L'occhio e l'obelisco

di Dagon
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Benvenuti a Lux Latinae ***
Capitolo 2: *** La bambina ***
Capitolo 3: *** Sotto l'obelisco ***



Capitolo 1
*** Benvenuti a Lux Latinae ***


L'obelisco di Lux Latinae emergeva dall'oscurità della notte e torreggiava imponente al centro della piazza. Il vento ululava nel silenzio. La luna era alta nel cielo; non v'erano nubi a incorniciarne il candore. Né nubi, né stelle. Ed io, come la luna, ero solo. Solo in quella piazza.
Solo di fronte all'obelisco.

Sentivo nella mente l'alternarsi rapido di pensieri e sensazioni. Avanzavo incurante verso il monumento, sul quale scorgevo numerose crepe che salivano e sbiadivano nel buio; più su vedevo le foglie nere dell'edera. V'era qualcosa di sbagliato in tutto questo. Nel silenzio, nella luna, nella piazza, nell'obelisco. V'era qualcosa di così ovvio che mi sfuggiva di mano e mi lasciava perplesso.
Toccai la superficie del monumento senza esitare. Vedevo la mia mano scivolare sempre più su, a indicare un punto pochi metri più in alto. Sollevai lo sguardo e mi ritrassi di scatto.
Un occhio.
No, un momento. Non era proprio un occhio, ma il disegno di un occhio. Era stato fatto con della vernice, forse, ma nella notte non sarei riuscito a distinguerne il colore. Era stato compiuto di fretta, potevo osservare le sbavature che colavano verso il basso come cera da una candela. Distolsi lo sguardo e mi volsi indietro, per guardarmi alle spalle. Ero solo, non v'era nessuno. Ero solo come la luna in quel cielo privo di nubi e di stelle. Lo stesso cielo che avrei trovato al mio risveglio, nel bel mezzo della notte, allo squillare del telefono.
Fu allora che ogni cosa trovò il proprio posto, anche se io l'avrei saputo solo più tardi. Il particolare che non mi tornava nel sogno era il luogo: Lux Latinae. Era il mio paese natale, che ospitava la mia famiglia da generazioni. Io avevo spezzato la tradizione e a vent'anni ero scappato per rifugiarmi nella capitale. Perseguivo delle stupide illusioni che all'epoca chiamavo ambizioni.

Sollevai la cornetta e risposi schiarendomi la voce.
«Pronto? Alex, ci sei?»
Era mia sorella, chiamava dal paese. Lei era rimasta lì.
Dal tono di voce mi sembrava preoccupata. «Pronto? Perché chiami a quest'ora?»
«Scusa, ma è importante» la voce metallica vibrava nel silenzio. Rimanevo in attesa. «C'è stato un incendio alla tenuta di papà.» Fece una pausa. «Sono arrivati anche i pompieri, stanno cercando di spegnere il fuoco.... ma papà, papà è rimasto gravemente ferito. L'ambulanza è arrivata da pochi minuti, codice rosso. Alex, devi tornare! Io e mamma siamo qui in ospedale, stiamo aspettando il responso dei medici.»
«Rosi» scandii il suo nome lentamente, ancora diviso fra sogno e realtà. «Cosa stai dicendo? Quando è successo? Ma...» Mi interruppi. Avevo un nodo in gola e una gran confusione nella testa.
«Devi tornare a Lux Latinae, Alex.» La voce di Rosi era stranamente calma. «Questa potrebbe essere la tua ultima possibilità di rivedere papà vivo.»
Rimasi qualche secondo in silenzio. «Che ferite ha riportato?»
Attraverso il telefono potevo ora percepire la sua tensione. Le parole tremavano. «Non farmene parlare, Al. Io l'ho visto, l'ho soccorso. Vorrei fosse un'altra l'immagine che mi rimanesse di lui... Torna. Prega per papà.»
Agli occhi cominciavano ad affacciarsi le lacrime. «Ti voglio bene, Rosi. Dai un abbraccio a mamma. Parto domani mattina.» Dopo attimi di silenzio e parole inespresse, attaccai. E piansi fino all'alba.

