Adagio for strings di My Pride (/viewuser.php?uid=39068)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Atto I › Complotti di guerra ***
Capitolo 2: *** Atto II › Rapsodia cremisi ***
Capitolo 3: *** Atto III › Minacce di morte al calar del sole ***
Capitolo 4: *** Atto IV › Fasullo requiem in Re Minore ***
Capitolo 5: *** Atto V › Melodia di ferro e sangue ***
Capitolo 1 *** Atto I › Complotti di guerra ***
Adagio_1
[
Prima classificata e vincitrice del Premio
Stile al contest
«Dal numero alla storia» indetto
da Akane_Hirai e valutato da Roro ]
[ Terza
classificata e vincitrice del Premio miglior
trama al «Fangirl contest»
indetto da Dark Aeris ]
Titolo: Adagio for
strings
Autore:
My Pride
Fandom: One
Piece
Personaggi: Roronoa
Zoro [ Don Zoroshia
], Sanji Black-Leg [ Don
Sanjīno ], Monkey D. Rufy [ Don Rufiōne
], Usopp [ Usotūya
› Rufiōne
Family ]
Tony Tony Chopper [ Choparīni
› Sanjīno Family ];
Nico Robin [ Robīta
› Zoroshia Family ], Nami [ Namimōre
› Zoroshia Family ], Comparse varie
Pairing: ZoSan
|| Riferimenti ZoLu,
ZoNami e ZoRobin ad interpretazione
strettamente
personale
Numero scelto:
Pacchetto 59
-
Numero 84
› E’ il numero dei facili
pettegolezzi, delle dicerie frivole, delle pubbliche relazioni,
dell’informazione.
Questo numero è presente quando si sognano o si sentono
pettegolezzi che ci
riguardano, che riguardano i nostri cari e le persone che frequentiamo,
oppure
se si è costretti ad ascoltare conversazioni frivole,
soprattutto in un luogo
sacro o di rispetto. E’ il numero delle persone brillanti ed
attuali sul
lavoro, in una festa, in una cerimonia, in un meeting aziendale, in
gita o in
vacanza, e nella vita in genere. E’ anche il numero delle
notizie, anche quelle
che ci riguardano direttamente, degli articoli di cronaca. Questo
numero
rappresenta il pergolato d’uva, il ventaglio, il suono delle
campane, il
pregare insieme ad altre persone, le conversazioni ed i dialoghi.
-
Simbolismo
› Slealtà e corruzione. Il rovesciamento dei
valori, il venire
meno ai doveri, il cattivo esempio, l’adulterio.
Tipologia:
Long Fiction [ 9462 parole fiumidiparole per
cinque capitoli ]
Rating:
Arancione
Genere: Generale,
Drammatico,
Angst, Malinconico, Vagamente Erotico, Vagamente Introspettivo
Nota: Questa
storia prende spunto da
uno dei “Mugiwara Theatre”, precisamente
“Jingi-nai Time”, ma non ha nulla a che fare con
esso.
Avvertimenti: Shounen
Ai, Probabilmente non
per stomaci delicati, Possibili
spoiler after “New
World Arc”, Alternative
Universe, Vagamente - o forse anche troppo -
nonsense, Linguaggio a tratti un po’ colorito
Piscina
dei prompt: Zoro/Sanji, Ferro, sangue e polvere da sparo
ONE
PIECE ©
1997Eiichiro Oda. All Rights Reserved.
ADAGIO FOR
STRINGS
La corda di un violino che si
spezza produce una nota falsamente
melodiosa;
all’orecchio dei morti risuona come lo stridio furente e
vendicativo
dell’acciaio.
ATTO
I
COMPLOTTI
DI GUERRA
Le malelingue
erano sempre esistite, da che mondo era mondo, ma Don Zoroshia non vi
aveva mai
dato la benché minima importanza. O almeno fino a quel
determinato momento.
Si era svegliato di malumore, quel
mattino, e tutto a causa della riunione avvenuta la sera addietro con i
restanti membri della famiglia. Aveva sentito soltanto di sfuggita le
chiacchiere frivole in cui le donne si erano gettate - e
quella
sciocca di Namimōre sapeva blaterare per ore ed ore, quando ci si
metteva -,
preferendo starsene in disparte per riflettere su cose molto
più
importanti.
L’avvicinarsi dell’incontro con Don Rufiōne non gli
aveva
permesso di
concentrarsi su nient’altro, e tutto perché aveva
avuto
sin da subito l’assoluta
certezza che non sarebbe stata un’adunanza piacevole. Ed era
proprio lì che
subentrava il suo cruccio. Tra le varie piccolezze che era stato
costretto ad
ascoltare durante tutta l’ora di cena, gli era parso di udire
qualcosa che non
gli era per niente piaciuto; si vociferava difatti che Don Sanjīno
avesse fatto avere nuovamente
notizie di sé dopo essere scomparso per oltre sei anni, e
ciò significava
soltanto che l’attuale condizione era ulteriormente
peggiorata.
Non si poteva
sperare di avere libero accesso al potere se a contenderselo non era
una sola
famiglia o due, ma ben tre.
E Don
Zoroshia era certo che avrebbe avuto qualche chance in più
solo chi avrebbe
preso in mano le redini e attaccato per primo. Aveva dunque deciso -
tra
l’altro senza consultare nessuno, poiché da un
po’ di tempo a quella parte
aveva cominciato a diffidare persino dei propri alleati - che, alla
riunione
che sarebbe avvenuta da lì a poche ore, sarebbe stato lui
stesso a dichiarare
guerra alle restanti famiglie per non farsi cogliere impreparato. Don
Rufiōne poteva forse tenerlo a bada,
però non conosceva altro modo se non la violenza, con Don
Sanjīno.
A quei suoi stessi pensieri, si
maledisse, imprecando a denti stretti. A chi voleva darla a bere? Per
quanto
detestasse ammetterlo e persino ricordarlo a se stesso, Don Sanjīno non
era
stato soltanto un
suo rivale, prima
di sparire dalla circolazione. E forse era proprio per quel motivo che
preferiva senza alcuna ombra di dubbio scontrarsi immediatamente con
lui, se
mai si fosse fatto vivo per reclamare a sua volta il potere.
«Sake?» Una voce
femminile alle sue
spalle lo riscosse dalle sue turbe mentali e fu quasi capace di farlo
sussultare, giacché era stato così concentrato
sui propri
pensieri da
estraniarsi dal resto del mondo. Fu dunque con una sorta di incertezza
che si
voltò, incontrando lo sguardo ambiguo e sorridente di Robīta
che, tolti gli occhiali da sole che indossava praticamente in
qualunque istante, sembrava ammiccare nella sua direzione. Sorreggeva
anche una
bottiglia, e fu proprio su di essa che si concentrò
l’attenzione di Zoroshia,
che arricciò le labbra prima di strappargliela dalle mani
senza
tanti
complimenti.
«Grazie»,
borbottò poi, e bastò quella
singola parola per far sì che Robīta
si accigliasse. Il capo che ringraziava qualcuno? Il mondo stava
decisamente
andando a rotoli, non c’era nessun’altra
spiegazione.
«Preoccupato per
qualcosa?» le venne
spontaneo domandare, osservando attentamente il modo in cui Zoroshia
aveva
stappato la bottiglia con i denti prima di ingollare un lungo sorso di
liquore.
«Perché dovrei
essere preoccupato?»
rimbrottò, poiché mai e poi mai avrebbe
confessato cosa lo turbasse.
Dannazione, già era difficile per lui anche solo pensare di
essere nervoso per
due idioti contro cui avrebbe dovuto scontrarsi per conquistare il
monopolio.
Perché il problema principale era quello, in fin dei conti,
ed era più che
sicuro che con quello stupido sopracciglio a ricciolo di Don Sanjīno
nuovamente
fra i piedi, avrebbe sudato ancor più quella vittoria.
Sbuffò, scuotendo appena la
testa. Non
era il momento di pensare a cose del genere, quello. Le sue attenzioni
dovevano
riversarsi unicamente sull’incontro imminente, niente di
più, niente di meno. Bevve
un altro sorso di liquore prima di abbandonare la bottiglia ormai vuota
sul
tavolino di legno alla sua destra, scoccando una rapida occhiata a
Robīta. «Sarò ai piani superiori»,
decretò di punto in bianco. «Vieni a
chiamarmi solo quando Rufiōne si farà vivo».
A quel dire, però, Robīta
sorrise sibillina. «Veramente
Don Rufiōne è già qui, è arrivato
cinque minuti fa».
«Che cosa?» Zoroshia
spalancò l’occhio,
incredulo a dir poco. «E allora dov’è
quell’imbecille?»
«In cucina ad infastidire i
cuochi», lo
informò la sua interlocutrice in tono calmo ed estremamente
pacato. «Si lamenta
di aver fame e di volere della carne».
Il volto di Zoroshia divenne una
maschera
di emozioni indecifrabili, tanto che, forse per rabbia, si
ritrovò a sbattere
violentemente un pugno contro il muro, richiamando così
l’attenzione di tutti i
presenti. Parve però non darvi peso, rivolgendo il proprio
sguardo verde scuro
solo su Robīta. «Che diavolo
aspettavi a dirmelo?!» sbottò inviperito al suo
indirizzo, al che lei si limitò
semplicemente ad infilare una mano nella tasca della giacca elegante
per tirar
fuori gli occhiali da sole.
«Lei non me l’ha
chiesto, capo», si
giustificò con un nuovo sorriso mentre poggiava le lenti sul
naso, riuscendo
solo a far incupire maggiormente il viso di Zoroshia.
