123 giorni.

di Beatriz
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. ***
Capitolo 2: *** 2. ***
Capitolo 3: *** 3. ***



Capitolo 1
*** 1. ***








Okay, non mi odiate adesso.
No, non avete le visioni, è davvero un'altra long quella che sto scrivendo (non FF, in quanto sono solo 3 capitoli). Purtroppo per Red Hair non avevo davvero più idee, ma sapete che stare senza scrivere, per me, non è ammissibile. Così ho deciso di postare. E questa la porterò a termine, poichè i capitoli sono già tutti scritti sul mio pc e devo solo postarveli qui. L'unica fatica che dovete fare, ovviamente sempre se volete, è seguirmi e recensire. Spero vi piaccia, e, ribadisco, sono solo 3 capitoli.
Dedico questa storia ad Arianna, che è una persona fantastica e un'amica altrettanto eccezionale. Ti voglio bene, stella.
Simona.





                                                                         123 giorni.


Joe trascinò l’indice lungo le caselle traslucide del calendario, e i giorni si susseguivano veloci sotto quel tocco deciso, quasi a voler imprimere un solco profondo che squarciasse la carta satinata per poi graffiare il legno dei mobili.
Segnò una grossa X con una stilografica rossa, riempiendo l’angusto spazio bianco che divideva il numero sei dal numero sette. Continuò a scendere in una ripida caduta lunga forse venti centimetri. Non si era neppure accorto che all’incirca una settimana dopo avrebbe compiuto 23 anni.
I conti tornavano, quei fottuti bastardi tornavano sempre. 123 giorni.  Erano i 123 giorni in cui aveva smesso di pensare, i  123 giorni in cui aveva preferito non parlare, o almeno non di lei, i 123 giorni in cui qualcosa, nella sua vita, aveva cominciato a non quadrare perfettamente.
Come un soprammobile bislacco, un lampadario rococò, o un copricapo fuori moda. Come le finte cornici d’ottone che sembrano dritte prima di scivolare, e i granelli di polvere che si scontrano nei coni di luce provenienti dalle persiane.
Erano i 123 giorni in cui lei aveva deciso di scappare, lasciando una camicia sgualcita ancora nascosta dietro le ante dell’armadio, qualche fotografia della vacanza alle Hawaii, dove si era slogato una caviglia, e un po’ di vuoto nel petto, proprio all’altezza di quell’incessante martellare che il suo solo sorriso, riaffiorato tra i ricordi  di una vita, riusciva a scaturire.
 
Si trascinò verso il letto soltanto dopo che i suoi occhi, ancora impastati di un tiepido velo di sonno, si scontrarono con il bordo tagliente di quel calendario bianco, come la sua pelle diafana, e rosso. Rosso come le grandi X, rosso come il suo colore preferito, rosso come quelle labbra scarlatte che, ne era certo, non sarebbe riuscito a dimenticare.
Il letto sapeva ancora di caldo. Si gettò con ben poca grazia sulle trapunte di un tenue azzurro pallido, accogliendo la nuca tra gli avambracci. Avrebbe voluto far finta di non averla mai incontrata, ma a stento ricordava come impiegasse le sue giornate prima che un uragano dagli occhi del cielo gli sconvolgesse la vita.
Adorava giocare ai videogiochi, era un campione. Da quando lei era sparita, la sola idea di trascorrere qualche minuto con un Joystick in mano lo rendeva nervoso. Pensare che lo aveva lasciato per il suo bene lo faceva sentire terribilmente imbecille. Come poteva essere un bene restare chiuso in casa, a guardare il soffitto, giorno dopo giorno?
Si era giurato di cambiare, che domani avrebbe fatto meglio. Ma erano i 123 domani che, puntualmente, slittavano senza sosta tutti uguali a oggi.
 