Quando i primi raggi del sole illuminarono la stanza, io ero già sveglio. Osservavo la luce accarezzare la tela sulla scrivania. Era il mio ultimo lavoro, concluso la sera prima: una finestra aperta oltre la quale si osservava un paesaggio montano. Mi piaceva l'atmosfera che ero riuscito a creare. In fondo chi non riesce in questo, non è un vero pittore.
La sveglia suonò e tornai alla realtà. Mi preparai in fretta e in furia, buttando in una valigia quanto mi sarebbe servito a Lux Latinae. Partii verso le sette e mezza, in una mattina soffocante di luglio, per giungere al paese in serata.
Non avrei mai immaginato che avrei fatto ritorno in una tale situazione. All'improvviso tutto aveva un aspetto diverso: a partire dal silenzio straziante che regnava per le vie, passando per l'ululato sinistro del vento e infine arrivando all'obelisco, una lama che emergeva dalla terra per conficcarsi nell'oscurità del cielo. Tutto era ridotto all'ombra di ciò che era; nessuno dei miei ricordi trovò conferma in ciò che vidi, soprattutto l'immagine che si ripresentava alla mia memoria ogni volta che mi capitava di pensare a Lux: il manto infinito di stelle che dominava le notti del paese.
Lo sguardo di Rosi e di mia madre, il mio stesso volto, erano cambiati nel volgere di poche ore. Il tempo che passai in ospedale quella sera fu il peggiore della mia vita. Ricordo il silenzio che regnava per i corridoi, un silenzio che sembrava un grido senza fine; il responso dei medici che non arrivava mai. Mio padre era continuamente sottoposto a operazioni urgenti che lo tenessero ancora attaccato alla vita.
«Mamma, resto io questa notte» disse Rosi dopo un paio d'ore dal mio arrivo. «Vai a riposarti.»
Mia madre non rispose subito, il volto fra le mani. «Non posso, non posso... devo restare.»
Sarei rimasto io, ma dovevo sistemare la valigia e avrei dovuto mangiare qualcosa o sarei svenuto. «Mamma» intervenni. «Fai come dice Rosi: ha ragione, devi riposarti. Vieni a casa con me.»

La casa dei miei genitori fu l'unica cosa che si presentò a me esattamente come la ricordavo. Pareti ingiallite, mobili vecchi e polverosi, i miei quadri appesi sparsi alle pareti.
Non rammentavo di averne lasciati tanti: ma un disegno è testimone del tempo, e nelle linee, nei colori, riconobbi il tratto della mia mano che operava nella calda luce estiva o nel fragore dei tuoni nei frequenti temporali invernali.
Quando mia madre si accorse che ne stavo osservando uno, si avvicinò a me. «Questo lo hai fatto a sedici anni.»
«Mi ricordo.»
«Al tempo eri fissato con l'arte astratta. Sfornavi dipinti del genere ogni settimana.» Fece una pausa e volse lo sguardo al mio. «Era tanto che non ci sentivamo, Alex. Ora come va con i quadri?»
«Ho una piccola bottega a Roma, lo sai. Non è cambiato niente. A volte faccio delle mostre, ma non sono ancora riuscito a conquistare il cuore dei critici. E quando è così, è un continuo girare a vuoto.» Calai una mano sulla spalla di mia madre. «Ti ho deluso, vero?»
«Niente affatto. Hai fatto ciò che ti sentivi di fare: non sarebbe spettato di certo a me decidere per il tuo futuro.»
«E papà? So che non la pensava allo stesso modo.» Parlare al passato di mio padre mi fece uno strano effetto. «Avrebbe voluto altro.»
«Be', anche lui da giovane avrebbe voluto perseguire le proprie ambizioni. Voleva diventare uno scrittore, non so se te ne ha mai parlato. Scriveva molti racconti da giovane, ma poi ha lasciato perdere e tutti i suoi scritti sono rimasti in uno scatolone.»
«Per non deludere il nonno.»
«Be', sì.»
Rimasi qualche secondo in silenzio, il capo basso. «Vado a portare la valigia in camera.»
«D'accordo. Io vado a preparare qualcosa da mangiare.»
Percorsi il corridoio e sparii dietro all'ultima porta, ritrovandomi solo nella mia vecchia e polverosa camera.
Tutto era rimasto invariato; la mia attrezzatura da disegno era chiusa in una scatola sulla scrivania, subito accanto giacevano tele bianche ancora inutilizzate. Posai la valigia vicino al letto e mi avvicinai al tavolo.
Quanti ricordi, quante immagini lampeggiavano alla mia vista per scomparire in pochi attimi. Giorni di pioggia in cui disegnavo, la macchina fotografica di mio padre, tele in cui ricopiavo foto e illustrazioni, una bambina che correva, i vicoli della città, l'obelisco...
Mi ritrassi e per poco non caddi inciampando nel bagaglio ai piedi del letto. Avevo un gran mal di testa, un dolore atroce che mi attanagliava. Avevo bisogno di riposo fisico e psicologico. Dovevo dimenticare, semplicemente dimenticare alcune cose che non avrei mai dovuto rammentare.
La porta si aprì e sulla soglia si affacciò mia madre. «Alex, è quasi pronto, cambiati. Puoi sempre sistemare dopo.»

