L'ascesa e la caduta

di Serith
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. 27/11/59 ***
Capitolo 2: *** 2. Madre? ***
Capitolo 3: *** 3. Danze ***
Capitolo 4: *** 4. Spade ***
Capitolo 5: *** 5. Congiure ***



Capitolo 1
*** 1. 27/11/59 ***


L’ascesa e la caduta

 

 

1.

 
Il piccolo Raphael, della casata Sorel, nacque il 27 novembre del 1559, dando la prima di una lunga serie di soddisfazioni alla sua famiglia. Sua madre Hèloise, appena ripresasi dal parto lo prese in braccio, ed ebbe l’occasione di tirare un sospiro di sollievo: era un maschio sano e robusto, un perfetto erede della casata. Era un bimbo bellissimo, con le guance paffute e le manine che si aprivano e chiudevano nell’aria. Aveva degli occhi vispi e curiosi, di un’incantevole sfumatura cerulea, ma probabilmente nel giro di qualche mese avrebbero cambiato colore. Per non parlare dei suoi polmoni poi: che potenza! Tuttavia Hèloise non sentiva alcun attaccamento nei suoi confronti, come ci si sarebbe dovuto aspettare da una madre: si, l’aveva cresciuto nel suo ventre, l’aveva desiderato… eppure non lo sentiva suo. Forse perché era ancora sporco di sangue, ed un legame così profondo doveva crescere lentamente… probabilmente perché riusciva già a scorgere nel suo visino dei tratti per nulla simili ai suoi, e questo la fece sentire nel peccato. Come sarebbe stato orgoglioso, lui, di quella scoperta!

Dopo una breve poppata il piccolo si addormentò sereno tra le sue braccia. Quasi tutte le serve che l’avevano assistita durante il parto se n’erano andate, fatta eccezione per la governante ed una giovane ragazza che raccoglieva in una tinozza impacchi e garzine usati durante il travaglio.
-E’ un bellissimo bambino.- disse la donna più grande, chinandosi in avanti per osservarlo meglio, ma non troppo. Madame Hèloise era una donna gentile, con cui pur rispettando i limiti delle loro classi sociali era possibile sostenere un dialogo -Come lo chiamerete, se posso permettermi?
Uscita improvvisamente dai suoi pensieri, la risposta della giovane fu incerta e leggermente irritata. –Non… non lo so. Suppongo che sarà suo padre a decidere.

La governante si afferrò i lembi della gonna ed accennò un inchino. –Vogliate scusarmi. Vado ad informare Monsieur Sorel delle vostre condizioni e di quelle del piccolo.- Uscì dalla stanza senza attendere una risposta. Apparte Hèloise e suo figlio era rimasto solo il dottore che accingeva a rimettere gli strumenti nella sua borsa da viaggio e la serva che andava avanti indietro per la stanza a rassettare. Il silenzio fu ben presto interrotto dalla porta che si spalancava, lasciando entrare un uomo elegante e raffinato. Non era più molto giovane, sebbene risultasse ancora piuttosto attraente. Nonostante ciò, la caratteristica che risaltava maggiormente in lui era il portamento: fiero e orgoglioso, lo sguardo freddo di chi ha sempre guardato dall’alto in basso tutti. Un nobile per sangue e per natura.

La prima cosa che notò Albèric Sorel fu la donna al centro del letto, con i capelli spettinati e la faccia ancora congestionata, e il fagottino che teneva sulle braccia. La seconda era che l’aria era impregnata dell’odore del sangue e della fatica, non esattamente un’essenza piacevole. Odiava gli odori. La terza era la serva che si aggirava qua e la, a fare non si sa cosa. La sua vista, in un momento così importante lo irritò.
-Lasciaci.- disse bruscamente. La sciagurata si inchinò, ed uscì frettolosamente.

Alla sponda destra del letto, il dottore si mise sull’attenti, pronto ad essere congedato. –Signore.

Questa volta il suo tono fu cortese, non scevro però di una nota autoritaria:-Attendete fuori, più tardi discuteremo della paga.
L’uomo annuì con calma, afferrò la borsa e se andò.

Erano rimasti soli, lui, sua moglie e suo figlio. Nelle ore precedenti, mentre dalla porta chiusa sentiva le urla della donna che aveva sposato aveva fatto in modo che dai suoi lineamenti non trapelasse alcuna emozione, ma in realtà era stato preoccupato per il sesso del suo erede. Se si fosse trattato di un maschio, molti dei suoi problemi si sarebbero risolti. La casata Sorel sarebbe stata nelle mani sicure del suo diretto erede, allentando così la morsa in cui lo costringeva suo fratello minore Adrien, con i suoi figli Alexandre e Sebastièn. La sua precedente moglie non era riuscita a dargli degli eredi, così quando era diventata troppo vecchia per rimanere incinta era stato costretto a ripudiarla. Se non l’avesse fatto alla sua morte tutti i suoi averi sarebbero passati ad Adrien, sancendo così la fine della sua dinastia.

Albèric si avvicinò al letto, le mani intrecciate dietro la schiena. Hèloise lo fissava di sottecchi per capire come avrebbe reagito, ma lui non la degnò di alcuna attenzione. Il suo sguardo era fisso su ciò che contenevano le sue braccia magre, una promessa di salvezza per la sua casata, la garanzia che un  giorno sarebbero diventato così potenti da entrare nelle grazie di re Francesco.

Hèloise trattenne il fiato, sapendo che le prossime parole di suo marito avrebbero determinato il suo futuro. Era stata abbastanza forte da partorire senza complicazioni un maschio sano, ma sebbene l’avesse generato con quell’uomo, non riusciva a liberarsi dall’aura di soggezione che le incuteva. Era una donna e quindi considerata inferiore, ma capiva che una nascita nella nobiltà implicava molti interessi, non sempre piacevoli.
Albèric si sporse per guardare meglio suo figlio. Era profondamente addormentato, come se non gl’importasse nulla di essere appena uscito dal ventre di sua madre, ne di dove si trovasse o chi fosse. I primi anni della sua esistenza sarebbero stati gli unici felici, perché presto sarebbe cominciato il suo addestramento. Era bene innanzitutto instillargli il seme dell’odio, in quell’età in cui si era particolarmente fragili e vulnerabili. Una volta cresciuto, il desiderio di rivalsa l’avrebbe spinto a fare qualunque cosa pur di migliorare la sua condizione, e quindi quella della casata.

Il seme dell’ambizione.

Albèric sorrise.

Era identico a lui. Era dell’opinione che i neonati, per quanto ne avesse visti pochi, si somigliavano un po’ tutti, e suo figlio non faceva eccezione. Eppure l’ombra del suo volto era lì, nei suoi lineamenti immaturi.

Presto avrebbe cominciato la sua opera. L’avrebbe plasmato come un pittore plasma un’immagine nella sua mente, riproducendola fedelmente su tela. E il suo erede avrebbe plasmato gli altri a sua volta, corrompendo, distruggendo, creando alleanze. Con un unico scopo: diventare il favorito del re.

La sua vita sarebbe stata la sua opera d’arte.

Raphael.

Finalmente Albèric distolse il suo sguardo da lui, concentrandosi su sua moglie. Non aveva smesso di tenerlo d’occhio, ma era rimasto talmente assorto da dimenticarsene.

Hèloise lo guardò, in attesa del suo giudizio. L’aveva soddisfatto come moglie? Gli occhi dell’uomo, in genere freddi e assorti per un momento di distesero, lasciando intravedere un barlume di calore.

-Sei stata brava.- disse accarezzandole la testa, -Sono fiero di te-.

I lineamenti sul volto di lei si distesero per il sollievo. Aveva compiuto gran parte del suo dovere. In futuro era preferibile che gli desse altri figli, ma considerato che il loro primo erede era un maschio, probabilmente non l’avrebbe mandata in convento.

Albèric era soddisfatto, ma la sua giornata non era terminata. Aveva ancora alcuni impegni da assolvere; tra questi il redigere una lunga, esaustiva lettera in cui informava suo fratello Adrien della felice nascita del suo primogenito Raphael, e che quindi i suoi figli non avrebbero ereditato nulla dallo zio.

-Ti lascio riposare. Manderò una balia a prendere il bambino. Dormi bene, mia cara.

Le poso un bacio sulla fronte, che Hèloise accettò silenziosamente. D’un tratto si sentiva esausta; non solo per il parto, ma anche per la pressione vecchia di mesi che sentiva di non aver più sulle spalle. Abbandonò la posizione seduta per distendersi, tendendo il bambino sul ventre. Quest’ultimo aprì gli occhi, ma non pianse.

Albèric uscì. Mentre la porta si chiudeva alle sue spalle, un sorriso più simile ad un ghigno si formò sulle sue labbra, allargandosi come una ferita.

L’ascesa della famiglia Sorel era appena cominciata.

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Capitolo 2
*** 2. Madre? ***


2. Madre?

 

Era una magnifica giornata, temperata e luminosa; decisamente troppo bella per i suoi gusti, considerato che non poteva godersela. Raphael si stropicciò gli occhi stanchi, posando per un momento la testa sopra le pagine intiepidite dal sole del suo libro di matematica. Non era una lettura semplice. Se il suo precettore fosse stato lì con lui avrebbe capito di più e più in fretta, ma non era un problema. Preferiva fare le cose da solo. L’unico inconveniente era che con molta probabilità avrebbe passato tutto il pomeriggio lì sullo scrittoio, quando il suo unico desiderio sarebbe stato quello di uscire per cavalcare un po’ sul suo cavallino. Non era giusto. Non poteva nemmeno sperare d’ingannare suo padre, dato che era lui a costringerlo a quella noiosa routine. Non che fosse molto presente nella sua vita, sebbene vivessero entrambi nella stessa casa; ma aveva di tanto di tanto il vizio d’interrogarlo per rassicurarsi che avesse studiato seriamente.