Lo scandito picchiettare di un forte paio di nocche contro lo stipite della porta lo fece sobbalzare. Il silenzio era così incessante che anche il minimo rumore finì con lo spaventarlo. –Avanti!- Impartì, con un tono distaccato, privo del suo caratteristico timbro frizzante ed allegro.
Carly sgattaiolò all’interno della camera da letto lasciando che l’anta placcata della porta andasse a cozzare contro il tappeto pervinca, e senza chiedere scusa puntò il suo sguardo cupo sulla sagoma di Joe.
«Joseph Adam Jonas!» Tuonò, puntando le mani grassocce sui fianchi. Joe le riservò per qualche istante un’occhiata sottecchi, per poi tornare senza indugi a fissare la spianata distesa di stucco bianco che solcava le loro teste. «Sei uno scellerato, ragazzino»La sua bisbetica amica si trascinò con tonfi ovattati fino alla finestra dalle lunghe tende di lino beige e la spalancò, inspirando a fondo l’aria fresca fin quando i polmoni non cominciarono a bruciarle. Ora che non poteva vederlo, Joe sorrise per ogni suo ammonimento. Sapeva che sotto quello spigoloso carattere burbero, si nascondeva la ragione per cui Carly era diventata in così poco tempo la sua migliore amica. Dai fianchi tondeggianti e una montatura nera in plastica a solcare il naso all’insù, quella ragazza era in grado di spronarlo quando anche gli altri si arrendevano. Non appena si voltò, Carly arricciò il naso con aria altezzosa. «Sono passate le nove da un bel pezzo, signorino “Io sono una popstar”» Puntualizzò, con un’aggiunta di ironia «E non permetterò, no signore, che tu trascorra un altro giorno a deprimerti in questa stanza che …»Rimase a fissare interdetta l’enorme quantità di fogli di carta che fuoriuscivano dal cestino traboccante. Sospirò.  «Da quanto diavolo è che non pulisci questo porcile, Joseph?»Enfatizzò particolarmente l’ultima parola, squadrandolo dalla testa ai piedi. Nonostante non lo desse a vedere, il suo stomaco pareva chiudersi ogni qual volta che constatava con amarezza quanto davvero la sua piccola Calixte gli mancasse. Le avrebbe fatto un bel discorsetto, semmai l’avesse incontrata prima di tornare nell’alto dei cieli. Oh, se glielo avrebbe fatto!
Sorpassò con noncuranza il calendario appeso a un fianco dell’armadio, e captato il suo sospiro di rassegnazione, Joe comprese che aveva notato le ingombranti X incise dalla sua mano.
«Sto per dirti due cose, Joe»Aveva detto con le braccia incrociate sul seno prosperoso «La prima, è che se fai così sembri un povero malato mentale. La seconda, è che mi dispiace tanto»
Si diresse a passo spedito verso la sponda del letto, accasciandosi poi accanto alla sua testa immobile dalle somiglianze di un manichino adatto alle vetrine. «E poi ce n’è una terza,»Le sue mani scioglievano le ciocche di folti capelli neri intrecciati dalla fodera del cuscino «Dimenticala, diamine»
Sapeva che non lo avrebbe fatto. Perché avrebbe dovuto, d’altronde?Per lui provare dolore era un bisogno fisiologico, gli ricordava che era ancor vivo, e che sarebbe stato in grado di amare ancora, un giorno. E a giudicare dalle grosse X sul calendario, un giorno molto lontano. «Quanto tempo è ormai?»
Aveva chiesto Carly, sicura che la risposta, in un altro frangente, l’avrebbe fatta ridere. O probabilmente avrebbe riso lo stesso, per il nervosismo. Joe lasciò oscillare il braccio di malavoglia. «123 giorni»
«123 che cosa?»Ripetè la ragazza riducendo gli occhi scuri a due piccole, impercettibili fessure. E lui non riuscì neppure a capire se stesse urlando, o se la testa gli doleva a tal punto che ogni minimo sussurro assumeva le sembianze di un nitido acuto del petto. «Oh, davvero?Hai deciso di rimanere rintanato qui dentro fino a Natale?»
Quella battuta a dir poco sarcastica gli strappò un flebile risolino divertito. «Potrebbe essere un’idea, no?»
«L’unica idea che ho in mente io, adesso, è quella di tirarti un pugno a procurarti talmente tanto male da farti dimenticare Calixte, il cancro, e anche il tuo nome, accidenti» Sbottò Carly, cercando di essere convincente nel suo a dir poco bizzarro rimprovero.  Joe era comunque consapevole che lo avrebbe fatto per il suo bene. Si spostò di poco verso il suo ginocchio, fasciato da un paio di Jeans sbiaditi, e trascinando con sé le lenzuola sgualcite premette la tempia verso la ruvida stoffa dei calzoni rimanendo lì, vittima dei ricordi.
 