«Sei un demonio,
donna», esalò
quest’ultimo prima di darle le spalle, ignorando volutamente
la risata
leggiadra che parve seguirlo persino nel corridoio della magione,
rimbombando
contro i muri senza remore. Non si era mai fidato del tutto di Robīta,
in quegli ultimi anni, per quanto Namimōre
trovasse in lei un’amica fidata con cui confidarsi. Non era
mai riuscito a
capire le donne, ma era convinto che quelle due superassero il confine
sottile
che permetteva ad un uomo di comprendere almeno in parte che cosa
passasse
nelle loro teste. Le donne erano creature troppo complicate, per un
tipo come
lui, e riuscire a fidarsi di loro era anche più difficile di
quanto non avesse
creduto al principio.
A quei
pensieri, scosse furentemente la testa, scompigliandosi i capelli con
una mano
con una tale rabbia che gli parve quasi di sentirli andare a fuoco. Un
idiota,
ecco cos’era. Non c’era tempo per pensare ad
assurdità del genere.
Attraversò
alla svelta il disimpegno che lo separava dalle grandi scalinate di
granito che
portavano ai piani inferiori, sentendo i propri passi risuonare nel
grande
atrio dalla pavimentazione a scacchi; alle sue orecchie cominciavano
già a
giungere le esclamazioni concitate dei cuochi, quei patetici omuncoli
che non
riuscivano nemmeno a tenere a bada un singolo uomo. Sapeva bene che
Rufiōne non
era da considerare un comune essere umano, però in quanto
servitori della
famiglia Zoroshia pretendeva che anch’essi avessero il pugno
di ferro in
qualsiasi situazione. E fu nello
svoltare a destra che gli parve di udire la voce frettolosa di Usotūya,
uno dei
fidati tirapiedi di Rufiōne. Quel nasone era il più fedele
dei suoi uomini,
certo, ma era conosciuto anche per la marea di menzogne che era solito
raccontare in giro e per la sua grande abilità di
svignarsela nelle situazioni
complicate; difatti, per quanto gli piacesse essere chiamato da
chiunque Usotūya
il coraggioso, in realtà era un fifone nato.
«Don
Rufiōne, la prego,
li lasci
stare!» Quella che sentì sopraggiungere qualche
attimo dopo era di sicuro la
voce di Yosakūto, e Zoroshia non poté evitarsi di imprecare
a denti stretti nel rendersi conto che se persino lui era arrivato fin
lì,
voleva solo significare che quello stupido di Don Rufiōne stava facendo
un’altra
cazzata delle sue. E la cosa divenne fin troppo palese quando
arrivò dinanzi
alle porte delle cucine, trovandolo a spazzolare qualsiasi cosa i
cuochi
avevano preparato - si era mangiato persino le bucce delle patate,
quell’idiota
- e obbligandoli letteralmente a cucinare altro in fretta, nemmeno
fosse stato
lui il padrone di quella villa.
Fu a quel punto che Rufiōne si
girò e si accorse della sua
presenza, allargando esageratamente la bocca in un grosso sorriso.
«Ohi,
Zoroshia!» esclamò pimpante e allegro come non
mai, quasi stesse letteralmente
ignorando di trovarsi in casa di un nemico e che il nemico in questione
era
proprio a pochi passi da lui.
Zoroshia aggrottò la fronte
ed entrò,
scoccando una rapida occhiata al suo sottoposto. «Qui ci
penso io, Yosakūto», lo congedò immediatamente,
avvicinandosi a Rufiōne per afferrarlo
per un orecchio, neanche fosse stato un bambino. «Vieni con
me, dannato
cretino», sbottò, ignorando i suoi lamenti, i
sospiri di sollievo dei cuochi e
i loro ringraziamenti frettolosi per essere stati liberati da quella
sottospecie di locusta.
E continuò a non dare peso alle sue
parole e alle sue scusanti per tutto il tragitto di ritorno nel
corridoio,
dirigendosi verso il lato ovest della villa per salire ai suoi
appartamenti e
chiudersi la porta dello studio alle spalle quando lo raggiunse con
Rufiōne al seguito. Era il momento di
parlare di affari e non voleva terzi incomodi o interruzioni, e sarebbe
stato
meglio che Rufiōne cominciasse a metterselo bene in testa.
Eppure qualcosa,
in quella stanza la cui unica fonte di calore e luce era un camino
acceso, gli
dava come l’impressione di non essere più soli.
_Note conclusive (E
inconcludenti) dell'autrice
Partiamo
con il dire che quest'immagine a lato è carinissima, anche
se
con il contesto non c'entra un bel niente u_u Però avevo una
voglia matta di inserirla ed ecco alla fine il risultato x)
Comunque sia, questa
storia, che ha come fonte di ispirazione centrale uno
dei “Mugiwara Theatre”
come accennato nelle note iniziali - anche se, in verità,
con
esso ha davvero ben poco a che fare -, è stata scritta per
il
contest
“Dal
numero alla storia”
indetto da Akane_Hirai, del quale stiamo ancora attendendo i giudizi.
In verità non ho idea di quanto sia
rimasta in linea
con il carattere dei personaggi, però, giacché si
trattava di un “Mugiwara
Theatre”, credo che vadano bene anche così.
La storia sarà composta da soli
cinque capitoli, e proverò ad aggiornare ogni settimana,
tempo permettendo.
Spero comunque che in qualche modo vi abbia momentaneamente
interessati.
Al prossimo capitolo. ♥
Messaggio No Profit
Dona l'8% del tuo tempo
alla causa pro-recensioni.
Farai felice milioni di
scrittori.
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Capitolo 2 *** Atto II › Rapsodia cremisi ***
Adagio_2
ATTO
II
RAPSODIA CREMISI
La serata
passata a star dietro a Rufiōne sembrava aver stroncato Zoroshia.
Giacché
quell’idiota, quasi dimentico del fatto che fossero comunque
rivali, avesse
passato la maggior parte del tempo a ridere e scherzare come se fosse
stato
invitato ad una festa - chiedendo sempre più cose da
mangiare nonostante i
volti stravolti dei cuochi che aveva molestato fin troppo nelle ore
precedenti,
secondo il suo parere -, aveva potuto affrontare il motivo vero e
proprio per
il quale l’aveva convocato solo per i primi cinque minuti,
dovendo in seguito
rassegnarsi agli infantili modi di fare di Rufiōne e alle risate
divertite che
essi provocavano in Namimōre e Robīta. E sì che si
supponeva che Rufiōne fosse un capo rispettabile e serio, un uomo tutto
d’un
pezzo che non si faceva confondere da niente e nessuno. Avrebbe voluto
scovare
il bugiardo che aveva messo in giro quella voce - sebbene qualcosa gli
dicesse
che fosse stato proprio Usotūya - e tagliargli la gola per puro
capriccio.
Però, in fondo in fondo, ammetteva di provare una sorta di
rispetto per
quell’imbecille di Rufiōne. Poteva forse apparire stupido,
certo, ma c’erano
anche momenti in cui riusciva a metter su la parvenza d’un
discorso sensato;
battersi dunque a spada tratta con lui sarebbe stato un vero e proprio
onore,
ma fino a quel momento Rufiōne aveva sempre evitato in tutti i modi lo
scontro
diretto, sollecitato anche dal suo fedele Usotūya.
Per quei
pensieri si maledisse, affondando con foga la lama della katana nel
manichino
che aveva dinanzi, imprecando a denti stretti; sfilò
l’arma con uno strattone,
e, senza curarsi della sagoma che aveva ormai tagliato a
metà, rinfoderò la
spada e prese un panno per asciugarsi il sudore dal fronte e collo. Da
quanto
tempo andava avanti in quel modo, con esattezza? Era entrato in
palestra
durante le prime luci dell’alba, e da quel momento aveva poi
cominciato
ininterrottamente ad allenarsi con la katana e con i pesi, senza tener
conto
del passare delle ore. E forse era stato un bene, poiché
aveva evitato, anche
se solo in parte, di perdersi fra i propri pensieri, come gli capitava
ormai di
fare da un po’ di tempo a quella parte.
Si diede
ancora una volta dell’idiota, raggiungendo la sala attigua
che dava sul bagno.
Una doccia. Ecco di cosa aveva bisogno. Una maledettissima doccia
gelata. In
quel modo, sperò in cuor suo, sarebbe riuscito a dimenticare
tutta
quell’assurda situazione. Ma anche in seguito, con lo
scrosciare dell’acqua che
gli rimbombava nelle orecchie come una melodia gorgogliante, non
riuscì a
capire perché non si desse semplicemente una mossa e non
cercasse di far fuori
il prima possibile almeno uno dei suoi avversari.
Nemmeno
quando uscì dalla doccia e si ritrovò a camminare
senza meta per i vasti
disimpegni della villa parve essere in grado di dare un senso a quel
bizzarro
sentimento che gli attanagliava le viscere, e a nulla valse provare a
rivolgere
la propria attenzione altrove, soffermando lo sguardo sui dipinti che
adornavano le pareti o sulle vecchie armature che non venivano
più lucidate da
ormai parecchi mesi.
«È da un
po’ che non ci si vede... eh,
marimo?»
Nel sentire d’un tratto quella
voce,
quella voce che non udiva da lungo tempo ma che non avrebbe potuto
confondere
con nessun’altra, Zoroshia sguainò immediatamente
una delle katane che portava
al proprio fianco, e, con mossa fulminea, tagliò una delle
colonne che si innalzavano
nel corridoio, ignorando la breve esclamazione sorpresa che
udì provenire
dietro di essa.
