa vita. Eri solo un’adolescente eppure eri capace di vivere il tuo sentimento in silenzio senza sapere di essere profondamente ricambiato. Patty, mi sto innamorando di Oliver, del tuo amato. Sei uscita drasticamente dalla sua vita e adesso che lui mi ha teso la mano, io non posso ritirarla. Perdonami se provo qualcosa per lui, ma…ho bisogno del suo affetto, della sua amicizia, del suo amore. Ho bisogno di sentirmi donna. Ti posso fare solo una promessa: cercherò di renderlo felice. Non farò in modo che ti dimentichi, sei una parte di lui, e non potrei portargliela via. Cercherò di donargli il mio amore…è l’unica cosa che ho e di cui ho bisogno. - pensò sollevandosi. Strinse ancora il braccialetto e decise che doveva andare a restituirlo al legittimo proprietario. Immediatamente.

 

Corse verso il palazzo indicatole da Oliver. Si sentiva libera e desiderosa di avvertire ancora sulla sua pelle il calore delle sue braccia.

Ansimante lo trovò e scorse velocemente i cognomi sul citofono. Ultimo piano. Non fu necessario suonare. Il portone era aperto. Fece un respiro profondo cercando di attenuare l’ansia che l’attanagliava.

Gli avrebbe lasciato il braccialetto sotto la porta e sarebbe andata via. Rise di se pensando a quello che stava facendo. Aveva timore di suonare a quel campanello, di rivederlo.

Quando l’ascensore si fermò, spalancò le porte e si ritrovò su quel pianerottolo dove c’era solo una porta. La targhetta esterna riportava il suo nome. Riprese fiato e si avvicinò all’uscio. Il cuore le batteva così forte che temeva potesse sentirla. Guardò il braccialetto che aveva stretto fino a poco prima. All’improvviso la porta si aprì e si sentì mancare per l’imbarazzo. Di fronte, l’uno all’altra, ancora una volta.

- Trish…! - esclamò sorpreso di vederla.

- O..Oliver..io…hai perso questo! - gli disse porgendogli il braccialetto. Non smetteva di guardarla. I capelli leggermente scompigliati, il rossore sul suo viso, i lineamenti perfetti, i suoi occhi che vibravano, il suo corpo sinuoso di donna. Senza proferire alcuna parola, le si avvicinò, le prese il volto tra le mani e la baciò spinto da un’irrefrenabile passione. Lei ricambiò subito, non colta di sorpresa da quel gesto ma vogliosa e ansiosa di quel giovane incontrato per caso, che aveva aperto il lei lo spiraglio di un futuro più luminoso.

Senza lasciarla, la trascinò all’interno dell’appartamento richiudendosi la porta alle spalle. Seguitava a baciarla prima sul volto e poi sul collo fino a percorrere con le labbra i movimenti sicuri delle sue mani sul corpo di lei. Carezze dolci, intense che si scambiavano reciprocamente esplorando i loro corpi prima vestiti poi nudi, che caddero sul letto stretti nella morsa di un sentimento troppo a lungo represso e in attesa solo di respirare. Stanchi solo quando i loro cuori e i loro corpi furono sazi, si addormentarono l’uno nelle braccia dell’altra attendendo di vedere insieme l’alba di un nuovo giorno.

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Capitolo 6
*** Patty o Trish? ***


CAPITOLO 6

 

Patty o Trish?

 

 

 

Un bagliore bianco proveniente dal salone fievolmente illuminava la camera da letto. Schiuse le palpebre e tentò di girarsi ma sentì subito il peso di qualcosa sul suo corpo. Il braccio di Oliver le cingeva la vita sottile nascosta sotto le lenzuola candide. Chiuse gli occhi ripensando a quello che era successo qualche ora prima e sentì un immane calore invaderla. Era andata per restituirgli il braccialetto e si erano lasciati andare, trascorrendo una straordinaria notte in cui si erano amati intensamente. Lei lo aveva amato e se solo glielo avesse chiesto, sarebbe rimasta lì per tutta la vita. Se ne era innamorata. La sua sincerità, la freschezza e la semplicità del suo carattere: Oliver l’aveva conquistata con poco perché aveva mirato diritto al cuore. Posò la sua mano sulla sua accarezzando la pelle morbida. Guardò l’orologio sul comodino che segnava le sei del mattino. Alle sette doveva essere in ospedale. Movendosi cautamente per non svegliarlo, si liberò dal suo abbraccio, scese dal letto, raccolse i suoi indumenti dal pavimento, afferrò lo zainetto nel quale portava sempre con sé un cambio di biancheria intima e si diresse verso la porta che intuì celare il bagno in camera.

La richiuse alle sue spalle e aprì il rubinetto dell’acqua calda nella doccia lasciando che una miriade di piccolissime gocce scivolassero lungo il suo corpo infondendole subito un effetto benefico. Era felice come non lo era mai stata. Una sensazione che non aveva mai provato prima. Aveva amato Oliver anche col cuore, non solo col corpo. Un’emozione del tutto differente da quella che aveva provato in precedenza con Jason. Sorrise al mattino che la stava accogliendo, incurante di quello che sarebbe accaduto. Desiderava conservare nella sua mente ogni minimo particolare di quella notte che avrebbe voluto piacevolmente ripetere. Avvolta in un grande telo di spugna, si spazzolò i capelli e li asciugò velocemente con il phon. Si guardò allo specchio. Aveva un’espressione diversa. Lei, che il mattino prima era scoppiata in lacrime dopo aver visto l’immagine di Patty, impaurita da tanta somiglianza, adesso si specchiava gioiosa per quello che le era successo. Si rivestì in fretta e uscì dal bagno. Oliver dormiva ancora. Gli si avvicinò silenziosamente. Dormiva beato come un angelo. La luce proveniente dal corridoio illuminava appena il suo giovane volto. Posò delicatamente le labbra su quelle di lui sfiorandole lievemente per salutare l’amante di quella notte. Camminando in punta di piedi, uscì furtivamente dalla stanza da letto percorrendo il corridoio e accedendo al grande salone. Il bagliore che l’aveva destata proveniva dalla grande porta finestra che dava accesso alla terrazza. Catturata dalla luce, si avvicinò alla finestra spostando leggermente le tende bianche. Era uno spettacolo meraviglioso. La terrazza si affacciava direttamente sul mare che brillava alle prime luci del mattino. Durante la notte il cielo si era coperto e adesso, i toni argentati delle nuvole si riflettevano metallicamente sullo specchio d’acqua.

Col sorriso sulle labbra richiuse la tenda, afferrò il suo zainetto e ne estrasse un biglietto da visita ed una penna.

- Lavoro fino alle diciannove. Trish. - scrisse sinteticamente. Non sapeva se doveva esprimere i suoi sentimenti all’indomani di quella notte, ma desiderava fargli sapere che non era fuggita. Diversamente da Patty lei c’era e sarebbe rimasta volentieri a condividere altri momenti della sua vita. Uscì silenziosamente dall’appartamento. Avrebbero potuto trascorrere insieme la serata. Lei l’avrebbe cercato e in cuor suo sperava che anche lui facesse qualcosa per alimentare la fiamma di un sentimento appena nato.

 

 

L’aereo proveniente da Tokyo iniziò la sua discesa sulla pista dell’aeroporto internazionale di Barcellona. Amy strinse la mano di Julian ancora assopito per il lungo viaggio. Amava suo marito e per lui nutriva quasi uno strano sentimento di adorazione.

- Jul tesoro, svegliati. Siamo arrivati. -

- Uhm…ma come già a casa? -

- Certo tesoro. Siamo in fase di atterraggio. -

- Ma quanto ho dormito? -

- Tanto. - rispose divertita.

- E tu? Hai riposato? - le chiese premuroso.

- Sì certo, ma non vedo l’ora di essere a casa e farmi un bel bagno caldo. -

- A chi lo dici…come ti senti? -

- Piuttosto bene. Carica di energie. -

- Avrai una giornata intensa? -

- Intendo svegliare Holly e dirgli quello che abbiamo scoperto. -

- Amy, sono le sei e mezza del mattino. Forse starà dormendo! -

- Si sveglierà ben volentieri…vedrai se questa volta non troviamo Patty! -

- Mah. Spero solo che tutto questo tuo indagare alla fine porti a qualcosa di sostanziale. Non vorrei che ci fossimo sbagliati. -

- Anche se si trattasse di un banalissimo errore…almeno ci avremo provato. -

- Già. Sempre filosofica, eh? -

- Non mi sfottere. Ti dirò di più. Adesso andiamo direttamente a casa di Holly. Non sono cose di cui parlarne per telefono. -

- Hai proprio intenzione di farlo irritare. -

- Holly non si arrabbia mai. Lui è sempre molto salomonico. Gli porteremo la colazione calda e vedrai che si addolcirà. -

- Speriamo. E i bagagli ce li portiamo insieme? -

- Ho pensato anche a quello. Manuel ci aspetta qui fuori. L’ho chiamato ieri per dirgli a che ora arrivavamo. Li porterà a casa. -

- Demordo. Hai vinto tu. - concluse slacciandosi la cintura di sicurezza. Amy desiderava scoprire dov’era finita Patty e se c’era il benché minimo legame con Trish Hamilton. Nulla l’avrebbe scoraggiata, tanto meno svegliare Holly alle prime ore del mattino. In fondo, Julian ne era consapevole, che senza quel carattere testardo e comprensivo, lui non sarebbe arrivato dov’era.

 

 

 

Si rigirò nel letto cercandola con la mano. Quando sentì solo il materasso coperto dal lenzuolo, aprì gli occhi e comprese che era andata via. Sospirò e si portò le mani sotto la nuca.

- Mi manca già. Mi sto innamorando di lei. Ci si può innamorare di qualcuno se si è stati con questa persona una sola notte? Patty. Il mio adorato angelo…ho l’impressione di averla tradita eppure…Trish mi manca. Ho bisogno di tutte e due. Di vivere nel ricordo di Patty e di amare Trish. Non avevo mai provato una sensazione del genere. Non è stata solo la passione di una notte, la necessità di sentirmi uomo…sono stato bene con lei, molto bene: l’ho desiderata amandola intensamente…e questa mattina avrei voluto trovarla qui, accanto a me, stringerla ancora tra le mie braccia, sentire le sue labbra morbide sulle mie. - pensò guardando il soffitto. Rise di se, di come in poche settimane la sua vita sembrava aver preso una piega differente. Oramai sveglio, si alzò e si diresse in bagno scoprendo piacevolmente che prima di andar via, Trish si era fatta la doccia.

Quel gesto gli fece chiaramente comprendere che la sua non era stata una fuga ma probabilmente una necessità.

Terminata la doccia, ancora avvolto nell’accappatoio si diresse nel salone e come d’abitudine scostò le tende della porta finestra per vedere com’era il tempo. Guardò il mare e ripensò a Fujisawa, alla città in cui era vissuto per tanti anni, in cui aveva iniziato a giocare a calcio, la città in cui aveva conosciuto Patty e quelli che ancora rimanevano i suoi più cari amici. Con una nota di tristezza pensò a Bruce e a quante volte lui e Patty litigavano bonariamente rincorrendosi per spogliatoi e campi di calcio. A Evelyn che l’aveva reso padre di due gemelli. Ai ragazzi della New Team: Bob, Paul, Jhonny e Ted giocavano nei club principali del Giappone. Pensò a sua madre che in occasione dell’incidente voleva andarlo a trovare: le aveva impedito di fare quel lungo viaggio tranquillizzandola che stava bene. Sapeva come avrebbe reagito di fronte a Trish. L’avrebbe scambiata per Patty e non si sarebbe tolta quel pensiero neppure dopo la partenza. Esattamente come Philip, Julian e Amy. Un brivido gli percorse la schiena. Ebbe la strana sensazione che qualcosa avrebbe cambiato il corso di quella giornata iniziata in maniera apparentemente tranquilla.

Tornò in camera da letto e si vestì comodamente per uscire a fare una corsetta. Si stava riprendendo dall’incidente e da qualche giorno gli era tornata la voglia di giocare a calcio. Subito dopo andò in veranda per accertarsi che il suo fedele amico fosse in buone condizioni. Il telefono squillò riportandolo alla realtà. In cuor suo, sperava che si trattasse di Trish ma non le aveva lasciato il recapito telefonico.

- Pronto? -

- Buongiorno Oliver, sono il dottor Andres. Come va stamattina? -

- Bene dottore. Stavo uscendo per fare una corsa e poi alle nove ci vediamo al centro sportivo come sempre. -

- Va bene. Mi raccomando Oliver, non sforzare troppo la gamba. Il recupero deve essere graduale e non invasivo. Ti ho telefonato perché volevo sapere quando rientrava Julian Ross. - gli disse.

- Oggi. L’aereo dovrebbe essere già atterrato. Sono le otto meno venti. E’ probabile che stia andando a casa. -

- Va bene, grazie Oliver. Ci vediamo dopo. -

- Dottore vorrei farle una domanda. -

- Sì, dimmi pure. -

- Secondo lei è possibile che una persona possa recuperare la memoria dopo tanto tempo? - gli chiese pensando al problema di Trish e a come avrebbe potuto aiutarla.

- Dipende. Non è certo ma talvolta è capitato. Vedi Oliver, spesso la perdita di memoria non è dovuta ad un problema fisico ma psichico. Per esempio, la perdita di qualcuno a cui si tiene molto, legato ad altri fattori potrebbe causare un trauma psichico con relativo shock e perdita di memoria. Se mi dai qualche altro indizio, forse posso darti maggiori chiarimenti. -

- Una mia amica ha avuto un incidente qualche anno fa e conseguentemente a questo ha perso la memoria. -

- Capisco. Per poter stabilire se può riacquistare la memoria, bisognerebbe sapere a cosa è dovuto il suo trauma. A volte, subire una grave perdita anche affettiva, può procurare un forte shock e si può desiderare di perdere i ricordi legati a questa persona. In tal caso, un trauma della stessa intensità, che provochi forti emozioni, può far sì che si risveglino gli antichi ricordi. Se ti interessa, dovresti parlarne con uno specialista, sicuramente sarà più ferrato di me in materia. -

- Grazie dottore, è stato gentilissimo e chiaro nelle sue spiegazioni. Ci vediamo più tardi. -

- Bene Oliver, a dopo! - rispose mentre Holly riponeva la cornetta sull’apparecchio.

Forse, se avesse chiesto a Trish maggiori chiarimenti sull’incidente, avrebbe potuto aiutarla a recuperare i suoi ricordi e a vivere in maniera più serena. Ma se poi quei ricordi avessero destato in lei preoccupazioni differenti, avessero fatto rinascere sentimenti ed emozioni verso persone e cose che appartenevano al suo passato, che ruolo avrebbe avuto lui? Che fine avrebbe fatto? In quale angolo della sua mente sarebbe stato relegato? Holly non avrebbe potuto reggere ad una nuova delusione sentimentale. Il destino gli aveva fatto incontrare Trish, l’aveva messa sulla sua strada perché somigliava a Patty. E lui lentamente stava imparando ad amare quella creatura tanto forte quanto fragile.

 

 

 

 

- Amy è il tuo telefono che squilla! -

- Strano. A quest’ora poi? - si disse cercando il cellulare nella borsa. Quando lo trovò fu stranita nel veder visualizzato un numero di telefono del Giappone.

- Pronto? - disse aprendo la comunicazione.

- Qui è il centralino internazionale. C’è una telefonata dal Giappone. Accetta l’addebito? - chiese la centralinista con fare meccanico.

- Sì certamente. -

- La metto in comunicazione. -

- Sì grazie. Pronto? -

- Ciao Amy, sono Evelyn. -

- Ciao Eve. Come mai a quest’ora? E’ forse successo qualcosa? - chiese preoccupata.