Lo odiava. Odiava profondamente quella lurida cosa che aveva iniziato a divorarla da dentro, sempre più ingorda, sempre più maligna. Calixte diceva di non avere paura, ma anche i più sfacciati avevano la coscienza di provare timore. Lo odiava perché era stata la scusa più plausibile per allontanarsi da lui. “Non voglio rovinarti insieme a me”  aveva scritto su un lurido biglietto di compleanno improvvisamente trasformato in una busta d’addio. C’erano anche il clown con il naso rosso e i palloncini colorati, sul fondo del foglio: un dettaglio che, ogni volta che provava anche solo a sfiorare quel ricordo con il pensiero, reputava macabro.
Se solo avesse saputo che la rovina, per lui, era stata la sua partenza. Non aveva neppure idea di dove si trovasse, se fosse ancora nascosta negli Stati Uniti, o, magari, fosse espatriata in Europa. Sentì le calde dita di Carly scivolare con delicatezza tra le sue, contrite dalla rabbia. Si vergognò di desiderare che, per un attimo, fosse la mano di Callie a stringere le sue accompagnate da così tanto affetto e ardore.
 

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Capitolo 2
*** 2. ***


Buonasera :)
Ecco il secondo capitolo della long, ma prima di lasciarvi leggere (e spero vivamente che vi piaccia), vorrei fare dei particolari ringraziamenti a:
_itsahope, grazie a te Arianna, di tutto. Si essere te, e dei tuoi commenti fantastici. Sei davvero fantastica, stella.
inseparable__ tu! Tu che mi segui con così tanto affetto e mi riempi di complimenti, meriti un rigraziamento tutto speciale. Grazie mille, di cuore.
_Josephina Jonas_ Grazie per le tue parole, sono contenta che ti piaccia il mio modo di scrivere :) Spero continuerai a seguirmi.
Grazie anche a chi legge semplicemente, un bacione.





                                                                                               2.

Carly si trascinò fino ai piedi di una pacchiana poltrona al centro della hall, sotto gli alti e possenti colonnati dei soffitti bianchi, e fece scivolare le dita lungo i braccioli rivestiti di una ruvida stoffa su cui erano incisi motivi in stile barocco. Si lasciò affondare tra quei cuscini consunti, assumendo una posizione poco comoda solo per avere una miglior visuale della vetrata d’ingresso.
D’altronde non poteva fare altrimenti. Il buffo maitre dal volto paonazzo e il naso tondeggiante le aveva negato l’accesso alla stanza della signorina Calixte, e Carly si era ritrovata sulla strada un pesante muro di ostinazione che la costrinse a rivisitare tutti i piani della giornata. Non era stato facile convincere Alexander a svelare il nome dell’albergo in cui sua sorella soggiornava, lungo la trafficata Broome St. di Manhattan, e ancora più difficile era stato sopportare le continue ed impertinenti domande del tassista. Quando aveva risposto che alla ricerca di una ragazza, la sua curiosità sembrò svanita nel nulla. Avrebbe voluto chiarire. Dallo sguardo che le lanciò prima di lasciarla scendere sul marciapiedi, doveva essersi fatto un’idea non propriamente esatta.
Il suo sguardo nocciola scrutava con particolare e sostenuta attenzione ogni singolo volto che lastricava la sua visuale, sperando vivamente di adocchiare una folta chioma bionda svolazzare tra le innumerevoli teste dei presenti. I pallidi bagliori del sole irradiavano nel suo sguardo incupito una luce dorata, riflettendosi poi sulle guancie rossastre fino a svanire con le ombre lungo la  morbida linea del collo.
Temeva anche di serrare le palpebre, con il timore di vedersela sfuggire davanti senza aver modo di reagire. Ad ogni ciocca bionda che vedeva sfilare con sfrontatezza lungo la scalinata dell’albergo, o sorpassare con studiata noncuranza il bancone, poteva sentire il muscolo del cuore contrarsi con tale ardore che, per pochi istanti, ogni altro rumore presente nella sala scompariva per lasciare spazio a quell’incessante battito che le saliva per la gola.
E poi la vide. Con un passo leggero, Calixte si dirigeva verso l’ascensore, mentre le balze del vestito floreale fluttuavano con una grazia innata ogni qual volta la stoffa scivolava tra le gambe sottili. Era più pallida, rispetto agli ultimi ricordi che Carly conservava della sua persona, e i capelli riuscivano adesso a coprirle il lobo dell’orecchio sfiorando appena il lungo collo da cerbiatta. Carly scattò dalla poltrona, destando l’attenzione dei pochi ospiti seduti al suo fianco. Poteva sentirli mormorare, mentre avanzava con innata sicurezza verso l’esile corpo di tutte le sue ricerche.
In un gesto incosciente,  Calixte alzò di poco lo sguardo per ammirare il nitido fervore della sala principale, respirando appieno l’aroma dolciastro che impregnava le pareti, e i suoi infantili occhi chiari si scontrano con lo sguardo adirato di Carly.
Le parole le si strozzarono in gola, mentre dalle sue rosse labbra dischiuse un impercettibile sussurro fuoriusciva appena, disperdendosi con fragilità tra le quattro mura improvvisamente diventate troppo piccole.
Notò il braccio di Carly avanzare nello spazio che divideva i loro corpi, e Calixte cominciò a muovere un veloce passo verso l’ascensore, seguito da un altro, fin quando una scarica di adrenalina le diede la spinta per aumentare l’andatura. Stava fuggendo, un’altra volta.
 