«Non sono venuto qui per
litigare,
idiota, riponi le armi!» sentì sbottare attraverso
il polverone che si era
venuto a creare, e solo quando infine si diradò
riuscì a distinguere la figura
dell’ultimo uomo che, in quel momento, avrebbe mai voluto
vedere. Poté però
rendersi immediatamente conto che, in quegli ultimi due anni, era
drasticamente
cambiato: pur mantenendo la sua solita aria arrogante da sciocco
dongiovanni, si
era fatto crescere un po’ di barbetta in più e
persino i baffi, scostando il
ciuffo di capelli con cui aveva sempre nascosto l’occhio
sinistro. Appariva più
maturo di quanto ricordasse, così diverso dal ragazzo che
aveva conosciuto
prima ancora di succedere al padre per acquisire il controllo sul suo
territorio. Più volte si era domandato come sarebbero potute
andare le cose se
nessuno dei due fosse appartenuto a quel mondo, ma ormai non
c’era più tempo
per stupidi quesiti; erano rivali, doveva metterselo bene in testa.
Fu dunque per quel motivo che, puntando
la lama contro di lui, Zoroshia lo fissò intensamente,
pronto a dar battaglia
se fosse stato richiesto. «Nessuno ti ha dato il permesso di
entrare in casa
mia, Sanjīno», replicò in tono secco, avendo
l’accortezza di non mostrare sul
proprio viso, per nessuna ragione al mondo, segni di turbamento per
quell’incontro così inatteso.
Il sorriso strafottente che si dipinse
sulle labbra dell’altro, però, riuscì
soltanto ad irritarlo più di quanto già
non fosse. «Oh, adesso c’è bisogno del
permesso per andare a trovare un amico,
caro il mio spadaccino?»
«Non prendermi per il culo,
bastardo»,
sibilò, non accennando ad abbassare la propria arma. Sin
dalla tenera età gli
era stato insegnato a non abbassare mai la guardia, e sapeva fin troppo
bene
che con l’avversario che aveva dinanzi la prudenza non era
mai troppa. «Cosa ti
ha convinto a strisciare fuori dal buco in cui ti eri
rintanato?»
Le labbra di Sanjīno si ridussero ad una
linea sottile, e forse fu solo per evitare di lanciarsi contro Zoroshia
che si
portò una mano alla tasca dei pantaloni, affrettandosi ad
alzarla quando vide
il suo nemico pronto a colpirlo, avendo probabilmente creduto che
stesse per
prendere la pistola. «Sta’ calmo,
marimo», sbuffò, mostrandogli il pacchetto di
sigarette con aria spavalda. «Vuoi fare un tiro anche tu? Sei
un fascio di
nervi», soggiunse ironico, ben conscio che avrebbe dovuto
prestare più
attenzione nel rivolgersi a quell’idiota. Era un
po’ come trovarsi dinanzi ad
una tigre cresciuta in cattività, se proprio doveva fare un
paragone. Potevi
provare ad allungare la mano per carezzarla, ma dovevi stare attento
che non te
la staccasse a morsi. Infastidire Zoroshia era praticamente simile, a
ben
pensarci.
«Piantala con le stronzate,
damerino»,
lo redarguì quest’ultimo con voce aspra.
«Ti avevo fatto una domanda, ed esigo
una risposta».
Sanjīno si prese ancora un po’
di tempo
per eludere quel quesito, afferrando con due dita una stecca prima di
portarsela alle labbra. «Non sono affari che ti riguardano,
marimo», rimbeccò
poi in tono sprezzante, armeggiando con l’accendino per
provare ad accendere la
paglia. «Ho solo pensato di tornare a reclamare
ciò che mi spetta di diritto,
spadaccino. La cosa ti crea problemi?»
La reazione di Zoroshia, a quelle
parole, fu istantanea: gli fu addosso in una frazione di secondo,
ghermendogli
il braccio con ferocia per evitargli di fuggire prima di conficcargli
furente
le unghie nella carne. «Che diritto hai di intralciarmi dopo
essere sparito per
tutto questo tempo, dannato bastardo?!» sbraitò
fuori di sé dalla rabbia,
afferrandolo per la bella camicia che indossava e facendogli cadere
dalle
labbra la sigaretta; le dita erano contratte a causa dell’ira
che tratteneva a
stento, e il suo sguardo, puntato ostinatamente sul viso del biondo,
celava ben
più di un semplice gesto dettato dall’odio che li
accumunava. Orgoglio ferito,
risentimento, abbandono... sembrava che in quell’unico occhio
verde schizzasse
una vasta gamma di emozioni contrastanti, e Sanjīno non poté
fare a meno di
restarne spiazzato. E ancor più quando, senza preavviso,
sentì le grosse mani
dell’altro catturargli i polsi, circondandoglieli con dita
lunghe e sottili.
«Che diavolo fai, marimo di
merda?!»
esclamò, provando a strattonare le braccia nella speranza di
essere lasciato.
Ma Zoroshia aumentò la stretta, facendo sì che
dalla sua bocca sfuggisse un
piccolo suono acuto simile ad un lamento. Che diamine aveva intenzione
di fare,
quello sfasato? Aveva forse intenzione di frantumargli le ossa? Beh, se
la sua
idea era quella, di certo non se ne sarebbe rimasto fermo a guardare.
Fu dunque
immediatamente che alzò una gamba, pronto a colpirlo con
decisione allo
stomaco; si bloccò però con il ginocchio a
mezz’aria nel momento stesso in cui
Zoroshia si sporse verso di lui, soffocando nel fondo della sua gola
ogni
parola con la propria bocca.
Esterrefatto, stretto nella morsa letale
del suo avversario e incapace di comprendere l’evolversi
della situazione, fu
forse meccanicamente che Sanjīno rispose alla rabbia di quel bacio nel
quale si
era ritrovato coinvolto, afferrando con i propri denti il labbro
inferiore
dell’altro come se volesse strapparglielo via, avvertendo il
pressante contatto
del corpo di Zoroshia contro il proprio.
«Sta’
zitto», ansimò quest’ultimo
contro le sue labbra, schiacciandolo con la
schiena contro la parete; gli inchiodò poi le mani al muro
e, assicurandosi che
nemmeno volendo potesse liberarsi da quella sua stretta, Zoroshia gli
allargò
le gambe con un ginocchio, insinuandolo fra di esse per carezzare, al
di sopra
dei pantaloni scuri che indossava, la virilità di Sanjīno. E
il gemito
prolungato che ottenne fu capace di mandargli letteralmente in tilt il
cervello, gettando alle ortiche il suo stoico autocontrollo. Voleva
prenderlo
lì, in quello stesso istante, in quel corridoio parzialmente
illuminato nel
quale si trovavano; voleva riempirsi le orecchie dei sospiri lussuriosi
che gli
avrebbe provocato nel carezzare ogni anfratto del suo corpo, sentirlo
inarcare
contro di sé e sussurrare il suo nome in preda alla passione
più folle,
beandosi del grido d’appagamento che si sarebbe lasciato poi
sfuggire
nell’attimo supremo dell’orgasmo.
Il suo unico pensiero fu unicamente
quello quando, attirandolo a sé per cingergli i fianchi con
un braccio, lo
trascinò lungo il disimpegno che li divideva dalla sua
camera, aprendo la porta
a tentoni una volta raggiunta; e fu solo nel momento in cui
avvertì il contatto
del materasso contro la schiena che Sanjīno riottenne con fatica il
controllo
delle proprie facoltà mentali, deglutendo sonoramente
nell’osservare, disteso
com’era, la figura di Zoroshia sovrastarlo in tutta la sua
imponenza.
C’era qualcosa, nella sua
testa, che gli
diceva di andarsene da lì alla svelta, di smetterla di
fissare con ottusa
insistenza e ossessione quell’occhio che lo scrutava come se
fosse stato una
succulenta preda, di accoppare quel bastardo e di reclamare il potere
che gli
spettava di diritto; eppure, nel restare inchiodato a quella iride
smeraldina,
l’unica cosa razionale che gli venne in mente di fare fu
quella di mandare a
puttane le chiacchiere che gli affollavano la mente. Se ne sarebbe
pentito, lo
sapeva, ma per i ripensamenti ci sarebbe stato un secondo
momento.
Represse un gemito nel sentire la lingua
di Zoroshia scivolare lentamente lungo il collo, avendo persino la
maledetta
audacia di scansargli la camicia per scoprire un capezzolo e succhiarlo
con
avidità, vezzeggiandone la pelle ruvida con i denti.
«Credevo fossi ormai...
sposato con Namimōre, marimo»,
esalò infine con il fiato corto e ansante, socchiudendo gli
occhi nel momento
esatto in cui avvertì il morbido peso
dell’erezione dell’altro contro le
proprie cosce. Stava succedendo davvero? Gli sembrava impossibile da
concepire,
eppure le sensazioni che stava cominciando a provare fra le braccia di
quello
stupido erano assolutamente... magnifiche.
Non avrebbe saputo trovare aggettivo migliore, accidenti.
Le mani di Zoroshia corsero rapide lungo
i suoi fianchi, scivolando verso le cosce per afferrare saldamente
l’incavo
delle sue ginocchia e sollevargli di poco le gambe. «Essere
davvero sposato con
lei cambierebbe le cose?» sentì dire da
quest’ultimo, assimilando le parole con
una lentezza esasperante.
Avrebbe voluto rispondere di
sì, che non
avrebbero dovuto trovarsi lì su quel letto dalle lenzuola
ormai strappate, che
ciò che stavano facendo era dannatamente sbagliato
perché, oltre ad essere due
uomini, erano anche rivali, ma le parole che sussurrò
spiazzarono persino lui. «No»,
soffiò con un fil di voce.
Le labbra dello spadaccino si
appropriarono voraci delle sue, mordendo furentemente quello inferiore
fino a
fargli sentire sulla lingua il sapore del suo stesso sangue quando quel
cozzare
di bocche e denti si trasformò nella parvenza di un bacio.