Quella notte non sarei mai riuscito a dormire. Soffrivo di insonnia da quando ero bambino, e, strano ma vero, quando il silenzio era troppo le difficoltà a cedere al sonno aumentavano. Tendevo a rilassarmi solo se riuscivo a distrarmi, e non v'era distrazione migliore del rumore, o, in alternativa, della musica. Ma avevo lasciato il lettore MP3 a Roma e il sonno sembrava sempre più lungi dall'arrivare. Ero prigioniero della realtà, quella triste realtà, e non sarei potuto scappare in un'altra dimensione.
Controllai l'ora sul cellulare e decisi di alzarmi. Mi spostai verso la scrivania sbirciando fuori dalla finestra aperta: il cielo era una massa nera e indistinta in cui troneggiava sola la luna. Faceva un caldo pazzesco. Afferrai una matita e qualche foglio bianco e feci qualche schizzo, sovrappensiero.
Pensai a mio padre e ai suoi possedimenti; alle vigne, agli uliveti che ricoprivano le sue terre; a me da bambino, quando correvo tra gli alberi e mi divertivo; al vino; all'olio; a mia madre che cucinava ortaggi e verdure; alle arance; ai limoni; a Rosi quando si fermava ad ascoltare il canto degli uccelli; alla luna; all'obelisco.
Mi fermai, spezzai il silenzio facendo cadere la matita e portai le mani alle tempie.
Un occhio spalancato.
Avevo creato lo schizzo di un occhio. Improvvisamente mi ricordai del sogno che avevo fatto la sera prima; rammentai l'obelisco e ciò che avevo visto sulla sua superficie. L'occhio mi osservava attraverso una parete fatta di carta, da una dimensione onirica parallela alla nostra.
Dopo attimi d'esitazione presi il foglio e lo stracciai, quasi mi stessi liberando di una cosa ripugnante.

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Capitolo 2
*** La bambina ***


