Adagio for strings

di My Pride
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Atto I › Complotti di guerra ***
Capitolo 2: *** Atto II › Rapsodia cremisi ***
Capitolo 3: *** Atto III › Minacce di morte al calar del sole ***
Capitolo 4: *** Atto IV › Fasullo requiem in Re Minore ***
Capitolo 5: *** Atto V › Melodia di ferro e sangue ***



Capitolo 1
*** Atto I › Complotti di guerra ***


Adagio_1
[ Prima classificata e vincitrice del Premio Stile al contest
«Dal numero alla storia» indetto da Akane_Hirai e valutato da Roro ]
[ Terza classificata e vincitrice del Premio miglior trama al «Fangirl contest» indetto da Dark Aeris ]

Titolo: Adagio for strings
Autore: My Pride
Fandom: One Piece
Personaggi: Roronoa Zoro [ Don Zoroshia ], Sanji Black-Leg [ Don Sanjīno ], Monkey D. Rufy [ Don Rufiōne ], Usopp [ Usotūya › Rufiōne Family ] Tony Tony Chopper [ Choparīni › Sanjīno Family ]; Nico Robin [ Robīta › Zoroshia Family ], Nami [ Namimōre › Zoroshia Family ], Comparse varie
Pairing: ZoSan || Riferimenti ZoLu, ZoNami e ZoRobin ad interpretazione strettamente personale
Numero scelto: Pacchetto 59
- Numero 84 › E’ il numero dei facili pettegolezzi, delle dicerie frivole, delle pubbliche relazioni, dell’informazione. Questo numero è presente quando si sognano o si sentono pettegolezzi che ci riguardano, che riguardano i nostri cari e le persone che frequentiamo, oppure se si è costretti ad ascoltare conversazioni frivole, soprattutto in un luogo sacro o di rispetto. E’ il numero delle persone brillanti ed attuali sul lavoro, in una festa, in una cerimonia, in un meeting aziendale, in gita o in vacanza, e nella vita in genere. E’ anche il numero delle notizie, anche quelle che ci riguardano direttamente, degli articoli di cronaca. Questo numero rappresenta il pergolato d’uva, il ventaglio, il suono delle campane, il pregare insieme ad altre persone, le conversazioni ed i dialoghi.
- Simbolismo › Slealtà e corruzione. Il rovesciamento dei valori, il venire meno ai doveri, il cattivo esempio, l’adulterio.
Tipologia: Long Fiction [ 9462 parole
[info]fiumidiparole per cinque capitoli ]
Rating: Arancione
Genere: Generale, Drammatico, Angst, Malinconico, Vagamente Erotico, Vagamente Introspettivo
Nota: Questa storia prende spunto da uno dei “Mugiwara Theatre”, precisamente “Jingi-nai Time”, ma non ha nulla a che fare con esso.
Avvertimenti: Shounen Ai, Probabilmente non per stomaci delicati,
Possibili spoiler after “New World Arc”, Alternative Universe, Vagamente - o forse anche troppo - nonsense, Linguaggio a tratti un po’ colorito  
Piscina dei prompt: Zoro/Sanji, Ferro, sangue e polvere da sparo


ONE PIECE © 1997Eiichiro Oda. All Rights Reserved.


ADAGIO FOR STRINGS 

La corda di un violino che si spezza produce una nota falsamente melodiosa;
all’orecchio dei morti risuona come lo stridio furente e vendicativo dell’acciaio.


ATTO I
COMPLOTTI DI GUERRA


    Le
 malelingue erano sempre esistite, da che mondo era mondo, ma Don Zoroshia non vi aveva mai dato la benché minima importanza. O almeno fino a quel determinato momento.
    Si era svegliato di malumore, quel mattino, e tutto a causa della riunione avvenuta la sera addietro con i restanti membri della famiglia. Aveva sentito soltanto di sfuggita le chiacchiere frivole in cui le donne si erano gettate  - e quella sciocca di Namimōre sapeva blaterare per ore ed ore, quando ci si metteva -, preferendo starsene in disparte per riflettere su cose molto più importanti. L’avvicinarsi dell’incontro con Don Rufiōne non gli aveva permesso di concentrarsi su nient’altro, e tutto perché aveva avuto sin da subito l’assoluta certezza che non sarebbe stata un’adunanza piacevole. Ed era proprio lì che subentrava il suo cruccio. Tra le varie piccolezze che era stato costretto ad ascoltare durante tutta l’ora di cena, gli era parso di udire qualcosa che non gli era per niente piaciuto; si vociferava difatti che Don Sanjīno avesse fatto avere nuovamente notizie di sé dopo essere scomparso per oltre sei anni, e ciò significava soltanto che l’attuale condizione era ulteriormente peggiorata. Non si poteva sperare di avere libero accesso al potere se a contenderselo non era una sola famiglia o due, ma ben tre. E Don Zoroshia era certo che avrebbe avuto qualche chance in più solo chi avrebbe preso in mano le redini e attaccato per primo. Aveva dunque deciso - tra l’altro senza consultare nessuno, poiché da un po’ di tempo a quella parte aveva cominciato a diffidare persino dei propri alleati - che, alla riunione che sarebbe avvenuta da lì a poche ore, sarebbe stato lui stesso a dichiarare guerra alle restanti famiglie per non farsi cogliere impreparato. Don Rufiōne poteva forse tenerlo a bada, però non conosceva altro modo se non la violenza, con Don Sanjīno.
    A quei suoi stessi pensieri, si maledisse, imprecando a denti stretti. A chi voleva darla a bere? Per quanto detestasse ammetterlo e persino ricordarlo a se stesso, Don Sanjīno non era stato soltanto un suo rivale, prima di sparire dalla circolazione. E forse era proprio per quel motivo che preferiva senza alcuna ombra di dubbio scontrarsi immediatamente con lui, se mai si fosse fatto vivo per reclamare a sua volta il potere.
    «Sake?» Una voce femminile alle sue spalle lo riscosse dalle sue turbe mentali e fu quasi capace di farlo sussultare, giacché era stato così concentrato sui propri pensieri da estraniarsi dal resto del mondo. Fu dunque con una sorta di incertezza che si voltò, incontrando lo sguardo ambiguo e sorridente di Robīta che, tolti gli occhiali da sole che indossava praticamente in qualunque istante, sembrava ammiccare nella sua direzione. Sorreggeva anche una bottiglia, e fu proprio su di essa che si concentrò l’attenzione di Zoroshia, che arricciò le labbra prima di strappargliela dalle mani senza tanti complimenti.
    «Grazie», borbottò poi, e bastò quella singola parola per far sì che Robīta si accigliasse. Il capo che ringraziava qualcuno? Il mondo stava decisamente andando a rotoli, non c’era nessun’altra spiegazione.
    «Preoccupato per qualcosa?» le venne spontaneo domandare, osservando attentamente il modo in cui Zoroshia aveva stappato la bottiglia con i denti prima di ingollare un lungo sorso di liquore.
    «Perché dovrei essere preoccupato?» rimbrottò, poiché mai e poi mai avrebbe confessato cosa lo turbasse. Dannazione, già era difficile per lui anche solo pensare di essere nervoso per due idioti contro cui avrebbe dovuto scontrarsi per conquistare il monopolio. Perché il problema principale era quello, in fin dei conti, ed era più che sicuro che con quello stupido sopracciglio a ricciolo di Don Sanjīno nuovamente fra i piedi, avrebbe sudato ancor più quella vittoria.
    Sbuffò, scuotendo appena la testa. Non era il momento di pensare a cose del genere, quello. Le sue attenzioni dovevano riversarsi unicamente sull’incontro imminente, niente di più, niente di meno. Bevve un altro sorso di liquore prima di abbandonare la bottiglia ormai vuota sul tavolino di legno alla sua destra, scoccando una rapida occhiata a Robīta. «Sarò ai piani superiori», decretò di punto in bianco. «Vieni a chiamarmi solo quando Rufiōne si farà vivo».
    A quel dire, però, Robīta sorrise sibillina. «Veramente Don Rufiōne è già qui, è arrivato cinque minuti fa».
    «Che cosa?» Zoroshia spalancò l’occhio, incredulo a dir poco. «E allora dov’è quell’imbecille?»
    «In cucina ad infastidire i cuochi», lo informò la sua interlocutrice in tono calmo ed estremamente pacato. «Si lamenta di aver fame e di volere della carne».
    Il volto di Zoroshia divenne una maschera di emozioni indecifrabili, tanto che, forse per rabbia, si ritrovò a sbattere violentemente un pugno contro il muro, richiamando così l’attenzione di tutti i presenti. Parve però non darvi peso, rivolgendo il proprio sguardo verde scuro solo su Robīta. «Che diavolo aspettavi a dirmelo?!» sbottò inviperito al suo indirizzo, al che lei si limitò semplicemente ad infilare una mano nella tasca della giacca elegante per tirar fuori gli occhiali da sole.
    «Lei non me l’ha chiesto, capo», si giustificò con un nuovo sorriso mentre poggiava le lenti sul naso, riuscendo solo a far incupire maggiormente il viso di Zoroshia.
    «Sei un demonio, donna», esalò quest’ultimo prima di darle le spalle, ignorando volutamente la risata leggiadra che parve seguirlo persino nel corridoio della magione, rimbombando contro i muri senza remore. Non si era mai fidato del tutto di Robīta, in quegli ultimi anni, per quanto Namimōre trovasse in lei un’amica fidata con cui confidarsi. Non era mai riuscito a capire le donne, ma era convinto che quelle due superassero il confine sottile che permetteva ad un uomo di comprendere almeno in parte che cosa passasse nelle loro teste. Le donne erano creature troppo complicate, per un tipo come lui, e riuscire a fidarsi di loro era anche più difficile di quanto non avesse creduto al principio.
    A quei pensieri, scosse furentemente la testa, scompigliandosi i capelli con una mano con una tale rabbia che gli parve quasi di sentirli andare a fuoco. Un idiota, ecco cos’era. Non c’era tempo per pensare ad assurdità del genere.
    Attraversò alla svelta il disimpegno che lo separava dalle grandi scalinate di granito che portavano ai piani inferiori, sentendo i propri passi risuonare nel grande atrio dalla pavimentazione a scacchi; alle sue orecchie cominciavano già a giungere le esclamazioni concitate dei cuochi, quei patetici omuncoli che non riuscivano nemmeno a tenere a bada un singolo uomo. Sapeva bene che Rufiōne non era da considerare un comune essere umano, però in quanto servitori della famiglia Zoroshia pretendeva che anch’essi avessero il pugno di ferro in qualsiasi situazione. E fu nello svoltare a destra che gli parve di udire la voce frettolosa di Usotūya, uno dei fidati tirapiedi di Rufiōne. Quel nasone era il più fedele dei suoi uomini, certo, ma era conosciuto anche per la marea di menzogne che era solito raccontare in giro e per la sua grande abilità di svignarsela nelle situazioni complicate; difatti, per quanto gli piacesse essere chiamato da chiunque Usotūya il coraggioso, in realtà era un fifone nato.
    «Don Rufiōne, la prego, li lasci stare!» Quella che sentì sopraggiungere qualche attimo dopo era di sicuro la voce di Yosakūto, e Zoroshia non poté evitarsi di imprecare a denti stretti nel rendersi conto che se persino lui era arrivato fin lì, voleva solo significare che quello stupido di Don Rufiōne stava facendo un’altra cazzata delle sue. E la cosa divenne fin troppo palese quando arrivò dinanzi alle porte delle cucine, trovandolo a spazzolare qualsiasi cosa i cuochi avevano preparato - si era mangiato persino le bucce delle patate, quell’idiota - e obbligandoli letteralmente a cucinare altro in fretta, nemmeno fosse stato lui il padrone di quella villa.
    Fu a quel punto che Rufiōne si girò e si accorse della sua presenza, allargando esageratamente la bocca in un grosso sorriso. «Ohi, Zoroshia!» esclamò pimpante e allegro come non mai, quasi stesse letteralmente ignorando di trovarsi in casa di un nemico e che il nemico in questione era proprio a pochi passi da lui.
    Zoroshia aggrottò la fronte ed entrò, scoccando una rapida occhiata al suo sottoposto. «Qui ci penso io, Yosakūto», lo congedò immediatamente, avvicinandosi a Rufiōne per afferrarlo per un orecchio, neanche fosse stato un bambino. «Vieni con me, dannato cretino», sbottò, ignorando i suoi lamenti, i sospiri di sollievo dei cuochi e i loro ringraziamenti frettolosi per essere stati liberati da quella sottospecie di locusta. E continuò a non dare peso alle sue parole e alle sue scusanti per tutto il tragitto di ritorno nel corridoio, dirigendosi verso il lato ovest della villa per salire ai suoi appartamenti e chiudersi la porta dello studio alle spalle quando lo raggiunse con Rufiōne al seguito. Era il momento di parlare di affari e non voleva terzi incomodi o interruzioni, e sarebbe stato meglio che Rufiōne cominciasse a metterselo bene in testa.
    Eppure qualcosa, in quella stanza la cui unica fonte di calore e luce era un camino acceso, gli dava come l’impressione di non essere più soli.