Albèric non era tipo da usare punizioni corporali, ma sapeva bene come farsi rispettare.

Il bambino non era sicuro dei sentimenti che aveva nei suoi confronti. Era un padre spesso assente, ma a suo modo invadente. Non era generoso nell’elogiare lodi, ma quando lo faceva rimarcava spesso la sua intelligenza, sollecitandolo quindi a parlare della situazione della famiglia, della sua posizione e dell’importanza di ostentare il proprio rango nobile, cosa che purtroppo loro non potevano fare perché erano caduti in disgrazia. Raphael capiva i suoi discorsi, ma avendo solo sette anni non riusciva a capirne le implicazioni. Allora suo padre con pazienza glieli spiegava, facendolo sentire fiero di essere nobile, ma anche in ansia per essere in una situazione precaria. Quando le sue osservazioni si rivelavano particolarmente acute per la sua età gli arruffava affettuosamente i capelli chiari, con gli occhi pieni d’orgoglio. Raphael si sentiva soddisfatto, ma mai del tutto.

Era qualcosa nel modo in cui lo guardava suo padre… anche quando si addolciva –sempre in modo discreto, mai troppo esplicito-, sembrava in qualche modo pensieroso, anche se il suo sguardo faceva intendere che era presente.

Raphael si ridestò dai suoi pensieri. Era entrato in una fase di piacevole sonnolenza, stimolato dal rilassante  tepore del sole pomeridiano. Non che le materie dei suoi studi non gl’interessassero: aveva dimostrato spesso di essere un bambino attento e ricettivo. Il problema era il lento e regolare scorrere noioso delle sue giornate, scandite da orari precisi che lui doveva rispettare, qualunque fosse il suo umore, che fosse stanco oppure no.

Per fortuna almeno oggi avrebbe fatto qualcosa di nuovo.

-E’ importante per quelli del nostro rango conoscere un’arte nobile come la scherma, - aveva detto suo padre quella mattina –essa può risolvere le dispute, è un mezzo di difesa, ed in più è un ottimo esercizio.-

Raphael aveva una certezza: se era così importante per Albèric, che aveva la reputazione di essere un bravissimo spadaccino, allora si sarebbe impegnato al massimo per superarlo.

 

In segreto e quasi con vergogna, Hèloise osservava suo figlio attraverso uno spiraglio della porta.

Era un atto vile e meschino, degno di un qualsiasi furfante… ma non poteva farne a meno. Ogni giorno alla stessa ora si avvicinava silenziosamente alla sua stanza, socchiudeva l’entrata ed osservava la sua schiena piegata sui libri, dilaniata dal senso di colpa.

Era diventato un rituale, qualcosa da cui aveva dipendenza. Osservare suo figlio, esserci per lui anche se a sua insaputa era un modo per rassicurarsi che in fondo lo amava, anche se a modo suo.

Hèloise non aveva mai compreso, o forse non aveva mai voluto comprendere quello che provava nei suoi confronti.

Sapeva, nel profondo del cuore, di non sentirsi una madre per nessuno dei suoi figli. Finchè si fosse trattato solo di Raphael, avrebbe potuto costruirsi una fitta rete di giustificazioni che l’avrebbero messa al sicuro dalla vera se stessa; l’illusione dell’inesperienza l’avrebbe protetta da un doloroso esame di coscienza.

Dal giorno della scoperta della gravidanza fino a pochi mesi dopo il parto era stato effettivamente così. Era giovane, si era detta. Era la sua prima esperienza di maternità. Probabilmente l’amore sarebbe arrivato col tempo, quando avrebbe compreso la gioia di quell’atto precluso agli uomini.

Hèloise aveva sempre pensato all’istinto materno come appunto, ad un istinto. Una cosa primordiale ed insopprimibile, che viene non appena una donna posa gli occhi sul viso di suo figlio. Se non avviene in quel momento, allora è inevitabile nella suzione, quando la madre dona qualcosa di se stessa al bambino.

Per lei non era stato così. Non lo aveva amato sin dal primo giorno, ne lo avrebbe mai amato come meritava in quel momento. Non riusciva ad abbracciarlo, a confortarlo, ne tantomeno ad essere gentile. La sua vicinanza le metteva addosso un nervosismo che col tempo era diventato peggiore di quello che le metteva suo marito – quell’essere meschino che con quel sorriso viscido riusciva a manipolare lei e i suoi figli; ma un giorno gliel’avrebbe fatta pagare…-.

Con Raphael era stata un fallimento di madre, ma si era convinta che con il figlio successivo tutto si sarebbe sistemato. Già pronta all’esperienza della gravidanza e del parto, avrebbe finalmente capito la gioia della maternità, ed allora avrebbe amato entrambi i suoi figli.

Dopo circa un anno e mezzo dalla prima gestazione era nato Ghislain. Non era cambiato nulla.

Hèloise si toccò pensosamente il ventre. Aveva detestato il suo primo figlio, ed infine dopo vane speranze aveva fatto lo stesso con il secondo. Cosa sarebbe mai potuto cambiare con il terzo? Il suo destino era quello di fabbricare eredi a suo marito, come una macchina.

In cuor suo però sperava che fosse una femmina. Albèric non le avrebbe messo addosso i suoi occhi di falco, non gliel’avrebbe allontanata come aveva fatto con i suoi altri due bambini. Per una volta non l’avrebbe fatta sentire inutile e meschina, costretta a bassezze come spiarli da una fessura pur di sentirsi vicina a loro. Finalmente si sarebbe sentita una madre… non una sciocca oca frustrata e pettegola.

Era quella la figura che faceva nei confronti di Raphael. Non tanto di Ghislain, che si era trincerato in un doloroso rifiuto fatto di silenzio e di occhiate ostili, troppo adulte per un bambino di soli 5 anni.

Ma Raphael… Raphael sembrava un Albèric in miniatura. Gli somigliava tantissimo, con quei capelli biondi e gli occhi azzurri – no, infine non avevano cambiato colore, come aveva sperato quando l’aveva preso in braccio per la prima volta -, ed ultimo ma non per importanza… il carattere.

Era totalmente indifferente alla sua presenza, come se fosse un soprammobile grazioso, ma comunque inutile.

In quel tipo di occasioni, le uniche cose che le riuscivano bene era rimproverarlo, oppure ignorarlo a sua volta. Se avesse potuto, il nervosismo e lo stress l’avrebbero portata a sgridarlo perché respirava, e quindi perché esisteva. Senza mai perdere il controllo, però; non si addiceva ad una donna d’alto rango. L’unico modo in cui le era concesso d’esprimere il suo fastidio era fulminandolo con lo sguardo per un momento, prima di sbattere più volte le ciglia ed il ventaglio e di starnazzare esasperata: -Per cortesia, smetteresti d’infastidire tua madre?! Fila!

Oppure, nel caso di ospiti in casa: -Mio caro, non ti abbiamo per caso insegnato a non dare fastidio ai grandi, se non richiesto?-breve pausa scenica, seguita da un cinguettante –i giovani d’oggi- a cui le sue amiche di pettegolezzo avrebbero risposto con un’educata risatina.

Il peggio sarebbe arrivato in quel momento. Raphael l’avrebbe guardata; ed allora, solo per un attimo, avrebbe visto nel suo volto gli occhi di Albèric, freddi e sprezzanti.

Lei ne avrebbe riso con le sue amiche, lamentandosi scherzosamente dell’impudenza di suo figlio; dentro di sé però, sarebbe bruciata di frustrazione.

A quei pensieri, gli occhi di Hèloise si assottigliarono pericolosamente; senza davvero rendersene conto aveva stretto spasmodicamente la presa sulla maniglia della porta.

Odiava tutto e tutti, senza eccezioni. Odiava senza remore Albèric, perché sposandola l’aveva messa in quella situazione. Odiava la sua famiglia, che l’aveva lasciata in balia di un uomo meschino. Odiava la società, che la stringeva in una morsa d’acciaio di buone maniere ed arrendevolezza. Detestava i suoi figli perché non li amava e loro la ignoravano.

Più di tutto, odiava se stessa.

Decise che ne aveva avuto abbastanza. Presto Raphael avrebbe finito di studiare, e con molta probabilità sarebbe andato a giocare fuori. I suoi orari li organizzava Albèric; non aveva un’idea precisa di quello che faceva.

Con lentezza cercò di chiudere la porta, lasciando comunque un piccolo spiraglio. Fece un passo indietro, poi un altro.

Sotto il suo piede una tavola di legno cigolò, mandando in fumo il suo piano di una ritirata silenziosa.

Dalla fessura notò che Raphael aveva rizzato la schiena, pronto a ricevere chiunque entrasse nella sua camera.

Con un sospiro, Helòise aprì la porta.

 

**

Non sono soddisfattissima del capitolo, ma va bè, ormai è fatta. Era ora che aggiornassi. Sono molto incostante, ma andrà avanti. Prevedo che sarà una fiction lunga. Ma la finirò è_é.

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Capitolo 3
*** 3. Danze ***


3. Danze

 

 

Al sentire lo scricchiolio delle assi appena fuori la porta Raphael rizzò immediatamente la schiena, pronto a ricevere chiunque fosse entrato. Era un po’ perplesso: non aveva ancora due ore di studio, prima di cominciare la sua prima lezione di scherma?

Aspettandosi di vedere una serva o la governante il suo stupore –ed il suo scontento – aumentò considerevolmente quando sua madre entrò senza bussare, tutta riccioli neri ed espressione che annuncia nubi temporalesche.