Prima che sorgesse il sole, il cellulare squillò. Avevo temuto che prima o poi giungesse quella notizia, e le mie peggiori paure si erano avverate. Papà era morto.
Non posso negare il vuoto che provai, il freddo glaciale che avvertii sulla pelle, i pianti in cui mi abbandonai al caldo abbraccio di mia madre e di mia sorella. Il mondo non era più come prima.
Passai in ospedale i momenti più brutti della mia vita, ma non provai sollievo quando uscii fuori, all'aperto, per le strade di Lux Latinae. Dentro di me v'era sempre quella dannata sensazione di oppressione, di annientamento, di angoscia. Piangevo per mio padre, per mia madre, per Rosi, per me. Piangevo per una cosa che prima o poi avrei dovuto affrontare, ma così prematura e ingiusta. Non si è mai pronti a certe cose.
Nel pomeriggio decisi di uscire per il paese. Pensai alla mia infanzia, ai momenti passati a giocare con gli amici nelle piazze. Praticamente tutti a Lux mi conoscevano; è questa la realtà paesana, niente sfugge a nessuno. E quando avviene un lutto, ecco metà paese giungere a farti le condoglianze. Ma per ora, mentre la luce del sole cominciava ad essere soffusa e il tramonto si avvicinava, nessuno avrebbe osato disturbarmi. Camminavo da solo, le mani in tasca, il capo basso. Le palazzine, le panchine, gli alberi, i negozi: per me era tutto scomparso. Ai miei lati sfilavano solo ombre appartenenti a un altro mondo.
Quando dopo qualche minuto giunsi di fronte all'obelisco della piazza centrale, sollevai il capo. Il giorno prima, d'altronde, non avevo avuto il tempo di passarvi. La superficie era percorsa da numerose crepe, proprio come io ricordavo, ed era ricoperta in parte dall'edera. Non v'era alcun occhio, naturalmente, e se la cosa da una parte mi sollevò, dall'altra mi incusse timore. Ma decisi di non soffermarmi più di tanto. Distolsi lo sguardo e mi avviai in un'altra direzione.
Tutti i negozi che si affacciavano sulla piazza erano aperti; solo un locale era ancora chiuso. Sull'insegna, a caratteri rossi e argentati, appariva la scritta The Clock Tower. Numerose immagini mi folgorarono la mente. Al tempo delle superiori il pub era noto come il Tower; era il punto di riferimento per i ragazzi del paese, un luogo di ritrovo in cui passare il sabato sera, magari con la ragazza o con gli amici a guardare la partita.
Altre immagini scorsero di fronte ai miei occhi. Scossi la testa perché se ne andassero. E mi diressi verso casa.

Il funerale fu celebrato due giorni dopo nella chiesa più antica di Lux Latinae. Il tempo sembrava essersi dilatato a non finire, la voce del parroco risuonava cupa e mesta. Quando la cerimonia giunse al termine, arrivò il momento di portare la bara al cimitero del paese.

Una bambina correva.
Vedevo la sua sagoma oltre le teste dei presenti che scendevano per la scalinata. I suoi capelli biondi ondeggiavano nella luce dorata del sole, il suo pallore risplendeva quasi si trattasse di uno spettro.
Volsi lo sguardo altrove, chiusi gli occhi. Ricordi, ricordi, ricordi. Lux Latinae era testimone di quanto accaduto anni prima e aveva intenzione di farmela pagare. Vigliacco, sei scappato, mi sussurrava la sua voce. Vigliacco.
Tornai ad osservare la strada. La bambina era giunta in fondo al viale e si era fermata. Mi guardava con occhi di ghiaccio nei quali potevo riflettermi. Si volse e scomparve.

In serata, mentre le grida dei bambini sbiadivano nel silenzio e le anime s'apprestavano a rientrare nella propria dimora, io avevo deciso di uscire. Portai con me un cavalletto, una tela bianca e l'attrezzatura da disegno; la mia meta era la piazza dell'obelisco.
Mi piazzai in un punto dal quale potevo osservare il monumento in una prospettiva molto suggestiva: la superficie bianca sembrava emanare un bagliore quasi sovrannaturale che trovava riflesso nella luna e si contrapponeva fortemente al buio crescente del cielo; poi, in alto, ad interrompere il pallore della pietra v'erano i rami degli alberi e un manto più o meno fitto d'edera. Sapevo che v'era dell'altro, ma non potevo immaginare di cosa si trattasse.
Cominciai a disegnare e il mondo sparì.
Delineai linee leggere che s'incrociavano e incurvavano a rispecchiare la realtà. Il tratto non deve mai essere pesante quando si vuole un risultato soddisfacente, questo l'avevo imparato molto tempo prima. Ma paradossalmente, sfruttando quel tratto leggero scavavo nel profondo dei miei ricordi, scalfivo una barriera e mi gettavo al di là di essa. Il modo migliore per esorcizzare un pensiero che ci tormenta, è distruggere le sue radici, cosa che mi sarei impegnato a realizzare. Ma prima dovevo trovarle, queste radici.
Ecco comparire sulla tela un monumento antico, attraversato da crepe e coperto dall'edera. Ecco i rami dell'albero. Ecco il disco solitario della luna. No, un momento, ho tralasciato qualcosa...
Ecco l'occhio.
Come nel sogno, sull'obelisco v'era un occhio spalancato, stilizzato e accennato solo nella forma, come se qualcuno si fosse divertito a pitturarlo velocemente con qualche schizzo di vernice. Solo che non ricordavo d'averlo disegnato io: era comparso sulla tela dal nulla, ad osservarmi dal suo mondo di carta, ad osservarmi dalla sua dimensione onirica.
Volsi lo sguardo altrove, cercando di concentrarmi su un punto del quadro che non mi facesse venire i brividi. Guardai il cielo, spazio ancora vuoto da riempire con colori scuri, e poi la luna... ma la luna non c'era. O meglio, era mutata in qualcos'altro.
Anch'essa, in un occhio.
La mano mi tremava e il battito del cuore era improvvisamente accelerato. Rimasi a fissare la tela come se fossi un estraneo, come se non avessi partorito io tale disegno. Rimasi così per dei minuti, poi presi una gomma e cancellai i miei tormenti.