_Note conclusive (E inconcludenti) dell'autrice
Partiamo con il dire che quest'immagine a lato è carinissima, anche se con il contesto non c'entra un bel niente u_u Però avevo una voglia matta di inserirla ed ecco alla fine il risultato x)
Comunque sia, questa storia, che ha come fonte di ispirazione centrale uno dei “Mugiwara Theatre”
come accennato nelle note iniziali - anche se, in verità, con esso ha davvero ben poco a che fare -, è stata scritta per il contest Dal numero alla storia indetto da Akane_Hirai, del quale stiamo ancora attendendo i giudizi.
In verità non ho idea di quanto sia rimasta in linea con il carattere dei personaggi, però, giacché si trattava di un “Mugiwara Theatre”, credo che vadano bene anche così.
La storia sarà composta da soli cinque capitoli, e proverò ad aggiornare ogni settimana, tempo permettendo.
Spero comunque che in qualche modo vi abbia momentaneamente interessati.
Al prossimo capitolo. ♥





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Capitolo 2
*** Atto II › Rapsodia cremisi ***


Adagio_2

ATTO II
RAPSODIA CREMISI


    La
 serata passata a star dietro a Rufiōne sembrava aver stroncato Zoroshia.
    Giacché quell’idiota, quasi dimentico del fatto che fossero comunque rivali, avesse passato la maggior parte del tempo a ridere e scherzare come se fosse stato invitato ad una festa - chiedendo sempre più cose da mangiare nonostante i volti stravolti dei cuochi che aveva molestato fin troppo nelle ore precedenti, secondo il suo parere -, aveva potuto affrontare il motivo vero e proprio per il quale l’aveva convocato solo per i primi cinque minuti, dovendo in seguito rassegnarsi agli infantili modi di fare di Rufiōne e alle risate divertite che essi provocavano in Namimōre e Robīta. E sì che si supponeva che Rufiōne fosse un capo rispettabile e serio, un uomo tutto d’un pezzo che non si faceva confondere da niente e nessuno. Avrebbe voluto scovare il bugiardo che aveva messo in giro quella voce - sebbene qualcosa gli dicesse che fosse stato proprio Usotūya - e tagliargli la gola per puro capriccio. Però, in fondo in fondo, ammetteva di provare una sorta di rispetto per quell’imbecille di Rufiōne. Poteva forse apparire stupido, certo, ma c’erano anche momenti in cui riusciva a metter su la parvenza d’un discorso sensato; battersi dunque a spada tratta con lui sarebbe stato un vero e proprio onore, ma fino a quel momento Rufiōne aveva sempre evitato in tutti i modi lo scontro diretto, sollecitato anche dal suo fedele Usotūya.
    Per quei pensieri si maledisse, affondando con foga la lama della katana nel manichino che aveva dinanzi, imprecando a denti stretti; sfilò l’arma con uno strattone, e, senza curarsi della sagoma che aveva ormai tagliato a metà, rinfoderò la spada e prese un panno per asciugarsi il sudore dal fronte e collo. Da quanto tempo andava avanti in quel modo, con esattezza? Era entrato in palestra durante le prime luci dell’alba, e da quel momento aveva poi cominciato ininterrottamente ad allenarsi con la katana e con i pesi, senza tener conto del passare delle ore. E forse era stato un bene, poiché aveva evitato, anche se solo in parte, di perdersi fra i propri pensieri, come gli capitava ormai di fare da un po’ di tempo a quella parte.
    Si diede ancora una volta dell’idiota, raggiungendo la sala attigua che dava sul bagno. Una doccia. Ecco di cosa aveva bisogno. Una maledettissima doccia gelata. In quel modo, sperò in cuor suo, sarebbe riuscito a dimenticare tutta quell’assurda situazione. Ma anche in seguito, con lo scrosciare dell’acqua che gli rimbombava nelle orecchie come una melodia gorgogliante, non riuscì a capire perché non si desse semplicemente una mossa e non cercasse di far fuori il prima possibile almeno uno dei suoi avversari.
    Nemmeno quando uscì dalla doccia e si ritrovò a camminare senza meta per i vasti disimpegni della villa parve essere in grado di dare un senso a quel bizzarro sentimento che gli attanagliava le viscere, e a nulla valse provare a rivolgere la propria attenzione altrove, soffermando lo sguardo sui dipinti che adornavano le pareti o sulle vecchie armature che non venivano più lucidate da ormai parecchi mesi.
    «È da un po’ che non ci si vede... eh, marimo?»
    Nel sentire d’un tratto quella voce, quella voce che non udiva da lungo tempo ma che non avrebbe potuto confondere con nessun’altra, Zoroshia sguainò immediatamente una delle katane che portava al proprio fianco, e, con mossa fulminea, tagliò una delle colonne che si innalzavano nel corridoio, ignorando la breve esclamazione sorpresa che udì provenire dietro di essa.
    «Non sono venuto qui per litigare, idiota, riponi le armi!» sentì sbottare attraverso il polverone che si era venuto a creare, e solo quando infine si diradò riuscì a distinguere la figura dell’ultimo uomo che, in quel momento, avrebbe mai voluto vedere. Poté però rendersi immediatamente conto che, in quegli ultimi due anni, era drasticamente cambiato: pur mantenendo la sua solita aria arrogante da sciocco dongiovanni, si era fatto crescere un po’ di barbetta in più e persino i baffi, scostando il ciuffo di capelli con cui aveva sempre nascosto l’occhio sinistro. Appariva più maturo di quanto ricordasse, così diverso dal ragazzo che aveva conosciuto prima ancora di succedere al padre per acquisire il controllo sul suo territorio. Più volte si era domandato come sarebbero potute andare le cose se nessuno dei due fosse appartenuto a quel mondo, ma ormai non c’era più tempo per stupidi quesiti; erano rivali, doveva metterselo bene in testa.
    Fu dunque per quel motivo che, puntando la lama contro di lui, Zoroshia lo fissò intensamente, pronto a dar battaglia se fosse stato richiesto. «Nessuno ti ha dato il permesso di entrare in casa mia, Sanjīno», replicò in tono secco, avendo l’accortezza di non mostrare sul proprio viso, per nessuna ragione al mondo, segni di turbamento per quell’incontro così inatteso.
    Il sorriso strafottente che si dipinse sulle labbra dell’altro, però, riuscì soltanto ad irritarlo più di quanto già non fosse. «Oh, adesso c’è bisogno del permesso per andare a trovare un amico, caro il mio spadaccino?»
    «Non prendermi per il culo, bastardo», sibilò, non accennando ad abbassare la propria arma. Sin dalla tenera età gli era stato insegnato a non abbassare mai la guardia, e sapeva fin troppo bene che con l’avversario che aveva dinanzi la prudenza non era mai troppa. «Cosa ti ha convinto a strisciare fuori dal buco in cui ti eri rintanato?»
    Le labbra di Sanjīno si ridussero ad una linea sottile, e forse fu solo per evitare di lanciarsi contro Zoroshia che si portò una mano alla tasca dei pantaloni, affrettandosi ad alzarla quando vide il suo nemico pronto a colpirlo, avendo probabilmente creduto che stesse per prendere la pistola. «Sta’ calmo, marimo», sbuffò, mostrandogli il pacchetto di sigarette con aria spavalda. «Vuoi fare un tiro anche tu? Sei un fascio di nervi», soggiunse ironico, ben conscio che avrebbe dovuto prestare più attenzione nel rivolgersi a quell’idiota. Era un po’ come trovarsi dinanzi ad una tigre cresciuta in cattività, se proprio doveva fare un paragone. Potevi provare ad allungare la mano per carezzarla, ma dovevi stare attento che non te la staccasse a morsi. Infastidire Zoroshia era praticamente simile, a ben pensarci.