-Fermati, signorina!-Aveva urlato Carly, rimbeccandola subito dopo per una spalla mentre le porte del pesante cubo di metallo erano ancora troppo lontane. Calixte sbuffò, annaspando nell’aria torrida di quel pomeriggio d’Agosto. –Carly- Esclamò, le mani improvvisamente lasciate scivolare lungo i fianchi –Che sorpresa! E’ un piacere vederti-
-Smettila Callie, lo so che non è un piacere- Quel finto umorismo la fece innervosire. Calixte sembrava agitata, portando il peso da una gamba all’altra senza mai guardarla negli occhi.
-Se devi dirmi qualcosa, possiamo farlo non qui?-Indicò con un cenno del capo i numerosi spettatori di quella banale fuga dalla realtà, con gli occhi curiosi celati dietro le copertine patinate dei giornali di gossip. Carly digrignò i denti, -Ma tu guarda che imbecilli-
Non aveva mai sopportato i ficcanaso.
 
 
                                                                                                              ***
 
 
 
Carly gettò nel suo caffè la quarta bustina di zucchero. I granelli bianchi scendevano adagio sulla soffice schiuma, per poi affondare come avrebbe fatto qualsiasi nave alla deriva. Calixte, osservando intensamente la scena con le labbra serrate lungo i bordi della tazza di the bollente, in quello zucchero ci vedeva tutta la sua vita.
Il cafè dell’hotel non era altro che un lungo bancone di finto marmo rosa dietro a cui alcuni giovani camerieri amavano destreggiarsi tra spremute di arance e caffè bollenti, servendo poi ai tavoli con le gambe di metallo ridotte in miseri semicerchi senza una fine. Calixte ripose adagio la tazza nel piatto dello stesso corredo, e il tintinnare della ceramica si irradiò tra gli aromi che padroneggiavano l’ambiente.
Non sapeva cosa avrebbe dovuto dire, non lo sapeva mai quando si trattava di Carly. Forse avrebbe dovuto biascicare delle ignobili scuse. O forse avrebbe preferito dileguarsi, con una scusa, per non pensarci più. Il punto era che il tremolio delle sue mani, qualunque cosa le venisse in mente, non accennava a smettere.
 