Raphael non conosceva molto bene sua madre, ma quel poco che gli aveva mostrato bastava ed avanzava per evitarla.

Era sempre arrabbiata con lui, innanzitutto. Non ne sapeva il motivo – in effetti, non s’applicava granchè per capirlo -, e ciò lo lasciava con un senso di confusione che non gli piaceva. Non sorrideva mai. Sembrava che quell’espressione perennemente arrabbiata fosse l’unica che avesse per lui, perché Raphael non ne aveva viste altre. Ad eccezione di quando era con le sue amiche, quelle signore belle ed eleganti come lei che venivano alle loro feste; allora il suo volto si sarebbe rilassato, ed avrebbe parlato di argomenti come vestiti, acconciature e cani da compagnia. Avrebbe riso, coprendosi la bocca col ventaglio. Sarebbe stata diversa da com’era in realtà.

Ed ora era entrata nella sua camera, senza motivo apparente. Non sapeva cosa aspettarsi.

Hèloise non era stata quasi mai nella stanza di suo figlio. Conosceva il suo aspetto perché l’aveva visto attraverso lo spiraglio della porta tantissime volte, ma essere nello spazio di quel bambino sconosciuto, con lui ad appena un metro e mezzo di distanza, era un altro discorso. Era più nervosa che mai, e si odiava per essere così debole – ma, Dio, che razza d’impudente era suo figlio.

Non l’aveva salutata.

Non l’aveva salutata.

Era semplicemente lì, in piedi – la sua mente decise volutamente di non registrare questo fatto -, ad osservarla guardingo, ma non troppo. Era persino un po’ annoiato.

Hèloise l’avrebbe volentieri strozzato, ma c’era un’altra emozione che rifiutava con vergogna di vedere in se stessa: la paura. Vedere uno sguardo così sicuro, una così tale mancanza di timore nei suoi confronti… in qualche modo era inquietante. Non era solo il fatto che i suoi occhi erano quelli di Albèric, con quello stesso modo sprezzante di guardare tutto e tutti che istigava il suo lato omicida, no. Era una questione molto più complessa.

Albèric aveva fatto un ottimo lavoro di manipolazione con Raphael, questo era poco ma sicuro.  Si comportava in tutto e per tutto come lui, come se ne fosse una piccola copia. Sentiva lo stesso senso bruciante d’ingiustizia per chi aveva causato il decadimento della loro casata, prima di tutto. Lo stesso modo di guardare, di camminare, la stessa ponderatezza nel cercare parole che non esprimessero troppo, o troppo poco. Persino lo stesso modo di tenere le posate durante l’ora dei pasti, toccandole solo con pollice ed indice.

Eppure, sebbene fosse ancora troppo presto per scoprirlo, Hèloise capì in quel momento che Raphael aveva il potenziale per sviluppare una personalità molto più indipendente e temibile di quel che sembrava.

Erano i suoi occhi che glielo dicevano. L’impudenza espressa che tanto odiava, e qualcos’altro. Qualcosa che le gelava la schiena nel profondo… e le dava i palpiti di gioia.

Era la sua manifestazione d’insensibilità.

Non piangeva mai. Sembrava che nulla potesse davvero colpirlo: aveva solo sette anni e quindi ipoteticamente fragile, eppure in apparenza non c’era nulla a cui tenesse veramente. Il suo giocattolo preferito si rompeva? Se ne faceva comprare un altro! Il suo animale da compagnia si ammalava? Bene, lo scaricava a qualcuno e se ne faceva regalare uno nuovo! Sua madre non lo amava ed ogni volta tentava di ucciderlo con lo sguardo? Nulla di cui preoccuparsi!

L’unica persona nei cui confronti sembrava avesse rispetto e timore era suo padre. Hèloise li aveva visti insieme, qualche volta. Aveva notato la soggezione che provava per lui, mescolata ad una fortissima voglia di mettersi alla prova e di mostrargli… beh, di mostrargli di qualcosa.

Senza riuscire a trattenerlo, sentì un sorrisino cattivo distendersi sulle sue labbra.

Forse, dopotutto, i piani di controllo di Albèric si sarebbero rivoltati contro di lui, un giorno non troppo lontano.

Ma la sensazione d’appagamento durò solo un attimo. Le sembrava nella sua testa che fossero passate molte ore, quando invece tornando con i piedi terra, capì che erano passati solo pochi secondi dal momento in cui era entrata.

Lui era ancora lì, in piedi davanti a lei. In attesa del suo solito commento acido.

Hèloise fremette di rabbia – e ciò, paradossalmente, fece in modo che fosse il suo status emotivamente agitato a parlare.

-Ebbene?- sentì i suoi occhi assottigliarsi, il battito del cuore un tamburo che batteva incessante. Se avesse avuto un ventaglio, avrebbe cominciato ad agitarlo nevroticamente –è questo il modo di salutare di tua madre?

Per un momento Raphael la guardò con quella che sembrava vera e propria confusione. Poi, nel modo insegnato ai piccoli nobili la reguardì con un breve inchino, la testa abbassata in segno di rispetto. Le sue parole non erano venate di timore, ma erano gentili e morbide come s’addice ad un bambino:

-Buon pomeriggio, madre. Scusatemi se non vi ho salutato.

Ora andava già molto meglio.

Non c’era in effetti molto da aggiungere. Un breve silenzio imbarazzato calò nella stanza. Gli occhi di Hèloise indugiarono per un momento sul paesaggio visibile fuori dalla finestra, un bellissimo miscuglio d’azzurro brillante su una distesa di verdi, grandi colline solcate da campi. Era una giornata così bella che le si strinse il cuore. Ma se fosse uscita per prendere una boccata d’aria l’avrebbe odiata, perché nulla sarebbe cambiato e lei sarebbe rimasta ancora lì, a far da schiava a suo marito.

Il suo sguardo si abbassò lentamente sullo scrittoio e sul libro aperto sopra di esso. Era un mobile color marrone chiaro, sobriamente elegante, impreziosito da delicati decori sulle gambe e sui bordi della parte superiore. Su di essa vi era anche un piccolo calamaio di ceramica, dentro cui era intinta una piuma bianca con macchie marroni.

Il libro era semplicemente qualcosa di mostruoso. Era troppo grosso, troppo ben rilegato per essere la lettura di un bambino. Senza pensarci troppo vi s’avvicinò impulsivamente per osservarlo meglio, prendendolo tra le braccia e rigirandolo in diverse angolazioni. Raphael la osservava in silenzio. Soffermandosi sui contenuti, il suo occhio si fece non solo critico, ma severo.

In quanto femmina, da piccola non aveva ricevuto un’educazione matematica. Ma anche per lei, la vista di quei simboli complessi, di quelle definizioni contorte, era decisamente troppo. Che razza d’idea aveva in mente Albèric?! Suo figlio poteva essere promettente e tutto… ma suo padre stava esagerando.

Con un gesto secco richiuse il libro, posandolo di nuovo sullo scrittoio. Rimase per alcuni secondi così, appoggiando con le mani sul bordo, la testa bassa. Percepiva bruciante sulla sua schiena lo sguardo di Raphael, in attesa di una sua mossa. Era ostile… ma non troppo. Sentì le sue labbra tendersi in un piccolo sorriso privo di felicità. Ora aveva compreso uno dei segreti della facile manipolabilità sui bambini: la volubilità emotiva.

Molto, molto in fondo, doveva ammettere che forse si era fatta molte paranoie. Raphael era sicuramente un bambino meno sensibile degli altri e più intelligente della media, ma non aveva ancora un carattere ben definito. Percepiva come un dardo uncinato sulla sua carne l’indifferenza che aveva per lei, ma non le era mai esattamente ostile… non proprio. Non era che l’avesse rifiutata: non si era proprio posto questa scelta. Semplicemente riconosceva la sua esistenza sin dalla nascita, e da allora l’aveva accantonata in un angolo, continuando a passarle davanti come se davvero non gl’interessasse.

Ovviamente grande influenza in tutto questo l’aveva avuta Albèric. Come sempre.

Il sorrise di Hèloise si allargò in modo sinistro, assumendo una sfumatura amara. Non s’illudeva, sapeva che psicologicamente ed affettivamente suo marito le aveva portato via entrambi i suoi figli. Ma forse… forse

-Così oggi hai la tua prima lezione di scherma, uh? – disse senza voltarsi.

Con la coda dell’occhio vide Raphael riflettere, rigirandosi con calma le mani. Infine disse:-Si… madre. Padre dice che è… –s’interruppe, la fronte aggrottò per lo sforzo-, è “fondamentale” per difendermi, ed è anche un esercizio…

Hèloise riflettè brevemente. Quelle parole la fecero pensare ad un momento di alcuni anni prima, poco dopo che aveva sposato Albèric. Lui si stava allenando con il suo stocco nel salone principale, e lei era rimasta a fissarlo di nascosto per ore, incantata dai motivi precisi e leggiadri con cui fendeva l’aria. Sapeva che suo marito nel loro ambiente era considerato un bravissimo schermidore… ma non immaginava che potesse trasformare il combattimento in una forma d’arte.

Era come una danza, si era detta. Una danza bella e letale, pur scevra di sensualità. Oh si, di passione ce n’aveva messa molta, ma non era la stessa cosa.

Si voltò verso di lui, un sopracciglio fine sollevato.