Quella notte mi addormentai e sognai.
Ero in una stanza bianca e vuota, sdraiato sul pavimento a osservare il soffitto. Non v'erano finestre né porte, né tanto meno lampade da cui potesse provenire quella luce soffusa che regnava nell'ambiente.
Avevo paura. Non so esattamente di cosa, ma avevo paura. Il mio sguardo balenava da una parte all'altra del locale, cercando forse un dettaglio che mi potesse aiutare, cercando una via di salvezza, perché d'altronde ero prigioniero...
Poi comparve la bambina.
Stava giocando, incurante della realtà che la circondava, incurante di me. I capelli biondi ondeggiavano ad una brezza inesistente, brillavano dei riflessi di un sole che non c'era. Fra le mani stringeva una bambola di pezza che aveva lunghe trecce nere ed un vestito rosa, ma un volto privo di occhi. La bambina parlava ed io non capivo cosa stesse dicendo.
Le gridai qualcosa, dimenandomi come fossi impazzito. Ma lei non rispondeva né mi guardava. «Ascoltami!» urlavo in preda alla disperazione e all'angoscia. Cercai d'alzarmi barcollando per avvicinarmi alla bambina, ma una volta in piedi una barriera invisibile mi costrinse a indietreggiare.
Volsi lo sguardo altrove, nella speranza di poter uscire da questo incubo. Ma ovunque ora guardassi, scorgevo le sagome di occhi spalancati.
Erano a migliaia, su ogni parete, sul soffitto, sul pavimento. Erano simili a quello che avevo visto sull'obelisco, ma più piccoli e molto più numerosi. Occhi, occhi, da ogni parte solo occhi che guardavano in un'unica direzione.
La bambina s'alzo di scatto da terra e cominciò a correre, ma qualcosa le cadde e lei non se ne accorse. Quella bambola dalle lunghe trecce nere ora giaceva sul pavimento, senza più un padrone, senza più un compagno di giochi.
«Aspetta!» gridai. La bambina si fermò, mi osservò con i suoi occhi di ghiaccio. E mi svegliai.