Fu grata a Carly per iniziare la conversazione quando lei non trovava ancora il coraggio con cui dischiudere la bocca.
-Come procedono le cure?- Domandò, picchiettando con una salvietta sul labbro superiore per asciugare le tracce di caffè. Calixte si sentì sollevata. La sua malattia era un campo su cui riusciva a muoversi ancora con una certa abilità.
Miglioro- I ricordi degli ultimi mesi la lasciarono interdetta –Cioè, per quanto una persona nelle mie condizioni può migliorare, insomma … -
-Mi piace il tuo nuovo taglio di capelli-Sibilò Carly abbozzando un timido sorriso. Ed era vero. Calixte si accarezzò la nuca con le dita. –Ti ringrazio, ma non credo che tu sia qui per parlare dei miei capelli-
In realtà Calixte sospettava il vero motivo per cui si trovassero lì, ma sentirlo pronunciare dalle sue labbra le sarebbe stato d’aiuto nel farsene una ragione, per quanto fosse possibile. Le sembrava essere trascorsa un’eternità dall’ultima volta che le sue labbra si erano poggiate su quelle di Joseph, e Il suo sapore lo sentiva ancora vivido agli angoli della bocca.
-Joe è un vegetale, Callie. Nel vero senso della parola, eh, giuro. Sta contando i giorni da quando te ne sei andata-
Quelle parole furono per lei come un forte pugno poco più sopra dello stomaco. I suoi zigomi si imporporarono, rendendo il colorito della pelle ancora più niveo. –In che senso?-
I lunghi boccoli scuri di Carly scivolarono nell’incavo del collo, -Nel senso che sul suo calendario ci sono segnate 123 X grosse come una casa- Gonfiò il petto, per enfatizzare il discorso –E non vuole dimenticarti, Callie. Non ci riesce-
-E tu credi davvero che rivedermi, anche solo per un giorno, e poi osservarmi scomparire di nuovo, possa farlo stare bene?- Senza che Calixte potesse accorgersene, aveva irrimediabilmente alzato il suo tono di voce, tanto che gli altri clienti del cafè si voltarono stizziti a lanciarle un’occhiata di ammonimento. Carly roteò gli occhi verso il soffitto. –No!- Aveva risposto, in un tono così fievole che persino la stessa Calixte dovette sporgersi in avanti per afferrare la risposta –No che non gli farà bene. Ma sentendosi dire dalla stessa ragazza che ama che è arrivato il momento di andare avanti  allora forse si, potrà davvero farsene una ragione-
Calixte era consapevole che la sola idea di rivederlo sarebbe stata per lei un compromesso al suicidio: Era forte, ma chi mai avrebbe potuto sopportare un secondo addio?
-Ascoltami, Callie- Riprese la ragazza accanto a lei con esasperazione –Lui è distrutto dal tuo ricordo, è distrutto dall’idea di non averti potuto dire addio, e dal pensiero di non aver fatto niente per impedirti di partire. E’ convinto, e lo è davvero, che avrebbe potuto fare qualcosa. Mio Dio lo hai scaricato con un biglietto d’auguri, dico: chi se ne farebbe una ragione, no?-
L’idea del biglietto d’auguri era stata malsana, e Calixte lo riconosceva. Ma era l’unica cosa vicina ad una busta per le lettere che avesse trovato in casa di Joe, sotto una pica di giornali sullo sport e la forma fisica. –Sai che giorno sarà la prossima settimana?-
-E’ il suo compleanno- Rispose Callie sciogliendo le labbra in un tenero sorriso. Il suo sguardo vitreo le fece capire che era immersa in chissà quali lontani ricordi. –Vuoi tornare a Los Angeles, per rivederlo?- Incalzò ancora Carly.
Calixte spalancò la bocca, farfugliando qualche parola incomprensibile. Il respiro le si strozzava nella gola, opprimente come un macigno. Voleva rivederlo, desiderava stringerlo ancora tra le braccia più di qualsiasi altra cosa al mondo. Ma non era il momento.
-No- Non riusciva a credere nemmeno lei a ciò che stava dicendo. –No Carly, io non torno-
Ripetè ad alta voce, così che tutti, compresa lei stessa, potessero sentirla.
 
 

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Capitolo 3
*** 3. ***



Buonasera care :)
Non mi sembra vero che dopo ... 3 anni? Sono risucita a terminare qualcosa, per quanto piccola e .... si, probabilmente stupida. Le mie FF da 3 anni a questa parte sono rimaste sempre incomplete. Beh, esclusa questa, da ora.
Spero vi piaccia l'ultimo capitolo, anche se sono consapevole che non è un granchè. E' stato un pò un parto, a dire la verità. Grazie a tutte voi che mi avete seguita, spero di tornare presto con qualcosa di nuovo.
Simona
P.S. Un grazie speciale va a la mia Arianna e a Federica. Grazie ragazze, siete splendide <3










                                                                                                            3.