-Un esercizio?- disse con una punta di sarcasmo. Un’idea folle le era venuta in mente. Era forse il fatto che dopo un po’ si era abituata in parte alla sua presenza ravvicinata, o che per una volta non l’aveva guardata così freddamente. Era forse che in fondo attendeva da tempo un’occasione d’avvicinarsi a lui senza il controllo perenne di suo marito… ma finchè non pensava, finchè non si ricordava di odiare, voleva mettere in atto una follia, per una volta non distruttiva.

-Anch’io ti posso insegnare un esercizio.- disse d’impulso. Questa volta fu il turno di Raphael d’inarcare un sopracciglio. Per una volta Hèloise non vi badò. Gli mise decisa le mani sulle piccole spalle, allontanandolo di alcuni passi da se.

-Questa è una danza chiamata Flamenco. Rispetto ad altre danze si basa molto sulla libera interpretazione, sebbene l’uomo e la donna abbiano mosse differenti. Ti devi basare su un gioco di piedi… in questo modo. – La donna si sollevò la gonna vaporosa, mostrando le scarpe costose.

Raphael la osservava, curioso ed un po’ confuso. Da una parte credeva che sua madre in qualche modo lo stesse “distraendo” per punirlo poi successivamente, ma aveva troppo desiderio di vedere quello che avrebbe fatto.

Di primo acchito non aveva capito le sue parole. Non sapeva come i piedi “potessero giocare”… ma poi tutto gli fu subito chiaro.

Hèloise si mosse un po’ sul posto, creando un delizioso, ripetitivo suono con i tacchi sul parquet. A Raphael piacque.

La donna gli mostrò alcuni modi di muoversi sinuosamente, ed un paio di volte fece una piroetta con un ginocchio piegato.

-…queste sono alcune delle mosse più importanti con i piedi, ma ce ne sono molte altre. Queste invece sono le cose che puoi fare con le braccia…-

Sua madre socchiuse gli occhi per la concentrazione; le sue mani si sollevarono lentamente in aria, facendo degli incantevoli movimenti rotatori. Mosse il busto avanti ed indietro, a ritmo con le mani. Poi, battendo a ritmo i piedi, cominciò a danzare.

Raphael era stupito. Non avrebbe mai pensato che sua madre non fosse solo la strana donna perennemente arrabbiata che lo odiava. Adesso… adesso sembrava un cigno. Non era tanto il fatto che fosse lei, a danzare per lui… ciò che lo catturava maggiormente, era la danza in se. Gli piaceva. Gli piaceva molto.

Poco dopo Hèloise smise. Danzare l’aveva messa di buon umore. Quasi. Ma ci era vicina.

Sentì un angolo traditore della sua bocca tirarsi all’insù, secco ed un po’ innaturale. Ma non si ci poteva sbagliare: seppur accennato, quello era un sorriso.

-Avanti, ora prova anche tu.

Più osservava l’incanto accennato sul volto di Raphael, più il suo cuore si contraeva in spasmi dolorosi. Forse, il bambino non era poi così insensibile.

Per risposta, per un momento vide sui suoi occhi  un vago senso d’incertezza, prima che fosse surclassato quello eccitato della sfida. Raphael fece un saltello, in modo da atterrare col tacco per produrre quel suono caratteristico. Ne fece un altro, ed un altro ancora. A poco a poco imitò quasi tutte le mosse che gli aveva insegnato sua madre, mettendoci tutto l’impegno possibile.

Era bellissimo, perché gli piaceva da morire. Forse non era bravissimo perché era la sua prima volta, ma… era bello, punto e basta. Hèloise non poteva trovare termine migliore. Per una volta, guardandolo non pensò ad Albèric; solo a Raphael, che con passione cercava da quella danza la sua interpretazione.

La sua opera d’arte.

Hèloise cominciò a ballare con lui.

I movimenti del piccoli non erano forse aggraziati come i suoi, ma la donna dovette ammettere che aveva una certa grazia naturale. Era un po’ troppo avventato, ma con l’esperienza sarebbe migliorato moltissimo.

All’improvviso Raphael inciampò sui suoi stessi piedi, perdendo l’equilibrio.

Hèloise lo afferrò istintivamente per le spalle, evitandogli una brutta caduta. La sua testa bionda finì a contatto con il suo ventre, senza sapere di essere vicino al piccolo che vi stava crescendo dentro.

La danza si era interrotta bruscamente. La donna lo rimise in piedi, senza dire nulla. Un gran senso di gelo calò sulla stanza, talmente denso da essere tagliato con un coltello. Ed Hèloise realizzò quello che aveva fatto.

Aveva ballato.

Per suo figlio.

Con suo figlio.

Aveva una gran voglia di agitare il suo ventaglio, ma non l’aveva con sé. Il suo cuore cominciò a battere all’impazzata. Si sentiva spezzata in due, come se le avessero legato le braccia a due cavalli che la trainavano in direzioni opposte. Da una parte sentiva che il suo tentativo d’avvicinarsi a Raphael era stato inutile, perché lui era proprietà ed ombra d’Albèric. Dall’altra…

Dall’altra, anche se non l’avrebbe ammesso mai… si sentiva più leggera.

-Sei… - aveva bisogno di schiarirsi la voce. Lo fece, tornando poi ad assumere un cipiglio un po’ meno altezzoso del solito -sei stato bravo. Sono certa che-,

La sua frase venne improvvisamente interrotta dal bussare di qualcuno sulla porta.

Hèloise trasalì.

-Avanti- sibilò seccata. Raphael la guardò, confuso e forse un po’ deluso. Dov’era finito il cigno che ballava il flamenco? Ne voleva ancora. Aveva la certezza che quell’interruzione l’avesse fatta tornare quella di sempre, la strega fastidiosa che non amava nessuno.

Recependo il messaggio di pericolo, la testa di una cameriera si sporse timidamente oltre lo spiraglio della porta, guardando prima sua madre, poi lui.

-M-madame, vostro marito desidera che il signorino venga nel salone principale. E’ appena arrivato il suo insegnante, direttamente dall’Accademia dei Maestri d’Arme.

 

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Capitolo 4
*** 4. Spade ***


4. Spade

 

-Avanti, vai. Che aspetti? – disse la donna al bambino. Aveva di nuovo indossato la sua espressione austera; la sua voce tuttavia era priva di qualsiasi sfumatura, positiva o negativa che fosse.

Raphael rimase ad osservarla per un po’, incerto. Voleva andare, ma sua madre gli aveva mostrato un lato di sé diverso, forse più piacevole della solita Hèloise. Era stata un’illusione breve, a cui non aveva creduto poi molto - per essere così piccolo, era piuttosto diffidente -, eppure gli era piaciuta. Si… sua madre gli era piaciuta. E gli era anche piaciuta quella strana danza chiamata “Flamenco”, un nome esotico ma bello, come tutti quei passi che si potevano eseguire uno dopo l’altro a piacimento.

Non pensando più alla strana sensazione nel suo petto annuì con un cenno della testa, per poi inchinarsi brevemente. Era piuttosto scortese da parte sua, così gli avevano insegnato; ma in quel momento stranamente, non gli sembrava necessario dire “si, madre”, o qualunque altra cosa. Sentiva nell’aria un’atmosfera tesa, come un sogno infranto prima della sua parte migliore.

Con calma si dirisse verso la porta, dove la serva che li aveva disturbati lo stava aspettando, in attesa di accompagnarlo da suo padre. Si sfregava di continuo le mani, probabilmente intimidita da Hèloise, che sfoggiava un’aria più acida del solito.

Le si avvicinò con lentezza, per poi fermarsi. Hèloise vide che aveva voltato la testa nella sua direzione, come se avesse voluto dirle qualcosa. I suoi occhi azzurri non mostravano emozioni, se non una certa pensierosità. Con un certa alterigia gli fece cenno con il mento di andare. Raphael non se lo fece ripetere due volte, ed uscì dalla stanza definitivamente.

Hèloise rimase a guardare quella porta chiusa per lunghi secondi, in silenzio.

 

*

 

Raphael camminava sicuro lungo il corridoio, la serva poco più che un’ombra alle sue spalle. Non faceva caso alla sua presenza, se non per i passi leggeri che sentiva dietro di sè. Sin dalla nascita gli avevano insegnato che ci sono due categorie di persone nel mondo: i nobili e tutti gli altri, inferiori ai nobili. Le uniche eccezioni erano la Chiesa, con i suoi vescovi e cardinali, ed il Re, il cui potere era secondo solo a Dio. Assieme a lui, i nobili vantavano il privilegio di essere nella loro felice condizione per due motivi: per natura, e per volere del Signore.

Il salone principale era pochi metri più avanti. Raphael stava per raggiungerne il portone, quando all’improvviso da un corridoio adiacente non gli venne incontro qualcuno. Era un bambino poco più piccolo di lui, con i capelli e gli occhi scuri come quelli di Hèloise, e gli zigomi alti di Albèric.

Era così veloce che per poco non gli venne addosso, scaraventando così entrambi a terra.

-Raphael, Raphael! Che fai? – disse saltellando da un piede all’altro. Lo guardava con occhi neri assurdamente spalancati, come se avesse appena visto una meraviglia vivente.

Raphael sbuffò. –Si Ghislain, anch’io sono felice di vederti. Ora però levati, che ho la mia prima lezione di scherma.

-Anch’io voglio fare la scherma…!

Il biondino si fermò. –No.- disse. Si mise un momento a riflettere, prima di dire con un sorrisino soddisfatto: -Sei troppo piccolo.

Ghislain lo guardò con un broncio offeso. –Non sei molto più grande di me.

All’improvviso, la serva pigolò:- Signorino, vostro padre…

Raphael la guardò malissimo. –Si, si, lo so.

Riprese a camminare, lasciandosi Ghislain alle spalle. Poco prima però che la serva aprisse le porte del salone, si voltò e disse:- Puoi sempre restare a guardare, se vuoi.