    «Piantala con le stronzate, damerino», lo redarguì quest’ultimo con voce aspra. «Ti avevo fatto una domanda, ed esigo una risposta».
    Sanjīno si prese ancora un po’ di tempo per eludere quel quesito, afferrando con due dita una stecca prima di portarsela alle labbra. «Non sono affari che ti riguardano, marimo», rimbeccò poi in tono sprezzante, armeggiando con l’accendino per provare ad accendere la paglia. «Ho solo pensato di tornare a reclamare ciò che mi spetta di diritto, spadaccino. La cosa ti crea problemi?»
    La reazione di Zoroshia, a quelle parole, fu istantanea: gli fu addosso in una frazione di secondo, ghermendogli il braccio con ferocia per evitargli di fuggire prima di conficcargli furente le unghie nella carne. «Che diritto hai di intralciarmi dopo essere sparito per tutto questo tempo, dannato bastardo?!» sbraitò fuori di sé dalla rabbia, afferrandolo per la bella camicia che indossava e facendogli cadere dalle labbra la sigaretta; le dita erano contratte a causa dell’ira che tratteneva a stento, e il suo sguardo, puntato ostinatamente sul viso del biondo, celava ben più di un semplice gesto dettato dall’odio che li accumunava. Orgoglio ferito, risentimento, abbandono... sembrava che in quell’unico occhio verde schizzasse una vasta gamma di emozioni contrastanti, e Sanjīno non poté fare a meno di restarne spiazzato. E ancor più quando, senza preavviso, sentì le grosse mani dell’altro catturargli i polsi, circondandoglieli con dita lunghe e sottili.
    «Che diavolo fai, marimo di merda?!» esclamò, provando a strattonare le braccia nella speranza di essere lasciato. Ma Zoroshia aumentò la stretta, facendo sì che dalla sua bocca sfuggisse un piccolo suono acuto simile ad un lamento. Che diamine aveva intenzione di fare, quello sfasato? Aveva forse intenzione di frantumargli le ossa? Beh, se la sua idea era quella, di certo non se ne sarebbe rimasto fermo a guardare. Fu dunque immediatamente che alzò una gamba, pronto a colpirlo con decisione allo stomaco; si bloccò però con il ginocchio a mezz’aria nel momento stesso in cui Zoroshia si sporse verso di lui, soffocando nel fondo della sua gola ogni parola con la propria bocca.
    Esterrefatto, stretto nella morsa letale del suo avversario e incapace di comprendere l’evolversi della situazione, fu forse meccanicamente che Sanjīno rispose alla rabbia di quel bacio nel quale si era ritrovato coinvolto, afferrando con i propri denti il labbro inferiore dell’altro come se volesse strapparglielo via, avvertendo il pressante contatto del corpo di Zoroshia contro il proprio.
    «Sta’ zitto», ansimò quest’ultimo contro le sue labbra, schiacciandolo con la schiena contro la parete; gli inchiodò poi le mani al muro e, assicurandosi che nemmeno volendo potesse liberarsi da quella sua stretta, Zoroshia gli allargò le gambe con un ginocchio, insinuandolo fra di esse per carezzare, al di sopra dei pantaloni scuri che indossava, la virilità di Sanjīno. E il gemito prolungato che ottenne fu capace di mandargli letteralmente in tilt il cervello, gettando alle ortiche il suo stoico autocontrollo. Voleva prenderlo lì, in quello stesso istante, in quel corridoio parzialmente illuminato nel quale si trovavano; voleva riempirsi le orecchie dei sospiri lussuriosi che gli avrebbe provocato nel carezzare ogni anfratto del suo corpo, sentirlo inarcare contro di sé e sussurrare il suo nome in preda alla passione più folle, beandosi del grido d’appagamento che si sarebbe lasciato poi sfuggire nell’attimo supremo dell’orgasmo.
    Il suo unico pensiero fu unicamente quello quando, attirandolo a sé per cingergli i fianchi con un braccio, lo trascinò lungo il disimpegno che li divideva dalla sua camera, aprendo la porta a tentoni una volta raggiunta; e fu solo nel momento in cui avvertì il contatto del materasso contro la schiena che Sanjīno riottenne con fatica il controllo delle proprie facoltà mentali, deglutendo sonoramente nell’osservare, disteso com’era, la figura di Zoroshia sovrastarlo in tutta la sua imponenza.
    C’era qualcosa, nella sua testa, che gli diceva di andarsene da lì alla svelta, di smetterla di fissare con ottusa insistenza e ossessione quell’occhio che lo scrutava come se fosse stato una succulenta preda, di accoppare quel bastardo e di reclamare il potere che gli spettava di diritto; eppure, nel restare inchiodato a quella iride smeraldina, l’unica cosa razionale che gli venne in mente di fare fu quella di mandare a puttane le chiacchiere che gli affollavano la mente. Se ne sarebbe pentito, lo sapeva, ma per i ripensamenti ci sarebbe stato un secondo momento. 
    Represse un gemito nel sentire la lingua di Zoroshia scivolare lentamente lungo il collo, avendo persino la maledetta audacia di scansargli la camicia per scoprire un capezzolo e succhiarlo con avidità, vezzeggiandone la pelle ruvida con i denti. «Credevo fossi ormai... sposato con Namimōre, marimo», esalò infine con il fiato corto e ansante, socchiudendo gli occhi nel momento esatto in cui avvertì il morbido peso dell’erezione dell’altro contro le proprie cosce. Stava succedendo davvero? Gli sembrava impossibile da concepire, eppure le sensazioni che stava cominciando a provare fra le braccia di quello stupido erano assolutamente... magnifiche. Non avrebbe saputo trovare aggettivo migliore, accidenti.
    Le mani di Zoroshia corsero rapide lungo i suoi fianchi, scivolando verso le cosce per afferrare saldamente l’incavo delle sue ginocchia e sollevargli di poco le gambe. «Essere davvero sposato con lei cambierebbe le cose?» sentì dire da quest’ultimo, assimilando le parole con una lentezza esasperante.
    Avrebbe voluto rispondere di sì, che non avrebbero dovuto trovarsi lì su quel letto dalle lenzuola ormai strappate, che ciò che stavano facendo era dannatamente sbagliato perché, oltre ad essere due uomini, erano anche rivali, ma le parole che sussurrò spiazzarono persino lui. «No», soffiò con un fil di voce.
    Le labbra dello spadaccino si appropriarono voraci delle sue, mordendo furentemente quello inferiore fino a fargli sentire sulla lingua il sapore del suo stesso sangue quando quel cozzare di bocche e denti si trasformò nella parvenza di un bacio. «Allora sta’ zitto, ricciolo», sibilò Zoroshia con voce roca e ansimante quando si separarono, premendo maggiormente il corpo contro di lui per far sì che avvertisse l’eccitazione che aveva cominciato ad animarlo.
    La sua mente continuava a ripetergli che avrebbe dovuto fermarsi, che avrebbe fatto meglio a concludere quella pazzia prima che fosse stato troppo tardi, ma il suo corpo non sembrava per niente d’accordo con la sua parte razionale; fu difatti senza riflettere che, catturando fra le proprie labbra il lobo di un orecchio di Sanjīno, Zoroshia fece risalire entrambe le mani fino al limitare dei suoi pantaloni, afferrando saldamente la cintura per liberarla dai passanti. Gli calò i calzoni fino a metà coscia insieme all’intimo che indossava, ignorando deliberatamente il suono soffocato che il biondo si lasciò scappare quando la sua erezione, ormai rigida e dolente, fu esposta alla vista senza vergogna.
    Zoroshia sfiorò la sua virilità con la punta delle dita, sorridendo con fosca soddisfazione quando un sospiro, tra il voglioso e l’insoddisfatto, risuonò prepotentemente nella stanza buia, facendo sì che un brivido d’eccitazione corresse senza remore lungo la sua spina dorsale.
    Il tempo dei giochi era appena cominciato
.