«Allora sta’ zitto,
ricciolo», sibilò Zoroshia con voce roca e
ansimante quando si separarono,
premendo maggiormente il corpo contro di lui per far sì che
avvertisse
l’eccitazione che aveva cominciato ad animarlo.
La sua mente continuava a ripetergli che
avrebbe dovuto fermarsi, che avrebbe fatto meglio a concludere quella
pazzia
prima che fosse stato troppo tardi, ma il suo corpo non sembrava per
niente
d’accordo con la sua parte razionale; fu difatti senza
riflettere che,
catturando fra le proprie labbra il lobo di un orecchio di Sanjīno,
Zoroshia
fece risalire entrambe le mani fino al limitare dei suoi pantaloni,
afferrando
saldamente la cintura per liberarla dai passanti. Gli calò i
calzoni fino a
metà coscia insieme all’intimo che indossava,
ignorando deliberatamente il
suono soffocato che il biondo si lasciò scappare quando la
sua erezione, ormai rigida
e dolente, fu esposta alla vista senza vergogna.
Zoroshia sfiorò la sua
virilità con la
punta delle dita, sorridendo con fosca soddisfazione quando un sospiro,
tra il
voglioso e l’insoddisfatto, risuonò
prepotentemente nella stanza buia, facendo
sì che un brivido d’eccitazione corresse senza
remore lungo la sua spina
dorsale.
Il
tempo dei giochi era appena cominciato.
_Note conclusive (E
inconcludenti) dell'autrice
Questa
volta l'immagine a lato c'entra abbastanza con la storia, lol, anche
se vedere Sanji che sovrasta Zoro fa un certo effetto, soprattutto se
si pensa che in questa immagine pare essere lui l'attivo di turno
Anyway! Sclero mio iniziale a parte, in questo capitolo niente lemon,
mi spiace. Le regole del contest me lo impedivano - e non avevo nemmeno
tanto voglia di scrivere una storia erotica, dato che mi volevo
concentrare specialmente sulla psicologia dei personaggi e sulla
situazione che si cela dietro tutto -, dunque ho solo accennato il
momento. Per chi fosse interessato, però, posterò
a parte
la one-shot “Yakuza
no Allegretto”,
spin off che comprenderà la scena a rating rosso che ho
dovuto
saltare e che ho deciso di scrivere per l'ormai passata p0rn fest, dato
che il prompt era proprio su questo otherverse e non potevo dunque
farmelo scappare.
Al prossimo
capitolo. ♥
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Capitolo 3 *** Atto III › Minacce di morte al calar del sole ***
Adagio_3
ATTO
III
MINACCE DI MORTE AL CALAR DEL SOLE
Nel riaprire
gli occhi, il mattino seguente, Sanjīno si rese conto di aver passato
la notte nel letto del suo acerrimo nemico.
Sebbene si fosse ripromesso
più e
più volte di filarsela non appena gli fosse stato concesso,
alla fine aveva
lasciato che la sonnolenza provocatagli dal sesso si propagasse in
tutto il suo
corpo, intorpidendogli le membra senza il suo consenso. E si maledisse
mentalmente quando, nel voltarsi verso sinistra, vide il volto
addormentato di
Zoroshia ad una spanna dal suo.
Nel sonno appariva così
indifeso,
accidenti. Toglierlo di mezzo in quel preciso istante sarebbe stato un
gioco da
ragazzi, se non avesse avuto almeno un briciolo d’amor
proprio. Non era mai
stato il tipo da ricorrere a certe bassezze, e non lo avrebbe fatto
nemmeno in
quel momento. Avrebbe potuto tradire, uccidere a sangue freddo senza
batter
ciglio, ma togliere la vita a qualcuno mentre questi era addormentato,
beh...
nay, non era ancora arrivato a fare cose simili. Che Don Zoroshia si
godesse quegli
ultimi istanti di tranquillità che gli restavano. Il momento
della resa sarebbe
venuto in seguito.
Dopo aver scansato da sé un
braccio che scoprì non essere il proprio - e che a dirla
tutta era stato anche
bellamente lasciato fra le sue cosce senza il benché minimo
pudore -, Sanjīno
si mise a sedere sul bordo del materasso con un sonoro sbuffo e,
borbottando
qualcosa fra sé e sé a mezza voce,
finì di scompigliarsi i capelli già
scarmigliati. Per quanto odiasse ammetterlo a se stesso, non era stato
per
niente male lo scontro
che aveva
avuto con quello stupido marimo dopo tutto quel tempo. E che il culo
gli
facesse ancora male, beh... quello era un dettaglio a parte al quale
non aveva
la benché minima voglia di badare, in quel momento.
Chinandosi verso il pavimento
recuperò i propri calzoni e li gettò poi alla
base del letto, frugando nelle
tasche alla ricerca del suo fedele pacchetto di sigarette; afferrata
una
stecca, poi, prese anche l’accendino e accostò la
fiamma all’estremità della
cicca, traendo una lunga boccata quando se la portò alle
labbra. Non c’era
niente di meglio di una bella sigaretta di prima mattina, per lui. Era
una
delle poche cose che lo rilassavano, quella, e dopo quanto era accaduto
la sera
addietro ne aveva
decisamente
bisogno. Insieme ad una bella doccia, possibilmente. Ma mai e poi mai
avrebbe
osato usufruire anche di quella in casa del nemico.
«Non credevo di trovarti
ancora
qui, sopracciglio a ricciolo». Alle sue spalle udì
la voce roca e ancora
impastata dal sonno di Zoroshia, ma non si voltò, anzi; si
limitò solo a trarre
un’altra boccata dalla sua stecca, soffiando il fumo verso il
soffitto prima di
puntare lo sguardo alla finestra.
«Non farmici pensare,
marimo»,
borbottò, osservando il lieve gonfiarsi della tenda ad ogni
piccolo spiffero di
vento che filtrava fra le fessure dell’intelaiatura di legno.
«Io non sarei
nemmeno dovuto venire in questa maledetta casa, accidenti a
te», soggiunse, ed
ebbe appena il tempo di soffiare fuori un altro po’ di fumo
prima di sentire il
sibilo stridente di una lama ed avvertirne in seguito la fredda
consistenza al
di sotto della gola.
«Sei libero di andartene in
qualsiasi momento, Sanjīno», replicò schietto
Zoroshia, in ginocchio dietro di
lui sul materasso con la spada sguainata. «A meno che tu non
preferisca farlo
come cadavere».
A quel fare, Sanjīno aggrottò
la
fronte, voltando il capo per quanto glielo concedesse
quell’arma che gli
sfiorava la pelle del collo. «Con te non si può
nemmeno finire una sigaretta in
santa pace, dannato bastardo», sbottò, incontrando
lo sguardo serio di
Zoroshia. Quell’unico occhio verde scuro che possedeva
sembrava squadrarlo con
fare arcigno, ma non avrebbe dovuto meravigliarsene.
«Cerca di darti una
mossa»,
replicò in risposta lo spadaccino, allontanando la katana
senza però
rinfoderarla, limitandosi semplicemente ad alzarsi dal letto per
raccattare
intimo e calzoni. «Non voglio che Namimōre
o Robīta ti vedano qui».
Sanjīno si lasciò sfuggire
uno
sbuffo ilare, portandosi nuovamente alle labbra la sigaretta.
«Io proprio non
ti capisco, idiota d’un marimo»,
rimbeccò quasi sarcastico, osservandolo di
sottecchi mentre si rivestiva e perdendosi con lo sguardo nel fissare
la lunga
cicatrice che gli segnava il petto ampio e muscoloso. «Con
due belle donne come
loro in casa, ti fai poi scaldare il letto da un uomo».
Pur voltandosi tranquillamente, lo
sguardo che Zoroshia gli rivolse fu duro e freddo come il ghiaccio.
«Non sono
affari che ti riguardano, sopracciglio a ricciolo. Ora va’
fuori di qui, e alla
svelta», decretò con calma disarmante, inforcando
gli occhiali da sole per
poggiarseli sul naso prima di imboccare la porta, lasciando Sanjīno con
un
pugno di mosche su quel letto sfatto.
Aveva fatto decisamente male a
cedere, dannazione. Non gli sarebbe mai dovuta passare neanche per
l’anticamera
del cervello l’idea di dare ascolto al proprio istinto e
prendersi ciò che
voleva, ciò che aveva agognato in quei sei lunghi anni. Era
stato uno stupido,
e gli stupidi pagavano sempre le conseguenze, lo sapeva. Ed era proprio
lo
stesso pensiero che aveva appena formulato anche la mente di Don
Sanjīno,
quello.
Con lo sguardo ancora rivolto in
direzione della porta e quella sigaretta che si consumava pian piano
fra le
labbra, si era concentrato per qualche istante sui passi pesanti che
rimbombavano nel corridoio, chiedendosi al contempo cosa
l’avesse spinto a
compiere quel folle gesto. Folle, già, poiché non
avrebbe dovuto finire a letto
con il proprio nemico.
Non avrebbe dovuto bearsi dei
tocchi frettolosi e un po’ rozzi che gli avevano sfiorato il
corpo, del
contatto che le sue dita avevano avuto, anche se per soli brevissimi
attimi,
con quelle spalle possenti e forti, della ruvida carezza che la lunga
cicatrice
sul petto gli aveva regalato contro la schiena quando Zoroshia
l’aveva
penetrato a fondo, spingendosi contro di lui. E si vergognò
di se stesso nel
ricordare con quanta foga, tra un’imprecazione grugnita a
mezza voce e un
sinuoso movimento di fianchi dettato dalla frustrazione del momento,
l’avesse
pregato letteralmente di scoparlo alla svelta, sentendo risuonare in
seguito
nelle orecchie il gemito languido di Zoroshia quando era venuto. Ancora
gli
sembrava di avvertire il suo respiro caldo e ansimante nel momento
stesso in
cui aveva chinato il capo verso di lui e poggiato la fronte
nell’incavo del suo
collo, tentando di riprendere fiato prima di circondargli i fianchi con
un
braccio muscoloso; era come se riuscisse ancora a sentire il suo
battito
cardiaco contro la schiena, quella sensazione di sgradevole intrusione
che era
andata via via scemando quando Zoroshia, con un altro lungo sospiro
voluttuoso,
era finalmente uscito da lui ed era rotolato al suo fianco,
stringendolo a sé
come un amante premuroso; e gli sembrava ancora di vedere il sorriso
strafottente che gli si era dipinto sulle labbra prima che, sfinito,
crollasse
fra le braccia di Morfeo prima di lui.