Il fratello più piccolo non disse nulla. Restò semplicemente a guardare la porta che gli veniva chiusa in faccia, senza apparenti emozioni.

 

*

 

il problema, pensò Albèric, era che anno dopo anno i suoi fondi invece di aumentare diminuivano, ed aveva ancora due figli piccoli da mantenere ed addestrare. Era stata una conseguenza delle precedenti guerre tra Francia e Spagna, dopotutto. Il costo di quei conflitti aveva gonfiato considerevolmente i prezzi, ed i primi a subirne le conseguenze erano stati quelli come lui – la piccola e media nobiltà, che ricava il proprio profitto direttamente dal lavoro dei braccianti. La pace di Cateau-Cambrèsis del 1559 –coincidenza del destino, anno di nascita di suo figlio- poi, era stato il colpo di grazia; non solo per lui, ma per tutta la Francia.

Ciò di certo non aveva contribuito ad incrementare la simpatia per lo stato rivale. Era piuttosto ironico dal suo punto di vista, considerando che trovandosi quasi al confine, nel corso dei secoli Rouen aveva subito non poco le influenze spagnole. Gli usi ed i costumi ne erano l’esempio più evidente, sì; ma anche l’architettura, l’arte e persino la scherma, disciplina adottata e perfezionata dai francesi. Lui stesso in passato aveva avuto delle amicizie in Spagna, e nelle sue vene scorreva il sangue dei suoi antenati catalani.

In ogni caso, il caro prezzo delle guerre e la perdita di molti territori italiani aveva causato anche un altro tipo di problema. Il ristagno economico era stato solo l’inizio, e la causa, di un conflitto interno ben più grave: quello tra cattolici ed ugonotti.

In effetti per lui e molti altri, la crescente affermazione del Calvinismo era stata un’autentica rivelazione. Non che fosse particolarmente credente – per fortuna -, ma sembrava che il culto sarebbe diventato in futuro la micia d’accensione di una rivoluzione innovatrice, che avrebbe finalmente sanato l’economia.

Chiaramente, da cosa nasce cosa. Da com’era era sempre accaduto sin dalla nascita del Cristianesimo, la religione divenne solo un pretesto politico. La piccola e media nobiltà era appoggiata e protetta dall’alta nobiltà, più vicina al re. Costoro erano sia cattolici che ugonotti, ed erano in continua guerra tra loro. In palio, vi era l’eredità della corona, che a seconda di chi la inforcava passava da un credo all’altro. L’Editto di Saint-Germain-en-Laye del ’62 di Caterina dè Medici aveva attenuato leggermente la tensione, ma il conflitto era tornato presto ad essere più acceso che mai, fino al punto di diventare una vera e propria guerra.

Albèric ripensava a quel periodo con intensa irritazione e pessimismo. Fu in effetti in quell’anno che spese gran parte del suo patrimonio, trasmutandolo nello stipendio e l’equipaggiamento del suo piccolo esercito. Lui e molti altri avevano dovuto difendere Rouen dall’assalto dei cattolici, decisi a riconquistarla dopo che i protestanti ne avevano preso possesso.

Episodi analoghi erano accaduti in molte altre città, gettando la Francia nel caos. E ora, sembrava che la situazione si potesse ripetere: l’Editto di Amboise infatti sembrava non soddisfare più la comunità protestante, e la tensione stava nuovamente crescendo.

Presto sarebbe scoppiata una nuova guerra, ed i suoi figli dovevano essere pronti ad affrontarla. Per quanto non gli piacesse ammetterlo stava cominciando ad essere vecchio, e gli serviva il tempo e la pace necessari per trasmettergli tutto quello di cui avevano bisogno. Erano entrambi intelligenti, ma avevano personalità diverse. Raphael in particolare gli somigliava molto, e non poteva non esserne fiero. Dopotutto, quale scultore non è fiero della sua opera d’arte migliore? Nel suo caso però, era ancora un abbozzo, i tratti accennati di una figura seppellita in parte nel marmo. Che avesse acume ovviamente, non poteva che derivare da lui. Qualunque erede degno del suo sangue lo sarebbe stato. Per giunta era fiero e astuto, proprio come suo padre.

Ghislain era diverso da suo fratello. Oh sì, anche lui era intelligente e fiero, su questo non c’erano dubbi; ero però emotivo, molto più di Raphael, che in talune occasione sembrava sfiorare addirittura l’anaffettività. Era evidente inoltre che aveva un debole per lui, che lo spingeva ad emularlo.

Albèric sorrise. Il suo figlio maggiore voleva essere come lui, ed il minore voleva essere come il fratello. Davvero ironico.

Le porte del salone si aprirono, lasciando entrare una serva che afferrandosi le vesti s’inchinò rispettosamente: -Monsieur, vi ho portato vostro figlio, come mi avete chiesto.

-Fallo entrare.

La donna si fece da parte, lasciandolo passare.

Suo padre ed un altro uomo che non conosceva erano in piedi davanti al grande camino di pietra, sormontato da una testa di cervo appesa alla parete. Le poltrone su cui si sedevano gli ospiti erano state accostate agli angoli della stanza, in modo che non dessero fastidio.

-Ah, Raphael – disse Albèric, accennando un sorriso. Teneva le mani intrecciate dietro la schiena, come suo solito. Accennando all’uomo al suo fianco, ben vestito ma non riccamente quanto loro, disse:- Questo è Monsieur Giscard, insegnante all’Accademia dei Maestri d’Arme. Da oggi in poi sarai suo allievo. Monsieur Giscard – disse rivolgendosi all’altro uomo – questo è mio figlio Raphael. Per qualsiasi cosa, chiamatemi. Vi lascio soli.

Detto questo uscì dal salone, lasciandosi dietro il silenzio.

-Bene, signor Raphael.- disse Giscard dopo alcuni secondi –credo che possiamo cominciare. Prendete questo.

L’uomo gli porse uno stocco con la lama più corta degli altri, adatto al suo braccio. La punta inoltre era arrotondata a tal punto che non vi avrebbe potuto infilzare nulla.

-Noto che siete mancino. Bene, ciò rappresenta un vantaggio discreto contro un avversario destrimano, perché coordinerete i vostri attacchi in modo diverso da come lui ha imparato. Ora, mettetevi in posizione, così.

Raphael lo imitò. Alla blanda curiosità che aveva provato per tutto il giorno si stava sostituendo un crescente interesse, unito alla concentrazione.

-Cominciamo dall’etimologia di alcune parole. Questo è un fendente…

 

*

Raphael era un po’ stanco, ma profondamente soddisfatto. Mentre combatteva con il maestro Giscard aveva scoperto che la scherma gli piaceva tantissimo, un po’ come il Flamenco. Due nuove passioni in un giorno solo!

-Allora, che cosa ne pensi di questa disciplina?- chiese Albèric, sorseggiando un po’ di vino da una coppa.

-E’ molto interessante, padre.- rispose Raphael, gli ultimi segni della stanchezza nel suo cuore e nel suo respiro ancora un po’ affannato. I suoi occhi s’illuminarono, mentre disse con determinatezza:- Voglio continuare!

Albèric finì di sorseggiare con calma il suo vino. Posando la coppa in cima al camino sguainò il suo stocco dalla cintura, mettendosi in posizione di combattimento. Senza farsi aspettare Raphael lo imitò, usando l’arma che gli aveva lasciato Giscard.

-La scherma è una disciplina importantissima. Soprattutto in periodi come questo, in cui il nostro paese è devastato dalla guerra. –commentò suo padre mentre lo attaccava con un blando fendente, che riuscì a parare. La sua attenzione all’improvviso era calamitata tutta sulla spada che impugnava il genitore, uno stocco con una protezione rossa per la mano sull’elsa.

-Oh, questa.- disse Albèric, guardando a sua volta l’arma. –Questa è Flambert. Me la diede mio padre, e suo padre prima di lui. E’ un po’ il simbolo della nostra casata, e forse un giorno, se lo meriti, sarà tua. – fece una pausa, il volto oscurato da pensieri sconosciuti a Raphael. Poi, guardandolo dritto negli occhi, disse seriamente:- Mi aspetto che t’impegni al massimo. Non sei mio erede solo perché condividiamo lo stesso sangue.

Il piccolo arretrò un po’, schiacciato dalla soggezione. Infine, guardandolo coraggiosamente negli occhi disse:- Si, padre.

Passarono alcuni minuti senza che nessuno dicesse nulla, il solo suono udibile quello degli stocchi che si toccavano.

Albèric ripensò a suo fratello Adrien, risiedente a Parigi. A differenza sua, lui era riuscito a trovare l’appoggio di una famiglia nobile influentissima, che l’aveva ricompensato per gli ingenti prestiti che aveva fatto loro durante la guerra. L’aveva fatto a costo d’indebitarsi pesantemente con gli ebrei, e di finire per strada ad elemosinare. Era stato decisamente azzardato da parte sua, forse anche stupido. Eppure ora è lì, nella stessa città di Caterina; non tra le famiglie più potenti, ma comunque con una certa rilevanza.

Il pensiero gli suscitava la mania distruttiva di uccidere qualcuno – forse uno di quei braccianti che di tanto in tanto aveva il coraggio di venire a protestare direttamente a casa sua per le forti tasse che imponeva, e che regolarmente mandava a casa a fare le valige.

La verità era che suo padre aveva dato uno stocco anche ad Adrien, con la protezione blu, chiamato Voltoir. Ma era stato uno sciocco sentimentale in vita, che anteponeva il sentimentalismo all’etichetta, il cibo e le donne all’onore della casata. La persona che aveva comandato davvero in casa loro, con una civetteria che nascondeva doti manipolative maniacali, era sua madre. Era da lei che aveva ereditato gran parte del suo carattere.