_Note conclusive (E inconcludenti) dell'autrice
Questa volta l'immagine a lato c'entra abbastanza con la storia, lol, anche se vedere Sanji che sovrasta Zoro fa un certo effetto, soprattutto se si pensa che in questa immagine pare essere lui l'attivo di turno
Anyway! Sclero mio iniziale a parte, in questo capitolo niente lemon, mi spiace. Le regole del contest me lo impedivano - e non avevo nemmeno tanto voglia di scrivere una storia erotica, dato che mi volevo concentrare specialmente sulla psicologia dei personaggi e sulla situazione che si cela dietro tutto -, dunque ho solo accennato il momento. Per chi fosse interessato, però, posterò a parte la one-shot
Yakuza no Allegretto, spin off che comprenderà la scena a rating rosso che ho dovuto saltare e che ho deciso di scrivere per l'ormai passata p0rn fest, dato che il prompt era proprio su questo otherverse e non potevo dunque farmelo scappare. 
Al prossimo capitolo. ♥




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Capitolo 3
*** Atto III › Minacce di morte al calar del sole ***


Adagio_3
ATTO III
MINACCE DI MORTE AL CALAR DEL SOLE


    Nel
 riaprire gli occhi, il mattino seguente, Sanjīno si rese conto di aver passato la notte nel letto del suo acerrimo nemico.
    Sebbene si fosse ripromesso più e più volte di filarsela non appena gli fosse stato concesso, alla fine aveva lasciato che la sonnolenza provocatagli dal sesso si propagasse in tutto il suo corpo, intorpidendogli le membra senza il suo consenso. E si maledisse mentalmente quando, nel voltarsi verso sinistra, vide il volto addormentato di Zoroshia ad una spanna dal suo.
    Nel sonno appariva così indifeso, accidenti. Toglierlo di mezzo in quel preciso istante sarebbe stato un gioco da ragazzi, se non avesse avuto almeno un briciolo d’amor proprio. Non era mai stato il tipo da ricorrere a certe bassezze, e non lo avrebbe fatto nemmeno in quel momento. Avrebbe potuto tradire, uccidere a sangue freddo senza batter ciglio, ma togliere la vita a qualcuno mentre questi era addormentato, beh... nay, non era ancora arrivato a fare cose simili. Che Don Zoroshia si godesse quegli ultimi istanti di tranquillità che gli restavano. Il momento della resa sarebbe venuto in seguito.
    Dopo aver scansato da sé un braccio che scoprì non essere il proprio - e che a dirla tutta era stato anche bellamente lasciato fra le sue cosce senza il benché minimo pudore -, Sanjīno si mise a sedere sul bordo del materasso con un sonoro sbuffo e, borbottando qualcosa fra sé e sé a mezza voce, finì di scompigliarsi i capelli già scarmigliati. Per quanto odiasse ammetterlo a se stesso, non era stato per niente male lo scontro che aveva avuto con quello stupido marimo dopo tutto quel tempo. E che il culo gli facesse ancora male, beh... quello era un dettaglio a parte al quale non aveva la benché minima voglia di badare, in quel momento.
    Chinandosi verso il pavimento recuperò i propri calzoni e li gettò poi alla base del letto, frugando nelle tasche alla ricerca del suo fedele pacchetto di sigarette; afferrata una stecca, poi, prese anche l’accendino e accostò la fiamma all’estremità della cicca, traendo una lunga boccata quando se la portò alle labbra. Non c’era niente di meglio di una bella sigaretta di prima mattina, per lui. Era una delle poche cose che lo rilassavano, quella, e dopo quanto era accaduto la sera addietro ne aveva decisamente bisogno. Insieme ad una bella doccia, possibilmente. Ma mai e poi mai avrebbe osato usufruire anche di quella in casa del nemico.
    «Non credevo di trovarti ancora qui, sopracciglio a ricciolo». Alle sue spalle udì la voce roca e ancora impastata dal sonno di Zoroshia, ma non si voltò, anzi; si limitò solo a trarre un’altra boccata dalla sua stecca, soffiando il fumo verso il soffitto prima di puntare lo sguardo alla finestra.
    «Non farmici pensare, marimo», borbottò, osservando il lieve gonfiarsi della tenda ad ogni piccolo spiffero di vento che filtrava fra le fessure dell’intelaiatura di legno. «Io non sarei nemmeno dovuto venire in questa maledetta casa, accidenti a te», soggiunse, ed ebbe appena il tempo di soffiare fuori un altro po’ di fumo prima di sentire il sibilo stridente di una lama ed avvertirne in seguito la fredda consistenza al di sotto della gola.
    «Sei libero di andartene in qualsiasi momento, Sanjīno», replicò schietto Zoroshia, in ginocchio dietro di lui sul materasso con la spada sguainata. «A meno che tu non preferisca farlo come cadavere».
    A quel fare, Sanjīno aggrottò la fronte, voltando il capo per quanto glielo concedesse quell’arma che gli sfiorava la pelle del collo. «Con te non si può nemmeno finire una sigaretta in santa pace, dannato bastardo», sbottò, incontrando lo sguardo serio di Zoroshia. Quell’unico occhio verde scuro che possedeva sembrava squadrarlo con fare arcigno, ma non avrebbe dovuto meravigliarsene.
    «Cerca di darti una mossa», replicò in risposta lo spadaccino, allontanando la katana senza però rinfoderarla, limitandosi semplicemente ad alzarsi dal letto per raccattare intimo e calzoni. «Non voglio che Namimōre o Robīta ti vedano qui».
    Sanjīno si lasciò sfuggire uno sbuffo ilare, portandosi nuovamente alle labbra la sigaretta. «Io proprio non ti capisco, idiota d’un marimo», rimbeccò quasi sarcastico, osservandolo di sottecchi mentre si rivestiva e perdendosi con lo sguardo nel fissare la lunga cicatrice che gli segnava il petto ampio e muscoloso. «Con due belle donne come loro in casa, ti fai poi scaldare il letto da un uomo».
    Pur voltandosi tranquillamente, lo sguardo che Zoroshia gli rivolse fu duro e freddo come il ghiaccio. «Non sono affari che ti riguardano, sopracciglio a ricciolo. Ora va’ fuori di qui, e alla svelta», decretò con calma disarmante, inforcando gli occhiali da sole per poggiarseli sul naso prima di imboccare la porta, lasciando Sanjīno con un pugno di mosche su quel letto sfatto.
    Aveva fatto decisamente male a cedere, dannazione. Non gli sarebbe mai dovuta passare neanche per l’anticamera del cervello l’idea di dare ascolto al proprio istinto e prendersi ciò che voleva, ciò che aveva agognato in quei sei lunghi anni. Era stato uno stupido, e gli stupidi pagavano sempre le conseguenze, lo sapeva. Ed era proprio lo stesso pensiero che aveva appena formulato anche la mente di Don Sanjīno, quello.
    Con lo sguardo ancora rivolto in direzione della porta e quella sigaretta che si consumava pian piano fra le labbra, si era concentrato per qualche istante sui passi pesanti che rimbombavano nel corridoio, chiedendosi al contempo cosa l’avesse spinto a compiere quel folle gesto. Folle, già, poiché non avrebbe dovuto finire a letto con il proprio nemico.