Il settimo giorno dal mio arrivo, piovve. Mi svegliai così, durante uno di quei temporali estivi che esplodono all'improvviso per scaricare la propria potenza in un paio d'ore.
Accesi il cellulare e guardai l'ora: era presto, non erano neanche le otto di mattina. Mi alzai titubante e mi diressi verso la scrivania. Non avevo ancora completato il dipinto raffigurante l'obelisco. Qualcosa mi aveva bloccato e mi aveva impedito di continuare. Ma non mi soffermai tanto su questo pensiero, preferii andare a fare colazione.
Mia madre era già uscita, Rosi stava ancora dormendo. Parte dei possedimenti di mio padre erano andati distrutti nell'incendio, ora toccava stabilire a quanto ammontassero i danni. Da qualche giorno, dal funerale di mio padre, mia madre aveva dovuto prendere in mano la situazione.
Mangiai in fretta, lo sguardo perso nel vuoto. Avvertivo una strana sensazione allo stomaco, come una voragine che stesse risucchiando quanto di positivo la vita mi aveva dato fino a quel momento. Mi rimanevano solo ricordi e rimpianti.
Una volta vestito entrai nella camera che fino a qualche giorno prima mia madre aveva condiviso con mio padre. Tutto era immobile, persino le tende. Mi avvicinai al comò e, fra gioielli e documenti vari, osservai le vecchie foto di famiglia.
Mio padre aveva capelli corti e un viso sempre atteggiato al sorriso. Mia madre, invece, possedeva capelli lunghi e biondissimi, occhi chiari come due diamanti.
Aprendo uno dei cassetti rinvenni vari album fotografici. Sul dorso di ognuno v'era scritto l'arco di tempo cui essi facevano riferimento. Ne presi uno, mi sedetti sul letto, e lo aprii.
V'era una sequenza di scatti in cui ero presente io da bambino, prima della nascita di Rosi. Ve n'era un'altra in cui io ero adolescente e posavo insieme ad altri ragazzi. Li riconobbi quasi tutti: v'era il mio migliore amico, v'era il mio compagno di banco delle superiori e v'era Maria.
Ricordi. Quanti ricordi una semplice immagine può celare.
Maria viveva ancora a Lux Latinae, ne ero certo. Non l'avevo mai vista dal mio arrivo né avevo mai pensato di andarla a trovare. Era da quel giorno – ricordi, maledetti ricordi – di pioggia leggera, di rabbia, che non la vedevo né sentivo.
«Che fai?» Rosi esitava sull'uscio della porta.
«Sto vedendo vecchi album di fotografie» mormorai, riponendo il materiale dove l'avevo trovato. «Ma penso di aver finito.»

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Capitolo 3
*** Sotto l'obelisco ***


Quando i primi raggi di sole si fecero strada attraverso la pesante coltre di nubi che aveva dominato il mattino, decisi di uscire. Ma la mia meta non era più la piazza dell'obelisco. Raggiunsi mia madre negli appezzamenti di terra fuori dal paese.
Vigne e uliveti si susseguivano per centinaia di metri, lussureggianti di verde e di vita. Il terreno era diventato piuttosto scuro a seguito della pioggia, parte del raccolto era andato distrutto ma la maggior parte aveva resistito.
L'area danneggiata era visibile da lontano: il lato est della casa era crollato. Le cause dell'incendio, da quanto avevo capito, erano da attribuirsi ad un fulmine: durante un acquazzone passeggero, il parafulmine aveva attirato il potenziale elettrico, ma la messa a terra non aveva funzionato e v'era stato un cortocircuito.

Mia madre, insieme a molti tecnici e operai, si trovava fuori dalla cascina, sotto ciò che rimaneva del vecchio portico. La stavo per chiamare, le avevo già fatto segno col braccio ma lei non mi aveva notato, quando comparve la bambina.
La immaginai correre fra le vigne e gli uliveti. La immaginai svanire nel nulla, come se si trattasse di un fantasma. Scossi la testa come fossi impazzito e tornai alla realtà.
«Alex» mi chiamò mia madre.
Io le venni incontro e la portai lontano dai tecnici, all'ombra degli aranceti. «Ti ricordi Maria, la mia compagna di classe?»
Lei annuì. «Sì, la tua prima fidanzata. Perché me lo chiedi?»
«Vorrei sapere che fine ha fatto. Hai sue notizie?»
«Be', si è sposata poco tempo dopo la tua partenza. Ha avuto una bambina che dovrebbe avere pressappoco sette o otto anni.»
«Con chi si è sposata?»
«Con un tale che non penso tu conosca. Però è stata precoce, è rimasta incinta subito dopo la sua conoscenza. Penso che il suo matrimonio sia dovuto alla maternità.»
Rimasi a riflettere per qualche secondo.
«Ma come mai ti interessa tanto?» Nel frattempo lei aveva preso un accendino e si stava accendendo una sigaretta.
«Ho ritrovato delle foto risalenti al periodo in cui frequentavo ancora le superiori e mi è venuto spontaneo chiedermi cosa ne fosse stato di tutti i miei vecchi compagni. Tutto qui.»
«Ma ti sei più fidanzato da quando la vostra storia è finita? Non mi parli mai della tua vita privata.»
«Ho avuto un'altra ragazza, ma mi sono lasciato qualche mese fa.»
«Pensa, neanche lo sapevo» disse, sbuffando una nuvola di fumo.
Ci sono tante cose che tu non sai di me, mamma, pensai.