- Stiamo tutti bene, non temere. Volevo dirtelo ieri ma sai…con questi fusi orari alla fine ho perso l’orientamento. -

- Cos’è successo? -

- Come da accordo, mi sono recata presso lo studio in cui lavorava il padre di Patty, il signor Gatsby. Non ci crederai! -

- Cosa? Non tenermi sulle spine. Aspetta, ti metto in viva voce così ti può sentire anche Julian. - le disse dando il telefono al marito che lo sistemò nell’apposito apparecchio.

- Ciao Evelyn. -

- Ciao Julian, piacere di sentirti. -

- Allora Evelyn, raccontaci. - la esortò Amy impaziente di conoscere gli sviluppi delle loro ricerche.

- Come ti ho detto, mi sono recata in quello che una volta era lo studio in cui lavorava il signor Gatsby. Ho chiesto di lui, nessuno lo conosceva. Demoralizzata sono andata via, ma prima di entrare in macchina, il portiere mi ha chiesto chi cercassi. Quando gli ho chiesto del signor Gatsby, mi ha detto che dieci anni fa ebbe un incidente. Amy, il padre di Patty è morto in quell’incidente. -

- O santo cielo. E’ terribile! - esclamò preoccupata.

- Infatti. E’ stato un colpo davvero duro. Non me l’aspettavo. Ma non è tutto. -

- Cosa vuoi dire? -

- Ho chiesto al portiere dell’incidente. Mi ha detto che quel giorno il signor Gatsby si allontanò dall’ufficio contento perché avrebbe trascorso il pomeriggio insieme alla figlia. -

- Vuoi forse dire che erano insieme quando si è verificato l’incidente? -

- Esatto! -

- Cosa ti ha detto della figlia? - chiese avidamente e desiderosa di risposte immediate.

- A causa delle gravi condizioni fu portata in elicottero al centro traumatologico di Tokyo. -

- E poi? -

- Niente altro. Non ne ha saputo più nulla, ne di Patty ne della sua famiglia. Parlando con mio padre, mi ha detto che un suo amico lavora da quasi vent’anni all’anagrafe comunale. Avremmo dovuto pensarci prima Amy. Era la cosa più ovvia da fare. Ci sarebbe bastato un semplice certificato di residenza almeno per capire dove si trovava. -

- Continua. - domandò ansiosa con gli occhi di Julian puntati su di lei.

- Mi sono recata all’anagrafe. Effettivamente il padre di Patty risulta deceduto nell’incidente. Adesso viene il bello. Prima di chiedere di controllare i dati di Patty, ho fatto verificare quelli di James Hamilton. Sì è sposato con la signora Gatsby due mesi dopo l’incidente chiedendo al giudice non solo la custodia di Patty, ma data la prematura morte del padre naturale, di adottarla! -

- Vuoi forse dire che Patricia Gatsby è diventata Patricia Hamilton? - chiese all’amica mentre l’angoscia si insinuava sempre più nei suoi pensieri. Il cuore le batteva forte e un nodo in gola quasi le impediva di parlare. Evelyn era eccitata dalle scoperte.

- Sì Amy. Evidentemente aveva conoscenze importanti perché il certificato legale di adozione è stato rilasciato dopo poco e subito dopo l’inizio dell’anno la famiglia Hamilton si è trasferita a Chicago. Purtroppo non mi hanno potuto rilasciare una copia del certificato di adozione ne di quello di residenza. Quindi, non abbiamo neanche l’indirizzo di Chicago e non penso che negli Stati Uniti ci siano poche persone il cui cognome è Hamilton. Ammesso che risiedano ancora a Chicago. -

- Mi sembra tutto così…impossibile. Non riesco comunque a spiegarmi il motivo per il quale Patty sia andata via senza dir nulla a nessuno. -

- Amy, l’incidente si è verificato il giorno prima dell’arrivo di Holly dal Brasile. E’ questo il motivo per il quale Patty non venne all’aeroporto quel giorno. Sono andata al centro traumatologico di Tokyo ma sfortunatamente nessuno mi ha voluto dare le informazioni che mi servivano. Sono tutte strettamente riservate. -

- Non penso sia un problema. Sono sicuro che il padre di Julian conosce qualcuno e non ci negherà la cortesia di visionare la cartella clinica di Patty. Sei stata bravissima Evelyn.- le disse ringraziandola per il prezioso apporto che aveva dato alle ricerche.

- Lo penso anch’io. Non appena arriviamo a casa chiamerò mio padre e gli chiederò questo favore. Spero solo che ci dia le informazioni al più presto. Anzi, se sarà possibile, potremmo farci inviare per fax oppure per e-mail la copia della cartella clinica di Patty. - disse Julian sorprendendo Amy. Dov’era finito il suo scetticismo?

- Benissimo. Ragazzi, fatemi sapere qualcosa perché spero davvero che tutto questo serva a riportare a casa la nostra Patty. -

- Lo spero anch’io Eve. Un abbraccio a te, a Bruce e ai bambini. - le disse infine salutandola.

Terminata la conversazione, Amy distese il capo sul poggia testa del sedile posteriore. Sembrava stanca, non tanto del lungo viaggio quanto di quell’estenuante ricerca.

- Cosa facciamo ora? - le chiese Julian.

- Ti riferisci a Holly? -

- Sì. -

- Non so se è il caso di dirgli tutto questo. Non prima di essercene accertati. -

- Che situazione complicata. Più andiamo avanti e più scopriamo retroscena inverosimili. -

- Già. Jul, forse è il caso che diciamo ad Holly quello che ci ha detto il signor Morgan e magari gli mostriamo le lettere. -

- Ci rimarrà molto male quando scoprirà che Patty non ha mai letto la sua ultima lettera. -

- Cosa vuoi dire? - gli chiese Amy sospettando che sapesse qualcosa.

- Prima di tornare in Giappone, Holly scrisse quella lettera a Patty chiedendole di aspettarlo, dicendole che le mancava e che le voleva bene. Insomma, un preludio ad una dichiarazione d’amore che gli avrebbe fatto non appena tornato a casa. Le fece riprodurre anche una copia fedele del braccialetto che Patty gli regalò prima della partenza, con un ciondolo simboleggiante la sua iniziale, la “H”.-

- Non sapevo tutto questo…

- Non potevi..doveva rimanere un segreto fino a che Patty non avesse aperto la lettera. Evidentemente la lettere è arrivata quando lei non c’era. Di seguito c’è stato l’incidente e quindi non ha più avuto la possibilità di leggerla. -

- Sì è possibile. Mi domando perché è successo tutto questo. Insomma, perché il destino ha proibito a due ragazzi che si amavano di stare insieme? -

- Quello che succede è già stato scritto. Forse era destino che succedesse. -

- Ma non è giusto. -

- Lo so tesoro, ma purtroppo è accaduto. -

- Eppure…l’istinto mi dice che sono la stessa persona. Sono tentata di incontrare Trish Hamilton e farle vedere le lettere. Voglio vedere come si comporta di fronte a quelle. -

- Amy…lo amava fino allo spasimo. Se fosse davvero Patty, non mentirebbe così spudoratamente. -

- Magari c’è una ragione che noi non conosciamo…siamo arrivati. Julian, mentre do istruzioni a Manuel su cosa fare, per favore prendi la colazione in quella pasticceria. -

- Sì capo. - le rispose schioccandole un dolce bacio sulla guancia.

 

Dopo pochi minuti erano entrambi pronti a salire nell’attico dove risiedeva il loro caro amico. Da dove avrebbero cominciato il discorso? Non lo sapevano neppure loro…comunque avrebbero parlato con Holly.

Al suono del campanello, il campione nipponico si apprestò ad aprire e con sua meraviglia trovò Julian e Amy.

- Ehy, che entusiasmo Holly. Noi torniamo da un lungo viaggio e tu ci accogli in maniera così fredda? - disse Amy abbracciando l’amico d’infanzia.

- E che non vi aspettavo, tutto qui. Sono felice di vedervi. -

- Sicuro? - gli chiese Julian posando il vassoio della pasticceria sul tavolino del salone. Gli amici si accomodarono e Holly comprese che non sarebbe andato a correre quella mattina.

- Come mai vi siete precipitati da me? E’ forse successo qualcosa? - chiese loro cercando di interpretare il loro strano entusiasmo.

- Diciamo che tra circa sei mesi diventerai zio! - disse Julian stringendo la mano della moglie.

- Vuoi dire che voi due…ma è fantastico. - esclamò gioioso Holly abbracciando i due amici.

- Sì. E’ una notizia stupenda. Come stai Holly? - gli chiese Julian.

- Bene. Mi sto riprendendo velocemente e sto terminando la fisioterapia e cominciando i primi allenamenti. A proposito Julian. Ha chiamato il dottor Andres poco fa e voleva sapere se oggi verrai al centro sportivo. -

- Sono stanco del viaggio Holly. Non so se ce la faccio. Magari nel pomeriggio. -

- Bene. Amy non avevi portato delle brioches? - chiese all’amica ironicamente. Lo strano entusiasmo di Holly la preoccupava. Non lo vedeva così da così tanto tempo che non ricordava quanto. Quando afferrò il vassoio, qualcosa cadde ai piedi di Julian. Si chinò e raccolse il bigliettino pensando si trattasse dello scontrino fiscale della pasticceria.

- Lavoro fino alle diciannove. Trish. - lesse compito. Girò il biglietto e lesse il nome della dottoressa e il suo recapito interno presso l’ospedale. Holly gli si avvicinò e Julian gli pose il bigliettino. Amy era attonita. Trish Hamilton era stata da lui e gli aveva lasciato un messaggio.

- Okay…forse vi devo una spiegazione. Non saprei da che parte cominciare. Ci siamo re-incontrati e ieri…ha passato la notte qui: l’abbiamo passata insieme! - disse in tono sommesso e palesemente imbarazzato. Qualcosa l’aveva spinto a confessare a Amy e Julian cos’era accaduto. Holly continuava a guardarlo sorridente. Non era fuggita, era solo andata al lavoro. Tirò un evidente sospirò di sollievo che parve infastidire i due amici.

- Te la sei portata a letto! - esclamò quasi in tono adirato la signora Ross.

- Amy! - ribattè Julian in tono di rimprovero verso la moglie.

- No Amy…cioè sì, abbiamo fatto l’amore ma non per una questione di sesso: lo desideravamo con il corpo e con il cuore…

- Ma se nemmeno la conosci! -

- Non è così. Più vado avanti e più mi sembra di stare con lei da sempre…Quando parlo con lei mi sembra…di stare con Patty! Ecco, adesso l’ho detto. Non sono solo somiglianti…ma…ragazzi, non mi giudicate male! Abbiamo sentito questa forte attrazione, l’uno verso l’altra e siamo stati bene e sarei felice di continuare questa relazione! -

- Holly…è bene che tu sappia che quando siamo andati in Giappone…abbiamo provato a rintracciare Patty! - disse Amy risoluta. Non capiva il perché di quella sua rabbia. In fondo, se Trish Hamilton corrispondeva a Patricia Gatsby, avrebbe dovuto essere felice di quello che aveva detto Holly. Ma in lei si era insinuato il dubbio che non si trattasse della stessa persona e quindi temeva che Trish stesse velocemente prendendo il posto dell’amica nel cuore del calciatore.

- Cosa vuoi dire? - chiese con una smorfia di disapprovazione.

- Siamo tornati in quella che era la casa di Patty, attualmente di proprietà del signor Morgan. -. In maniera sintetica Amy spiegò a Holly di come il signor Morgan avesse detto loro del misterioso proprietario di casa che in realtà si era dimostrato il signor Hamilton, dei suoi strani comportamenti e del ritrovamento delle lettere.

- Cosa pensavate di trovare? Patty? Che magari all’improvviso si è ricordata che sono tornato dal Brasile? - domandò loro adirato.

- Se Patty non è potuta venire in aeroporto, c’era una ragione, Holly! - esclamò Julian in tono quieto cercando di sedare gli animi.

- Cosa vuoi dire? Scrissi una lettera a Patty, le telefonai per avvertirla, era la prima persona che desideravo riabbracciare. E invece? E’ scomparsa nel nulla senza lasciare traccia di se. Insieme al rammarico per non averle detto mai quanto l’amassi, in me è cresciuta la rabbia della sua immotivata fuga! Non c’è stato giorno da allora che non abbia pensato e adesso che nella mia vita è comparsa Trish…sono confuso ma allo stesso tempo qualcosa mi dice di non lasciarmi andare, di vivere questa relazione esattamente come viene! -

- Pensi che a noi non sia dispiaciuto perdere le tracce di Patty? Pensi di essere stato l’unico a soffrire? -

- No, non lo penso ma so quanta sofferenza ho provato io…la nostalgia, la sensazione di vuoto, la perdizione. Mi è venuta a mancare l’anima, Amy, la persona che mi è sempre stata accanto. Io vivevo in funzione sua. Per una volta, dopo dieci anni, questa notte non ho provato paura, sofferenza, dolore: semplicemente amore, complicità, tenerezza verso una persona che ha perso più di qualcuno in passato. Ha smarrito se stessa. Ed io voglio cercare di aiutarla, forse per espiare la mia colpa o più semplicemente perché per lei provo qualcosa di più di una semplice amicizia o della passione. - disse con trasporto. Amy e Julian non sentivano Holly parlare così da tempo. Stava palesemente percorrendo la strada dell’innamoramento.

- Cosa volevi dire con “Ha smarrito se stessa?” - domandò Amy avvicinandosi a Holly tremante. Julian aveva intuito a cosa stesse pensando la moglie.

- Ha perso la memoria in un incidente! -. Quelle parole risuonarono nella stanza con tono rimbombante. Amy guardò Julian sempre più pallida. Timorosa di poter perdere l’equilibrio, si appoggiò a Holly che la prese tra le braccia aiutandola a sedersi sul divano.

- Che ti succede Amy! Stai male? - le chiese premuroso temendo di averla stancata troppo con quei discorsi. Appoggiò il capo sullo schienale del divano e i suoi occhi cominciarono a guardare il soffitto.

- Holly…sai perché Patty non è potuta venire all’appuntamento? - sibilò con un filo di voce guardando nel vuoto. Il silenzio del calciatore era una perfetta negazione. - Il giorno prima del tuo arrivo in Giappone, ha avuto un incidente stradale nel quale suo padre ha perso la vita! -

- Che…che hai detto? - chiese con gli occhi sbarrati e il cuore ferito da quella truce verità.

- Le sue condizioni erano gravi e fu trasportata in elicottero al centro traumatologico di Tokyo. -

- Non vorrai dirmi che …che Patty…é…è morta! - sibilò in un angosciante sillabare. Amy scosse leggermente il capo dissentendo.

- Non lo sappiamo. Non abbiamo avuto accesso alla sua cartella. Da un controllo al comune, Evelyn ha scoperto che sua madre si risposò dopo circa due mesi dall’incidente e che il suo compagno volle adottarla facendole acquisire il suo cognome. -

- Dove vuoi arrivare? - domandò in preda all’ansia. - Come si chiamava il patrigno? -.

- James Hamilton! - esclamò Julian stringendo la mano della moglie. Incredulo, attonito, sgomento, privo di ogni forza, Holly si sedette sulla poltrona appoggiando nervosamente le mani sulle ginocchia. Non riusciva a parlare, un nodo in gola gli soffocava ogni minimo sibilo. I pensieri confusi sembravano vorticare nella mente, il cuore in tumulto batteva talmente forte che sentiva dolore al petto, il sangue fluiva velocemente nelle vene in preda ad un impeto di ira e ansia.