-TANTI AUGURI A TE, TANTI AUGURI A TE, TANTI AUGURI A JOSEPH, TANTI AUGURI A TE!-

Un boato di applausi si schiuse nella salone quando Joe, sorridente come un bambino il giorno del suo decimo compleanno, soffiò sulle candele blu dall’ipotetica forma di un due e di un tre abbastanza stilizzato. Non riusciva a credere nemmeno lui che il giorno del suo compleanno fosse giunto quasi senza preavviso, mentre le grosse X del calendario aumentavano come i suoi anni. Si soffermò un momento a scrutare i volti dei presenti, i pochi intimi amici con cui aveva condiviso tutto, e si agitò dietro il tavolo afferrando un calice vuoto e una posata. Il tintinnio stridulo dei colpi inflitti sul vetro si diffuse tra le pareti, facendo sorridere Kevin.
-Joe, ti stiamo guardando tutti- Commentò il maggiore abbracciando l’intera stanza –Non c’è bisogno che distruggi i bicchieri della mamma-
Joseph gli riservò un’occhiataccia di ammonimento, -Taci!- Tuonò.
Si schiarì la voce con dei nitidi colpetti di tosse, prima di lanciare verso la torta al cioccolato un ultimo sguardo di gratitudine.
-Prima di tutto, volevo dirvi che come cantanti siete negati-Un accenno di risolini divertiti si disperse tra la coltre di fumo delle candeline appena spente –E poi volevo ringraziarvi. So che è scontato da dire, ma nell’ultimo periodo sono stato … -
-Un ameba?- Concluse Nick, innescando l’ilarità generale. Joe sbuffò con impazienza, nonostante sorridesse per il paragone buffo che il fratello minore aveva lanciato come carta vincente.
-Okay, questa era buona- Sentenziò, provando a tornare serio per continuare il suo discorso. E dire che erano settimane che pensava a cosa avrebbe dovuto raccontare nel fatidico giorno del suo ventitreesimo compleanno. –Ma davvero, sono stato insopportabile, e apatico e … Carly?- Si voltò con aria maliziosa verso la sua migliore amica, a pochi passi da lui, e quella sorrise –Noioso?- Azzardò, inarcando un sopracciglio.
Joe le fece l’occhiolino, quasi le stesse dando cieca ragione –Probabilmente si. Ma sono fiero di dire che nessuno di voi mi ha abbandonato quando l’unica cosa che avrei voluto fare era probabilmente soffocare con un sacchetto di plastica sulla testa. Quindi … Chi vuole la torta?-
Frankie, senza che il festeggiato dovesse ripeterlo due volte, si avventò sulla torta, formando con l’aiuto del dito indice un solco profondo tra la panna. Joe, divertito dalla scena, provò anche solo ad immaginare cosa avrebbe fatto lui quando sarebbe arrivato alla sua età.
Era così simpatico e intelligente che avrebbe conquistato il mondo quanto, o forse più, dei Jonas Brothers. E di questo ne era sicuro.
 
Quando nessuno prestava più attenzione a loro due, con le loro porzioni di dolce sui piatti di plastica rossi, Carly strattonò il ragazzo per un braccio, costringendolo ad avvicinare l’orecchio alle sue labbra profumate di lip gloss. –Joe,- Sussurrò, mentre a fatica riusciva a contenere la bocca dal distendersi in un sorriso emozionato –Joe qui fuori c’è una persona che vorrebbe parlare con te-
Joe si incupì, aggrottando la fronte. –Prendilo come il mio regalo di compleanno-
Aveva sibilato a denti stretti, prima di trascinarlo fuori in veranda.
 