La mattina dopo il sole era alto nel cielo e, essendo domenica, l'eco delle campane diffondeva il suo richiamo nell'aria. Mi alzai presto e accompagnai Rosi e mia madre alla messa delle dieci.
L'ultima volta che ero entrato in quella chiesa non era stato per un'occasione felice, tutt'altro; perciò le parole fecero largo ad un lungo silenzio collettivo.
Il parroco si dilungò a raccontare una parabola contenuta in uno dei quattro Vangeli; non saprei dire di cosa esattamente si stesse parlando poiché la mia attenzione era rivolta ad altro. Stavo pensando all'obelisco, all'occhio che ormai ricorreva costantemente in ogni mio sogno.

Stavo rimuginando su questo, quando rividi la bambina. Questa volta non era sola, era con altri due compagni. Sorrideva e rideva sotto i baffi, con quei suoi occhi di ghiaccio così belli e così puri.
Poi al suo fianco notai un uomo e una donna. Lei incrociò il mio sguardo ma io non volsi altrove la mia attenzione.
Se vuoi esorcizzare un ricordo, devi distruggere le sue radici.
«Credo in un solo Dio...» mi aggiunsi al coro dei presenti, accorgendomi che mia madre mi stava osservando.
Mentre ripetevo le parole del Credo la mia mente vagava fra l'occhio e l'obelisco. Ripensai all'ultima notte in cui avevo visto Maria, mentre il chiarore dei lampioni si rifletteva sul suo viso e cominciavano a cadere le prime gocce di un leggerissima pioggia. Ricordai il cielo stellato, il silenzio pregno di singhiozzi e di solitudine. Qualcosa era stato spezzato.
«...Amen.» Il Credo era finito ma non me ne ero accorto. Ricordo, rimpianto. Fuga. Erano queste le parole che dominavano le mie riflessioni.
«Alex, siediti» mormorò Rosi. Ero l'unico rimasto in piedi e sapevo che Maria mi stava osservando.
Mi sedetti e aspettai che la messa finisse. Le parole del parroco annunciarono il segno di pace, la comunione e, dopo alcuni minuti, la benedizione.
I bambini s'alzarono dal bancone e corsero verso la via d'uscita, allegri e spensierati. Mentre scendevo la scalinata, Maria mi passò accanto sfiorandomi il braccio. Continuò per la propria strada al fianco del marito, facendo finta di niente.
Sapevo che mi aveva riconosciuto.

Prima di tornare a casa decisi di passare di nuovo di fronte all'obelisco, così innocuo sullo sfondo azzurro di una mattina dorata. E pensare che anni prima, poco meno di una decina, in una notte estiva avevo consumato sotto al monumento la notte più bella della mia vita. Immagino fosse la più bella, perché non ricordo poi tanto di quel che era accaduto. Avevo bevuto troppo e anche Maria. I nostri amici erano tornati a casa dopo una serata al Tower, abbandonando alla base dell'obelisco bottiglie di birra e cicche di sigarette. Io e Maria, invece, coperti dal mucchio dei nostri vestiti, avevamo perso la verginità.
Ricordo il suo volto quando cominciò a rendersi conto dell'accaduto. Ricordo le gocce di pioggia e la luce dei lampioni. Ricordo il mal di testa che avevo, la confusione e la paura. Qualche giorno dopo sarei scappato, da vigliacco, ripromettendomi di non commettere più errori del genere. Maria mi aveva gridato frasi orribili d'altronde, dicendo che avevo approfittato della situazione senza neanche prendere le giuste precauzioni. Aveva giurato di non volermi più guardare né sentire perché ero un verme. Aveva ragione. Cose le potevo obbiettare? Aveva ragione in tutto. Avevo cercato di scusarmi, nei giorni successivi, ma invano.
Qualcuno mi venne addosso. «Scusi, signore.»
Osservai i suoi occhi chiarissimi, la ciocca di capelli biondissimi che le rigava il volto e mi riconobbi nel suo sguardo. Quella bambina era mia figlia. Rimasi in silenzio a osservare il suo bel viso per istanti che mi sembrarono minuti. Sì, era mia figlia; non era un dubbio, era una certezza.
Ma non ebbi il coraggio di parlare; guardai la bambina allontanarsi a giocare con gli amici finché non scomparve completamente dalla mia vista ed io rimasi solo, all'ombra dell'obelisco.