- Patricia Hamilton! - sussurrò con un fil di voce che per quanto basso non impedì a Amy e Julian di sentire. Amy abbassò il capo assentendo a quell’esclamazione. - Sua madre la chiamava Trish! - continuò Holly cercando nella sua memoria ogni minimo particolare che legava Patty a James Hamilton. Si alzò lentamente e si avvicinò alla porta finestra aprendola ed uscendo sulla terrazza fiorita. Il vento soffiava fresco ed invadente e portava con se il piacevole odore salmastro del mare. La città sembrava dormire ancora e i ricchi yatch attraccati ai moli danzavano nel lento ondeggiare della corrente. Guardava il mare in cerca di una spiegazione. Perché il destino era stato così crudele? Perché non riusciva ad essere felice di quella scoperta? Chi più di lui avrebbe potuto provare gioia nel sapere che Trish e Patty erano la stessa persona? Pensò alla sofferenza che doveva aver provato e fu assalito da una profonda nostalgia.

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Capitolo 7
*** Il vento del passato ***


 

CAPITOLO 7

 

Il vento del passato

 

 

 

 

- Holly! - gli disse Julian mettendogli una mano sulla spalla. Era visibilmente a pezzi, traumatizzato da quella rivelazione, estremamente confuso e incapace di ogni reazione.

- E ora cosa faccio? - gli domandò sperando che il saggio amico potesse dargli consigli utili per uscire da quella situazione anomala. - Ne siete sicuri? - chiese ancora vedendo Amy sopraggiungere dietro di loro.

- No! Sembra che all’inizio dell’anno successivo all’incidente si siano trasferiti a Chicago. -. Holly sorrise di scherno. - E’ difficile poter controllare i dati anagrafici in una metropoli del genere. Bisognerebbe recarsi sul posto. -.

- Trish ha studiato a Chicago. E’ lì che si è laureata in medicina. Ed è fuggita da una famiglia che la soffocava! - disse loro cercando di ricomporre il puzzle. - Povera Patty. Deve aver sofferto tanto. L’incidente, la morte del padre, il trasferimento dall’altra parte del mondo, una famiglia morbosa, l’assenza di identità…-

- Il destino è stato crudele con lei. - disse Julian. - Forse sarebbe giusto raccontarle la verità, magari lei non la conosce. -

- Infatti. E’ stata molto evasiva circa la sua famiglia e comunque non deve essere particolarmente affezionata a loro. Cosa dobbiamo fare adesso? - domandò ancora cercando più conforto che aiuto.

Continuava a guardare il mare e i gabbiani librare liberi sotto il cielo dalle tonalità argentee. Ripensò a quella notte in cui aveva provato la gioia dell’amore, aveva dimenticato il dolore e la sofferenza che negli ultimi dieci anni l’avevano seguito come un’ombra. I suoi respiri sulle labbra, i sospiri ai baci dolci e passionali, i fremiti alle sue carezze così sicure ed esperte. L’avevano desiderato e l’avevan fatto, riscoprendosi abili e disincantati amanti. Quella notte erano stati Oliver e Trish: nulla degli attimi trascorsi li aveva riportati alle loro passate identità, avevan smesso gli abiti adolescenziali di Holly e Patty per vestire quelli adulti di una coppia in preda ad un’attrazione quasi fatale.

Quelli che al momento dell’incidente gli erano parsi dubbi, adesso erano certezze.

- Come pensi che possa reagire se le diciamo tutto quello che abbiamo scoperto? -

- Non lo so Amy. A me non piacerebbe sapere che qualcuno ha indagato sul mio conto. Patty era una ragazza indipendente, discreta per quello che riguardava la sua vita privata. Penso che questo le sia rimasto anche nella sua nuova identità. Secondo me andare lì e dirle cosa sapete, potrebbe solo peggiorare le cose…andrebbe su tutte le furie…

- Forse ho trovato…dovremmo insinuarle il dubbio e far sì che sia proprio lei a scoprire chi è in realtà! - disse Julian illustrando la sua idea.

- E come? -

- Le lettere. Se le leggesse magari ricorderebbe qualcosa della sua adolescenza e chissà probabile che chieda ai suoi genitori spiegazioni in merito. - continuò.

- Non so se è una buona idea. - ribatté Holly scettico.

- A me no. Se io fossi al suo posto e leggessi quella corrispondenza, mi interesserei alla vicenda e cercherei spiegazioni. -

- E quale spiegazione potrebbe cercare Trish? -

- Perché ha ricevuto quelle lettere! Fidati Holly. Se in fondo al suo cuore è rimasta la vecchia Patty, non lascerà incompiuto quello che ha iniziato tempo addietro. Le lettere faranno risvegliare in lei i vecchi ricordi. Holly, Patty ti amava intensamente, non era la pura adorazione di una manager verso il suo capitano. Lei viveva per te, perché tu realizzassi i tuoi sogni. Non voleva nulla in cambio. Avrebbe solo desiderato che tu ricambiassi i suoi sentimenti. E qualora tu non l’avessi fatto, lei avrebbe continuato ad amarti lo stesso. Anche se ha perso la memoria, nascosto in fondo al suo cuore ci sarà ancora il ricordo del suo più grande amore. Bisogna solo incoraggiarla. Probabilmente le persone che le sono state accanto non hanno fatto nulla perché lei potesse risvegliarsi dal suo sonno apparente. - disse Amy più speranzosa che certa. Holly tacque. Le parole di Amy gli echeggiavano nella mente. Le sentiva nel cuore cos’ forte che gli faceva male. La sua cara Patty l’aveva amato a tal punto? Si sentiva in colpa perché adesso provava un sentimento forte che sentiva crescere ogni attimo per Trish. Se non si fosse trattato della stessa persona, era certo che sarebbe impazzito.

- E se invece non dovessero servire a nulla? - chiese Holly ritornando all’argomento principale.

- Sono sicura che te ne parlerà. Sia tu che noi l’abbiamo più volte chiamata Patty! Si sentirà chiamata in causa. -

- Ragazzi…io desidero solo una cosa: che sia Trish o Patty, voglio che rimanga al mio fianco. E’ questo l’aiuto che vi chiedo. Nulla di più. Non posso più permettermi di sbagliare. La mia lunga attesa ha comportato solo dolore nella mia e nella vita degli altri. A cominciare da Patty.

- Se si dovesse trattare realmente di Patty, non potrei far altro che gioire per averla ritrovata. Ma se non dovesse essere così, devo chiudere un capitolo del mio passato e cercare un futuro diverso insieme a Trish….provo davvero dei sentimenti per lei Non voglio illuderla, non se lo merita, e soprattutto non voglio commettere gli stessi errori che ho fatto con Patty. - disse loro rientrando in casa. Le sue parole erano state scandite in maniera ferma, decisa. Aveva deciso che una delle due sarebbe rimasta al suo fianco, nel ricordo e nell’amore dell’altra.

 

 

Il cercapersone di Trish Hamilton squillò insistentemente. Stava ultimando il giro delle visite insieme a un nuovo tirocinante. Nonostante fosse stanca, era contenta. Quello che era successo la sera prima l’aveva felicemente turbata e il suo umore era stranamente positivo quel giorno. Si avvicinò al bancone accettazione del pronto soccorso e chiese all’impiegato chi l’avesse cercata.

- Sono stato io dottoressa. Sono arrivati due pacchi per lei! -

- Saranno riviste mediche e prodotti di informatori medici. Puoi metterli nel salottino, per favore? -

- Non penso dottoressa. Sono arrivati uno a distanza di poco tempo dall’altro: uno con un pony express, l’altro invece a mano da un signore che non ha richiesto neanche la firma su una ricevuta. Ecco, questi sono i pacchi. - le disse Jorge poggiando le due scatole sul bancone.

Una era lunga e stretta legata da un nastro rosso intenso. L’altra era una normale scatola di imballaggio di medie dimensioni con sopra scritto il suo nome a penna. Le afferrò entrambe e le portò nel salottino dove i medici si riposavano nei momenti di pausa. Curiosa come non mai, li poggiò entrambi sul tavolo e aprì prima quello sigillato dal nastro rosso.

Quando sollevò il coperchio della scatola, un gradevole profumo fiorito si sparse per la stanza. Tre magnifiche rose bordeaux a stelo lungo giacevano su un telo di organza. Prese tra le mani il bigliettino con il cuore in tumulto stretto in una morsa che le soffocava le parole in gola.

- Mi manchi! O.H. - scorse con gli occhi quelle poche parole che poi lesse sottovoce quasi per timore che qualcuno potesse udirla. Sorrise di gioia chiudendo gli occhi e pensando al giovane amante di quella notte. Il cercapersone la riportò alla realtà destandola dal sogno che stava vivendo. Aprì il suo armadietto e vi appoggiò le scatole curiosa di aprire anche l’altra. Il suono continuo del cercapersone glielo impedì.

- Tesoro…svegliati…non dormire…io sono qui…guardami, ti prego, apri gli occhi, tu devi vivere! Devi incontrare Holly! Devi realizzare i tuoi sogni….Non morire, Patty! -. Quel flashback improvviso la fece sussultare. Si portò una mano al petto nella speranza che il cuore decelerasse e che il sangue riprendesse il suo lento scorrere. Respirò profondamente cercando di riacquistare l’autocontrollo perduto. Barcollante uscì dalla stanza precipitandosi in accettazione da dove proveniva la chiamata.

- Dottoressa, stanno arrivando due ambulanze. Incidente stradale. Sono rimasti coinvolti padre e figlia. -

- Patty, non morire…guardami, Patty…guarda tuo padre, ti prego….rispondimi! -. L’eco del flashback continuava a martellare nella sua mente e a materializzarsi dinanzi i suoi occhi. La macchina ridotta in rottami e i loro corpi riversi all’interno. L’uomo grondante di sangue guardava la giovane donna seduta al suo fianco. Le cinture di sicurezza ancora allacciate. La camicia bianca della ragazza era oramai intrisa del sangue che lentamente grondava dal cranio traumatizzato dall’urto. L’uomo gemeva cercando di svegliare la figlia. Aveva le lacrime agli occhi. Non riusciva a muovere neppure un dito.

- Trish ci sei? - chiese Luis riportandola alla realtà. - Ehy, sei su questo pianeta? Ma mi ascolti Trish? -. Che stava succedendo? Le due ambulanze. Padre e figlia. Scosse il capo come per riprendersi da quell’apparente stato di tranche. L’arrivo dei paramedici sembrò ridestarla completamente dal torpore in cui era caduta. La vista le si annebbiò e sentì velocemente salire le lacrime. Perché? L’immagine di quell’uomo e di sua figlia sembravano ferme, paralizzate dinanzi le sue cornee. Avrebbe voluto farle sparire ma nella sua mente sentiva ancora il grido disperato di quel padre verso la figlia…una giovane donna priva di sensi…sempre lei…la misteriosa Patty di cui aveva sentito parlare altre volte ma soprattutto la ragazza che più di una volta le era comparsa in sogno o nei suoi flashback senza volto. Si sentì toccare e sobbalzò. La mano di Luis sulla sua spalla che la scoteva, cercava di riportarla ad una realtà terrena.

- Ma che ti prende? Stai male? - le chiese non distogliendo lo sguardo dalla collega.

- Ehm…no…era solo un capogiro! -

- Ne parliamo dopo…forza vieni con me! - le disse passandole la tunica impermeabilizzante e i guanti in lattice.

Trish sembrò tornare alla realtà e seguì il collega nell’atrio riservato all’arrivo delle ambulanze.

Con la pena nel cuore, seguendo con lo sguardo Luis che impartiva le direttive agli infermieri, si avvicinarono alle ambulanze. I suoi occhi sembravano ipnotizzati dal flashback che aveva avuto. Il cuore era gonfio di lacrime e non riusciva a spiegarsi il perché. Le parole le morivano in gola.

- Trish, tu prendi la ragazza: io il padre. Forza ragazzi, diamoci una mossa. Fate liberare sala 2 e 3. Arriviamo con i feriti! - urlò sperando che qualcuno l’avesse udito.

Ascoltarono i ragguagli dei paramedici e aiutati dai tirocinanti, spinsero le barelle nelle sale d’urgenza 2 e 3, separate da una semplice porta a vetro. Le condizioni di Loreta e Alejandro Curtiz erano critiche. Sia Trish sia Luis richiesero l’aiuto di due medici da chirurgia.

- Come va Trish? -

- Male. Ha sbattuto la testa contro qualcosa di molto duro perché il cranio è fratturato. Spero solo che dalla TAC non salti fuori un’emorragia cerebrale….ma ho dubbi in merito. L’encefalogramma è quasi piatto. Il battito cardiaco è talmente debole che non capisco come riesca ad essere ancora in vita. Escoriazioni varie, ustione alla gamba destra ed emorragia al fegato. E tu? -

- Lo stiamo stabilizzando ma solo un miracolo può salvarlo. Ha entrambe le gambe fratturate e qualcosa di metallico gli ha penetrato il petto recidendo quasi l’aorta. -

- Che situazione! Ma dove diavolo sono finiti? - si chiese continuando a tamponare le ferite sulla ragazza. Il chirurgo coadiuvava gli assistenti cercando di stabilizzare la giovane donna prima di un intervento chirurgico d’urgenza mentre Trish continuava il suo lavoro in maniera del tutto indipendente.

- Hanno cercato di evitare l’impatto frontale con un autotreno uscito fuori strada e si sono schiantati contro il new jersey. - le disse Carmen continuando ad effettuare i test preliminari sulla paziente. La luce della grande lampada sul letto operatorio era talmente accecante e calda che per un attimo Trish temette di rimanerne folgorata. Si sentiva venir meno e non comprendeva se dipendeva dallo stress lavorativo o dal mancamento causato dal flashback. Guardò la ragazza dai capelli corvini il cui corpo tumefatto riposava sopra la barella. appena Si strinse nelle spalle, intimorita da quella presenza e provando un’indefinita tristezza verso quella vita che lentamente si stava spegnendo. Il sensore dell’elettrocardiogramma cominciò a vibrare in maniera sonora richiamando l’attenzione dei medici. Non c’era più battito.

- Presto, il defibrillatore! - esclamò scossa da un qualcosa che le diceva di continuare a tentare di salvarla.

- Trish non ne vale la pena. Probabilmente riporterà dei gravi danni cerebrali. - le disse il dottor Mendez, aiuto primario di chirurgia. Ignorando completamente il consiglio del collega, Trish continuava a scaricare scosse elettrica sul petto della ragazza.

- Trish ascoltami…è tutta fatica sprecata! -

- Non mi importa quello che dici. Dobbiamo riprenderla. E’ troppo giovane per morire, ha tutta una vita da vivere. - rispose aspra non degnandolo di uno sguardo. - Maledizione Loreta, non vorrai farmi fare brutta figura. Avanti, non darti per vinta, lotta insieme a me, ce la puoi ancora fare! Non puoi morire, hai solo sedici anni. - esclamò quasi in una supplica cercando di coinvolgere la ragazza. I colleghi la guardavano attoniti incapaci di proferire altro o prendere qualche decisione. Le lacrime le annebbiavano la vista ma non poteva permettersi quel gesto tanto sensibile quanto debole di fronte ai colleghi. Lei era Trish Hamilton, la dottoressa di ghiaccio, come molti la chiamavano per la sua persona integerrima e professionale.

- Dottore guardi, c’è di nuovo il ritmo cardiaco. - disse Carmen esterrefatta richiamando l’attenzione del dottor Mendez. Il medico sorrise e si avvicinò a Trish. Senza dir nulla, riprese a lavorare intensamente nel disperato tentativo di riportare in vita Loreta Curtiz.

La porta della sala 3 si aprì e Luis entrò chiedendo ragguagli sulla ragazza.