A quei ricordi si coprì il
viso
con il palmo di una mano, sentendo un vago senso di calore dentro di
sé e il
sangue colorargli le guance. Nay, si disse, non sarebbe mai
più accaduta una
cosa del genere. Non ci sarebbe cascato una seconda volta, dannazione.
Imprecò dunque a denti stretti nel
raccattare i propri calzoni e nell’indossarli alla svelta
insieme alle mutande,
ficcando con foga il pacchetto di sigarette in una tasca mentre
mordicchiava
quel che restava della sua cicca ormai quasi del tutto consumata.
Arraffata la
parte superiore dei propri abiti, poi, li indossò prima di
passarsi una mano
fra i capelli e si diresse alla porta, uscendo quasi di soppiatto.
La calma che imperversava in quel
corridoio era quasi bizzarra, come se tutti gli abitanti della casa
fossero
ancora sprofondati in un sonno profondo. Si chiese distrattamente che
ore
fossero, ma dalla luce che filtrava dalla grande vetrata alla sua
sinistra,
dove le tende diligentemente lasciate aperte facevano sì che
si avesse una
bellissima vista del giardino mozzafiato che attorniava la villa,
pareva che
fossero passate addirittura le cinque del pomeriggio.
Era mai possibile che fosse
rimasto addormentato in quel dannato letto per tutto quel tempo, e che
nessuno
dei servitori avesse pensato di andare a chiamare Zoroshia per
svegliarlo,
beccandoli così entrambi? Beh, aye, forse era
possibilissimo, conoscendo il
pessimo caratteraccio di quel marimo di merda. Le brutte abitudini
erano dure a
morire, ed era quasi certo che, nonostante gli anni trascorsi, non
avesse
affatto rinunciato al suo solito poltrire per ore ed ore anche durante
il
giorno se non era dedito ad allenarsi. Che nessuno fosse andato a
disturbare il
suo sonno, quindi, non era poi una cosa così sconvolgente.
Scosse il capo e sbuffò,
incamminandosi per quei corridoi silenziosi dopo aver spento la
sigaretta sotto
la suola della scarpa. I suoi passi erano l’unico suono che
sentiva
riecheggiare in tutta quella vastità, e dovette ammettere a
se stesso che era
una sensazione alquanto fastidiosa e... bizzarra.
Bizzarra, aye, non avrebbe saputo trovare un termine migliore per
definirla.
Fu però nello svoltare a destra
che incrociò finalmente un’altra forma di vita, e
il suo cuore ebbe quasi un
sussulto prima che si rendesse conto che non si trattava di Zoroshia o
di
qualcuno dei suoi fedeli servitori; abbozzò un sorriso
galante verso la donna
che lo squadrava con fare vagamente accigliato, prendendole la mano per
posarle
sul palmo un bacio leggerlo.
«Enchanté, madame
Robīta»,
le sussurrò leggiadro contro la pelle, sentendola
ridacchiare di gusto prima
che anch’ella ricambiasse con fare furbo il sorriso; con
delicatezza, poi,
sfilò la mano da quella del biondo, e i loro occhi si
incontrarono per qualche
istante, abbandonandosi esattamente qualche istante dopo.
La donna gli girò intorno e
cominciò poi ad allontanarsi, senza però
abbandonare lo strano sorriso che
aveva incurvato le sue belle labbra. «Spero abbia passato una
buona permanenza
qui, stanotte, Don Sanjīno», disse distratta, adocchiando
un’ultima volta
l’altro prima di incamminarsi con passo sicuro, ancheggiando
nel lungo
corridoio di marmo senza attendere la benché minima
risposta.
Ciò, però, parve
bastare al
biondo, che la seguì con lo sguardo per quanto concessogli,
vedendola sparire
oltre l’angolo come un fantasma; trasse poi un lungo sospiro,
affrettandosi a
raggiungere la porta d’entrata prima di fare incontri ben
più spiacevoli. Era
stata una fortuna, forse, incontrare proprio Robīta.
E ne fu ancor più sicuro quando, una volta raggiunto il
grande atrio
che dava fuori nel vasto e curato giardino, si ritrovò ad
infilare una mano in
tasca e ad afferrare il telefono, osservandolo per qualche attimo prima
di
comporre un numero alla svelta. Gli parve l’attesa
più snervante di tutta la
sua vita quella che lo separò dalla voce del suo
interlocutore, e fu solo al
decimo squillo che quel qualcuno si degnò finalmente di
rispondere.
Frattanto era uscito al di fuori del
cancello placcato in vernice nera
della grande ville, lasciandosi alle spalle quella costruzione e in
special
modo ciò che era accaduto al suo interno. Non avrebbe
più pensato a quella
maledetta storia né tanto meno a Zoroshia, si disse,
concentrandosi unicamente
sulla voce che udì qualche istante dopo.
«Choparīni»,
cominciò pacato, stringendo la presa sul telefono, quasi
temesse che potesse
fuggire via dalle sue mani. «E’ tutto confermato
per domani notte». Sorrise al
vuoto, ascoltando con fare divertito la voce che gli rispondeva quasi
concitata. «Tranquillo, è già stata
avvertita», lo rassicurò in fretta.
«L’ho
fatto io personalmente», soggiunse in tono vagamente
allusivo, perdendosi in
ultimi convenevoli prima di riagganciare e riporre il telefono al
proprio posto.
Inforcò poi gli occhiali e li indossò, portandosi
una nuova stecca alle labbra
senza però accenderla.
Rivolse solo lo sguardo oscurato dalle
lenti verso quel sole morente, incamminandosi verso quella che, ne era
certo,
sarebbe stata la sua ultima missione.
_Note conclusive (E
inconcludenti) dell'autrice
Uhm...
tutti i nodi stanno venendo al pettine? Non ne sarei così
sicura,
anche se ormai mancano soltanto altri due capitoli alla fine di questa
storia
I risultati del contest dovrebbero arrivare a breve - purtroppo ci
siamo dovuti rivolgere ad un giudice sostitutivo dunque le cose si sono
prolungate -, ma tutto questo con la storia per il momento c'entra ben
poco u_u
Posso solo dire che adoro la parte iniziale in cui Zoroshia punta una
spada alla gola di Sanjīno.
Son pazza? Aye, molto probabile, ma ho uno strano debole per scene del
genere e credo si sia potuto benissimo notare.
Direi adesso di chiuderla qui, perché sto letteralmente
sclerando
Commenti e critiche, come sempre, son ben accetti, dato che a leggere
siete in molti, un piccolo appunto sarebbe gradito, dunque per il
momento ringrazio Connie.
Al
prossimo capitolo. ♥
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Capitolo 4 *** Atto IV › Fasullo requiem in Re Minore ***
Adagio_4
ATTO
IV
FASULLO REQUIEM IN RE MINORE
Passare due ore
nell’inerzia più totale non era
per niente da lui, specialmente se si teneva conto che non le aveva
trascorse
dormendo come suo solito né tantomeno si era allenato.
Non aveva nemmeno toccato cibo con sommo
disappunto dei cuochi, per quanto avessero evitato di far notare ad
alta voce
quella mancanza. Era chiaro come il sole che il loro capo non fosse per
niente
dell’umore giusto, e nessuno di loro, se poteva evitarlo, ci
teneva a farlo
imbufalire più del dovuto e rischiare così di
ritrovarsi la testa staccata dal
collo. Don Zoroshia ne sarebbe stato capace e loro lo sapevano fin
troppo bene.
Se contavano poi il fatto che il suo malumore durava da ben
più di un giorno,
beh... si rendevano perfettamente conto che fosse meglio tenerselo
buono.
Solo una persona si prendeva la
libertà
di fargli notare anche il più piccolo dettaglio, ed era
proprio quando
dibattevano che tutti, nessuno escluso, preferivano star fuori da
quelle loro
liti. Quel giorno non era stato da meno, e dabbasso riuscivano
distintamente a
sentire i toni accesi con cui Don Zoroshia e la signorina Namimōre
stavano discutendo.
«Cosa significa che non hai
nessuna
intenzione di andare a quell’incontro?»
sbottò ancora una volta la donna, fissandolo
insistentemente da quella posizione. Si trovavano entrambi nello studio
al
piano di sopra, chi seduto sulla poltrona e chi in piedi
dall’altra parte della
scrivania, con le mani poggiate sui fianchi snelli e una pelliccia a
nasconderle le spalle esili. Lo sguardo che Namimōre stava rivolgendo a
Zoroshia sembrava quasi sfociare
nell’odio, e ciò voleva significare solo una cosa:
quella conversazione
implicava del denaro. Era risaputo ai più quanto i soldi
fossero il punto
debole della donna, e dover rinunciare anche ad un solo misero
centesimo la
mandava su tutte le furie.
Zoroshia,
però, dal canto suo non sembrava per niente interessato a
darle ascolto.
Sbadigliando e continuando a guardare fuori dalla finestra verso la
quale aveva
rivolto la poltrona, pareva piuttosto perso nei propri pensieri.