    Non avrebbe dovuto bearsi dei tocchi frettolosi e un po’ rozzi che gli avevano sfiorato il corpo, del contatto che le sue dita avevano avuto, anche se per soli brevissimi attimi, con quelle spalle possenti e forti, della ruvida carezza che la lunga cicatrice sul petto gli aveva regalato contro la schiena quando Zoroshia l’aveva penetrato a fondo, spingendosi contro di lui. E si vergognò di se stesso nel ricordare con quanta foga, tra un’imprecazione grugnita a mezza voce e un sinuoso movimento di fianchi dettato dalla frustrazione del momento, l’avesse pregato letteralmente di scoparlo alla svelta, sentendo risuonare in seguito nelle orecchie il gemito languido di Zoroshia quando era venuto. Ancora gli sembrava di avvertire il suo respiro caldo e ansimante nel momento stesso in cui aveva chinato il capo verso di lui e poggiato la fronte nell’incavo del suo collo, tentando di riprendere fiato prima di circondargli i fianchi con un braccio muscoloso; era come se riuscisse ancora a sentire il suo battito cardiaco contro la schiena, quella sensazione di sgradevole intrusione che era andata via via scemando quando Zoroshia, con un altro lungo sospiro voluttuoso, era finalmente uscito da lui ed era rotolato al suo fianco, stringendolo a sé come un amante premuroso; e gli sembrava ancora di vedere il sorriso strafottente che gli si era dipinto sulle labbra prima che, sfinito, crollasse fra le braccia di Morfeo prima di lui.
    A quei ricordi si coprì il viso con il palmo di una mano, sentendo un vago senso di calore dentro di sé e il sangue colorargli le guance. Nay, si disse, non sarebbe mai più accaduta una cosa del genere. Non ci sarebbe cascato una seconda volta, dannazione. Imprecò dunque a denti stretti nel raccattare i propri calzoni e nell’indossarli alla svelta insieme alle mutande, ficcando con foga il pacchetto di sigarette in una tasca mentre mordicchiava quel che restava della sua cicca ormai quasi del tutto consumata. Arraffata la parte superiore dei propri abiti, poi, li indossò prima di passarsi una mano fra i capelli e si diresse alla porta, uscendo quasi di soppiatto.
    La calma che imperversava in quel corridoio era quasi bizzarra, come se tutti gli abitanti della casa fossero ancora sprofondati in un sonno profondo. Si chiese distrattamente che ore fossero, ma dalla luce che filtrava dalla grande vetrata alla sua sinistra, dove le tende diligentemente lasciate aperte facevano sì che si avesse una bellissima vista del giardino mozzafiato che attorniava la villa, pareva che fossero passate addirittura le cinque del pomeriggio.
    Era mai possibile che fosse rimasto addormentato in quel dannato letto per tutto quel tempo, e che nessuno dei servitori avesse pensato di andare a chiamare Zoroshia per svegliarlo, beccandoli così entrambi? Beh, aye, forse era possibilissimo, conoscendo il pessimo caratteraccio di quel marimo di merda. Le brutte abitudini erano dure a morire, ed era quasi certo che, nonostante gli anni trascorsi, non avesse affatto rinunciato al suo solito poltrire per ore ed ore anche durante il giorno se non era dedito ad allenarsi. Che nessuno fosse andato a disturbare il suo sonno, quindi, non era poi una cosa così sconvolgente.
    Scosse il capo e sbuffò, incamminandosi per quei corridoi silenziosi dopo aver spento la sigaretta sotto la suola della scarpa. I suoi passi erano l’unico suono che sentiva riecheggiare in tutta quella vastità, e dovette ammettere a se stesso che era una sensazione alquanto fastidiosa e... bizzarra. Bizzarra, aye, non avrebbe saputo trovare un termine migliore per definirla. Fu però nello svoltare a destra che incrociò finalmente un’altra forma di vita, e il suo cuore ebbe quasi un sussulto prima che si rendesse conto che non si trattava di Zoroshia o di qualcuno dei suoi fedeli servitori; abbozzò un sorriso galante verso la donna che lo squadrava con fare vagamente accigliato, prendendole la mano per posarle sul palmo un bacio leggerlo.
    «Enchanté, madame Robīta», le sussurrò leggiadro contro la pelle, sentendola ridacchiare di gusto prima che anch’ella ricambiasse con fare furbo il sorriso; con delicatezza, poi, sfilò la mano da quella del biondo, e i loro occhi si incontrarono per qualche istante, abbandonandosi esattamente qualche istante dopo.
    La donna gli girò intorno e cominciò poi ad allontanarsi, senza però abbandonare lo strano sorriso che aveva incurvato le sue belle labbra. «Spero abbia passato una buona permanenza qui, stanotte, Don Sanjīno», disse distratta, adocchiando un’ultima volta l’altro prima di incamminarsi con passo sicuro, ancheggiando nel lungo corridoio di marmo senza attendere la benché minima risposta.
    Ciò, però, parve bastare al biondo, che la seguì con lo sguardo per quanto concessogli, vedendola sparire oltre l’angolo come un fantasma; trasse poi un lungo sospiro, affrettandosi a raggiungere la porta d’entrata prima di fare incontri ben più spiacevoli. Era stata una fortuna, forse, incontrare proprio Robīta. E ne fu ancor più sicuro quando, una volta raggiunto il grande atrio che dava fuori nel vasto e curato giardino, si ritrovò ad infilare una mano in tasca e ad afferrare il telefono, osservandolo per qualche attimo prima di comporre un numero alla svelta. Gli parve l’attesa più snervante di tutta la sua vita quella che lo separò dalla voce del suo interlocutore, e fu solo al decimo squillo che quel qualcuno si degnò finalmente di rispondere.
    Frattanto era uscito al di fuori del cancello placcato in vernice nera della grande ville, lasciandosi alle spalle quella costruzione e in special modo ciò che era accaduto al suo interno. Non avrebbe più pensato a quella maledetta storia né tanto meno a Zoroshia, si disse, concentrandosi unicamente sulla voce che udì qualche istante dopo.
    «Choparīni», cominciò pacato, stringendo la presa sul telefono, quasi temesse che potesse fuggire via dalle sue mani. «E’ tutto confermato per domani notte». Sorrise al vuoto, ascoltando con fare divertito la voce che gli rispondeva quasi concitata. «Tranquillo, è già stata avvertita», lo rassicurò in fretta. «L’ho fatto io personalmente», soggiunse in tono vagamente allusivo, perdendosi in ultimi convenevoli prima di riagganciare e riporre il telefono al proprio posto. Inforcò poi gli occhiali e li indossò, portandosi una nuova stecca alle labbra senza però accenderla.  
    Rivolse solo lo sguardo oscurato dalle lenti verso quel sole morente, incamminandosi verso quella che, ne era certo, sarebbe stata la sua ultima missione
.