- Come sta il padre? - chiese Trish.

- L’abbiamo stabilizzato. Lo stanno portando su in chirurgia per operarlo. Speriamo in un miracolo. E la ragazza? -

- E’ grave…ma ce la farà…ne sono sicura. - disse senza alzare lo sguardo. - Se suo padre si salverà, anche Loreta lo farà. - sussurrò cercando di formulare un pensiero ottimista più per se stessa che per gli altri. Luis sentì quello che aveva detto Trish ma non riuscì a comprenderne il significato.

- Avanti, portiamola su in chirurgia. - disse il dottor Mendez spingendo la barella fuori dalla sala 2. - Trish! - esclamò voltandosi verso di lei. Era pronta ad un rimprovero sonoro per aver criticato l’aiuto primario dinanzi ai subalterni.

- Sì, dottor Mendez! - rispose guardandolo diritto negli occhi. Non gli importava di averlo contraddetto durante il soccorso. Erano riusciti a stabilizzare Loreta Curtiz e questo le bastava per sapere di aver fatto ancora una volta il suo dovere. La mente era confusa e il cuore intriso di ansia e angoscia. Non sapeva neanche lei cosa le stesse succedendo: era solo cosciente che doveva andar via e rifugiarsi nelle braccia di Oliver che sicuramente avrebbe saputo consolarla.

- Complimenti. Ottimo lavoro. - le disse allontanandosi verso l’ascensore. Luis e Trish tacquero temendo di non aver sentito bene l’ultima frase pronunciata da Mendez, noto per il suo carattere tanto irruente quanto polemico.

- Non posso crederci che tu abbia fatto breccia nel cuore di quell’uomo. Brava la mia adorata Trish. - le disse sorridente. La guardò e capì che la sua mente era totalmente assente. A cosa pensava quando si estraniava dal mondo intero? Avrebbe voluto essere il suo confidente e l’amante di quella bella donna sempre celata dietro una maschera perfettamente dipinta.

- Trish che cos’hai? Non ti senti bene? - le chiese dolcemente.

- Scusami Luis…no, ho un gran mal di testa e penso che me ne andrò a casa. Il mio turno è finito. -

- Per l’ennesima volta ti ripeto che dovresti prenderti una vacanza. Che ne diresti se ce ne andassimo tutti e due a fare una bella crociera sul Nilo? Ho visto una locandina presso un’agenzia di viaggi! Adesso il tempo è ideale: non fa molto caldo in Egitto. -. Lei gli sorrise amichevolmente. Il bel casanova dell’ospedale continuava a corteggiarla nonostante i suoi numerosi rifiuti. Le infermiere e le dottoresse avrebbero fatto carte false per essere al suo posto. Ma lei aveva un’altra persona nel cuore.

- Ti ringrazio Luis, sei un amico. -

- Trish! - esclamò lui afferrandole una mano. Lei comprese e si voltò verso di lui. I suoi occhi verdi erano così luminosi e quieti. Abbassò il capo per evitare di perdersi in quel mare di emozioni.

- Io…lo sai…a me piacerebbe davvero frequentarti…non solo come amico! Ma tu mi sembri così lontana, distante. Dimmi la verità così mi metterò il cuore in pace. C’è qualcuno nella tua vita? -. Era una dichiarazione. Già, il più bel medico dell’ospedale si era chinato al suo cospetto declamando il suo interessamento verso un rapporto ben più profondo dell’amicizia. Era contenta che qualcuno in quella struttura avesse capito che non c’era un pezzo di ghiaccio nel suo petto, ma un cuore che batteva e che attendeva solo di infiammarsi d’amore. Gli portò una mano al volto ben rasato e l’accarezzò gentilmente. Le labbra si unirono dolcemente per donargli il più sincero dei sorrisi.

- Ti voglio bene Luis…ma non potrei mai innamorarmi di te. -

- Come puoi dirlo se non ci proviamo? - le disse non demordendo.

- C’è già qualcuno nella mia vita e mi sento legata a questa persona in maniera profonda e inestricabile. -

- Non sarà mica quel giocatore? - le chiese quasi adirato. Trish non parlò e il suo tacere valse l’assenso. - Ma Trish, se non lo conosci neppure? Che cosa ha lui che a me manca? -

- Luis ti prego…mi sembra inutile far degenerare questa conversazione. Lui è nella mia vita, c’è sempre stato. L’ho scoperto quando ci siamo incontrati. C’è qualcosa di inscindibile che ci lega e adesso me ne sto rendendo conto. -

- Quindi…è proprio finita! -

- Luis…non è mai cominciata. Noi due siamo e resteremo sempre dei buoni amici. Io ti voglio bene sinceramente, ma…

- Ma non mi ami! -

- Sì. - gli disse definitivamente sperando che finalmente si mettesse il cuore in pace. Alzò le spalle, si staccò da lei e si avviò verso la porta senza proferire.

- Se ti vedrò soffrire a causa sua…non risponderò delle mie azioni! -. Le sue ultime parole rimbombarono nella stanza in maniera sonora. Sospirò cercando di far ristabilire al suo cuore il ritmo normale. Un brivido la percorse e sentì freddo. Si strinse nelle braccia cercando di cancellare quella sensazione scomoda e gelida. Guardò l’orologio appeso al muro della stanza. Erano passate le 19 e 30. Come sempre sarebbe uscita oltre l’orario di lavoro. Appena fu nel corridoio, Miguel, l’impiegato all’accettazione la richiamò.

- Dottoressa deve finire di aggiornare le cartelle? -. Lei lo guardò esausta. Non avrebbe potuto tenere neppure la penna in mano. Era troppo stanca per fare altro e sentiva il bisogno di un caldo bagno rilassante.

- No Miguel, se guardi bene quelle cartelle sono già state aggiornate. Le devi solo sistemare al proprio posto. -

- Ops…ha ragione, mi scusi dottoressa. -

- Non fa niente. Io sto andando via. Chi c’è di turno? -

- La dottoressa Stevenson e il dottor Arnau. -

- Bene…allora non chiamatemi fino a domani! -

- D’accordo. - gli rispose sorridendo a quella richiesta. Si diresse nel salottino riservato ai medici e si lasciò cadere sul divanetto. Chiuse gli occhi stremata dalla stanchezza.

 

- Devi smetterla di correre dietro a queste stupidaggini. La colpa è anche di tuo padre che alimenta le tue fantasie. - ribatté quasi urlando sua madre.

- Non sono stupidaggini. E’ la mia vita, la mia adolescenza e tu non puoi impedirmi di coltivare aspirazioni e sogni. -

- Tanto tra non molto la smetterai con questa storia del calcio. Non appena ci trasferiremo negli Stati Uniti, tu cambierai vita. -

- Te lo puoi solo scordare. Chiederò al giudice di farmi restare qui con papà. -

- Sai cosa ti dico? Fai come vuoi. Sono esausta di correrti dietro. Tu sei uno spirito ribelle. Spasimi per un ragazzo che non ha esitato ad abbandonarti e continui a coltivare la sua passione nella speranza che un giorno torni da te. - le urlò sua madre additandola. Le lacrime le sgorgarono spontanee.

- Tu non sai niente di noi. Pensi solo ed esclusivamente a te stessa…a seguire quello stupido del tuo compagno negli Stati Uniti. Hai mai pensato a me? Che se te ne vai mi abbandonerai? Certo che no perché è quello che vuoi. Allora sai cosa ti dico io? Vattene pure negli Stati Uniti, tanto non sentirai la mia mancanza! - gridò scappando via. Patty! Ancora lei, ancora un flashback. La ragazza oramai presente quotidianamente nella sua vita le era apparsa dinanzi agli occhi mentre litigava in maniera furente con la propria madre.

- Perché continuo ad essere ossessionata da questa ragazza? E’ la stessa che ho visto più volte con Oliver, la sua amica Patty, quella di cui mi ha parlato. Come faccio a conoscerla se non l’ho mai vita? Cosa ci lega? - si chiese mettendosi le mani al capo in cerca per l’ennesima volta di una spiegazione logica a quello che da qualche settimana le stava accadendo. Si alzò decisa ad andar via. Smise il camice bianco e lo stetoscopio e aprì il suo armadietto. Il profumo intenso delle rose inviatele da Oliver le ricordò che doveva aprire ancora l’altro pacco che qualcuno le aveva fatto recapitare. Guardò le rose e sorrise a quell’amore che stava nascendo e che la rendeva felice. Prese la borsa e la giacca e la indossò. Richiuse l’armadietto e mise la scatola sul tavolo. La guardò, la prese tra le sue mani e ne constatò il peso.

- Uhm…non è molto pesante. Forse è meglio aprirla così non dovrò portarmi insieme anche il cartone. - pensò cercando un taglierino tra gli articoli di cancelleria sistemati su un tavolino dove solitamente i medici si appartavano per completare la compilazione delle cartelle. Il cuore aveva ripreso a battere intensamente quasi a volerla preavvertire del contenuto della scatola. Rimase alquanto allibita quando constatò che altri non erano che una ventina di lettere ordinatamente custodite nelle rispettive buste. Le afferrò e si sedette colta da un’improvvisa fitta al cuore. Non c’era mittente, ma il destinatario era sempre lo stesso: Sig.na Patty Gatsby! Le mani tremanti reggevano a malapena le lettere. Le rigirò nervosamente cercando una traccia del mittente. L’unica cosa che si leggeva, seppur in maniera poco distinguibile, era il paese di provenienza. Le lettere erano state spedite tutte dal Brasile.

- Perché? Chi può avermi fatto recapitare queste lettere? Cosa ho a che fare io con Patty Gatsby? - si chiese intimorita sapendo che si trattava della stessa persona che spesso sognava e per la quale era stata scambiata da Oliver e dai suoi amici? Bruscamente prese una busta e ne svuotò il contenuto. Non avrebbe mai letto la corrispondenza altrui, ma qualcuno gliela aveva inviata proprio perché lo facesse. Era la prima lettera, oramai vecchia di circa tredici anni.

 

 

 

Mia carissima manager,

 

come stai? Qui in Brasile è tutto diverso dal Giappone. Dov’è il rigoroso ordine nipponico, le nostre case così particolari? Tu aggiungeresti anche: dove sono i miei ciliegi in fiore? Già, sono proprio in un altro mondo, ma mi piace. Grazie a Roberto mi sono ambientato subito ed ho conosciuto i miei compagni di squadra. Parto dalla panchina, sai?

Non ti arrabbiare, ti prego. Già ti ci vedo su tutte le furie rivolgerti al mister per farmi giocare come titolare. Devo guadagnarmi la loro fiducia se voglio diventare un titolare e ti prometto, Patty, che ce la farò.

Tra un po’ inizierà il campionato e vedrai che dopo un po’ riuscirò a partire tra gli undici che scenderanno in campo. Non importa quanto dovrò lavorare, non mi spaventano gli allenamenti. Sarai fiera di me.

 

Porto sempre con me il braccialetto che mi hai regalato…sarà il mio portafortuna, il legame con la mia terra e…con te.

 

 

Non ti deluderò Patty: quando avrò realizzato il mio sogno, quando sarò diventato un calciatore professionista, tornerò…

 

A presto,

 

Holly

 

p.s. Nella busta troverai un bigliettino da visita di Roberto completo di indirizzo a cui inviare la corrispondenza.

 

 

 

Trish guardò ancora quella lettera, scorse velocemente le righe. Holly e Oliver. La stessa persona. Aveva abbandonato la sua amica Patty per inseguire il suo sogno. Doveva amarlo tanto per non provare neppure ad opporsi alla sua partenza. Si era trasferito dall’altra parte del mondo per realizzare il suo sogno e lei gli era accanto sempre, anche se non fisicamente.

La corrispondenza era alquanto generica. Si parlava soprattutto di calcio e delle squadre brasiliane. Evidentemente Patty era un’ottima ascoltatrice e si intendeva di sport se lui le descriva particolari e tecniche accurate come se stesse parlando con il più esperto dei giocatori.

Era compiaciuto dei progressi della squadra di calcio che aveva lasciato, che Patty continuava a seguire; si complimentava con lei per gli ottimi risultati scolastici e per i suoi corsi linguistici pomeridiani. Cercava di consolarla quando lei gli scriveva dei pessimi rapporti che aveva con sua madre e con il suo compagno. Sempre più spesso desiderava trasferirsi da suo padre per poter vivere più serenamente.

Man mano che i mesi trascorrevano, Trish denotava nelle lettere maggior sentimento. Holly evidentemente stava cominciando ad accusare la sua mancanza e in una lettera le diceva anche che gli sarebbe piaciuto poterla riabbracciare in terra straniera.

Rovistando tra le buste, fu attratta da una lettera e da una busta chiusa.

 

 

“ Caro capitano,

 

i giorni passano e oramai siamo quasi a Dicembre. Natale si avvicina e presto le strade si riempiranno di candida neve. Il campionato scolastico procede a gonfie vele. Con il ritorno di Benji e Tom la squadra sta andando avanti di pari passo alla Toho. Penso che anche quest’anno la finale sarà tra di noi. Mark Lenders è migliorato molto e il suo tiro della tigre sembra sempre più inafferrabile. Per fortuna che abbiamo Benji in porta. Ci manca un attaccante come te…ci manchi tu.

Come sto io? Sempre al solito. Mi divido tra la scuola e il club di calcio e nel tempo che mi rimane, litigo sempre più spesso con mia madre e il suo “individuo”. Non lo sopporto proprio e conoscendo la mia proverbiale tolleranza dovresti riuscire a comprendere quanto saturo sia il mio livello di pazienza. Cerco di trascorrere più tempo possibile con mio padre. Con lui sto bene, mi capisce, gli parlo di me, della squadra, di te.

 

Holly…io…so che non è il momento giusto e che forse non dovrei dirti certe cose ma…mi manchi. Forse ho aspettato troppo per dirtelo e probabilmente avrei dovuto attendere ancora. La mattina spero sempre di poterti incontrare sul ponticello sulla via della scuola dove ci vedevamo prima. Oppure spero di scorgere la tua ombra sul campo di calcio mentre ti alleni in attesa che arrivino gli altri. La lontananza ha solo alimentato la tua mancanza.

Ti ringrazio per l’invito a raggiungerti in Brasile, ma temo che per quanto desideri saltare sul primo aereo, si tratti di un progetto da rimandare per il momento.

 

Adesso devo lasciarti perché abbiamo un’amichevole con la Flynet. A proposito, Jenny è tornata dagli Stati Uniti e finalmente lei e Philip stanno insieme. Sono contenta che abbiano potuto coronare il loro sogno.

 

Holly, ovunque tu sia, sappi che ti voglio bene e spero di cuore che tu possa realizzare i tuoi sogni.

 

 

Tua Patty “

 

 

 

Era solo un’adolescente eppure era così sicura dei suoi sentimenti. Anche se non riusciva a dirgli che l’amava, lui lo sapeva e corrispondeva il suo affetto. Sorrise pensando che in fondo erano solo due timidi innamorati che giocavano a nascondere i propri sentimenti dietro falsi giochi e dubbi amletici. Ripiegò la fotocopia e prese la busta chiusa sentendo qualcosa di metallico all’interno. Prese il tagliacarte e la aprì in maniera accurata rovesciando il contenuto sul tavolo.

- Ma questo…è il braccialetto che Oliver le fece fare prima di ripartire per il Giappone! Il bracciale uguale a quello che Patty gli aveva regalato prima della sua partenza. -. Senza attendere oltre spiegò la lettera.

 

 

Mia carissima Patty,

 

ho ricevuto oggi la tua lettera. Sono contento dei progressi della squadra e sapevo che con il ritorno di Benji e Tom anche quest’anno la New Team avrebbe disputato un ottimo campionato.