«Ho ben altro da
fare che star dietro alla tua avarizia, strega»,
rimbeccò scontroso. «Questo
mese la quota mi è già stata pagata, quel borioso
di Frankījo sta bene dov’è».
«Ma che razza di capo
sei?» sibilò
inviperita, poggiando una mano sul bordo della scrivania con foga.
«Hai il
controllo di questo territorio, è giusto che tutti ti
paghino il triplo di
quanto pattuito, accidenti a te».
«Se ci tieni così
tanto, Namimōre, perché non vai tu stessa a
reclamare quel denaro?» la schernì
l’uomo, rimediando da lei un sonoro sbuffo.
«Sei tu il capo».
Nel dirlo storse il
viso, quasi avesse letteralmente ingoiato un rospo. Non le era mai
andata a
genio quella situazione. «Spetta a te ritirare ciò
che ti è dovuto».
Zoroshia non poté fare a meno
di
abbozzare un sorriso, a quel dire, più che consapevole di
quanto fosse costato
alla donna pronunciare quelle parole. e avrebbe anche rigirato senza
pietà il
coltello nella piaga se un breve bussare alla porta non avesse
costretto
entrambi a voltarsi verso si essa con fare vagamente
accigliato. «Avanti», bofonchiò
immediatamente lo spadaccino, indispettito da
quell’improvvisa interruzione.
Yosakūto fece capolino dalla soglia,
fissando entrambi attraverso le
lenti scure. «Scusi il disturbo, capo», disse tutto
d’un fiato, volgendo poi la
propria attenzione verso la donna, «ma la signorina Robīta ha
chiesto di lei,
signorina Namimōre. Afferma che è urgente».
Namimōre si accigliò e
scoccò una rapida
occhiata a Zoroshia, che a quella comunicazione non aveva fatto una
piega. Anzi,
forse appariva persino contento, poiché in quel modo si
sarebbe liberato
finalmente di lei. Forse non lo avrebbe mai ammesso, ma gli si leggeva
perfettamente in viso. Che stronzo. «Arrivo
subito», affermò poi distratta,
fulminando l’altro con lo sguardo. «E tu vedi di
fare quanto detto».
«Fuori di qui»,
rimbrottò in risposta
Zoroshia ad entrambi, tornando a guardare fuori dalla finestra senza
dar peso
alle colorite imprecazioni che parvero accompagnare Namimōre. Si
rilassò
soltanto quando sentì la porta richiudersi furentemente alle
sue spalle, poggiandosi
mollemente contro la poltrona.
Non voleva pensare a niente, in quel
momento. Una sgradevole sensazione si era impadronita di lui nel
momento stesso
in cui aveva aperto gli occhi, quel giorno, e non era riuscito a capire
che
cosa avesse voluto significare. Aveva provato a concentrarsi sui propri
doveri,
a meditare e ad allenarsi con la spada come aveva sempre fatto prima
dell’incontro - quel dannatissimo incontro, maledizione - con
Sanjīno, ma i
suoi sforzi non erano valsi a nulla. E, se proprio doveva essere
sincero con
se stesso, non era nemmeno riuscito a chiudere occhio decentemente. Si
era
persino acceso una sigaretta e aveva tentato di concentrarsi unicamente
su quel
piccolo quanto nocivo piacere, ma non l’aveva nemmeno
consumata a metà; l’aveva
subito spenta nel posacenere con uno sbuffo innervosito, girandosi su
un fianco
per provare a dormire. Peccato, però, che non ci fosse
riuscito comunque, ed
era dunque quella una delle cause del suo malumore.
Perso com’era in quei
pensieri, neanche
si rese conto di aver reclinato di poco la testa contro lo schienale
della
poltrona e aver chiuso stancamente la palpebra; si accorse di essersi
finalmente addormentato solo quando, senza il minimo preavviso, si
sentì
chiamare da una voce squillante, e fu imprecando che, dopo essersi
massaggiato
la fronte e la testa che gli doleva - ma quanto aveva dormito,
accidenti? -,
volse lo sguardo in direzione della porta, spalancatasi in
quell’esatto momento
senza che lui desse a quello scocciatore il permesso di disturbarlo.
«Che accidenti
hai da urlare in quel modo, tu?» sbottò,
rivolgendogli un’occhiata così furiosa
da farlo sussultare e indietreggiare involontariamente.
L’uomo deglutì,
tentando di non
distogliere lo sguardo dall’occhio del suo interlocutore.
«Mi spiace, capo», si
scusò frettolosamente, torcendosi le dita. «Ma,
ecco... si tratta di Don Rufiōne».
Avrebbe dovuto immaginarlo che
c’entrasse quel cretino, dannazione. In quegli ultimi sei
anni ne aveva davvero
combinate di cotte e di crude, ancor più di quanto fosse
abituato a fare. «Che
diavolo ha fatto quell’imbecille, adesso?»
«Vede, il fatto è
che...» Sembrò fermarsi
quasi per trovare le parole adatte, guardandosi intorno come se la
mobilia
dello studio potesse in qualche modo aiutarlo. Come avrebbe potuto
parlare,
sapendo che ciò che stava per comunicare avrebbe scatenato
le ire del capo? Però
era a conoscenza anche del fatto che sarebbe stato ancor peggio se
l’avesse
scoperto da terzi in un secondo momento, dunque, dopo aver tratto un
lungo
respiro per farsi coraggio, puntò lo sguardo dritto sul
volto di Zoroshia, che
lo scrutava austero e arcigno dalla poltrona sulla quale era
accomodato. «Pare
che stanotte qualcuno si sia infiltrato nella sua residenza,
capo», snocciolò
rapidamente, quasi temesse che interrompersi avrebbe compromesso
persino la sua
vita. E forse non era così lontano dalla verità,
conoscendo lo spadaccino. «Don
Rufiōne ha esalato l’ultimo
respiro».
Zoroshia si accigliò, e
definire
incredula l’espressione che si era dipinta sul suo viso
sarebbe stato un
eufemismo bello e buono. Rufiōne...
morto? Proprio quel Rufiōne,
l’uomo che nemmeno una cannonata sarebbe
riuscito ad uccidere? Cosa diavolo andava blaterando, quel mentecatto?
«Perché
vieni a raccontarmi certe stronzate?» rimbeccò
inviperito, sbattendo
pesantemente una mano sulla pregiata scrivania in legno di noce e
facendo
trasalire al contempo il povero disgraziato di turno.
«È la pura
verità, capo!» squittì
quest’ultimo, trovando estremamente saggio compiere un altro
passo indietro
quando vide lo spadaccino ergersi in piedi in tutta la sua minacciosa
altezza.
Neanche lui aveva creduto a quanto gli avevano raccontato, eppure era
andata
esattamente in quel modo: Don Rufiōne
era passato a miglior vita, per quanto fosse impossibile da concepire
conoscendo il tipo.
Fu un attimo,
e, prima ancora che potesse rendersene realmente conto, il freddo
acciaio della
lama di Zoroshia gli sfiorò la gola, facendolo trasalire;
ebbe quasi l’assoluta
certezza che presto sarebbe sopraggiunta la fine, ma un qualunque Dio,
per
quanto avesse rischiato davvero di sfiorare la morte, parve avere
misericordia
di lui. Pur non riponendo le armi, difatti, Zoroshia si
dimostrò magnanimo ed
ebbe un minimo di compassione, limitandosi solo a pressare di poco il
filo
della katana contro il suo collo, procurandogli un taglio netto ma non
profondo. «Hai
visto il cadavere di Rufiōne
con i tuoi occhi?»
L’uomo tremò
impercettibilmente,
affrontando però lo sguardo del suo interlocutore con tutta
la risolutezza che
riuscì a trovare in quel frangente. «No,
capo», esalò a mezza voce, pentendosi
di quella sincerità quando la lama gli sfiorò
nuovamente la carotide.
«Allora come puoi affermare
che sia
morto?»
«A questo posso rispondere
io», si
intromise senza alcun riguardo una terza voce, ed entrambi gli uomini
volsero
lo sguardo in direzione della porta, vedendo la figura di Namimōre
stagliarsi sulla soglia.
Aveva incrociato le braccia al di sotto del seno e li fissava, poggiata
con la
schiena contro lo stipite. Si era anche liberata della pelliccia che
aveva
indossato fino a poche ore addietro, e il suo viso appariva persino
stravolto. «Robīta ha ritenuto giusto portarmi
questa», soggiunse, tirando fuori dalla scollatura del bel
vestito nero un
foglietto spiegazzato quando ricevette la loro completa attenzione;
mantenendolo con due dita, poi, si diresse a passi sicuri e calcolati
all’interno
dello studio, consegnandolo nelle mani di Zoroshia stesso.
Quest’ultimo
allontanò con rabbia il
messaggero che, ringraziando sottovoce Namimōre
per quel suo provvidenziale intervento, pensò bene di
darsela subito a gambe
non appena colse l’espressione furibonda che si era dipinta
sul volto di
Zoroshia, il cui occhio era fisso su quel foglietto che aveva appena
aperto. «Che
cosa significa questo?»
domandò,
scandendo bene le parole ad una ad una ed enfatizzando soprattutto
sull’ultima.
Namimōre,
però, si limitò semplicemente a scrollare di poco
le spalle esili, poggiando
poi una mano sui fianchi. «Pare sia un invito,
Zoroshia», rimbeccò, senza dar
peso all’occhiataccia che l’uomo le rivolse per
l’essere stato chiamato per
nome. «Un invito da parte del colpevole, a quanto
sembra», aggiunse in tono
ironico, quasi fosse convinta che si trattasse di un pessimo scherzo.