_Note conclusive (E inconcludenti) dell'autrice
Uhm... tutti i nodi stanno venendo al pettine? Non ne sarei così sicura, anche se ormai mancano soltanto altri due capitoli alla fine di questa storia
I risultati del contest dovrebbero arrivare a breve - purtroppo ci siamo dovuti rivolgere ad un giudice sostitutivo dunque le cose si sono prolungate -, ma tutto questo con la storia per il momento c'entra ben poco u_u
Posso solo dire che adoro la parte iniziale in cui Zoroshia punta una spada alla gola di
Sanjīno. Son pazza? Aye, molto probabile, ma ho uno strano debole per scene del genere e credo si sia potuto benissimo notare.
Direi adesso di chiuderla qui, perché sto letteralmente sclerando
Commenti e critiche, come sempre, son ben accetti, dato che a leggere siete in molti, un piccolo appunto sarebbe gradito, dunque per il momento ringrazio Connie.
Al prossimo capitolo. ♥




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Capitolo 4
*** Atto IV › Fasullo requiem in Re Minore ***


Adagio_4
ATTO IV
FASULLO REQUIEM IN RE MINORE


    Passare
due ore nell’inerzia più totale non era per niente da lui, specialmente se si teneva conto che non le aveva trascorse dormendo come suo solito né tantomeno si era allenato.
    Non aveva nemmeno toccato cibo con sommo disappunto dei cuochi, per quanto avessero evitato di far notare ad alta voce quella mancanza. Era chiaro come il sole che il loro capo non fosse per niente dell’umore giusto, e nessuno di loro, se poteva evitarlo, ci teneva a farlo imbufalire più del dovuto e rischiare così di ritrovarsi la testa staccata dal collo. Don Zoroshia ne sarebbe stato capace e loro lo sapevano fin troppo bene. Se contavano poi il fatto che il suo malumore durava da ben più di un giorno, beh... si rendevano perfettamente conto che fosse meglio tenerselo buono.
    Solo una persona si prendeva la libertà di fargli notare anche il più piccolo dettaglio, ed era proprio quando dibattevano che tutti, nessuno escluso, preferivano star fuori da quelle loro liti. Quel giorno non era stato da meno, e dabbasso riuscivano distintamente a sentire i toni accesi con cui Don Zoroshia e la signorina Namimōre stavano discutendo.
    «Cosa significa che non hai nessuna intenzione di andare a quell’incontro?» sbottò ancora una volta la donna, fissandolo insistentemente da quella posizione. Si trovavano entrambi nello studio al piano di sopra, chi seduto sulla poltrona e chi in piedi dall’altra parte della scrivania, con le mani poggiate sui fianchi snelli e una pelliccia a nasconderle le spalle esili. Lo sguardo che Namimōre stava rivolgendo a Zoroshia sembrava quasi sfociare nell’odio, e ciò voleva significare solo una cosa: quella conversazione implicava del denaro. Era risaputo ai più quanto i soldi fossero il punto debole della donna, e dover rinunciare anche ad un solo misero centesimo la mandava su tutte le furie.
    Zoroshia, però, dal canto suo non sembrava per niente interessato a darle ascolto. Sbadigliando e continuando a guardare fuori dalla finestra verso la quale aveva rivolto la poltrona, pareva piuttosto perso nei propri pensieri. «Ho ben altro da fare che star dietro alla tua avarizia, strega», rimbeccò scontroso. «Questo mese la quota mi è già stata pagata, quel borioso di Frankījo sta bene dov’è».
    «Ma che razza di capo sei?» sibilò inviperita, poggiando una mano sul bordo della scrivania con foga. «Hai il controllo di questo territorio, è giusto che tutti ti paghino il triplo di quanto pattuito, accidenti a te».
    «Se ci tieni così tanto, Namimōre, perché non vai tu stessa a reclamare quel denaro?» la schernì l’uomo, rimediando da lei un sonoro sbuffo.
    «Sei tu il capo». Nel dirlo storse il viso, quasi avesse letteralmente ingoiato un rospo. Non le era mai andata a genio quella situazione. «Spetta a te ritirare ciò che ti è dovuto».
    Zoroshia non poté fare a meno di abbozzare un sorriso, a quel dire, più che consapevole di quanto fosse costato alla donna pronunciare quelle parole. e avrebbe anche rigirato senza pietà il coltello nella piaga se un breve bussare alla porta non avesse costretto entrambi a voltarsi verso si essa con fare vagamente  accigliato. «Avanti», bofonchiò immediatamente lo spadaccino, indispettito da quell’improvvisa interruzione.
    Yosakūto fece capolino dalla soglia, fissando entrambi attraverso le lenti scure. «Scusi il disturbo, capo», disse tutto d’un fiato, volgendo poi la propria attenzione verso la donna, «ma la signorina Robīta ha chiesto di lei, signorina Namimōre. Afferma che è urgente».
    Namimōre si accigliò e scoccò una rapida occhiata a Zoroshia, che a quella comunicazione non aveva fatto una piega. Anzi, forse appariva persino contento, poiché in quel modo si sarebbe liberato finalmente di lei. Forse non lo avrebbe mai ammesso, ma gli si leggeva perfettamente in viso. Che stronzo. «Arrivo subito», affermò poi distratta, fulminando l’altro con lo sguardo. «E tu vedi di fare quanto detto».
    «Fuori di qui», rimbrottò in risposta Zoroshia ad entrambi, tornando a guardare fuori dalla finestra senza dar peso alle colorite imprecazioni che parvero accompagnare Namimōre. Si rilassò soltanto quando sentì la porta richiudersi furentemente alle sue spalle, poggiandosi mollemente contro la poltrona.
    Non voleva pensare a niente, in quel momento. Una sgradevole sensazione si era impadronita di lui nel momento stesso in cui aveva aperto gli occhi, quel giorno, e non era riuscito a capire che cosa avesse voluto significare. Aveva provato a concentrarsi sui propri doveri, a meditare e ad allenarsi con la spada come aveva sempre fatto prima dell’incontro - quel dannatissimo incontro, maledizione - con Sanjīno, ma i suoi sforzi non erano valsi a nulla. E, se proprio doveva essere sincero con se stesso, non era nemmeno riuscito a chiudere occhio decentemente. Si era persino acceso una sigaretta e aveva tentato di concentrarsi unicamente su quel piccolo quanto nocivo piacere, ma non l’aveva nemmeno consumata a metà; l’aveva subito spenta nel posacenere con uno sbuffo innervosito, girandosi su un fianco per provare a dormire. Peccato, però, che non ci fosse riuscito comunque, ed era dunque quella una delle cause del suo malumore.
    Perso com’era in quei pensieri, neanche si rese conto di aver reclinato di poco la testa contro lo schienale della poltrona e aver chiuso stancamente la palpebra; si accorse di essersi finalmente addormentato solo quando, senza il minimo preavviso, si sentì chiamare da una voce squillante, e fu imprecando che, dopo essersi massaggiato la fronte e la testa che gli doleva - ma quanto aveva dormito, accidenti? -, volse lo sguardo in direzione della porta, spalancatasi in quell’esatto momento senza che lui desse a quello scocciatore il permesso di disturbarlo. «Che accidenti hai da urlare in quel modo, tu?» sbottò, rivolgendogli un’occhiata così furiosa da farlo sussultare e indietreggiare involontariamente.
    L’uomo deglutì, tentando di non distogliere lo sguardo dall’occhio del suo interlocutore. «Mi spiace, capo», si scusò frettolosamente, torcendosi le dita. «Ma, ecco... si tratta di Don Rufiōne».
    Avrebbe dovuto immaginarlo che c’entrasse quel cretino, dannazione. In quegli ultimi sei anni ne aveva davvero combinate di cotte e di crude, ancor più di quanto fosse abituato a fare. «Che diavolo ha fatto quell’imbecille, adesso?»
    «Vede, il fatto è che...» Sembrò fermarsi quasi per trovare le parole adatte, guardandosi intorno come se la mobilia dello studio potesse in qualche modo aiutarlo. Come avrebbe potuto parlare, sapendo che ciò che stava per comunicare avrebbe scatenato le ire del capo? Però era a conoscenza anche del fatto che sarebbe stato ancor peggio se l’avesse scoperto da terzi in un secondo momento, dunque, dopo aver tratto un lungo respiro per farsi coraggio, puntò lo sguardo dritto sul volto di Zoroshia, che lo scrutava austero e arcigno dalla poltrona sulla quale era accomodato. «Pare che stanotte qualcuno si sia infiltrato nella sua residenza, capo», snocciolò rapidamente, quasi temesse che interrompersi avrebbe compromesso persino la sua vita. E forse non era così lontano dalla verità, conoscendo lo spadaccino. «Don Rufiōne ha esalato l’ultimo respiro».
    Zoroshia si accigliò, e definire incredula l’espressione che si era dipinta sul suo viso sarebbe stato un eufemismo bello e buono. Rufiōne... morto? Proprio quel Rufiōne, l’uomo che nemmeno una cannonata sarebbe riuscito ad uccidere? Cosa diavolo andava blaterando, quel mentecatto? «Perché vieni a raccontarmi certe stronzate?» rimbeccò inviperito, sbattendo pesantemente una mano sulla pregiata scrivania in legno di noce e facendo trasalire al contempo il povero disgraziato di turno.
    «È la pura verità, capo!» squittì quest’ultimo, trovando estremamente saggio compiere un altro passo indietro quando vide lo spadaccino ergersi in piedi in tutta la sua minacciosa altezza. Neanche lui aveva creduto a quanto gli avevano raccontato, eppure era andata esattamente in quel modo: Don Rufiōne era passato a miglior vita, per quanto fosse impossibile da concepire conoscendo il tipo.
    Fu un attimo, e, prima ancora che potesse rendersene realmente conto, il freddo acciaio della lama di Zoroshia gli sfiorò la gola, facendolo trasalire; ebbe quasi l’assoluta certezza che presto sarebbe sopraggiunta la fine, ma un qualunque Dio, per quanto avesse rischiato davvero di sfiorare la morte, parve avere misericordia di lui. Pur non riponendo le armi, difatti, Zoroshia si dimostrò magnanimo ed ebbe un minimo di compassione, limitandosi solo a pressare di poco il filo della katana contro il suo collo, procurandogli un taglio netto ma non profondo. «Hai visto il cadavere di Rufiōne con i tuoi occhi?»
    L’uomo tremò impercettibilmente, affrontando però lo sguardo del suo interlocutore con tutta la risolutezza che riuscì a trovare in quel frangente. «No, capo», esalò a mezza voce, pentendosi di quella sincerità quando la lama gli sfiorò nuovamente la carotide.
    «Allora come puoi affermare che sia morto?»
    «A questo posso rispondere io», si intromise senza alcun riguardo una terza voce, ed entrambi gli uomini volsero lo sguardo in direzione della porta, vedendo la figura di Namimōre stagliarsi sulla soglia. Aveva incrociato le braccia al di sotto del seno e li fissava, poggiata con la schiena contro lo stipite. Si era anche liberata della pelliccia che aveva indossato fino a poche ore addietro, e il suo viso appariva persino stravolto. «Robīta ha ritenuto giusto portarmi questa», soggiunse, tirando fuori dalla scollatura del bel vestito nero un foglietto spiegazzato quando ricevette la loro completa attenzione; mantenendolo con due dita, poi, si diresse a passi sicuri e calcolati all’interno dello studio, consegnandolo nelle mani di Zoroshia stesso.
    Quest’ultimo allontanò con rabbia il messaggero che, ringraziando sottovoce Namimōre per quel suo provvidenziale intervento, pensò bene di darsela subito a gambe non appena colse l’espressione furibonda che si era dipinta sul volto di Zoroshia, il cui occhio era fisso su quel foglietto che aveva appena aperto. «Che cosa significa questo?» domandò, scandendo bene le parole ad una ad una ed enfatizzando soprattutto sull’ultima.
    Namimōre, però, si limitò semplicemente a scrollare di poco le spalle esili, poggiando poi una mano sui fianchi. «Pare sia un invito, Zoroshia», rimbeccò, senza dar peso all’occhiataccia che l’uomo le rivolse per l’essere stato chiamato per nome. «Un invito da parte del colpevole, a quanto sembra», aggiunse in tono ironico, quasi fosse convinta che si trattasse di un pessimo scherzo.
    «Quanta presunzione!» sbraitò iracondo lo spadaccino, accartocciando il foglio nel proprio pugno; scostò di lato Namimōre e, con la lama della katana distesa lungo un fianco, si diresse rapidamente verso la porta, sentendo però uno strano sentimento diradarsi come veleno in tutto il suo corpo.
    Ignorò i richiami della donna, incamminandosi a passo di marcia per il lungo disimpegno che lo separava dai piani inferiori e dalla porta di ingresso, tralasciando momentaneamente la questione che sembrava avere in sospeso con quel demonio di Robīta.
    Aveva decisamente esagerato, stavolta. Aveva compiuto una mossa azzardata che mai si sarebbe sognato fosse capace di mettere in atto, e forse era stato proprio il modo in cui l’aveva svolta che lo mandava letteralmente su tutte le furie. Si sarebbe aspettato tutto tranne quello, da uno come lui.
    Nemmeno si preoccupò delle voci concitate che sentì risuonare intorno a lui quando raggiunse il grande atrio che dava sul portone, spalancandolo senza ritegno prima di richiuderselo ferocemente alle spalle. Il faccia a faccia che aveva sempre ritardato era giunto, infine. L’aver atteso tutti quegli anni aveva solo fatto sì che l’odio reciproco crescesse, raggiungendo il culmine fino a far esplodere entrambi.
    Nessun pareggio di sorta sarebbe stato contemplato, aveva deciso. Quella lunga notte si sarebbe conclusa con un solo vincitore
.