Mi dispiace che i rapporti con tua madre e il suo compagno siano così incrinati. Vorrei essere lì con te…per consolarti, come hai sempre fatto tu con me quando c’era qualcosa che non andava bene. Sai, mi sono infortunato. Durante una partita di campionato, l’avversario mi è venuto addosso scaricando tutta la sua potenza sul mio polpaccio sinistro. Dovrò saltare tre partite e poi ci sarà la sospensione per il Natale. Ho chiesto alla dirigenza se posso tornare in Giappone. Così potremo rivederci. Quando mi sono infortunato mi è venuto in mente l’episodio di qualche anno fa…alla fine del terzo campionato…finale con la Toho.

Ancora ricordo bene la tua espressione, le tue lacrime e le tue preghiere all’allenatore e al medico per farmi giocare seppur infortunato. Grazie Patty. Non ti ho mai ringraziata abbastanza per essermi stata sempre così vicina, per aver condiviso gioie e dispiaceri e perfino i miei infortuni. Cos’avrei fatto se tu non mi fossi stata accanto? Anch’io sento la vostra mancanza, ma soprattutto, mi manca qualcuno che mi inciti continuamente dagli spalti, che mi sorride durante gli allentamenti, qualcuno i cui occhi sono sempre su di me vigili e attenti…mi manchi Patty…non sai quanto…non ho mai trovato il coraggio di dirtelo, ma penso che sia giunto il momento per ringraziarti per tutti i sacrifici che hai fatto per me!

Nella busta troverai un piccolo regalo per te: si tratta dello stesso braccialetto che mi hai regalato tu ma con l’iniziale del mio nome…anzi del mio diminutivo. Quando sarai giù di morale, in qualsiasi momento ne avrai voglia, guardalo e io sarò con te.

Parto tra due settimane. Ti telefono per dirti a che ora arriverò. Non appena sarò a Fujisawa, devo parlarti di una cosa molto importante.

 

Ti abbraccio

 

Tuo Holly

 

 

p.s. Ehy manager! Non mollare, ricordati che ti voglio bene.

 

 

 

Finalmente Holly aveva cominciato a scoprire le sue carte e a rivelare i propri sentimenti alla sua cara Patty. Ma perché lei non aveva letto quella lettera? Cosa glielo aveva impedito?. Si alzò profondamente adirata e attratta dal profumo delle rose. I pacchi erano arrivati praticamente insieme. Era stato lui ad inviarle quelle lettere. Ma perché? Cosa voleva dirle? Un dubbio si insinuò nella sua mente. Dopo quella notte d’intenso amore, Oliver aveva subito i rimorsi di una coscienza che lo legavano ad una ragazza scomparsa. Inviandole le lettere aveva forse voluto dimostrarle quanto ancora amava Patty? E se invece aveva finto di amarla unicamente perché somigliava al suo grande amore perduto? Divenne rossa per la rabbia. Si sentì pervadere il corpo da un forte calore avvertendo il veloce fluire del sangue nelle sue vene. Si sentiva usata e derubata di un sentimento sincero che provava per quel ragazzo. Prese le lettere, le mise nella sua borsa e andò via di corsa.

Il vento del passato era tornato a spirare sulla storia di Patty e Holly e stranamente, quella brezza di ricordi stava lambendo la sua vita e quella di Oliver Hutton. Due coppie divise da dieci anni. Un vuoto spazio temporale nel quale le loro vite erano cambiate e si erano stranamente intrecciate. Possibile che il destino stesse cercando di riaffermare quanto aveva previsto per loro in un lontano passato? Cosa la accomunava a Patty Gatsby? Possibile che l’amore di Oliver Hutton per la sua amica Patty fosse così disperato da continuare a cercare la sua amata nel corpo di Trish?

 

 

 

 

 

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Capitolo 8
*** Quel disperato sentimento ***


 

 

CAPITOLO 8

 

…quel disperato sentimento.

 

 

 

 

Senza tregua continuava a correre verso la stazione della metropolitana più vicina all’ospedale. Nei suoi occhi rivedeva le frasi scritte da Holly alla sua Patty, la ragazza che più di ogni cosa al mondo aveva amato. Perché l’aveva cercata e attirata in quell’incubo che lo tormentava da tanto tempo? Perché aveva voluto proprio lei? Per la somiglianza? Possibile che fosse attratto unicamente dai tratti somatici tanto simili tra loro due? Per quante domande si ponesse, Trish non trovava alcuna risposta plausibile al suo comportamento tanto meschino. L’aveva usata solo ed unicamente nel ricordo di un amore tanto disperato quanto irraggiungibile. Desiderava piangere, gridare al mondo la sua sofferenza, ma ogni benché minimo sibilo cercasse di emettere, le moriva in gola soffocato dall’angoscia che sempre più la stava attanagliando.

Evitando persone ed ostacoli e stando ben attenta a non scivolare sull’asfalto reso viscido dalla strada, Trish intravide la stazione del metrò e scese le scale cercando di accelerare il passo. Dinanzi gli sportelli d’accesso alle linee obliterò la sua tessera e continuò la sua corsa frenetica. Desiderava quasi spasmodicamente salire sul primo treno diretto a Barceloneta e correre da lui in cerca di giustizia. Era completamente fradicia. I capelli scomposti e roridi le incorniciavano il volto pallido reso tale dalla spossatezza di un’intensa giornata lavorativa e dagli eventi che si erano verificati. Il cuore le batteva così forte che temeva potesse saltar fuori dal petto. Alcune persone sostavano lungo il marciapiede della linea che l’avrebbe condotta al porto. Osservò fremente il display che segnalava quanti minuti di attesa ci fossero fino all’arrivo del treno successivo. Un minuto esatto. In una mente avvolta in un turbine di pensieri e sensazioni, Trish stava cercando di costruire un discorso serio e forse non troppo adirato da pronunciare in presenza di Oliver. Voleva le spiegazioni, le pretendeva e le avrebbe ottenute. Dopo di che, alterata per il comportamento da lui assunto nei suoi confronti, l’avrebbe lasciato senza concedergli alcun motivo di giustificazione.

I fari del treno illuminarono il tunnel della metropolitana e poco dopo essersi fermato, le porte si aprirono automaticamente.

A quell’ora gli uffici e gli edifici scolastici erano chiusi, quindi non c’era molta gente. Si sedette su una poltrona vicina la porta automatica e attese che il treno la conducesse verso Barceloneta.

 

 

 

 

James Hamilton guardava la moglie Mary seduta accanto a lui sul sedile posteriore del taxi. La pioggia cadeva scrosciante e le strade erano oramai madide di quelle gocce che incessantemente si stavano riversando dal primo pomeriggio accompagnate da fulmini e lampi.

- Sei preoccupata? -

- Non la vedo da tempo. Come pensi che possa stare? -

- Secondo me non meritava neppure tutta questa considerazione da parte nostra. Se ne è andata di casa non volendo lasciare la benché minima traccia di se. Solo qualche timida e sterile e-mail per tranquillizzarci. E’ un comportamento inconcepibile il suo. -

- Ma che stai dicendo! E’ pur sempre mia figlia e mi rendo conto di aver commesso fin troppi errori con lei. Se solo ci fossimo comportati diversamente, probabilmente adesso saremmo una famiglia felice, lei sarebbe sposata a qualche rampollo dell’alta borghesia di Chicago e forse avrei perfino dei nipoti. E invece? E’ fuggita via cercando una sua vita! -

- Lei la sua vita ce l’aveva a Chicago e questo bastava. -

- Non dire sciocchezze. Quella era la vita che avevamo voluto darle noi! Non la sua. Era ben diversa da come era e forse aveva ragione nel dire che la soffocavamo! -

- E da quando ti sono venuti tutti questi buoni propositi e sensi di colpa? -

- Da quando hai scoperto dove si trova! - rispose seccamente ma in estremo disagio.

- Oppure da quando hai letto quell’articolo su Oliver Hutton? -. La signora Hamilton tacque. Suo marito aveva evidentemente centrato il bersaglio. Si passò una mano nel caschetto scuro e chiuse per un attimo gli occhi. Vide quella piccola creatura stretta nelle braccia del padre, il suo primo giorno di scuola, una giovane adolescente piena di sogni, una ragazza agonizzante in un letto di ospedale. E ancora rivide la sua stanza, i testi scolastici e quelli di letteratura straniera che lei adorava, la fotografia che aveva sul comodino vicino quella scatola a fiori nella quale custodiva gelosamente il rapporto che la legava a lui. Quel timido ragazzo che per realizzare il suo sogno era volato dall’altra parte del mondo. E lei, innamorata, aveva seguito con spasimo ogni suo passo, vivendo la sua passione, come fosse propria. Un’adolescenza in cui l’aveva vista correre dietro una sfera a scacchi con l’unico scopo di stare con lui.

E adesso, dopo quasi dieci anni in cui aveva perso ogni contatto, non l’aveva più visto estraniandosi da quello che era stato il mondo di sua figlia, lui era ricomparso nella loro vita. Era stato suo marito a parlargliene. La nazionale giapponese aveva preso parte ad un torneo a quattro squadre disputatosi negli Stati Uniti. L’assenza di Oliver Hutton dovuta ad un incidente era stata subito rilevata dalla stampa e inevitabilmente, James Hamilton aveva visto la sua foto in prima pagina su un quotidiano. Aveva così appreso che la grande promessa del calcio internazionale, da anni giocava in una delle più titolate squadre europee. E poco prima, chissà come, James Hamilton aveva scoperto che Trish si trovava a Barcellona.

- E’ assurdo. Come può essere che si trovino nello stesso paese? -

- La forza del destino! - rispose lei pensando quasi divertita di come due continenti diversi non avevan potuto separarli.

- Adesso sei tu che dici stupidaggini. - ribatté acido alla moglie.

- Temo proprio di no. -

- Stai forse pensando che….che Trish abbia scoperto cosa è successo dieci anni fa? - le chiese turbato.

- No. La conosco troppo bene. Se l’avesse scoperto, sarebbe tornata a casa in cerca di giustizia. Lei è sempre stata fatta così. Per quanto dolce e carina potesse sembrare, nascondeva un coraggio ed un orgoglio immensi ereditati da suo padre. Abbiamo sbagliato con lei. Avremmo dovuto dirle tutto. -

- Ricordati che se le abbiamo tenuto nascosta la verità è stato unicamente per il suo bene e per farle vivere una vita più normale. Volevi che continuasse ad andare in giro per il mondo dietro un pallone? -

- No di certo ma l’abbiamo privata di un’identità. -

- Non ti far prendere dai sensi di colpa. L’abbiamo fatto unicamente per farla vivere più serenamente. - sentenziò lui mentendo.

- Come hai avuto il suo indirizzo? - gli chiese aprendo un po’ il finestrino. Si sentiva mancare l’aria.

- A Chicago. E’ stato un mio amico giornalista. Me l’ha procurato quando la nazionale nipponica è stata negli Stati Uniti. -

- Capisco. Sei sicuro che la troveremo lì? -

- No, ma se come pensiamo non si sono mai incontrati, potremo dire a lui di starle alla larga dicendole che ha un equilibrio psico fisico troppo instabile per poter reggere certe situazioni e soprattutto provare questi traumi. -

- Non è affatto vero. Questo è quello che crediamo noi. Lei sta bene. Altrimenti non sarebbe diventata un medico. E poi, lui non ci aspetta. Magari non sa neppure che vivono nella stessa città. Non vorrei innescare una bomba senza alcun motivo. -

- L’unica cosa da farsi è parlargli. Di lei non sappiamo niente e fino a che non la troveremo, non potremo riportarla a casa. - disse tediato da quella conversazione. Non aveva mai avuto un buon rapporto con la figlia adottiva e in passato non aveva esitato a programmarle incontri galanti pur di maritarla a qualche buon partito statunitense e quindi liberarsi di lei. Guardò suo marito e sospirò. Non l’aveva mai amata, e forse neanche lei, non quanto il suo primo marito. Lui spasimava per la figlia, era la sua gioia, il sole che risplendeva ogni giorno nel suo cuore. E lei aveva ricamato quell’amore in maniera totale.

Adesso James la voleva riportare negli Stati Uniti e lei sapeva che l’unico motivo era legato alla polizza assicurativa che la riguardava. Aveva intuito a cosa stesse pensando suo marito. La polizza assicurativa che al compimento del ventiseiesimo anno di età le avrebbe fruttato una fortuna non indifferente rivenente da investimenti a lungo termine fatti a suo nome dal padre. Trish neppure lo sapeva che suo padre aveva pensato di lasciarle qualcosa per il suo avvenire. E se James Hamilton avesse dimostrato che non era propriamente capace di intendere e volere, sarebbe divenuto lui il tutore dei suoi soldi. Afferrò lo specchietto dal beauty-case e si guardò. Lo stesso taglio degli occhi, le labbra ben proporzionate di un rosso intenso. Cosa stava facendo a sua figlia? Davvero voleva che suo marito la facesse passare per un’interdetta sociale buttando così all’aria la sua carriera di medico?

In fondo, cosa aveva fatto Trish per meritare tutto questo? Lei se ne era andata di casa per non protrarre oltre un rapporto fin troppo avverso, si era lasciata alle spalle un passato oramai caduto nel dimenticatoio e cercando di costruire un futuro senza le loro ombre. Desiderava solo essere libera, indipendente, caratteristica che non aveva mai perso, a prescindere dall’incidente. Sospirò con un gran patema nel cuore. Era insicura sul da farsi. Il cuore di madre le suggeriva di aiutare la figlia, ma dall’altra, sapeva che se si fosse opposta al volere di James, avrebbe perso il marito.

Il taxi continuava inesorabile la sua corsa verso la zona portuale, districandosi tra le vie trafficate.

 

 

Persa nei pensieri che si inseguivano velocemente come fomentati da un’improvvisa tormenta, i suoi occhi si soffermarono su una tranquilla scena familiare. Di fronte a lei sedavano un uomo sulla quarantina ed una adolescente. Lei sorrideva alle sue battute e lo guardava in uno stato di adorazione verso quella presenza evidentemente rassicurante e che rappresentava un affetto molto importante. L’aveva chiamato papà!

Quasi fulmineamente, la sua mente cercò in qualche luogo remoto un’immagine di suo padre. Nulla. Non ricordava niente di quella figura che sicuramente aveva avuto un ruolo importante nella sua esistenza. Era morto. Così le aveva detto sua madre, ma senza molte spiegazioni e senza alcuna nostalgia aveva ricominciato ad amare qualcuno.

- Com’è possibile imparare ad amare un’altra persona quando si è perduto il padre di tuo figlio? Come avrà fatto mia madre a dimenticare mio padre così velocemente tanto da cancellarlo anche dai miei ricordi? Eppure….lo sento…sì, sento di averlo amato molto e guardo quell’uomo con sua figlia con immensa malinconia. E’ forse questo lo stesso sentimento che ha spinto Oliver da me? Ha dimenticato la sua Patty? No, è impossibile. Quando è giunto in ospedale, nel delirio e anche dopo, ha continuato a cercarla. E poi…i suoi amici. Come posso scordare lo sguardo di quella ragazza, di Amy Ross. Mi ha chiamata Patty con una tale sicurezza che per un attimo mi ha fatta ricredere su me stessa. E suo marito? Anche lui ha reagito nella stessa maniera. Non posso vivere così, nell’ombra di qualcuno. E nella stessa maniera, lui non potrà mai ricambiare i miei sentimenti perché vivrà per sempre nel ricordo di lei. Si può amare così disperatamente? Potrò mai imparare ad amare così? Chi sono io per essere entrata nelle loro vite rivangando vecchi ricordi e aprendo ferite mai rimarginate? Perché proprio a me? Non ho forse sofferto abbastanza? Perché il destino continua ad accanirsi contro di me? Perché Patty è diventata una presenza ricorrente nella mia vita? Cosa significa tutto questo? - si chiese cercando ostinatamente di far luce su tutta la storia ma principalmente sulla sua esistenza.