 
                                                                                                            ***
 
 
Joe avrebbe voluto piangere, saltare, urlare, e poi ricominciare ancora. Il cuore fremeva nel suo petto come i bambini all’arrivo di Babbo Natale, con i pacchetti colorati tra le mani e la frenesia di scoprire i loro nuovi giocattoli.
Calixte era bella, nei suoi sandali di cuoio intrecciati lungo le caviglie esili e i pantaloncini bianchi un po’ sgualciti. Lasciò scivolare lo sguardo su quei boccoli sfarzosi, trattenuti da alcune forcine nere. Erano ricresciuti, e le donavano particolarmente. Ma d’altronde Joe l’avrebbe trovata graziosa in ogni caso.  Il suo sguardo azzurro lo colpì dritto nei ricordi, facendo riaffiorare tutto il dolore di quei giorni trascorsi a contare le X su quelle fottute caselle satinate.
E il biglietto, e l’addio, e il cancro, e lui l’amava, e lei sorrise, e Joe avrebbe voluto tenerla con sé per sempre come un souvenir. I pensieri si accalcavano nella sua testa in maniera così sfrontata che a malapena riusciva a capire cosa gli stesse succedendo intorno.
Improvvisamente, era come se quelle 123 X non fossero mai state segnate.
-Ciao, Joe- Il sussurro di Calixte era impercettibile, nel trambusto della festa che si consumava alle loro spalle, dentro quelle quattro mura stuccate di bianco. Joe strinse le dita di Carly tra le sue, quasi temendo il momento in cui lei le avrebbe spiegato che era tutto frutto della sua più fervida immaginazione.
Ma, al contrario di ogni sua aspettativa, Carly rivolse a Calixte uno sguardo ricco di gratitudine, prima di sorridere ad entrambi. –Meglio che vi lasci soli, per un po’- Farfugliò facendo schioccare la lingua –Voglio dire, ho lasciato la mia torta in mano a Kevin e non c’è nessuna garanzia che io la trovi ancora-
Rimase in bilico con il peso sulla gamba destra, attendendo uno scroscio di risate che non la raggiunse mai. L’ansia e il terrore negli occhi di entrambi era indescrivibile, quasi malato. Si precipitò oltre la soglia mentre l’eco spregiudicato della sua coscienza cercava di convincerla che la presenza di Calixte fosse la cosa migliore per lui. –Kevin Paul Jonas II, giù le mani dalla mia porzione di dolce, o ti prendo a forchettate!-
Il rimprovero, impregnato del timbro vocale di Carly,  raggiunse le sagome immobili che sostavano sotto la tettoia intarsiata in legno, e Joe non potè fare a meno di sorridere. I suoi muscoli cominciarono a sciogliersi: Era impossibile che stesse sognando, perché la voce burbera della sua migliore amica rimbombava forte e chiara in qualsiasi angolo della casa. –Che … Perché sei qui?-
In qualunque modo formulasse le sue domande, Joe aveva il timore di poterle sembrare scontroso, quando l’unica cosa che desiderava per il suo compleanno era un suo tiepido abbraccio. Calixte non rispose.
Il suo passo strascicato la scortò fino al giardino, oltrepassando il sentiero di ghiaia che si frantumava sotto la suola delle scarpe, e Calixte si accovacciò sotto la fronda di un albero dalla corteccia così scura da confondersi con la terra. Joe trovò la forza di seguirla, nonostante a malapena le sue gambe sopportassero il peso dei vestiti indossati. Quando si lasciò cadere ai piedi della pianta, dalle sue labbra esangui fuoriuscì un sospiro di rassegnazione.
-Sarò sincera,-Calixte aveva cominciato a parlare, e Joe poteva notare con quanta fatica quegli occhi chiari fissavano i fili d’erba che le accarezzavano il polpaccio, senza mai scontrarsi con i suoi –Io non sarei voluta venire. E’ stata tutta un’idea di Carly, è stata lei che mi ha convinto perché credimi Joe: è stramba, ma ti vuole davvero tanto bene. Quindi, quando avremo finito di parlare, e tu tornerai a vivere la tua vita, corri dentro casa e dalle un grosso abbraccio. Perché se lo merita-
Joe non riusciva a credere a quelle poche, semplici parole. Carly e Calixte non si erano mai piaciute, e difficilmente riuscivano a sostenere una conversazione senza lanciarsi piccole frecciatine idiote, o insulti infimi. Ma questa volta, la sua Callie sembrava davvero sincera. Accolse la sua mano tra quelle dita pallide, stringendole con quanta forza le braccia potevano riservarle. –Ho bisogno, e ne ho bisogno davvero Joe, che tu ti dimentichi di me-