_Note conclusive (E inconcludenti) dell'autrice
Aye, esattamente. Avete letto più che bene. Rufiōne è morto. Indi per cui, nay, non era Zoroshia quello da assassinare, bensì il povero Capitano Rufiōne, e tutto solo per... lo scoprirete nel prossimo ed ultimo capitolo, ecco *Cerca di scansare i lanci di pomodori per questa sua bastardaggine*
Mi preme inoltre dire che abbiamo finalmente ricevuto i risultati del contest e, sebbene non sia stata la giudice che l'ha indetto a farci avere i suddetti di risultati, sono più che soddisfatta del lavoro svolto da Ro-chan, che ci è gentilmente venuta in contro e ha letto le nostre storie per farci da giudice
Fiera di dire, dunque, che alla fine questa storia si è classificata Prima vincendo il Premio Stile, per quanto io non fossi realmente sicura di consegnare una cosa del genere per il poco approccio che avevo con il fandom durante i primi periodi di stesura.
Ciò detto, al prossimo e ultimo capitolo. ♥




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Capitolo 5
*** Atto V › Melodia di ferro e sangue ***


Adagio_5
ATTO V
MELODIA DI FERRO E SANGUE


    La
 foga con cui era salito in cima a quel palazzo era apparsa bizzarra persino a lui.
    Aveva vagato senza meta per quelle che gli erano sembrate ore, imprecando a denti stretti nel rendersi conto di aver preso la svolta sbagliata; non l’avrebbe mai ammesso a se stesso o a terzi, ma mentre imboccava vicoli e cunicoli, stradine secondarie e vere e proprie piazze, si era reso davvero conto di quanto fosse assolutamente nullo il suo senso dell’orientamento. Ed ora lì, con lo sguardo puntato insistentemente sulla schiena del proprio avversario, quasi si domandava come fossero giunti fino a quel punto. Non era un santo, non lo era mai stato, ma non riusciva proprio a spiegarsi che cosa avesse spinto quell’idiota ad agire proprio in quel modo.
    Dal canto suo, Sanjīno non appariva minimamente preoccupato, anzi. Si ostinava a dare le spalle a Zoroshia e a guardare dritto dinanzi a sé, mantenendo con due dita quella dannata sigaretta che si consumava pian piano. Se fosse stato qualche altro nemico non si sarebbe mai azzardato a restare di schiena in quel modo, conscio che non ci avrebbe messo due secondi ad accopparlo e a farlo finire di sotto; ma sapeva, con una certezza così assoluta che in altre circostanze l’avrebbe fatto sorridere, che Zoroshia, a causa dei suoi principi morali, non avrebbe mai osato colpirlo a tradimento. Lo considerava a dir poco onorevole, da un certo bislacco punto di vista - erano pur sempre dei criminali, in fin dei conti -, però anche tremendamente stupido. Era esattamente questo ciò che odiava di lui: la sua assurda credenza di pensare che tutti, nessuno escluso, potessero seguire le stesse ferree regole che lui si era sempre dato in quanto spadaccino. Un uomo che ti voleva morto ti ammazzava e basta, senza porsi il problema di averti di spalle.
    «Robīta ti ha consegnato il messaggio, vedo», parve ironizzare Sanjīno, portandosi la paglia alle labbra per inspirare a fondo. Soffiò verso l’altro il fumo azzurrognolo, poggiando una mano sul bordo del parapetto di cemento. «Mi sorprende che tu sia corso immediatamente qui e non ti sia occupato di lei, spadaccino», ironizzò a mezza voce, traendo un’altra lunga boccata nociva prima di spegnere la cicca a terra. «Eppure mi era parso di capire che tu fossi molto vendicativo, da quel che ho sentito».
    Zoroshia avanzò a grandi falcate, ponendo quanta più distanza possibile tra loro. «Non mi sono mai fidato di quella donna», sbottò sprezzante. «E a quanto sembra ci ho sempre visto giusto». Non poté vedere in viso Don Sanjīno, ma qualcosa, dentro di lui, gli diede l’assoluta certezza che avesse abbozzato un sorriso vagamente sarcastico. «Da quanto tempo andava avanti questa storia?»
    «Cosa cambierebbe se te lo dicessi?» lo prese in giro, allungando una mano per afferrare il pacco di sigarette. «E’ stata di grande aiuto, sappi solo questo. Forse senza di lei non sarei riuscito a guadagnarmi in così breve tempo la fiducia di Rufiōne».
    «La sua fiducia, eh?» ripeté Zoroshia, assottigliando lo sguardo nella sua direzione. «Allora non avresti dovuto farlo», sibilò iracondo. «Non avresti dovuto ammazzarlo».
    «Tsk... sei un idiota, marimo», esalò, accendendosi un’altra sigaretta senza voltarsi verso di lui; il suo sguardo ceruleo era invece fisso ancora oltre l’orizzonte, verso quel tramonto di sangue che sembrava avvolgere tetramente la città nel suo abbraccio. «Ho solo fatto ciò che avresti voluto fare anche tu. Ho tolto di mezzo un rivale». Sbuffò fuori il fumo in un cerchio perfetto. «Non venirmi a dire che non hai mai pensato di spianarti la strada facendoci fuori entrambi».
    Zoroshia strinse la mano destra sull’elsa di una delle sue katane, sentendo il contatto ruvido della pelle con la quale era rivestita. Era vero, aveva più volte accarezzato nella sua mente l’idea di far fuori sia Rufiōne sia Sanjīno - così da potersi assicurare una volta per tutte il potere -, però era stato così stolto da cadere vittima dell’assurdo desiderio che, a poco a poco, aveva logorato il suo animo. L’insana passione che l’aveva mosso non più di poche notti addietro era adesso un ricordo sbiadito e dalle forme indistinte, un ricordo seppellito nei recessi della sua memoria, ma era come se fosse lì, in attesa di una fiamma che l’avesse fatta divampare ancora una volta. E forse quella fiamma era proprio l’odio che lo animava in quel momento.
    «In un duello leale, stupido damerino», precisò con voce tagliente, scandendo le parole ad una ad una come se volesse marchiarle a fuoco persino nella propria mente. «Vi avrei affrontati entrambi in un duello leale, non piombandovi in casa nel cuore della notte». Osservò insistentemente la sua schiena, non potendo fare a meno di scuotere il capo. «Una volta non eri così».
    Sanjīno si lasciò scappare un suono simile ad una risata, per quanto non vi fosse la benché minima traccia di ilarità in essa. «Le persone cambiano, spadaccino», rispose tranquillo, traendo un’altra lunga boccata dalla paglia per osservare poi il fil di fumo levarsi verso il cielo cremisi; una volta conclusa la spense senza tanti complimenti sul cornicione di cemento, alzandosi in piedi su di esso per volgere finalmente lo sguardo nella sua direzione. «Persino tu non sei più lo stesso di tanti anni fa, non negarlo».
    Zoroshia, a quel dire, ebbe appena il tempo di mordersi furentemente il labbro inferiore prima che la figura del suo avversario sparisse letteralmente dalla sua vista, lasciandolo sbigottito; fu solo grazie ai suoi sensi sviluppati che si accorse dello spostamento d’aria alla sua destra, alzando prontamente il braccio per deviare alla svelta il colpo che gli venne sferrato subito dopo da un piede di Sanjīno.
    Imprecò a denti stretti per il formicolio che si disperse immediatamente nel suo arto, ritrovandosi ad indietreggiare quel tanto che bastava per poter estrarre almeno una delle sue spade; non c’era tempo per fermarsi a pensare, lo sapeva perfettamente, e fu proprio per quel motivo che, nel vedere il fulmineo movimento di quella gamba rivestita di nero, si affrettò a respingerla con il dorso della lama, costringendo Sanjīno ad allontanarsi da lui con un salto all’indietro per evitare che la spada gli si conficcasse nelle carni.
    Per un lungo attimo, Zoroshia parve scorgere un lampo incollerito in quell’occhio azzurro, un baluginio che scomparve così velocemente com’era apparso prima che, flettendo entrambe le gambe e piegandosi sulle ginocchia, Sanjīno piroettasse di lato e gli si lanciasse addosso con tutta l’agilità di cui disponeva, scagliandolo dall’altra parte del tetto con un calcio diretto al viso.