«Quanta
presunzione!» sbraitò iracondo
lo spadaccino, accartocciando il foglio nel proprio pugno;
scostò di lato Namimōre e, con la lama della katana distesa
lungo un fianco, si diresse rapidamente verso la porta, sentendo
però uno
strano sentimento diradarsi come veleno in tutto il suo corpo.
Ignorò i
richiami della donna, incamminandosi a passo di marcia per il lungo
disimpegno
che lo separava dai piani inferiori e dalla porta di ingresso,
tralasciando
momentaneamente la questione che sembrava avere in sospeso con quel
demonio di Robīta.
Aveva
decisamente esagerato, stavolta. Aveva compiuto una mossa azzardata che
mai si
sarebbe sognato fosse capace di mettere in atto, e forse era stato
proprio il
modo in cui l’aveva svolta che lo mandava letteralmente su
tutte le furie. Si
sarebbe aspettato tutto tranne quello, da uno come lui.
Nemmeno si
preoccupò delle voci concitate che sentì
risuonare intorno a lui quando
raggiunse il grande atrio che dava sul portone, spalancandolo senza
ritegno
prima di richiuderselo ferocemente alle spalle. Il faccia a faccia che
aveva
sempre ritardato era giunto, infine. L’aver atteso tutti
quegli anni aveva solo
fatto sì che l’odio reciproco crescesse,
raggiungendo il culmine fino a far
esplodere entrambi.
Nessun
pareggio di sorta sarebbe stato contemplato, aveva deciso. Quella lunga
notte si
sarebbe conclusa con un solo vincitore.
_Note conclusive (E
inconcludenti) dell'autrice
Aye,
esattamente. Avete letto più che bene. Rufiōne è morto.
Indi per cui, nay, non era Zoroshia quello da assassinare,
bensì il
povero Capitano Rufiōne,
e tutto solo per... lo scoprirete nel prossimo ed ultimo capitolo, ecco
*Cerca di scansare i lanci di pomodori per questa sua bastardaggine*
Mi preme inoltre dire che abbiamo finalmente ricevuto i risultati del
contest e, sebbene non sia stata la giudice che l'ha indetto a farci
avere i suddetti di risultati, sono più che soddisfatta del
lavoro svolto da Ro-chan, che ci è gentilmente venuta in
contro
e ha letto le nostre storie per farci da giudice
Fiera di dire, dunque, che alla fine questa storia si è
classificata Prima
vincendo il Premio
Stile,
per quanto io non fossi realmente sicura di consegnare una cosa del
genere per il poco approccio che avevo con il fandom durante i primi
periodi di stesura.
Ciò
detto, al prossimo e ultimo capitolo. ♥
Messaggio No Profit
Dona l'8% del tuo tempo
alla causa pro-recensioni.
Farai felice milioni di
scrittori.
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Capitolo 5 *** Atto V › Melodia di ferro e sangue ***
Adagio_5
ATTO V
MELODIA DI FERRO E SANGUE
La foga con
cui era salito in cima a quel
palazzo era apparsa bizzarra persino a lui.
Aveva vagato senza meta per quelle che
gli erano sembrate ore, imprecando a denti stretti nel rendersi conto
di aver
preso la svolta sbagliata; non l’avrebbe mai ammesso a se
stesso o a terzi, ma
mentre imboccava vicoli e cunicoli, stradine secondarie e vere e
proprie
piazze, si era reso davvero conto di quanto fosse assolutamente nullo
il suo
senso dell’orientamento. Ed ora lì, con lo sguardo
puntato insistentemente sulla
schiena del proprio avversario, quasi si domandava come fossero giunti
fino a
quel punto. Non era un santo, non lo era mai stato, ma non riusciva
proprio a
spiegarsi che cosa avesse spinto quell’idiota ad agire
proprio in quel modo.
Dal canto suo, Sanjīno non appariva
minimamente preoccupato, anzi. Si ostinava a dare le spalle a Zoroshia
e a
guardare dritto dinanzi a sé, mantenendo con due dita quella
dannata sigaretta
che si consumava pian piano. Se fosse stato qualche altro nemico non si
sarebbe
mai azzardato a restare di schiena in quel modo, conscio che non ci
avrebbe
messo due secondi ad accopparlo e a farlo finire di sotto; ma sapeva,
con una
certezza così assoluta che in altre circostanze
l’avrebbe fatto sorridere, che
Zoroshia, a causa dei suoi principi morali, non avrebbe mai osato
colpirlo a
tradimento. Lo considerava a dir poco onorevole, da
un certo bislacco punto di vista - erano pur sempre dei criminali, in
fin dei
conti -, però anche tremendamente
stupido. Era esattamente questo ciò che odiava di lui: la
sua assurda credenza
di pensare che tutti, nessuno escluso, potessero seguire le stesse
ferree
regole che lui si era sempre dato in quanto spadaccino. Un uomo che ti
voleva
morto ti ammazzava e basta, senza porsi il problema di averti di
spalle.
«Robīta
ti ha consegnato il messaggio, vedo», parve ironizzare
Sanjīno, portandosi la
paglia alle labbra per inspirare a fondo. Soffiò verso
l’altro il fumo
azzurrognolo, poggiando una mano sul bordo del parapetto di cemento.
«Mi
sorprende che tu sia corso immediatamente qui e non ti sia occupato di
lei,
spadaccino», ironizzò a mezza voce, traendo
un’altra lunga boccata nociva prima
di spegnere la cicca a terra. «Eppure mi era parso di capire
che tu fossi molto
vendicativo, da quel che ho sentito».
Zoroshia avanzò a grandi
falcate,
ponendo quanta più distanza possibile tra loro.
«Non mi sono mai fidato di
quella donna», sbottò sprezzante. «E a
quanto sembra ci ho sempre visto giusto».
Non poté vedere in viso Don Sanjīno, ma qualcosa, dentro di
lui, gli diede
l’assoluta certezza che avesse abbozzato un sorriso vagamente
sarcastico. «Da
quanto tempo andava avanti questa storia?»
«Cosa cambierebbe se te lo
dicessi?» lo
prese in giro, allungando una mano per afferrare il pacco di sigarette.
«E’
stata di grande aiuto, sappi solo questo. Forse senza di lei non sarei
riuscito
a guadagnarmi in così breve tempo la fiducia di
Rufiōne».
«La sua fiducia,
eh?» ripeté Zoroshia,
assottigliando lo sguardo nella sua direzione. «Allora non
avresti dovuto farlo»,
sibilò iracondo. «Non avresti dovuto
ammazzarlo».
«Tsk... sei un idiota,
marimo», esalò,
accendendosi un’altra sigaretta senza voltarsi verso di lui;
il suo sguardo ceruleo
era invece fisso ancora oltre l’orizzonte, verso quel
tramonto di sangue che
sembrava avvolgere tetramente la città nel suo abbraccio.
«Ho solo fatto ciò
che avresti voluto fare anche tu. Ho tolto di mezzo un
rivale». Sbuffò fuori il
fumo in un cerchio perfetto. «Non venirmi a dire che non hai
mai pensato di
spianarti la strada facendoci fuori entrambi».
Zoroshia strinse la mano destra
sull’elsa di una delle sue katane, sentendo il contatto
ruvido della pelle con
la quale era rivestita. Era vero, aveva più volte
accarezzato nella sua mente
l’idea di far fuori sia Rufiōne sia Sanjīno
- così da potersi assicurare una volta per tutte il potere
-, però era stato
così stolto da cadere vittima dell’assurdo
desiderio che, a poco a poco, aveva
logorato il suo animo. L’insana passione che
l’aveva mosso non più di poche
notti addietro era adesso un ricordo sbiadito e dalle forme indistinte,
un
ricordo seppellito nei recessi della sua memoria, ma era come se fosse
lì, in
attesa di una fiamma che l’avesse fatta divampare ancora una
volta. E forse
quella fiamma era proprio l’odio che lo animava in quel
momento.
«In un duello leale, stupido
damerino», precisò con voce tagliente, scandendo
le
parole ad una ad una come se volesse marchiarle a fuoco persino nella
propria
mente. «Vi avrei affrontati entrambi in un duello leale, non
piombandovi in
casa nel cuore della notte». Osservò
insistentemente la sua schiena, non
potendo fare a meno di scuotere il capo. «Una volta non eri
così».
Sanjīno si lasciò scappare un
suono
simile ad una risata, per quanto non vi fosse la benché
minima traccia di ilarità
in essa. «Le persone cambiano, spadaccino», rispose
tranquillo, traendo
un’altra lunga boccata dalla paglia per osservare poi il fil
di fumo levarsi
verso il cielo cremisi; una volta conclusa la spense senza tanti
complimenti sul
cornicione di cemento, alzandosi in piedi su di esso per volgere
finalmente lo
sguardo nella sua direzione. «Persino tu non sei
più lo stesso di tanti anni
fa, non negarlo».
Zoroshia, a quel dire, ebbe appena il
tempo di mordersi furentemente il labbro inferiore prima che la figura
del suo
avversario sparisse letteralmente dalla sua vista, lasciandolo
sbigottito; fu
solo grazie ai suoi sensi sviluppati che si accorse dello spostamento
d’aria
alla sua destra, alzando prontamente il braccio per deviare alla svelta
il
colpo che gli venne sferrato subito dopo da un piede di Sanjīno.
Imprecò a denti stretti per
il
formicolio che si disperse immediatamente nel suo arto, ritrovandosi ad
indietreggiare quel tanto che bastava per poter estrarre almeno una
delle sue
spade; non c’era tempo per fermarsi a pensare, lo sapeva
perfettamente, e fu
proprio per quel motivo che, nel vedere il fulmineo movimento di quella
gamba
rivestita di nero, si affrettò a respingerla con il dorso
della lama,
costringendo Sanjīno ad allontanarsi da lui con un salto
all’indietro per evitare
che la spada gli si conficcasse nelle carni.