Nella stanza il silenzio continuava imperturbato, fatta eccezione per il clangore degli stocchi ed il suono dei passi attenuati dal tappeto.

Mentre tentava un inesperto affondo, Raphael chiese:- Padre, a che religione appartiene Giscard?

L’espressione sul volto di Albèric non cambiò, se non per il fantasma di un sorriso sulle labbra ed una luce d’interesse negli occhi:-Il maestro Giscard è apolitico, figlio mio. Significa che non crede in nulla e non è schierato da nessuna parte. Ricordi quando ti spiegai come credo e politica sono inestricabilmente legate?

-Ricordo, padre.

-In origine la religione doveva essere solo un credo, una fede a cui aggrapparsi quando non hai più denaro, o amicizie. Ma chi deteneva il potere ha frainteso volutamente questo messaggio, vedendone solo l’aspetto lucroso. E’ molto più semplice creare un governo accentratore, se il popolo è più impegnato a pensare ai propri diritti spirituali che a quelli terreni. Pensaci, figlio mio: un mondo senza cristianesimo è un mondo senza guerre. La Francia, profondamente cattolica e profondamente sbagliata, ora è devastata economicamente e politicamente. Solo perché quelli come noi hanno voluto reclamare i loro diritti! Ma i cattolici non cederanno mai volutamente il loro potere. L’unica soluzione, per quanto dannosa, è combattere.

Raphael riflettè un momento, poi come parlasse a se stesso, disse:- Detesto i cattolici.

Albèric stava per rispondergli, quando udì il cigolìo della porta che veniva aperta. Ghislain entrò con passi leggeri, timoroso di essere sgridato.

-Ghislain, mio secondogenito. Vieni, avvicinati.

Il bambino obbedì. Raphael lo guardò curioso per un momento, prima di ostentare orgoglioso il suo stocco. Era come se dicesse “Io posso e tu no”. Se non ci fosse stato suo padre, Ghislain gli avrebbe risposto con una linguaccia.

Albèric lo scrutò, un leggero sorriso che non arrivava agli occhi. –Volevi combattere?

Ghislain annuì, gli occhi bassi per la soggezione.

-Allora temo che sia ancora presto per trovarti un’insegnante.- concluse. Il bambino lo guardò negli occhi, un po’ deluso. Raphael era trionfante.

-Però puoi sempre esercitarti ora con tuo fratello.- aggiunse dopo una pausa. Scostandosi un lembo delle giacca afferrò uno stocco di legno, che aveva preso prima di congedare Giscard. Sapeva che Ghislain avrebbe voluto combattere, quindi si era preparato. Quali fosse i suoi intenti dopo questa conclusione, dal suo volto non era possibile intuirli.

Il piccolo prese tra le mani l’oggetto come se fosse una cosa preziosa, felice ed eccitato.

Albèric guardò il suo primogenito negli occhi, ordinandogli silenziosamente di mettersi in posizione. Egli obbedì senza esitazione.

-Raphael, spiega a tuo fratello quello che hai imparato oggi. Muovetemi lentamente; m’irriterei non poco se dovessi ordinare ai servi di ripulire il pavimento dai vostri bulbi oculari.

Lì fissò finchè entrambi non annuirono, cominciando quella che era più una dimostrazione che un duello. Albèric si versò dell’altro vino, senza perderli di vista.

Il problema, pensò mentre Raphael diceva –questo è un affondo!-, era che economicamente erano quasi al lastrico. Riusciva a racimolare ancora qualcosa dai contadini, ma se avesse alzato ulteriormente le tasse loro ne avrebbero avuto abbastanza, e pur restando senza lavoro se ne sarebbero andati in blocco.

Tra l’altro presto ci sarebbe stata una nuova guerra, se lo sentiva. Cos’avrebbe fatto lui, se avessero attaccato di nuovo Rouen?

No, si disse. Non avrebbe mai chiesto aiuto ad Adrien. Almeno finchè non ne avesse avuto un bisogno urgente, ed anche allora l’avrebbe fatto con riluttanza.

L’unica soluzione era affidarsi ai suoi figli. Lui non era un sentimentale come suo padre, sapeva quello che andava fatto. A meno che la casata non fosse diventata abbastanza potente da potersi scindere in due parti, solo uno dei due ne avrebbe ereditato la ricchezza, il nome e Flambert.

-Uffa, anch’io voglio imparare la scherma!- piagnucolò Ghislain, caduto a terra.

Doveva metterli l’uno contro l’altro, non c’era altra soluzione. Sarebbe stato un progetto interessante.

 

 

Capitolo arduo da scrivere, ma sono ancora viva. Una precisazione: no, non è vero che Rouen è ai confini, ma in qualche modo dovevo spiegare perché Raphael ha la fascia da torero e balla il Flamenco xD In effetti il capitolo precedente lascia un po’ a desiderare, ma mi sono rifatta con questo :D Comunque la parte forse più tediosa è fatta, dal prossimo capitolo ci sarà probabilmente un nuovo balzo temporale in avanti, e magari un po’ d’azione. Lo scopo finora era quello di presentare i genitori di Raphael, ed il rapporto che hanno con lui. Adesso però parlerò un po’ più di lui, di cosa ha fatto durante le guerre di religione. In ogni caso non mi dilungherò ancora molto sulla parentesi “famiglia”, voglio passare subito alla parte di storia che conosce chi ha giocato a SC! Vabè, non mi dilungo oltre :D alla prossima!

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Capitolo 5
*** 5. Congiure ***


5. Congiure

 

Era una serata cupa e nuvolosa, l’unica fonte di luce proveniente dalle lanterne infisse fuori dai locali cittadini. Si percepiva un’atmosfera inquieta, complici le suppliche dei mendicanti sul ciglio della strada e la mancanza di risate tonanti e di gemiti provenienti dalle locande e dai bordelli. Era un clima di guerra, denso e pensate come una cappa.

L’uomo non se ne curava. Ascoltava lo scalpitare degli zoccoli del suo cavallo sui sanpietrini, un ritmo costante ed in qualche modo piacevole, unito all’aria fresca della notte che sentiva sulla pelle ed al suo strano odore, un misto di pioggia e di cibo proveniente dalle case circostanti.

Non era preoccupato. Quelle erano le ore predilette dai ladri e dai delinquenti per uscire dai loro rifugi e cominciare ciò in cui erano ferrati, ma sarebbe stato imprudente persino per loro attaccarlo.

Era avvolto in un mantello nero, il cappuccio abbassato a nascondere il suo volto. A meno che non ci si avvicinasse di parecchio non era facile intuire la sua identità, ed il fatto che si aggirasse di notte nascondendo il suo aspetto lo involgeva senza dubbio in affari illeciti. Ed i delinquienti, restando immischiati in essi tutti i giorni, sapevano che era meglio farsi gli affari propri.

 Come se non bastasse, quella parte della città non era controllata da lui; se lo avessero attaccato, la famiglia residente per giustizia avrebbe attuato un’operazione di pulizia. Davvero, sarebbe stato meglio per loro se lo avessero lasciato in pace.

Davanti ad un vicolo buio scorse un paio di prostitute. Una di queste si abbassò il corpetto, mostrandogli il petto smagrito. –Avete forse bisogno di una donna vera, Monsieur?

L’uomo non si fermò. Si limitò ad accennare un sorriso di dubbio significato, che poteva comunicare divertimento disprezzo, od un misto di entrambi. La donna non se la prese; ne aveva passate talmente tante che oramai non si stupiva più di nulla.

Il suo viaggio continuò fino ad una locanda di dubbio gusto, meno affollata e quindi poco chiassosa rispetto alle altre; si poteva scorgere attraverso le finestre la luce discreta dei lumi di candela.

Smontò da cavallo. Subito un garzone gli si avvicinò per prendere le redini dell’animale, sorridendogli come un idiota: - Ce la spassiamo stasera, eh ser?

Il suo tono era quello tipico di chi vuole attaccar boccone, il suo sorriso stupido. L’uomo non rispose, ma si voltò per guardarlo negli occhi. Anche se era notte inoltrata, notò con soddisfazione che lo sciagurato era impallidito. Arretrò un po’ incespicando sui suoi stessi piedi, e s’inchinò impettito: - V-vogliate scusarmi, Monsieur. Non era mia intenzio…-

-Risparmia il fiato.

-S-si Monsieur! Subito, Monsieur.

L’uomo non poté fare a meno di alzare gli occhi al cielo. Certe volte bisognava avere una tale pazienza con i popolani…

Finalmente il ragazzo si levò dalla sua vista. Entrò nella locanda senza abbassare il cappuccio, ispezionando con lo sguardo l’ambiente. A parte il proprietario che stava pulendo con uno straccio un boccale di birra, c’era solo un gruppetto di uomini raccolti attorno ad un tavolo nell’angolo più lontano da lui, impegnati a giocare a carte. Erano sporchi ed indossavano gli abiti da lavoro più logori che avesse mai visto. Sembrava che la sua entrata non avesse suscitato in loro particolare interesse, ed erano troppo tranquilli e rilassati per comportarsi come se stessero facendo finta di nulla. Ciò significava che erano innocui.

L’unico che sembrava preoccupato era il locandiere; alla sua vista l’espressione sul suo volto non era mutata, ma la mano con cui teneva lo straccio aveva esitato. Ovviamente dovevano averlo informato del suo arrivo, o non sarebbe stato così ansioso. Di tanto in tanto i cattolici organizzavano retate per arrestare chiunque fosse coinvolto in qualche modo con il Calvinismo… persino chi non lo era direttamente, ma che collaborasse per esso.