Vedeva l’immagine di un corpo sinuoso, vacillante sull’orlo di un dirupo, mentre il vento soffiava furioso tra i lunghi capelli scuri nel drammatico tentativo di farla librare nel cielo oscuro. Le lacrime silenziose le avevano annebbiato la vista e lentamente cominciarono a rigare un volto già troppo provato da tutte quelle emozioni.

 

Accasciato sulla poltrona in vimini, Holly continuava imperterrito a guardare il mare mentre il temporale infuriava sulla città. Dopo l’incontro con Amy e Julian, era andato agli allenamenti ma era tornato a casa da due ore. Julian e Amy erano nuovamente lì, nello studio di Holly, in attesa che dal Giappone qualcuno inviasse loro per fax o per e-mail la copia della cartella clinica di Patricia Gatsby che finalmente avrebbe fatto chiarezza sul misterioso incidente in cui il padre aveva perso la vita e lei probabilmente aveva perduto la memoria.

Per tutto il giorno non aveva smesso di pensare a Trish. In un modo o nell’altro sapeva che inviando quelle lettere, non aveva scatenato in lei dubbi e incertezze, ma l’aveva ferita. Probabilmente, avrebbe pensato che lui l’aveva usata per raggiungere lo scopo di avere un’altra Patty. Le aveva inviato delle rose per dimostrarle che la pensava, che ci teneva a lei, e forse anche nella speranza che potessero addolcirla dopo la scoperta delle lettere. Julian ed Amy gli avevan ripetuto che invece la sua sarebbe stata solo una reazione di curiosità e che gli avrebbe chiesto spiegazioni in merito.

Holly invece sentiva che quello che stava per irrompere in casa sua non era minimamente paragonabile al temporale che furoreggiava da ore su Barcellona.

Si sentiva di impazzire nell’impotenza di poter fare qualcosa per rimediare a quella situazione.

- Come ho potuto farmi trascinare in questa stupida indagine? Perché ho permesso che qualcuno interferisse nel rapporto che stava nascendo tra me e Trish? Potevamo mai essere felici, noi due? O il pensiero di Patty avrebbe continuato a tormentarmi? Perché tutto questo? O Trish, se solo tu sapessi quanto mi dispiace, io…maledizione…quanto sono stato stupido! Perché ti ho buttata in questo baratro. Non bastava il mio tormento! Tu non lo meriti. - si disse cercando una motivazione a quanto aveva fatto con l’aiuto dei suoi amici.

 

 

Scese dalla metropolitana in preda allo sgomento e al desiderio di giustizia. L’offesa che aveva subito era stata tale da scatenare in lei l’ira e la rabbia repressa da tempo. L’atto commesso da Oliver l’aveva fatta sentire controllata e frustrata, in balia di qualche strano complotto ordito alle sue spalle. Corse sotto la pioggia incessante raggiungendo lo stabile in cui abitava Oliver. Un uomo stava per richiudersi il portone alle spalle quando lei lo fermò. La guardò allibito. I capelli scompigliati dal vento e resi umidi dalla pioggia le incorniciavano il volto preoccupato e teso. Ansimante si portò dinanzi l’ascensore cercando di riprendere fiato. Nella fretta aveva lasciato il portone aperto e il vento gelido soffiava senza sosta. Finalmente l’ascensore raggiunse il piano terra e lei poté entrarvi. Si guardò allo specchio e si sciolse sulle spalle i capelli oramai scompigliati. Si tolse gli occhiali da riposo completamente bagnati. Nonostante le condizioni precarie del suo abbigliamento e della sua acconciatura, era bellissima. Aprì la borsa e ne estrasse alcune lettere stringendole con fervore nel pugno sinistro. Quando le porte dell’ascensore si aprirono al piano attico, fece un respiro profondo alla ricerca di tutto il suo orgoglio e dell’amor proprio. Sembrava essersi ricaricata. Il pensiero di vederlo ancora una volta e di chiedere la verità, la fecero avvampare. Incedette con passo lento verso la porta che la divideva da Oliver. Suonò ripetutamente sperando che quel trillo potesse sfondargli i timpani e così cominciare ad impartirgli la giusta punizione.

Senza guardare chi fosse dallo spioncino e preoccupata dal continuo suonare, Amy andò ad aprire. Si guardarono per un lungo istante. Amy si portò la mano alla bocca impressionata da quella strana creatura uscita da chissà quale romanzo noir. Gli occhi erano freddi e glaciali, il suo sguardo tagliente. Sul volto era dipinta la convinzione di chi pretendeva solo di fare giustizia. Non l’aveva mai vista così. Si chiese se in fondo l’avesse mai conosciuta realmente.

- Dov’è? - tuonò senza salutare la signora Ross. Amy non parlò.

- Allora, dove maledizione si è cacciato quel codardo? - urlò irosa. Sempre più intimorita e coprendosi la bocca per impedire che i singhiozzi prendessero il sopravvento, le indicò la porta finestra della terrazza, al di là della quale c’era Oliver.

Quella mattina, dopo un’intensa notte d’amore, anche lei si era avvicinata per scorgere le luci dell’alba. Aveva ammirato il paesaggio e desiderato di restare lì per condividere quel quadro così suggestivo con l’uomo che aveva amato.

Non ci fu bisogno che lei lo raggiungesse. Attirato dal tono alto della voce, Holly si era alzato e stava andando nel salone quando la vide. L’uno di fronte all’altra. La trovò bellissima vestita nella sua più nuda disperazione.

- Come hai potuto? - gridò additandolo.

- Trish…io posso spiegarti! -

- Cosa…maledetto bastardo…cosa? Cosa pensavi di fare? Di dar vita a un manichino, di darmi il suo nome? Di farmi rivivere i suoi ricordi, i vostri momenti, perché io potessi comprendere i sentimenti che vi legavano? E’ per questo che mi hai inviato le lettere che le hai scritto? Per questo motivo? - inveì lanciandogli addosso una manciata di quelle lettere che aveva preso dalla sua borsa.

- Trish calmati! - le disse cercando di indurla ad un atteggiamento più quieto.

- Non darmi ordini. Non dirmi cosa devo fare. Stammi lontano, hai capito? Non bastava quanto già avessi sofferto in passato? Occorreva che mi attirassi nella tua ragnatela e fare di me l’ennesimo trofeo? Lei non c’è più! Lo vuoi capire? Io sono solo Trish e mi sono stancata di fare l’ombra di Patty. Cosa vuoi da me? Cosa cerchi? Non ti basta aver sofferto per lei? Vuoi ripetere gli stessi errori? Io non andavo bene, vero? Cosa aveva lei di più di me….cosa…? - gridò ancora con le lacrime che contigue scendevano in rapida successione. Holly era attonito. Non sapeva cosa dire. Le parole parevan morirgli in gola. Aveva perso tutte le forze. Lei era lì di fronte nel pieno della sua costernazione. Sempre più sgomenta lo stava platealmente accusando di averla fatta soffrire. E aveva ragione. Aveva sbagliato a comportarsi così con lei. Avrebbe dovuto essere sincero e spiegarle tutto fin dall’inizio.

- Mi dispiace. -

- E’ qui tutto quello che mi sai dire? Mi dispiace? Puoi andare a farti fottere con le tue scuse! Non so cosa farmene! Mi hai trascinato a letto e poi mi hai pugnalata. Ed io che ti credevo diverso! -

- Devi lasciarmi spiegare…-

- Per dirmi cosa? Che sono una delle tante che volevi liquidare in maniera tanto teatrale? E’ così che vi divertite voi giovani rampolli viziati? -

- Smettila Trish! - tuonò Holly deciso e sonoro. Julian venne attirato anche lui dalle urla e raggiunse la moglie impugnando un foglio di carta ancora caldo dopo la ricezione fax. Lei tacque a quel rimprovero. Finalmente Oliver si stava svegliando. Desiderava che reagisse ai suoi rimproveri per poter scaricare ancora più tensione e metterlo di fronte alla mera realtà.

- Non hai capito proprio niente. Non avevo intenzione di portarti a letto perché tu fossi un trofeo ma perché volevo stare con te, volevo fare l’amore con te, non sesso e basta. Di quello non so che farmene. Da quando ti ho incontrata provo di nuovo dei sentimenti d’affetto e d’amore e questo lo devo solo a te…e lo so che mi ricambi. Se ti ho inviato quelle lettere è stato unicamente perché speravo che risvegliassero in te dei ricordi, non perché volevo che tu capissi quanto ho amato Patty! Ho sbagliato e ti chiedo scusa per questo. - disse con tono imperioso scandendo ogni singola parola nella speranza che lei potesse finalmente comprendere le ragioni di quel disperato sentimento.

- Ma fammi il favore…e quali ricordi pensavi che potessero risvegliare in me le parole dette ad un’altra persona? Non bastano i flashback e le immagini che mi tormentano da più di un anno? Dovevi entrare anche tu in questo mio incubo che non finisce mai? -

- Cos’hai detto? Immagini? Flashback? -. Lei annuì non sapendo il perché di quella domanda. Holly la guardò con occhi diversi, speranzosi. Ripensò a quanto gli aveva detto il medico. Forse quelle immagini non erano altri che i ricordi di un passato che stava finalmente riaffiorando nella sua mente. Le si avvicinò e le afferrò una mano. Lei la ritrasse subito con un gesto maldestro.

- Non toccarmi…non pensarci neppure! Non voglio avere più niente a che fare con te….mi hai usata abbastanza! -

- Holly…il fax…- disse timidamente Julian sventolando il pezzo di carta che tratteneva tra le sue mani. Era il momento più adatto per darglielo.

- E questo cos’è? - chiese Trish strappandoglielo dalle mani. - Referto clinico del paziente Patricia Gatsby nata a Fujisawa il 12 ottobre 1976. Trauma cerebrale con consequenziale coma di ventiquattro giorni, lussazione alla spalla destra, ferite sparse su tutto il corpo, perdita della memoria constatata dopo il risveglio. -. Trish tremava come una foglia al vento. Un’immagine prese forma dinanzi i suoi occhi.

 

Smosse le palpebre leggermente. Impiegò qualche secondo prima che finalmente riuscissero ad alzarsi e a permettere alle sue pupille di farsi strada nella nebbia che le aveva occultato la vista. Quando finalmente ebbe una visione più chiara, cominciò a delineare i contorni di quella stanza abbastanza impersonale e asettica per essere quella di una ragazza. Tentò di muoversi ma i tubi le impedivano il benché minimo movimento. L’infermiera entrò per controllare l’elettroencefalogramma e l’elettrocardiogramma e la notò. In preda ad una strana evanescenza corse in corridoio e subito dopo fu preceduta da un medico e da una donna. La visitarono subito e cominciarono a farle domande.

- Tesoro, come stai? Sai dove ti trovi? - le chiese la donna amorevolmente.

- Chi…chi sono…dove sono…- disse sconvolgendo i presenti. Dopo qualche giorno di inutili tentativi, il primario di neurologia affermò con dispiacere che Trish aveva perduto la memoria.

 

Quell’immagine di smarrimento, di perdizione, di malinconia assoluta, l’assalirono. Lei e Patty accomunate dallo stesso incidente? Erano forse legate da qualche strano legame? Nate lo stesso giorno ma in città diverse? Non aveva mai chiesto a sua madre dove fosse nata. Si era ritrovata a vivere a Chicago, ma nessuno le aveva mai spiegato come mai l’incidente fosse avvenuto in Giappone. Un pensiero si stava facendo strada dentro di lei. Aveva sempre più timore di quello che c’era scritto. Continuò a leggere il referto con la professionalità di un medico oramai esperto, comprendendo benissimo ogni termine tecnico. Dopo la firma del primario di neurologia del Centro Traumatologico di Tokyo, che aveva stilato il referto, Trish notò una postilla che la riportava al termine del foglio.

Impallidì scorgendo quella frase. Si sentì gelare il sangue nelle vene e comprese che la pressione stava scendendo vertiginosamente. Cominciò a respirare affannosamente senza staccare gli occhi da quel tremolante pezzo di carta.

Il suono del campanello parve destarli tutti da quello strano torpore che all’improvviso era sceso sul loro palcoscenico. Holly guardò le due figure ferme sulla soglia del suo appartamento e le riconobbe quasi subito. Il cuore gli batteva talmente forte che il petto gli doleva. Continuava a guardare Trish persa in uno stato di tranche.

- Si voglia notare che ogni altro eventuale esame che si dovrà fare sulla paziente, non dovrà essere più ricercato o registrato sotto il nome di Patricia Gatsby ma come Patricia Hamilton! - lesse ansante con tono sostenuto.

Quella tremenda verità echeggiò nella stanza in maniera talmente roboante che l’avrebbe udita ovunque si trovasse. Un brivido la percorse scotendola da quell’apparente stato di assenza. Si voltò lentamente verso la coppia appena arrivata, attratta dal tono e dalla voce con cui avevano salutato i presenti.

Trish guardò Mary Hamilton a pochi metri da lei. La donna parve commuoversi a quell’incontro così casuale quanto crudele. Fece qualche passo verso la ragazza che frappose tra loro il suo braccio teso come una barriera. Fradicia per la corsa sotto la pioggia, spossata da quegli eventi, non la riconosceva.

- Chi siete? - chiese Amy non comprendendo chi fossero.

- Il signor Hamilton e la madre…di Patty! - esclamò Holly identificando i due.

Quell’ennesime parole fecero eco nella stanza e colpirono Trish in pieno volto. Reggendosi al bracciolo del divano, si voltò verso la donna. Avvertì una fitta al cuore oramai ferito e sanguinante.

- Chi sono io? - le chiese in tono imperturbabile e distante. Mary aggrottò le sopraciglia e tentò di sorriderle, ma comprese che Trish era fin troppo adirata, più di quel giorno in cui aveva deciso di andar via da Chicago.

- Ti ripeto la domanda per un’ultima volta. Chi sono io? Dov’è mio padre? Cosa è successo dieci anni fa? - domandò scandendo con precisione le parole.

- Trish…calmati..-

- Perché non glielo dici Mary? - la incitò James Hamilton.

- Tu taci vigliacco che non sei altro…è un disonore per me portare il tuo cognome! - gli disse con scherno e repulsione.

- Io…io… Trish…tu hai avuto un incidente. -

- A causa del quale sei incapace di intendere e di volere. Siamo venuti a riprenderti per portarti di nuovo a Chicago. Non puoi vivere da sola. Devi essere controllata perché potresti commettere qualche atto incoercibile dettato dall’istinto. -.

- Ma cosa diavolo stai blaterando? Sono tutte stupidaggini! Io sto benissimo. Mi sembra di avertelo già detto altre volte. Se c‘è un infermo mentale…quello sei tu. Mi fai schifo! Taci e non intrometterti in cose che neppure lontanamente ti appartengono. - gli urlò contro con ripugnanza. - Non hai risposto alle mie domande….mamma! - le disse ricordandole il ruolo che aveva nella sua vita. Mary guardò la figlia, bella, selvaggia e disperata. Dietro di lei c’era Oliver, il ragazzo che aveva amato intensamente. E poi ancora, i loro amici.