«Devo tornare a Roma» annunciai a pranzo. «Devo lavorare, non posso lasciare la bottega chiusa tanto a lungo.»
«Certo, hai ragione» disse mia madre.
«Ma prima di partire, domani, vorrei passare al cimitero.» Volevo dare un ultimo saluto a mio padre, era il minimo che potessi ancora offrirgli. Non riuscivo ancora a credere a ciò che era successo. Non poteva essere vero, era assurdo.

«Vengo anch'io» disse mia madre. «Ho ispezionato il casale, in questi giorni, e nella soffitta ho ritrovato delle cose che gli appartengono. Vorrei che le tenesse lui.»
«Di cosa si tratta?» chiese Rosi, la voce atona.
«Sono soprattutto foto che lo ritraggono da giovane, ma ci sono anche dei suoi scritti: poesie e qualche racconto.»
Dopo pranzo cominciai a preparare la valigia e solo verso le sei del pomeriggio uscii. Nonostante facesse caldo, sentivo freddo. Pallide nubi solcavano il cielo.

Il cimitero si trovava alle porte del paese, piuttosto lontano dall'appartamento in cui vivevano mia madre e Rosi. Guidai io: prendemmo la mia macchina; mia madre sedeva al mio fianco con in grembo una borsa contenente vecchi oggetti, da giocattoli a fogli di carta.
Restammo di fronte alla lapide di mio padre per un quarto d'ora, il capo chino e la mani unite in segno di preghiera. Il mio volto era rigato dalle lacrime. È incredibile quanto in un secondo possa cambiare. Mio padre se n'era andato e io non avevo neanche fatto in tempo a dirgli addio.
Mia madre pose vicino ai fiori varie foto ritraenti il marito sorridente, ignaro del triste futuro che lo attendeva. Tirò fuori dalla borsa anche altri oggetti, fra cui dei fogli ingialliti su cui figurava il nome di mio padre. «Questo è un racconto che papà ha scritto prima che ci sposassimo. E' la sua novella più bella.» disse trattenendo le lacrime. «Si chiama L'occhio e l'obelisco.»

Trasalii ma non diedi a vedere il mio stupore. «Di cosa parla?»
«Parla del peso della coscienza e del tormento. Ho delle copie a casa, puoi sempre leggerlo se ti va.»
Dopo una ventina di minuti salimmo in macchina e riaccompagnai mia madre a casa. Fu l'ultima notte di quell'anno che passai a Lux Latinae. Ultimai di riempire la valigia, stanco e insonne, e il giorno dopo partii.

In serata ero già tornato a Roma.
Riuscii a trovare parcheggio non molto lontano dall'appartamento che avevo in affitto. Rimasi fermo al volante, stanco e svogliato di tornare alla vita di tutti i giorni. Avvertivo la stessa sensazione che avevo provato otto anni prima, quando ero arrivato nella capitale lontano dalle mie vere responsabilità, deciso a non compiere errori e pronto solo a migliorare.
Poi venne il momento di andare. Aprii il portabagagli ed estrassi la valigia. Sulla strada le lunghe ombre del tardo pomeriggio cominciavano a svanire nel buio della sera. La strada era silenziosa e deserta. Mi diressi verso casa col solo pensiero di una doccia calda che facesse scorrere via ogni preoccupazione.

Nell'oscurità del portabagagli, fra buste vuote e fogli di giornale, giaceva una piccola bambola. Aveva lunghe trecce nere e indossava un abito rosa, ma i suoi occhi e il suo sorriso non sembravano mostrare alcun senso di paura.

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