    Zoroshia non ebbe nemmeno il tempo di rimettersi in piedi che un altro colpo lo centrò dritto al costato, mozzandogli il fiato nel petto; boccheggiò, impugnando saldamente la propria arma nel tentativo di contrattaccare, e approfittò proprio di quella vicinanza per colpirlo alla caviglia con l’elsa della spada, puntando rapidamente la lama verso l’alto quando vide il proprio avversario barcollare. Riuscì a colpirlo di striscio al fianco nel momento esatto in cui un altro calcio violento si scontrò con la sua guancia, facendogli sputare sangue.
    Sanjīno si portò una mano a sfiorare con due dita la ferita, provando a raddrizzare il più in fretta possibile la schiena quando, rapido come una freccia scoccata da un arco, Zoroshia tentò l’ennesimo affondo, e fu per istinto che alzò immediatamente la gamba per pararlo.
    I loro occhi si incontrarono per un attimo che sembrò infinito, e qualcosa, nel cuore di Sanjīno, parve stridere rumorosamente. «Il primo che si innamora è un uomo morto, Zoroshia», sussurrò, facendo pressione con il piede contro la spada del proprio nemico; quest’ultimo glielo allontanò con un colpo secco, rinserrando la presa prima di roteare il polso per portarsi la lama piatta a nascondere un lato del proprio viso.
    Sollevò un angolo della bocca in un mezzo sorriso, per quanto esso apparisse distaccato e inespressivo. «Allora io lo sono già da tempo, Sanjīno», replicò, raggiungendo alla svelta con la mano libera l’elsa della sua seconda katana; la sfilò dal fodero nel momento stesso in cui Sanjīno ritornò all’attacco, incrociando entrambe le lame per parare quel calcio scagliato a tutta potenza.
    Si gettò contro di lui con l’intento di colpirlo ai fianchi, incurvando le spalle e impugnando saldamente le spade per tentare un affondo; prima ancora che potesse rendersene conto, però, la caviglia di Sanjīno lo colpì furentemente al collo, rischiando quasi di spezzargli l’osso. Gli parve persino di sentirlo scricchiolare sinistramente, incapace di credere alla velocità che quel damerino aveva acquisito nel corso di quei lunghi anni. Un altro calcio lo colpì alla mano, facendo sì che una delle sue spade volasse dal lato opposto della fredda pavimentazione di cemento; vedeva tutto sfocato a causa del colpo che aveva quasi rischiato di rompergli il collo, e fu dunque con un po’ di fatica che riuscì a mettere nuovamente a fuoco la figura di Sanjīno, affinando i sensi per cogliere così i suoi movimenti solo grazie al proprio udito.
    Con un urlo rabbioso gli fu addosso, sferzando l’aria con un braccio prima di tentare un ennesimo affondo. Il suo avversario parve però intuire le sue intenzioni, affrettandosi ad indietreggiare ancora una volta; con un agile balzo di lato, roteò su se stesso e alzò la gamba per sferrargli un calcio poderoso all’altezza dello sterno, imprecando a denti stretti quando il colpo fu deviato dalla lama piatta della spada di Zoroshia. Si lanciarono l’uno contro l’altro nel medesimo istante, entrambi intenzionati ad avere la meglio e a vincere quella sfida; il cupo rimbombo di uno sparo, però, risuonò sinistramente nella perpetua oscurità di quella notte, e Zoroshia, sbarrando l’occhio, si accasciò parzialmente in avanti, cercando al contempo di non allentare in nessun modo la presa sull’elsa della propria katana.
    «B-Bastardo...» biascicò con un fil di voce, sentendo una mano di Sanjīno poggiarsi stabile su un suo fianco.
    «Te l’avevo detto che il primo che si innamorava sarebbe stato un uomo morto, marimo», soffiò al suo orecchio, sorridendo brevemente. E non parve dar peso al rivolo di sangue che colò ad un angolo della sua bocca, al metallo rovente che gli aveva trapassato lo stomaco nel momento stesso in cui lui aveva premuto quel maledetto grilletto, alla sgradevolissima sensazione di gelo che gli sconquassava il corpo e al tremore all’arto che lo costrinse ad abbandonare la pistola, socchiudendo solo gli occhi dopo aver tratto un lungo e tremulo sospiro.
    Cadde all’indietro, sibilando quando la lama scivolò debolmente via dalle sue carni dilaniate; vide, attraverso l’orlo delle ciglia, il suo avversario crollare in ginocchio con un gemito, la mano libera convulsamente premuta sulla ferita sanguinante. In quel mentre si lasciò sfuggire la spada che, con un sinistro tonfo metallico, cadde sulla pavimentazione di cemento, e fu solo a quel punto che Zoroshia alzò parzialmente lo sguardo verso Sanjīno, tossendo sangue. E sembrò quasi impazzito quando, tutto d’un tratto, dal fondo della gola salì un suono roco simile ad un’aspra risata che parve come vetro spezzato. «Un fottutissimo pareggio», esalò sottovoce, le labbra macchiate di rosso.
    «Un fottutissimo pareggio, maledizione». Abbassò la palpebra e si lasciò cadere disteso di schiena, lo sguardo puntato a quel cielo nero che non ebbe momentaneamente la forza di osservare un’ultima volta.
    Non gli giunse in risposta nessuna replica tagliente, e fu proprio grazie a ciò che realizzò quanto fosse appena accaduto: Sanjīno era morto. Era passato a miglior vita prima di lui, a causa del colpo che lui stesso gli aveva inferto, e avrebbe dunque dovuto godersi quella manciata di attimi di gioia selvaggia che gli restavano prima della fine. E allora perché, nonostante la bassa risata che ancora aleggiava nell’aria, non riusciva ad essere felice per quella vittoria?
    Un dolore straziante si impadronì del suo cuore. Sanjīno era morto e lui, stolto com’era sempre stato, forse non riusciva a farsene una ragione. Con uno sforzo immane, sebbene sentisse ormai le forze scemare a poco a poco e il sangue insinuarsi vischioso e caldo fra le sue dita, alzò la palpebra quel tanto che bastava per poter catturare con l’occhio la figura riversa in terra di Sanjīno. Sorrideva ancora, quel maledetto bastardo.
    Zoroshia reclinò la testa all’indietro, traendo un lunghissimo sospiro prima di sollevare a sua volta un angolo della bocca nella parvenza d’uno stanco sorriso. La spaventosa melodia a cui avevano dato vita nel corso di quei lunghi anni aveva ormai suonato le ultime note stridenti, giungendo alle sue orecchie come una risata beffarda che parve rimbombare nell’oscurità che aveva cominciato ad avvolgerlo senza remore.
    Il mondo che li circondava sembrò spezzarsi in quello stesso istante come una corda di violino, e lo sciabordio della pioggia, sopraggiunta al definitivo rimbombare d’un tuono, lavò pietosamente via dai loro volti sudore e sangue.
 
 
 
Vivi con onore,
colpisci a tradimento.



ADAGIO FOR STRINGS
FINE





_Note conclusive (E inconcludenti) dell'autrice
Uhm... boh. Di solito spendo parole su parole nelle note iniziali, ma stavolta non saprei proprio che cosa dire, visto che la storia parla quasi da sé. Era comunque da un sacco di tempo che cercavo di realizzare una storia seria su questo fandom, giacché non ci ero mai riuscita perché uscivano sempre flash fiction bizzarre con un pizzico di ironia. Con questa, per quanto fosse una Otherverse, ci sono finalmente riuscita, e non avete idea di quanto mi sia piaciuta scriverla e starci ore e ore della notte nel cercare di trovare una fine che si adattasse al meglio e che non facesse ricadere tutto sul banale. Ecco perché si è conclusa in questo modo; ho pensato che fosse giusto così, per quanto mi sia dispiaciuto ammazzarli entrambi.
Ah, la frase in corsivo che ho inserito alla fine della storia - ad eccezion fatta di quella al di sotto del titolo nel primo capitolo, di mia personale e purissima invenzione - appartiene al videogioco stealth “Tenchu”. Ho pensato che potesse amalgamarsi piuttosto bene con questo ultimo capitolo, forse proprio per come i due si comportano.
Sclero mio a parte, spero solo che vi sia piaciuto leggerla quanto a me sia piaciuto scriverla.
Se qualcuno fosse interessato, poi, ho cominciato sul mio account Livejournal la storia Wrath of Heaven: Way of the samurai, e purtroppo ho dovuto postarla lì perché ci saranno temi un po' crudi e angst a palate che violerebbero il regolamento di EFP (e ci sono anche tantissime altre storie - non postate sul sito - per chi volesse farci un giro *Pubblicità occulta*)
Alla prossima. ♥



ADAGIO FOR STRINGS
PRIMA CLASSIFICATA E VINCITRICE DEL PREMIO STILE
  

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