Cosa stava facendo? Davvero voleva riportare a Chicago Trish facendo sì che un tribunale la bollasse come un’inferma mentale? Cosa sarebbe stato della sua carriera e dell’amore profondo che provava per Holly? Si irrigidì e respirò cercando di riprendere il suo autocontrollo. Guardò James Hamilton, suo marito, il patrigno di sua figlia. Voleva stroncarle la carriera e la vita affettiva per divenire suo tutore e incassare i notevoli importi maturati dalle polizze assicurative intestate a Trish. Non poteva permetterglielo. Nonostante il loro pessimo rapporto, lei era sua figlia e quell’uomo stava cercando di isolarla dal mondo per sottometterla al suo volere. Ma chi aveva sposato? Come aveva potuto stare al fianco di un uomo tanto subdolo e sadico?

- Dieci anni fa c’è stato un incidente. Ti trovavi con tuo padre…è accaduto il giorno prima che Holly tornasse dal Brasile! -. L’inizio di quel racconto aveva già alimentato quello che era un dubbio insinuatosi nella mente di Trish. - Tuo padre morì subito dopo l’arrivo dei soccorsi, tu invece, entrasti in coma e ti risvegliasti dopo ventiquattro giorni….un risveglio oscuro..perché nell’incidente perdesti la memoria. -. Si sentì assalire da un conato di vomito, disgustata dalle bugie e dalle menzogne tramate alle sue spalle.

- Chi…chi sono io? - chiese con tono quasi sommesso, oramai senza forze per poter emettere altri suoni. Mary la guardò sconfortata con un’immane desiderio di abbracciarla e rassicurarla.

- Mi dispiace averti tenuta all’oscuro di tutto questo. Non lo meritavi. Non ho mai capito quanto fossi straordinaria….

- Dimmi chi sono? - le urlò a gran voce oramai sopraffatta dal dolore. Mary tacque. Mai come in quel momento avrebbe desiderato fuggire via. Quello che stava per dire avrebbe cambiato non solo lo scopo del loro viaggio, ma la vita di sua figlia e delle persone presenti.

- Patricia…PATRICIA GATSBY! - ammise coprendosi il volto con le mani. Non si sentiva alcun sibilo se non lo stormire del vento e i tuoni squarciare il cielo rosso. La sincerità con la quale Mary Hamilton aveva pronunciato quelle parole lasciava trasparire solo la verità. Trish continuava a sentire quel nome sillabato nelle sue orecchie e nella mente. Lei era Patricia Gatsby, la ragazza amata e tanto cercata dal campione di calcio Oliver Hutton. E lui l’aveva sempre saputo, fin dal giorno in cui accidentalmente si erano incontrati. L’aveva intuito immediatamente, aveva cercato di scoprire la verità spinto dai dubbi e dall’amore incontrastato che aveva sempre provato per la dolce Patty.

Le immagini e i flashback che più volte aveva veduto, che lei pensava ritraessero Patty, altri non erano che frammenti della sua memoria passata. Sgomenta si portò le mani al capo. Era incredula. Il dubbio era diventato una certezza. Nessuno parlava o fiatava. La verità era stata troppo sconvolgente perché Holly e i suoi amici potessero gioire nell’aver ritrovato la loro cara amica scomparsa. Troppo truce per lei che non solo adesso doveva fare i conti con la realtà, ma soprattutto con l’identità di una ragazza amata e desiderata da tutti. Il confronto sarebbe stato duro e inevitabile. Senza fiatare si incamminò lentamente verso la porta.

- Aspetta! - le disse Holly riprendendosi da quel mutismo collettivo. Lei arrestò il passo senza voltarsi per non guardarlo. Cosa doveva fare? Restare o andare via?

- Non andare via…ti prego! - continuò con tono supplichevole.

- Non riesci neanche a dire il mio nome….non sai neppure tu come chiamarmi! Non lo so neanche io! - rispose col capo chino. - Vedi? Non mi rispondi neppure! Io non ricordo…non sarò mai più la vostra Patty. - disse andando via e correndo giù per le scale. Julian e Mary guardarono Holly.

- Cosa aspetti? Fermala. Se dentro di lei serba ancora il grande amore che aveva per te, solo tu potrai risvegliare la nostra Patty! - gli disse Mary sotto gli occhi increduli di James. Come smosso da una scossa ad alto voltaggio, Holly corse verso la porta nel tentativo drammatico di fermare la sua amata. Sapeva, che se non l’avesse fatto, non l’avrebbe rivista più e questa volta perché lei aveva intenzione di andar via per sempre dalle loro vite. Amy piangeva a dirotto tra le braccia del marito.

- E’ colpa nostra. Se non fossimo stati così inopportuni…se avessimo lasciato che trovassero da soli la strada…

- No, la colpa è unicamente mia! - sentenziò Mary guardando la giovane donna.

- Ma cosa stai dicendo Mary? -

- Tu stai zitto. L’errore più grande che ho fatto è stato ascoltare te, fidarmi di una persona così infima…pensi che non sappia qual è la vera ragione di questo viaggio? Volevi far apparire mia figlia come un’incapace di intendere e di voler per poter intascare le polizze assicurative in vece di suo tutore. -. James Hamilton taque. Sua moglie aveva scoperto tutto. Aggrottò la fronte e storse le labbra. Si sentiva in trappola.

- Ha ragione lei…fai schifo. L’hai sempre saputo, vero? Che suo padre le aveva lasciato quelle polizze. Ed è per questo motivo che hai voluto adottarla prima che andassimo via dal Giappone. Un piano perfetto. Peccato che abbia visto la busta della compagnia di assicurazione tra i rifiuti. Il timbro postale che riportava un indirizzo di Tokyo mi ha insospettita. Ho contattato la compagnia e dicendo loro che avevo smarrito il contenuto, mi hanno inviato una copia dei documenti via e-mail. Vattene via, sparisci dalla mia vista e dalla nostra vita. L’unico contatto che riceverai, sarà quello del mio avvocato che ti chiederà il divorzio. -

- Sei proprio una stupida…dopo quello che ho fatto per voi. Vi ho dato una nuova vita e questa è la ricompensa? -

- Se ne vada! - esclamò Julian glaciale. - Lei è di troppo qui. Esca immediatamente da questa casa e non si faccia più rivedere. - continuò indicandogli l’uscio. James guardò il calciatore e poi Mary.

- Come vuoi. Ci rivedremo in tribunale e ti chiederò il risarcimento. Vedrai se non lo farò! - la intimò prima di andar via.

 

Senza pensare a non sforzare la gamba incidentata, Holly continuava nella sua corsa disperata nella speranza di fermare Trish. Non sapeva esattamente cosa avrebbe potuto dirle per farla restare, ma doveva provarci.

L’androne era vuoto e il portone era spalancato. Venne investito da una folata gelida che non gli impedì di uscire per strada incurante del maltempo. Si guardò a destra e manca, poi diritto. Era lì, ferma in mezzo alla strada con il capo alto verso il cielo e le braccia aperte. Le nuvole compatte di un tetro rossore, continuavano imperterrite a piangere quasi come un atto di solidarietà verso quella ragazza che la vita aveva messo a dura prova.

- Trish! - urlò cercando di attirare la sua attenzione. - Triiiiiiiish! Togliti dalla stradaaaa! - gridò ancora non ricevendo alcuna risposta e non notando nessun movimento da parte sua. Sembrava stordita. Guardava il cielo cercando forse una risposta al senso della sua vita.

- Perché? Perchéeeeeeeeeeeeeee? - implorava al cielo sperando forse che qualcuno potesse ascoltarla e risponderle.

Un rumore attirò l’attenzione di Holly. Si girò verso sinistra e vide l’automobile sfrecciare per la strada nella direzione della ragazza. Guardò Trish. Ancora immobile. Un pensiero prese forma nella sua mente. Sentì il sangue fluire veloce nelle sue vene come un torrente in piena. Il sudore freddo gli ricopriva la fronte.

- Maledizione Trish, togliti dalla stradaaaaaaaa! - urlò con tutta la voce che aveva in corpo per cercare di risvegliarla dallo stato di tranche nel quale era caduta. Lei abbassò il capo e lo girò verso di lui. Era sconvolta, triste, malinconica, smarrita. Poi tornò a guardare in direzione dell’automobile che inarrestabile continuava la sua corsa.

 

Una bambina di pochi anni giocava in un giardino in un’assolata mattina, sotto gli occhi vigili del padre. Una ragazzina con una fascetta rossa tra i capelli trascinava un coetaneo su per le scale di un tempio. Un’adolescente in tenuta ginnica sorridente, guardava dei ragazzi rincorrere una palla su un campo da calcio. La rivide nelle calde braccia di un giovane sullo sfondo di un aeroporto. Vide un uomo, lo stesso che aveva veduto con la bambina, ma più adulto, che le sorrideva gentilmente. Insieme nella stessa automobile. Pioveva a dirotto. Poteva quasi toccare con mano la pioggia che batteva sul parabrezza della macchina. Nonostante le avverse condizioni meteorologiche, erano contenti. Lui la guardò, poi i suoi occhi si sbarrarono…sterzò a destra nel tentativo drammatico di evitare l’impatto frontale con un autotreno. Udì le urla disperate della ragazza…poi lo schianto e il buio. Velocemente le immagini della sua vita erano passate dinanzi i suoi occhi come una pellicola cinematografica. L’auto si avvide della presenza per strada.

- Noooooooooooooo Pattiiiiiiiiiiiiiiiiiiy! - gridò Holly correndole incontro. Con un salto si buttò sul corpo della donna nel disperato tentativo di evitarle l’impatto con l’automobile Avvertì lo spostamento d’aria al passaggio dell’auto e il forte odore di bruciato alla brusca frenata. Scivolarono sull’asfalto reso viscido dalla pioggia per poi giacere abbracciati lungo il ciglio della strada completamente fradici. L’automobile riprese la sua corsa, sfrecciando lungo la via non prestando alcun soccorso ai due ragazzi.

 

Si mosse sentendo qualcosa di caldo sotto il suo volto. Quasi intuendo cosa potesse essere, come scrollato da una scossa, spalancò gli occhi e la vide. Un rivolo di sangue scivolava dalla tempia. La guardò, priva di sensi stretta nelle sue braccia. Il volto niveo e innocente, i lunghi capelli scuri sparsi come fili di seta bagnata sulla sua pelle. L’espressione di amarezza e sfinimento sul suo volto. Il cuore gli batteva all’impazzata e un tragico pensiero si concretizzò nella sua mente. Se gli avessero conficcato una lama nel cuore, non sarebbe uscita neppure una stilla di sangue. Un nodo in gola gli impediva di parlare. La paura stava velocemente prendendo forma dentro la sua mente.

- Trish….Trish svegliati…Trish, non mi abbandonare…ti prego Trish….maledizione! Trish non mi lasciare, non morire, non puoi farmi questo! - urlò scotendola sperando di risvegliarla da quel sonno, mentre le lacrime gli annebbiavano la vista e scendevano contigue. La strinse a se nel timore di perdere ogni singolo respiro. Prese a baciarle il volto e il collo in una frenesia convulsa.

- Amore mio…ti prego…non lasciarmi da solo…come potrò fare senza di te…non andare via ancora una volta…ti prego, rispondimi…se tu muori io mi ammazzo! Ti prego amore rispondimi! - supplicò angustiato e prostrato da quella tragedia. - Perché? Perché il destino si accanisce contro di noi! Perché non possiamo stare insieme? - gridò profondamente affranto mentre le lacrime scendevano repentine lungo le guance infreddolite.

- Holly! - sibilò timidamente ancora stretta tra quelle possenti braccia che le avevan salvato la vita. Il calciatore la guardò con gli occhi sbarrati e l’espressione incredula.

- Amore mio! - esclamò baciandola sul volto con fervore e delirio. Lei lo fissò stordita dalla caduta e intirizzita dalla pioggia e dal freddo. - Sei viva…sei viva…non ti lascio..te lo prometto…non ti lascio più! Perdonami se ti ho fatta soffrire, perdonami! - le disse stringendola ancora più a se per la gioia.

- Holly! - esclamò ancora lei. - Mi…dispiace. - gli disse mentre lui cercava di rialzarsi prendendola tra le braccia.

- Dispiacere? Sono io a doverti chiedere scusa per quello che ti ho fatto…ho tradito la tua fiducia mettendo in discussione i sentimenti che nutrivo per te. -

- No…è colpa mia…il tuo è stato l’atto disperato di un uomo innamorato. Ti ho fatto…soffrire tanto. -

- Trish…io…l’ho fatto perché ti amo. - le disse guardandola dolcemente negli occhi.

 

 

Mentre un aereo atterrava, altri due rullavano sulla pista pronti al decollo. Non aveva avuto il tempo di osservare il continuo andirivieni degli aeromobili e dei passeggeri, presa dalla sua corsa incessante verso il cancello di imbarco. Doveva incontrarlo. Un’ultima volta. Lo vide di spalle mentre si accingeva a solcare il gate. Come se avesse sentito il suo passo incalzante o il suo richiamo, si voltò e la vide arrivare. Un sorriso di gioia e felicità si dipinse sul suo volto mentre lei lo raggiungeva affannata dalla corsa. Gli mostrò una scatoletta azzurra. Un portafortuna per quell’avventura che stava per cominciare.

 

Lo guardò ancora in quei profondi e dolci occhi neri resi ancor più brillanti dalle lacrime. Con la mente disegnò i contorni di quel volto bagnato dalla pioggia, i capelli arruffati, la sua espressione quieta che celava la preoccupazione del momento. Schiuse le labbra accennando un timido ma sincero sorriso. Stava piangendo per lei.

- Lo so amore mio…- gli disse accoccolandosi tra le sue braccia. - adesso ho capito... -. Oliver la guardò stranito.

- Trish non poteva innamorarsi di qualcun altro. Non poteva permetterselo perché nel suo cuore, da qualche parte, in un cantuccio, conservava il grande amore che aveva sempre serbato per il suo capitano! - gli disse piangendo. Lo baciò sulle labbra, un tocco dolce che sfiorò prepotentemente i suoi sentimenti. La tirò contro il suo petto e la avvinse timoroso che potesse scappare.

- Tu….-. Lei chinò il capo in segno di assenso.

- Non ti prometto di tornare quella che ero…Trish non morirà mai…ma posso provare a restituire a te e a me stessa la Patty che conoscevamo. -. Holly scosse il capo dissentendo.

- Non mi importa…desidero solo stare con te…Patty o Trish: vi ho amate in maniera diversa, ma profonda o completa. No, amore…non hai bisogno di tornare quella che eri. Devi rimanere quella che sei. Ho amato Patty intensamente senza avere avuto mai la possibilità di dirglielo. Il destino ha voluto che ci ritrovassimo e che imparassimo ad amarci ancora una volta. E’ meraviglioso tutto questo. E’ il segno che la nostra unione è predestinata, che nulla o nessuno potranno mai separarci perché noi siamo nati per restare insieme. - le disse convinto baciandola con passione. Si staccò un attimo da lei e si inginocchiò sull’asfalto mentre la pioggia scendeva con minore intensità.

- Holly…ti senti male? - gli chiese impensierita. Scrollò il capo e le sorrise.

- Patricia Gatsby Hamilton…vuoi sposarmi? - le chiese serio prendendo la mano della ragazza tra le sue.

Lo guardò dritto negli occhi, scuri, intensi, profondi, illuminati dalla luce del loro nuovo amore. In un attimo le sembrò di ricordare il desiderio spasmodico di un’adolescente di sentir pronunciare quella frase dal giovane di cui era innamorata. Rimembrò il suo imbarazzo che si manifestava al solo parlare con il suo capitano. Il lungo abbraccio all’aeroporto il giorno della sua partenza. Le lettere che gli aveva scritto dal Brasile. Già. L’ultima lettera nella quale cominciava a manifestare seriamente quelli che erano i suoi sentimenti. Il desiderio di rivederla. Ma vivida dinanzi i suoi occhi c’era l’immagine di qualche settimana prima, quando era giunto in ospedale e nel delirio aveva pronunciato il suo nome. In quel momento ebbe la certezza che Holly non aveva mai smesso di amarla, che il legame con Trish era nato perché infondo sapeva che si trattava di Patty. Ne era sicura. Il sentimento che nutriva nei suoi confronti era talmente immenso, infinito che non avrebbe mai smesso di amarla. Lei rise di cuore. Non ricordava di averla mai vista così divertita, sicuramente non nelle spoglie di Trish.