-Avete bisogno di qualcosa, Monsieur?

-Si,- disse l’uomo socchiudendo gli occhi, fingendo di ponderare la sua risposta. Infine a testa alta, sorridendo concluse:- Ho bisogno di un giglio.

Il locandiere spalancò gli occhi. –Seguitemi, Monsieur.

Gettando un’occhiata al gruppo in fondo al locale, posò lo straccio ed il bicchiere sul bancone dietro cui stava, per poi scortarlo fino ad una porta adiacente ad esso.

L’uomo si ritrovò in una stanza spoglia e mal arredata, con pochi mobili tenuti su alla meno peggio. Notò inoltre che mancavano alcuni oggetti essenziali per l’igiene.

Su un materasso steso a terra sedeva una donna di mezz’età, che al loro arrivo aveva alzato la testa per guardarli stupita.

-Oriane, fa vedere al signore i tuoi gigli- disse in tono perentorio il locandiere, guardandola in occhi che le si allargarono per il messaggio insito in quelle parole.

Il marito si richiuse la porta alle spalle, lasciandoli soli. –Avvicinatevi, Monsieur- disse lei diligente, spostando il materasso al centro della stanza. L’uomo notò che aveva delle mani callose e brutte, tipiche di chi lavora duramente.

Sulla porzione di terreno precedentemente nascosta dal letto su cui dormiva la coppia stava una botola, talmente ben mimetizzata che, se non ne avesse già varcate altre, non l’avrebbe riconosciuta.

La donna prese dal suo grembiule un chiavistello arrugginito e l’inserì in un piccolo buco vicino ai suoi piedi. La botola si aprì, mostrando degli scalini immersi nel buio, che portavano al passaggio che lui doveva percorrere.

Prima che l’uomo dovesse abbassarsi a chiederle una torcia (umiliandola per la sua mancanza di prontezza, ovviamente), lei gliene porse una, le guance rosse per l’imbarazzo.

Il passaggio era piuttosto lungo ed ampio, e le pareti invece che essere sorrette da semplici travi di legno, erano state rivestite da pietre scolpite. Vi erano anche dei sostegni con delle torce spente, ma l’uomo non le toccò. Era meglio non lasciarsi dietro alcuna traccia.

S’incamminò spedito, ascoltando l’eco dei suoi passi che rimbombava tra quelle mura. Non aveva fretta, ma non era neppure calmo. Da buon osservatore dei comportamenti altrui aveva intuito come fosse importante fare un’entrata di scena che rimanesse positivamente impressa nelle menti della gente.

Proseguì per il passaggio per diversi minuti, finché la sua torcia non illuminò alcune scale che salendo verso l’alto portavano ad una porta di legno, rinforzata da spranghe metalliche; dava l’idea di essere piuttosto pesante.

Si scostò il mantello da cui era protetto per prendere le chiavi che aveva nascosto all’interno della cintura, senza fretta, per poi infilarle nella toppa.

La porta si aprì lentamente, con un cigolio lamentoso che avrebbe potuto inquietare qualcun’altro. Lui non era così impressionabile; pur preferendo delegare il lavoro sporco ad altri, aveva visto e fatto cose considerate spregevoli ai più. Cose la cui colpa ricadeva in genere sul primo sciocco senza un alibi valido, che all’improvviso si ritrovava misteriosamente coinvolto in omicidi causati da avvelenamento o strangolamento, congiure contro l’amico del giorno prima, fraintendimenti causati da bugie che non aveva mai detto.

Tornò ad avvolgerlo la piacevole brezza notturna, mescolata al profumo di erba bagnata. Era appena uscito da quello che aveva tutta l’aria di essere un capanno per gli attrezzi, nel bel mezzo di un vasto e ben curato giardino. Ad alcune decine di metri si stagliava nel buio la linea fastosa di una villa, la meta della sua piccola gita notturna. Che ironia, per lui, uscire da un posto del genere!

Dopo aver spento la torcia su una fontana posta strategicamente vicino al passaggio, si premunì di chiudere la porta a chiave; dopodiché si concesse alcuni momenti per ammirare il posto in cui si trovava.

Era la prima volta che utilizzava quella via segreta, ma era già stato lì diverse volte. Tuttavia la sobria eleganza delle composizioni floreali non aveva perso il suo appeal su di lui, ed ogni volta era come se fosse la prima.

Non era un vero e proprio esteta, ma dava importanza ai piccoli dettagli, che potevano fare la differenza nel quadro d’insieme. Ed in quella tela in particolare, spiccavano le rose, i fiori più belli in quella moltitudine di piante a terra od in vasi di terracotta disposti in figure geometriche, il tutto circondato da una discreta siepe e da pini maestosi.

L’uomo si avvicinò ad un cespuglio di rose, avvolgendone una con la mano guantata. Era di uno splendido color rosso vivo, i petali ampi ed ad occhio di una piacevole consistenza. Con un gesto deciso ne recise il gambo, infilandolo poi al sicuro in una tasca interna del suo mantello. Di certo, pensò sogghignando, il padrone di casa non avrebbe fatto complimenti.

Camminando verso la villa notò non per la prima volta che era più grande di quel sembrava dal capanno, e piuttosto bella, forse anche più di quella dove vivevano lui e la sua famiglia. A quel pensiero fu invaso da un sottile senso di fastidio, che scacciò con un gesto della mano stizzito. In ogni caso, il padrone di casa aveva avuto pessimo gusto nella decisione di disporre piante di geranio sui balconi di ogni facciata dell’abitazione.

Il rintocco dei suoi colpi sulla porta avvisò subito la servitù, che lo accolse con il dovuto rispetto. Ora che era dentro non aveva più bisogno del mantello da viaggio, che rimosse da sé con un gesto fluido ed elegante; lo porse alla serva che gli aveva aperto senza nemmeno guardarla.

Conosceva piuttosto bene quei corridoi e quelle stanze, perciò non aveva bisogno di una guida. Mentre camminava evitava di guardarsi attorno: ora che era aveva raggiunto la sua meta, non aveva bisogno di far attendere ulteriormente i suoi “amici”. O forse, ma non lo avrebbe ammesso neanche sotto tortura, non voleva indursi in quel vago stato di malessere che lo aveva colto prima. All’improvviso ed apparentemente senza rigor di logica sentì un principio d’irritazione crescere in lui, ma la tenne sotto controllo. Non era proprio il caso, nel colloquio che avrebbe di lì a poco intrapreso, di farsi intrappolare anche in minime distrazioni.

Entrò in una camera matrimoniale. Il suo occhio acuto cadde sul letto e sulle sue lenzuola, lì dove non molto tempo prima l’insoddisfatta signora del maniero gli aveva proposto di rotolarsi. Lei era attraente, perciò la tentazione c’era stata, ma non abbastanza forte da correre il rischio di rovinare l’amicizia con il marito. Era certo della verità che sesso e politica fossero strettamente intrecciati, ma in quel caso non gli avrebbe portato alcun vantaggio.

L’uomo trovò nascosta dentro un armadio una porta già aperta, con delle scale che portavano ad un corridoio. Lì percorse a passo spedito, fino a raggiungere un grande salone sotterraneo, al cui grande tavolo stavano seduti alcuni uomini e perfino qualche donna. Al suo arrivo si voltarono tutti quanti, ed uno di questi, sogghignando disse:

-Buonasera, Monsieur Raphael. Vi stavamo aspettando.

Raphael sogghignò a sua volta al padrone di casa:- Monsieur Jacques, amico mio. Davvero notevole l’idea del passaggio segreto.

-Sapete che mi piacciono le cose eccentriche. Prego, sedetevi pure. Avete notizie sui risvolti della battaglia di Coutras?

Raphael unì le mani a coppa, le dita intrecciate. Muoveva i pollici pensierosamente, come se stesse valutando con attenzione la sua risposta. –Temo di no, signori miei. Ho mandato alcuni dei miei migliori messaggeri sul campo, ma non hanno ancora fatto ritorno.

-Questo è un bel problema- disse un altro nobile, un uomo con un’ispida barba nera ed il doppio mento. –Come possiamo stabilire le nostre mosse, se non sappiamo da dove partire?

Una donna con un vestito color rosso bordeaux disse la sua:-E’ comunque preferibile se mandiamo uomini e mezzi sul campo di battaglia. Non dubito che i nostri alleati possano vincere anche senza il nostro aiuto, ma sarebbe una garanzia in più…

-Se posso permettermi, - disse all’improvviso Raphael -a mio parere al momento è preferibile non intervenire. Dopotutto la battaglia è cominciata in favore dei protestanti, e questo stato di vantaggio perdurerà ancora per un po’ di tempo.

Una donna attraente con una vistosa parrucca bionda si sporse verso di lui. -Monsieur Sorel, sappiamo benissimo che anche voi simpatizzate per Enrico IV. Perché non mostrarci apertamente favorevoli al Calvinismo, se ciò a lung’andare ci porterà dei vantaggi?

C’era una sottile differenza tra il dichiararsi apertamente protestanti ed il simpatizzare per essi, ma questo Raphael non lo disse.

-Perché, mia incantevole signora, la guerra è ancora giovane, e le risorse limitate. Se entrassimo apertamente in guerra, che sia nell’una o nell’altra fazione, pur vittoriosi ne usciremmo distrutti. – Il breve discorso fu interrotto da una pausa per enfatizzare il concetto. Poi, guardando l’intero consiglio, disse:- E’ questo che davvero desiderate, signori miei?