Joe avrebbe voluto piangere. Si, era capriccioso, ed egoista. E per una volta, in tutta la sua vita, voleva essere capriccioso ed egoista. –Devi lasciarmi andare. Io … Joe non posso fare niente se so che tu continuerai a tenermi stretta come se avessi una qualche specie di filo che, quando tiro troppo, mi riporta da te. Non posso vivere io, né tantomeno potresti riuscirci tu-
-Ma tu mi ami?-Joe si morse la lingua, pentito subitosi subito dopo di quella richiesta così azzardata. Solo che a volte aveva bisogno di sentirsi rassicurato, proprio come un ragazzino.
Calixte sussultò, e i muscoli della schiena si contrassero contro il ruvido tronco su cui era distesa delicatamente. Il ritmo frenetico del suo cuore era diventato quasi insostenibile. Chiuse gli occhi, e un vistoso cenno di assenso le calò sulle piccole labbra serrate tra loro.
-Se può farti star meglio saperlo, sono ancora irrimediabilmente innamorata di te-
-E allora torna-
-Per lasciarti partecipare allo spettacolo in cui io sto male e tu non puoi fare niente se non lanciare i pugni contro il muro urlando quanto ti odi?-Sibilò lei, ricacciando indietro un velo di lacrime che spingeva agli angoli degli occhi. Deglutì a vuoto, sperando che la sua voce incrinata non avesse destato alcun sospetto alle orecchie di Joe. –Cosa pensavi, che non ti avrei mai sentito la sera, dopo le mie giornate di chemio?- Riprese poi, lottando contro la voglia di sfogare il suo dolore e la sua frustrazione sulle ciocche di erba piantate nel terreno, e la vecchia corteccia che raschiava la loro pelle.
Sotto il giudizio di quello sguardo implorante, Joe si sentì per la prima volta colpevole di tutti quei momenti di dolore. L’aveva fatta stare male, quando l’unica cosa di cui aveva bisogno era qualcuno che le stringesse la mano quando i suoi respiri affannosi parlavano al suo posto, o un carattere positivo che illuminasse le sue giornate apatiche. Ma tutto ciò che riuscì a fare, in quella circostanza, fu auto commiserarsi per quel risvolto della loro storia che non aveva programmato. –Joe, io l’ho fatto per t … -
-Smettetela!-La interruppe Joe stringendo le tempie tra le mani, come se avesse udito qualcosa di incredibilmente fastidioso –Smettetela di dirlo, non fate che ripetermi altro. L’ho fatto per te, l’ho fatto per il tuo bene, come se non fossi più in grado di decidere cosa è meglio per me. E’ ovvio, ti spacco il cuore ma lo faccio solo per te, che idiota sono stato-
Calixte non riuscì a frenare l’impulso che, con pazienza, aveva tenuto nascosto per tutta la durata del loro dialogo, e con uno slancio si sporse in avanti fin quando il suo seno non si scontrò con il petto ampio di Joe. Affondò la fronte nell’incavo del suo collo, mentre il corpo si contraeva sotto i nitidi e scanditi singhiozzi di quel pianto silenzioso che inutilmente provava a far morire lungo la gola. –Hai ragione Joe, hai ragione- Le sue parole, convulse e indistinte, si alternavano a respiri mozzati. Joe le accarezzò la nuca. I suoi capelli profumavano di buono.
-Il punto- Riprese lei spostando di poco la fronte lungo le spalle che tante volte l’avevano accolta –E’ che, per quanto tu possa amare una persona, le cose non cambieranno. Le cose non cambiano quasi mai Joe, siamo noi che ci adattiamo. E se ti ho lasciato un biglietto idiota sul comodino, quel giorno, è stato perché volevo alleviare uno dei tanti dolori che stavi sopportando a causa mia, l’unico che potevo manovrare a mia scelta-
Si staccò da lui nonostante le mani di Joe pregassero per qualche istante in più, e le sue labbra piene si soffermarono sulla mascella contratta.
 –Non odiarmi, Joe- Sussurrò premendo la tempia contro la linea definita del collo –Non odiarmi-
Ripetè, senza ormai riuscire più a placare gli spasmi in cui il suo petto si contraeva con trepidazione.
Joe la strinse teneramente tra le braccia, cullandola e lasciando sui suoi capelli arruffati qualche bacio ogni qual volta ne sentisse la voglia. L’amava, ed era cosciente che i suoi sentimenti non sarebbero mai cambiati.
Ma si sarebbe adattato.
Si sarebbe adattato a lasciarla andare.
 
 
 
Prima o poi.
 

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