- E’ una domanda così comica? - le chiese quasi indispettito da quel suo comportamento. Scosse il capo dissentendo.

- Sì, sì e ancora sì…che lo voglio. - gli rispose disorientata ma felice sotto gli sguardi attoniti di Julian, Amy e Mary accorsi giù al portone impensieriti dalla loro assenza.

Ritemprato dalla gioia e dal suo consenso, Oliver prese in braccio Patty e la fece volteggiare in aria in segno di felicità.

- Ci sposiamoooooooo! - gridò più volte sicuro che qualcuno…adesso lo stesso finalmente ascoltando. - Ti amoooooooooooooo! - le urlò baciandola ancora per sigillare quel momento tanto atteso e che finalmente aveva fatto breccia nelle loro vite. Lei si strinse ancora di più nel suo abbraccio sicura di aver realizzato finalmente il suo più grande sogno: amare ed essere amata da Oliver Hutton.

 

 

 

 

 

 

“La felicità è amore, nient’altro. Felice è chi sa amare: Amore è ogni moto della nostra anima in cui essa senta se stessa e percepisca la propria vita. Felice è dunque chi è capace di amare molto. Ma amare e desiderare non è la stessa cosa. L’amore è il desiderio fattosi saggio; l’amore non vuole avere: vuole soltanto amare.

L’amore non bisogna implorarlo e nemmeno esigerlo. L’amore deve avere la forza di attingere la certezza in se stesso. Allora non sarà trascinato, ma trascinerà.”

(Herman Hesse)

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Capitolo 9
*** Epilogo ***


CAPITOLO 9

 

Epilogo

 

 

Dicembre - Fujisawa, Giappone

 

La neve scendeva lentamente al dolce ritmare del Natale. Si guardò intorno con circospezione cercando di ricordare quei luoghi che non vedeva da tanto tempo, di rimembrare l’importanza che avevano avuto nel suo passato. Stretta nel cappotto di cashmere fu percorsa da un brivido, poi da un altro e da un altro ancora. Il freddo era pungente ma non voleva andar via. L’aria frizzante sembrava risvegliarla da un dolce dormire. Si chinò per guardare meglio una colonnina in pietra con incise delle parole. Giunse le mani coperte dai guanti di pelle e chiuse gli occhi. I fiocchi continuavano a posarsi sul suo cappello e sul cappotto. Con la mente cercò reminiscenze del suo passato in cui c’era ancora lui. Un uomo che aveva amato intensamente ma che il destino le aveva portato via in maniera cruenta. Sentì le lacrime salirle agli occhi per l’ennesima volta e la vista annebbiarsi. Accese un bastoncino di incenso e cominciò a pregare tra i gemiti di quella sofferenza che avrebbe portato sempre con se.

Con la mente gli parlò, raccontandogli gli ultimi eventi che si erano succeduti nella sua vita, quasi a volerlo rendere partecipe di certi cambiamenti che le avevano sconvolto il presente. Ridestata da passi lenti ma continui che si avvicinavano, si rialzò. Guardò la figura che le stava andando incontro nel suo incedere adagio, sicuro, dolcissimo. Adesso c’era lui nella sua vita, non l’aveva più lasciata e lei ne era sicura: non l’avrebbe mai fatto. Guardò ancora la colonnina in pietra con l’incenso ancora fumante e sorrise. Poi alzò gli occhi verso un cielo bianco dalle sfumature argentate.

- Ti voglio bene papà! Ciao. -.

Oliver le si avvicinò, le cinse la spalla con un braccio e insieme si allontanarono lasciando alle spalle una scia di orme calcate su un candido manto eburneo.

 

 

 

 

 

Maggio - Barcellona, Spagna

 

Fissava il suo sguardo sognante, lei ferma dinanzi la finestra del corridoio che guardava oltre quei vetri trasparenti. I capelli scurissimi, lisci e lucidi come la seta più preziosa, cadevano morbidamente sciolti sulle spalle regolari. La pelle nivea sembrava risplendere a quel contrasto. Le labbra velate di un leggero scarlatto erano unite in un dolce sorriso. Era cambiata in quegli ultimi sei mesi. Non era più la stessa ragazza che conosceva, quella che aveva imparato non solo ad apprezzare ma ad amare. Se ne era riscoperto innamorato proprio nel momento in cui lei aveva avuto la certezza di amare un altro. Non era riuscito ancora ad abbandonare l’idea che quella donna così altera, raffinata, affascinante, irraggiungibile non potesse essere più sua. Lo sguardo cadde sulla mano sinistra dove un cerchietto di metallo con incastonato un diamante brillava sul quarto dito. Ebbe una fitta al cuore e corrucciò la fronte. Sospirò cercando di ricomporsi per darsi un contegno.

L’ultima volta che l’aveva vista, era giunta in ospedale in tarda serata per farsi controllare dopo una rovinosa caduta sull’asfalto. Era completamente fradicia…lui la teneva per mano, ricoperto di acqua e fango, incurante dell’aspetto e di quello che avrebbe potuto pensare la gente.

Non avrebbe mai potuto dimenticare il loro sguardo ricco di parole non dette e sensazioni che avrebbe voluto provare lui, la magica intesa che c’era tra loro. Non sapeva cos’era, ma evidentemente, il giorno in cui lui aveva messo piede in ospedale, le aveva rapito il cuore e la mente. Era di lui che era innamorata e per tale motivo lo aveva rifiutato.

Qualche giorno dopo, partì per uno stage a Londra. Adesso era tornato e incurante di quello che poteva essere successo durante la sua assenza, delle sue mancate risposte, era stata la prima persona che aveva cercato.

- Ciao! - esclamò avvicinandosi alla sua figura. Lei si girò dolcemente e lui non poté che rimanere catturato da quello sguardo ammagliante e sereno. Non l’aveva mai veduta così prima di allora.

- Luis! - disse sorridente. - Quando sei tornato? - gli chiese baciandolo dolcemente sulla guancia.

- Trish…o…Patty….o…non so come chiamarti! - disse imbarazzato. Lei rise di scherno.

- Come vuoi tu. A te è concesso, lo sai! - gli rispose prendendolo sottobraccio e passeggiando insieme per il corridoio diretti verso il giardino dell’ospedale.

- Come stai? Quando sei tornato? Perché non hai mai risposto alle mie e-mail? - gli domandò cercando di nascondere il suo disappunto per le mancate risposte.

- Scusami..sono stato così impegnato…-

- Uhm…potevi trovare una scusa più plausibile! -

- Ti prego…non mettermi in imbarazzo! -

- Okay, non ti chiederò nulla….dimmi di te. - gli disse poi guardandolo con estrema dolcezza. Era bellissima, nel fiore del suo massimo splendore. Cosa aveva fatto per diventare così?

Rimasero in silenzio, passeggiando a braccetto sotto le verdi fronde dei viali alberati. Era uno splendido pomeriggio di maggio e il cielo era terso e limpido, vicino all’imbrunire.

- Scusami se non ti ho scritto…non ho avuto il tempo…no, non ho potuto…no, non è vero nulla! - le disse arrestando il passo e sciogliendosi dall’abbraccio. Era impacciato, dubbioso su quello che doveva dirle. Lo guardò con espressione interrogativa. Lei non proferì nulla, non protestò a quello che le stava dicendo.

- Trish…io…quando ti ho vista arrivare quella sera in ospedale…fradicia, contusa, ma felice…beh ho capito che non c’era più spazio per me nella tua vita! -

- Ma cosa dici? - ribatté lei a quella frase.

- Ti prego, lasciami finire! Tu lo sapevi e lo sai ancora che per te nutro qualcosa di più di una semplice amicizia: quando vi ho visti insieme, felici, innamorati…lui è riuscito a riportarti ad una nuova vita, è riuscito in quel che ho mancato io…o forse qualcun altro. Mi sono sentito sconfitto e ferito e per questo motivo sono andato via. Mi sentivo mancare l’aria, soffocare dal pensiero che eri tra le sue braccia. Mi sono riscoperto geloso. Ti avrei vista ogni giorno sempre più felice, accanto a lui e per quanto avrei potuto gioire per te, egoisticamente avrei continuato a soffrire e a sperare che tu potessi tornare da me. Quando mi hai scritto confidandomi il dramma della tua vita, quello che è successo in questi ultimi dieci anni, il sentimento sbocciato all’inizio dell’adolescenza…come pensi che mi possa essere sentito? Avrei voluto averti lì, abbracciarti, coccolarti, baciarti cercando di lenire le ferite che porti nel tuo cuore, dirti che non eri sola, che accanto a te c’ero io. Ma adesso c’è lui ed è sufficiente guardarti, così bella, raggiante, splendida per capire che non hai bisogno d’altro. -

- Luis…io…mi dispiace averti fatto soffrire. - rispose rammaricata.

- Non è colpa tua. Non mi hai mai illuso, tutt’altro…sei sempre stata schietta e sincera e mi avevi anche detto di essere innamorata, ma questo non mi ha impedito di continuare ad amarti in segreto. Speravo che questi sei mesi trascorsi a Londra avrebbero potuto consolare questo cuore triste, - le disse portandosi una mano al petto, - ma non ha funzionato e adesso che ti ho rivista, ne sono ancor più consapevole. -

- Non so cosa dirti…vorrei poter fare qualcosa, non sentirmi in colpa per averti causato dolore e sofferenza…

- No Trish…non devi, assolutamente! - le disse prendendole il volto tra le mani. La brezza primaverile spirava con i suoi profumi fioriti tra le fronde. Il canto melodioso dei passeri sui rami era ritmato dal dolce soffiare del vento tra le foglie.

- Luis…ti voglio bene! - esclamò buttandosi tra le sue braccia in un gesto spontaneo d’affetto.

- L’amore si può mendicare, comprare, regalare, si può trovarlo sulla strada, ma non si può estorcere. Ti amo Trish…ti porterò sempre nel mio cuore. Sarai il mio più bel ricordo. - le sussurrò accarezzandole il capo. - Resto a Londra. - aggiunse poi.

- Tornerai? - gli chiese nostalgica guardando l’amico. Il sole brillava tra i capelli biondi e sembrava rispecchiarsi nel verde scuro dei suoi occhi. Alzò le spalle in segno di incertezza ma lei conosceva la risposta.

- Forse….un giorno…ti auguro tanta felicità Trish, a te e a Oliver. Spero che lui possa renderti felice come avrei voluto fare io! - aggiunse sorridendole e sfiorandole le labbra con un dolce bacio d’addio.

Lo vide allontanarsi in fondo a quel viale che tante volte avevano percorso insieme discutendo di casi clinici e di pazienti. Il suo amico Luis andava via con il cuore ferito da un amore impossibile. Era dispiaciuta ma serena. Non avrebbe potuto dargli di più perché amava intensamente Holly, sempre più consapevole che solo lui le avrebbe potuto dare la felicità che aveva sempre sognato.

Alzò gli occhi al cielo e rimase abbagliata dai raggi del sole che intensi e prepotenti illuminavano la volta azzurra che si stava preparando al tramonto. Il vento soffiò leggero tra i suoi capelli scompigliandoli piacevolmente. Chiuse gli occhi e respirò l’aria frizzante della primavera.

 

Era lì, alla fine del viale che le sorrideva. I capelli ancora bagnati della doccia, sereno, innamorato. Alzò il braccio richiamandola. Con un balzo corse verso di lui, verso quell’uomo che amava più di se stessa, che accompagnato dalla solitudine aveva vissuto dieci anni della sua vita nella speranza che tornasse, solo e unicamente per dirgli quanto l’amava. Il cuore le si riempì di gioia e cominciò a palpitare velocemente. Era felice, raggiante di un amore che avrebbe solo potuto continuare a crescere e a splendere per loro.

 

 

 

 

 

“Amare il mondo e la vita, accogliere con gratitudine ogni raggio di sole. Non dissipare mai completamente il sorriso. Questo insegnamento di ogni autentica poesia non invecchierà mai. “

 

(Herman Hesse)

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Capitolo 10
*** Epilogo ***


http://freeforumzone

GOCCE DI MEMORIA

 

 

Nota dell’autrice

 

Desidero ringraziare tutti coloro che hanno letto questa mia Fanfiction ispirata ad alcuni personaggi della serie Captain Tsubasa.

 

Ambivo che Gocce di Memoria fosse concepita come una fanfic diversa dalle precedenti, un viaggio introspettivo, alla scoperta delle emozioni di un uomo e di una donna tanto vicini quanto lontani, accomunati dal desiderio di vivere il loro disperato sentimento.

 

Un particolare ringraziamento va al sito che mi ha ospitato e a tutti coloro che con le loro recensioni mi hanno spinta a portare a termine questo mio lavoro.

 

Grazie a tutti

 

Scandros

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Questa storia è stata recensita dal Comitato Consiglio di Fanfiction

 

 

http://freeforumzone.leonardo.it/viewmessaggi.aspx?f=4642&idd=3746

 

 

Autore: Scandros
Opera:
Gocce di memoria
Genere: romantico
Rating: PG
Capitoli: 11
conclusa


Cosa ne dice Sheria:

Crederete che sia avvezza alle citazioni poetiche ogni qualvolta mi accingo a recensire.
Se questo da un lato è vero, dall'altro in questo caso l'ispirazione appartiene all'autrice stessa.

"La felicità è amore, nient’altro.
Felice è chi sa amare:
Amore è ogni moto della nostra anima
in cui essa senta se stessa
e percepisca la propria vita.
Felice è dunque chi è capace di amare molto.
Ma amare e desiderare non è la stessa cosa.
L’amore è il desiderio fattosi saggio;
l’amore non vuole avere: vuole soltanto amare
" (Hesse).


Scandros cita, in calce ad uno dei capitoli, questa poesia di Hesse che, a mio avviso, coglie nel modo più pieno del termine il senso di tutta la ff.

Sapete, da ragazzina venivo spesso tacciata di essere una persona intransigente, che poco sapeva cogliere nelle persone le sfumature e miope verso le potenzialità rinchiuse nelle "non-definizioni".
Per me tutto era bianco o nero, giusto o sbagliato, vero o falso.
E anche nell'amore, usando il medesimo schema mentale, tutto era definibile e certo.

Col tempo e, forse, con quel poco di maturità raggiunta, ho imparato ad apprezzare le sfumature di colore.

Persino tra le riga di una storia ne colgo i dettagli.

Il perchè di questa mia piccola confessione?

La ff in questione è piena di dettagli, sfumature, sentimenti che si allargano man mano che la storia si definisce.

E' una storia molto romantica,
dalla trama originale,
da due protagonisti Holly e Patty che si inseguono e si ricercano in moltissime forme,
dallo stile diretto che non cerca di imporsi,
ma che lascia alla storia la possibilità di essere una fotografia di sentimenti.

Fedele all'idea che ho del ruolo del recensore (un suggeritore) e del valore della recensione (un convincimento soggettivo) non vi aggiungo null'altro sulla trama.
Preferisco, appunto, semplicemente dirvi ciò che la storia mi ha trasmesso, sperando di avervi incuriosito ed invitandovi a leggerla.

Sono una persona che ama leggere e che dalle storie trae (citando l'autrice) ogni cosa che mi fa percepire la vita!

Baci
Sheria

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