 

*

 

Raphael percorse il tragitto di casa pensando con soddisfazione al suo decisivo intervento alla riunione, che si era protratta per diverse ore. Si poteva già intravedere infatti un certo chiarore all’orizzonte, caratteristico del momento precedente l’alba.

Era un po’ stanco, ma avrebbe avuto tutto il giorno seguente per riposarsi; c’era ancora del lavoro da fare, e l’avrebbe concluso il prima possibile.

Di ritorno al suo maniero s’inoltrò nella stalla per mettere a riposo il suo cavallo. Dov’era lo stalliere quando serviva? Forse la sua pretesa nell’ora più tarda della notte poteva risultare esagerata, ma la cosa lo infastidì un po’.

Dentro l’abitazione regnavano la penombra ed un assoluto silenzio. Raphael si rinchiuse nel suo studio, dove accese una candela che si trovava sopra il suo scrittoio. Ne aprì un cassetto con una piccola chiave che teneva nascosta in una tasca interna della sua giaccia. Al suo interno vi erano una serie di lettere impilate con ordine, indirizzate od inviate ad alcune tra le persone più influenti di Francia: i Montmorency, i Borbone, i D’Orlèans. Raphael prese quella in cima alla pila e la lesse velocemente:

 

Rispettabile Monsieur Sorel,

mi permetto di chiedere nuovamente i vostri migliori privilegi per mandare avanti la causa cattolica. Me medesimo ha saputo da fonti ben informate i maggiori rappresentanti di Rouen legati al credo eretico. Vi chiedo, considerato come vi siete dimostrato degno di fiducia in passato, d’impedire che essi mandino rinforzi in favore dei loro alleati sul campo di battaglia. Dio mi è testimone che questo scontro non è ancora finito, ma forse c’è la speranza che in questi giorni il duca di Navarra vedrà la sua fine.

Ossequi,

Anne de Joyeuse, barone d’Arques.

 

Raphael valutò per un momento se rispondere o no alla missiva, ma concluse subito che non aveva bisogno di lasciarsi indietro una nuova, fresca traccia.

Il suo piano era molto più semplice di quello che trasparisse: eliminare i cattolici fingendosi uno di loro. Il barone d’Arques era stato tra i personaggi più vicini all’attuale re, Enrico III, ma s’era guadagnato l’inimicizia del sovrano dopo aver commesso un atto stupido. Massacrare 800 civili ugonotti, nel momento in cui il tuo re sta cercando di stabilire una situazione di pace, non è esattamente la cosa più saggia da fare.

Ma Raphael sapeva essere molto, molto convincente.

L’occasione di riscattarsi era giunta con la battaglia di Coutras, contro gli uomini di Enrico IV di Navarra, protestante candidato al trono. Se quest’ultimo avesse vinto lo scontro, allora Anne de Joyeuse come comandante dell’esercito sarebbe stato fatto prigioniero e poi ucciso, o sarebbe morto prima nel campo.

Se avessero vinto i cattolici, Raphael avrebbe continuato la sua corrispondenza, e la nobiltà di Rouen, non essendo direttamente coinvolta nella faccenda, non ne sarebbe rimasta compromessa.

I suoi pensieri vennero interrotti dalla vista della maniglia della porta che veniva abbassata. Quest’ultima si aprì lentamente, quasi con timore, lasciando entrare una giovane donna sui vent’anni. Aveva un bellissimo viso somigliante a quello di Raphael, con gli stessi zigomi alti e l’aria importante. Le uniche differenze erano la dolcezza dei suoi lineamenti ed i grandi occhi neri, che avevano però lo stesso sguardo freddo dell’uomo, ma con una punta di malizia. I capelli le scendevano morbidi sulle le spalle, una cascata di boccoli color biondo scuro. Si appoggiò rilassata allo stipite, arrotolandosi una ciocca sull’indice.

-Perché non sei a letto? Un uomo anziano come te ha bisogno di riposo…

Raphael fece ricadere la lettera nel cassetto, senza distogliere gli occhi da lei. Una volta che se ne fosse andata, l’avrebbe fatta a pezzi e poi bruciata. –Potrei chiederti la stessa cosa, Roxanne. Vent’anni ed ancora non ti sposi. Che razza di donna sei?

Le labbra di entrambi si distesero in un sorriso, a cui però non si unirono gli occhi della ragazza. Gli si avvicinò, accoccolandosi sul bracciolo della sedia dove stava l’uomo.

-Lo sai che non mi piace nessuno. E comunque dove troverò mai qualcuno che sia alla mia altezza?

-Dovresti sapere oramai che matrimonio e amore non sono correlati.

Roxanne si lasciò sfuggire una risatina non molto entusiasta. –Credo che Madame Giselle dissentirebbe volentieri. Solo uno schiocco delle dita, e correrebbe subito da te come il cagnolino più fedele.

Raphael si concesse un piccolo sorriso che riusciva tuttavia ad ostentare tutto il suo controllo sulla situazione. Con il braccio destro avvolse le spalle della ragazza, attirandola a sé. –E’ per questo che è la candidata perfetta per essere mia moglie. Non ti preoccupare: ti organizzeremo il matrimonio perfetto, con un uomo la cui intelligenza è inversamente proporzionale al peso totale dell’oro che ha in banca.

Le labbra di Roxanne a quella notizia si distesero in un sogghigno soddisfatto e calcolatore, ma nei suoi occhi si poteva ancora scorgere un cenno di freddezza. Raphael non vi fece caso. Era stato sempre troppo stoltamente tronfio e sicuro di sé per notarlo.

Nella mente di Roxanne di formarono alcune parole, udite non molto tempo prima:

-Una volta che sarà tutto finito, organizzeremo un matrimonio riparatore. Non ti preoccupare: anche se all’inizio avremo ovviamente serie complicazioni, alla fine la situazione si evolverà a nostro vantaggio.

Doveva restare fedele al piano. Era una donna, non aveva molte possibilità di scelta. Il pensiero di quanto denaro e potere avrebbe ottenuto quando esso si fosse eseguito con le sue inevitabili conseguenze, riusciva un po’ a sopprimere il malessere che le saliva in gola di tanto in tanto. Ma preferiva non pensarci: se la sua mente non tornava al piano, allora esso non esisteva.

La ragazza si ridestò dai suoi pensieri. Nulla di essi si manifestò in alcun modo nella sua espressione soddisfatta.

-Quale miglior consiglio, se non quello del proprio fratello maggiore?

Con una certa flemma si alzò dal bracciolo della sedia, compiendo un giro a metà intorno alla scrivania, con i piedi nudi che compivano passi ovattati sopra il tappeto. Finì di fronte a Raphael, faccia a faccia.

Non raccontare nulla di questa conservazione a nessuno. Mi hai sentito, Roxanne? Nessuno.

-E’ un’affermazione assolutamente incoerente con la tua personalità, piccola mia. Non devi stare molto bene.

-Oh? Trovi?

-Trovo. Una risposta riconducibile al tuo carattere sarebbe stata: ‘ricco, stupido, ma anche bello. Non voglio stare accanto ad un fenomeno da baraccone, Raphael.’

-Uhm. Supponevo che quello fosse scontato.

Senza pensarci si toccò i capelli con una mano, attorcigliandosi una ciocca attorno all’indice. L’aria pensierosa venne sostituita nuovamente da uno sguardo complice, la bocca socchiusa in un ghigno. –Tra circa un mese i De Lefevre organizzeranno un ricevimento a cui parteciperanno tutte le famiglie più importanti di Parigi. – s’interruppe un momento, enfatizzando il suo discorso. Al suo trucco rivoltogli contro Raphael fece un sorrisetto cinico, vagamente divertito. La ragazza continuò:-Vorrei che partecipassimo anche noi. Conosciamo qualcuno degli invitati: non sarebbe troppo complicato ottenere un invito a nostra volta.

L’uomo si appoggiò contro lo schienale. –Un ricevimento, dici?- la prospettiva in effetti era allettante. Con un po’ di fortuna sarebbe entrato in contatto con alcuni dei suoi bersagli, affermando allo stesso tempo il prestigio dei Sorel in società. Decise in definitiva, che non era una proposta da gettare via:

-Valuterò con attenzione quello che hai detto, e lo riferirò a nostro padre. Tuttavia, credo che acconsentirà senza problemi alla tua proposta.

La bocca di Roxanne si contraette in un sorriso:- Grazie, fratello mio. Sfrutterò l’occasione per indossare uno dei miei abiti migliori.

La ragazza lasciò lo studio senza aggiungere altro. Per un momento Raphael restò a fissare la porta, poi prese la lettera del barone d’Arques e la bruciò sulla fiammella della candela che teneva sopra la scrivania. Il livello della cera colata da essa indicava che era rimasto lì per diverso tempo. Presto sarebbe andato a letto, concedendosi un meritato riposo.

Non poneva particolare attenzione ai suoi fratelli, ma c’erano delle piccolezze che non potevano sfuggirgli.

Ultimamente Roxanne era strana, rifletté. Dopo un momento però accantonò il pensiero; non era nulla di grave, o che lo riguardasse particolarmente. Era probabile che fosse preoccupata per il partito che avrebbero scelto per lei.

Raphael sapeva che non tutti i desideri di sua sorella si sarebbero avverati, ma si era ben guardato dal dirglielo.

Il suo futuro marito sarebbe stato scelto per il patrimonio che aveva in banca, non per l’aspetto estetico o per l’amabilità del suo carattere.

Ripensò ai suoi occhi inquieti di poco prima con un sorriso senza inflessioni, né di gioia o di tristezza.

Ciò che andava fatto, andava fatto. Presto Roxanne sarebbe cresciuta, in un modo o nell’altro.

 

 

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