Per un lungo attimo, Zoroshia parve
scorgere un lampo incollerito in quell’occhio azzurro, un
baluginio che
scomparve così velocemente com’era apparso prima
che, flettendo entrambe le
gambe e piegandosi sulle ginocchia, Sanjīno piroettasse di lato e gli
si
lanciasse addosso con tutta l’agilità di cui
disponeva, scagliandolo dall’altra
parte del tetto con un calcio diretto al viso.
Zoroshia non ebbe nemmeno il tempo di
rimettersi in piedi che un altro colpo lo centrò dritto al
costato, mozzandogli
il fiato nel petto; boccheggiò, impugnando saldamente la
propria arma nel
tentativo di contrattaccare, e approfittò proprio di quella
vicinanza per
colpirlo alla caviglia con l’elsa della spada, puntando
rapidamente la lama
verso l’alto quando vide il proprio avversario barcollare.
Riuscì a colpirlo di
striscio al fianco nel momento esatto in cui un altro calcio violento
si
scontrò con la sua guancia, facendogli sputare sangue.
Sanjīno si portò una mano a
sfiorare con
due dita la ferita, provando a raddrizzare il più in fretta
possibile la
schiena quando, rapido come una freccia scoccata da un arco, Zoroshia
tentò
l’ennesimo affondo, e fu per istinto che alzò
immediatamente la gamba per
pararlo.
I loro occhi si incontrarono per un
attimo che sembrò infinito, e qualcosa, nel cuore di
Sanjīno, parve stridere
rumorosamente. «Il primo che si innamora è un uomo
morto, Zoroshia», sussurrò,
facendo pressione con il piede contro la spada del proprio nemico;
quest’ultimo
glielo allontanò con un colpo secco, rinserrando la presa
prima di roteare il
polso per portarsi la lama piatta a nascondere un lato del proprio
viso.
Sollevò un angolo della bocca
in un mezzo
sorriso, per quanto esso apparisse distaccato e inespressivo.
«Allora io lo
sono già da tempo, Sanjīno», replicò,
raggiungendo alla svelta con la mano
libera l’elsa della sua seconda katana; la sfilò
dal fodero nel momento stesso
in cui Sanjīno ritornò all’attacco, incrociando
entrambe le lame per parare
quel calcio scagliato a tutta potenza.
Si gettò contro di lui con
l’intento
di colpirlo ai fianchi, incurvando le spalle e impugnando saldamente le
spade
per tentare un affondo; prima ancora che potesse rendersene conto,
però, la
caviglia di Sanjīno lo colpì furentemente al collo,
rischiando quasi di
spezzargli l’osso. Gli parve persino di sentirlo
scricchiolare sinistramente,
incapace di credere alla velocità che quel damerino aveva
acquisito nel corso
di quei lunghi anni.
Un altro calcio lo colpì alla mano, facendo
sì che una delle sue spade volasse dal lato opposto della
fredda pavimentazione
di cemento; vedeva tutto sfocato a causa del colpo che aveva quasi
rischiato di
rompergli il collo, e fu dunque con un po’ di fatica che
riuscì a mettere
nuovamente a fuoco la figura di Sanjīno, affinando i sensi per cogliere
così i
suoi movimenti solo grazie al proprio udito.
Con un urlo rabbioso gli fu addosso,
sferzando l’aria con un braccio prima di tentare un ennesimo
affondo. Il suo
avversario parve però intuire le sue intenzioni,
affrettandosi ad
indietreggiare ancora una volta; con un agile balzo di lato,
roteò su se stesso
e alzò la gamba per sferrargli un calcio poderoso
all’altezza dello sterno,
imprecando a denti stretti quando il colpo fu deviato dalla lama piatta
della
spada di Zoroshia. Si lanciarono l’uno contro
l’altro nel
medesimo istante, entrambi intenzionati ad avere la meglio e a vincere
quella
sfida; il cupo rimbombo di uno sparo, però,
risuonò sinistramente nella
perpetua oscurità di quella notte, e Zoroshia, sbarrando
l’occhio, si accasciò
parzialmente in avanti, cercando al contempo di non allentare in nessun
modo la
presa sull’elsa della propria katana.
«B-Bastardo...»
biascicò con un fil di
voce, sentendo una mano di Sanjīno poggiarsi stabile su un suo fianco.
«Te l’avevo detto
che il primo che si
innamorava sarebbe stato un uomo morto, marimo»,
soffiò al suo orecchio,
sorridendo brevemente. E non parve dar peso al rivolo di sangue che
colò ad un
angolo della sua bocca, al metallo rovente che gli aveva trapassato lo
stomaco
nel momento stesso in cui lui aveva premuto quel maledetto grilletto,
alla
sgradevolissima sensazione di gelo che gli sconquassava il corpo e al
tremore
all’arto che lo costrinse ad abbandonare la pistola,
socchiudendo solo gli occhi
dopo aver tratto un lungo e tremulo sospiro.
Cadde all’indietro, sibilando
quando la
lama scivolò debolmente via dalle sue carni dilaniate; vide,
attraverso l’orlo
delle ciglia, il suo avversario crollare in ginocchio con un gemito, la
mano
libera convulsamente premuta sulla ferita sanguinante. In quel mentre
si lasciò
sfuggire la spada che, con un sinistro tonfo metallico, cadde sulla
pavimentazione di cemento, e fu solo a quel punto che Zoroshia
alzò
parzialmente lo sguardo verso Sanjīno, tossendo sangue.
E sembrò quasi impazzito quando, tutto
d’un tratto, dal fondo della gola salì un suono
roco simile ad un’aspra risata
che parve come vetro spezzato. «Un fottutissimo
pareggio», esalò sottovoce, le
labbra macchiate di rosso.
«Un
fottutissimo pareggio, maledizione».
Abbassò la palpebra e si lasciò cadere
disteso di schiena, lo sguardo puntato a quel cielo nero che non ebbe
momentaneamente la forza di osservare un’ultima volta.
Non gli giunse in risposta nessuna
replica tagliente, e fu proprio grazie a ciò che
realizzò quanto fosse appena
accaduto: Sanjīno era morto. Era passato a miglior vita prima di lui, a
causa
del colpo che lui stesso gli aveva inferto, e avrebbe dunque dovuto
godersi
quella manciata di attimi di gioia selvaggia che gli restavano prima
della
fine. E allora perché, nonostante la bassa risata che ancora
aleggiava
nell’aria, non riusciva ad essere felice per quella vittoria?
Un dolore straziante si
impadronì del
suo cuore. Sanjīno era morto e lui, stolto com’era sempre
stato, forse non riusciva
a farsene una ragione. Con uno sforzo immane, sebbene sentisse ormai le
forze
scemare a poco a poco e il sangue insinuarsi vischioso e caldo fra le
sue dita,
alzò la palpebra quel tanto che bastava per poter catturare
con l’occhio la
figura riversa in terra di Sanjīno. Sorrideva ancora, quel maledetto
bastardo.
Zoroshia reclinò la testa
all’indietro,
traendo un lunghissimo sospiro prima di sollevare a sua volta un angolo
della
bocca nella parvenza d’uno stanco sorriso. La spaventosa
melodia a cui avevano
dato vita nel corso di quei lunghi anni aveva ormai suonato le ultime
note
stridenti, giungendo alle sue orecchie come una risata beffarda che
parve
rimbombare nell’oscurità che aveva cominciato ad
avvolgerlo senza remore.
Il mondo che li circondava
sembrò
spezzarsi in quello stesso istante come una corda di violino, e lo
sciabordio
della pioggia, sopraggiunta al definitivo rimbombare d’un
tuono, lavò
pietosamente via dai loro volti sudore e sangue.
Vivi con onore,
colpisci a tradimento.
ADAGIO FOR STRINGS
FINE
_Note conclusive (E
inconcludenti) dell'autrice
Uhm...
boh. Di solito spendo parole
su parole nelle note iniziali, ma stavolta non saprei proprio che cosa
dire,
visto che la storia parla quasi da sé. Era comunque da un
sacco di tempo che cercavo di realizzare una storia
seria su questo fandom, giacché non
ci ero mai riuscita perché uscivano sempre flash fiction
bizzarre con un
pizzico di ironia. Con questa, per quanto fosse una Otherverse, ci sono
finalmente riuscita, e non avete idea di quanto mi sia piaciuta
scriverla e starci ore e ore della notte nel cercare di trovare una
fine che si adattasse al meglio e che non facesse ricadere tutto sul
banale. Ecco perché si è conclusa in questo modo;
ho
pensato che fosse giusto così, per quanto mi sia dispiaciuto
ammazzarli entrambi.
Ah, la frase in corsivo che
ho inserito alla fine della storia - ad eccezion fatta di quella al di
sotto
del titolo nel primo capitolo, di mia personale e purissima invenzione
- appartiene al videogioco
stealth “Tenchu”. Ho pensato che potesse
amalgamarsi
piuttosto bene con questo ultimo capitolo, forse proprio per come i due
si comportano.
Sclero mio a parte, spero
solo che vi sia piaciuto leggerla quanto a me sia piaciuto scriverla.
Se qualcuno fosse interessato, poi, ho cominciato sul mio account
Livejournal la storia Wrath of
Heaven: Way of the samurai,
e purtroppo ho dovuto postarla lì perché ci
saranno temi
un po' crudi e angst a palate che violerebbero il regolamento di EFP (e
ci sono anche tantissime altre storie - non postate sul sito - per chi
volesse farci un giro *Pubblicità occulta*)
Alla prossima. ♥
ADAGIO FOR STRINGS
PRIMA
CLASSIFICATA E VINCITRICE DEL PREMIO STILE
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